ALEXANDER CALDER MARCELLO BARAGHINI PUNK IS UNDEAD SCENEGGIATURE POP T LA ROCK RISERVA SPECIALE CHE VINO NELL’ISOLA-CARCERE SABATO 8 FEBBRAIO 2014 ANNO 17 N.6
VALANGA RUSSA
I GIOCHI DI SOCHI
Gaiezza olimpica, il presidente macho e imbronciato perde la sfida
di ALBERTO PICCININI
●●●Sarà piaciuta ai maestri dello spettacolo di massa e del musical cinematografico sovietico? Chissà. La cerimonia d’apertura dei giochi di Sochi seguiva lo stile tecno-circense tipico di queste occasioni. Grandi effetti di luce, un enorme videoproiezione sul pavimento dello stadio, il pasticcio trash della musica da cerimonia, in mondovisione. Una bambina vestita di bianco – questa la sceneggiatura di massima – si
addormenta e vola nel sogno, trascinata prima da un aquilone poi da un palloncino dentro i «grandi momenti» della storia russa. Prima, anzi, li recita nell’ordine dell’alfabeto. Ci trova un posticino per il gaio Cajkovsij e per il regista comunista Eisenstein, mimetizzati tra astronauti e inventori assortiti. Dopo l’entrata degli atleti, la bimba volerà davvero tra le navi di Pietro il Grande, poi dentro una scena da Guerra e Pace nello spirito del balletto del Bolshoi, quindi nello spazio costruttivista
della Rivoluzione. Luci rosse e grandi torri di metallo, come nella scenografia di Servizio Pubblico, (ma il riferimento è colto solo dal pubblico italiano). Infine, un delizioso numero da musical vintage d’era sovietica, con un enorme vigile vestito di bianco (è un campione di pugilato alto due metri, vero) che dirige l’allegro traffico di ragazzi e ragazze a bordo di vecchie Volga e sidecar. Dopo l’apertura dei giochi declamata come da tradizione dal presidente Putin, ben imbronciato perché il cattivo della
favola è lui, tornerà implacabile il gaio Cajkowski, su una balletto di meduse elettroniche, coreografie di Daniel Ezralow. E pure Strawinski, per ballerini luminosi sospesi a mezz’aria nel buio. Mancavano le Pussy Riot e il loro punk spaccatutto (solo l’icona del loro passamontagna è stata avvistata sul fondo di uno snoboarder americano), questo è vero. Però la sfida del presidente macho contro le gaiezze di un qualsiasi grande spettacolo cerimoniale è stata davvero impari. E perduta. Già vedere un
coro di soli uomini in posa marziale cantare il vecchio inno russo instillava i primi dispettosi dubbi negli spettatori avvertiti. E già prima dello spettacolo, non in diretta ma visibilissimi su youtube, i mitici coristi della polizia russa cantavano una versione di Get lucky dei Daft Punk.
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ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
XXII GIOCHI INVERNALI OLIMPICHE DISCRIMINAZIONI
TORMENTA DI NEVE
●●●Iperattivismo gay e lesbico nella giornata inaugurale di Sochi 2014, come era prevedibile, per avvertire il mondo e stuzzicare Putin sul fronte dei diritti. Ma con qualche deprecabile discriminazione. Alla decina di attivisti che hanno provato a sventolare la «rainbow flag» adottata dai movimenti Lbgt proprio mentre iniziava la cerimonia inaugurale è andata molto peggio che agli atleti della squadra tedesca, i cui giacconi giallo-verde-azzurro con pantaloni rossi sono sembrati una vistosa forma di “solidarietà” con gli omosessuali russi. Dopo aver sfilato così conciati davanti alla tribuna d’onore se ne sono tornati tranquilli in albergo, mentre gli attivisti russi ieri hanno dormito in una cella. Non li ha aiutati l’aver tentato il loro blitz sulla Piazza Rossa di Mosca, perdipiù
Il circo bianco in riva al Mar Nero di PASQUALE COCCIA
●●●Ieri ha aperto le porte il circo bianco di Sochi e i riflettori si sono accesi su scala planetaria. Lo zar Putin lo ha voluto fin dal 2007 per dimostrare al mondo intero che la Russia è di nuovo in primo piano sul palcoscenico internazionale, come un tempo. Lo ha voluto per dimostrare che i conflitti sono cose da poco, rispetto ai fuochi d’artificio, in quella regione caucasica dove si trova Sochi, storicamente dilaniata da un’alta conflittualità. Per prevenire attacchi di ogni genere e proteggere circa 70 mila persone tra atleti e staff tecnico sono stati schierati nell’arco di 100 km 30 mila soldati, supportati da 5.500 telecamere e 6 postazioni con sistemi antimissili. Non ha badato a spese il freddo Putin, che si fa fotografare un giorno con il kimono mentre da bravo judoka atterra l’avversario compiacente e l’altro mentre va a caccia con il fucile a torso nudo. Le Olimpiadi di Sochi sono le più costose della storia, sia di quelle invernali che di quelle estive: 51 miliardi di dollari, rispetto ai 12 miliardi preventivati inizialmente, mentre l’edizione precedente, disputatasi a Vancouver nel 2010, è costata 9 milioni di dollari. Le Olimpiadi estive di Pechino, dove pur non si sono risparmiati per dimostrare la grandezza cinese, sono costate 43 miliardi di dollari. Non ha badato a spese Putin, per celebrare se stesso e la Russia, e la sede scelta è caduta su Sochi, che affaccia sul Mar Nero, dove la media borghesia russa, sua grande sostenitrice, trascorre le vacanze estive. Dopo che Stalin fece costruire la sua dacia, Sochi divenne la località di vacanza dei presidenti che si sono succeduti in Unione sovietica. Sochi, con il suo clima mite, non è proprio la sede ideale per le Olimpiadi sulla neve. Quindi Putin ha speso un bel po’ di soldi per collegare la città sul mare al complesso sciistico di Krasnaja Poljana, che sorge 50 km alle spalle di Sochi. Le spese folli, oltre che per la costruzione degli impianti sportivi, hanno riguardato il nuovo tracciato dell’autostrada che collega Sochi agli impianti di gara. Il collegamento rapido e confortevole, ha rappresentato una vera ostacolo per il comitato organizzatore russo, che non è stato risparmiato dalle critiche, visto che la strada e la ferrovia appositamente costruite saranno poco utilizzate una volta terminati i fasti olimpici. Critiche che si sono moltiplicate per i 360 km di nuove strade costruite per consentire il rapido afflusso dei 4 milioni di spettatori previsti da oggi al 24 febbraio. I disastri ambientali provocati nella zona dalle Olimpiadi sono stati denunciati da Wwf, Greenpeace, Sochi Watch e da altre organizzazioni ambientaliste russe, come l’ong Caucaso del Nord, che accusano Gazprom di aver disboscato e spianato un’area di due ettari dove Tutte le foto di queste pagine sono Reuters
Le Olimpiadi-capriccio dello zar Putin, le più costose di sempre, prendono il via in un clima quasi subtropicale. Tra disastri ambientali e mazzette, fuochi d’artificio per oscurare i conflitti
SOCHI 2014 DELEGAZIONE AZZURRA
Zeoeggler, Kostner ecc. Una valanga altoatesina La delegazione azzurra è composta da 133 atleti, quattro in più rispetto all'edizione del 2010 disputatasi a Vancouver, in Canada. Su 133 atleti 44 sono donne, una percentuale che è lievitata rispetto alla precedente edizione, passando dal 36% al 39%. La delegazione olimpica italiana vede la presenza prevalentemente di giovani atleti altoatesini, i quali hanno contribuito ad abbassare l'età media portandola a 26 anni. Tra loro puntano al podio olimpico Armin Zoeggler e Dominik Fischnaller nella gara dello slittino, mentre Manfred Moelegg nello slalom speciale, ma dovrà vedersela con la dura concorrenza degli atleti austriaci. Nella velocità le speranze sono puntate su Innherofer. Per le donne aspira all'oro Carolina Kostner, che è tornata in auge con la conquista della medaglia d'argento ai campionati mondiali dell’anno scorso. Nel gigante femminile la speranza è Denise Karbon, mentre nel pattinaggio short track aspira al podio olimpico Arianna Fontana.
sorge la radura degli abeti bianchi ai piedi del monte Psehako, per costruire un centro turistico sede di alcune gare olimpiche. Scomparsa anche la famosa spiaggia di Imereti, ricoperta di frangiflutti. Inoltre, denunciano le organizzazioni ambientaliste, adiacente al corridoio Adler-Krasnaja Poljanala, rappresentato dalla costruzione dei 50 km di autostrada e ferrovia che collegano Sochi agli impianti sportivi dove si svolgeranno le gare, scorrono le acque del fiume Mzyma, che forniscono acqua potabile alla città, drasticamente ridotta a causa del rilascio di mercurio e di prodotti petroliferi. La cava di Ahstyr, che sorge a ridosso della sorgente del fiume Mzyma, è stata destinata a discarica per rispettare i tempi voluti dal Cio per la costruzione degli impianti. È evidente che la salute delle popolazioni di Sochi e dintorni sono state messe in secondo piano rispetto alla grandeur dell’appuntamento olimpico, in nome del quale una zona di notevoli bellezze naturalistiche, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, ha subito danni di grave entità. Intanto le cinquecento imprese che hanno lavorato alla realizzazione degli impianti sportivi e delle infrastrutture, impiegando circa 96 mila lavoratori, hanno fatto
salire il costo complessivo delle olimpiadi di Sochi fino al triplo di quello preventivato, in media si sfora del 180%, invece per Sochi si è arrivati al 500%, e anche il tasso di corruzione è notevolmente salito, tanto che, secondo Trasparency International, la regione caucasica risulta essere tra le più corrotte al mondo collocandosi al 133˚ posto su 177
aree prese in esame. Ma la regione caucasica potrà avere anche benefici dalle Olimpiadi: potranno convergere capitali stranieri, se si dimostra che a partire da Sochi questa resterà un’area sicura. Ma questo riguarda il futuro. Da oggi iniziano le gare: gli atleti russi cercheranno di non sfigurare innanzi al mondo intero e a Putin.
LE NOVITÀ
Togo, Zimbabwe e slopestyle in pista Gli atleti che prendono parte alle Olimpiadi di Sochi si cimenteranno nelle gare di quindici sport: biathlon, slittino artificiale, short track, skeleton, pattinaggio di figura, pattinaggio di velocità, snowboard, freestyle, sci di fondo, sci alpino, bob, hockey su ghiaccio, salto con gli sci, combinata nordica e curling, che nel 2006 alle olimpiadi di Torino aveva suscitato una certa curiosità tra gli italiani. Nel complesso saranno assegnati ben 98 titoli olimpici, mentre partecipano per la prima volta a un'edizione olimpica invernale Togo, Zimbawe, Timor Est, Tonga e Malta. Rispetto all'edizione di Vancouver nel 2010 non è stata introdotta alcuna nuova disciplina, invece sono state apportate alcune aggiunte a quelle esistenti, che di fatto rappresentano nuove gare: nel free style l'half pipe e lo slopestyle, mentre nello snowboard è stato inserito lo slopestyle. Per la prima volta le donne si cimentano nel salto con gli sci, una novità la gara a squadre nel pattinaggio artistico e nello slittino.
SNOWBOARD
intonando l’inno nazionale, Altri quattro attivisti sono stati arrestati a San Pietroburgo mentre si concedevano una foto ricordo davanti a uno striscione con su scritto «La discriminazione è incompatibile con il Movimento Olimpico. Articolo n. 6 della Carta Olimpica». La palma per la peggiore performance sportiva del giorno va invece al Team Lotus di Formula 1, che solitamente sfreccia con un certo humor sui social network. Il tweet partito stavolta durante la cerimonia ritraeva due uomini che si baciano. Ma cinque ore dopo il team, che ha tra i suoi azionisti anche un «nuovo ricco» russo, ha cancellato il messaggio augurale in precedenza postato sostituendolo con un triste e goffo «porgiamo le nostre sincere scuse per la diffusione di un messaggio non autorizzato sul nostro account. Garantiamo che la cosa non si ripeterà».
PICCININI DALLA PRIMA
L’intimo dello slittinista di Tonga e altre storie fuori copione ●●●Le Tatu, glorie internazionali della canzonetta di laggiù, che per copione fingono da sempre di essere fidanzate, le hanno invitate soltanto all’ultimo momento. Una loro canzone accompagnava l’entrata nello stadio della squadra russa. Momento solenne, quanto caciarone. Ma non basta. Per supremo autogol le due ragazze hanno twittato poche ora prima della cerimonia che le hanno «trattate di merda». Testuale. Indubbiamente la sfilata degli atleti qualche momento buono l’ha regalato. Grande eccitazione per le divise multicolori dei tedeschi, decisamente eccessive, tedesche d’altri tempi, ma il popolo di twitter planetario ci vede un chiaro richiamo alla bandiera arcobaleno e va bene così. Si annuncia intanto la presenza del ministro della salute norvegese, in compagnia di suo marito. Che non vengono inquadrati. L’ex tennista e attivista lesbica Billie Jean King mandata da Obama nella delegazione ufficiale Usa non è potuta venire. Arrivano le mascotte: tre pupazzoni di peluche che hanno le fattezze di un orso, di un leopardo e di un coniglietto. Piuttosto
LA SFIDA ■ GRANDEUR URBANISTICA, SOGNANDO LA DUBAI DEL CAUCASO
Da Pietro il Grande a Putin La storia non è finita di MATTEO TACCONI
●●●Negli ultimi giorni lo zar Pietro il Grande è stato uno dei personaggi più evocati, sulla stampa internazionale. S’è tracciato il paragone tra lui e Putin. Entrambi, s’è sostenuto, hanno travasato in un’immensa sfida urbanistica i loro propositi di grandeur. L’uno a San Pietroburgo, l’altro a Sochi. Se Pietro fece edificare sulla paludosa foce del fiume Neva l’ex capitale imperiale, con la sua ricca dote di raffinate architetture, Putin ha organizzato sulle rive del Mar Nero, in un’area subtropicale, un’olimpiade invernale, «portando la neve in riva al mare» (espressione abusata di questi tempi) e facendo impiantare nel distretto di Adler, il più a sud di Sochi, strutture e infrastrutture che trasudano modernità, servendo i giochi e i loro atleti. Ma al netto della foga costruttrice che li accomuna, i propositi di Pietro e di Putin sono diversi. Il primo, portando la corte a ridosso del limes con l’Europa, voleva elevare il rango del paese, farlo partecipare al concerto europeo e contribuire a modellare gli equilibri del vecchio mondo. Putin ha messo in campo un’operazione diversa, se non opposta. I nuovi palazzi di Sochi e la vetrina olimpica suggellano la conversione culturale della Russia
odierna. Dopo il crollo dell’Urss, nell’epoca in cui era forte l’idea che la storia stesse finendo, per dirla con Francis Fukuyama, si credeva che Mosca avrebbe progressivamente assorbito i paradigmi del sistema liberale. Ma la storia non è finita. Da quando è salito al potere, nel 2000, Putin ha intrapreso un percorso volto a dare alla Russia un’identità peculiare. È la tesi della «democrazia sovrana» tanto cara al suo ideologo, Vladislav Surkov. La Russia – questo è il succo – è un’entità con tradizioni culturali e pratiche politiche proprie. Se ne sta tra Europa e Asia, senza appartenere a nessuno, se non a se stessa. È anche questo il senso di Sochi: celebrare il compimento di
un progetto politico con un piano edilizio di dimensioni impressionanti. Sono stati spesi 50 miliardi di dollari. Una marea di denaro che ha rivoluzionato profondamente Sochi e il suo respiro un po’ decadente, un po’ affascinante, di luogo di villeggiatura dei tempi sovietici. Oggi Sochi è una città che esibisce un volto nuovo, a tratti avveniristico, a tratti kitsch, con la schiera di locali modaioli sorti nel centro della città e il Sochi Park, un parco giochi che sprizza russità da qualche buon poro. Sono stati costruiti quattordici complessi sportivi, 260 chilometri di strade, 200 di ferrovie, 54 ponti, 22 trafori e nuovi alberghi, oltre a quelli già esistenti che sono stati
effeminati. Spuntano qua e là altre storie fuori sceneggiatura, quelle piccole e buffe che fanno la gioia dei commentatori di questo genere di dirette tv. La squadra delle Bermuda per esempio sfila in bermuda rossi. La squadra di bob giamaicana, già protagonista di un film di Walt Disney, c’è. Uno slittinista di Tonga – si apprende – ha accettato l’ingegnosa sponsorizzazione occulta di una marca tedesca di biancheria intima, e per questo ha cambiato il suo nome con il nome della marca: Bruno Banani. Tre ore di cerimonia. Accensione del fuoco olimpico, fuochi d’artificio. Fine. Sul piano politico nostro, performance rimarchevole del presidente Letta, che ha annunciato la sua solitaria presenza con una lettera di rara democristianità sportiva al Corriere della Sera e s’è giocato tre secondi di inquadratura inguainato nella giacca a vento ufficiale firmata Armani. Salutava convinto e scendeva le scale in fretta, come per avvicinarsi ai nostri ragazzi che del resto manco lo vedono. Giovanile. Renzi che avrebbe fatto al posto suo?
