UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI DIRITTO PRIVATO E DEL LAVORO, ITALIANO E COMPARATO
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PRIVATO COMPARATO E DIRITTO PRIVATO DELL’UE
CICLO XXV
PRATICHE COMMERCIALI SLEALI E DILIGENZA PROFESSIONALE: PROFILI COMPARATISITICI E DIRITTO EUROPEO
TUTOR
DOTTORANDO
Chiar.mo Prof. Raffaele Torino
Dott. Luca Luchetti
COORDINATORE Chiar.mo Prof. Ermanno Calzolaio
ANNO 2012
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“Consumers, by definition, include us all. They are the largest economic group, affecting and affected by almost every public and private economic decision. Yet they are the only important group... whose views are often not heard” John F. Kennedy
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PRATICHE COMMERCIALI SLEALI E DILIGENZA PROFESSIONALE: PROFILI COMPARATISITICI E DIRITTO EUROPEO Indice INTRODUZIONE........................................................................................................................6
CAPITOLO I FAIR TRADING E TUTELA DEI CONSUMATORI EUROPEI 1.
LA DIRETTIVA 2005/29/CE: RATIO E SCOPI DELLA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI .......................................................................................................12
2.
L’OBIETTIVO DELL’ARMONIZZAZIONE COMPLETA DELLE LEGISLAZIONI DEI SINGOLI STATI MEMBRI ...................................................................................................................14
3.
LE PRATICHE COMMERCIALI NEL DIRITTO EUROPEO: UNA NOZIONE (ANCORA) DELIMITATA ......................................................................................................................18 3.1. IL
“PROFESSIONISTA”: COLUI CHE DEVE AGIRE CON DILIGENZA PROFESSIONALE .......................................................................................................25
3.2. IL “CONSUMATORE”: UNA PERSONA FISICA NORMALMENTE INFORMATA E RAGIONEVOLMENTE AVVEDUTA ............................................................................28 4.
LA CONDOTTA DEL PROFESSIONISTA TRA CONCORRENZA E PRATICHE COMMERCIALI32
5.
L’ATTUAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI NEGLI STATI MEMBRI ...................................................................................................................35 5.1. L’ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA IN ITALIA ........................................................40 5.2. L’ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA IN INGHILTERRA ............................................49
6.
LA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI: UN’ARMONIZZAZIONE (FORSE NON) “PIENA”? .................................................................................................................56
CAPITOLO II PROFILI DI SLEALTA’ DI UNA PRATICA COMMERCIALE 3
NEL DIRITTO EUROPEO E NELLE LEGISLAZIONI NAZIONALI 1.
LA SLEALTÀ DI UNA PRATICA COMMERCIALE ................................................................63
2.
RUOLO E FUNZIONE DELLA CLAUSOLA GENERALE DI CUI ALL’ART. 5 DELLA DIRETTIVA .........................................................................................................................66 2.1. IL CONTENUTO DELLA CLAUSOLA GENERALE: UN ARTIFICIOSO COMPROMESSO72
3.
IL RAPPORTO FRA CLAUSOLA GENERALE E LE DISPOSIZIONI DI DETTAGLIO .................78 3.1. LE PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI .........................................................80 3.2. LE OMISSIONI INGANNEVOLI ..................................................................................85 3.3. LE PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI IN OGNI CASO SLEALI .....................88 3.4. LE PRATICHE COMMERCIALI AGGRESSIVE .............................................................91 3.5. LE PRATICHE COMMERCIALI AGGRESSIVE IN OGNI CASO SLEALI .........................95
4.
LA SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI NEGLI STATI MEMBRI .............................98 4.1. LA SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI IN ITALIA ......................................99 4.2. LA SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI IN INGHILTERRA ........................104
5.
LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL DIVIETO DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI NEGLI STATI MEMBRI .................................................................................................................111
CAPITOLO III LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLE PRATICHE COMMERCIALI: PROFILI COMPARATISTICI E DIRITTO EUROPEO 1.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE: UNA NOZIONE AMBIGUA ..........................................120
2.
LA DILIGENZA NELLA “STORIA” ....................................................................................124
3.
LA DILIGENZA NEL SISTEMA DI CIVIL LAW: L’ESPERIENZA ITALIANA .........................130
4.
LA DILIGENZA NEL SISTEMA DI COMMON LAW: L’ESPERIENZA INGLESE ....................136
5.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL DIRITTO EUROPEO ..............................................144
6.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLE LEGISLAZIONI DEGLI STATI MEMBRI: ESPERIENZE A CONFRONTO ............................................................................................155 4
CAPITOLO IV LA CONCRETIZZAZIONE DEL CANONE DELLA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLE PRATICHE COMMERCIALI: VERSO IL RITORNO DEGLI ORDINAMENTI APERTI? 1.
LA PRATICA COMMERCIALE: DISCIPLINA DELL’ATTO O DELL’ATTIVITÀ .....................160
2.
IL GIUDIZIO DI CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE ...............................166
3.
LA CONCRETIZZAZIONE DEL CANONE DI DILIGENZA PROFESSIONALE ......................167 3.1. PRATICHE COMMERCIALI CONTRARIE ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE ........175
4.
LA CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’OSTRUZIONISMO AL PASSAGGIO AD ALTRO PROFESSIONISTA ........................................................................182
5.
LA CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’ACQUISTO DI PRODOTTI ON LINE ..................................................................................................................................183
6.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL SETTORE DEI PRODOTTI E INTEGRATORI ALIMENTARI ....................................................................................................................184
7.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’AMBITO DEI SETTORI REGOLATI .......................185 7.1. LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL SETTORE BANCARIO ..................................189 7.2. LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL MERCATO ASSICURATIVO .........................194
CONCLUSIONI .......................................................................................................................198
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................206
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INTRODUZIONE
Con la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 2005/29/Ce relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori (di seguito anche “Direttiva”1), il legislatore europeo ha inteso assicurare ai cittadiniconsumatori degli Stati membri un elevato livello di tutela contro quei comportamenti posti in essere dai professionisti in violazione dei principi di correttezza e diligenza professionale e, allo stesso tempo, ha voluto porre le basi per una disciplina uniforme del settore nel mercato interno. L’intervento normativo in questione è avvenuto in un contesto estremamente frammentato, sia a livello europeo, sia a livello di legislazioni nazionali, dove determinate pratiche commerciali erano considerate contra legem solo in una visione settoriale e/o unicamente alla luce dei rapporti tra professionisti e non anche nei rapporti
con
i
consumatori.
Tali
differenze
erano
dovute
proprio
ad
un’impostazione differente della materia tra i vari Stati membri. Le discipline nazionali sulla regolamentazione delle pratiche commerciali sleali, laddove presenti, erano, infatti, caratterizzate da differenze sostanziali che potevano
Direttiva 2005/29/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/Cee del Consiglio e le direttive 97/7/Ce, 98/27/Ce e 2002/65/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento Ce n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (direttiva “sulle pratiche commerciali sleali”), in G.U.U.E., n. L 149 dell’11 giugno 2005, p. 22 e ss. A prevedere l’adozione di una apposita regolamentazione di tale materia era stato, nell’ottobre 2001, il Libro verde sulla tutela dei consumatori nell’Unione europea presentato dalla Commissione europea (COM (2001) 531 def. e successivamente “Seguito dato al Libro Verde sulla tutela dei consumatori nell’UE” in COM (2002) 289 def.), da cui era emersa la volontà delle istituzioni europee di realizzare per tale materia una piena armonizzazione delle normative degli Stati membri, attraverso un effettivo ed efficace sviluppo della legislazione a tutela del consumatore europeo. 1
Relativamente alla disciplina delle pratiche commerciali tra imprese e consumatori, le previsioni contenute nel Libro Verde hanno poi trovato una rapida attuazione attraverso una prima proposta di direttiva della stessa Commissione “relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno” presentata il 18 giugno 2003 (COM (2003) 356 def.) che, dopo il parere favorevole del Comitato economico e sociale (pubblicato in G.U.U.E. n. C 108 del 30 aprile 2004, p. 81), è stata approvata dal Parlamento europeo con risoluzione legislativa del 20 aprile 2004 con degli emendamenti. Il Consiglio ha successivamente approvato la Posizione comune (pubblicata in G.U.U.E. n. C 38E del 15 febbraio 2005, p. 1; sulla Posizione comune del Consiglio si sono espressi poi la Commissione, con propria Comunicazione del 16 novembre 2004, in COM (2004) 753 def., e il Parlamento europeo, con risoluzione del 24 febbraio 2005) che ha portato poi l’11 maggio 2005 alla pubblicazione della Direttiva.
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provocare sensibili distorsioni della concorrenza e costituire ostacoli al buon funzionamento del mercato interno, in quanto fonte di incertezza sulle disposizioni nazionali da applicare alle condotte dei professionisti lesive degli interessi economici dei consumatori. Tali differenze non erano state superate nemmeno con l’adozione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 settembre 1984 84/450/Cee, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, dato che la medesima si era limitata a fissare criteri di armonizzazione minima della materia, non opponendosi all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che garantissero una maggiore tutela in favore del consumatore. Le incertezze in merito alle disposizioni normative applicabili avevano, per questo, reso più oneroso per le imprese l’esercizio delle libertà del mercato interno, in particolar modo per quei professionisti che intendevano effettuare attività di marketing,
campagne
pubblicitarie
e
promozioni
delle
vendite
a
livello
transfrontaliero e, allo stesso tempo, stavano compromettendo la fiducia dei cittadini-consumatori europei nelle potenzialità del mercato unico2. Per altro, anche nella disciplina delle pratiche commerciali, era stata riscontrata, altresì, la contrapposizione tra ordinamenti dell’Europa continentale e quelli di common law, caratterizzati anche essi sì dai principi generali di fair trading, ma nei quali il modello accreditato è frutto, in particolare, dell’autodisciplina. Tale frammentazione normativa aveva così, di fatto, avvantaggiato negli anni i professionisti che avevano posto in essere pratiche commerciali sleali a discapito dei consumatori europei che - dati alla mano - si sono dimostrati sfiduciati e poco propensi a sfruttare le potenzialità del mercato integrato.
Il considerando n. 4 della Direttiva 2005/29/CE prevede che “queste differenze sono fonte di incertezza per quanto concerne le disposizioni nazionali da applicare alle pratiche commerciali sleale lesive degli interessi economici dei consumatori e creano molti ostacoli sia alle imprese che ai consumatori. Questi ostacoli rendono più oneroso per le imprese l’esercizio delle libertà del mercato interno, soprattutto ove tali imprese intendano effettuare attività di marketing, campagne pubblicitarie e promozioni delle vendite transfrontaliere. Tali ostacoli causano inoltre incertezze circa i diritti di cui godono i consumatori e compromettono la fiducia di questi ultimi nel mercato interno”. 2
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Per questo, l’eliminazione delle differenze esistenti tra le diverse legislazioni nazionali e la creazione di un quadro giuridico uniforme sono apparse alle istituzioni europee le soluzioni ideali per spingere i consumatori ad acquistare beni e/o servizi offerti da professionisti aventi la propria sede in altri Stati, nonché per stimolare le stesse imprese ad offrire i propri beni e servizi ai consumatori residenti in tutti gli Stati dell’Unione europea. “Dall’armonizzazione deriverà un notevole rafforzamento della certezza del diritto sia per i consumatori sia per le imprese, che potranno contare entrambi su un unico quadro normativo fondato su nozioni giuridiche chiaramente definite che disciplinano tutti gli aspetti inerenti le pratiche commerciali sleali nell’UE. In tal modo si avrà l’eliminazione degli ostacoli derivanti dalla frammentazione delle norme sulle pratiche commerciali sleali lesive degli interessi economici dei consumatori e la realizzazione del mercato interno in questo settore” (considerando n. 12 della Direttiva 2005/29/CE). La volontà di eliminare in maniera decisa le differenze esistenti fra le varie normative nazionali di settore ha portato così il legislatore europeo a perseguire l’obiettivo di una armonizzazione “completa” della materia che dovrà portare al superamento delle clausole generali e dei principi giuridici divergenti attualmente presenti nei singoli Stati membri, con un sostanziale ritorno a quegli ordinamenti aperti che avevano caratterizzato il vecchio Continente tra il XVI e il XVIII secolo. Al fine di garantire ciò, è stato quindi imposto agli Stati membri di non adottare misure più restrittive di quelle definite dalla Direttiva medesima, neppure al fine di assicurare un livello superiore di tutela per i consumatori3. Per questo, ogni volta che una normativa nazionale dovesse prevedere misure più restrittive di quelle contemplate dalla Direttiva, le medesime si dovranno intendere in contrasto con la legislazione europea sulle pratiche commerciali sleali. Con la Direttiva, inoltre, pare evidente che il legislatore europeo abbia optato per un approccio di tipo orizzontale per riavvicinare le legislazioni degli Stati membri su tutte quelle pratiche poste in essere dal professionista, tra cui la pubblicità sleale, che ledono direttamente gli interessi economici dei consumatori, così da rafforzarne
Sentenza della Corte di Giustizia nel procedimento C-304/08 del 14 gennaio 2010, Zentrale zur Bekampfung unilatere Wettbewebers eV contro Plus Warenhandelsgesellschaft mbH, curia.europa.eu. 3
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la tutela nell’ambito del mercato interno europeo, superando gli iniziali lineamenti distinti dell’acquis europeo4. Nel preservare gli interessi economici dei consumatori da pratiche commerciali sleali, la Direttiva intende proteggere, in ogni caso, indirettamente5 anche le imprese “leali” nei confronti dei concorrenti che non rispettano le regole. Al centro della tutela vi è, quindi, la libertà di decidere scientemente e in autonomia da parte del consumatore, ossia la sua autonomia negoziale. Il legislatore europeo ha inteso, infatti, evitare che, attesa la normale asimmetria nelle posizioni sostanziali tra professionisti e consumatori, i primi possano utilizzare la propria posizione di forza per condizionare la libertà di decisione dei secondi, sia nella fase di scelta di acquisto del prodotto o servizio, sia nella fase di svolgimento del rapporto contrattuale. La disciplina prospettata tende così a ristabilire le condizioni che consentono al consumatore
medio
di
apprezzare
il
proprio
interesse
e
di
valutare
conseguentemente le decisioni da assumere in maniera non condizionata. La Direttiva contempera, così, politiche tra loro distinte: da un lato, la salvaguardia del mercato unico, inteso come uno spazio senza frontiere in cui possano essere svolte compiutamente le libertà fondamentali nel rispetto del principio della concorrenza; dall’altro, la tutela degli interessi economici dei consumatori, con l’obiettivo, neanche troppo celato di realizzare (prima o poi) un sistema unitario ed integrato di tali discipline. Il raccordo tra la politica della concorrenza e la tutela del consumatore consentirebbe, infatti, di ricomporre le distorsioni conseguenti alla disparità delle legislazioni degli Stati membri in tema di consumatori e permetterebbe di (i) rilanciare lo sviluppo degli scambi e degli investimenti transfrontalieri, (ii) “Whereas horizintal harmonisation is more restrained and approximates the laws according to a specific object of reference. This object of reference can be either (a) the trade practice, (b) the medium, (c) the product or (d) the purpose” (INSTITUT FUR EUROPAISCHES WIRTSCHAFTS – UND VERBRAUCHER- RECHT E.V. in Feasibility of a General Legislative Framework on Fair Trading, 2000, disponibile su www.europa.eu). 5 La normativa in questione lascia impregiudicate le legislazioni degli Stati membri che ledono unicamente (e quindi direttamente) gli interessi economici dei concorrenti o che siano connesse esclusivamente a un’operazione tra professionisti. 4
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incrementare il volume complessivo delle vendite, (iii) accrescere la fiducia nel mercato unico e (iv) favorire il sistema economico anche a beneficio della concorrenza. Di fatto, attraverso la normativa sulla pratiche commerciali, si sono poste le basi per un effettivo avvicinamento ed allineamento tra la politica della concorrenza e la tutela dei consumatori all’interno dello spazio comune europeo, per tendere verso uno statuto della correttezza professionale come modello delle relazioni del mercato, sia che le medesime si svolgano tra imprese (le singole normative nazionali impongono già il rispetto di tale principio nei rapporti tra professionisti), sia che il rapporto sia tra professionista e consumatore6. È, quindi, la nozione di diligenza professionale che si pone come fondamentale snodo della disciplina del mercato nell’ottica di tutela dei consumatori e di promozione della concorrenza; una nozione, però, così ampia e ancora legata, in parte, alle singole esperienze nazionali e, proprio per questo, meritevole di particolare attenzione. Tale circostanza è dovuta al fatto che la materia della concorrenza sleale, evidentemente affine per molti aspetti a quella delle pratiche commerciali, incentrata sull’omologa nozione di correttezza professionale, è riservata ancora oggi alla competenza degli Stati membri, per cui la nozione di fairness è stata definita nell’ambito delle singole tradizioni giuridiche nazionali e non ha avuto ancora un pieno ed armonioso sviluppo a livello europeo7, nonostante la volontà del legislatore di realizzare un quadro normativo unitario. Non v’è da dimenticare che il canone della diligenza professionale pone ulteriori questioni sistematiche in ragione del fatto che il divieto generale trova applicazione anche nei settori regolati. La concretizzazione di tale nozione, quindi, risente necessariamente anche del contenuto di tali previsioni. V. FALCE, Appunti in tema di disciplina comunitaria sulle pratiche commerciali sleali, in Rivista del diritto commerciale, nn. 4-5-6, 2009, p. 425. 7 Nella sentenza della Corte di Giustizia del 22 gennaio 1981, 58/80, Dansk Supermarked vs Imerco, in ECR, 1981, p. 181, viene osservato che “il diritto comunitario non ha, in linea di principio, l’effetto di impedire l’applicazione, in uno stato membro, alle merci importate da altri stati membri, delle norme in materia di commercio vigenti nello stato di importazione. Ne consegue che la distribuzione delle merci importate può essere vietata quando le condizioni in cui la loro messa in vendita viene attuata costituiscono una trasgressione degli usi commerciali ritenuti corretti e leali nello stato membro d’importazione”. 6
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Partendo, quindi, da una nozione come quella di diligenza professionale che rappresenta il canone di riferimento della condotta lecita del professionista nei confronti del consumatore, prima, durante e dopo una operazione commerciale relativa ad un prodotto, l’obiettivo della ricerca è concretizzare tale nozione al fine di individuare parametri uniformi idonei a fornire una comune interpreazione a livello europeo, così da poter eliminare gli ostacoli che si frappongono al corretto ed efficiente funzionamento del mercato interno e conseguire un elevato livello di tutela del consumatore. A tal fine, attraverso anche un’analisi comparativa, anche in chiave diacronica, si tenterà di confrontare il significato di “diligenza” prima e dopo l’emanazione della Direttiva, in particolare nell’ambito dell’ordinamento italiano ed inglese. Ciò consentirà di comprendere se rispetto alle contrapposizioni iniziali tra i vari ordinamenti, il legislatore europeo abbia dato alla nozione di “diligenza professionale” un significato, univoco e concreto, così da garantire un fairness effettivo nell’ambito degli scambi all’interno dell’Unione europea, per lo meno, quelli tra professionisti e consumatori. Dall’armonizzazione, infatti, deriverà un notevole rafforzamento della certezza del diritto sia per i consumatori sia per le imprese “che potranno contare entrambi su un unico quadro normativo fondato su nozioni giuridiche chiaramente definite che disciplinano tutti gli aspetti inerenti alle pratiche commerciali sleali nell’UE” (considerando n. 12).
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CAPITOLO I FAIR TRADING E TUTELA DEI CONSUMATORI EUROPEI 1. LA DIRETTIVA 2005/29/CE: L’OBIETTIVO PRATICHE
RATIO E SCOPI DELLA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI
DELL’ARMONIZZAZIONE COMPLETA DELLE LEGISLAZIONI DEI SINGOLI
COMMERCIALI
“PROFESSIONISTA”:
NEL
DIRITTO EUROPEO:
UNA
NOZIONE
(ANCORA)
COLUI CHE DEVE AGIRE CON DILIGENZA PROFESSIONALE
PRATICHE COMMERCIALI SLEALI NEGLI
L’ATTUAZIONE
DELLA
DIRETTIVA
STATI
MEMBRI
IN INGHILTERRA
- 6. LA
DELIMITATA
- 4. LA
- 5. L’ATTUAZIONE
- 5.1. L’ATTUAZIONE
MEMBRI
- 3. LE
- 3.1. IL
- 3.2. IL “CONSUMATORE”:
PERSONA FISICA NORMALMENTE INFORMATA E RAGIONEVOLMENTE AVVEDUTA PROFESSIONISTA TRA CONCORRENZA E PRATICHE COMMERCIALI
STATI
DELLA
- 2.
UNA
CONDOTTA DEL
DELLA DISCIPLINA DELLE
DIRETTIVA
IN ITALIA
- 5.2.
DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI:
UN’ARMONIZZAZIONE (FORSE NON) “PIENA”?
* * * 1.
LA DIRETTIVA 2005/29/CE: RATIO E SCOPI DELLA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI
Con la Direttiva 2005/29/Ce dell’11 maggio 20058, l’Unione europea si è dotata di una apposita disciplina volta a regolamentare, nell’ambito del mercato interno, le pratiche commerciali c.d. sleali tra imprese e consumatori9. Come si evince dalla stessa Direttiva, la base giuridica a fondamento della disciplina delle pratiche commerciali sleali è stata individuata nell’art. 95 del Trattato istitutivo della Comunità europea10, in quanto trattasi di una “misura relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri” volta ad instaurare e assicurare il pieno e corretto funzionamento di uno “spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci e dei servizi”, ovvero il mercato interno.
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Sulla Direttiva si veda la nota n. 1.
La Direttiva 2005 29/Ce è essenzialmente suddivisa in due parti: la prima (artt. 2-13) contiene la disciplina delle “pratiche commerciali sleali”; la seconda prevede l’introduzione di modifiche a provvedimenti in vigore, quali la direttiva 84/450/Cee in materia di pubblicità ingannevole e comparativa (art. 14), alle direttive 97/7/Ce e 2002/65/Ce in materia di contratti conclusi a distanza da professionisti con consumatori (art. 15), alla direttiva 98/27/Ce in tema di provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori e al regolamento Ce n. 2006/2004 sulla cooperazione per la tutela dei consumatori (art. 16). È evidente che la disciplina essenziale delle pratiche commerciali è contenuta nella prima parte e su di questa si concentrerà l’analisi. 10 A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, tale disposizione è stata trasposta nell’art. 114 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 9
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Il primo considerando della Direttiva specifica che tale disciplina è stata comunque introdotta nell’ambito del perseguimento degli obiettivi individuati dall’art. 153, § 1, del Trattato istitutivo della Comunità europea11 e, segnatamente, quello di “contribuire alla tutela degli interessi economici dei consumatori” così da assicurarne un elevato livello di protezione. Pur essendo dichiaratamente rivolta a tutelare gli interessi economici dei consumatori, sostenere che la disciplina delle pratiche commerciali sleali sia stata emanata nell’esclusivo interesse di questi ultimi appare, però, alquanto riduttivo e non consente di comprendere appieno la vera essenza delle disposizioni della Direttiva, considerato che l’obiettivo principale della medesima resta la realizzazione del mercato interno, di cui la stessa è uno strumento per la sua realizzazione, ma non anche il fine12. Lo stretto legame tra le esigenza di protezione degli interessi (economici) dei consumatori e la volontà di realizzare il mercato interno fa sì, quindi, che tali istanze vadano a convergere nella misura in cui la tutela del consumatore si consegue in maniera efficace proprio evitando che nel mercato interno la concorrenza venga falsata13. Le disposizioni della Direttiva sono, per questo, volte a: a)
imporre un generale divieto in capo al professionista di realizzare pratiche commerciali che possano ledere gli interessi economici dei consumatori attraverso condotte contrarie alla diligenza professionale;
b)
delineare un sistema rigoroso e di valutazione del carattere “sleale”, ovvero “unfair”, di una pratica commerciale, al fine di introdurre a livello europeo
Attualmente tale disposizione è stata trasposto nell’art. 169 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 12 BROMMELMEYER, Der Binnenmarkt als Leitstern der Richtlinie uber unlautere Geschaftspraktiken, in Gewerblicher Rechtsschutz – und Urheberrecht, 2007, p. 296. 13 A riconoscere tale chiave di lettura alla Direttiva sono, in particolare, BROMMELMEYER, Der Binnenmarkt als Leitstern der Richtlinie uber unlautere Geschaftspraktiken, in Gewerblicher Rechtsschutz – und Urheberrecht, 2007, p. 296; KESSLER, Lauterkeitsschutz un Wettbewerbsordnung – zur Umsetzung der Richtline 2005/29/EG uber unlautere Geschaftspraktiken in Deutschland und Osterreich, in Wettbewerb in Recht und Praxis, 2007, p. 716 e ss.; DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 2 e ss.. 11
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dei parametri uniformi per individuare la natura lecita o meno della condotta del professionista; c)
affidare ai singoli Stati membri l’individuazione dei mezzi, anche processuali, per prevenire e reprimere le condotte, attive e/o omissive, sleali dei professionisti, nonché le sanzioni, effettive, proporzionate e dissuasive, da irrogare in caso di violazione delle disposizioni della Direttiva, così da garantirne l’applicazione14.