ammodernati, riporta l’agenzia Bloomberg, riferendo che più di 150mila persone sono state impiegate nella realizzazione delle strutture olimpiche, in quello che è diventato il più grande cantiere del mondo. A tutto questo vanno aggiunti i 150 chilometri di gasdotti, il nuovo attracco portuale, l’ampliamento dell’aeroporto e altre cose ancora. Tra cui la ferrovia che collega Sochi agli impianti, situati sulla dorsale montuosa del Caucaso, dove si svolgerà una discreta fetta delle competizioni. Solo quest’opera, di ingegneria estrema, è costata nove miliardi. E chissà quanti, di questi, sono quelli determinati dalla corruzione. Se n’è parlato diffusamente, di questa faccenda e dei dividendi spettati agli oligarchi che hanno sguinzagliato le loro ruspe a Sochi. Ma forse è anche il caso di ribaltare il piano. A l di là della megalomania di Putin, del giro di mazzette (ce ne furono anche a Italia ’90, ricordate?), delle notizie che circolano su alberghi non all’altezza e sui biglietti invenduti, va riconosciuto che i russi, a Sochi, hanno dimostrato che gli ingranaggi della loro macchina organizzativa non sono poi così arrugginiti. Dall’annuncio dell’assegnazione dei giochi sono passati sette anni. E guardate cosa sono riusciti a realizzare, lì sul Mar Nero. La domanda è se al termine dell’olimpiade tutto questo si tramuterà in un’opportunità di crescita, come Mosca vorrebbe. L’idea è fare di Sochi una sorta di Dubai – paragone comunque azzardato – e di irrobustire la percentuale di Pil originata dal turismo, oggi inchiodata a un misero 1,5%. La sfida è impegnativa, almeno quanto lo è stata la realizzazione di questo mastodontico progetto urbanistico.
●●●4 medaglie si aggiungono alle 6 previste per questo sport, che promette più spettacolo grazie alle novità introdotte. La principale è rappresentata dallo slalom parallelo e dallo slopestyle, una specialità figlia degli sport estremi e assai in voga presso gli adolescenti. La gara prevede per gli atleti una serie di tricks chiamati «spin», «jib», «grab» e «flip», durante la discesa l’atleta deve eseguire tre salti mortali su quattro sul piano verticale, orizzontale e laterale. Gli italiani in gara per il podio sono Fischnaller e Mark. Dopo il forfeit dello statunitense Shaun White, che punta all’oro nell'halfpipe, già oro a Torino e a Vancouver nel 2010, vittorie che lo hanno reso ricco grazie ai contratti pubblicitari (secondo Forbes con 7 milioni di dollari l’anno è appena dietro Cristiano Ronaldo), il più probabile candidato al podio più alto nello slopestyle è il ventenne canadese Mark McMorris, specialista nel triplo cork.
PATTINAGGIO DI FIGURA ●●●È la specialità dove gli azzurri sperano di conquistare il podio. Le nazioni partecipanti sono dieci, ammesse grazie al ranking che tiene conto del punteggio conseguito nelle competizioni degli ultimi anni. Usa, Russia e Canada sono i team più accreditati per il podio, ma l'Italia potrebbe spuntarla. Le medaglie saranno assegnate domani. Dopo la prima fase rappresentata dai «corti», solo cinque nazioni possono passare il turno e giocarsela sui «liberi». Nelle gare di oggi occhi puntati su Carolina Kostner e nella danza sulla coppia Anna Cappellini e Luca Lanotte, fresca di titolo europeo appena conquistato. Nella specialità del pattinaggio figurato, da quest’anno è stata introdotta l’inedita gara a squadre che prevede anche la prova a coppie. La nazione che al termine della finale ha fatto registrare il maggior punteggio vince l’oro.
SLITTINO ●●●La principale novità introdotta nello slittino consiste nel fatto che al singolo maschile fa seguito il singolo femminile e poi si disputa la gara a coppie. Il via viene dato mediante il tocco di un pannello, effettuato da un compagno di squadra partito prima, che apre il cancelletto di partenza. Nelle gare a squadre a farla da padroni negli ultimi dieci anni sono stati i tedeschi. Le speranze azzurre sono poste in Armin Zoggler, portabandiera dell’Italia, e in Fischnaller. Zoeggler, 40 anni e cinque olimpiadi invernali già disputate, a Sochi è stato oggetto di un controllo antidoping a sorpresa. Per nulla intimorito, subito dopo ha disputato la prima manche di prova, classificandosi secondo dietro al tedesco Loch, mentre nella seconda manche è risultato essere il più veloce. Quattro anni fa a Vancouver, proprio nel girone dell’inaugurazione, durante una prova in pista di slittino morì il georgiano Nodar Kumaristani, che sarà ricordato dalla federazione internazionale il 19 febbraio.
SKELETON ●●●Saranno assegnate oggi le medaglie di Skeleton, specialità in cui dominano gli inglesi, che fin qui hanno sempre conquistato una medaglia. Lo skeleton è stato introdotto di nuovo nelle gare olimpiche nel 2002 a Salt Lake City, dopo due apparizioni nel 1948, anno in cui l’Italia conquistò l’oro con Nino Bibbia, e nel 1968. L’atleta che gareggia nello skeleton alla partenza si posiziona sull’attrezzo, una tavola in metallo artificiale, il cui peso non può essere superiore ai 33 kg per gli uomini e 29 per le donne, e dopo una spinta iniziale con i piedi guida in discesa l’attrezzo solo con il movimento del corpo. La gara prevede diverse manches, vince l’atleta che fa registrare il miglior tempo. Una specialità che ha visto vincere a Vancouver nel 2010 il campione canadese Jon Montgomery. Per l’Italia l’unico in gara - alquanto lontano dal podio - è Maurizio Oioli.
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BIATHLON ●●●Le novità introdotte a Sochi riguardano la composizione della squadra, costituita da due donne e da due uomini: è la staffetta mista, che ai campionati mondiali si svolge fin dal 2005. L’ordine di gara prevede che si cimentino prima le donne, che gareggiano in una 2x6 e poi seguono gli uomini in una 2x7,5, ognuno ha due piazzole di tiro. Nel biathlon, le speranze azzurre per una medaglia sono poste in Lukas Hofer, che alla Coppa del Mondo disputatasi ad Anterselva tra settimane fa, ha conquistato il primo posto ex aequo con il campione tedesco Simon Shempp, interrompendo un digiuno che per l’Italia durava da 26 anni. A dominare nel biathlon, che prevede lo sprint, l’individuale, l’inseguimento e la partenza di massa sia maschile sia femminile, oltre al misto, nelle ultime edizioni olimpiche è stata la Norvegia, che a Vancouver ha vinto tre medaglie d’oro, seguita dalla Germania e dalla Russia. A Torino fu la Germania a conquistare l’oro e la Norvegia l’argento e il bronzo.
In copertina, un atleta di biathlon all’ombra dei cinque cerchi olimpici (foto Reuters)
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Lamberto Frescobaldi, produttore di vino di qualità, racconta come si vive, si lavora e si produce sull’isola-carcere di Gorgona. A partire dalla vigna che frutta bottiglie in vendita a 50 euro l’una. Riserva speciale, che riabilita di LUCIANO DEL SETTE
●●●Mattina di autunno stordita dal vento forte e da una pioggia acuminata. Il pensiero passa improvviso per la testa, strappandoti un sorriso nascosto nel bavero del cappotto: qui, al porto di Livorno, davanti a un mare irrequieto, non sei in attesa di una riposta. Ma di una sentenza. Perché tra poco, dalla sede dei traghetti della Toremar, uscirà un ufficiale nei panni del giudice, e ti dirà se puoi partire verso l’isola di Gorgona, Casa di reclusione maschile. Insieme a te, una piccola troupe della Rai, tre giornalisti italiani, una giornalista francese, e un signore alto, elegante, capelli radi. Di nome fa Lamberto Frescobaldi, ex sangue blu di antica dinastia. Il suo mestiere è mettere al mondo vino. Nobile, beninteso. La porta della Toremar si apre. Arriva il verdetto. Non si parte, il Mar Ligure arrabbiato lo vieta. Le diciotto miglia marine che separano la costa livornese da Gorgona divengono distanza incolmabile. Forse sarà così anche domani. Voltiamo le spalle alle onde, più rincresciuti che offesi dalla loro inclemenza. Mentre il verdetto era ancora in discussione, a infoltire il gruppo sono arrivati un esperto di formaggi e un educatore carcerario. Tutti insieme facciamo rotta verso un bar che possa ospitarci e dove, dice Frescobaldi, «Potremo parlare». Parlare di Gorgona, visto che approdarvi non è stato possibile. Per quale ragione dovremmo farlo? Per quale ragione dovremmo parlare di una macchia di roccia e di verde, due chilometri quadrati, dal 1869 sede di un penitenziario? Ci stringiamo intorno a due tavoli nella saletta del bar. Su uno dei due, Lamberto posa una bottiglia di vino. L’etichetta dice che il nettare bianco si chiama Gorgona, da vigne di Ansonica e Vermentino, e che si fregia della Igt Toscana, Indicazione Geografica Tipica. Ma non si ferma lì. Il testo impaginato a blocchi dal titolo Fuoco, Aria, Acqua, Vento; la dicitura «Edizione straordinaria dell’isola, 2000 copie»; il riquadro «Progetto» a firma di Frescobaldi e le piccole illustrazioni in bianco e nero, rimandano a un giornale o a un libro come si impaginavano un paio di secoli fa. Identico sapore di quei secoli ha la sovraetichetta candida, pergamena chiusa da un sigillo di ceralacca giallo che avvolge anche il collo della bottiglia. Sono questi dettagli a fornire indizi evidenti del fatto che il Gorgona non è soltanto un vino. E che, invece, è il punto di arrivo di un progetto, un piccolo e diverso tramite per dare concretezza a una speranza difficilissima nella realtà delle carceri italiane: buttarsi dietro le spalle, grazie a un lavoro, ciò che si è stati, o si è stati costretti ad essere. L’isola, pochi anni dopo la nascita del Regno d’Italia, venne destinata a «Luogo aperto di detenzione e pena». I carcerati rientravano nelle celle soltanto con il calare della sera. Durante il giorno svolgevano lavori legati all’agricoltura e all’allevamento. Lavori forzati. Da cui nacquero ribellioni e sommosse. Il filo del nostro racconto
Per una enologia della liberazione impone un lungo salto temporale, fino agli anni ’80 del secolo passato e a un libro, Ne vale la pena, autori Carlo Mazzerbo e Gregorio Catalano. Lo ha pubblicato qualche mese fa l’editore Nutrimenti di Roma. In poco meno di duecento pagine, Mazzerbo racconta la sua vita di direttore della Casa di Gorgona dal 1989 al 2004. Carlo, esperienze precedenti nelle carceri del Nord e del Sud della penisola, eredita il ruolo per nove anni affidato a Bruno Bonucci. Ed è lui ad accogliere il futuro direttore quando sbarca dal traghetto per un week end esplorativo che dovrà condurlo a una decisione «... Gorgona,
perché no? ... È un’isola penitenziario come la immagino, impostata sul lavoro, l’agricoltura, l’allevamento... Dopo un’ora di navigazione eccomi nell’altro mondo, affascinato, confuso dal primo impatto con l’isola, attraente fin dal suo apparire in lontananza... L’idea del carcere te la danno solo le divise degli agenti, le auto della Penitenziaria, perché per il resto vedi lavoratori in ogni angolo, presi dalle tante attività che il vecchio direttore ha messo in piedi. Bonucci mi mostra con orgoglio le realizzazioni... ». Il lavoro di Bonucci rivela però un aspetto non di poco conto, che Mazzerbo mette subito a fuoco:
«Nelle poche ore della perlustrazione capisco che il direttore, il padre - padrone... ha grande capacità, con un limite non indifferente: considera quel luogo suo, ne è geloso, non vuole aprirlo all’esterno... Tutta l’attività è rivolta a produrre solo per l’isola, nessuna forma di scambio, nessun contatto con la terraferma se non per gli approvvigionamenti indispensabili». Mazzerbo accetta l’incarico, che lo vedrà protagonista, accanto ai detenuti e agli educatori, di un cammino lungo il quale la pesca, l’agricoltura, la cura del grande orto e della vigna, la produzione di formaggi e salumi, la pesca, l’apicoltura, diverranno risorse economiche e legami forti con il mondo esterno. Al pari della creazione di un band musicale, di un armo di canottaggio, di corsi per l’acquisizione della licenza media. Accanto alle vittorie, Carlo dovrà accettare qualche delusione e qualche sconfitta. La più cocente arriverà da due delitti, che metteranno a repentaglio la vita del «laboratorio Gorgona». Ma il sogno dell’isola è destinato a non estinguersi. Nel 2011, Maria Grazia Giampiccolo, direttore della Casa di Reclusione di Volterra, diviene tale anche sull’isola. Con lei si avvia «Granducato – Progetto la terra, il borgo e la fattoria - Casa di reclusione di Gorgona», che ha tra i suoi partner la Provincia di Livorno, l’Università di Pisa, la Camera del Lavoro locale, la Cgil, Confagricoltura, Lega delle Cooperative. Gli obbiettivi sono il proseguimento delle attività legate alle filiere agricole e, tramite queste, la formazione dei cinquantadue detenuti
beneficiari; l’incremento produttivo, la gestione del ciclo di lavorazione e dei processi operativi. Il progetto Granducato, il 23 marzo 2012, trova risposta positiva e un finanziamento di 520mila euro dalla Cassa Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Resta da compiere, nel suo ambito, un passo fondamentale: aprire le attività a imprese private per innalzare il livello di eccellenza e per dare a chi torna libero prospettive concrete di un salario su cui ricostruire la propria vita. Durante la direzione di Maria Grazia Giampiccolo, i rapporti fuori dai confini dell’isola si ampliano grazie anche ai «Pranzi Galeotti», versione diurna ed estiva delle serate gastronomiche organizzate all’interno del carcere di Volterra. L’attenzione di uno degli educatori, Stefano Turbati, si concentra sulla minuscola vigna, in bella posizione, piantata nel 1999, ai tempi di Carlo Mazzerbo. L’arte del vino, si sa, è pratica difficile, la buona volontà non basta, ci vuole gente esperta che insegni a curare i filari, che guidi nel migliore dei modi il viaggio verso il buio della cantina. E allora, dal computer di Turbati, parte un fax rivolto ad alcuni grandi nomi dell’enologia toscana per chiedere assistenza e competenza, per aiutare la vigna a dare il meglio di sé. Uno di questi nomi è Lamberto Frescobaldi. Sul tavolo del bar livornese, Lamberto gira e rigira tra le mani la bottiglia di Gorgona, l’appoggia, la guarda: «Mi portarono quel fax, lo lessi e decisi in un attimo di accettare. Far nascere il vino a Gorgona implicava di insegnare ai detenuti una professione. Non sono un esperto di cifre, ma ho letto che questo abbassa dall’80 al 20 per cento la possibilità di tornare a commettere un crimine. Dunque chiamo Turbati, e con lui, il 7 di agosto del 2102, arriviamo all’isola. Visitiamo la vigna, due ettari, per metà recuperata da un detenuto siciliano, un eccezionale agronomo involontario. Le sue capacità mi stupirono al punto che, pensando a quanto avrebbe potuto risultare utile, gli chiesi ’Lei quando torna in libertà?’ - e lui mi rispose ’A gennaio 2014’. E
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per l’utilizzo delle immagini pubblicate in queste pagine - le vedute dell’isola, la vigna, i detenuti al lavoro, i prodotti si ringrazia lo studio klaus davi
io ’Di già?’. Ridemmo tutti e due della mia gaffe!». Dopo la vigna, la cantina: «Mi accompagnò un altro detenuto. Assaggiai il vino, per poi sputarlo come bisogna fare quando si degusta. Mentre tornavamo, il detenuto, che era stato fino ad allora in silenzio, mormorò un po’ triste ‘Allora il nostro vino è proprio cattivo’. Gli chiesi perché dicesse questo. ‘Perché lo ha sputato’». Il compito di creare il Gorgona viene affidato a Niccolò d’Afflitto, l’enologo dell’azienda toscana. La cura della vigna e la vinificazione sono i mestieri da trasmettere a chi, un giorno più o meno lontano, tornerà ad essere un uomo libero. Intanto, sull’isola, è arrivato un trattore nuovo di zecca, regalo di un industriale piemontese contattato da Frescobaldi: «Resto ancora stupito dal fatto che bastava accennare al progetto per ricevere subito un sì. E non era certamente un sì concesso pensando al ritorno di immagine. Nella nostra vita di gente che si alza al mattino con il privilegio di fare un lavoro bello, non sono sempre e soltanto i quattrini e l’immagine a dettar legge». La cantina accoglie il Gorgona dentro tini d’acciaio. L’imbottigliamento, operazione molto delicata, avviene nelle tenute Frescobaldi, con la prospettiva però di renderla autonoma. Ora la bottiglia va vestita. Ci pensa l’art director Simonetta Doni, cui un viaggio sull’isola regala ispirazione e idee. L’incontro con la piccola popolazione carceraria, i suggerimenti e i discorsi, il contesto naturale di rara meraviglia, portano Doni a disegnare un’etichetta completamente al di fuori dei canoni classici; a decidere di assegnarle il compito di raccontare una storia probabilmente unica nel mondo dell’enologia. Il vino, presentato in un celebre ristorante di Firenze, suscita molto interesse non solo a proposito di bouquet, retrogusti, aromi e via annusando e degustando. Ricorda Lamberto: «Se dietro il Gorgona non ci fosse stato quel progetto, sarebbe stato accolto come un ottimo vino e basta. E invece esprimeva molto, molto di più». Piccoli i numeri di produzione: 2700 bottiglie, di cui duemila nelle enoteche, 50 euro
il prezzo al pubblico, e in alcuni ristoranti di fascia alta. Le altre settecento distribuite all’estero. Sull’isola si sta reimpiantando l’ettaro di vigna abbandonato per far crescere il conto finale delle bottiglie. La voce di Alberto Marcomini al tavolo del bar livornese si era finora sentita solo per le reciproche presentazioni. Giusto così, parlando di vino. Perché lui, Alberto, è un mago dei formaggi, coinvolto, guarda caso da Frescobaldi, nell’avventura dell’isola. Un’avventura umana, prima di tutto: «Gli inizi sono stati difficili, provavo un certo disagio, mi sentivo un po’fuori posto. Quando i rapporti con la polizia penitenziaria e con i detenuti, la confidenza con la dimensione della Gorgona, sono diventati più stretti, sono usciti dalla formalità, l’entusiasmo per quanto volevo realizzare è andato crescendo. Mi piaceva essere lì, fermarmi a dormire, svegliarmi al mattino presto e camminare in un posto fantastico, passare ore e ore nel caseificio insieme alle tre persone con cui continuo a dividere il lavoro». Marcomini inizia a mettersi all’opera a metà giugno 2012. Assaggia i formaggi, un vaccino, alcuni pecorini e provole. Sanno di poco, il sistema di produzione è sbagliato: «Pecore, mucche e capre brucavano, però, in un paradiso terrestre, tra mirto, rosmarino, lentisco. Allora ho pensato che il latte doveva essere trasformato nel modo più naturale possibile. Appena munto, la sua
Gli abitanti, tra detenuti, agenti di polizia e civili, ammontano oggi a non più di 200. Approda in questi 2 kmq di macchia mediterranea solo chi deve scontare meno di dieci anni
GORGONA
La storia, l’ecosistema e una prigione aperta ●●●Gorgona, insieme a Capraia, Elba, Giannutri, Giglio, Montecristo e Pianosa è una delle isole, la più piccola, che costituiscono il Parco Nazionale Arcipelago Toscano. L’etimologia del nome rimane incerta, e non è comunque riconducibile alle tre Gorgoni della mitologia greca. Abitata fin dal neolitico, poi senza vera continuità da etruschi e romani, nel 416 d.C. era già luogo in cui si ritiravano gli eremiti. All’abate Oroso, nel 591 d.C., si deve la fondazione di un monastero che conservava le reliquie di San Gorgonio. In epoca tardo-medievale, Gorgona venne assegnata all’Ordine dei Certosini, che vi rimasero poco meno di cinquant’anni a partire dal 1374 e fino al 1421, quando passò sotto il dominio di Firenze. Successive tappe furono il diritto di
temperatura è di 33 gradi. Noi lo portiamo a 35 con un colpo di fuoco, e poi viene lavorato senza alcun fermento o innesto. Sull’isola non esiste un pastorizzatore, quindi i formaggi sono a latte crudo e proprio per questo esprimono tutte le caratteristiche di un contesto ancora preservato e puro. Raggiungeremo, credo, le quattrocento formine, di cui una
godimento concesso alla famiglia Griffi di Pisa nel 1509 e la donazione da parte di Cosimo I de’ Medici, nel 1564, all’Ordine dei Basiliani. Il rafforzamento della Torre pisana, 1567, fu seguito, un secolo mezzo dopo, da nuove opere di fortificazione in concomitanza con il ritorno dei Certosini. Tra di esse la costruzione della Torre a Cala Maestra. Il 1723 vide il completamento e la consacrazione
parte sarà avvolta nelle erbe aromatiche». Formaggi e vino, manca solo il pane per comporre il trio gastronomico perfetto. E invece non manca. I detenuti lo producono da sempre, e in più sfornano biscotti. Frescobaldi anticipa la domanda. Nel cantiere delle idee future, la pasticceria artigianale non può mancare. Forse la caccia al maestro dell’arte bianca è già
della chiesa fortificata di San Gorgonio. Con il definitivo abbandono dell’isola da parte dei Certosini, che non riuscivano a provvedere autonomamente alla propria sussistenza, cominciò a prendere forma una piccola comunità, spinta a vivere sulla Gorgona poiché ciò comportava l’esenzione da tasse e tributi, secondo quanto deciso dal granduca Pietro Leopoldo. Accanto all’agricoltura, attività
tradizionale, i nuovi gorgonesi svilupparono la pesca, di cui praticarono anche il commercio. Dopo l’Unità di Italia, a partire dal 1869, l’isola divenne carcere aperto. I suoi abitanti, tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria e civili, ammontano oggi a non più di duecento. La struttura è in grado di ospitare 136 persone, ma ormai da anni il numero non supera la cinquantina. Chi approda all’isola deve scontare un fine pena non superiore ai dieci anni, ed è stato scelto da altri istituti regionali sulla base di specifici criteri. A disposizione dei detenuti lo spazio comune dove consumare i pasti, la palestra, il campo bocce, il campo da calcetto, il campo da tennis, la sala hobby e la sala musica, la biblioteca. L’area colloqui, aperta, consente di pranzare e trascorrere una giornata intera con la propria famiglia. L’ecosistema della Gorgona è un capolavoro della natura. Circa il novanta per cento dei due chilometri quadrati è costituito da macchia mediterranea e boschi, arricchiti dalla presenza di oltre
aperta. Lasciamo il bar, pioggia e vento si sono acquietati. Troppo tardi, mannaggia a loro. Guardi il mare e vorresti che i tuoi occhi potessero mettere a fuoco, seppure in lontananza, il profilo della Gorgona. Vorresti poter salire a bordo di una nave qualunque e chiedere di far rotta verso l’isola. Quell’isola che, almeno per te, continua ad essere l’isola che non c’è.
quattrocento specie di fiori. Il divieto di accesso ai natanti turistici ha preservato la limpidezza del mare e ridotto al minimo l’inquinamento, pur se il 17 dicembre 2011 una nave cargo, in difficoltà per il maltempo, ha perso al largo dell’isola due semirimorchi che trasportavano fusti di materiali tossici e nocivi. Visitare Gorgona è possibile tramite le escursioni organizzate dalla Lipu, che fa capo alla Gorgona Cooperativa Sociale, la sola autorizzata dal Ministero di Grazia e Giustizia. Una quindicina di giorni prima dell’escursione occorre far pervenire alla Lipu, che trasmetterà i dati alla direzione del carcere, gli estremi di un documento di identità. Oltre agli itinerari turistici, la Cooperativa ha messo a punto una serie di itinerari didattici per le scuole, Informazioni su entrambi i fronti telefonando al 320/9606560, 349/6438935, oppure scrivendo a coopgorgona@tiscali it. Il sito si visita digitando coopgorgona.it (lds)
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ALEXANDER CALDER SOTTO IL TENDONE
Esili acrobati contro la forza di gravità di ARIANNA DI GENOVA
●●●Alexander Calder si era spinto sulla via della leggerezza inseguendo i personaggi filiformi di un maestro come Joan Mirò. Lo aveva incontrato a Parigi, dove dalla natìa America (Pennsylvania) si era stabilito fin dal 1926. Lì, nello studio di Rue Daguerre, il giovane Calder aveva cominciato a sperimentare ogni tipo di materiale, affascinato soprattutto dalla fragilità delle cose, dalla loro disperata lotta contro la forza di gravità: raccoglieva ovunque rimasugli di fil di ferro corde, carta, latta, stoffa, «scarti» utili per volare verso il cielo. Proprio in omaggio a questa tensione verso la lievità, inventò quell’opera straordinaria che poi non è altro che un concetrato di sogni portatili, itineranti. «Mirò - scrisse Calder - un giorno venne nel mio atelier mentre stavo cercando di far funzionare il circo. Credo gli piacesse molto. Qualche anno più tardi, nel 1932, dopo averlo visto a casa sua, in Spagna, mi confessò che lui rimaneva incantato di fronte ai ’pezzetti di carta’. Si trattava di pezzetti di carta bianca, forati e con l’aggiunta di piccoli pesi che svolazzavano lungo esili fili di rame, arrotolati, piegati in diversi modi e che io agitavo affinché scendano volteggiando come colombe sulle spalle di una bella dama di circo, sfavillante di gioielli».
L’attrazione fatale per il mondo del tendone a strisce era scoppiata qualche anno prima quando Calder aveva lavorato come free lance per la National Police Gazzette. Uno dei suoi servizi fu starsene per due settimane al circo Barnum & Baley per produrre schizzi e illustrazioni di quell’universo a parte. Andò a riprendere anche le bestie selvagge dello zoo. Fu lo start creativo, la rivelazione, il bagaglio con cui partire alla volta della Francia. Per una fabbrica di giocattoli - la Toddler Toys - prese a dar vita a un circo in miniatura: «C’erano un elefante e un’asina che si potevano sedere sulle zampe e alcuni clown sospesi a una scala o a una sbarra che si reggevano su un piede o una mano. Li avevo animati con lo spago, così da creare una traiettoria che li portasse dritti dritti sul dorso dell’elefante...». Siamo nei dintorni della prima apparizione del suo lillipuziano chapiteau con i suoi domatori e gli incerti equilibristi sul filo. A lanciare l’impresa fu, come ricorda Calder, «un serbo che sosteneva di essere nel mondo dei commerci. Mi disse che potevo
Alcune immagini di Ugo Mulas relative a «Alexander Calder», Sachè, 1963, © Eredi Ugo Mulas. Qui sotto Alexander Calder, foto di Ugo Mulas
guadagnarmi da vivere costruendo giocattoli meccanici...Quando poi sparì, io ormai ero dentro al circo. Il mio primo acrobata fu un saltatore, gambe di filo d’acciaio, testa con un pezzo di turacciolo e capelli dipinti a guazzo». Non fu un’attività da poco la sua: il circo di Alexander Calder, nel giro di una manciata di anni, divenne una delle attrazioni più amate dalla Parigi intellettuale. Cocteau, Léger, Mirò, Mondrian, Pevsner, Le Corbusier, il grande circense Paul Fratellini: sono questi i nomi del pubblico «domestico», che andava ad assistere agli spettacoli messi su dall’artista stesso, un regista-demiurgo che faceva tutto: tirava sul sipario, azionava i congegni per dar eseguire i numeri, mimava le voci, mentre sua moglie Louise azionava il fonografo per far partire le musiche di scena. Nel suo circo, insieme alle danzatrici del ventre e alle cavallerizze in tutù, c’era anche un assaggio del Wild West di Buffalo Bill, con tanto di cowboy che acchiappava al lazo il toro, galoppando nella pista rotonda. Non senza una buona dose di ironia, non tutto andava sempre per il verso giusto: il «direttore» Calder faceva uscire dall’arena anche qualche acrobata in barella, dopo brutte cadute e fallimenti nella loro disciplina. L’ultima rappresentazione di quel mini-circo venne data presso la galleria Maeght, nel 1954. Poi, l’artista continuò ad azionare quella macchina dell’illusione per pochi amici nella sua fattoria di Saché, che aveva comprato nel 1953. Alla fine degli anni Settanta, l’artista montò definitivamente il suo fragile circo al museo Whitney di New York. Ora è lì e a causa della scomparsa del suo creatore e della sua deperibilità, non è più itinerante. Per fortuna, quel gioco teatrale coinvolgente venne immortalato in due film: quello di Jean Painlevé del 1953 e il poetico corto di 19 minuti del portoghese Carlos Vilardebó. Lì, al cospetto di un Calder che gioca a fare il pagliaccio, rinasce tutta la magia di quell’irripetibile circo.