È soltanto, infatti, attraverso lo sviluppo di pratiche commerciali leali e, quindi, di un fair trading all’interno dell’Unione europea che le attività transfrontaliere potranno svilupparsi e i consumatori potranno sfruttare al meglio le potenzialità del mercato interno, come auspicato dal legislatore europeo.
2.
L’OBIETTIVO DELL’ARMONIZZAZIONE COMPLETA DELLE LEGISLAZIONI DEI SINGOLI STATI MEMBRI
Nell’ambito dei lavori preparatori alla emanazione della Direttiva era emerso che le legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali sleali, laddove esistenti, erano caratterizzate da differenze, in grado di determinare sensibili distorsioni della concorrenza all’interno dell’Unione europea e di costituire effettivi ostacoli al buon funzionamento del mercato interno. In particolare, anche a causa del fatto che nel settore della pubblicità commerciale15 il legislatore europeo si era limitato a fissare criteri minimi di armonizzazione della normativa, senza opporsi al mantenimento e all’adozione nell’ambito delle legislazioni nazionali di disposizioni che garantissero una più ampia tutela dei consumatori, l’apparato normativo in vigore aveva lasciato profonde differenze sistematiche. Tali differenze avevano portato, inevitabilmente, a creare incertezze sulle disposizioni nazionali da applicare, in quanto ciascun ordinamento nazionale,
DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 4. 15 Direttiva 84/450/Cee del 10 settembre 1984, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità ingannevole, in G.U.C.E., L 250 del 19 settembre 1984, p. 17, come modificata dalla direttiva 97/55/Ce del 6 ottobre 1997, in G.U.C.E., L 290 del 23 ottobre 1997, p. 18, che ha incluso la disciplina della pubblicità comparativa. 14
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nel corso degli anni, era comunque rimasto legato ai propri principi giuridici, impedendo così di realizzare una effettiva armonizzazione della normativa in questione. Da ciò è conseguito che l’esercizio delle libertà del mercato interno si è di fatto rilevato essere oneroso, in particolare, per quelle imprese che intendevano e intendono effettuare attività di marketing, campagne pubblicitarie e vendite transfrontaliere, proprio con l’intento di sfruttare le potenzialità dello spazio unico europeo. Le differenze normative tra gli Stati membri hanno, infatti, impedito in questi anni ai professionisti europei di poter adottare, all’interno dello stesso spazio comune, campagne pubblicitari o prassi commerciali comuni, obbligandoli così ad adattare, di volta in volta, Paese per Paese, i contenuti e le caratteristiche della propria attività commerciale, così da renderla conforme alle singole legislazioni o prassi del luogo in cui intendevano commercializzare i propri beni e/o servizi. Il tutto ha comportato, all’evidenza, una maggiorazione dei costi, oltre dei rischi per il professionista che è stato per questo disincentivato ad approfittare delle potenzialità di un mercato, come quello comune europeo, con circa cinquecento milioni di consumatori. Specularmente, le differenze tra le normative nazionali sono state fonte di profonda incertezza sui diritti di cui godono, o comunque possono godere, i consumatori, i quali evidentemente non sono (né si può pretendere che lo siano) in grado di conoscere le singole legislazioni degli Stati membri e, per questo, inevitabilmente, perdono la fiducia nel mercato interno16. Per promuovere, quindi, le negoziazioni transfrontaliere, per il legislatore è apparso necessario iniziare ad eliminare le differenze esistenti tra le diverse legislazioni
Come emerge dalla Relazione illustrativa della proposta di direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori, oltre ai tradizionali ostacoli nelle transazioni commerciali transfrontaliere, quali quelli linguistici, fiscali, spazio-temporali, la non conoscenza delle leggi vigenti negli altri Stati membri porta a considerare meno “sicuri” i contratti conclusi con professionisti di altri Paesi (Relazione illustrativa della “Proposta di direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”, in COM (2003) 356 def., presentata dalla Commissione il 18 giugno 2003, p. 2 e ss.). 16
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nazionali in relazione alla tutela degli interessi dei consumatori così da poter creare a livello europeo un quadro giuridico uniforme. Deve, infatti, considerarsi che il processo di integrazione europea è giunto ormai a un punto di non ritorno, seppure di estrema fragilità17, dove un’importanza particolare riveste il progetto, ripetutamente sollecitato dal Parlamento europeo e dalla Commissione, di una auspicabile codificazione del diritto civile europeo, avente come sua base giuridica, non solo il mercato interno, ma soprattutto la cittadinanza europea18. Nella dimensione dello spazio di libertà e di giustizia, integrato nell’ordinamento europeo, quale spazio entro cui i soggetti nazionali agiscono non più come stranieri, ma come concittadini, gli stessi richiedono e necessitano, all’evidenza, di regole uniformi su tutto il territorio dell’Unione europea. Con l’emanazione della Direttiva, il legislatore europeo ha così (finalmente) preso atto del fatto che l’approccio di armonizzazione minimale tra le singole normative nazionali, sino ad allora seguito, è risultato in realtà inadeguato a garantire quell’armonizzazione e uniformazione giuridica tra gli Stati membri, indispensabile per l’effettivo funzionamento del mercato interno19. Soltanto attraverso la consapevolezza della sussistenza di una normativa effettivamente uniforme e “comune”, infatti, i consumatori sono stimolati ad MOCCIA, La cittadinanza europea, 2006, pp. 59 e ss. e Il sistema della cittadinanza europea: un mosaico in composizione, in MOCCIA (a cura di), Diritti fondamentali e cittadinanza dell’Unione, Milano, 2010, pp. 165 e ss. 18 Secondo MOCCIA “Il disegno istituzionale di Unione che assume rilievo in questa prospettiva di impegno politico, sociale e culturale, oltre che economico, presenta molteplici profili problematici, molti dei quali ruotano attorno all’esigenza di formazione di un cittadino europeo. Ciò con riguardo in particolare alla definizione della sua condizione giuridica, per quanto attiene non solo alla sua possibilità di integrarsi nella comunità transnazionale del mercato interno, al suo operare cioè come soggetto economico (lavoratore, imprenditore, professionista), o più semplicemente come consumatore di prodotti e utente di servizi; ma anche al suo ruolo di partecipazione attiva ai processi decisionali, per dare effettivo contenuto ai principi di trasparenza e prossimità, che poi vuol dire anche sussidiarietà, fissati dal Trattato sull’Unione. Questo esempio nuovo di cittadinanza, che si aggiunge a completamento di quella nazionale, vale ed è destinato sempre più a valere come concreto fattore esponenziale dell’Unione. Un fattore che trae la sua caratterizzazione, insieme però con la sua criticità, dall’essere situato nel punto di confluenza tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, con le loro articolazioni regionali e locali. Cioè a dire, in un contesto a dimensione sovra statuale e transnazionale, in cui appare ancora incerto e, comunque, difficile il nesso tra sentimenti di appartenenza e bisogni di diversificazione locale e nazionale, da un lato, e interessi ed aspettative di identificazione europea, dall’altro”, in Annotazioni introduttive, in La cittadinanza europea, 2006, pp. 59 e ss. 19 AUGENHOFER, Ein Flickenteppich oder doch der groβe Wurf? Uberlegungen zur neuen RL uber unlautere Geschaftspraktiken, in ZfRV, 2006, p. 205. 17
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acquistare beni e/o servizi offerti loro da professionisti con sede in altri Stati membri, in quanto non vi sarebbero più prassi commerciali distinte tra i singoli ordinamenti nazionali20. I consumatori acquistano, così, quella fiducia necessaria per concludere contratti con professionisti con sedi in Paesi diversi da quello in cui risiedono. Nello stesso tempo, i professionisti sono interessati ad offrire i propri beni e/o servizi anche oltre i propri confini nazionali, promuovendoli o commercializzandoli, sapendo di poter fare affidamento su regole e principi uniformi, che impediscono che una prassi commerciale considerata lecita in uno Stato possa, invece, essere ritenuta illecita in un altro21, con la non secondaria possibilità per il professionista di ridurre i costi, non dovendo più conformare, di volta in volta, la propria attività commerciale alle diverse legislazioni nazionali22. L’accertato fallimento dell’armonizzazione minimale - probabilmente necessaria all’inizio del percorso europeo - ha quindi portato ad una inversione di rotta verso una integrazione massima delle legislazioni, con l’obiettivo di eliminare le differenze legislative tra i singoli Stati membri così da perseguire una armonizzazione “piena” o “completa”23.
Per MOCCIA, in parallelo con l’unificazione legislativa, è indispensabile offrire ai giovani di diversa nazionalità, in quanto inseriti in una comune attività di studio a diretto contatto anche con ambienti e culture locali, un’opportunità di formazione di rilievo europeo: “L’edificio dell’Europa presente e tanto più quello dell’Europa futura, quale che ne sarà l’architettura, ha bisogno e sempre più avrà bisogno, dunque, di questi cittadini europei: la cui formazione culturale e professionale possa svolgersi in ambienti e attraverso sistemi formativi, specie universitari, all’altezza dei compiti e dei doveri imposti dall’avanzamento del processo di integrazione”, Annotazioni introduttive, in La cittadinanza europea, 2006, pp. 59 e ss. 21 DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 7. 22 L’adozione della Direttiva è stata ritenuta dalle istituzioni europee necessaria per rimuovere, o quantomeno ridurre, gli ostacoli che si frappongono all’aumento delle negoziazioni transfrontaliere, il cui incremento sia quantitativo, sia qualitativo rappresenta, a detta della Commissione, una condizione imprescindibile per il conseguimento di obiettivi fondamentali per lo sviluppo del mercato interno, quali: (i) l’armonizzazione dei prezzi per i medesimi beni e/o servizi, così da ridurli al più basso livello possibile e (ii) l’aumento e la diversificazione delle offerte ai cittadini europei, che consentirebbe loro di accedere a beni o servizi anche qualitativamente migliori e più innovativi rispetto a quelli disponibili nel proprio Pese di residenza. Il raggiungimento di entrambi gli obiettivi consentirebbe di raggiungere al contempo una maggiore ed effettiva concorrenza tra i professionisti (Cfr. Relazione illustrativa della “Proposta di direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”, COM (2003) 356 def., presentata dalla Commissione europea il 18 giugno 2003). 23 La dottrina sul punto è unanime: si veda in particolare, ex multiis, STUYCK, TERRYN E VAN DYCK, Confidence throught fairness? The new directive on unfair business-to-consumer commercial practices in the internal market, in Common Market Law Review, 2006, p. 115 e ss.; TWIGG-FLESSNER, The EC Directive on Unfair Commercial practices and domestic consumer law, in L.Q.R., 2005, p. 387 e ss.; VIGORITI, Verso l’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in Europa e diritto privato, 2007, p. 35; BERNITZ, 20
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Deve, infatti, ormai accettarsi l’idea di una (de)strutturazione del diritto (privato) all’interno dell’Unione europea, come la definisce Moccia, “in guisa di un sistema normativo complesso, operante su più livelli, cioè caratterizzato o, meglio, che torna ad essere oggigiorno caratterizzato (come già lo era stato all’epoca del diritto comune, prima delle chiusure statalistiche e codificazioni nazionalistiche dell’Ottocento) da una pluralità di fonti: non più solo statali (nazionali), ma anche sovra-nazionali, come pure sub-nazionali (regionali)”, che stanno contribuendo a sviluppare un sistema multi-livello, connotato innanzitutto dall’innesto di principi di emanazione europea24. Sono, quindi, una nuova Europa del diritto e un nuovo diritto (privato) europeo quelli che si stanno formando “sul terreno, per alcuni, ancora paludoso dei nazionalismi, per altri, invece, fertile della ricchezza della diversità”, nel quadro di politiche comuni, dove l’obiettivo del ravvicinamento, prima, e dell’uniformazione, poi, delle legislazioni nazionali all’interno di un mercato unico è stato affiancato dal più ambizioso progetto di dare vita a uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ovvero a uno spazio giuridico europeo “dove far valere i propri diritti ovunque nell’Unione, segnato – anziché da confini territoriali – da valori, diritti fondamentali e principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri”25. Ed è proprio in un siffatto contesto che si inserisce l’esigenza di una normativa comune tra gli Stati membri, in grado di garantire su tutto il mercato interno pratiche commerciali leali da parte dei professionisti che vi operano.
3.
LE PRATICHE COMMERCIALI NEL DIRITTO EUROPEO: UNA NOZIONE (ANCORA) DELIMITATA
“Qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente The Unfair Commercial Practices Directives: Its Scope, Ambitions and relation to the Law of Unfair Competition, in AA.VV., The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, Hart, 2007, p. 231; TORINO, Lezioni di Diritto europeo dei consumatori, Torino, 2010, p. 54. 24 MOCCIA presentò tali riflessioni nella sua relazione al Convegno internazionale “Il diritto privato regionale nella prospettiva europea” tenutosi presso l’Università di Macerata il 30 settembre – 1 ottobre 2005 e sono state poi riproposte in La “cittadinanza europea” come “cittadinanza differenziata” a base di un sistema “multilivello” di diritto privato, in La cittadinanza europea, 2006. 25 MOCCIA, Comparazione giuridica, diritto e giurista europeo: un punto di vista globale, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2011, fasc. 3, pp. 767 e ss.
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connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” (art. 2, lettera d) della Direttiva) rappresenta, per il legislatore europeo, una pratica commerciale. La disciplina di cui agli artt. 2-13 della Direttiva si applica, quindi, a tutte quelle condotte che rientrano all’interno della nozione di “pratica commerciali” che sono “poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto” (art. 3, § 1). La definizione in questione, mutata dal diritto della concorrenza dei paesi scandinavi, è connotata, da un punto di vista oggettivo, da ampi profili di ampiezza e non è inquadrabile nella rigidità di una fattispecie che si discosta dalla tradizionale terminologia giuridica e ricorre al linguaggio comune della pratica degli affari26. Come si può ben comprendere, infatti, una pratica commerciale può consistere tanto in dichiarazioni, dotate o meno di natura negoziale, quanto in comportamenti materiali, tanto in azioni quanto in omissioni poste in essere dal professionista per promuovere, vendere o fornire un proprio prodotto. Dal punto di vista soggettivo, la nozione di pratica commerciale proposta dal legislatore europeo è, però, delimitata. Ai fini dell’applicazione del divieto generale di pratiche commerciali sleali di cui all’art. 5 della Direttiva27, infatti, rilevano esclusivamente le pratiche commerciali nei confronti di consumatori. Una delimitazione soggettiva, quella prevista a livello europeo, che esclude così dall’ambito di applicazione della disciplina le pratiche commerciali (precontrattuali, contrattuali o post-contrattuali) poste in essere nei confronti di altri professionisti. Tale delimitazione ha ripercussioni concrete nell’ambito delle condotte del professionista che, per legge, sarà quindi tenuto ad adottare accortezze diverse se si relazione con dei consumatori piuttosto che con dei professionisti anche, ad esempio, nel caso di vendita del medesimo prodotto. Il legislatore europeo ha, infatti, voluto mantenere la distinzione tipica di molti ordinamenti nazionali di
ROSSI CARLEO, sub art. 18, comma 1, lettera d), in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le modifiche al Codice del Consumo, Torino, 2009, p. 57. 27 “Le pratiche commerciali sleali sono vietate”, art. 5, § 1, della Direttiva. 26
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separazione delle relazioni Business to Consumer, afferenti il diritto dei consumi28, con la conseguenza che sono escluse dalla disciplina di cui alla Direttiva le condotte direttamente connesse alla vendita di un prodotto a un altro professionista e, più in generale, tutte quelle condotte che, seppur sleali nei confronti dei concorrenti, non hanno una diretta efficacia sul comportamento economico dei consumatori (considerando n. 6 della Direttiva). Nonostante la delimitazione soggettiva prevista dal diritto europeo, però, in alcuni ordinamenti, i legislatori nazionali hanno ritenuto di dover estendere la disciplina delle pratiche commerciali sleali anche ai rapporti tra gli stessi professionisti o a determinate categorie di questi, come le microimprese29. Ciò rappresenta sicuramente un importante segnale di esigenza di una tutela più diffusa dei soggetti, all’apparenza, più deboli del mercato, che rappresentano comunque la struttura produttiva dei singoli Paesi e per questo non debbono essere pregiudicati da condotte sleali, alla pari dei consumatori. Nell’ambito della definizione data, il legislatore ha comunque esemplificato il concetto di pratica commerciale, indicando la pubblicità e il marketing come species del più ampio genere delle pratiche commerciali. Ulteriori esemplificazioni di cosa debba rientrare nel concetto di pratica commerciale sono fornite dalla Direttiva stessa attraverso la definizione delle pratiche commerciali ingannevoli e aggressive e della c.d. black list allegata in cui sono state indicate le pratiche da ritenere in ogni caso sleali. Il comune denominatore di tali condotte, attive o omissive, poste in essere dai professionisti è dato dalla capacità degli stessi di incidere sulle scelte economiche Nell’ambito di tali relazioni diventa irrilevante quali caratteristiche assuma concretamente la condotta del professionista e se essa sia rivolta a determinati consumatori piuttosto che a una cerchia indeterminata. Altresì irrilevante è il contenuto, la causa e l’oggetto del contratto stipulato o da stipulare a seguito della condotta del professionista. 28
In Italia, con la legge 24 marzo 2012, n. 27 di conversione del Decreto Legge n. 1/2012 “recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, è stata introdotta la figura della “microimpresa” fra i soggetti tutelati. Per microimpresa si intende non propriamente la tipica bottega artigiana, visto che si qualifica in tal modo qualunque impresa che abbia meno di dieci dipendenti e realizzi un fatturato annuo non superiore a due milioni di euro. Nessun riferimento, invece, al grado di impiego di beni strumentali. 29
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del consumatore medio, condizionandone la capacità di autodeterminazione e, quindi, falsandone il comportamento economico, in relazione a quello specifico prodotto. Ciò che rileva è, infatti, la “diretta connessione”30 esistente tra la pratica e la promozione, la vendita o la fornitura di un prodotto ai consumatori ovvero la connessione all’attività “commerciale” del professionista. Se non vi è diretta connessione con la promozione, la vendita o la fornitura di un prodotto a un consumatore, la condotta del professionista esula, invece, dalla nozione di pratica commerciale fornita dal legislatore europeo e la pratica in questione resterà disciplinata dalle disposizioni nazionali e non sarà soggetta al divieto di cui alla normativa in questione. Sul punto, occorre, però, rilevare che non v’è chiarezza su come il concetto di “diretta connessione” debba essere inteso, se in senso soggettivo, dovendo in ciascun caso ricercare nella condotta del professionista l’intento di promuovere un rapporto contrattuale con il consumatore31 o se, invece, tale locuzione debba interpretarsi in senso oggettivo, come pare dover essere, per cui è sufficiente una connessione oggettiva tra il comportamento del professionista e il contratto concluso con il consumatore. Non può negarsi, infatti, che la “diretta connessione” sussiste in tutti i casi in cui la condotta, attiva o omissiva del professionista, è oggettivamente indirizzata, in via immediata, a commercializzare un prodotto destinato ai consumatori32.
Il legislatore italiano ha utilizzato un’espressione più generica e onnicomprensiva, quale “in relazione” (art. 18, comma 1, lett. d), D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206) alla promozione, alla vendita o alla fornitura di un bene o di un servizio, valorizzando ulteriormente lo spirito protezionistico di consumer law della Direttiva (Cap. II, § 6.1.). 31 Tale interpretazione “soggettiva”, che non pare essere condivisibile, in quanto ridurrebbe drasticamente la portata applicativa della disciplina sulle pratiche commerciali sleali tra professionista e consumatore, ha come base il mero dato letterale del considerando n. 7 che afferma che “la presente direttiva riguarda le pratiche commerciali il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative ai prodotti”. 32 Non rientrano, pertanto, nell’ambito della disciplina della Direttiva le attività di mera diffusione di informazioni che non si pongono in diretta correlazione con la commercializzazione di un prodotto, che rappresentano piuttosto una libera manifestazione del pensiero, seppur idonea a orientare i consumatori nelle loro scelte. In tale ipotesi, rientra senza dubbio la diffusione di dati relativi alla attività commerciale di professionisti terzi da parte di organi di stampa, di trasmissioni televisive o di istituti di ricerca a scopo meramente informativo. 30
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Stando al dato testuale della nozione di pratica commerciale fornita dalla Direttiva, per altro verso, sono da escludere tutte le azioni o omissioni volte a promuovere, vendere o fornire un prodotto ai consumatori, ma poste in essere in via mediata, come nel caso del marketing finalizzato a fornire una positiva e seducente rappresentazione del professionista presso il pubblico dei consumatori. In questo caso, tale attività non avrebbe una diretta connessione con la promozione o la vendita del prodotto, bensì soltanto indiretta e, per questo, non potrebbe ritenersi formalmente una pratica commerciale. In realtà, pare però difficile poter immaginare di escludere tali condotte dalla disciplina delle pratiche commerciali e, pertanto, laddove non si voglia eludere l’obiettivo principale della Direttiva di buon funzionamento del mercato attraverso la preservazione dell’autodeterminazione economica del consumatore, anche ipotesi di marketing volte esclusivamente ad accreditare il professionista - e non un suo specifico prodotto - sul mercato, esse dovrebbero essere sempre vietate, se sleali33. La definizione di pratica commerciale è, quindi, un elenco esemplificativo, e non esaustivo, di condotte, attive o omissive, del professionista che possono essere poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto. Il legislatore ha, infatti, voluto definire anche su di un piano temporale l’ambito della pratica commerciale, ammettendo che la medesima possa realizzarsi in qualsiasi momento vi sia una connessione tra la condotta del professionista e la (possibile) scelta del consumatore (art. 3, § 1, della Direttiva)34.
WILHELMSSON, Scope of the Directive, in HOWELLS, MICKLITZ - WILHELMSSON (a cura di), European Fair Trading Law. The Unfair Commercial Practices Directive, Aldershot (UK), 2006, p. 54 e ss. 34 Rientrano, così, in tale ambito tutti i comportamenti posti in essere per prendere contatto con il consumatore, indipendentemente dall’effettiva conclusione del contratto, purchè idonei a indurre il consumatore a prendere una decisione economica che altrimenti non avrebbe preso, a prescindere dal fatto che in concreto la prenderà. La pubblicità e il marketing sono un tipico esempio di pratica commerciale posta in essere prima della conclusione di un contratto. 33
Pratiche commerciali durante l’efficacia di un contratto sono, invece, tutte quelle condotte, attive o omissive, volte a condizionare in maniera sleale l’esercizio di diritti spettanti al consumatori, come il diritto di recesso, o di far valere una tutela ad esso spettante, quale può essere la sostituzione o la riparazione del prodotto. Un esempio di condotta sleale posteriore a un’operazione commerciale è, invece, stato fornito dalla giurisprudenza tedesca (BGH 27 giugno 2002, in GRUR, 2002, p. 1093) ed è dato dagli artifizi utilizzati da parte di un istituto bancario sugli estratti conto dei clienti ottenibili dalla macchina bancomat, che inducono in errore il consumatore rispetto alla sua reale situazione economica, portandolo a spendere
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Può ben accadere, però, che le omissioni e le ambiguità informative possano riguardare fasi distinte del ciclo di promozione e di vendita dei prodotti commercializzati - ossia la valutazione dei costi relativi alle varie, possibili, modalità di consegna, da un lato, e la decisione di acquisto, dipendente anche dalle indicazioni circa la disponibilità del bene, dall’altro - non necessariamente collegate tra loro e comunque rispondenti a interessi differenziati del consumatore. Sebbene sia evidente che promozione e vendita siano tra loro collegate dall’unica finalità dell’acquisizione del consenso del consumatore, l’eventuale slealtà della condotta del professionista deve essere valutata per ciascuna delle siffatte pratiche che devono rimanere, quindi, strutturalmente autonome ai fini della disciplina in questione35. Nella Direttiva, il legislatore europeo ha, però, anche avuto modo di chiarire che, a determinate condizioni, alcune specifiche pratiche commerciali possono ritenersi in ogni caso lecite e non intaccate dal divieto generale. Tra tali condotte, vi sono: (i) le pratiche pubblicitarie e di marketing generalmente ammesse, come il product placament e la brand differentiation e (ii) la pubblicità superlativa. Il considerando n. 6 della Direttiva, nonostante non brilli per chiarezza, fa, infatti, salve dall’applicazione del divieto generale “le pratiche pubblicitarie e di marketing generalmente ammesse, quali il product placament consentito, la differenziazione del marchio o l’offerta di incentivi in grado di incidere legittimamente sulla percezione dei prodotti da parte del consumatore e di influenzarne il comportamento senza però limitarne la capacità di prendere una decisione consapevole”36.
oltre le sue disponibilità e a dover pagare interessi sullo scoperto. Tale condotta è stata ritenuta dalla giurisprudenza tedesca una condotta sleale non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche, soprattutto, nei confronti degli stessi clienti. 35 Cfr. TAR Lazio, sentenza 9 agosto 2010, n. 30417. Saranno così da considerarsi come pratiche autonome e distinte le offerte di prodotti tra loro eterogenei e non assimilabili ontologicamente, nonostante le medesime vengano effettuate all’interno di un medesimo contesto documentale, ovvero proponendo al consumatore la sottoscrizione di un unico modulo recante la proposta di acquisto di entrambi i prodotti. 36 Il product placament è fatto salvo solo se “consentito”; l’offerta di incentivi solo se può incidere “legittimamente” sulla percezione del consumatore, ma nulla è detto su quale sia la fonte da cui i criteri di legittimità si devono desumere. Se la norma contenesse un rinvio aperto a fonti nazionali o consuetudinaria, si negherebbe di fatto il primato del diritto europeo, mentre se tali criteri si dovessero desumere dalla stessa Direttiva, la disposizione in questione non avrebbe alcun valore.
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Sicuramente, il considerando deve essere inteso come elemento di integrazione del testo normativo vero e proprio e non come un testo normativo autonomo, in quanto, altrimenti si rischierebbe addirittura di stravolgere l’impianto stesso della Direttiva37. Per questo, al fine di garantire una coerenza sistematica della disposizione in questione, evitando che si possa giungere anche alla contraddittoria conclusione che certe pratiche sono ammesse anche se idonee a influenzare il comportamento del consumatore, deve darsi peso significativo all’inciso finale del considerando, che pone la salvaguardia della libertà di decisione consapevole del consumatore. In questo modo si attribuisce all’intera norma un significato semplicemente confermativo del requisito generale della apprezzabilità della distorsione della libertà di scelta del consumatore. Rispetto alla specifica pratica del product placament, deve considerarsi che il legislatore europeo ha tendenzialmente ammesso tale fenomeno ormai ampiamente utilizzato nell’ambito televisivo e cinematografico e, per questo, non lo ritiene “in ogni caso” vietato, ma pretende che il medesimo sia regolamentato, ovvero “consentito”38. Per quanto concerne la “differenziazione del marchio”, la c.d. brand differentiation, ovvero quella politica commerciale volta ad affermare una forte identità del marchio e a sostenerne il valore suggestivo, la volontà del legislatore europeo è stata quella di non limitare l’impiego del marchio con finalità suggestive e di sostegno della reputazione generale dell’impresa, dal momento che tali pratiche sono l’anima del commercio e sono comunque inidonee a falsare le decisioni commerciali dei consumatori.
LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni articolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 70. 38 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni articolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 71. Resta, però, vietata la pubblicità occulta, in quanto “elude le naturali difese rappresentate dalle risorse critiche alle quali il pubblico è solito ricorrere dinanzi a una pressione pubblicitaria scoperta; è più autorevole ed affidabile, per il fatto che il messaggio ha l’apparenza di un’informazione neutrale e disinteressata; è, infine, particolarmente efficace, in quanto si presta a carpire l’attenzione anche di coloro che usano distoglierla dai messaggi pubblicitari palesi” (TAR Lazio, 29 dicembre 2009, n. 13749 relativamente al caso della pubblicità occulta di una linea di gioielli e del marchio “Europe Assistence” in una nota trasmissione televisiva). 37
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Rispetto alla c.d. pubblicità superlativa, l’art. 5, § 3, della Direttiva sancisce, invece, che “è fatta salva la pratica pubblicitaria comune e legittima consistente in dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non sono destinate a essere prese alla lettera”. Contrariamente a quanto sostenuto da parte della dottrina39, tale disposizione non è in contrasto con la ratio della disciplina generale delle pratiche commerciali sleali. La norma pare, infatti, voler riprendere il concetto di dolus bonus e di considerare non di per sé ingannevole una pubblicità iperbolica, laddove non sia in contrasto con i criteri generali dell’ordinamento40. In questi casi, il legislatore europeo ritiene che il consumatore medio abbia da solo, o comunque dovrebbe avere, gli strumenti per poter decifrare in maniera critica il messaggio pubblicitario proveniente dal professionista che non è così idoneo a influenzare le proprie decisioni commerciali.
3.1.
IL “PROFESSIONISTA”: COLUI CHE DEVE AGIRE CON DILIGENZA PROFESSIONALE
Il soggetto su cui la disciplina delle pratiche commerciali è delineata è il professionista, essendo colui su cui grava l’obbligo di diligenza professionale nei rapporti con i consumatori, al fine di evitare che lo stesso possa porre in essere condotte sleali, dannose non solo per il consumatore, ma per l’intero mercato. La norma definisce come “professionista” (i) qualsiasi persona fisica o giuridica che, nell’ambito delle pratiche commerciali, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e (ii) chiunque agisce in nome o per conto di un professionista e dunque, gli agenti, i rappresentanti, i mediatori, i vettori e, in genere, tutti coloro che agiscono nell’interesse del professionista medesimo41. L’ambito soggettivo di tale nozione si estende, quindi, indistintamente a persone fisiche e giuridiche che, a prescindere dallo scopo ideale o lucrativo, ovvero dalla
RADEIDEH, Fair Trading in EC Law, Groningen, 2005, p. 265. Sono stati considerati tali gli spot televisivi e radiofonici, nonché i claim diffusi anche su alcune testate giornalistiche sul piacere e il bisogno di giocare presso dei centri scommesse, rappresentanti quindi una mera iperbole pubblicitaria (Provvedimento AGCM, Snai – Pubblicità gioco d’azzardo, PS5921/2011). 41 DI NELLA, Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali aggressive, in Contratto e impresa – Europa, 2007, p. 46. 39 40
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qualifica pubblica o privata, pongano in essere pratiche commerciali connesse all’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale. Ciò che assume rilievo nell’ambito di tale nozione è lo svolgimento professionale di un’attività lavorativa, annoverando così un’ampia valutazione non limitabile alle sole imprese lucrative. Considerate le finalità di tutela della Direttiva, la nozione di professionista non può, infatti, che essere intesa in senso ampio ed è, quindi, idonea, come detto, a ricomprendere anche gli enti pubblici, non solo nei casi in cui gli stessi agiscono iure privatorum, ma ogni volta che svolgano un’attività imprenditoriale mediante la cessione di beni o la prestazioni di servizi attraverso una struttura stabile e duratura42. Per rientrare nella qualifica di “professionista” si ritiene si possa escludere la necessità che vi sia un rapporto e/o contatto diretto con il consumatore, essendo sufficiente, ai fini dell’applicazione della disciplina, che la condotta venga posta in essere
nel
quadro
di
un’attività
finalizzata
alla
promozione
e/o
commercializzazione di un prodotto o di un servizio. Tanto questo è vero che la qualifica di professionista può essere attribuita anche ad un operatore intermedio, la cui attività sia idonea ad incidere sulla libertà di scelta e di autodeterminazione del consumatore. Non può, infatti, escludersi un concorso tra più professionisti nel porre in essere una pratica commerciale sleale, rilevando, tuttavia, a tal fine, il fatto che l’operatore intermedio abbia una cointeressenza diretta e immediata alla realizzazione della pratica commerciale, ovvero un vantaggio economico43. Nell’ambito di operazioni
Con la sentenza n. 9 del 2 gennaio 2006, la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto che “la qualità di professionista è propria anche delle persone giuridiche pubbliche, quando gestiscono attività imprenditoriali”. In Italia, la giurisprudenza del TAR ha confermato, inoltre, il principio secondo il quale la qualifica di professionista può essere riconosciuta ad una società concessionaria di pubblico servizio, in quanto considerata “un’attività economicamente rilevante e idonea a generare un reddito […] L’affidamento, in convenzione, di alcuni servizi, non esclude la responsabilità della società concessionaria […]. Dal punto di vista del Codice del Consumo, pertanto, la mancata predisposizione di adeguati strumenti di controllo in ordine ai servizi esternalizzati, rappresenta indubbiamente, anche secondo il comune buon senso, una condotta non conforme al normale grado della specifica competenza e attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e buona fede nel settore di attività del professionista” (TAR Lazio, sentenza 9 maggio 2011, n. 3954, Passante di Mestre). 43 È stato ritenuto tale, ad esempio, il professionista che ospita sulle proprie pagine web un’inserzione pubblicitaria volta alla promozione di un servizio realizzato e fornito da un soggetto terzo, quando la messa a disposizione sul sito dello spazio pubblicitario ha carattere essenziale. Tale essenzialità è stata riscontrata nell’ambito della fornitura di loghi e suonerie di cellulari effettuata da un sito raggiungibile tramite il collegamento preventivo con un altro indirizzo web che non evidenziava la natura del 42
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commerciali complesse, quindi, la responsabilità per pratiche commerciali sleali si estende a tutti i soggetti che a diverso titolo prendono parte alla condotta e che assumono la qualifica di professionisti al ricorrere di due elementi essenziali: la responsabilità e il vantaggio economico44.
servizio offerto in abbonamento (TAR Lazio, 14 marzo 2011, n. 2271). Nel caso esaminato dai giudici italiani, il professionista, che ospitava sul proprio sito l’offerta pubblicitaria in questione, riceveva anche un compenso per ogni abbonamento veicolato dal passaggio attraverso il suo sito. Se non è possibile ritenere che l’immanente obbligo di diligenza gravante su coloro che dalla pratica commerciale traggono comunque dei benefici sia in termini economici che pubblicitari determini sempre e comunque una loro responsabilità editoriale per pratiche commerciali sleali, un’omissione rilevante ai fini della attribuzione di una responsabilità a titolo soggettivo sussiste allorquando il professionista non dimostri di avere posto in essere un sistema di monitoraggio effettivo e preventivo sui contenuti delle iniziative promo-pubblicitarie realizzate e diffuse da soggetti terzi, anche essi interessati alla pratica commerciale. Non è, infatti, sufficiente ad escludere la responsabilità da omesso controllo la circostanza che il soggetto terzo non abbia preventivamente sottoposto la campagna che intende diffondere, ove un sistema di controllo preventivo non sia stato posto in essere (TAR Lazio, 14 marzo 2011 n. 2271. In termini, si veda anche TAR Lazio, 3 marzo 201 n. 3289). Per questo, ad esempio, i gestori telefonici devono ritenersi autori delle pratiche se, oltre a un vantaggio economico immediato e diretto connesso alla diffusione dei messaggi, abbiano prestato il consenso all’utilizzo dei propri loghi e segni distintivi nelle operazioni pubblicitarie relative ai servizi reclamizzati. Recentemente, lo sviluppo della tecnologia ha portato alla realizzazione di pratiche commerciali sempre più complesse e sofisticate, non sempre di facile percezione. Tra queste, vi è senz’altro il procedimento concernente il comportamento posto in essere dai professionisti consistente nella promozione e gestione del sistema del televoto utilizzato in varie trasmissioni televisive. I professionisti coinvolti nell’ambito di tale procedimento sono molteplici: vi è (i) l’emittente televisiva che trasmette le trasmissioni in cui è utilizzato il servizio di televoto, (ii) la società che fornisce e realizza le infrastrutture di telecomunicazioni e offre i relativi servizi, e, da ultimo, vi può essere anche, (iii) la società che progetta e realizza format di intrattenimento per supporti interattivi, di fatto, questi ultimi fornitori del servizio. Nell’ambito di un procedimento svoltosi dinnanzi l’Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana (Provvedimento AGCM, Televoto Festival di Sanremo 2010, PS5776/2011), a seguito della segnalazione di una associazione per la tutela dei diritti dei consumatori, sono state, in particolare, valutate le informazioni che l’emittente televisivo ha fornito ai telespettatori relativamente al suddetto servizio di televoto, nonché la mancata predisposizione di strumenti idonei a prevenire le alterazioni del meccanismo del televoto potenzialmente derivanti dall’utilizzo improprio del sistema. Al fine di individuare chi debba considerarsi nell’ambito di una siffatta pratica commerciale “professionista” nel senso dato nella disciplina in questione, se tutti o solo alcuni degli operatori commerciali coinvolti, per l’Autorità italiana è sufficiente rilevare che l’emittente televisivo è il reale beneficiario degli effetti pubblicitari e dei vantaggi economici, immediati e diretti, conseguenti all’utilizzo del televoto. Infatti, oltre ai benefici derivanti dalla creazione, promozione e utilizzazione del televoto nelle proprie trasmissioni, per l’emittente televisivo, si aggiungono quelli connessi alla maggiore audience generata tramite il meccanismo del televoto e, verosimilmente, ai conseguenti maggiori introiti pubblicitari. Per questo, nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali sleali, relativamente al televoto, l’emittente televisivo deve ritenersi unico soggetto rientrante nella nozione di “professionista” di cui alla disciplina in questione, “in quanto soggetto giuridico materialmente responsabile della predisposizione e realizzazione del meccanismo del televoto e della relativa promozione commerciale attraverso le proprie trasmissioni televisive”. Gli accordi stipulati con le società fornitrici del servizio, secondo l’Autorità, risulterebbero, infatti, meramente strumentali rispetto alla realizzazione dell’apparato tecnico utilizzato per il televoto. Analogamente, gli ulteriori accordi intercorsi con i diversi gestori telefonici avrebbero avuto il solo scopo di consentire a tutti i soggetti interessati di partecipare al televoto, senza avere una connessione diretta rispetto agli interessi economici dei consumatori. 44
27
3.2.
IL “CONSUMATORE”: UNA PERSONA FISICA NORMALMENTE INFORMATA E RAGIONEVOLMENTE AVVEDUTA
Il consumatore è qualsiasi persona fisica che nelle pratiche commerciali oggetto della Direttiva agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale (art. 2, comma 1, lett. a). Tale definizione non si discosta da quella già utilizzata dal legislatore europeo in precedenti interventi di settore a tutela del consumatore e, di fatto, rappresenta il consolidamento di orientamenti già da tempo maturati e risultante dalle medesime definizioni che, da anni, nella legislazione europea e in quelle nazionali sono state attribuite, in modo quasi ripetitivo, alla figura del consumatore45. Per definizione, quindi, consumatore può essere esclusivamente una persona fisica (c.d. criterio positivo), e non anche una persona giuridica46, che si rapporta col professionista per altre finalità rispetto a quelle propriamente professionali (c.d. criterio negativo). Sono, quindi, escluse da tale categoria soggetti come le imprese sociali o le Onlus nonostante le medesime agiscano sul mercato al di fuori delle logiche prettamente professionali del profitto, piuttosto che gli enti collettivi come, ad esempio, le fondazioni, le associazioni e i comitati47. Per cui, se anche questi ultimi soggetti si trovassero in situazione asimmetrica nei confronti del professionista, solo perché non persone fisiche - ma non per questo in casi concreti meno deboli - non possono pretendere dalla propria controparte il rispetto di quella correttezza che è, invece, imposto nel rapporto Business to Consumer.
KIRSCHEN, sub art. 18, in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le modifiche al Codice del Consumo, Torino, 2009, p. 45. 46 Sentenza Corte di Giustizia del 22 novembre 2001, C-541, curia.europa.eu. Nella giurisprudenza inglese, la definizione di consumatore (inteso come la persona che deals as consumer) nell’ambito della disciplina delle clausole vessatorie fu interpretata nel senso di ricomprendere anche una società di brokeraggio relativamente all’acquisto di un’automobile non rientrando tale attività nell’oggetto sociale dell’impresa (R&B Customs Brokers Co Ltd v United Dominions Trust Ltd [1988] 1 WLR 321). 47 Sul punto deve rilevarsi che parte della dottrina ha posto in discussione l’esclusione dalla nozione di consumatore di cui alla Direttiva 2005/29/Ce e quindi dalla relativa tutela di tutti quei soggetti che agiscono in forma individuale o collettiva per scopi connessi all’attività economica, ma senza fini di lucro, soprattutto per quelle ipotesi in cui la linea di demarcazione tra le varie finalità del consumo risulta particolarmente incerta: GUERINONI, La direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Prime note, in Contratti, 2007, 2, 174. In Italia, la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 469 del 22 novembre 2002 aveva comunque già chiarito che le piccole imprese e gli artigiani non possono mai rientrare nella nozione di consumatore in quanto non ritenuti “contraenti deboli”. 45
28
Al fine di garantire una piena ed effettiva applicazione della disciplina di cui alla Direttiva, la nozione di consumatore, qui intesa, deve estendersi, tuttavia, non solo alle ipotesi in cui è il consumatore che agisce per scopi estranei alla propria attività professionale, ma anche quando lo stesso è soggetto passivo della condotta del professionista. In sostanza, l’ampia definizione data dalla Direttiva fa sì che per consumatore si debba intendere: (i) sia il soggetto attivo impegnato in operazioni commerciali col professionista, (ii) sia il soggetto passivo a cui sono destinati i messaggi pubblicitari o di marketing del professionista. Tale evoluzione sistematica, tipica del diritto europeo, ha permesso di superare la dicotomia consumatore-acquirente di un bene e/o di un servizio, ricomprendendo, invece, ai fini di tutela, tutti i soggetti coinvolti nel mercato per finalità estranee alla propria attività professionale, i quali non possono essere ingannati dal mercato stesso48. Ciò è confermato dal fatto che l’agire al di fuori della propria attività professionale o imprenditoriale deve sempre essere inteso come una mera potenzialità, come tale astratta e non effettiva, di rapportarsi con un professionista per concludere un contratto per l’acquisto di un prodotto per finalità non professionali49. Spetterà, quindi, all’interprete, di volta in volta, accertare l’uso professionale o non professionale del bene da parte dell’acquirente ed anche i casi in cui il bene acquistato si presti a un uso promiscuo, occorrerà valutare la marginalità o meno dell’uso professionale nell’ambito dell’operazione nel suo complesso50. Stando alla definizione data rientrano potenzialmente, sempre in tale categoria, soggetti come i pensionati che, per definizione, agiscono al di fuori di un’attività professionale che non esercitano (si devono ovviamente escludere i pensionati che continuano a svolgere sotto forma di consulenza o collaborazione un’attività professionale) e che sono facilmente esposti alle condotte sleali dei professionisti, anche in ragione della loro facile vulnerabilità.
DONA, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel Codice del Consumo, Torino, 2008, p. 5. BARGELLI, La nuova disciplina delle pratiche commerciali: ambito di applicazione, in AA.VV., DE CRISTOFARO (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 122. 50 Sentenza Corte di Giustizia del 20 gennaio 2005, C-464/01, curia.europa.eu. 48 49
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Essendo la nozione di consumatore correlata da un punto di vista c.d. relazionale con quella di professionista, ovvero del soggetto ad esso contrapposto nell’ambito della pratica commerciale, la medesima sarà tanto più ampia quanto maggiore sarà il novero di coloro i quali saranno considerati professionisti. Il significato dato alla nozione di consumatore deve comunque essere poi riletto alla luce del divieto generale di pratiche commerciali sleali, che si misura con riferimento al c.d. “consumatore medio” o al “membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”art. 5, comma 2, lett. b). Nell’ambito della categoria generale dei consumatori, il legislatore ha individuato, infatti, nel consumatore c.d. medio il modello giuridico astratto volto a bilanciare, secondo il principio di proporzionalità, l’esigenza di libera circolazione delle merci e il diritto del consumatore a determinarsi consapevolmente in un mercato concorrenziale. Tale nozione individua un tipo di consumatore né pienamente informato e avveduto, né completamente disinformato e sprovveduto, la cui individuazione avviene non attraverso criteri meramente statistici o empirici, bensì soprattutto grazie a fattori culturali, sociali ed economici e, in particolare, al contesto economico e di mercato nell’ambito del quale il consumatore si trova ad agire. Si tratta di una scelta ispirata, secondo la dottrina, a una concezione non paternalistica della tutela del consumatore, che non necessariamente è un soggetto debole all’interno del mercato, ma anzi è invitato a farsi parte attiva e responsabile dello stesso51, con la conseguenza che ai fini dell’applicazione del divieto generale di pratiche commerciali occorrerà fare riferimento a un consumatore virtuale tipico, “normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia”
52
(considerando n. 18 della Direttiva 2005/29/Ce).
LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 62. 52 Da intendersi come la giurisprudenza della Corte di Giustizia formatasi in materia di pubblicità ingannevole e comparativa in cui la nozione di “consumatore medio” era già presente (ex multiis, 51
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Ciò significa, ad esempio, che nel caso in cui si propongano dei servizi bancari o assicurativi presso un centro commerciale, il modello di consumatore da prendere a riferimento dovrà necessariamente essere rapportato al contesto proprio della grande distribuzione al dettaglio, con le caratteristiche comportamentali tipiche di tale contesto, come gli effetti induttivi all’acquisto, anche d’impulso o comunque non preventivato. Così come rispetto a prodotti di alta tecnologia, deve presumersi che il consumatore medio possa non conoscere nel dettaglio modalità e caratteristiche tecniche di funzionamento del prodotto, non essendo dotato delle competenze specifiche necessarie per rilevare e fronteggiare l’esistenza di pericoli connessi alla loro fruizione. Ne consegue che il modello di riferimento non potrà essere “un consumatore adulto, smaliziato, esperto navigatore del web e perito nell’utilizzazione del computer”53. Al consumatore, a differenza del professionista, non è richiesta, però, una specifica perizia, ma un discreto grado di cultura generale e un discreto livello di accortezza e, rispetto alle pratiche commerciali aggressive, occorrerà valutare il grado medio di “sensibilità” o comunque di “condizionabilità” o “influenzabilità” del consumatore rispetto a quel determinato comportamento del professionista54. Al consumatore non può, però, essere richiesto di attivarsi per supplire a omissioni informative del professionista posto che l’onere di “media diligenza” che può gravare su chi si accosta ad una offerta commerciale non può tradursi nell’imposizione di obblighi eccedentari rispetto a un comportamento mediamente evoluto.
Sentenza Corte di Giustizia del 19 aprile 2007, C-381/05; Sentenza Corte di Giustizia del 13 gennaio 2000, C-220/1998, curia.europa.eu). 53 Sentenza Consiglio di Stato del 4 aprile 2011, n. 2099. 54 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 65 e ss. Secondo parte della dottrina non può non considerarsi comunque il fatto che le decisioni dei consumatori sono assunte anche sulla base di fattori emotive, e non sempre razionali, si veda sul punto INCARDONA – PONCIBÒ, The avarage consumer, the unfair commercial practices directive, and the cognitive revolution (March 2007) 30(1), in Journal of Consumer Policy, 21 e WEATHERILL, The role of the informed consumer in European Community law and policy (1994) 2, in Consumer Law Journal, 49.
31
4.