Al Kunst Merano, fino al 18 maggio, i poetici scatti del fotografo al «Circus Calder», una delle opere più stravaganti dell’arte contemporanea americana
MOSTRE ■ IL SODALIZIO TRA IL REPORTER E L’ARTISTA DEI MOBILES
■ Ugo Mulas scende in pista con la macchina fotografica di MANUELA DE LEONARDIS MERANO
●●●La prima cosa è il movimento. Non un movimento esplicito, ma intuibile attraverso la forma e anche l’idea di un qualcosa di itinerante, a cui rimanda l’accezione stessa di circo. Tanto più che si tratta del Circus Calder nell’interpretazione di Ugo Mulas (1928-1973). Un tendone in miniatura che entra in valigia, i cui protagonisti portano con sé il peso delle loro esistenze tra reale e immaginifico, passo dopo passo come sul filo su cui si avventurano gli acrobati. Alexander Calder (1898 - 1976) lo realizza a Parigi a partire dal 1926. Mulas lo fotografa negli Stati Uniti tra il 1963-’64, scattando non più di un paio di rullini. Un lavoro nato unicamente per sé, nel tentativo di approfondire ogni aspetto dell’opera dello scultore, di cui nel 1971 pubblica il libro Calder. Ma in questo noto volume, di cui il fotografo aveva studiato anche l’impaginazione grafica, uscito contemporaneamente a Londra, Parigi e New York, solo una manciata di scatti sono dedicati al Circus. Per la prima volta 36 stampe originali (gelatina ai sali d’argento su carta baritata) vengono esposte nella mostra Ugo Mulas. Circus Calder curata da Valerio Dehò al Kunst Merano (fino al 18 maggio) e concepita come l’incontro di due adulti che non rinunciano a quella parte di sé genuinamente infantile. Alla base dell’amicizia tra i due grandi artisti, infatti, c’è anche questo. Si erano conosciuti a Spoleto nel 1962, quando Giovanni Carandente aveva dato vita a Sculture nella città, invitando autori internazionali a dialogare con lo spazio urbano e affidando proprio a Mulas la memoria fotografica. Erano seguite varie visite nelle case-studio dello scultore americano a Saché (Francia) e Roxbury,
Connecticut. Ugo Mulas. Circus Calder nasce dalla collaborazione con l’Archivio Mulas, la Biblioteca Civica di Merano e Ópla!, archivio del libro d’artista per bambini: non è casuale, infatti, la presenza in mostra di edizioni speciali, tra cui Il prestigiatore verde di Bruno Munari e Luna Luna. Karussell: A poetic extravaganza! di Keith Haring. Ma, diversamente da queste storie coloratissime, il circo Mulas/Calder è austero e rigoroso. «Verrebbe voglia di colorare le fotografie», afferma Melina, figlia del fotografo. Del resto, nell’uso del bianco e nero da parte di questo autore straordinario c’è la consapevolezza dell’artificio, ma anche della natura stessa del linguaggio, più idoneo a stimolare la riflessione. Mulas inquadra la pista da lontano, avvicinandosi sempre di più al soggetto. Ritrae ogni singolo personaggio esattamente come se si trattasse di celebrità, eppure sono solo piccole figure, curatissime nel dettaglio ma fatte con il fil di ferro e altri materiali di recupero (carta, bottoni, tela, spago, gomma…). «La fotografia rende la dimensione scultorea del Circus», spiega il curatore. Per lo sguardo analitico del fotografo è indifferente che si tratti di esseri umani o animali (ballerina, lanciatore di spade, domatore, sollevatore di pesi, cowboy, trapezista - alcune figure sono ispirati ad amiche come Kiki de Montparnasse e Josephine Baker - e poi cammello, leone, foca…): hanno tutti la stessa dignità. Una parata di personaggi poetici che raccontano di sogni come di illusioni. La tensione emotiva è nella spinta che ha motivato il fotografo a coglierne la natura più profonda, ma anche nell’apparente staticità dei personaggi: figure immobili che, in realtà, erano dotate di meccanismi che le facevano muovere autonomamente, quando non interveniva lo scultore, mentre sua moglie Louisa James si occupava del fonografo. Anche le foto di due schizzi del circo entrano nel racconto, come la mano adulta di Calder che accoglie nel palmo un piccolo pennuto metallico. Un senso di protezione avvolge lo sguardo, simile - forse - a quella tenerezza che doveva aver provato il grande scultore nel riguardare quel suo primo lavoro che, quarant’anni prima, l’aveva introdotto nel mondo dell’arte.
ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
I FILM MONUMENTS MEN DI GEORGE CLOONEY, CON MATT DAMON, CATE BLANCHETT. USA 2013
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Una squadra di storici dell'arte e curatori di musei si attiva per recuperare opere d'arte rubate dai nazisti, prima che Hitler le distrugga. Il corpo specializzato si chiama per esteso «Monuments, Fine Arts, and Archives section of the Allied Armies», una divisione delle forze armate formata nel 1943 dal presidente Roosevelt e dal generale Eisenhower con il compito di proteggere le opere d'arte, 345 elementi provenienti da 13 paesi. SOTTO UNA BUONA STELLA DI E CON CARLO VERDONE, CON PAOLA CORTELLESI, TEA FALCO. ITALIA 2014
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La vita di molti è drasticamente cambiata negli ultimi anni, come quella di Federico, padre separato che non ha fatto mai mancare niente ai figli, ma che per un dissesto finanziario è costretto ad ospitare loro, una nipotina, gli amici, ed alcuni poeti di strada. La sua convivente resiste solo due giorni e poi se ne va, ma a questo punto interviene una simpatica vicina. SPIDERS (3D) DI TIBOR TAKÁCS, CON CHRISTA CAMPBELL, PATRICK MULDOON.USA 2013
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Tibor Takács è un regista nato in Ungheria nel '54, ma espatriato in Canada fin dal '56, data fatale. Nel '77 è stato ingegnere del suono del gruppo punk di Toronto The Viletones. Ha diretto horror (Non aprite quel cancello). Qui siamo a New York. I detriti di una stazione spaziale russa abbandonata precipitano sulla metropolitana. Dopo varie indagini, le autorità locali liquidano l’evento come una spiacevole fatalità priva di conseguenze allarmanti. Nessuno può immaginare quale pericolo mortale si stia in realtà abbattendo sulla città. STORIA D'INVERNO DI AKIVA GOLDSMAN, CON COLIN FARRELL, JENNIFER CONNELLY. USA 2013
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Una romantica storia d’amore tra passato e presente, sullo sfondo della New York del 1916 e di quella dei giorni nostri. Mentre Peter Lake sta rapinando una villa, si imbatte nella bellissima Beverly Penn, figlia del ricco proprietario. Per entrambi è un colpo di fulmine, ma compaiono alcuni ostacoli all’orizzonte: Beverly è afflitta da una malattia incurabile e un pericoloso gangster sta dando la caccia a Peter. Cos'altro può succedere? La reincarnazione e Will Smith che nel film è un giudice. VIJAY IL MIO AMICO INDIANO DI SAM GARBARSKI, CON MORITZ BLEIBTREU, PATRICIA ARQUETTE. GERMANIA 2013
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Will che lavora alla tv dei ragazzi lascia credere di essere morto in un incidente. Infatti è al culmine della depressione perché famiglia e amici si sono dimenticati del suo compleanno. Complice un suo amico indiano che fa ristoratore, si traveste da sikh e assiste al suo funerale, scoprendo che la moglie prova un certo interesse per lui e che tutti lo trovano molto più piacevole di Will. Garbarski è il regista di Irina Palm. e Quartier lontain. A PROPOSITO DI DAVIS DI ETHAN E JOEL COEN, CON OSCAR ISAAC, CARREY MULLIGAN. USA FRANCIA 2013
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Stregato dal fantasma di Bob Dylan (un ebreo del Minnesota come Joel e Ethan Coen) il film è anche uno dei lavori più dolci, meno graffianti dei due fratelli. I Coen rivisitano la scena folk del Village newyorkese anni sessanta, pre- Dylan, quando piccolo gruppi e musicisti
SINTONIE solitari, nei caffè tra Washington Square e Houston Street, comunicavano tra di loro a forza di vecchie canzoni, un esoterico linguaggio segreto ancora impenetrabile per i talent scout delle case discografiche che entro pochissimo avrebbero scoperto, oltre a Dylan, future star del genere, come Peter Paul and Mary e Phil Ochs. Odissea tristissimo/comica (tipico mix dei Coen) di Llewyn, e di un gatto rosso dei suoi ospiti che deve accudire per sbaglio quando entrambi rimangono chiusi fuori dall'appartamento. Llewyn è afflitto da una sfortuna cosmica. Ma è anche scontroso, sardonico. La conflittualità naturale del personaggio si ammobidiscono quando Llewyn canta (alcune delle canzoni più famose di Rank). (g.d.v.)
sostituisce un'anonima eleganza digitale del design. Padilha, insomma, ha penetrato a fondo i sotto-testi di Verhoeven. Meno la sua estetica profondamente medievale. Clamoroso assente, il sangue che nel capostipite scorreva a fiumi. (g.a.n.)
DALLAS BUYERS CLUB
I SEGRETI DI OSAGE COUNTY
DI JEAN-MARC VALLÉE, CON MATTHEW MCCONAUGHEY, GRIFFIN DUNNE. USA 2013
DI JOHN WELLS. CON MERYLL STREEP, JULIA ROBERTS. USA 2013
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Scritto da Tracy Letts, una figura importante della scena statunitense, drammaturgo, attore, ha ricevuto il Premio Pulitzer per questo dramma nel 2008. Per questo film le interpreti femminili sono candidate all’Oscar: il che qui si traduce in una recitazione debordante, in cui ogni dettaglio narrativo appare come un inevitabile stereotipo. La Streep tocca ogni corda di donna odiosa, la figlia, Roberts, è il suo specchio. Tutto il film si piega di fronte a questa «Recitazione». (c.pi.)
Ron Woodroof è il più implausibile crociato della guerra contro l'Aids che si possa immaginare. E, portando sullo schermo la fantastica storia vera di questo elettricista di Dallas diventato imprenditore del traffico di medicine illegali contro l'Aids per salvarsi la pelle, Matthew McConaughey non ha intenzione di dargli delle scusanti: il suo Ron è un redneck orrendo, litigioso, misogino, omofobo. Dallas Buyers Club ha il suo fascino nell'immediatezza del racconto, che il regista francocanadese rende con orecchio sensibile alle cadenze dolci e crudeli del Texas, un occhio paziente e una mise-en-scene generosamente disadorna. È anche un film sorprendentemente divertente. (g.d.v.) LA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONE, CON VALERIO MASTANDREA, BASSIROU BALDE. ITALIA 2013
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Opera civile, politica e felicemente sbilenca, irrisolta, eppure audace, coraggiosa, spudorata nella propria voglia di sbattere la testa contro il muro di tutto quanto la società civile nasconde sotto il tappetto della falsa coscienza, delle buone maniere, dell'impegno di facciata. Film d'urgenza rara. Valerio Mastandrea è un maestro che insegna l'italiano a una classe di studenti «extra-comunitari» rendendosi conto della propria lotta vana. Gli studenti s'aggrappano a lui come a uno dei pochi barlumi di umanità di un paese che, invece non ne vuol sapere niente di loro. Gaglianone non si fa illusioni, e mostra, letteralmente, le contraddizioni di chi interviene con il cinema nel reale. Film potente, scabro, severo e dolente. (g.a.n.) ROBOCOP DI JOSÉ PADILHA, CON JOEL KINNAMAN, GARY OLDMAN. USA 2014 1Meno violenza e sangue e un intro geniale: robot combattenti che si aggirano inquieti per le strade di Tehran. Ritroviamo José Padilha, il regista di Tropa de elite 1 e 2, a Hollywood e alle prese con un remake di quelli scomodi. Premesso che il RoboCop di Paul Verhoeven è irraggiungibile, Padilha è (più o meno) l'esegeta della forza usata contro la gente delle favelas, non dovrebbe stupire più di tanto che ci si avvicina al nuovo RoboCop con una certa prudenza. Invece si disimpegna con notevole acume strategico. Tutto il sotto-testo satirico e polemico dell'originale verhoeveniano è sviluppato e adattato alla nuova situazione politica statunitense. Ciò che cambia sostanzialmente è l'estetica della macchina RoboCop. Alla ferraglia di Verhoeven, che a suo modo presagiva le contaminazioni fra ciò che restava dell'era industriale e i primi vagiti cyberpunk, ampliamento in direzione cronenberghiana della riflessione sulla nuova carne sviluppata dal New Horror ottantesco, si
A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON ANTONELLO CATACCHIO, ARIANNA DI GENOVA, GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, GIONA A. NAZZARO, CRISTINA PICCINO
IL FILM ALL IS LOST DI J.C. CHANDOR, CON ROBERT REDFORD. USA 2013
SANGUE DI E CON PIPPO DELBONO, MARGERITA DELBONO, GIOVANNI SENZANI. ITALIA 2013
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Mentre all’Argentina va in scena Orchidee ultimo spettacolo
teatrale del regista esce anche questo film che con lo spettacolo teatrale ha non pochi punti di contatto, uno dei più audaci realizzati da un cineasta italiano degli ultimi anni: è senz’altro nuova la sua ossessione per le forme in grado di scompaginare l’esistnte. Filma ad altezza di occhi, si sogna e progetta come estensione del suo dispositivo leggerissimo e fluido Cercarlo nei tamburini di Roma, Milano, Napoli, Bologna. (g.a.n.)
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THE UNKNOWN KNOWN DI ERROL MORRIS. DOCUMENTARIO. USA 2013
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Il confronto con l'ex-segretario della Difesa americano Rumsfeld, il fabbricante primario del teorema della guerra in Iraq si gioca sul filo (tagliente) della parola, e dei suoi significati; un piano duplice, che non è solo quello di «verità» e «menzogna», punta invece alla tattiche del potere. Riflessione sull'America, la sua politica culturale, sviluppata nelle logiche del potere, con al centro uno dei suoi protagonisti più terribilmente influenti. Non c'è nulla che glorifichi Rumsfeld, o che gli fornisca un minimo appiglio di calore nella messinscena gelida e essenziale di Morris. (c.pi.) THE WOLF OF WALL STREET DI MARTIN SCORSESE, CON LEONARDO DICAPRIO, MATTHEW MCCONAUGHEY. USA 2013
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Dopo Gangs of New York, Scorsese si è sottoposto a una penitenza autoinflitta in funzione dell'ottenimento di una rispettabilità hollywoodiana per la quale ha sacrificato hybris e visionarietà. Se si esclude parzialmente The Aviator, c'è ben poco che valga davvero la pena di salvare nell'intervallo che da Gangs s'estende sino a Hugo Cabret. Scorsese ruggisce con tutto l'orgoglio di cui è capace. Un film che sembra riallacciarsi direttamente a Casinò e condurne a compimento il surreale cubismo formale, probabilmente la punta più avanzata del modernismo hollywoodiano. Nel portare sullo schermo l'autobiografia di Jordan Belfort, broker senza scrupoli, al cui confronto Gordon Gekko è un idealista frankcapriano, Scorsese è come inebriato dalla rinnovata fiducia nel suo furore creativo. La collaborazione con DiCaprio gira a pieno regime. I due si spalleggiano a vicenda. Leonardo Di Caprio balla con la macchina da presa come Gene Kelly con Cyd Charisse. La sovrumana potenza visionaria di Scorsese risuona in ogni stacco di montaggio, in ogni movimento di macchina. (g.a.n.)