LA CONDOTTA DEL PROFESSIONISTA TRA CONCORRENZA E PRATICHE COMMERCIALI
La disciplina delle pratiche commerciali sleali segna, a livello europeo, una delle tappe più significative del progressivo ravvicinamento delle politiche della concorrenza e della protezione dei consumatori, per tendere poi verso la definizione di uno statuto della correttezza professionale, come modello delle relazioni di mercato55. Nel corso degli anni, infatti, all’emancipazione della politica della concorrenza e dei consumatori a livello europeo non è corrisposta una effettiva confluenza verso un unitario principio di correttezza. Ciò è innanzitutto dovuto al fatto che la materia della concorrenza sleale è riservata ancora oggi alla competenza esclusiva degli Stati membri, così che la nozione di fairness è definita secondo le tradizioni giuridiche nazionali56, mentre la tutela del consumatore ha trovato, per lo meno all’inizio, la sua sede naturale nella negoziazione contrattuale57 e, solo successivamente, ha visto un intervento deciso nella sua regolamentazione da parte delle istituzioni europee. Da uno studio di diritto comparato commissionato dalla Commissione europea nel 2003 per verificare i margini di armonizzazione della disciplina della concorrenza sleale58, a parte la tendenziale adesione a un modello basato su di una clausola generale, era emerso che soltanto in alcuni ordinamenti, quali la Germania, la Grecia, la Svezia, il Belgio, l’Austria e la Danimarca, la disciplina posta a tutela del
FALCE, Appunti in tema di disciplina comunitaria sulle pratiche commerciali sleali, in Rivista del diritto commerciale, nn. 4-5-6, 2009, p. 426. 56 La Corte di Giustizia ha osservato che “il diritto comunitario non ha, in linea di principio, l’effetto di impedire l’applicazione, in uno Stato membro, alle merci importate da altri Stati membri, delle norme in materia di commercio vigenti nello stato di importazione. Ne consegue che la distribuzione delle merci importate può essere vietata quando le condizioni in cui la loro messa in vendita viene attuata costituiscono una trasgressione degli usi commerciali ritenuti corretti e leali nello Stato membro d’importazione”, suggerendo così che lo standard di correttezza rilevante fosse stabilito a livello nazionale (Sentenza del 22 gennaio 1981, C58/80 – Dansk Supermarked vs. Imerco, in ECR, 1981). 57 SCHRICKER, Unfair Advertising – Comparative Advertising, Definition of the terms and survey of the practice in Belgium, Holland, Luxembourg, Germany, France and other Member States of the EEC with a view to a harmonization, 1985; GRAVES, Advertising Restrictions and the Free Movement of Goods and Services, European Law Review, 1998, p. 305; FALCE, Appunti in tema di disciplina comunitaria sulle pratiche commerciali sleali, in Rivista del diritto commerciale, nn. 4-5-6, 2009, p. 436. 58 Analysis of National Fairness Laws Aimed at Protecting Consumers in Relation to Commercial Practices, coordinato da SCHULZE – SCHULTE –NöLKE, 2003. Sul tema, si veda anche MICKLITZ, Marketing Practices Regulation and Consumer Protection in the EC Member States and the US, Baden-Baden, 2002. 55
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consumatore era la medesima volta a proteggere anche la concorrenza e, quindi, i professionisti concorrenti. In tali esperienze nazionali, è stato, infatti, elaborato un apparato normativo unitario, senza distinguere la tipologia dei rapporti in gioco, così che al professionista è richiesto lo stesso grado di correttezza professionale sia nell’agire nei confronti di concorrenti, sia nei confronti dei consumatori. In Finlandia, il legislatore ha optato per regole diverse che regolassero i rapporti tra concorrenti e quelle che presiedono la tutela dei consumatori, pur nel presupposto di un principio generale di correttezza professionale. In Italia e in Olanda, invece, la disciplina della concorrenza sleale, contenuta rispettivamente nel Codice Civile e nel Burgerlijk Wetboek, rinvia a una clausola generale la definizione del principio della correttezza professionale nei rapporti tra professionisti concorrenti, mentre un analogo principio non era previsto nei rapporti tra professionisti e consumatori. In Inghilterra, oltre a non essere presente una specifica disciplina in materia di pratica commerciali sleali, non vi era nemmeno una norma che sancisse un principio generale di fairness, tanto che il quadro giuridico di riferimento era dato dal common law, per poi essere affidato, per i profili applicativi, al diritto privato negoziale e alle previsioni di torts relativi agli illeciti extra-contrattuali59. La Direttiva sulle pratiche commerciali sleali si inserisce, quindi, in un sistema normativo alquanto articolato, caratterizzato a livello nazionale da tecniche giuridiche e scelte legislative non sempre uniformi60, che possono comportare anche differenze sostanziali tra le normative degli Stati membri. Per questo, per poter raggiungere gli obiettivi fissati dagli stessi Trattati e realizzare un mercato caratterizzato da un effettivo fair trading, il legislatore europeo ha ritenuto doveroso intervenire in un siffatto contesto normativo, ritenendo che la politica
della
concorrenza
e
quella
a
tutela
dei
consumatori
debbano
Nacional Consumer Council, United Kingdom, Unfair Commercial Practices: Response to DTI Consultation on the Draft EU Directive, 2003; European Consumer Law Group, The Proposed Directive on Unfair Commercial Practices, 2004. 60 LEGRAND, Law Against Unfair Competition. Towards a New Paradigm in Europe?, Hilty, 2007. 59
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complementarsi e combinarsi in una visione in cui entrambe le discipline tendono, direttamente o anche indirettamente, a tutelare la libertà di scelta dei consumatori e, per questo, l’una concorre a definire ambito e lineamenti portanti dell’altra61. Tenuto conto, come detto, però, che la materia della concorrenza sleale esula dall’ambito delle competenze attribuite alle istituzioni europei, il primo intervento sostanziale volto a definire un parametro di correttezza da imporsi al professionista nell’ambito delle proprie relazioni di mercato non poteva che avvenire, quindi, se non nell’ambito della tutela dei consumatori. Per questo, la Direttiva, oltre a risultare per il linguaggio e le definizioni utilizzate “fortemente evocativa” della disciplina sulla concorrenza sleale62, di quest’ultima ambisce a costituire il primo autentico nucleo63, in particolare nell’improntare i rapporti allo standard di correttezza (diligenza) professionale. Così facendo, il principio della correttezza professionale, nella sua declinazione di diligenza professionale, portando da un sistema all’altro la valutazione delle diverse condotte, diventa il punto di collegamento delle discipline della tutela del consumatore, della tutela della concorrenza e della repressione della concorrenza sleale, seppur ciascun nucleo normativo mantiene la sua autonomia. Ne consegue che proprio la nozione di diligenza professionale diventa il fulcro dell’intera disciplina delle pratiche commerciali (s)leali, in quanto è su di essa che viene ad essere parametrata la liceità o meno delle condotte, attive o omissive, poste in essere dai professionisti all’interno dell’Unione europea. Soltanto attraverso condotte diligentemente professionali, attualmente imposto, a livello europeo, per lo meno nei rapporti tra professionisti e consumatori, infatti, potrà essere realizzato un fair trading che consentirà di sfruttare appieno le
FALCE, Appunti in tema di disciplina comunitaria sulle pratiche commerciali sleali, in Rivista del diritto commerciale, nn. 4-5-6, 2009, p. 442. 62 ISDACI, La proposta di direttiva sulle pratiche commerciali sleali: note a prima lettura, in Contratti, 2005, 10, p. 956. 63 FALCE-GHEDINI, The new regime on unfair commercial practices at the intersection between consumer protection, competition law and unfair competition, relazione presentata in occasione del Convegno Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, Treviso, 22 e 23 maggio 2008; WADLOW, Unfair Competition Law from Europe’s Consumer Lawyers, in The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29: New Rules and New Techniques, Weatherill and Bernitz ed., 2006. 61
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potenzialità del mercato interno, nel rispetto dei diritti dei consumatori europei che in esso vi si trovano.
5.
L’ATTUAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI NEGLI STATI MEMBRI
L’attuazione nei singoli ordinamenti nazionali della disciplina sulle pratiche commerciali sleali è stata correlata con la necessità di dare altresì attuazione anche della nuova versione codificata della disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa di cui alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/114/Ce del 12 dicembre 200664. Dal 12 dicembre 2007, infatti, è entrato in vigore all’interno dell’Unione europea un sistema “binario” di regolamentazione e controllo delle pratiche commerciali poste in essere dai professionisti nell’ambito delle proprie attività commerciali, industriali, artigianali o professionali: da una parte, vi sono le pratiche commerciale direttamente connesse alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto a un consumatore, strumentale alla tutela degli interessi economici dei consumatori dinnanzi alle condotte sleali dei professionisti (ovvero la disciplina di cui alla Direttiva); dall’altra parte, vi sono le pubblicità commerciali utilizzate e diffuse per promuovere prodotti ad altri professionisti che non devono recare messaggi ingannevoli e le pubblicità comparative che devono essere lecite per poter essere diffuse (ovvero la disciplina di cui alla direttiva 2006/114/Ce). Dinnanzi a tali interventi normativi, ai fini della loro attuazione, i legislatori nazionali sono stati chiamati a scegliere se proporre: (i) un corpus normativo unitario, ovvero una sorta di codificazione autonoma della materia, piuttosto che inserire entrambe le discipline all’interno di provvedimenti nazionali già in vigore; oppure, seguendo l’impostazione data a livello europeo, (ii) dotarsi di due discipline separate, distinte sia sul piano soggettivo che oggettivo65.
Pubblicata in G.U.U.E., n. L 376 del 27 dicembre 2006, p. 25. DE CRISTOFARO, L’attuazione della direttiva 2005/29/Ce nell’ordinamento italiano: profili generali, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 51 e ss. 64 65
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Tali scelte, per poter essere fatte in maniera coerente e per portare dei risultati applicativi certi nell’ottica di regolamentazione del mercato, necessitavano evidentemente di un raccordo sistematico con le singole normative nazionali in vigore sia in materia di concorrenza sleale, sia di tutela del consumatore, senza il quale, le aspettative del legislatore europeo potevano essere disattese. Infatti, seppure la Direttiva perseguiva per la prima volta l’obiettivo di un’armonizzazione completa, e non meramente minimale, della disciplina, con un espresso divieto per i legislatori nazionali di introdurre o mantenere norme interne rivolte o comunque idonee a sottoporre a limitazioni la libertà di prestazione di servizi e/o la libertà di circolazione delle merci “per ragioni afferenti al settore armonizzato dalla direttiva” (art. 4), la medesima ha lasciato numerose facoltà di intervento in capo agli Stati membri. In ogni caso, a livello nazionale, i legislatori avrebbero dovuto procedere con l’individuazione e la successiva eliminazione o comunque correzione di tutte le disposizioni eventualmente già esistenti nei rispettivi ordinamenti che potessero portare a un abbassamento, o addirittura un incremento, del livello di tutela assicurato ai consumatori attraverso la disciplina di cui agli artt. 1-9 della Direttiva. Quello che doveva essere un rigoroso lavoro di verifica e adeguamento della legislazione nazionale ai nuovi principi della Direttiva, in realtà, non è stato compiuto in maniera certosina nei singoli Stati membri, se si fa, in parte, eccezione, in Inghilterra, dove, forse anche grazie alla tradizione di common law e, quindi, ai pochi statutes in materia, vi è stata sicuramente più attenzione sul punto. La mancanza di un’accurata verifica di compatibilità delle previgenti normative con la disciplina della Direttiva ha fatto sì che, in questi primi anni dall’entrata in vigore della normativa, la Corte di Giustizia dell’Unione europea sia stata già chiamata più volte, in via pregiudiziale, a dover verificare la compatibilità con la disciplina di cui alla Direttiva, non tanto delle norme di recepimento, quanto delle disposizioni nazionali preesistenti66.
Le prime pronunce in materia della Corte di Giustizia hanno tutte avuto ad oggetto la compatibilità della normativa previgente l’entrata in vigore della Direttiva 2005/29/Ce con la medesima. Tra le principali, si segnala la sentenza, già sopra analizzata, nelle cause riunite VTB-VAB c. N.V. Total Belgium, causa C-261/07 e Galatea B.V.B.A. c. Sanoma Magazines Belgium, causa C-299/07, con cui è stato chiesto di verificare la compatibilità della disposizione, non modificata dalla legge belga di recepimento della Direttiva, dell’art. 54 della Loi sur les pratiques du commerce et sur l’information et la 66
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Ampia discrezionalità, invece, è stata lasciata, agli Stati membri nell’individuazione e costruzione del sistema collettivo di inibizione attraverso cui dare attuazione all’art. 11 della Direttiva e, in particolare, se demandarne la competenza a una autorità giudiziaria piuttosto che amministrativa, oltre a individuare gli ulteriori e diversi mezzi, adeguati ed efficaci, attraverso i quali poter assicurare l’effettiva osservanza del divieto di pratiche commerciali sleali. Agli
Stati
membri
è stata lasciata, altresì, l’individuazione di sanzioni
proporzionate, efficaci e dissuasive nei confronti di quei professionisti che pongono in essere una pratica commerciale sleale. Ciò, per altro, in correlazione con l’eventuale individuazione delle conseguenze di diritto privato, non contemplate dal legislatore europeo, in caso di violazione del divieto. Su tale ultima questione, la Direttiva non ha imposto alcunché agli Stati membri, ma non ha impedito, tuttavia, che gli stessi potessero, con autonomia e discrezionalità, individuare e costruire un sistema sanzionatorio privatistico, come realmente accaduto, ad esempio in Grecia, Olanda e Portogallo. Analizzando, a tratti generali, le soluzioni offerte dai legislatori nazionali in sede di recepimento e attuazione della Direttiva, si può constatare che in molte esperienze si è provveduto a una integrazione della disciplina delle pratiche commerciali sleali e della pubblicità ingannevole e comparativa, così come definite a livello europeo, proponendo, quindi, una disciplina unica di contrasto alla concorrenza sleale a tutela sia dei professionisti concorrenti, sia dei consumatori, ritenendo la sussistenza di un interesse generale di tutti i consociati a che la concorrenza non sia falsata. Ciò è avvenuto, in particolare, in Stati come Danimarca (legge n. 669 del 17 luglio 2000, successivamente sostituita dalla legge n. 1389 del 21 dicembre 2005), Svezia (Marknadsföringslagen del 1995 (1995:450) e Austria (Bundesgesetz gegen den unlauteren Wettbewerb, UWG, del 1984), in cui, come detto, già prima dell’entrata in vigore della protection du consommateur del 1991, in materia di offerte congiunte. In un’altra pronuncia, nell’ambito della causa C-304/08, Zentrale zur Bekämpfung unlauteren Wettbewerbs e. V. c. Plus Wettbewerbszentrale, la Corte di Giustizia è stata chiamta a verificare se l’art. 5, § 2, della Direttiva osti a una normativa nazionale, come quella di cui al § 4, n. 6, della legge sulla concorrenza sleale in vigore in Germania (UWG) in forza della quale una pratica commerciale che faccia dipendere la partecipazione di consumatori a un concorso o a un gioco a premi dall’acquisto di un prodotto o di un servizio sia sempre e comunque illecita, a prescindere dalla sua idoneità a ledere gli interessi economici dei consumatori (curia.europa.eu).
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disciplina europea sulle pratiche commerciali sleali, vi erano normative nazionali in materia di pratiche di mercato, e più in genere della concorrenza sleale in una concezione ampiamente intesa in quanto applicabili a tutte le pratiche commerciali poste in essere da professionisti, pubblici e privati, nei confronti non solo di altri professionisti concorrenti, ma anche di consumatori. La previgente unitarietà delle disciplina delle pratiche commerciali, senza delimitazioni di carattere soggettivo, ha, quindi, fatto sì che in Danimarca, Svezia e Austria, le disposizioni di recepimento della Direttiva e della disciplina sulla pubblicità commerciale siano state incorporate nel medesimo testo normativo, così da presentarsi come una disciplina unitaria, andando ad apportare alle normative già esistenti esclusivamente le innovazioni necessarie per dare attuazione a quanto disposto dal legislatore europeo. Le attuali discipline delle pratiche commerciali sono ora previste nel Markedsföringslag danese del 21 dicembre 2005, così come modificato con legge del 20 dicembre 2006, nel Marknadsföringslag svedese del 2008 (2008:486) e nel Bundesgesetz gegen den unlauteren Wettbewerb 1984 – UWG geandert wird (UWG-Novelle 2007)67. Anche il legislatore tedesco, forte già della vigenza in Germania al momento della pubblicazione della Direttiva della legge sulla concorrenza sleale del 3 luglio 2004 (Gesetz gegen den unlaurteren Wettbewerb) che già si rivolgeva a tutti i comportamenti dei professionisti, qualificabili come atti di concorrenza, a prescindere dalla circostanza che i soggetti passivi di tali condotte fossero altri professionisti e/o consumatori, ha optato per la soluzione di una disciplina unica. Soluzione peculiare è stata, invece, adottata in Francia68, in cui si è scelto di procedere a una integrazione tra la disciplina delle pratiche commerciali e quella della pubblicità ingannevole e comparativa all’interno del Code de la consommation69, attraverso un generale divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratiche commerciali nell’ambito del diritto francese riprende sostanzialmente 67 DE CRISTOFARO,
L’attuazione della direttiva 2005/29/Ce nell’ordinamento italiano: profili generali, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 54 e ss. 68 La Direttiva 2005/29/Ce è stata recepita in Francia con l’art. 39 della legge 2008-3 del 3 gennaio 2008 pour le développement de la concurrence au service des consommateurs e con gli artt. 83 e 84 della legge 2008776 del 4 agosto 2008 de modernisation de l’économie. 69 Tali disposizioni sono state inserite all’interno del Titolo II (Pratiques commerciales) del Libro I (Information des consommaterurs et formation des contrats).
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quella di cui all’art. 5, § 2, della Direttiva che trova, però, una specificazione attraverso una apposita disciplina delle pratiche commerciali ingannevoli ed una regolamentazione della pubblicità comparativa70, entrambe applicabili a tutte le pratiche commerciali poste in essere da professionisti nei confronti non solo di consumatori, ma anche di altri professionisti. Per le pratiche commerciali aggressive71, invece, il legislatore francese ha inteso dare maggiore deterrente attraverso una regolamentazione più rigorosa e sanzioni più severe rispetto alla disciplina delle pratiche commerciali ingannevoli. Altre esperienze nazionali, come il Belgio72, l’Olanda73 e la Grecia74, invece, hanno formalmente recepito le discipline delle pratiche commerciali sleali e della pubblicità ingannevole e comparativa in un unico provvedimento, senza tuttavia provvedere ad integrarle e fondere in un unico apparato normativo, lasciandole quindi come discipline autonome e distinte, come previsto a livello europeo. In Irlanda75, Lituania76, Polonia77, Portogallo78 e Cipro79 i legislatori nazionali hanno recepito le discipline europee sulle pratiche commerciali e sulla pubblicità
Chapiter 1er (Pratiques commerciales reglementees), Sous Section 1 – Pratiques commerciales trompeuses: artt L 121-1 – L 121-7, Sous section 2 – Publicité: artt. L 121-8 – L 121 – 15-3. 71 Titolo II, Section 5 (Pratiques commerciales illecite): artt. L 122 – 11 – L 122 – 15 del Chapitre II. 72 La Direttiva 2005/29/Ce è stata attuata in Belgio con la legge del 5 giugno 2007, abrogando il Capitolo IV della Loi sur le pratiques du commerce et sur l’information et la protection du consommateur del 1991 e riformulando i contenuti del medesimo capitolo, intitolato ora De la publicité et des pratiques commerciales deloyales, e suddiviso in quattro sezioni: la prima contenente definizioni normative, la seconda relativa ai requisiti di liceità dei messaggi pubblicitari comparativa, la terza contenente la regolamentazione della pubblicità e delle pratiche commerciali tra (soli) professionisti e la quarta dedicata alle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori. 73 In Olanda, la legge 25 settembre 2008 ha inserito la disciplina delle pratiche commerciali sleali in una nuova apposita sezione del Codice Civile (Titolo III – sez. 3 A – Pratiche commerciali sleali – artt: 193 a – 193 j), nello stesso titolo in cui è contenuta la disciplina della responsabilità extra-contrattuale (sez. I e II) e la disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa (sez. IV). 74 In Grecia, la legge generale sui consumatori n. 2251 del 1994 ha recepito a seguito delle modifiche introdotte con la legge 10 luglio 2007 la disciplina delle pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori (artt. 9α - 9θ). L’art. 9 della medesima legge regola invece la disciplina della pubblicità commerciale. Sul punto si veda ALEXRANDRIDOU, The Harmonization of the Greek law with the Directive on Unfair Commercial Practices, in European Review of Contract Law, 2008, p. 174 e ss. 75 In Irlanda, la disciplina delle pratiche commerciali sleali è contenuta nelle sections 41 e ss. del Consumer protection Act 2007 del 21 aprile 2007; la disciplina sulla pubblicità ingannevole e comparativa è invece contenuta nello Statutory Instrument n. 774 del 20 novembre 2007 (European Communities – Misleading and Comparative Marketing Communications) Regulations 2007). 76 In Lituania, la disciplina delle pratiche commerciali è contenuta in una legge speciale del 21 dicembre 2007 sulla proibizione di pratiche commerciali nei rapporti fra imprese e consumatori, mentre la normativa sulla pubblicità è contenuta in un’apposita legge del 18 luglio 2000, che è stata modificata soltanto per adeguarne i contenuti alle novità nel frattempo apportate a livello europeo. 70
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attraverso provvedimenti distinti e autonomi, non necessariamente coordinati tra loro.
5.1.
L’ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA IN ITALIA
La disciplina delle pratiche commerciali sleali è stata recepita in Italia attraverso più provvedimenti normativi, ovvero i decreti legislativi n. 145 e 146 del 2 agosto 2007 e gli articoli 2, 4 e 8 del decreto legislativo del 23 ottobre 2007 n. 22180, in forza di apposita delega conferita al Governo italiano con la legge comunitaria del 200581, che non ha tuttavia dettato principi e criteri direttivi specifici per il recepimento della Direttiva, a cui si è aggiunta recentemente la legge 24 marzo 2012 n. 27 di conversione del decreto legge n. 1 del 2012. La delega al Governo non chiariva, infatti, in che modo lo Stato italiano intendesse operare all’interno degli ampi spazi di discrezionalità dati dalla Direttiva nell’ambito della disciplina sostanziale della materia. In particolare, la legge delega non aveva indicato a quali condizioni e in che modo il legislatore italiano avrebbe potuto operare nei limiti dei margini di discrezionalità concessi con riferimento alla disciplina sostanziale delle pratiche commerciali sleali così come non aveva definito
In Polonia, la Direttiva 2005/29/Ce è stata interamente recepita dalla legge 23 settembre 2007 separando tale disciplina da quella già esistente sulla pubblicità ingannevole e comparativa, che è stata soltanto adeguata a quanto prescritto dall’art. 14 della Direttiva medesima. 78 In Portogallo, il Decreto-lei n. 57/2008 del 26 marzo 2008 (artt. 1-22) contiene la disciplina delle pratiche commerciali sleali nei rapporti fra professionisti e consumatori. Gli artt. 23-24 del medesimo decreto, invece, hanno apportato al già vigente Còdigo de la Publicidade (contenente la disciplina generale della pubblicità, approvato con Decreto-lei n. 330/90 del 23 ottobre 1990) le necessarie modifiche di adeguamento prescritte dalla direttiva sulla pubblicità ingannevole e comparativa e di coordinamento con la nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali. 79 Il 18 luglio 2007 con due separate leggi, senza particolare coordinamenti tra le medesime, è stata data attuazione da parte del legislatore cipriota alla disciplina sulle pratiche commerciali sleali fra professionisti e consumatori e quella sulla pubblicità. 80Rispetto alla normativa italiana di recepimento della Direttiva 2005/29/CE, si veda AA.VV., Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza. Appendice di aggiornamento, UBERTAZZI (a cura di), Padova, 2008; AA.VV., Codice del consumo, CUFFARO (a cura di) e coordinato da BARBA E BARENGHI, Milano, 2008; BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e le modifiche al codice del consumo, in Rass.dir.civ., 2008, p. 267 e ss.; BATTELLI, Nuove norme in materia di pratiche commerciali sleali e pubblicità ingannevole, in I Contratti, 2007, p. 1113 e ss.; DE CRISTOFARO, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori: il d.lgs. n. 146 del 2 agosto 2007, attuativo della Direttiva 2005/29/Ce, in Studium iuris, 2007, p. 1181 e ss.. Sull’ultimo provvedimento, si veda, in particolare, DE CRISTOFARO, Il “cantiere aperto” codice del consumo: modificazioni e innovazioni apportate dal d.lgs. 23 ottobre 2007, n. 221, in Studium iuris, 2008, p. 265 e ss. 81 Legge 25 gennaio 2006 n. 29, pubblicata in Supplemento ordinario n. 34 alla G.U. n. 32 dell’8 febbraio 2006. 77
40
le modalità con cui colmare le lacune relative ai procedimenti nei confronti dei professionisti di cui agli artt. 11 e 12 della Direttiva. Una sorta di delega “in bianco” che è stata esercitata, quindi, nel rispetto esclusivamente dei criteri direttivi generali di cui all’art. 3 della legge n. 29 del 2006 che impongono un coordinamento con le discipline già vigenti per i singoli settori interessati dalla materia regolata. Ciò ha portato all’emanazione dapprima dei decreti n. 145 (“Attuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/Ce che modifica la direttiva 84/450/Cee sulla pubblicità”) e 146 del 2 agosto 2007 (“Attuazione della direttiva 2005/29/Ce relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/Cee, 97/27/Ce, 98/27/Ce, 2002/65/Ce e il regolamento (Ce) n. 2006/2004”): il primo contenente la disciplina generale della pubblicità ingannevole e comparativa, così come modificata dall’art. 14 della Direttiva, e originariamente inserita nel d.lgs. 74 del 28 gennaio 1992 e successivamente trasportata negli artt. 18-27 del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (“Codice del Consumo”)82; il secondo, composto di 5 articoli, contenente l’intera disciplina delle pratiche commerciali sleali, attraverso il quale si è provveduto alla sostituzione del Titolo III della Parte II del Codice del Consumo. Gli interventi normativi in questione hanno portato, quindi, al recepimento nell’ordinamento italiano di una disciplina sino ad allora sconosciuta e non regolata. Deve al riguardo considerarsi che, tuttavia, al momento del recepimento, il legislatore italiano ha optato per l’uso dell’aggettivo “scorrette” al posto di quello utilizzato in ambito europeo, ovvero “sleali” per qualificare le pratiche commerciali da vietarsi, probabilmente con l’obiettivo di far percepire la differenza tra la disciplina in questione che tutela esclusivamente i rapporti Business to Consumer da quella della concorrenza sleale di cui al Codice Civile e applicabile esclusivamente ai rapporti tra professionisti concorrenti. L’attuazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette di cui alla Direttiva è stata poi completata: (i) con il d.lgs. 23 ottobre 2007 n. 221 (“Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206, recante Codice del
82
Pubblicato in G.U. n. 278 del 29 novembre 2007.
41
Consumo”83) che, oltre a rendere omogenee le formulazioni testuali delle disposizioni contenute nell’ambito del Codice del Consumo, ha, tra le altre, per quanto qui interessa, inserito nell’elenco dei diritti riconosciuti ai consumatori e agli utenti “come fondamentali” di cui all’art. 2, comma 2, del Codice del Consumo, il diritto “all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà”, ora espressamente contemplato alla lettera c-bis), e (ii) da ultimo, con la legge 24 marzo 2012 n. 27 che ha esteso anche alle c.d. “microimprese” le tutele di cui alla disciplina in questione, sino ad ora riconosciute in Italia ai soli consumatori84. Il dato normativo sopra rappresentato attesta come il legislatore italiano abbia optato per una autonomia formale e sostanziale tra (i) la disciplina delle pratiche commerciali sleali, contenuta nel Codice del Consumo e (ii) la disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa per come modificata dalla stessa Direttiva, inserita in un provvedimento normativo ad hoc. Ciò, però, non ha escluso che la competenza di accertare la violazione di entrambe le discipline sia stata incentrata su di un’unica Autorità, ovvero l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito anche “AGCM”) e le sanzioni applicabili ai professioni e il procedimento di irrogazione delle medesime in caso di violazione di entrambe le discipline siano sostanzialmente identiche85. Tale originale soluzione del legislatore ha portato conseguenze pratiche di non poco conto. Si tratta di un c.d. decreto “correttivo” che ha introdotto le seguenti modifiche ed integrazioni al Codice del Consumo: a) l’art. 4 del D.lgs. n. 221/2007 ha modificato la rubrica del Titolo III, Parte II del Codice del Consumo, ora rubricato “Pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni commerciali”; b) l’art. 8 del D.lgs. n. 221/2007 ha sostituito l’art. 57, comma 2 relativo alle forniture non richieste, rendendo omogenei i richiami normativi, nonché la stessa formulazione testuale, a cui si considerano soggette le forniture richieste dall’art. 57 del Codice del Consumo, sia quelle previste dall’art. 67 quinquies decies del Codice del Consumo relativo ai servizi non richiesti; c) l’inserimento tra i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti di quello “all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà”, ora contenuto all’art. 2, comma 2, lettera c-bis) del Codice del Consumo. 84 L’art. 18, lettera d-bis) definisce le microimprese come “entità, società o associazioni, che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un’attività economica, anche a titolo individuale o familiare, occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 3, dell’allegato alla raccomandazione n. 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003”. 85 Non esistono sostanziali differenze tra i regolamenti attuativi adottati dalla AGCM per i procedimenti di cui all’art. 27 Cod. Cons. ossia quelli in materia di pratiche commerciali scorrette e per i procedimenti di cui all’art. 8 del d.lgs. 145/2007 in materia di pubblicità ingannevole e comparativa illecita (si veda FALCE, Commento, in Dir. Ind., 2008, p. 57 e ss.). 83
42
Infatti, se sul piano teorico e formale la differenza delle discipline è caratterizzata da una piena autonomia e il rispettivo ambito di applicazione è ben delineato, a livello pratico, con la concentrazione in capo ad un’unica Autorità della competenza di fare applicazione delle due discipline l’importanza delle differenze è di fatto ampiamente ridotta. Quanto sopra dedotto porta a poter sostenere che nell’ambito dell’ordinamento italiano, la disciplina delle pratiche commerciali scorrette e la disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa tutelano entrambe gli interessi dei professionisti concorrenti che pongono in essere pratiche commerciali e promuovono i propri prodotti attraverso messaggi pubblicitari. Nel caso della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, tuttavia, tale tutela è soltanto indiretta, in quanto la medesima è rivolta a proteggere soltanto gli interessi economici dei consumatori, ovvero di tutti coloro i quali operano sul mercato, ma per finalità non professionali, e delle microimprese, mentre nel caso della disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa la tutela è nei confronti di tutti coloro i quali il messaggio pubblicitario è rivolto, compresi i concorrenti. Anche l’ambito di applicazione delle due discipline è, come detto, ben distinto, sia da un punto di vista oggettivo che soggettivo. Sul piano oggettivo, la nozione di “pratica commerciale” è decisamente ampia a volta a ricomprendere, di fatto, tutte le condotte, attive o omissive, poste in essere dal professionista, inclusa la stessa pubblicità86, come recita testualmente l’art. 18, lett. d) del Codice del Consumo. Sul piano soggettivo, la disciplina delle pratiche commerciali si applica esclusivamente ai rapporti tra professionisti e i soggetti “deboli” individuati dal legislatore, ovvero consumatori e attualmente anche microimprese, mentre il d.lgs. 145/2007 si applica in linea di principio a qualsiasi messaggio pubblicitario, a prescindere dal soggetto cui è rivolto e dal fatto che il bene o il servizio pubblicizzato possa essere utilizzato anche o soltanto nell’ambito di attività professionale. Di fatto, tale disciplina trova, però, concretamente applicazione
86
Si veda la nozione di “pubblicità” di cui all’art. 2, lett. a), d.lgs. n. 145/2007.
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soltanto nei casi di messaggi pubblicitari rivolti in via esclusiva a imprenditori o liberi professionisti o anche alle micromprese87, dovendo, invece, le pubblicità ingannevoli destinate anche – o soltanto – ai consumatori essere valutate sulla base dei criteri di cui agli artt. 21-23 del Codice del Consumo nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali ingannevoli. Se da un punto di vista sistematico la creazione di due discipline autonome e in parte sovrapponibili, collocate addirittura in due distinti testi normativi, possa apparire come una scelta illogica, in realtà, la medesima è coerente con i principi dell’ordinamento italiano che pone all’interno del Codice del Consumo esclusivamente fattispecie connesse con la tutela del consumatore, inteso come figura chiave del mercato e come soggetto distinto e autonomo dall’aderente, dal lavoratore o dal semplice acquirente di un bene o di un servizio. Più in particolare, il legislatore italiano ha optato di inserire la disciplina in questione nella Parte II, Titolo III rubricato “Pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni commerciali” che sino ad allora aveva ospitato la disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa88.
L’art. 19 del Codice Consumo rubricato “Ambito di applicazione” prevede che “1. Il presente titolo si applica alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un'operazione commerciale relativa a un prodotto, nonché alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese. Per le microimprese la tutela in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa illecita è assicurata in via esclusiva dal decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145. Il decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 ( Attuazione dell'articolo 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole)”. 87
In realtà, probabilmente da un punto di vista sistematico, la sede corretta di tale disciplina, in ragione della nota ampiezza della nozione di “pratica commerciale”, sarebbe stata la Parte III del Codice del Consumo intitolata “Il rapporto di consumo”, contenente le disposizioni riguardanti i contratti conclusi tra professionisti e consumatori e regolante ogni fase di tale rapporto, dagli obblighi informativi nella fase precontrattuale sino all’eventuale scioglimento. L’incoerenza nella collocazione di tale disciplina deriva dal fatto che nella Parte II sono disciplinate esclusivamente fattispecie attinenti la fase che precede l’eventuale conclusione del contratto (ad esempio, la disciplina dell’etichettatura dei prodotti o l’obbligo del professionista di indicazione dei prezzi per unità di misura), mentre la “pratica commerciale” può essere posta in essere dal professionista anteriormente, contestualmente o anche posteriormente un rapporto contrattuale tra professionista, da un lato, e consumatore e/o microimpresa, dall’altro lato, anche se, secondo parte della dottrina, una diversa collocazione avrebbe portato ad appiattire la disciplina in questione all’interno di quella contrattuale (si veda al riguardo BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e le modifiche al codice del consumo, in Rass.dir.civ., 2008, p. 273). Se, però, si considera, per quanto si dirà più approfonditamente in seguito, che il legislatore italiano non ha previsto disposizioni che riconnettono conseguenze privatistiche in caso di violazione da parte del professionista del divieto di porre in essere pratiche commerciali scorretta, ma che, anzi, in caso di sua violazione sono contemplate esclusivamente 88
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Da un punto di vista normativo le disposizioni di riferimento sono: gli artt. 18 e 19 che contengono le “Disposizioni generali” e, oltre alle definizioni, individuano l’ambito di applicazione e la portata della disciplina e le relazioni intercorrenti con le altre discipline; gli artt. 20-26 (“Pratiche commerciali scorrette”) che ripropongono in dettaglio, pedissequamente, la specifica disciplina delle pratiche commerciali di cui agli artt. 5-9 della Direttiva oltre all’Allegato I alla medesima; da ultimo, gli artt. 2727-quater che recepiscono, invece, gli artt. 10-13 della Direttiva. Nonostante fosse stato richiesto a livello europeo, il Governo italiano si è di fatto limitato a recepire pedissequamente la Direttiva senza effettuare una specifica verifica della legislazione previgente al fine di verificarne la compatibilità con la nuova disciplina e di assicurare quell’armonizzazione completa a livello europeo, auspicata dal legislatore. L’unica vera e significativa novità sostanziale introdotta dal legislatore italiano rispetto alla disciplina europea è rappresentata dall’estensione della medesima ai rapporti tra professionisti e microimprese. Ciò significa che ad essere tutelati, nell’ambito dell’ordinamento italiano, da condotte scorrette poste in essere da professionisti non saranno solo persone fisiche che agiscono per fini che non rientrano nel quadro della loro attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, ma anche persone fisiche e/o giuridiche che svolgono un’attività economica, occupando meno di dieci persone e realizzano un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiori a due milioni di euro. L’entrata
in
vigore
della
disciplina
delle
pratiche
commerciali
scorrette
nell’ordinamento italiano non ha portato, però, ad alcuna modifica delle discipline
sanzioni amministrative pecuniarie erogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la visione prettamente “pubblicistica” data dal legislatore italiano a tale materia, allora può, forse, far comprendere la collocazione di tale disciplina. Infatti, la violazione delle disposizioni di cui alla Parte II del Codice del Consumo determina esclusivamente l’applicazione di sanzioni pubblicistiche, mentre la violazione delle prescrizioni della Parte III, in gran parte dei casi, porta a riconnettere conseguenze giuridiche di diritto privato in caso di loro violazione (oltre comunque alla possibilità in molti casi di applicazione di sanzioni amministrative).
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ad essa interferenti89. Ciò ha fatto sì che disposizioni che sarebbero dovute rientrare nell’ambito della nuova disciplina, come quella delle c.d. vendite piramidali, di cui agli artt. 5, 6 e 7, comma 1, della legge 17 agosto 2005 n. 173, sono rimaste formalmente immutate, nonostante l’ambito di operatività sia stato ampiamente ridotto. Ma la trasposizione testuale pressoché integrale della traduzione italiana della Direttiva ha portato anche a delle questioni interpretative di non poco conto, considerato che se determinate locuzioni potevano avere un senso in un provvedimento di armonizzazione delle legislazioni, le medesime non lo hanno nel successivo provvedimento di recepimento. Ne consegue, paradossalmente, una difficoltà reale nel dare corretta interpretazione, in particolare, alle disposizioni relative all’ambito di applicazione delle disposizioni in materia di pratiche commerciali scorrette (art. 19 del Codice del Consumo). Questo è quanto accade all’art. 19, comma 2, lett. a) del Codice del Consumo che afferma che la disciplina delle pratiche commerciali scorrette “non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità ed efficacia dei contratti”, senza però far comprendere a cosa si riferisca il non pregiudicare: se la normativa generale sulla formazione, validità ed efficacia dei contratti non debba in alcun modo tenere in considerazione la disciplina delle pratiche commerciali scorrette o se, semplicemente, che tale normativa non apporta modifiche alla disciplina generale dei contratti che resta, quindi, applicabile anche ai contratti dei consumatori. Volendo dare una soluzione applicativa, si ritiene che tale disposizione debba essere interpretata nel senso che il legislatore italiano non ha inteso prevedere conseguenze
Sono rimaste invariate la disciplina della concorrenza sleale di cui al Codice Civile, la disciplina a tutela della concorrenza e del mercato (legge 10 ottobre 1990 n. 287), la legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941 n. 633), il codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30), senza però che vi sia stata alcuna opera di coordinamento tra le medesime e il Codice del Consumo, come in realtà auspicato dal legislatore europeo. Quello che si può constatare è che manca nell’ordinamento italiano un effettivo raccordo delle normative. 89
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civilistiche speciali in caso di contratti conclusi a causa di una pratica commerciale scorretta, ma soltanto rinviare alla disciplina generale di cui al codice civile90. Per il legislatore italiano, quindi, il fatto che un contratto dipenda da una pratica commerciale scorretta non è ex se motivo di invalidità e comunque di inefficacia del contratto medesimo, né suscettibile di essere sciolto unilateralmente dal consumatore con recesso ad nutum. Del pari, la violazione del divieto di pratiche commerciali sleali non porterà all’annullamento del contratto, essendo la cause di annullabilità esclusivamente quelle previste dal Codice Civile91. Non può, tuttavia, negarsi che l’evolversi della materia e l’emanazione di provvedimenti in termini da parte dell’AGCM non portino ad estendere le nozioni tradizionali di “raggiri”, “minacce”, “violenza” o di “dolo omissivo” e che ciò possa avere un’influenza anche sul diritto contrattuale. Così come previsto dal legislatore europeo, anche nell’ordinamento italiano sono state previste delle clausole di salvaguardia espressa per l’applicazione di disposizioni operanti su piani distinti, anche al fine di evitare duplicazioni regolamentari e interferenze applicative tra la disciplina in questione e altre già in vigore, come nel caso delle disposizioni in materia di salute e sicurezza dei prodotti, della competenza giurisdizionale e di quelle relative allo stabilimento, ai regimi di autorizzazione, ai codici deontologici o altre norme specifiche che disciplinano le professioni regolamentate. Ciò è giustificato dalla natura sussidiaria riconosciuta dal legislatore europeo alla disciplina delle pratiche commerciali sleali rispetto alla norme speciali di derivazione comunitaria vigenti (si veda il considerando n. 10 della Direttiva). Di conseguenza, il legislatore italiano ha confermato la natura di disciplina “quadro” della Direttiva prevedendo che in caso di contrasto le disposizioni di cui alla direttiva o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano specifici aspetti delle pratiche commerciali sleali, La soluzione adottata nel caso di specie è differente da quella invece prevista nell’attuazione della direttiva 2005/65/Ce relativa alla commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, in cui è stato espressamente previsto che “il contratto è nullo nel caso in cui il fornitore […] viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche” (art. 67 septies decies, comma 4, del Codice del Consumo). 91 Sulle conseguenze giuridiche del divieto di pratiche commerciali sleali si veda Cap. II, § 5. 90
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saranno queste ultime a prevalere e ad essere applicate. Per cui, nel caso una disposizione speciali vieti una determinata condotta posta in essere dal professionista perché idonea a pregiudicare gli interessi economici dei consumatori essa sarà da considerarsi illecita a prescindere dall’esame della sua possibile “scorrettezza”, mentre se la norma speciale qualificherà lecita una condotta, la medesima non potrà essere vietata anche se in applicazione dei criteri di cui agli artt. 20-26 del Codice del Consumo sarebbe da ritenersi scorretta. In sostanza, il divieto generale in materia di pratiche commerciali scorrette si applicherà fatto salvo il caso della sussistenza di una diversa disposizione europea o nazionale di derivazione europea che regoli uno specifico aspetto della medesima pratica, che avrà sempre e comunque la precedenza92. Eccezione è data alla ipotesi di prestazione di “servizi non richiesti” in sede di “commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori”, per il quale, l’art. 67 quinquies decies, comma 2, del Codice del Consumo prevede che “salve le sanzioni previste dall’art. 67 septies decies, ogni servizio non richiesto di cui al presente articolo costituisce pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 21, 22, 23, 24, 25 e 26”. È, però, vero che i possibili profili di conflitto possono riguardare non solo il diritto sostanziale applicabile, ma anche le competenze e i poteri delle diverse Autorità indipendenti che caratterizzano l’ordinamento italiano e a cui sono state attribuite la vigilanza e la regolamentazione di specifici settori del mercato. Per risolvere tale questione occorre sempre in concreto individuare gli interessi tutelati e nel caso di possibile sovrapposizione del medesimo interesse generale da tutelare, al fine di evitare duplicazioni degli interventi, sarà necessario ricorrere ai principi che presiedono la risoluzione dei conflitti di competenza93.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha rilevato che il legislatore europeo, con riguardo alle ipotesi di contrasto, “ha optato per l’esclusione dell’applicazione delle norme generali in materia di pratiche commerciali scorrette, laddove esista una apposita norma settoriale – assistita da concreti poteri di enforcement e sanzionatori – che non si limiti all’affermazione di un principio o alla mera individuazione del contenuto di obblighi informativi e comportamentali per la tutela dei consumatori” (Consiglio di Stato, 3 dicembre 2008, n. 3999). 92
Sul punto, il Consiglio di Stato, in sede consultiva, “riguardo al settore dei servizi finanziari, la disciplina generale sulle pratiche commerciali scorrette, per la quale è competente l’AGCM, non si applica se ed in quanto operano disposizioni sugli obblighi informativi e di correttezza nella commercializzazione dei servizi finanziari, la cui applicazione è riservata alla Consob” (Consiglio di Stato, Sez. I., 3 dicembre 2008, n. 3999). Sulla scia di tale orientamento, l’AGCM si è pronunciata in merito all’infondatezza “della tesi del professionista 93
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Nel caso, invece, di contrasti tra la disciplina in questione e disposizioni vigenti, ma non attuative del diritto europeo o comunque che non riguardino “professioni regolamentate”, il legislatore italiano non ha dato soluzioni, ma si ritiene che al fine di garantire l’obiettivo dell’armonizzazione completa delle legislazioni nazionali perseguita dalla Direttiva, le disposizioni attuative della medesima dovranno sempre prevalere. La mancata presa di posizione del legislatore italiano su tale questione è coerente con la scelta presa dallo stesso al momento del recepimento della Direttiva, non avendo inteso esercitare le opzioni concesse dalla medesima, nonostante ciò fosse possibile, nonostante l’apparente contrasto con l’obiettivo dell’armonizzazione massima delle legislazioni.
5.2.
L’ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA IN INGHILTERRA
Come in Italia, anche in Inghilterra, prima del recepimento della Direttiva, non esisteva una disciplina specifica delle pratiche commerciali, in un Paese dove le Corti si erano da sempre mostrate riluttanti a sviluppare un principio generale di concorrenza leale. Ciò si può comprendere se si considera che la politica inglese è sempre stata improntata a principi di assoluta libertà del commercio e quindi di concorrenza. La materia era regolata da previsioni sparse in oltre cento Acts and Statutory Regulations, senza però una previsione di una apposita disciplina delle pratiche commerciali sleali, a cui si aggiungevano, secondo la tipica tradizione di Common law, precedenti giurisprudenziali vincolanti e Codici di Condotta, il tutto in assenza della previsione di azioni specifiche per sanzionare condotte anticoncorrenziali a danno dei consumatori.
secondo cui l’esistenza di una normativa sulla trasparenza e sugli obblighi informativi nel settore bancario di riferimento di competenza della Banca d’Italia dovrebbe condurre, in ossequio al principio di specialità [da riferirsi all’oggetto dell’intervento], ad escludere l’applicazione del Codice del Consumo da parte dell’Autorità […], per quanto attiene alla pubblicità, alla trasparenza dei contratti ed alla correttezza dei comportamenti del professionista” (Provvedimento AGCM, 16 aprile 2009, n. 19761).