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COPPIE UMANE E VOLATILI TOUS LES MÊMES Belgio, 2014, 3’37”, musica: Stromae, regia: Henry Scholfied, fonte: Vevo
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Il musicista di Bruxelles (ma nativo del Ruanda) si sdoppia fisicamente – grazie al make up – in due metà, una maschile e una femminile per interpretare questa canzone sui rapporti tra uomini e donne. Nella prima inquadratura lo vediamo svegliarsi nel letto tra due partner di sesso diverso, per poi passare da un ambiente e da una situazione all’altra, spesso senza cambio di scena ma solamente con una variazione di luce (azzurrina quando mostra la sua metà maschile e rosa quando recita in quella femminile). Ben congegnati sia la scenografia che la fotografia e il montaggio, oltre agli immancabili momenti coreografici che trasformano Tous les memes in un musical ricco di trovate, che gioca con grande ironia sugli stereotipi legati alla relazione di coppia. LIBERI Italia, 2014, 3’38”, musica: Tiromancino, regia: Marco Pavone, fonte: Vevo
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Nasce come sempre da un’idea di Zampaglione questo clip di animazione firmato da Marco Pavone – già autore di altri video e del lungometraggio Zero Zero. Un uccellino maschio libera dalla sua gabbia un uccellino femmina e, insieme, volano per un’unica grande città che, di volta in volta, assume contorni diversi (da Parigi a Londra fino a una metropoli araba). A differenza degli altri esperimenti animati di Tiromancino, ben più complessi e in 3-D (Per me è importante o Imparare dal vento), qui viene adottata la tecnica del 2-D su un disegno ben più stilizzato, ma soprattutto la narrazione è davvero minima e allude metaforicamente – lo si capisce da alcuni versi della canzone – alla vicenda autobiografica di Zampaglione e della sua compagna, l’attrice Claudia Gerini. Il risultato non è eccelso e sfiora un po’ la retorica, ma Liberi si lascia comunque guardare. SCHEMING Usa, 2000, 3’43”, musica: Maxim, regia: Barnaby & Scott, fonte: Youtube
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Interamente realizzato con fotografie digitali animate o elaborate in truka in modo da renderle tridimensionali, questo Scheming presenta una struttura vagamente da thriller erotico: mentre alcuni uomini giocano a poker, nella stanza da letto due donne fanno l’amore; contemporaneamente in bagno un’altra donna si infila alcune carte da gioco negli slip, raggiungendo poi al tavolo il suo compagno e consentendogli di chiudere una scala reale. Un clip dallo stile particolarmente iperrealista che ricorda certi quadri fotorealisti.
MAGICO
Diretto da un regista lanciato dal Sundance, solo interprete e sempre muto (se non per le parole affidate a una lettera d'addio, e di scuse, all'inizio del film, e per un'imprecazione, alla fine) Redford è un navigatore solitario, a circa 1700 chilometri dalle coste di Sumatra. Sta riposando quando viene svegliato da un colpo e scopre che la sua barca a vela si è schiantata non contro un iceberg come il Titanic ma contro un container pieno di scarpe da ginnastica made in China, abbandonato a se stesso. Nei successivi cento minuti di film vediamo i gesti metodici, esperti e pazienti, con cui il protagonista cerca di rimanere in vita - arginare la falla che si è aperta sul fianco della barca e lo ha lasciato senza strumenti di comunicazione. Quando, raggiunta finalmente una rotta internazionale, enormi navi cargo gli passano di fianco, lui - solo in mezzo al mare - è troppo piccolo per essere visto. Solo quello che è a misura d'uomo può salvarci dall'estinzione, è il messaggio di questo curioso, intensissimo film un manuale di sopravvivenza pratico/politico con un tocco di performance art. E, con Gravity, il secondo grande film dell'anno «in solitaria». Ci riporta ancora prima degli anni settanta, la recitazione di Redford, asciutta, austera, fatta di dettaglio -omaggio a un «tipo» di uomo americano taciturno, riservato, che si associa alla Frontiera, ma anche a una fenomenologia dell'attore molto meno estroversa, appariscente, di quella contemporanea. (g.d.v.)
IL FESTIVAL RIVER TO RIVER IN MILAN MILANO, SPAZIO OBERDAN, VIALE VITTORIO VENETO 2, 14-16 FEBBRAIO
Un evento per presentare i vincitori del River to River festival diretto da Selvaggia Velo che ha avuto luogo a Firenze a novembre (ed è stato a Roma dal 29 novembre al 1 dicembre) e per festeggiare San Valentino alla musica di Bollywood Mujra style dance della scuola Rajpur Maharani (che tiene corsi a Milano e Palermo) nella serata di apertura. I quattro titoli in rassegna: il film più votato dal pubblico, The Coffin Maker, una partita a scacchi con la morte e un ex falegname, Tamaash le avventure del piccolo Kashmiro, quindi il documentario sull’introduzione dell’energia solare nelle aree del sud No problem! six months with barefoot grandmamas, che descrive il progetto del Barefoot College nel Rajasthan che insegna alle donne analfabete di tutto il mondo come portare l’elettricità nei villaggi. Lesson in Forgetting ispirato al libro di Anita Nair vincitore del 60˚ festival del cinema indiano, sulle donne che lottano per difendere i propri diritti. Per completare il programma Lunchbox, opera prima di Ritesh Batra, il film indiano presentato alla Semaine de la Critique a Cannes.
L’ATTORE PINO COLIZZI ROMA, ECAMPUS, VIA DEL TRITONE 169 10 FEBBRAIO
All’università eCampus, come quarto ciclo di un cineclub invernale, si presenta alle ore 18.30 il libro di Pino Colizzi Per voce sola (ed Le Mani) e per l’occasione, a seguire, ci sarà la proiezione di Fine dell’intervista, di Stefano Roncoroni, un film del ’94, al tempo di Tangentopoli, dove l’attore interpreta un Presidente del Consiglio costretto a ritirarsi. Pino Colizzi diventato popolare con gli sceneggiati televisivi come Tom Jones, o Anna Karenina di Sandro Bolchi dove fu chiamato a interpretare Vronskji, ha lavorato per Zeffirelli, Cottafavi, Mauro Bolognini, Ponzi, è stato per il pubblico italiano «la voce» di Gary Cooper, Alain Delon, Jack Nicholson, Omar Sharif, Michael Douglas e tanti altri. Nel libro Per voce sola appunti di scena di un prefessionista outsider si racconta in profondità, senza tralasciare il mondo artistico circostante, tra autocoscienza e ironia, con la complice collaborazione della giornalista e scrittrice Laura De Luca (anche autrice di alcuni disegni che ritraggono l’artista). Interverranno alla presentazione anche Ernesto G. Laura (autore nel libro di una presentazione) e Italo Moscati
LA MONTAGNA RASSEGNA DEI FILM DI MONTAGNA BIADENE DI MONTEBELLUNA (TV), VILLA CORRER PISANI, 8 FEBBRAIO
Sabato 8 febbraio a conclusione della 33a edizione ultimo appuntamento della Rassegna Film di Montagna, molto in sintonia con le Olimpiadi di Sochi, con due importanti film dell'archivio del festival. L’appuntamento a ingresso gratuito è presso Villa Correr Pisani - Biadene di Montebelluna (Treviso). La Rassegna è organizzata dal Cai di Montebelluna in collaborazione con il Trento Film Festival. Presentati nelle passate edizioni del Trento Film Festival, entrambi i film sono di registi italiani. Il dritto e il rovescio di Alberto Sciamplicotti segue i pensieri di Giorgio Daidola (foto), precursore dello ski-touring,arra i vari momenti di una vita, gli amori e lo sci sulle montagne più belle della terra, usando l'antica tecnica del telemark (prima di allora risultava molto difficile girare o frenare). Il film di Sciamplicotti, sarà seguito da Carnia Monte Rosa di Giampaolo Penco, dove si ritrovano a confronto tre generazioni, Sylvain Saudan (classe ’36, «lo sciatore dell’impossibile»), Luciano De Crignis (classe ’68, specialista delle discipline tecniche) e la giovane guida Fabio Iacchini (in questo momento sta scalando l’Aconcagua, nelle Ande, a a 6962 metri).
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ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
Brani che in pochi istanti raccontano vicende indimenticabili. Ideali per Hollywood o per l’ultima delizia indipendente. Tra ragazze che fuggono da casa, uomini dal nome insolito e famiglie disperate STORIE ■ CANZONI CHE SEMBRANO FATTE APPOSTA PER IL GRANDE SCHERMO
Dieci piccoli film, se la sceneggiatura è rock di GUIDO MICHELONE
Può una canzone raccontare una storia completa nel tempo e nello spazio dei tre minuti di un singolo? A volte sì, se supera il format, ponendosi come l’eccezione dentro la regola, più o meno ferrea e tacita, della moderna song all’americana che da Tin Pan Alley si trasferisce via via nel rock’n’roll lungo il Novecento (e oltre): dunque il testo del brano non verrà concepito più in senso lirico, accostabile con i necessari distinguo, alla struttura e alla logica della poesia classica, dove prevalgono emotività, frammento, concisione, stato d’animo; le parole di una musica pensata come una sceneggiatura cinematografica tenderanno invece a dilatarsi narrativamente, a organizzarsi in sequenze con un inizio, uno sviluppo e un epilogo, mettendo in campo uno o diversi personaggi. Questo modello affabulatorio - più vicino alla brevità del racconto che all’eloquenza del romanzo - non è storicamente appannaggio della sola pop music, essendo un retaggio archetipo presente fin dall’epoca medievale (i menestrelli antenati dei folksinger contemporanei e dei cantastorie popolari) o ancor prima nell’antichità, benché la scomparsa di qualsiasi traccia di musica greca e romana, privi della conoscenza delle istanze performative ad esempio dei poemi omerici, forse i maggiori kolossal in musica nella civiltà umana. Detto questo, fra le molte canzoni realizzate quasi come uno
JOHNNY CASH, «A BOY NAMED SUE», 1969 Il personaggio di Johnny Cash, narratore country assurto a «vecchio saggio» sin dagli anni Settanta, si presta naturalmente a canzoni pensate come autentiche novelle, dalla ballata ispirata alle tradizioni yankee (Legend of John Henry's Hammer) al bozzetto umoristico (One Piece at a Time). Nel caso di A Boy Named Sue si tratta quasi di una saga epica. Grazie al vivace ritmo country’n’western e soprattutto ai testi di Shel Silverstein, tra intensità e spiritosaggine, Cash racconta la vicenda di un padre disgraziato che abbandona la moglie con il figlio di soli tre anni, rimasto traumatizzato dal nome femminile Sue impostogli dal genitore, forse ubriaco al momento del battesimo. Giura vendetta, insegue il papà per tutta l’America finché lo ritrova, anziano e malandato, in un saloon: come in un western scatta il momento del duello; i due si sparano, si prendono a pugni e a coltellate, finché il vecchio svela di averlo chiamato apposta Sue perché la vergogna per tale nome lo rendesse forte e duro. Alla fine la riconciliazione non fa cambiare idea al ragazzo: se mai avrà un bambino, si chiamerà Bill o George e mai e poi mai Sue.
storyboard, dieci sembrano corrispondere a seducenti richiami della grande cinematografia, sul piano stilistico: c’è ad esempio il genere western che ammalia soprattutto i cantautori a stelle e strisce forse per contiguità (e continuità) storico-intellettuale: Johnny Cash e Kenny Rogers paiono vicini al «vecchio» Far West di John Ford, mentre Bob Dylan è il pendant del «nuovo» iniziato con Sergio Leone negli anni Sessanta. E proprio i Sixties sono i più «saccheggiati» nel novero dei film da cui, più o meno direttamente, è ispirata la cosiddetta story-song: totale empatia infatti tra Arlo Guthrie e il cinema indipendente (Dennis Hopper, Robert Altman, John Cassavetes), mentre le band inglesi paiono propense a interiorizzare l’autorialità registica europea: i Beatles con il free cinema britannico (Tony Richardson, Karel Reisz, Lindsay Anderson), il solo John Lennon prossimo alla nouvelle vague francese del Jean-Luc Godard più ideologizzato; i Kinks «postmoderni» guardano invece alla nuova British Renaissance (c’è in loro qualcosa dei Monty Python) con un pizzico di revival e nostalgia dal trend neo-hollywoodiano. Tornando agli States i Temptations sono vicini al sottogenere blaxpoitation (Gordon Parks, Melvin Van Pleebes); l’Elvis «sessantottino» è invece accostabile ai drammi sul razzismo della classica Hollywood, così come Eminem sembra rifarsi agli atti d’accusa contro lo star system (una pellicola come È nata una stella più volte remake) non senza un briciolo di dramma onirico contemporanea.
THE TEMPTATIONS, «PAPA WASA ROLLIN'STONE»,1972
EMINEM E DIDO, «STAN», 2000 Sospeso tra divertente e tragico, il brano del rapper viene «sceneggiato» per lo più sotto forma di una serie di missive che un suo giovane fan continua a indirizzargli senza capire perché il proprio idolo non gli telefoni né risponda alle sue lettere, anche se gli lascia, per sicurezza, i numeri di cellulare, fisso e cercapersone. Una voce femminile, a mo’ di ritornello, per tre volte accenna a problemi esistenziali, mentre è Stan il protagonista a disperarsi, mostrandosi tanto ridicolo quanto miserabile: la sua vita, per come la descrive, è veramente terribile ed è triste pensare che stia consumando ogni energia nel tentativo di raggiungere una celebrità che lo ignora. Eppure è facile sorriderne, poiché Stan va sopra le righe nei presupposti e nelle richieste messe per iscritto. Le risatine però finiscono quando il personaggio disperato chiude la fidanzata incinta nel bagagliaio dell’automobile, per guidare poi, completamente ubriaco, a rotto di collo fino a buttarsi giù da un ponte: troppo tardi per lui per essere raggiunto dalla calorosa, dettagliata e sorprendentemente profonda lettera di risposta da parte di Eminem. Quest’ultimo sembra suggerire che le celebrità a volte non sanno se essere lusingate o inorridite dai loro fan più accaniti.
KENNY ROGERS, «COWARDOFTHECOUNTY»,1979 Nel periodo di massimo splendore, Kenny Rogers indossa anch’egli i panni del vecchio saggio della country music, che inventa sceneggiature edificanti: però, rispetto all’amico/collega/rivale Johnny Cash, evita ironia e divertissement a favore di una narrazione decisamente tragica, come ad esempio in The Gambler, in Lucille e nella francamente orripilante Coward of the County, dalla quale viene poi tratto un telefilm con lo stesso Rogers in un ruolo chiave. Il protagonista è Tommy, detto Giallo o «codardo della contea», un giovane mite, perché sta mantenendo la promessa cristiana, al padre ergastolano morente, di porgere sempre l’altra guancia. Tuttavia, quando i tre fratelli Gatlin gli violentano la fidanzata Becky (di cui è follemente innamorato) non ci vede più: li aspetta nel saloon e li ammazza tutti e tre, in fondo nel tipico stile vendicativo nordamericano - per mostrare a se stesso, al padre in cielo e soprattutto alla gente che lo chiama «coward», che codardo non è.