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Come è noto, infatti, il diritto inglese non ha conosciuto, di fatto, né il rinnovamento prodotto dal diritto romano, né quello operato dalla codificazione che hanno, invece, caratterizzato gli ordinamenti romano-germanici, come quello italiano94. La tradizione giuridica inglese è essenzialmente “un modo di essere del pensiero giuridico e giudiziario, una maniera di affrontare i problemi giuridici, piuttosto che un corpo consolidato di regole determinate”95. Il diritto inglese risulta, infatti, formato da tre parti: (i) common law, ovvero quella parte del diritto sviluppatasi nelle tre classiche Corti di Westminster, quali la Court of King’s Bench, la Court of Exchequer e la Court of Common Pleas; (ii) equity, intesa come la parte del diritto che si è sviluppata nella Court of Chancery e (iii) statute law, ovvero le leggi scritte, di cui la prima parte risulta essere la struttura portante e principale dell’intero diritto inglese. L’equity nasce, infatti, solo con una funzione complementare per correggere il rigore e rimediare alle carenze del common law, mentre gli statutes, ovvero le leggi scritte, hanno avuto soltanto un rilievo “eccezionale” nell’ambito del sistema inglese e devono comunque essere interpretati nello spirito della common law stessa. Intorno alle leggi scritte, quindi, si intesse poi “una fitta maglia di precedenti vincolanti e insieme a questi vengono a far parte indissolubilmente del tessuto unitario del Common Law”96. Ove una disposizione legislativa manchi, quindi, le varie articolazioni o branche del diritto inglese si sono sviluppate attraverso l’attività delle corti di giustizia97. Per sopperire, quindi, alla mancanza di una disciplina compiuta che regolasse i rapporti tra professionisti e consumatori, prima dell’entrata in vigore della Direttiva in Inghilterra, si ricorreva alla figura dei torts, ovvero a figure di illecito tipizzate dalla giurisprudenza, tra le quale, ad esempio, il rilascio di false dichiarazioni, ossia Sulle caratteristiche e l’evoluzione del sistema di common law si vedano in particolare: MOCCIA, Glossario per uno studio della “common law”, Milano, 1981; MOCCIA, Comparazione giuridica e diritto europeo, Milano, 2005; GAMBARO – SACCO, Sistemi giuridici comparati, in Trattato di Diritto comparato diretto da SACCO, Milano, 2008; DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 2004, oltre a GORLA, Il diritto comparato in Italia e nel “mondo occidentale” e una introduzione al “dialogo civil law – common law”, Milano, 1983. 95 POUND, Lo spirito della “Common Law”, Milano, 1970, p. 5. Sul medesimo argomento, ASCARELLI ha affermato che “la common law piuttosto che costituire un sistema, costituisce una specie di saggezza fondata sulla tradizione collettiva della professione e sulla consumata esperienza nel trattare problemi giuridici”, in “Il contratto” di Gino Gorla, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1956, pp. 924 e ss., rifacendosi a un pensiero di LAWSON, A Common Lawyer looks at the Civil Law, Ann Arbor, 1953. 96 RADBRUCH, Lo spirito del diritto inglese, Milano, 1962, p. 28, secondo il quale, inoltre, “la legge può essere compresa e interpretata soltanto a partire dal proprio testo; le motivazioni, cioè le relazioni sul progetto legislativo e i lavori parlamentari, vengono subito intenzionalmente dimenticati”. 97 MOCCIA, Comparazione giuridica e diritto europeo, Milano, 2005, p. 141. 94
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il c.d. malicious falsehood98. I torts rappresentano, infatti, nella esperienza inglese i “tipi” di illecito che in tale sistema ricevono sanzione a titolo di responsabilità civile (tort liability o, anche, civil liability)99, la cui disciplina è pressoché dominata e, in buona parte, assorbita da una figura di illecito, il cosiddetto tort of negligence, avente applicazione assai estesa e caratterizzata da indefinite possibilità applicative100. Ciò era dovuto, in particolare, anche alle note difficoltà dei giuristi inglesi a riconoscere concetti generici come la buona fede o la stessa slealtà, ritenuti concetti estremamente soggettivi e dipendenti dalle concezioni individuali di ciascuna persona, infatti, “to draw a line between fair and unfairness competition, between what is reasonable and unreasonable, passes the power of courts”101. In tale contesto, in data 26 maggio 2008, è, quindi, entrato in vigore lo Statutory Instrument n. 1277/2008 “Consumer Protection from Unfair Trading and Business Protection from Misleading Marketing Regulations” (“CPUTR”) con cui è stata attuata in Inghilterra la disciplina delle pratiche commerciali sleali, di cui alla Direttiva. Un iter quello che ha portato al recepimento di tale disciplina sicuramente più complesso rispetto ad altri Stati membri, come l’Italia, tanto che l’entrata in vigore della medesima è avvenuto ben tre anni dopo l’emanazione della Direttiva. Questo perché in Inghilterra è sorto un ampio dibattito sul contenuto dell’atto europeo e in particolare su questioni ritenute rilevanti, in un’ottica di competitività del mercato affiancata alla tutela del consumatore, quali la nozione di danno, che per tali fattispecie può essere esiguo se preso singolarmente, ma copioso se considerato collettivamente, l’onere della prova e, soprattutto sul concetto di diligenza professionale, dovendo dare concretezza agli standard etici e compartimentali offerti dalla Direttiva. In sostanza, l’adozione della disciplina delle pratiche commerciali sleali è stata preceduta da un ampio (e lungo) dibattito sulle opzioni che il legislatore europeo Rispetto al quale e per quanto si dirà più diffusamente in seguito, si veda ZENO ZENCOVICH, La responsabilità civile, in AA.VV., Diritto privato comparato – Istituti e problemi, Bari, 2008, pp. 335 e ss. 99 MOCCIA, Comparazione giuridica e diritto europeo, Milano, 2005, p. 255. 100 MILLNER, Negligence in Modern Law, London, 1967. 101 Affermazione di Lord Fry Lj nel caso Mogul Steamship Co. v. McGregor Gow & Co., (1889) 23 Ch. D. 598 at 625 - 626 in DE VREY, Towards a european unfair competition law: a clash between egal famiglie, LeidenBoston, 2006. 98
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aveva lasciato aperte e, in particolare, sulla scelta del sistema sanzionatorio da applicare, sulla natura penale o civile dell’illecito commerciale, sull’impatto che dette sanzioni avrebbero avuto sui professionisti e sull’individuazione delle autorità competenti per l’enforcement delle Regulations. Nel dicembre 2005, il Governo inglese fu chiamato dalla Law Commissions – organismo indipendente creato dal Parlamento con il Law Commissions Act del 1965 – a rispondere a una consultazione su come la Divertita dovesse essere trasposta nel diritto inglese. Nel dicembre 2006, dopo che anche l’Office of Fair Trading (“OFT”) aveva risposto alla consultazione nel marzo 2006, il Governo inglese comunicò l’intenzione di abrogare 23, in parte o totalmente, leggi previgenti in materia per evitare di duplicare inutilmente le tutele e per modernizzare e semplificare la disciplina generale di protezione del consumatore in Inghilterra. Al contempo, era intenzione del Governo inglese prevedere un efficace sistema sanzionatorio idoneo per ogni violazione della disciplina. Nel maggio 2007, il Governo attraverso il Department for Business, Enterprise and Regulatoty Reform (BERR) presentò una nuova consultazione sul disegno di regolamento di attuazione della Direttiva, sottolineando l’obiettivo di armonizzare le legislazioni all’interno dell’Unione europea, prevenendo le pratiche commerciali che siano sleali nei confronti dei consumatori, così da contribuire allo sviluppo del mercato europeo comune e dare maggiore fiducia ai consumatori nell’acquistare in Inghilterra e oltre detti confini, attraverso la garanzia di un comune ed elevato standard di protezione dei consumatori stessi. In contemporanea, l’OFT pubblicò una guida esplicativa del contenuto della medesima al fine di offrire massima informazione e trasparenza sull’introduzione di tale nuova disciplina all’interno del diritto inglese. Dibattito questo che è sicuramente mancato in Italia e che ha portato, come visto, a una trasposizione integrale del testo della Direttiva, senza una accurata disamina dell’impatto che la stessa avrebbe avuto sull’ordinamento italiano e, ancor più
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grave, senza preoccuparsi di risolvere le questioni lasciate aperte dalla stessa Direttiva, come invece accaduto nel Regno Unito. Il Governo inglese102, infatti, si è impegnato a trovare quel regime attuativo più efficace nella lotta alle pratiche commerciali sleali, ma che imponesse oneri minimi per quei professionisti che operano sul mercato lealmente. Per questo, le soluzioni individuate dal legislatore inglese prevedono rimedi esclusivamente civilistici in caso di violazioni di lieve entità, mentre in caso di comportamenti gravemente sleali, oltre all’attribuzione di poteri investigativi in capo alle autorità competenti, le sanzioni previste sono di tipo penale, in quanto maggiormente dissuasive. Tra i possibili strumenti correttivi, il Governo inglese ha individuato altresì la revoca delle licenze commerciali, sanzioni amministrative e la pubblicità della condotta sleale posta in essere dal professionista. Inserito nel contesto dell’ordinamento inglese, il modello di regolamentazione delle pratiche commerciali sleali proposto dal Governo riflette così la tradizione e la storia delle tradizioni industriali inglesi. Del resto, la previsioni di responsabilità penali in capo ai professionisti rei di danneggiare con le proprie condotte il popolo dei consumatori era già stato previsto in caso di alimenti alterati o di prodotti difettosi, in ragione del fatto che da tali condotte il consumatore può subire non solo pregiudizi economici, ma anche lesioni personali. Esaminando nel dettaglio la normativa di attuazione inglese, nella prima parte della CPUTR vengono fornite, come nella Direttiva, le definizioni di commercial practice103 e di avarage consumer, mentre nella seconda, viene introdotto il divieto generale di pratiche sleali, intese come tutte quelle azioni od omissioni poste in essere dal professionista che non rispettano il parametro della diligenza professionale e che si concretizzano in azioni e/o omissioni ingannevoli, pratiche aggressive e tutte quelle in ogni caso sleali di cui alla black list. Inoltre, sono vietate le induzioni a comportarsi scorrettamente da parte di coloro che sono responsabili per i codici di condotta.
Si veda al riguardo il Government response to the Consultation Paper on Implementing the Unfair Commercial Practices Directive 2006 103 Si intende per pratica commerciale “any act, omission, course of conduct, representation or commercial communication by a trader, which is directly connected with the promotion, sale or supply of a product to or from a consumer, wheter occurring before, during or after a commercial transaction in relation to a product”. 102
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Particolarmente rilevante per l’impostazione della disciplina è, senza dubbio, la terza parte delle CPUTR in cui, andando oltre ai precetti del diritto europeo, si qualifica la pratica commerciale sleale, salvo limitate eccezioni, come un reato, quindi come un’offesa di rilevo penale. Per la configurazione del medesimo, l’elemento soggettivo in capo al professionista può essere sia il dolo sia la colpa, con prescrizione in tre anni che decorre dal giorno della commissione del fatto o di un anno dalla scoperta del fatto ad opera del pubblico ministero. Nel caso in cui la pratica commerciale sleale sia stata posta in essere da una persona giuridica, il legislatore inglese ha previsto una responsabilità solidale tra quest’ultima e la persona fisica che l’ha posta in essere e le cui azioni si manifestano all’esterno come imputabili alla persona giuridica. Le sanzioni applicabili sono il pagamento di una pena pecuniaria in caso di condanna sommaria, mentre in caso di condanna definitiva, oltre al pagamento di una multa di importo maggiorato, il legislatore ha altresì previsto la possibilità di reclusione del professionista per un periodo non eccedente ai due anni. Per risultare esente da responsabilità, il professionista dovrà dare prova di avere rispettato il dovere di diligenza e che quindi la pratica commerciale considerata sleale sia stata dovuta a un errore, o ad altrui induzione in errore, a un fatto imputabile a un soggetto terzo o a qualsiasi altra causa non imputabile all’imputato. In quest’ultima ipotesi rientra l’incolpevole pubblicazione pubblicitaria che si verifica allorquando l’editore dimostra di avere ricevuto il messaggio, ma di non aver alcun motivo per presumerne l’illiceità. La quarta parte delle CPUTR individua nell’OFT – oltre le autorità locali appositamente individuate - e nel Dipartimento per l’Impresa e gli Investimenti dell’Irlanda del Nord, i soggetti a cui è stato assegnato un dovere di enforcement di contrasto delle pratiche commerciali sleali, attraverso ampi poteri di controllo sui prodotti e ispezioni anche ai locali commerciali. Tali autorità possono, altresì, richiedere autonomamente o su richiesta del giudice tutta la documentazione commerciale necessaria ai fini dell’indagine e anche sequestrare beni e documenti per un periodo non superiore a tre mesi. 54
Al fine di evitare che le indagini delle autorità competenti arrechino ingiustificati pregiudizi a carico dei professionisti leali, le stesse potranno essere sottoposte al risarcimento dei danni causati nel caso in cui sia accertata la mancata violazione delle CPUTR. Da ultimo, il § 26 ha previsto una modifica dell’Allegato 13 dell’Enterprise Act del 2002 prevedendo così che il mancato rispetto delle disposizioni di cui alla Direttiva sono punite come violazioni della normativa europea. Particolare attenzione, in ragione della peculiarità della disposizione, è l’esonero previsto nella parte quinta delle CPUTR per la Corono inglese dalle responsabilità connesse all’applicazione delle pratiche commerciali sleali. Il provvedimento in questione è corredato da quattro specifici allegati: il primo che riporta fedelmente la black list delle pratiche da considerarsi in ogni caso sleali di cui all’Allegato A della Direttiva; il secondo che contiene gli emendamenti connessi all’attuazione della disciplina delle pratiche commerciali sleali di cui alle CPUTR, per evitare che le leggi inglesi impongano requisiti che eccedano quanto previsto dal legislatore europeo, così da realizzare l’obiettivo dell’armonizzazione completa fra le legislazioni degli Stati membri104. L’Allegato 3 contiene, invece, la lista delle leggi provvisoriamente in vigore, mentre l’Allegato 4 l’elenco della normativa abrogata. Il recepimento della disciplina delle pratiche commerciali sleali in Inghilterra ha segnato sicuramente un passaggio importante nell’economia e nella legislazione del Paese, che ha confermato come lo stesso sia sempre più proiettato verso lo scenario europeo, facendo attenuare quelle differenze evidenziate dalla comparazione effettuata nel XX secolo tra sistemi giuridici di Civil Law e sistemi di Common Law. Deve segnalarsi in particolare la modifica del Trade Description Act del 1968 nella parte in cui qualifica determinati comportamenti commerciali come reati; del Fair Trading Act del 1973 nella parte in cui disciplina il potere d’ispezione e confisca di beni e documenti; del Consumer Credit Act del 1974 nella parte in cui dispone in merito alla pubblicità fuorviante e sul rilascio di false informazioni al debitore-consumatore; del Consumer Protection Act del 1987 nella parte in cui disciplina la falsa indicazione del prezzo, il significato della nozione di fornitura (supply) e la non imputabilità per il mancato rispetto del dovere di diligenza; del Trade Marks Act del 1994 nella parte in cui disciplina l’uso non autorizzato di marchi in relazione ai beni; del Criminal Justice and Police Act del 2001 nella parte in cui dispone sui poteri di ispezione e confisca sui luoghi e persone e nella parte relativa alle condizioni di esercizio di questi poteri. 104
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Secondo studiosi come il Gorla, in realtà, tali differenze non sarebbero, però, mai state così nette essendo da sempre il diritto inglese parte del diritto comune europeo, al pari dei diritti continentali105. Non può, però, negarsi che la Direttiva è stata recepita da uno specifico testo normativo che ha inciso profondamente su tutta la normativa vigente, anche perché, come detto, a differenza dell’Italia, in Inghilterra l’entrata in vigore di tale disciplina è stata caratterizzata da un ampio dibattito istituzionale che ha anticipato un complesso lavoro di abrogatio e di emendatio che è stato realizzato per consentire di recepire efficacemente la normativa europea. Con le CPUTR, quindi, il legislatore inglese ha confermato la volontà di razionalizzare la propria normativa e di adeguarla ai parametri europei, al fine di permettere un riavvicinamento delle legislazioni nazionali, strumentale alla creazione di un grande unico diritto europeo che permetta di sfruttare appieno le potenzialità del mercato unico.
6.
LA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI: UN’ARMONIZZAZIONE (FORSE NON) “PIENA”?
Nonostante non vi sia una disposizione che espressamente riconosca alla Direttiva la natura di provvedimento di armonizzazione completa106, tale obiettivo è stato concretizzato attraverso l’introduzione nella Direttiva di una c.d. clausola di “stand still” che prevede che “gli Stati membri possono continuare ad applicare disposizioni nazionali più dettagliate o vincolanti di quelle previste dalla […] direttiva nel settore da essa armonizzato, in attuazione di direttive contenenti clausole minime di armonizzazione” (art. Sul punto non possono non considerarsi le rilevanti riflessioni di GORLA il quale parla di un revisiting della comparazione fra diritto inglese e diritto continentale contenute in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1980 e Il diritto comparato in Italia e nel “mondo occidentale” e una introduzione al “dialogo civil law – common law”, Milano, 1983. Fino alla fine della seconda guerra mondiale, per Gorla, la scena del diritto comparato del XX secolo era dominata dalla comparazione o cosiddetto dialogo civil law – common law e ne è ancora oggi dominata. Dagli studi compiuti dallo stesso Gorla, a causa di quella che egli stesso definisce la c.d. grande lacuna, emerge tuttavia che la distinzione tra diritto continentale e diritto inglese è meno netta di quello che tradizionalmente si voglia far credere. Il diritto inglese fa parte, infatti, del diritto comune europeo più di quanto faccia credere la comparazione civil law – common law, fatta dagli inglesi nel loro periodo nazionalistico e ricevuta acriticamente dai comparatisti di tutto il mondo sino ad ora. 106 DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 35, anche se occorre rilevare che di “armonizzazione piena” si fa espresso riferimento nel quindicesimo considerando della Direttiva oltre che nei lavori preparatori e in particolare nella Relazione illustrativa alla “Proposta di direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”, p. 9. 105
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3, § 5) per un periodo limitato di tempo, ossia sino al 12 giugno 2013 (fatte salve eventuali deroghe concesse nell’ambito del processo di revisione previsto dall’art. 18 della Direttiva medesima). Le eventuali disposizioni nazionali che dovessero essere applicate in deroga all’armonizzazione completa prevista nella Direttiva - che vanno comunque notificate alla Commissione europea da parte dei singoli Stati membri – devono, in ogni caso, “essere essenziali al fine di assicurare un’adeguata protezione dei consumatori da pratiche commerciali sleali e devono essere proporzionate al raggiungimento di tale obiettivo” (art. 3, § 5, della Direttiva). In sostanza, sino al 12 giugno 2013, le legislazioni nazionali in materia potranno essere “più dettagliate e vincolanti” rispetto alla disciplina prevista dalla Direttiva, a condizione, però, che le medesime siano: (i) state introdotte per dare attuazione a precedenti provvedimenti comunitari aventi ad oggetto una armonizzazione minimale delle legislazioni nazionali; (ii) “essenziali” per un’adeguata tutela dei consumatori nei confronti di pratiche commerciali sleali e (iii) “proporzionate” al raggiungimento di tale finalità. Successivamente a tale data, tali differenze normative non potranno, però, più sussistere. Fatta salva l’eccezione dell’art. 3, §5, il successivo art. 4 della Direttiva vieta espressamente agli Stati membri di introdurre o mantenere nei rispettivi ordinamenti disposizioni idonee a limitare la libertà di prestazione dei servizi e/o la libertà di circolazione delle merci “per ragioni afferenti al settore armonizzato dalla presente direttiva”. L’obiettivo è, quindi, come detto, quello di evitare che i legislatori nazionali possano adottare regole differenti rispetto a quelle di cui alla Direttiva, tanto che, secondo alcuni autori, è proprio da tale disposizione che si ricava che l’armonizzazione attuata con tale provvedimento è completa107.
107
COLLINS, The Unfair Commercial Practices Directive, in ERCL, 2005, p. 430.
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Ne consegue che in fase di attuazione, a rigore, gli Stati membri avrebbero dovuto attenersi scrupolosamente alla disciplina prevista dalla Direttiva, senza apportare modifiche sostanziali alla medesima108 e, al contempo, provvedere ad eliminare tutte le disposizioni vigenti in contrasto con la disciplina europea. Agli Stati membri è stato vietato, infatti, di mantenere o adottare misure nazionali più restrittive di quelle contenute nella Direttiva, come confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia109. Nella sua attività di interpretazione della normativa in questione, la Corte di Giustizia sta, quindi, contribuendo a realizzare un ulteriore passo in avanti verso l’armonizzazione/uniformazione del diritto privato europeo, anche se ciò significa Ad eccezione delle sanzioni e dei procedimenti inibitori che la stessa Direttiva lascia nella discrezionalità dei singoli legislatori nazionali, di cui si dirà successivamente. 109 In due importanti pronunce della Corte di Giustizia che prendono in esame due specifiche disposizioni nazionali, apparentemente in contrasto con l’obiettivo dell’armonizzazione completa, è stato espressamente statuito che agli Stati membri è vietato, infatti, mantenere o adottare misure nazionali più restrittive di quelle contenute nella Direttiva (Sentenza Corte di Giustizia del 23 aprile 2009, C-261/07-C-299/07, in Raccolta della giurisprudenza 2009, p. I 02949, curia.europa.eu. e Sentenza Corte di Giustizia del 14 gennaio 2010, C-304/08, Plus Warenhandelsgesellschaft, curia.europa.eu.). Nel primo caso, con la sentenza VTB-VAB e Galatea (che è anche la prima pronuncia della Corte sulla Direttiva), è stata esaminata la compatibilità con le disposizioni della Direttiva della disciplina belga delle offerte congiunte da parte del venditore al consumatore. Il Tribunale commerciale di Anversa si era, infatti, rivolto in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia per chiedere se la Direttiva debba essere interpretata nel senso che osta ad una legislazione nazionale, come quella belga, che, salvo talune eccezioni, e senza riguardo alle circostanze specifiche del caso di specie, fissa un principio generale di divieto di offerte congiunte. Secondo i giudici della Corte è evidente che le offerte congiunte di beni e/o servizi costituiscono atti commerciali che si iscrivono nel contesto delle strategie commerciali di un operatore e sono rivolte direttamente alla promozione e alla vendita dei beni e servizi. Ne deriva che esse costituiscono effettivamente pratiche commerciali secondo la nozione fornita dalla Direttiva e ricadono, quindi, nella sua sfera di applicazione. In considerazione del fatto che, come detto, però, la Direttiva procede a un’armonizzazione completa della materia, gli Stati membri non possono adottare misure più restrittive di quelle definite dalla Direttiva medesima, nemmeno al fine di garantire un livello di tutela più elevato per i consumatori. Per cui, considerato che tra le pratiche ritenute in ogni caso sleali, elencate nella c.d black list di cui all’allegato I della Direttiva, non sono previste le offerte congiunte, la normativa europea sulle pratiche commerciali sleali va interpretata nel senso che osta a disposizioni nazionali che vietano tout cort qualsiasi offerta congiunta del venditore al consumatore. 108
Lo stesso principio è stato ribadito dalla Corte di Giustizia il 14 gennaio 2010. Nel caso sottoposto ai giudici europei veniva presa in esame la normativa tedesca che vieta qualsiasi operazione commerciale che colleghi l’acquisto di merci e/o servizi alla partecipazione dei consumatori a un concorso a premi. Anche in questo caso, la Corte ha ritenuto che una siffatta normativa nazionale non soddisfa i requisiti posti dalla Direttiva sulle pratiche commerciali sleali che, quindi, deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella tedesca appunto, che prevede un divieto in via di principio, a prescindere dalle circostanze specifiche della singola fattispecie, delle pratiche commerciali che subordinano la partecipazione dei consumatori ad un concorso o gioco a premi all’acquisto di una merce o di un servizio. Campagne promozionali che subordinano la partecipazione gratuita dei consumatori ad una lotteria all’acquisto di una determinata quantità di merci o servizi non possono, quindi, considerarsi sleali a priori, se prima non si sia accertato l’effettivo carattere sleale della predetta pratica secondo i criteri dettati dagli artt. 5-9 della Direttiva.
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“rinunciare” a normative nazionali che offrono livelli di tutela maggiori per i consumatori110. Gli Stati membri non possono, infatti, adottare misure più restrittive di quelle definite dalla Direttiva medesima, neppure al fine di assicurare un livello superiore di tutela per i consumatori. Laddove ciò si dovesse verificare, tali disposizioni si dovranno intendere in contrasto con la legislazione europea sulle pratiche commerciali sleali e la Corte di Giustizia dovrà accertare tale contrasto. Del resto, come detto, un mercato europeo per essere efficiente necessita di una politica comune ed armonizzata a tutela dei consumatori al fine di stimolarne la fiducia degli stessi nelle transazioni transfrontaliere e di sfruttare così in pieno tutte le potenzialità del mercato unico; se questo non accade, tali potenziali benefici non possono esistere. Esaminando a fondo la Direttiva e le legislazioni nazionali di attuazione della medesima, l’obiettivo dell’armonizzazione completa pare, però, per certi versi essere stato tradito da alcune disposizioni introdotte dello stesso legislatore europeo. Gli “spazi aperti” lasciati agli Stati membri per potersi discostare dalle disposizioni contenute negli artt. 1 – 13 della Direttiva sono in realtà alquanto ampi, tanto da mettere in discussione l’effettività dell’armonizzazione111. Questo è il caso, ad esempio, del considerando n. 7 che afferma che la Direttiva non riguarda “i requisiti giuridici inerenti al buon gusto e alla decenza”112 dato che i medesimi “variano ampiamente tra gli Stati membri”.