Dopo l’abbandono di David Ruffin, voce solista di questo gruppo doo-wop, il produttore della Motown Norman Whitfield è alla ricerca di una nuova immagine per la band. Con le radici ben solide nel classico r’n’b dell’etichetta di Detroit, ma guardando al nuovo, ossia alla combine hippy, freak e funk di Sly and The Family Stone, Whitfield lavora quindi con i Temptations per trasformarli in un ensemble di soul psichedelico politicamente impegnato. A rappresentare la svolta viene scelta Papa Was a Rollin’ Stone, un taglio netto rispetto alle precedenti hit. Proprio per questa scelta nascono tensioni e malumori, al punto che alla fine i Tempts non vorranno più Whitfield come producer. Il pezzo, che dura ben dodici minuti nella versione per le discoteche, narra di due bambini
ARLO GUTHRIE, «ALICE'S RESTAURANT», 1967 Non tanto un racconto-canzone quanto piuttosto una vicenda multistrato, condita da frammenti di folk song, si impone soprattutto quale ironica saga pacifista di un Arlo Guthrie (figlio d’arte, il padre è il celebre Woody, incarnazione della protesta in musica) quasi ipnotico nei meandri di uno stile volutamente sciatto, beffardo, disinvolto (tipicamente americano). Infatti Guthrie inizia dicendo: «Questa canzone si chiama Alice’s Restaurant, e si parla di Alice, e del ristorante, ma ’Alice’s Restaurant’ non è il nome del ristorante, che è solo il nome della canzone, ed è per questo che ho chiamato la canzone Alice’s Restaurant ”. Il tipo di sonorità, circolare, a ripetizione, grazie anche alla tecnica chitarristica del finger picking, con una serie
che chiedono notizie del padre alla loro mamma, la quale è costretta a rispondere che il loro genitore è morto la terza settimana di settembre dopo un’esistenza borderline, a cui lei stessa non vuole credere. La donna racconta ai figli che in giro la gente dice che l’uomo era un vagabondo, beone, disoccupato, sciupafemmine, indebitato fino al collo, perciò costretto a elemosinare per pagare i creditori. La leggenda vuole che il nuovo cantante Dennis Edwards si rifiuti di cantare il primo verso perché suo padre sarebbe morto nello stesso periodo (in realtà era mancato a ottobre); molto più prosaicamente il vocalist si arrabbia con il produttore sulla tonalità da eseguire e per le lunghe parti strumentali nell’arrangiamento, a danno del virtuosismo corale del gruppo.
THE KINKS, «COME DANCING», 1982 Il ritorno alla grande dei Kinks gruppo beat della prima ora in grado di autorigenerarsi quanto i Beatles e i Rolling Stones e, in alcuni pezzi, di anticipare persino il trend hard rock - avviene con un singolo dall’album State of
quasi infinita di giochi linguistici e doppi sensi, porta la canzone a durare ben 20 minuti. La satira pungente contro la leva obbligatoria per il conflitto in Vietnam è sceneggiata con una vicenda autentica (un po’ esagerata per aumentarne il grado ironico) nel Giorno del Ringraziamento, quando Alice Brock, proprietario del ristorante, arrestato dall’agente Obie, viene processato per scarico illegale di immondizia da casa sua (una chiesetta sconsacrata di Great Barrington nel Massachusetts), nonostante la discarica comunale inoperosa per la festività; a causa del «crimine» che risulta sulla fedina penale, Alice successivamente è dichiarato non abile per il servizio militare, e non può andare in guerra. Dalla ballata, nel 1969, è tratto l’altrettanto celebre omonimo lungometraggio di Arthur Penn, con lo stesso Arlo nei panni del protagonista e il vero poliziotto in quelli di se stesso.
ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
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BOB DYLAN, «LILY, ROSEMARY, AND THE JACK OF HEARTS», 1975
Confusion; il pezzo musicalmente rétro jazzato, tra lo swing e il calypso, proietta il quartetto dopo molto tempo nelle classifiche sia inglesi sia americane, anche grazie al testo autobiografico del geniale leader e cantante Ray Davies. La canzone mette in scena una fetta di storia inglese: protagonista è il dancing Palais, dove, nel dopoguerra, suonano le big band: trasformato ora in parcheggio e in bowling, agli occhi del piccolo Davies (voce narrante) è il «luogo di culto» dove la sorella maggiore si trova con le amiche a ballare, divertirsi, flirtare con i primi ragazzi (peraltro in maniera assai castigata), lasciando mamma e fratello in apprensione sull’ora del ritorno a casa. Gli anni passano e ora è la sorella, diventata adulta a preoccuparsi, da madre ansiosa, delle virtù delle proprie figlie. Ma il fratello la invita a tornare con la memoria al romanticismo innocente dei vecchi tempi e la esorta a ballare di nuovo, anche solo per mostrare a una nuova generazione il modo giusto di comportarsi. In tal senso il finale ricorda Do You Remember Walter? (1965) precedente hit dei Kinks: altra piccola sceneggiatura in cui Davies, rivedendo il compagno di scuola ormai grasso e sposato, afferma saggiamente: «le persone possono cambiare, ma i ricordi delle persone restano».
Nel suo immenso songbook, il menestrello di Duluth è forse il più sceneggiatore di tutti, un «maestro» in chiave lirico-narrativa dal miscuglio surrealista di Bob Dylan's 115th Dream alle complesse tessiture fin dal titolo di Lonesome Death of Hattie Carroll, dove peraltro è difficilissimo individuare una sola storia. Ma uno dei suoi più ghiotti racconti si ascolta nell’album Blood on the Tracks: si tratta di un western con un affascinante ladrone che arriva in città e ha la meglio sul malvagio Big Jim (proprietario di una miniera di diamanti), con l'aiuto della showgirl Lily e della casalinga Rosemary, rispettivamente amante e moglie del ricco cattivo. L’andamento cinematografico del brano sarebbe potenzialmente un grande film nelle mani di registi come il classico Howard Hawks o il moderno Sam Peckinpah, tra l’altro amico di Dylan (che per lui recita in Pat Garrett & Billy The Kid): e non a caso il geniale Bob all’epoca tenterà invano di proporne il soggetto a Hollywood. La carta del fante di cuore del titolo, infine, è una metafora per indicare l’aplomb del protagonista.
BEATLES, «SHE’S LEAVING HOME», 1967 I Fab Four non sono storyteller: solo da separati ambiscono talvolta a comporre brevi sceneggiature per la forma-canzone. Fa eccezione la sesta (o penultima del lato A) song del capolavoro Sgt. Pepper, che resta comunque l’album più narrativo (e psichedelico) dei Beatles. Il modo in cui Paul
McCartney inventa il pezzo è assolutamente singolare, giacché trae spunto da un fatto di cronaca che legge poche ore prima su un quotidiano popolare: si tratta infatti del Daily Mirror in cui viene esposta la strana vicenda della diciassettenne londinese Melanie Coe: nella realtà la ragazza scappa di casa di
pomeriggio (e non alle cinque di mattina, come nelle prime strofe beatlesiane) mentre i genitori sono al lavoro, con il fidanzato croupier, ma c’è un lieto fine, dato che viene ritrovata dalla polizia a dieci giorni dalla fuga, contrariamente alla protagonista del brano, in un finale apertissimo. La lirica è punteggiata da pungenti frasi di rimprovero, che si ispirano sia ai veri rimbrotti della zia Mimi a John Lennon, sia alle frasi del padre della ragazza riportate sul giornale, con il gusto del collage da pop-art. Pur bellissima (anche sul piano musicale), per alcuni critici inglesi è meno cinematografica di pezzi come Eleanor Rigby o For No One dal precedente Revolver.
ELVIS PRESLEY, «IN THE GHETTO», 1969 Il «Sessantotto» arriva anche per The Pelvis, dopo anni di filmacci e prima dell’autocelebrazione lasvegasiana: forse è la canzone, a livello di testo, più impegnata del suo intero repertorio, come pure quella con più soul benché non sfrutti al massimo la forma sonora black. Resta un «classico» ancora attuale per il tema svolto (con un po’ di retorica). In un quartiere nero non specificato di Chicago, nasce un «povero bambino, piccolo bimbo» da una madre che non può occuparsi di un'altra bocca da sfamare. Crescendo povero e affamato, diventa anche rabbioso e disperato, giungendo a rappresentare una tragedia umana che l’autore/paroliere Mac Davis indica come inevitabile. La canzone, più volte rieseguita (anche nel reality American Idol), non va è certo per il sottile quando delinea i personaggi. Malferma anche quando Presley canta che «la gente non capisce», che «il bambino ha bisogno di una mano altrimenti diverrà presto un giovane arrabbiato». Insomma risulta troppo enfatica; funziona comunque a livello di sceneggiatura soprattutto nel finale quando il «nigger» si ritrova faccia a terra sulla strada, con la pistola di uno sbirro puntata alla testa, dopo il furto di un’auto.
JOHN LENNON, «WORKING CLASS HERO», 1970 Con e senza i Beatles, lo sfortunato cantante/chitarrista opta per una vena fortemente autobiografica nei testi interpretati sempre con disperata (e talvolta autoironica) passione. Benché attratto dal cinema nei panni di attore (l’antimilitarista Come vinsi la guerra di Dick Lester) o di regista (i corti sperimentali assieme a Yoko Ono), Lennon non scrive brani come sceneggiature con un’unica straordinaria eccezione, che, sin dal clima «folk ballad» (solo voce e acustica), s’ispira al primo Bob Dylan. In apparenza il testo inscena la vicenda di
normale cittadino che nasce e vive tra la «classe lavoratrice» (il proletariato in senso marxista), rendendosi presto conto dell'insensibilit à provocata dai condizioname nti di una società borghese in cui solo il «conformarsi» è remunerativo. Per la voce narrante l’idea di libertà assoluta e di un sistema interclassista è una falsa mitologia che viene concepita e calata dall’alto per oscurare la fondamentale mancanza di controllo sulle vite umane da parte dei singoli. Alla stessa stregua, i media, la religione, la sessualità commercializzata e le droghe (legali e non), cospirano tutte per smorzare il desiderio della persona di autentico cambiamento sociale. La tesi di Lennon di un’attualità sconcertante, che anticipa fenomeni post-ideologici reazionari come la Thatcher, Reagan e Berlusconi, è che si possa venire controllati (e manipolati) con estrema facilità perché alla fine ciascuno permette che all’immaginazione vengano tarpate le ali.
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ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
RITMI di U_NET
FALSO BOWIE di FRANCESCO ADINOLFI Ha fatto il giro della rete e continua a girare. È un classico esempio di «fake», di falso, che però suona in maniera magistrale. Come quegli errori che alla fine risultano irresistibilmente creativi. La storia in questione riguarda i Joy Division e il
loro pezzo più noto: Love Will Tear Us apart. Stavolta non l’originale ma nell’interpretazione di un presunto David Bowie. Su YouTube un anonimo ha postato il video del pezzo aggiungendo una presunta dichiarazione di Bernard Sumner (chitarrista e tastierista della band): «(Io, Peter Hook e David Bowie, ci incontrammo per caso a Salford, Manchester, nell’83). Tra birre e
risate ci siamo ritrovati tutti e tre in studio; scherzavamo molto e ci siamo detti che dovevamo fare una cosa insieme. Il giorno dopo Bowie è tornato e abbiamo provato Love Will Tear Us apart. Incredibile, cantava con noi! Il pezzo non è mai uscito. David si è portato via la canzone e me l’ha rimandata con il suo cantato». Un orecchio attento capisce che non è Bowie ma ci va molto vicino, con una
Trent’anni fa l’artista debuttava con «It’s Yours», primo singolo della Def Jam e primo pezzo ad intercettare segni e linguaggi di strada
NEW YORK
È un pomeriggio di settembre nel quartiere di Washington Heights ad Harlem. Nell’appartamento al primo piano di un project identico a quelli che caratterizzano diversi isolati in quest’area si trova uno studio di registrazione con diversi campionatori, drum machine e tastiere che appartengono a un tempo lontano. Il tutto appare come rivestito da una patina che conferisce all'insieme un sapore vintage, se non fosse per il bagliore di un computer di ultima generazione. Intorno le pareti sono stracolme di foto, una sorta di galleria di momenti «storici» della carriera di un rapper di successo. L’abbigliamento, le capigliature, i gioielli in quelle foto rimandano esplicitamente agli anni Ottanta. E proprio su come saranno raccontati quegli anni e quelle esperienze - in un film sulla sua vita con LL Cool J come attore protagonista - è impegnato l’Mc che con il suo primo singolo ha impresso una nuova direzione all’hip hop. Parliamo di It’s Yours e di T La Rock, disco di cui si celebra il trentesimo anniversario. Dalla produzione musicale allo stile caratteristico nel rappare, T La Rock ha influenzato, con le sue idee e attitudine, una generazione di Mc. Purtroppo la brillante carriera dell’artista del Bronx fu interrotta a causa di un grave incidente nel 1994 mentre cercava di sedare una rissa davanti alla casa del fratello nel Bronx. Riemerso nel nuovo secolo, T La Rock è di nuovo sulla scena… ●In quale zona di New York City sei cresciuto e quali sono state le tue prime ispirazioni a livello musicale? Sono nato a Manhattan e mi sono trasferito nel Bronx quando avevo circa 8 anni. Sono stato introdotto alla musica sin da giovane poiché mio padre ascoltava molto funk e soul e così diventai a mia volta un grande appassionato e collezionista di funk. Il primo dj che vidi suonare fu Kool Herc. C’erano molti dj locali (Dj Blackjack, Dj Whitehead) ma Herc aveva la personalità che spiccava. Lui mi spinse a fare il dj all’inizio della mia carriera mentre la mia successiva passione per il rap
moderati arabi
derivava più che dall’abilità linguistica dei primi rapper da quelle di personalità come Muhammad Alì o dell’attore bianco Danny Kay che sapeva giocare con le parole con ritmo. ●Quali sono state le tue prime esperienze con la cultura che in quei giorni stava nascendo nel Bronx? Vivevo nella zona ovest del Bronx, vicino a una scuola media inferiore chiamata PS 82, non lontano da Sedgwick Avenue. Vivevo al centro della zona dove si svolsero le prime feste di Herc. Alla Stevenson High School ho incontrato diversi membri della Zulu Nation e dei Zulu Kings. Ho iniziato a praticare il bboying davvero presto. All’intervallo delle lezioni ci sfidavamo sempre. Uno dei primi soci che ho avuto come bboy fu Dj Breakout, del gruppo dei Funky Four. Parlando dei Funky Four, uno dei miei amici d’infanzia era Keith Keith, rapper di quel gruppo.
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Il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione Africana, riunito ad Addis Abeba, ha reso pubblica la dichiarazione dei capi di Stato e di Governo del continente: «la decolonizzazione del Sahara Occidentale è tra le nostre priorità». (www.arso.org)
ANNIVERSARI ■ LA COLLABORAZIONE CON RICK RUBIN E JAZZY JAY
T La Rock, assalto rap ●E così come molti tuoi coetanei sei passato dalla breakdance ai piatti? Quali erano i tuoi break preferiti? Ho ancora la mia collezione di break beat sebbene sia ora difficile per me ricordare il nome della canzone o di un gruppo. Ma voglio esser sincero con te: non te li direi comunque! Ecco come ho fatto ad avere sempre tanti break e sempre diversi dagli altri, semplicemente non rivelando i miei segreti. Provengo da un’era in cui se avevo un break nuovo facevo di tutto per strapparne l’etichetta o per nascondere quel titolo, non mi bastava coprirla. Molti dj dell’epoca si ritroveranno di sicuro nelle mie parole. Dopo anni riprendendo quei dischi, capita che non ricordi nemmeno che pezzi fossero. ●Quando ha formato il tuo primo gruppo? Ci chiamavamo The Undefeated 4, un gruppo di giovani molto versatili capaci sia ai piatti, sia con le parole. C’era molta gente intorno alla nostra crew come mio fratello Special K e molti altri. Sono stato io a introdurlo al mondo dei rapper, era più giovane e cercava di imitare tutto ciò che facevo. Sono entrato nella scena hip hop all’inizio degli
anni Settanta e ho iniziato a rappare prima di molti pionieri. Le mie prime performance sono state nelle feste nei parchi. Ho fatto show anche in qualche club ma gli house party erano quelli che andavano per la maggiore data la grande abbondanza di appartamenti e case abbandonate nel Bronx di quegli anni. ●Quale fu la tua reazione ascoltando per la prima volta «Rapper’s Delight»? Rapper’s Delight non era il tipico pezzo hip hop a cui eravamo abituati, sembrava più un pezzo disco, per questo fui felice quando ebbe successo e divenne mainstream. A molti non piaceva perché non suonava hip hop; dal mio punto di vista, invece, questo elemento avrebbe garantito l’apertura di nuove possibilità per tutta la scena. ●Come sei riuscito a incidere invece il tuo primo disco, «It's Yours»? Quando mio fratello Special K mi propose di incidere un disco… a dirla tutta non è che fossi particolarmente convinto, lavoravo in una farmacia e guadagnavo bene, in più facevo a tempo perso il
ne dimenticai immediatamente; il giorno successivo ero al lavoro come al solito. All’inizio fu in rotazione nei programmi notturni poi un giorno, mentre ero al lavoro il conduttore alla radio annunciava il disco più richiesto della giornata, ero convinto che stesse parlando dei Run Dmc o di qualche celebrità quando all’improvviso pronunciò il mio nome. It’s Yours fu suonato in tutte le radio e divenne un vero successo. Era il primo disco rap realizzato in quella modalità, un beat potente, qualche scratch e un contenuto intelligente e positivo per gli ascoltatori. È importante ricordare come il mio fosse il primo disco rap ad avere una reale rotazione radiofonica nonostante rappresentasse la vera essenza della strada: un rapper, l’interazione con il suo pubblico e un dj che fa scratch. Avevo vinto alla lotteria! ●A proposito della produzione, che mi dici di quei bassi? Eravamo tutti in studio e io continuavo a urlare che avevamo bisogno di più bassi e li spigemmo così tanto che i monitor in studio erano come impazziti. Ne uscì un beat crudo da bboy.
dj e l’Mc nelle feste. Fu lui, che aveva già avuto esperienze professionali con il suo gruppo, i Threacherous 3, a convincermi a incidere quel disco. Mi aveva parlato di un certo Rick Rubin che voleva produrre un disco. K non poteva perché era già sotto contratto. Registrai It’s Yours e me
●E che dire dei rapporti con Rubin e la nascente Def Jam? Rick Rubin è sempre stato molto disponibile con me. A parte i giorni in studio, l’ho sempre incontrato saltuariamente mentre Jazzy Jay faceva il mio dj durante il tour. Gli scratch sul disco erano i suoi. Il successo di It’s Yours è durato oltre un anno dopodiché sono tornato a lavorare con il mio dj di sempre, Dj Louie Lou per la Fresh Records. Facemmo un ep con tre canzoni. Anche quell’ep fu un successo e attirò l’attenzione di Mantronix. L’intero album Lyrical King è stato prodotto da Louie Lou e dal sottoscritto con Mantronix al mixaggio. Con quell’album ho iniziato a viaggiare oltreoceano e ad avere un richiamo internazionale.
ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
profondità baritonale che lascia a bocca aperta. Nel frattempo sul suo Twitter Peter Hook, il bassista, si è affrettato a dichiarare che si tratta di un falso. Love Will Tear Us apart, una delle poche canzoni in cui Ian Curtis (foto) suona la chitarra, è stato il primo pezzo della band ad arrivare in classifica. Si vede qui: http://www.youtube.com/watch?v=BV oZhTP-GOQ
INDIE ROCK
Immersioni in fondo al garage Per gli Acquaintances si può parlare a ragion veduta di supergruppo, giacché nella band militano membri e ex di The Ponys, Don Caballero, Thumbnail, The Poison Arrows e Ted Leo & The Pharmacists. E proprio dall'amicizia di Chris Wilson (Pharmacists) e Justin Sinkovich (Poison Arrows) è nata e si è sviluppata l'idea di dare forma a qualcosa di diverso dalle loro formazioni. Portando così all'unione (a distanza) di cinque ottimi musicisti e dando vita a un disco, omonimo (Epitonic), di garage rock dalle venature space. Più sanguigni i Cheatahs, band con base a Londra ma i cui membri giungono, oltre che dall'Inghilterra, anche dal Canada, dagli States e dalla Germania. Di loro avevamo parlato in occasione di un buon ep, di cui alcuni brani troviamo anche in questo esordio dal titolo omonimo (Wichita/Coop/Self). Garage, post punk e una sana immersione nel rock ('n'roll), per un ottimo debut album. Chiudiamo con un veterano dell'alt rock, l'ex leader dei Pavement, Stephen Malkmus che con i i suoi Jigs dimostra che la classe non è acqua e rilascia un album, Wigout at Jagbags (Matador/Self), davvero di buon livello. (Roberto Peciola)
ULTRASUONATI DA STEFANO CRIPPA GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE GUIDO MICHELONE ROBERTO PECIOLA
AZIZA BRAHIM SOUTAK (Glitterbeat) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Oltre Mariem Hassan per la cultura musicale saharawi, c'è Aziza Brahim. Che licenzia nove brani a sua firma, dove le melodie e il canto caratteristici della sua terra subiscono una coloritura a tratti mediterranea, a tratti pop. Certo i testi narrano sempre del dramma del suo popolo. Ma Aziza cerca con convinzione una propria strada, per caratterizzarsi ed emergere. Non è facile con un calibro come la Hassan a precederla. Eppur ci prova. Flessuosa e morbida la sua musica, può entrarvi dentro. Noi vi segnaliamo la melodica Gdeim Izik e la scabra ma affascinante Aradana. (g.di.) BROKEN BELLS AFTER THE DISCO (Sony) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Seconda prova per il duo nato dalla collaborazione tra Brian Burton (alias Danger Mouse) e il leader degli Shins James Mercer, sempre più indirizzato verso un deciso omaggio agli anni Ottanta. Undici tracce undici di puro pop con qualche picco geniale Perfect World non sfigurerebbe tra i classici dei Duran Duran - e soprattutto una cura maniacale nella ricerca dei suoni. Bello. (s.cr.) AYMAN FANOUS/JASON KAO HWANG ZILZAL (Innova/Acf) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Questo due newyorkese esiste dagli anni Novanta e nel tempo sviluppa una libera improvvisazione evocativa, tenendo conto sia di molteplici sollecitazioni uditive (l’Asia, i Balcani, il Maghreb) sia delle peculiarità vocali degli strumenti impiegati: le rispettive origini egiziane e cinesi di Fanous (chitarra e bouzouki) e di Hwang (violino e viola) consentono a entrambi di richiamare alla memoria suoni arcaici in nove brani estemporanei con un fitto dialogo in cui s’alternano esuberanza e complessità, tra semplice candore e poetica sensualità. (g.mic.) HAWKWIND SPACEHAWKS (Eastworld) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Passano i decenni, e loro sono sempre lì, a predicare il verbo di uno space rock che dovrebbe essere solo polvere della memoria, e invece risorge a intervalli ciclici. I maestri restano loro, la compagnia siderale del Capitan Brock. Questo è uno strano disco: in parte riprende, in nuove versioni, materiale dagli ultimi dischi del gruppo e dei «solo» (ma perché?), in parte offre nuove, eccellenti composizioni. Fra derive acide e frullii da b-movie fantascientifici, una certezza, come sempre. (g.fe.)
ON THE ROAD
ART ROCK
Alla ricerca dell’Europa
Il mercato dei dischi va come va. Tanto vale, allora, fare le cose per bene, confezionando oggetti pregevoli che siano pure belli da vedere e maneggiare: è un buon ragionamento, lo praticano molte teste creative. Tra le quali quella di Claudio Milano, vocalist da sempre attento a ricerca, improvvisazione, collaborazioni a tutto campo con chiunque abbia in uggia i confini tra i generi. Art rock di vaglia, in sostanza, e senza le derive di certo neoprogressive. Milano ha raccolto in un cofanetto numerato della Lizard due doppi e distinti cd con libretti a parte. Un labirinto sonoro in cui perdersi. Il primo è L'enfant et le ménure, di InSonar, dedicato al potere dell'immaginazione infantile. Partecipano 62 musicisti, cover eccellenti e citazioni da Gounod, David Bowie, Tim Buckley e via citando. Il secondo progetto è per i gloriosi NichelOdeon, Bath Salts. Qui gli ospiti sono 32, e si parla di rapporti interpersonali, di fantasmi e di guerre. Sperimentazione vocale e strumentale eccellente anche con The Cave (Silta): Marilena Paradisi alla voce, Ivan Macera a percussioni ataviche, flauti e altro. (Guido Festinese)
Gli Zen Circus in Canzoni contro la natura (La Tempesta) perfezionano il loro folk rock battagliero, tra pezzi da «baldoria sotto il palco» (Viva), e ballate di pregio (Albero di tiglio). Sono pochi gli autori capaci di narrare la realtà che li (ci) circonda con la lucidità e l'ironia di Appino. Nei testi prevalgono il disincanto di una generazione («Alzate l'Imu tanto io non avrò mai una casa»), la rabbia e la frustrazione dinanzi all'Italia di oggi. Affiora anche una vena ecologista. Ma nessuno spiraglio di luce o parola confortante perché, diceva Monicelli, la speranza è «una trappola». Sempre di classe, i dischi dei Massimo Volume. Non fa eccezione il tagliente Aspettando i barbari (La Tempesta). Nuova la presenza dell'elettronica, mentre i testi di Clementi sono polaroid di persone comuni (La notte) e non (Vic Chesnutt). Ipnotico La cena. Alleanza post industrial tra Teho Teardo e Blixa Bargeld (Einstürzende Neubauten), che fondono i loro talenti in Still Smiling (Specula Records), album uscito da mesi e riscoperto in seguito alla meritata targa per «miglior disco indipendente dell'anno» al Pimi 2013. Emozionante. (Jessica Dainese)
La cosa che accomuna i tre dischi di cui ci accingiamo a parlare, oltre alla matrice europea, si può ritrovare nella ricerca sonora. Seppur lontani anni luce, c'è però qualcosa che unisce ad esempio il duo tedesco Nebelung di Palingenesis (Temple of Torturous) e gli inglesi British Sea Power di From the Sea to the Land Beyond (Rough Trade/Self). Un modo di concepire la musica in maniera rilassata, lasciando spazio a melodie aperte e a sonorità mai soverchianti. Nei primi la matrice teutonica si sente, eccome, attraverso brani neo folk in cui a fare la parte del leone sono strumenti acustici, in primis la chitarra classica. I secondi invece hanno sonorizzato un film documentario della regista angloargentina Penny Woolcock, anche se la riuscita non è esattamente di gran livello, e resta a metà tra una soundtrack e un album vero e proprio, e i brani danno una sensazione di incompiutezza. Il migliore dei tre arriva dalla nostra penisola, con i Junkfood di The Cold Summer of the Dead (Trovarobato/Audioglobe). Un disco, in presa diretta che spazia dal post rock al prog, con non poche derive nel jazz e nella sperimentazione. (Brian Morden)
RAPHAEL MIND VS HEART (Irievibrations/Self) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ È proprio vero che i frutti migliori arrivano dagli incroci e dal meticciato. Raphael, italo nigeriano con l'aspetto da rasta e Marley nel cuore è una presenza ben consolidata nel panorama reggae nostrano. Ora arriva questo progetto in solo, e risplende e affascina il suo classico roots reggae proficuamente velato di r'n'b, di hip hop, di accenni ragamuffin'. Gran voce, grande scelta di linee melodiche catchy che non si levano dalla testa. (g.fe.)
TOY JOIN THE DOTS (Heavenly/Pias-Coop/Self) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ La band inglese ha deciso di battere il ferro finché è caldo, e non ci ha messo molto a rientrare in studio, dopo una fortunata tournée seguita all'uscita dell'altrettanto fortunato album d'esordio, omonimo. E fanno ancora centro. Il post punk flirta con lo space e il krautrock, e il tutto si tiene insieme grazie a una vena melodica assolutamente british. Si viaggia psichedelicamente per le galassie come in preda a un innocuo acido. (r.pe.)
XIU XIU ANGEL GUTS: RED CLASSROOM (Polyvinyl) ❚ ❚ ❚ ❚ ❚ Jamie Stewart è e resta uno dei personaggi più visionari del panorama alternative internazionale. I suoi dischi sono ostici, a volte quasi volutamente sgradevoli. Suoni saturi e voce devastata che lacera parole poco accomodanti. Si parla di sesso estremo, di suicidi e via dicendpo anche in questo Angel Guts, che prende spunto da un film erotico giapponese del 1975. Poche chitarre e spazio a drum machine e synth analogici. Deviante. (r.pe.)