GRANELLI, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/Ce modifica il codice del consumatore, in Obbligazioni e contratto, 2007, p. 777. 111 HOWELLS, Unfair Commercial Practices Directive- A Missed Opportunity?, in AA.VV., WEATHERILL – BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, Hart, 2007, p. 208 e ss.; SOSNITZA, Die Richtlinie über unlautere Geschäftspraktiken – Voll – order Teil-harmonisierung?, in WRP, 2006, p. 1 e ss. 112 Le altre versioni linguistiche della Direttiva fanno riferimento a“prescriptions légales concernano le bon gout et la bienséance”, “legal requirements related to taste and decency”, “gesetzlichen Anforderungen in Fragen der guten Sitten und des Anstands”, “requisites legales en relacion con el buen gusto y el decoro”. 110
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La disposizione in questione è molto criptica e di difficile decifrazione, anche in considerazione del fatto che, come ha osservato la dottrina, il buon gusto e la decenza non sono propriamente dei requisiti giuridici113. Proprio la problematicità nello stabilirne il reale significato potrebbe rappresentare, di fatto, una autorizzazione implicita agli Stati membri - nonostante i buoni propositi di procedere ad una armonizzazione completa della materia - a mantenere o introdurre disposizioni giuridiche che vietino o comunque limitino pratiche commerciali che, pur essendo qualificabili come “leali” secondo la disciplina prevista nella Direttiva, risultino contrastanti con il buon gusto e la decenza comunemente accettate e osservate dalla popolazione di quel determinato Stato membro. Ad esempio, le sollecitazioni commerciali per strada “possono essere indesiderabili negli Stati membri per motivi culturali” e, per questo, potranno essere vietate con delle apposite limitazioni nei singoli ordinamenti nazionali, a prescindere quindi dal fatto che le medesime possano essere considerate “ingannevoli” o “aggressive” secondo la Direttiva (considerando n. 7 della Direttiva). In questo modo, il legislatore europeo (volutamente?) ha lasciato (ancora) ampia discrezionalità ai singoli ordinamenti nazionali di apportare interventi, anche non marginali, potenzialmente modificativi alla disciplina delle pratiche commerciali sleali. Secondo il legislatore europeo, infatti, “Gli Stati membri dovrebbero […] poter continuare a vietare le pratiche commerciali nei loro territori per ragioni di buon gusto e decenza conformemente alle normative comunitarie, anche se tali pratiche non limitano la libertà di scelta dei consumatori” (considerando n. 7 della Direttiva). Ulteriori spazi di intervento per i legislatori nazionali si individuano nell’art. 3, § 8, della Direttiva, che ha autorizzato espressamente gli Stati membri a mantenere o a introdurre nell’ambito delle “professioni regolamentate” (quali possono essere le attività bancarie, assicurative) norme nazionali, anche divergenti dalla disciplina di cui alla Direttiva, aventi ad oggetto particolari condizioni relative allo stabilimento, o ai regimi di autorizzazione o codici deontologici di condotta o altre regole speciali,
DE CRISTOFARO, La direttiva 2005/29/Ce, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 18. 113
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se le medesime sono volte “a mantenere livelli elevati di integrità dei professionisti” e siano, però, conformi alla normativa vigente. In particolare, il successivo § 9, del medesimo art. 3, al fine di tutelare gli interessi economici dei consumatori, consente agli Stati membri nel settore dei “servizi finanziari” e dei “beni immobili”di “imporre obblighi più dettagliati o vincolanti di quelli previsti dalla presente direttiva nel settore che essa armonizza”. A tali disposizioni deve aggiungersi il fatto che gli Stati membri possono, ancora oggi, introdurre o mantenere ulteriori divieti per esigenze di “tutela della salute e della sicurezza dei consumatori nel loro territorio ovunque sia stabilito il professionista, ad esempio riguardo ad alcol, tabacchi o prodotti farmaceutici” (considerando n. 9). Inoltre, la disciplina delle pratiche commerciali sleali “non pregiudica l’applicazione delle disposizioni comunitarie o nazionali relative agli aspetti sanitari e di sicurezza dei prodotti” (art. 3, § 3), né le norme vigenti in materia di “attività legate all’azzardo” (considerando n. 9) e non è applicabile all’attuazione delle disposizioni nazionali in materia di certificazione e di indicazioni relative al titolo114 degli oggetti in metallo prezioso (art. 3, § 10). Deve, altresì, precisarsi che la Direttiva “non pregiudica l’applicazione” (considerando n. 9) delle disposizioni comunitarie e nazionali relative ai diritti di proprietà intellettuale e delle norme in materia di concorrenza. Le conseguenze di quanto sopra esposto sono che in sede di pianificazione delle proprie strategie commerciali, pubblicitarie e di marketing, ancora una volta, il professionista è di fatto costretto, ancora adesso, a verificare se la propria condotta sia compatibile o meno, non solo ai dettati giuridici previsti dalla legislazione europea, ma anche al buon gusto e alla decenza, così come percepita dalle singole popolazioni nazionali, nonché alle altre disposizioni di settore che il legislatore nazionale è libero di non conformare alla Direttiva, così che l’integrità del mercato unico resterebbe comunque gravemente compromessa dalle difficoltà in termini di rischi, anche economici, che i professionisti si troverebbero ad affrontare.
114
Si intende per “titolo” il grado di purezza del metallo prezioso contenuto in un oggetto.
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Rispetto a tali potenziali differenze, spetterà agli interpreti, nazionali e europei, superare i possibili rischi di una mancata effettiva armonizzazione completa, ricorrendo ai principi comuni e, se del caso, ove consentito, richiedendo, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia di intervenire al fine di garantire un’interpretazione delle relative legislazioni nazionali conforme con il dettato europeo e con le finalità ad esso sottese.
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CAPITOLO II PROFILI DI SLEALTA’ DI UNA PRATICA COMMERCIALE NEL DIRITTO EUROPEO E NELLE LEGISLAZIONI NAZIONALI 1. LA
SLEALTÀ DI UNA PRATICA COMMERCIALE
- 2. RUOLO
E FUNZIONE DELLA CLAUSOLA GENERALE DI CUI
ALL’ART. 5 DELLA DIRETTIVA - 2.1. IL CONTENUTO DELLA CLAUSOLA GENERALE: UN ARTIFICIOSO COMPROMESSO
- 3. IL RAPPORTO FRA CLAUSOLA GENERALE E LE DISPOSIZIONI DI DETTAGLIO - 3.1. LE PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI - 3.2. SLEALI
- 3.4. LE
CASO SLEALI
LE OMISSIONI INGANNEVOLI - 3.3. LE PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI IN OGNI CASO
PRATICHE COMMERCIALI AGGRESSIVE
- 4. LA
- 3.5. LE
PRATICHE COMMERCIALI AGGRESSIVE IN OGNI
SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI NEGLI
PRATICHE COMMERCIALI IN ITALIA
- 4.2. LA
STATI
MEMBRI
- 4.1. LA
SLEALTÀ DELLE
SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI IN INGHILTERRA
- 5. LE
CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL DIVIETO DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI NEGLI STATI MEMBRI
* * * 1.
LA SLEALTÀ DI UNA PRATICA COMMERCIALE
Entrando nel merito della disciplina di cui alla Direttiva, per come delineata dal legislatore europeo, la medesima pone a carico del professionista il divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali, individuando i criteri e i parametri in virtù dei quali una pratica commerciale è da ritenersi sleale, nell’ambito del mercato unico, in quanto lesiva degli interessi economici dei consumatori. Il legislatore europeo non ha posto a carico dei professionisti un obbligo di contenuto positivo, ma si è limitato a porre a carico degli stessi un divieto generale di porre in essere pratiche commerciali sleali. Il dato testuale dell’art. 5, § 1, della Direttiva prevede, infatti, che “Le pratiche commerciali sleali sono vietate”. Il contenuto della Direttiva è, quindi, negativo, non definendo quali caratteristiche debba avere una pratica commerciale per essere “leale”, ma individuando esclusivamente gli aspetti e gli elementi al cui ricorrere una pratica è da intendersi “sleale”. Secondo il legislatore europeo, il fatto di non imporre alcun obbligo positivo che un professionista deve rispettare per dimostrare il carattere leale della sua condotta rappresenta un elemento di certezza del diritto che si può conseguire maggiormente
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definendo ciò che è sleale, piuttosto ciò che è leale115. A tal fine, l’art. 5, § 2, prevede che è “una pratica commerciale è sleale” se: a)
“è contraria alle norme di diligenza professionale”, ovvero al normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori, e
b)
“falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”.
Una interpretazione sistematica della norma non può lasciare spazio a dubbi sul fatto che la sussistenza di una pratica commerciale sleale è condizionata alla simultanea sussistenza di entrambe le condizioni sopra enunciate116. La contrarietà alla diligenza professionale non è, infatti, ritenuta da sola sufficiente a qualificare una pratica come sleale, se non accompagnata dall’attitudine della medesima ad alterare il comportamento economico del consumatore medio, e viceversa117. Se questa considerazione è senza dubbio condivisibile, essa è però esposta a possibili eccezioni nell’ipotesi inversa, quando cioè una pratica sia contraria alla
Cfr. Relazione alla Proposta di direttiva presentata dalla Commissione il 18 giugno 2003. Secondo parte della dottrina, non v’è proprio spazio per considerare separatamente i due presupposti e ciò in ragione dell’impossibilità di poter configurare una pratica idonea a falsare il comportamento economico del consumatore che non sia anche contraria alla diligenza professionale: SCALI, Commento a sub art. 18, comma 1, lett. h), in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le modifiche al Codice del Consumo, Torino, 2009, p. 97. 117 Tale principio è stato ribadito dai giudici europei nella sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 9 novembre 2010 (causa C-540/08) che ha statuito che la circostanza che la partecipazione a un concorso a premi abbinato all’acquisto di un giornale rappresenti, per una parte dei consumatori, il motivo determinante dell’acquisto del prodotto e, quindi, sia idonea ad incidere in modo sostanziale sul comportamento del consumatore, non è sufficiente da sola a ritenere sleale tale pratica, in quanto occorre necessariamente verificare se la medesima sia anche contraria alle norme della diligenza professionale. La possibilità di partecipare a un gioco-concorso a premi abbinata all’acquisto di un giornale non costituisce, infatti, di per sé una pratica commerciale sleale, neanche se la medesima rappresenti il motivo determinante che ha spinto il consumatore ad acquistare il giornale. 115 116
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diligenza professionale, ma non sia anche idonea a falsare il comportamento economico del consumatore118. Da qui emerge con notevole evidenza l’importanza della nozione di diligenza professionale all’interno della disciplina in questione e nello specifico in un contesto normativo quale il presente, sia nell’ambito del diritto europeo sia a livello di legislazioni nazionali, per quanto si dirà più approfonditamente in seguito. Oltre alle pratiche commerciali poste in essere dal professionista in contrasto alle norme della diligenza professionale e che siano idonee ad alterare le decisioni commerciali dei consumatori, per il legislatore europeo, sono altresì sleali: 1)
le pratiche commerciali ingannevoli, secondo i criteri di cui agli artt. 6 e 7;
2)
le pratiche commerciali aggressive, secondo i criteri di cui agli artt. 8 e 9;
3)
le pratiche commerciali, ingannevoli e aggressive, elencate nella c.d. black list di cui all’Allegato I alla Direttiva, che senza la necessità e possibilità di alcuna valutazione sono ritenute “in ogni caso sleali”.
La Direttiva ha, quindi, adottato una struttura normativa c.d. “a piramide” o “a cerchi concentrici” - anche se la prima immagine pare poter rappresentare al meglio l’intenzione del legislatore europeo – che prevede, quindi: a)
una clausola generale (“grand general clause”; “grosse Generalklausel”) che definisce l’intera categoria119;
Questo è il caso, ad esempio, di comunicazioni pubblicitarie facenti leva su immagini di forte impatto emotivo, come le famose “pubblicità Benetton” in cui erano state raffigurate parti del corpo umano recanti la scritta, con caratteri simili a un tatuaggio, “H.I.V. positive – united colors of Benetton” o quella in cui un giovane era mostrato in letto di morte. Tali messaggi non possono certamente considerarsi ingannevoli nell’accezione data dal legislatore europeo, in quanto non sono idonee a falsare la condotta economica dei consumatori, seppure le stesse siano connotate da una generica scorrettezza da parte del professionista per violazione di specifiche disposizioni come quelle poste a tutela dei minori (Provvedimento AGCM, Benetton, PI160/1994). 118
Sul punto vedasi LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, pp. 28 e ss.. 119
65
b)
due norme generali di divieto (“small general clauses”; “kleine Generalklauseln”) relative
a specifiche sottocategorie
di
pratiche
commerciali,
ovvero
“ingannevoli” e “aggressive”; c)
due black list di pratiche commerciali in ogni caso vietate in quanto a priori ingannevoli o aggressive.
2.
RUOLO E FUNZIONE DELLA CLAUSOLA GENERALE DI CUI ALL’ART. 5 DELLA DIRETTIVA
Particolare attenzione nell’ambito della disciplina merita la c.d. clausola generale di cui all’art. 5 della Direttiva, in cui si collega la lealtà di una pratica al rispetto da parte del professionista delle norme di diligenza professionale e in cui sono individuati i requisiti per considerare sleale una pratica commerciale. Nonostante la dottrina si sia posta il problema se nel caso di specie sussistano i presupposti per l’utilizzo di tale nozione, si ritiene in realtà che tale termine possa essere correttamente utilizzato nell’ambito della disciplina delle
pratiche
commerciali sleali senza incorrere in alcuna forzatura120. Per clausola generale si intende, infatti, una norma che affida al giudice il compito di svolgere una valutazione comparative degli interessi in gioco e potenzialmente in conflitto, sulla base di criteri sì predeterminati, ma non sufficienti a stabilire una disciplina dettagliata della materia. La struttura di clausola generale vera e propria è facilmente riconosciuta tradizionalmente nelle norme generali in materia di concorrenza sleale, impostata sulla risoluzione di conflitti omogenei121. Anche nella disciplina delle pratiche commerciali sleali, non può, tuttavia, non ravvisarsi come l’art. 5 presenti alcuni profili, per così dire, “aperti” che lasciano ai soggetti individuati a livello nazionale ampia discrezionalità nella soluzione del conflitto fra la libertà di esercizio della
LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, nota 1, p. 28. 121 LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e responsabilità, 2005, p. 237 e ss.; FEZER, Lauterkeitsrecht – Kommentar zum Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb (UWG), a cura di FEZER, BECK, Monaco, 2005, 360-1. 120
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propria attività da parte del professionista e la tutela del consumatore e delle sue scelte. Per questo, deve condividersi l’opinione secondo cui, anche nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali sleali, ci si trovi dinnanzi a una clausola generale volta ad individuare i presupposti per il contemperamento degli interessi di professionisti e consumatori in gioco. L’uso di clausole generale e di formulazioni che lasciano ampi spazi di discrezionalità agli interpreti è, infatti, ritenuta direttamente funzionale a un’esigenza di tutela del consumatore che non sarebbe altrimenti garantita attraverso il ricorso a un metodo casistico122. “Il ricorso alla abituale tecnica legislativa regolamentare non soltanto si traduce in una disciplina che può rapidamente entrare in conflitto con i dati della realtà sociale o palesarsi a questi inadeguata, ma soprattutto può dare origine ad una disciplina contraddittoria rispetto alle proprie finalità: una previsione regolamentare non è disciplina dell’esercizio, ma soltanto di alcuni comportamenti in cui quell’esercizio può concentrarsi”123. Al contrario, le clausole generali rappresentano degli strumenti idonei a consentire una valutazione di tutte le condotte che, rispetto a un fine o a un effetto considerati, si pongano in posizione di equivalenza124. Rispetto al caso che qui ci occupa, nell’interpretazione di una struttura normativa “complessa” come quella delineata dalla Direttiva, la clausola generale in questione può essere intesa secondo due diverse prospettive, ovvero, la medesima può intendersi: (i)
come residuale, quindi, da applicare, secondo il tradizionale schema “norma generale/norma speciale”, soltanto quando un caso non sia già coperto da una norma più di dettaglio, ovvero dalle due norme di divieto di pratiche
RABITTI, Art. 20 – Divieto delle pratiche commerciali scorrette, in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le modifiche al Codice del Consumo, Torino, 2009, p. 144. 123 Nel dicembre del 1966, nell’aula magna dell’Università di Macerata, Stefano Rodotà richiamava la necessità di impiegare la tecnica legislativa per clausole generali allo scopo di evitare che i principi “rappresentino la stanca proiezione di tipi esemplati sulle esperienze già compiute, come tali inidonei a reggere un imprevedibile futuro”. La caratteristica elastica delle clausole generali è invece adatta a “una società in trasformazione” senza esserne travolta, RODOTÀ, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, Napoli, 2007 (ristampa), p. 37. 124 RODOTÀ, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, Napoli, 2007 (ristampa), p. 37. 122
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commerciali ingannevoli e aggressivi o dalle fattispecie di cui all’Allegato I, divenendo quindi una norma di chiusura del sistema 125; (ii)
come norma fondamentale dell’intera materia e le norme di dettaglio come applicazioni particolari della disposizione di principio, secondo lo schema tipico della teoria generale del diritto di “norma fondamentale/norme applicative”126.
Seppure quest’ultima tesi sia isolata e non accreditata in dottrina, fatte salve rare, ma autorevoli eccezioni127, la medesima appare essere, però, la più coerente con il sistema creato dal legislatore europeo, in quanto, diversamente si arriverebbe a una interpretazione abrogatrice dell’art. 5 della Direttiva, cosa che evidentemente non può essere. Proprio per la sua articolazione e valenza sistematica, infatti, l’art. 5 della Direttiva deve essere necessariamente inteso come una disposizione di principio su cui deve Sul punto, si veda: CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratto e impresa – Europa, 2007, p. 78; DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali sleli, in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, Torino, 2007, p. 116 e ss.; GRANELLI, Le “pratiche commerciali scorrette” fra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbligazioni e Contratti, 2007, p. 777; GONZALEZ VAQUE, La directive 2005/29/Ce relative aux pratiques commerciales déloyes: entre l’objectif d’une harmonisation totale et l’approche d’une harmonisation complète, in Revue du Droit de l’Union Europèenne, 2005, p. 796, che attribuisce espressamente alla norma la funzione di safety net clause. Non può tuttavia non considerarsi l’approfondimento svolto da STUYCK – TERRYN – VAN DYCK, Confidence through fairness? The new Directive on unfair business-to-consumer commercial practices in the internal maket, in Common Market Law Review, 43, 2006, pp. 107 e ss., secondo i quali l’impostazioni a tre livelli della disciplina sarebbe stata ripresa dalla legge sulla concorrenza sleale tedesca del 2004, anche se, a differenza di quest’ultima, in cui i tre livelli sono interpretati in senso unitario, il legislatore europeo avrebbe inteso dare autosufficienza alle norme di dettaglio. Nell’ambito di tale tesi rientrano senza dubbio anche gli orientamenti dottrinari, accreditati a livello europeo, che ritengono che la clausola generale possa essere richiamata in via ausiliaria per risolvere i problemi interpretativi derivanti dall’applicazione delle norme di dettaglio, ma non può essere utilizzata in funzione correttiva del dato normativo. In altre parole, le disposizioni speciali danno luogo a una sorta di presunzione assoluta di illiceità della pratica (MICKLITZ, The General Clause of Unfair Practices, in HOWELLS, MICKLITZ, WILHELMSSON (a cura di), European Fair Trading Law, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, pp. 117 e ss.). Una variante di tale ultimo orientamento nega addirittura il problema interpretativo e afferma che la clausola generale si comprende solo in ragione della black list, cioè costituisce la somma di una serie di disposizioni particolari: DI NELLA, Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali aggressive, in Contratto e impresa – Europa, 2007, pp. 44 e ss.. 126 Sul punto si veda il dibattito a livello europeo in ordine al rapporto fra clausole generale e norme esemplificative: alcuni autori attribuiscono alla clausola generale valore normativo centrale, quindi, anche integrativo e correttivo delle norme di dettaglio, WILHELMSSON, Misleading Practices, in European Fair Trading Law, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, p. 124. 127 LIBERTINI è al momento il più autorevole sostenitore di tale tesi, alla quale ha dedicato ampi lavori, tra i quali si segnala Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, pp. 30 e ss. 125
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fondarsi l’interpretazione dell’intera disciplina128, come confermato dalla stessa prassi applicativa dell’Autorità della concorrenza e del mercato italiana che nei propri provvedimenti richiama sempre la clausola generale129, prima delle disposizioni relative alle pratiche commerciali ingannevoli e aggressive. Deve rilevarsi, tuttavia, che astrattamente tale impostazione può apparire in contrasto con l’orientamento espresso dalla stessa Commissione europea che attribuisce sì alla clausola generale un valore normativo autonomo, ma soltanto residuale, dal momento che la medesima sarebbe stata inserita con il solo fine di consentire di vietare eventuali comportamenti nuovi che l’attuale legislazione non è in grado di prevedere e, quindi, di consentire alla disciplina di superare the test of time130. La scelta del legislatore europeo di concepire la clausola generale come norma residuale e ausiliaria, per pretese ragioni di certezza applicativa, pare in realtà potersi giustificare dall’influenza della cultura di common law dove non pare potersi concepire norme scritte che fissino principi o clausole generali131. L’influenza della tradizione di common law ha avuto, del resto, sicuramente un impatto decisivo sulla formazione della disciplina che è così frutto di un compromesso che ha portato alla previsione di una clausola generale, tipica della tradizione dei paesi di civili law e in continuità con la normativa sulla concorrenza Autori come VIGORITI, nonostante poi di fatto paiono attribuire un valore sussidiario, almeno espressamente sostengono “l’assoluta centralità” della clausola generale (Verso l’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in Europa e diritto privato, 2007, p. 532 e ss). Anche BARTOLOMUCCI in Le pratiche commerciali scorrette e il principio di trasparenza nei rapporti tra professionisti e consumatori, in Contratto e impresa, 2007, pp. 1427 e ss. afferma di dover valorizzare la “clausola generale di scorrettezza”. Sul punto si veda anche ASSONIME, Circolare n. 80 del 17 dicembre 2007 in relazione a Le pratiche commerciali scorrette. 129 Art. 20 del Codice del Consumo. 130 COMM. CE, The un fair commercial practices Directive. Questions and ansie, MEMO/07/572, Bruxelles, 12/12/2007. 131 HOWELLS afferma che “The Directive actually adopts the form of the continental general clauses, but has the policy perspective of the United Kingdom” in Unfair Commercial Practices Directive- A Missed Opportunity?, in WEATHERILL – BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, Hart, 2007, p. 113. Rispetto a tale impostazione, si veda anche LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 37. Una siffatta impostazione era del resto già stata fatta propria nel Regno Unito nell’ambito della concorrenza sleale che non ha trovato una disciplina uniforme a livello europeo e che ha da sempre contraddistinto tale ordinamento dai restanti paesi, caratterizzati, invece dalla presenza di una apposita clausola generale a regolare la disciplina: DE VERY, Towards a European Unfair Competition Law, Leiden/Boston, 2006. 128
69
sleale degli Stati membri continentali, ma depotenziandone il contenuto attraverso norme di dettaglio, così da venire incontro alle esigenze tipiche dell’esperienza di common law. Il tutto con lo spirito di creare una disciplina unitaria idonea a tutelare la libertà di scelta del consumatore all’interno di tutti gli Stati membri. Non può, però, credersi che il legislatore abbia inteso attribuire alla clausola generale un’importanza limitata132, sulla base di una lettura normativa basata sul solo principio di specialità. È anche vero l’accreditarsi a livello istituzionale di siffatto orientamento è probabilmente dovuto al fatto che riconoscere un ruolo centrale alla clausola generale piuttosto che alle fattispecie più specifiche possa portare a gravi incertezze nell’applicazione della disciplina. Riconoscere ciò, significherebbe tuttavia non voler attribuire un significato razionale alla disciplina, ma di volerlo superare per aprioristiche e irrazionali tutele del sistema, che anzi vengono meno nel momento stesso in cui le norme particolari non garantiscono certezza applicativa e necessitano di essere integrate da quanto disposto dalla clausola generale. In realtà, l’adesione del legislatore europeo all’orientamento che attribuisce alla clausola generale valore residuale, seppur presente nei lavori preparatori, non si è tradotto in dati normativi vincolanti. Il criterio interpretativo che si ritiene doversi seguire è così necessariamente quello della coerenza sistematica e, quindi, dell’applicazione cumulativa che porta a individuare tra le norme della Direttiva un rapporto fra principio generale e disposizioni applicative o, addirittura, esemplificative e non di un rapporto fra norma generale e norma speciale, non ponendosi il problema di un possibile concorso di discipline diverse133. Sostenere la tesi che attribuisce alla clausola generale un valore residuale, per altro, porterebbe all’assurdo paradosso di individuare una terza sottocategoria di pratiche
Cfr. HANDING, The Unfair Commercial Practices Directive – A Milestone in the European Unfair Competition Law, in European Business Law Review, 2005, p. 1123: “the General Clause in Article 5 (1) although is rather limited in its scope”. 133 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 32. 132
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commerciali sleali134 che non siano, quindi, né ingannevoli, né aggressive, ma che in concreto non pare sussistere. In altri termini, qualsiasi pratica commerciale che sia lesiva degli interessi economici dei consumatori sarà necessariamente ingannevole o comunque aggressiva e, quindi, sempre astrattamente inquadrabile nelle due sottocategorie generali135. In questa prospettiva, quindi, la clausola generale in materia di pratiche commerciali sleali deve intendersi come una disposizione di principio, da presumersi coerente con le disposizioni speciali relative alle pratiche commerciali ingannevoli e aggressive. Ciò significa che al ricorrere dei presupposti di cui alle norme di dettaglio vi è una presunzione legale di conflitto con il principio generale che regola la disciplina e, in particolare, alla violazione da parte del professionista delle norme della diligenza professionale. Presunzione questa, tuttavia, relativa e non assoluta nel senso che una fattispecie, pur rientrante nel dato testuale di una delle norme di dettaglio, non sarà considerata sleale se non presenterà le caratteristiche di cui all’art. 5 della Direttiva136. Discorso diverso è, invece, per le fattispecie già individuate dal legislatore europeo “in ogni caso sleali”, per le quali si ritiene che il legislatore abbia preventivamente valutato la sussistenza di tutti gli elementi di cui alla clausola generale e, soprattutto, la loro contrarietà alle norme delle diligenza professionale, con la conseguenza che le medesime sono considerate illecite di per sé.