A CURA DI ROBERTO PECIOLA CON LUIGI ONORI ■ SEGNALAZIONI:
[email protected] ■ EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ
Genova VENERDI' 14 FEBBRAIO (GARAGE
Funeral Suits
1517)
L'indie rock della band irlandese. Milano MARTEDI' 11 FEBBRAIO (ROCKET) Roma MERCOLEDI' 12 FEBBRAIO (CIRCOLO
Arriva in Italia il Bowie fiammingo. Roma MARTEDI' 11 FEBBRAIO (CIRCOLO DEGLI ARTISTI) Milano MERCOLEDI' 12 FEBBRAIO (LA SALUMERIA DELLA MUSICA)
Ulver Il progetto di Stian Westerhus dei Jaga Jazzist. Mezzago (Mb) SABATO 15 FEBBRAIO (BLOOM)
Beady Eye La nuova band di Liam Gallagher, ex vocalist degli Oasis. Trezzo d'Adda (Mi) SABATO 15 FEBBRAIO (LIVE)
Kelley Stoltz Il cantante e autore residente a San Francisco, tra Brian Wilson e Leonard Cohen. Varese MERCOLEDI' 12 FEBBRAIO (TWIGGY) Bologna GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (FREAKOUT)
INDIE ROCK/2
La generazione del disincanto
La brava cantante/autrice di Jacksonville (Florida) in tour. Torino MARTEDI' 11 FEBBRAIO (BLAH BLAH) Madonna dell'Albero (Ra)
Ozark Henry
INDIE ITALIA
InSonar, potere immaginario
Shannon Wright
MERCOLEDI' 12 FEBBRAIO (BRONSON) Firenze GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (TENDER) Roma VENERDI' 14 FEBBRAIO (CIRCOLO DEGLI ARTISTI) Varazze (Sv) SABATO 15 FEBBRAIO (RAIN DOGS)
(11)
Breton Il collettivo arty londinese in Italia. Roma GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (LANIFICIO 159) Bologna VENERDI' 14 FEBBRAIO (COVO) Segrate (Mi) SABATO 15 FEBBRAIO (MAGNOLIA)
Girls Names La band nordirlandese fa il pieno di indie rock. Torino LUNEDI' 10 FEBBRAIO (BLAH BLAH) Genova MARTEDI' 11 FEBBRAIO (GARAGE
DEGLI ARTISTI)
Torre del Greco (Na) GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (JAH BLESS RELOAD)
Conegliano Veneto (Tv) VENERDI' 14 FEBBRAIO (APARTAMENTO HOFFMAN) Carpi (Mo) SABATO 15 FEBBRAIO (MATTATOIO)
Bombino Il desert blues del chitarrista tuareg. Trieste MERCOLEDI' 12 FEBBRAIO (TEATRO
loro nuovo album prodotto dalla Parco della Musica Records, Napoli con amore. Roma GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA)
Enrico Pieranunzi Songbook Il pianista romano si esibisce con Simona Severini, Paolino Dalla Porta ed Enzo Zirilli. Sarà anche a Piacenza e Milano. Firenze SABATO 15 FEBBRAIO (PINOCCHIO)
The Freexielanders
1517)
MIELA)
Modena MERCOLEDI' 12 FEBBRAIO (OFF) Savignano sul Rubicone (Fc)
(LOCOMOTIV)
GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (SIDRO)
Colle Val d'Elsa (Si) VENERDI'
Bullet for My Valentine
14 FEBBRAIO (SONAR)
Musiche degli anni Trenta arrangiate tra free e jazz delle origini per un organico guidato da Eugenio Colombo. Nell’ottetto Giancarlo Schiaffini, Francesco Lo Cascio e Alberto Popolla. Roma DOMENICA 9 FEBBRAIO (BAFFO
Torino SABATO 15 FEBBRAIO (HIROSHIMA
DELLA GIOCONDA, ORE 18.30)
Una promessa del nuovo panorama heavy metal inglese. Milano GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (ALCATRAZ)
Mafalda Arnauth
Robben Ford
PARCO DELLA MUSICA)
Per gli amanti della chitarra... Torna con un nuovo album, A Day in Nashville. Bergamo MARTEDI' 11 FEBBRAIO (DRUSO CIRCUS)
Fontaneto d'Agogna (No) MERCOLEDI' 13 FEBBRAIO (PHENOMENON) Conegliano Veneto (Tv) GIOVEDI' 13 FEBBRAIO (TEATRO ACCADEMIA) Casalmaggiore (Cr) VENERDI' 14 FEBBRAIO (TEATRO ZENITH)
Bologna GIOVEDI' 13 FEBBRAIO
MON AMOUR)
Una delle più interessanti fadiste. Roma SABATO 15 FEBBRAIO (AUDITORIUM
Marlene Kuntz Torna dal vivo la rock band piemontese, con l’album Nella tua luce. Perugia SABATO 8 FEBBRAIO (AFTERLIFE) Bologna SABATO 15 FEBBRAIO (ESTRAGON)
Alexanderplatz La «cave» romana ospita Ada Montellanico (presenta un album-omaggio ad Abbey Lincoln), il quartetto di Joe De Vecchis, la Old & New Things Orchestra di Michele Iannaccone, il chitarrista Fabio Mariani, Pietro Lussu, Stefano Sabatini, il trio di Greg Burk con Tiziana Ghiglioni ospite. Roma DA SABATO 8 A MARTEDI' 11 FEBBRAIO
propone la Banditaliana di Riccardo Tesi; nel settetto al piano Alessandro Lanzoni, miglior nuovo talento italiano per la rivista Musica Jazz. Firenze SABATO 8 FEBBRAIO (SALA VANNI)
Metastasio Jazz Inizia la parte concertistica della rassegna pratese (XIX edizione) con l’Open Combo della contrabbassista Silvia Bolognesi (P. Bittolo Bon, C. Arcelli, R. Emili, T. Cattano, P. Mirra, A. Melani, S. Padovani). Prato LUNEDI' 10 FEBBRAIO (TEATRO FABBRICONE)
Casa del Jazz Continua la programmazione della struttura capitolina con le Invenzioni a due voci (Pino Saulo e Gianni Lenoci), il trio di Stefano Battaglia (con S. Maiore e R. Dani) che presenta l’album Songways, il terzo incontro di Vincenzo Martorella sul jazz italiano Da Nunzio Rotondo a Mario Schiano, dagli anni ’60 agli anni ‘80. Roma DOMENICA 9 VENERDI' 14 E SABATO 15 FEBBRAIO (CASA DEL JAZZ; ORE 12 E 21)
Atelier Musicale
Gino Paoli & Danilo Rea
Musicus Concentus
Il consueto appuntamento pomeridiano vede gli Incroci sonori tessuti da Pietro Tonolo, Sonig Tchakerian e Paolo Birro. Conduce il musicologo Maurizio Franco. Milano SABATO 15 FEBBRAIO (AUDITORIUM
Il cantautore e il pianista presentano il
La stagione fiorentina dei concerti
G. DI VITTORIO),
(ALEXANDERPLATZ)
LA SCATOLA DEI RICORDI Torna Adam Gibbons, alias Lack Of Afro, tra i maggiori produttori/remixer/dj britannici; ha già tre album alle spalle e un quarto è in arrivo il tre marzo: Music For Adverts (Freestyle FSRCD 103). Il disco è anticipato dal singolo Recipe for Love, spettacolare botta northern soul con Jack Tyson-Charles alla voce, presente anche in altri pezzi dell'album. È un insolito caso di connubio perfetto tra ritmi soul alternativi, feticistici, di genere e un flirt con la melodia tipico delle grandi classifiche. In breve: un John Newman underground. Sulla stessa linea altri pezzi dell’album come la travolgente Brown Sugar (alla voce il rapper Herbal T) o lo strumentale The Contender; vellutata e elegante The Gypsy o On the Road (dedicata a Kerouac), entrambe con Jack Tyson-Charles alla voce. Lack Of Afro, 34 anni, polistrumentista, è uno «scavatore del funk», un divoratore di schegge soul e di vecchi break percussivi che riesegue «manualmente» - suona batteria, tastiere, basso, chitarra, sax - e da cui si lascia ispirare per costruire da zero nuovi pezzi. Nato ad Exeter, nel sud est dell’Inghilterra, Adam vive a Londra dove ha lavorato come tecnico audio di Sky. Il nome Lack Of Afro (letteralmente «mancanza di cose africane») risale, invece, ai tempi dell’università quando «un amico mi disse che ci volevano un po’ più di rimandi all’Africa nei miei pezzi». Ma soprattutto Lack Of Afro è ancora l’artista come lo immaginiamo. In quello stato di grazia artistica post adolescenziale - e di basso profilo discografico - in cui tutto è aperto e possibile, in cui ogni prova/disco/remix è spinto da un’euforia e da un’urgenza inarrestabili. Lo provano i colpi assestati con le produzioni e remix di Extra Curricular, Cuban Brothers, New Mastersounds, Diplomats of Solid Sound, Nicole Willis ecc. L'intervista di chi scrive con Adam, nel 2007, fu rivelatoria. Apriva a un soul retrò con forti aperture contemporanee. Il nuovo album continua su quella strada. A proposito di campionamenti Lack Of Afro avrebbe sicuramente apprezzato se si fosse trovato al centro dell'Archive, il magazzino centrale dell'Hard Rock Cafe Warehouse a Orlando, Florida. In rete riaffiora un filmato girato lì dentro da Jeff Krulik. Dinanzi alla cinepresa va in scena la chitarra Kramer 5150 assemblata manualmente da Eddie Van Halen, una 12 corde di Jimmy Page, vestiti di Elvis, Lou Reed e cento altri; e ancora: toys (dai Beatles alla bambola di Diana Ross del '69, oggi su eBay a 472 dollari), un'intera sala dedicata a manifesti di concerti e poster vari, un’altra stanza per incorniciare e impacchettare i materiali (poi inviati a Dallas, per un'ulteriore catalogazione). Il filmato risale al '94, anno dell'apertura del ristorante di Copenhagen a cui molti dei materiali esposti erano destinati. Qui: http://www.youtube.com/watch?v=8Tor4 lwo5JE
ALIAS 8 FEBBRAIO 2014
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FUMETTI
REVIVAL
BARAGHINI GIRO DI VITA Qualche sera fa al Blutopia a via del Pigneto si è svolta una serata particolare in omaggio a Victor Cavallo organizzata da Marcello Baraghini che per l’occasione aveva portato le rimanenze di Ecchime antologia sinfonia di Victor Cavallo pubblicata da Stampa Alternativa gennaio 2003. Dopo una sua introduzione, gli interventi di Simone Carella e Tamara Triffez, le letture di Patrizia Bettini e mie, si sono esibiti, in un pezzo tratto da un mix di testi di Vittorio, Claudio Orlandi col gruppo Pane, e sono stati proiettati spezzoni di filmati dei suoi spettacoli Cavalli di Battaglia, Summer Rolls, rimontati da Paolo Grassini. Una bellissima serata, il locale strapieno, emozione, tuffo al cuore. «...era il giugno del 1963 e io scendevo con una maglietta gialla/lungo il viale della garbatella/questa passeggiatella che mi taglia il cuore non ha bisogno di chiamarsi storia/solo che quel viale non finisce più e io sono un pezzetto d’ombra dentro un seno/il peso di una foglia dentro un dormitorio d’immondizia...». Parlo per telefono con Marcello Baraghini è un fiume in piena, un vero irriducibile, i libri di Victor li ha venduti a cinque euro, e chi non li aveva ha avuto il libro comunque «per non perdere la memoria, per non dimenticare, perché dalle librerie rimandano indietro le rese dopo un mese, la merce per la mente viene trattata molto peggio della merce per lo stomaco, dopo quello per Cavallo ho intenzione di fare altri incontri per ricordare Massimo Urbani e Stefano Tamburini, altri due volumi appassionanti, liberiamo la creatività dalle galere culturali, rivendichiamo spazi di libertà, espelliamo bellezza, io me ne sto qui, a Pitigliano, Roma mi angoscia, a riscrivere le regole dell’editoria che è stata distrutta ma che proprio da qui deve ripartire con edizioni online gratuitamente scaricabili con edizioni cartacee prenotate anticipatamente da chi vuole, eliminando così il 70% del costo del libro che è dato dall’intermediazione». Il combattente Baraghini non demorde, del resto le regole dell’editoria le ha già riscritte una volta con l’invenzione delle ed. Millelire. «A settembre ci sarà la XIII edizione del festival internazionale di letteratura resistente a Pitigliano, sto lanciando la collana 41bis edizioni Strade bianche, storie scritte dall’interno del carcere, c’è un pastore sardo che era anafalbeta che in galera s’è impadronito della scrittura, è fortissimo, tagliente, secondo me un grande scrittore» dice ancora colui che, unico, in Italia accettò il rischio di pubblicare la prima parte de L’arte della gioia di Goliarda Sapienza. Quando insieme a Paola Febbraro, che ha curato l’edizione di Ecchime, scoprimmo che Cavallo aveva pensato di pubblicare proprio con Stampa Alternativa ci mettemmo alla ricerca del mitico editore Baraghini e, guidati dallo spirito di Cavallo, che ha continuato a dare invisibili ma precise e inequivocabili indicazioni, è nato il libro. Del resto era evidente che Victor che ha scritto la bellissima poesia A immaginare una vita ce ne vuole un’altra volesse essere pubblicato da uno che di vite deve averne immaginate parecchie.
PUNK IS UNDEAD ■ LA SERIE DI PAOLO BARON ED ERNESTO CARBONETTI
di GIANCARLO MANCINI
●●●Dei revival c’è sempre da avere paura, bene o male si gioca con gioie, dolori, ricordi seppelliti da una membrana assai sottile, forse troppo per poter esser infranta con leggerezza. Dei revival rock però nessuno sembra da tanto tempo non solo non avere paura, ma neanche avere bisogno, eppure continuano incessanti le riproposizioni di vecchie grandi band o star del passato, a volte anche mescolate tra di loro in improbabili dream team che durano lo spazio di qualche settimana e di effimere tournée. A quei pochi denari, maledetti e subito, pensa anche i due scalcinati protagonisti di Punk is Undead (80144, pp. 64, euro 7), la serie a fumetti ideata e scritta da Paolo Baron e disegnata da Ernesto Carbonetti. Uno si chiama Billy Sheik, è un ex batterista di scarso successo, e assieme al suo socio altrettanto in cattive condizioni Robbie Charles, si affidano nientemeno che ad una sorta di biologo molto messo male per dare un nuovo senso alla propria casa discografica. I suoi legami con uno stregone haitiano molto accreditato in quanto a dialogo con i morti lo spingono ad rassicurare Billy e Robbie sul buon esito dell’operazione che gli hanno chiesto: riportare in vita tre mammasantissima dell’iconografia rock. Ovvero Jim Morrison, Jimi Hendrix e Jaco Pastorius. I tre tornano in vita direttamente con gli abiti con cui generazioni di appassionati di musica sono abituati a vederli, Morrison con i pantaloni di pelle in omaggio alla sua dionisiaca ebbrezza, Hendrix con una giacca nera tutta aperta e Pastorius con il suo colorato berretto. Il sogno di ogni appassionato di musica rock, cioè quel-
Il rock è morto? Avanzano tre zombi stonatissimi lo di passare dalla para-necrofilia alla realtà e quindi di poter parlare e addirittura ascoltare live quello che questi mostri sacri hanno o vogliono suonare sembra coronato. Ma ovviamente c’è un inconveniente. I tre non hanno un grande aspetto, hanno occhi bianchissimi, non proferiscono parola e restano in modo inquietante immobili. Il fatto è che il sangue del biologo che ormai si è fatto qualsiasi tipo di droga a contatto con l’intruglio preparato per resuscitare i morti ha prodotto un effetto, per così dire indesiderato. I due impresari sono però troppo golosi per farsi spaventare e li lanciano lo stesso in una prima prova da studio. Manca solo una batteria ma a quella ci pensa Robbie. La sorpresa è deflagrante, i tre giganti dell’età aurea del rock non ricordano praticamente nulla della propria leggendaria gamma performativa. Dalle casse acustiche escono suoni tremendi, intollerabili per l’orecchio umano, non solo non sono musica ma disgustano i pochi astanti curiosi di vedere quel
curioso gruppo appena allestito. Sono dei veri e propri rottami. A questo punto il revival sarebbe già bell’e finito se non fosse, da qui anche il gioco di parole derivato dal titolo, che i tre sono ora dei veri e propri non morti, ovvero degli zombie. E come tali hanno fame di carne fresca ed umana. E non basterà chiamare la
Riportare in vita Jim Morrison, Jimi Hendrix e Jaco Pastorius e vederli trasformare in ostinati morti viventi
truccatrice dei Rolling Stones che è l’unica, evidentemente, ad intendersi davvero di mummie, risolvere la faccenda, truccarli un po’ e farli sembrare vivi per qualche fugace apparizione prima di seppellirli una volta per tutte. Finisce anche lei tra le grinfie del trio di ex divi del palcoscenico con le sue sinuose forme appetitosissime per le loro fauci inesauste di non morti. Questa ulteriore declinazione dell’universo zombie in chiave rock è suggestiva nello spunto narrativo ma certo nell’epoca di Walking Dead non può non risultare eccessivamente stereotipato nella definizione dei caratteri questo primo episodio. Oramai anche chi non è abituato a fronteggiare le piroette dell’immaginario contemporaneo a cavallo dei nuovi media (cinema, animazione, fumetti, videogame) sa che l’universo zombie è uno dei terreni su cui si può innestare sia un discorso politico sia una liberissima scorribanda tra le onde del passato. In grado di destrutturare ad esempio la trama narrativa e rientrare, da una parte che non ci si aspettava, nella realtà contemporanea, per vederne, da un’angolazione decisamente inusuale, le storture. Ecco allora che lo sguardo zombie è una risorsa a disposizione con tutte le soluzione combinatorie che i tanti antenati mettono a disposizione, per creare reticoli narrativi interessanti, sia sul fronte politico che su quello fantastico. Qui si è scelto di restare alla marea seventies che ha travolto la musica, il cinema e quant’altro è stato possibile. Di osservarla e parodiarla, usando gli zombie non come sguardo ma come pretesto per rimettere le mani su quei miti del passato che non vogliono proprio smetterla di morire per davvero. E se il rock è morto loro sono davvero sempre pronti a ritornare in vita. Ad un certo punto, nelle vesti di giustizieri arrivano anche dei motociclisti con tanto di elmetti tedeschi in testa, pronti a confrontarsi con Morrison, Hendrix e Pastorius che cercano in tutti i modi di fuggire dalle segrete dove sono stati rinchiusi per non nuocere. L’ironia di certo non manca in questo primo episodio di Punk is Undead. E l’inevitabile evoluzione splatter della trama porta direttamente a Londra il secondo episodio, altra mecca della storia del rock, altro santuario dove riandare a vedere. Anche lì ci sono altri cadaveri del pantheon del rock da resuscitare. Occorre solo stare molto attenti a quello che accade dopo.
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