NAHON, Unfair Commercial Practices Directive- Taking the Pressure out of Selling, in Business Law Review, 2006, p. 205; SACCO GINEVRI, La direttiva 2005/29/Ce e la disciplina della concorrenza, in MINERVINI – ROSSI (a cura di), Le pratiche commerciali sleali, Milano, 2007, p. 88. 135 Ad esempio, nell’ipotesi in cui un professionista ponga in essere attività di marketing subliminale o in caso di vendita abbinata con concorsi a premi idonei a rendere aleatorio l’acquisto effettuato dal consumatore, tali condotte potranno farsi rientrare nell’ambito delle pratiche commerciali aggressive, dal momento che l’ampia definizione di cui all’art. 8 è idonea già astrattamente a ricomprendere siffatte condotte sleali: ABBAMONTE, The Unfair Commercial Practices Directive: an Example of the New European Consumer Protection Approach, in Columbia Journal of European Law, 12, p. 709 e ss. L’autore ipotizza un caso di discriminazione a danno del consumatore. A parte il caso di obbligo di contrattazione, non si ravvedono profili di slealtà nell’ambito di una siffatta condotta del consumatore non essendo idonea ad arrecare un pregiudizio diretto agli interessi economici dei consumatori, che è un requisite essenziale perchè una pratica commercial debba essere vietata. 136 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 32. 134
71
2.1.
IL CONTENUTO DELLA CLAUSOLA GENERALE: UN ARTIFICIOSO COMPROMESSO
La storica contrapposizione tra l’autodisciplina, tipica dei paesi di common law, e l’imposizione di regole giuridiche esterne nell’imposizione di condotte corrette da parte di professionisti nell’ambito della concorrenza sleale, come visto, ha sicuramente influenzato e condizionato il legislatore europeo nel determinare la slealtà di una pratica commerciale posta in essere a danno di un consumatore. L’esperienza ha insegnato la tendenza delle imprese ad allinearsi spontaneamente su standard di comportamento non sempre rispettosi delle libertà dei consumatori e che per contrastare tale fenomeni, lo strumento migliore è rappresentato senza dubbio dall’intervento esterno del legislatore, che coercitivamente condiziona le volontà e le abitudini dei singoli professionisti. Del resto, non può che condividersi l’opinione
di
coloro
che,
pur
riconoscendo
ampi
meriti
all’esperienza
dell’autodisciplina pubblicitaria, hanno evidenziato gli evidenti limiti della medesima, in quanto idonea a nascondere soluzioni di massima libertà d’azione per i manager soprattutto di grandi imprese137 che, di fatto, muovono le scelte da seguire senza, per altro, prevedere rimedi e sanzioni deterrenti al porre in essere pratiche sleali. In un siffatto contesto, nel momento in cui ci si è trovati a dover individuare il modello da seguire nell’ambito delle pratiche commerciali, il legislatore europeo ha optato per una scelta di compromesso che rappresentasse una regolazione eteronoma dei comportamenti dei professionisti e, al contempo, non dimenticasse l’esperienza dell’autodisciplina. L’art. 5 della Direttiva rappresenta, quindi, una clausola generale, in parte depotenziata dei suoi effetti, complessa e strutturata su due elementi, a loro volta oggetto di ulteriori definizioni, quali (i) la contrarietà alla diligenza professionale (si badi bene, alla diligenza e non alla correttezza come, invece, nell’ambito della concorrenza sleale138) e (ii) l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio.
Il più critico autore in tal senso è GALLINO, L’impresa irresponsabile, Torino, 2005. La scelta terminologica è stata fatta in maniera consapevole da parte del legislatore europeo e ha trovato seguito al momento dell’attuazione della disciplina nell’ambito dei singoli ordinamenti 137 138
72
Se del primo requisito necessario per configurare una pratica commerciale sleale si dirà approfonditamente in seguito, in ragione del fatto che esso rappresenta, come detto, il fulcro dell’intera disciplina, rispetto al secondo – da solo non sufficiente a configurare una pratica commerciale sleale – può rilevarsi che il medesimo ha un contenuto decisamente più dettagliato rispetto al primo e come tale consente di fondare applicazioni coerenti del principio generale di correttezza e di buona fede al fine di tutelare la libertà di scelta del consumatore. Tale secondo requisito si articola quindi su tre punti: 1)
l’idoneità della pratica commerciale posta in essere dal professionista a falsare le decisioni (di acquistare o di non acquistare un determinato prodotto) del consumatore;
2)
il fatto che il comportamento del consumatore sia alterato “sensibilmente” (art. 2, lettera e), della Direttiva);
3)
il parametro di riferimento è la condotta del consumatore medio.
In sostanza, ciò che concretamente deve accertarsi è se il consumatore avesse potuto prendere una decisione differente da quella condizionata dalla condotta del professionista139. La condotta del professionista rileverebbe, quindi, nel caso in cui spinga un consumatore ad accettare di concludere un contratto che senza non avrebbe concluso, a sciogliere un rapporto contrattuale concluso in precedenza o a esercitare un diritto di cui è titolare nei confronti della controparte, ma anche nelle ipotesi in cui è decisiva a far sì che il consumatore rifiuti una proposta contrattuale o si astenga dallo sciogliersi da un contratto, piuttosto che dall’esercizio di un diritto ad esso spettante140.
nazionali (si pensi, appunto, al testo italiano che parla di diligenza o quello tedesco che utilizza il termine sorgfalt al posto di unlauterkeit). 139 Office of Fair Trading v Purely Creative LTD [2011] EWHC 106, [2011] WLR (D) 34, §§ 69 a 71. 140 DE CRISTOFARO, La nozione generale di pratica commerciale “scorretta”in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 157.
73
Il primo punto contiene il bene giuridico protetto dall’intera disciplina delle pratiche commerciali sleali
ovvero la
libertà
di
scelta
consapevole
del
consumatore141. Evidentemente ciò non potrà tradursi in una incondizionata battaglia a tutelate un’astratta libertà assoluta di scelta del consumatore nell’effettuazione delle proprie scelte di consumo142, né potrà rappresentare uno strumento spropositato di controllo delle campagne di marketing dei professionisti. Quella che dovrà essere garantita è l’autodeterminazione del consumatore a scelte consapevoli, rimanendo estranei alla disciplina i processi culturali e motivazionali che portano il consumatore ad effettuare le proprie scelte. Ciò significa che i professionisti potranno sicuramente proseguire astrattamente con il porre in essere campagne promozionali anche suggestive - perché del resto l’anima del marketing è proprio quella di enfatizzare le caratteristiche di determinati prodotti - purchè le medesime non si rivelino essere ingannevoli o aggressive, influenzando così le decisioni dei consumatori. Il legislatore europeo ha, tuttavia, escluso a priori un’applicazione estremamente rigida e formalistica di tale principio, non ammettendo nell’ambito di applicazione tutte quelle pratiche che risultano poi, di fatto, ininfluenti sul processo decisionale di scelta del consumatore, come, ad esempio, può avvenire nel caso in cui si indichi con un nome diverso dal vero un testimonial non noto143. Attraverso il ricorso al requisito della “apprezzabilità”, il legislatore europeo ha così evitato l’insorgere di ininfluenti contestazioni rispetto a marginali inesattezze o omissioni. Al contempo, parte della dottrina ritiene che il requisito dell’apprezzabilità porterebbe a dover provare, con però non pochi problemi, un nesso di causalità
LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, , in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 56. 142 Sui processi psico-sociologici che spingono il consumatore all’acquisto, si veda, tra gli altri, FRANCHI, Il senso del consumo, Milano, 2007; SASSETELLI, Consumo, cultura e società, Bologna, 2004. 143 È irrilevante per la decisione commerciale che il consumatore deve assumere se il professionista indichi in Mario Rossi il testimonial della sua campagna pubblicitaria, quando lo stesso, soggetto sconosciuto, è in realtà Andrea Rossi. Diverso è, invece, il caso in cui si utilizzi il nome di un testimonial noto e conosciuto dal pubblico. 141
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diretto e immediato tra la scelta del consumatore e la pratica commerciale sleale144 e ciò si verificherebbe ogni volta in cui la pratica del professionista (pubblicità, marketing, etc.) sia in grado di raggiungere la soglia di attenzione del consumatore medio. Il legislatore è, quindi, convenuto verso una vera e propria regola di de minimis145 volta a evitare di imporre ai professionisti oneri economici sproporzionati, in nome dell’obiettivo dell’eliminazione di ogni, seppur piccola, eventualità di slealtà. La libertà di scelta del consumatore deve essere, infatti, contemperata all’esigenza dei professionisti di poter far leva sul “consumismo”, facendo ricorso a strategie di marketing che portino anche a desiderare un determinato prodotto, impedendo, quindi, soltanto l’abuso di tali tecniche, laddove portino a una reale alterazione del processo di autodeterminazione del consumatore in maniera apprezzabile146. Ciò in quanto, se nella fase della negoziazione delle clausole contrattuali appare necessario intervenire per correggere l’eventuale squilibrio tra consumatore e professionista, nella fase di scelta o di acquisto del prodotto, ciò che il legislatore europeo ha inteso tutelare è evidentemente l’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato, inteso come il luogo di scambio tra domanda e offerta, potenziando il ruolo sovrano del consumatore147. Come è stato correttamente rilevato, infatti, gli eccessivi costi di informazioni posti a carico delle imprese sarebbero comunque poi gravati su quegli stessi consumatori
LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 59. 145 BERNITZ, The Unfair Commercial Practices Directive: Its Scope, Ambitions and Relation to the Law of Unfair Competition, in WEATHERILL-BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices Under EC Directive 2005/29: New Rules and New Techniques, Hart, 2007, p. 40; MELI, “Diligenza professionale”, “consumatore medio” e regola di de minimis, in MELI – MARANO (a cura di), La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle associazioni, Torino, 2011, p. 4. 146 RABITTI, Divieto delle pratiche commerciali scorrette, in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le modifiche al Codice del Consumo, Torino, 2009, p. 97. 147 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 64 e nota 61; MAGNO, Ruolo e funzione della pubblicità nell’ambito della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le pratiche commerciali sleali, Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, Milano, 2007, p. 111. 144
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che di quelle informazioni necessitano148 e non sarebbero giustificati con l’obiettivo del buon funzionamento del mercato interno. Attraverso il ricorso al material test, per questo, il legislatore ha fatto sì che il divieto di pratiche commerciali sleali non si applicasse nei casi in cui l’infrazione sia puramente formale e comunque sia, al di là di ogni ragionevole dubbio, non in grado di incidere sul processo decisionale del consumatore. Lo stesso professionista in caso di accertamento della slealtà di una determinata pratica commerciale potrà dar prova dell’inidoneità della medesima ad incidere sul processo decisionale del consumatore. Nel quadro di una visione ormai liberale, e non più paternalistica149, del diritto dei consumi, lo standard preso a riferimento dal legislatore diventa, infatti, quello del consumatore medio, e non del consumatore più debole che avrebbe altrimenti privato il mercato di gran parte del flusso di informazioni che sono il motore della concorrenza e dello stesso attivismo dei consumatori. Ciò significa che lo standard in questione non si fonda su base statistica, ma qualitativa ovvero sull’istruzione generale del consumatore e sull’attenzione che quest’ultimo pone sull’atto di acquisto, implicitamente imponendo anche a carico dello stesso consumatore una sorta di obbligo di diligenza. In tale standard non è tuttavia richiesta al consumatore un particolare grado di perizia, ma soltanto di un certo grado di cultura. Nel caso, invece, la condotta sia rivolta a “gruppi di consumatori chiaramente individuabili e particolarmente vulnerabili” (art. 5, comma 3, della Direttiva), come possono essere bambini e anziani, lo standard di valutazione della idoneità a falsare la condotta del consumatore si abbasserà a quella del consumatore vulnerabile. Ciò è giustificato dal fatto che nel caso in cui la condotta sia rivolta a più categorie di soggetti, ad essere tutelata dovrà essere quella più debole. Chi, invece, il legislatore europeo non ha inteso tutelare è l’individuo debole di per sè, prevenendo così eccessi di tutela, talora attuati dagli Stati membri, con criteri,
DENOZZA, Aggregazioni arbitrarie v. “tipi” protetti: la nozione di benessere del consumatore decostruita, Relazione al Convegno Il diritto dei consumatori nella crisi e le prospettive evolutive del sistema di tutela, Roma 29 gennaio 2010, in Giurisprudenza Commerciale, 2009, I, p. 1057. 149 CSERES, Competition Law and Consumer protection, The Hague, 2005, cap. 7. 148
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come detto, paternalistici150, ma poco funzionale alle esigenze di buon funzionamento del mercato. Nel caso di pratiche commerciali aggressive, non può non notarsi però che tale criterio non sia propriamente utilizzabile, perché i parametri dell’istruzione e dell’attenzione non sono idonei a descrivere l’alterazione del processo decisionale di un consumatore vittima di una condotta aggressiva. In realtà, al fine di poter dare significato alla norma anche nel caso di pratiche aggressive, deve ritenersi accertata la lesione in tutti i casi in cui la condotta aggressiva del professionista superi la soglia di attenzione, intesa come irritazione o ansietà, anche se non vi è concreta induzione all’acquisto151. Nel rispetto del principio fissato, anche in caso di pratiche commerciali aggressive non si terrà conto delle patologie individuali del singolo consumatore mentre a rilevare saranno le condizioni di debolezza tipica, escludendo così (i) soggetti non nel pieno possesso delle proprie facoltà tipiche, i cui atti sono annullabili, a prescindere dal fatto che siano o meno frutto di illecite pressioni e (ii) fenomeni inusuali di timore e suggestionabilità, ragionevolmente non prevedibili o percepibili con la diligenza del professionista152. L’individuazione di tale criterio standard di riferimento è sicuramente una scelta oculata e attenta del legislatore europeo alle reale esigenze del mercato che non possono sì prescindere da un professionista leale, ma che presuppongono, nella moderna società dell’informazione, un consumatore avveduto e mediamente istruito in grado di filtrare in maniera critica quanto percepisce dal mercato.
WEATHERILL, Who is the “Avarage Consumer?”, in WEATHERILL BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techiniques, Hart, 2007, pp. 115 e ss. 151 HOWELLS, Aggressive Commercial Practices, in HOWELLS, MICKLITZ, WILHELMSSON (a cura di), European fair trading law: the unfair commercial practices directive, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, p. 175. 152 DALLE VEDOVE, Le pratiche commerciali aggressive, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 131. 150
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Le considerazioni di cui sopra portano a concludere che il consumatore medio non potrà essere danneggiato da pratiche commerciali sleali, che non ne potranno alterare la libertà di scelta153.
3.
IL RAPPORTO FRA CLAUSOLA GENERALE E LE DISPOSIZIONI DI DETTAGLIO
Come sopra considerato, l’art. 5 della Direttiva contiene la clausola generale in materia di pratiche commerciali sleali da intendersi come una disposizione di principio di un sistema unitario integrata da definizioni intermedie, quali quelle sulle “pratiche commerciali ingannevoli” e sulle “pratiche commerciali aggressive”, da considerarsi esplicazioni della norma generale, fondate su un meccanismo di presunzione legale relativa di appartenenza delle fattispecie più ristrette a quella generale154. Ciò significa, come anticipato, che al ricorrere dei presupposti di cui alle norme di dettaglio vi è una presunzione legale di conflitto con il principio generale di cui all’art. 5 della Direttiva che regola la disciplina e una contrarietà di tali fattispecie alle norme della diligenza professionale. L’opportunità di seguire un’interpretazione sistematica della disciplina trova riscontro proprio dall’esame delle disposizioni di dettaglio, esemplificative del principio generale di divieto di pratiche commerciali sleali. In particolare, l’art. 6 della Direttiva, che disciplina le fattispecie di pratiche commerciali ingannevoli, è strutturato secondo l’intenzione di prevedere pratiche commerciali da considerarsi sleali di per sé (elencate al § 1) e pratiche da considerarsi sleali sulla base di un principio di ragionevolezza, consistente nella valutazione “nella fattispecie concreta” dell’idoneità delle medesime ad alterare i processi decisionali del consumatore medio (elencate al § 2). Ciò avviene, ad esempio, nel caso dell’emissione da parte del professionista di bollette sulla base dei consumi presunti. Tale pratica può essere, infatti, ritenuta leale, e quindi lecita, se venga posta in essere conformemente alle disposizioni della regolamentazione settoriale e il professionista dia effettivamente seguito alle rettifiche dei consumi comunicate in qualsiasi modo dai consumatori. Si vedano i provvedimenti dell’AGCM: provvedimento PS1235/2009, Eni Divisione Gas & Power – Fatturazione presuntiva; provvedimento PS1588/2009 Italcogim Energie – Disservizi; provvedimento PS476/2009 Eni – consumi presuntivi; provvedimento PS491/2009 Enel – contenzioso per fatturazione. 154 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 75. 153
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Tuttavia, da un esame attento del dato normativo, emerge che la valutazione sull’idoneità della pratica commerciale a pregiudicare il processo decisionale del consumatore e la sua libertà di scelta è, in realtà, analogo per entrambe le ipotesi e va condotta con criteri di tipicità sociale. Se, infatti, nell’elenco di cui al § 1 è genericamente prevista l’idoneità della pratica a indurre il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, nelle fattispecie di cui al § 2, nonostante sia espressamente richiesto che la valutazione in questione sia fatta “nella fattispecie concreta”, non può non considerarsi come la medesima si applichi a fattispecie generalizzate di pratiche commerciali e non a singoli casi specifici isolati. Il material test previsto in tale disposizione si può ritenere del tutto analogo a quello previsto dalla clausola generale di cui all’art. 5 della Direttiva, così che l’elenco di cui all’art. 6 di pratiche commerciali ingannevoli, altro non è che una esemplificazione del principio generale. Del resto, l’applicazione dell’art. 6 della Direttiva presuppone necessariamente la valutazione sull’idoneità della pratica a danneggiare il consumatore medio. Scorrendo l’elenco di cui al § 1 comma, ci si accorge, infatti, che lo stesso contiene una serie di informazioni commerciali, quali ad esempio, “il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso”, rispetto ai quali è ipotizzabile immaginare inesattezze di dettaglio, nonostante la diligenza del professionista, che potrebbero essere ininfluenti rispetto alle scelte del consumatore. La soglia dell’irrilevanza rispetto alla decisione del consumatore non può, quindi, che ritenersi applicabile anche a tali ipotesi, dal momento che, in caso contrario, si creerebbe un duplice e parallelo giudizio sulle pratiche, eccessivamente formale e rigoroso nel caso di pratiche commerciali ingannevoli, sostanziale nel caso di pratiche non ricomprese nelle fattispecie speciali. Per altro, l’elenco di cui all’art. 6 non ha carattere esaustivo, ma meramente esemplificativo che può colmarsi anche attraverso il ricorso al principio generale di cui all’art. 5. 79
L’art. 5 e l’art. 6 della Direttiva non possono, quindi, che considerarsi parti integranti di una norma unitaria155. Rispetto, invece, alle fattispecie di cui alla black list dell’Allegato I, deve osservarsi che, in astratto, tali fattispecie rappresentano pratiche commerciali in ogni caso sleali e quindi vietate in ragione di una preventiva valutazione fatta a valle dallo stesso legislatore. Un material test svolto evidentemente sulla base del principio generale di cui all’art. 5 della Direttiva e che fa ritenere di per sé tali condotte contrastanti con il medesimo principio e come tali vietate nell’ordinamento. Nonostante la dottrina si sia fortemente esposta con toni critici contro la scelta del legislatore di ricorrere all’utilizzo di norme che contengono gli elenchi dei comportamenti assolutamente vietati156, si può, invece, ritenere che tale soluzione confermi l’unitarietà sistematica della disciplina delle pratiche commerciali sleali, dove le fattispecie di cui alla black list sono sì considerate automaticamente vietate, ma perché già ritenute contrarie ai principi generali che regolano la materia e in particolare alle norme di diligenza professionale. Tale considerazione non viene scalfita nemmeno dinnanzi alle critiche di chi ritiene che, in molti casi, l’applicazione immediata e automatica del divieto è impossibile, dato che, anche laddove fosse, il tutto verrebbe risolto applicando al caso concreto i criteri individuati sempre dall’art. 5, vietando così esclusivamente quelle pratiche commerciali ritenute sleali secondo i principi generali, in un sistema così coerente e unitario.
3.1.
LE PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI
Le pratiche commerciali sleali ingannevoli sono a loro volta suddivise in: azioni ingannevoli e omissioni ingannevoli. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 76. 156 BAKARDJIEVA ENGELBREKT afferma che “It is difficult to discern clear logic, coherence or policy priority in the selection and ordering of the examples of the list” in EU and Marketing Practices Law in the Nordic Countries – Consequences of a Directive on Unfair Business-to- Consumer Commercial Practices, 43 cit. da WILHELMSSON, European Fair Trading Law, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, p. 160. HOWELLS sostiene invece che la black list “appear to be a rather rag bag collection of unfair practices” in European Fair Trading Law, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, p. 107. 155
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È considerata una azione ingannevole: a)
“una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi157 e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 6, § 1, della Direttiva);
b)
una pratica commerciale che induca o sia idonea a indurre il consumatore medio a prendere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso e che comporti: (i) una qualsivoglia attività di marketing del prodotto, compresa la pubblicità comparativa, che ingeneri confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e gli altri segni distintivi di un professionista concorrente; (ii) il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che lo stesso si è impegnato a rispettare (art. 6, § 2, della Direttiva).
Elementi
costitutivi
di
una
azione
ingannevole
sono:
(a)
la
mendacità
dell’informazione e (b) la sua capacità decettiva, ovvero l’idoneità a trarre in inganno il consumatore di media diligenza.
“a) l’esistenza o la natura del prodotto; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto; c) la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto; d) il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo; e) la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione; f) la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti; g) i diritti del consumatore, incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 maggio 1999 su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, o i rischi ai quali può essere esposto”. 157
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Senonchè, ove si faccia riferimento all’inganno effettivo e non solo all’ipotetica capacità di ingannare, pare inevitabile inclinare il piano dell’argomentazione giuridica rispetto al consumatore concreto, dato che dall’astrazione del tipo normativo di partie faible si passa all’indagine avente ad oggetto la singola condotta decettiva che ha determinato l’alterazione del processo decisionale del consumatore, come rilevato dall’art. 6, § 2, della Direttiva che attribuisce appunto rilievo all’indagine relativa alla “fattispecie concreta”158. Con particolare riferimento ai messaggi pubblicitari, l’idoneità ingannatoria non può essere esclusa dalla circostanza che il consumatore, grazie a fonti informative esterne, in un momento successivo alla consultazione del messaggio possa apprendere informazioni essenziali in merito al contenuto e alle caratteristiche dell’offerta. Sul professionista, infatti, incombe sin dal primo momento un preciso onere di completezza e chiarezza nella redazione della propria comunicazione commerciale159. Al fine di stabilire la slealtà della pratica commerciale occorre, quindi, accertare il nesso causale tra la falsità della notizia e l’attuazione della decisione di natura commerciale da parte del consumatore. La Direttiva stabilisce che la natura ingannevole di una pratica è ravvisabile quando il consumatore (medio), per effetto dell’inganno, abbia assunto una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. Come già detto, la definizione di “decisione di natura commerciale” (art. 2, lettera k, della Direttiva) fa riferimento non solo alla determinazione del consumatore sul “se” concludere un determinato contratto, ma anche alla determinazione sul “come” e, quindi, a che condizioni concludere il medesimo160.
CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratti e Impresa / Europa, 2007, I, p. 63. 159 Come chiarito dal TAR Lazio con la sentenza del 24 aprile 2009 n. 4138 “la completezza e la veridicità di un messaggio pubblicitario va verificata nell’ambito dello stesso contesto di comunicazione commerciale e non già sulla base di ulteriori informazioni che l’operatore pubblicitario renda disponibili solo a “contatto”, e quindi ad effetto promozionale, già avvenuto”. 160 Con particolare riguardo al prezzo del prodotto, è sicuramente ingannevole e come tale sleale, l’indicazione del costo di acquisto al netto di tasse e supplementi, spese o oneri di qualsiasi genere, comunque denominati e comunque rientranti nelle voci previamente determinabili dal professionista, che concorrono a determinare l’importo finale che il consumatore deve corrispondere per acquistare quel prodotto. 158
Al fine di rendere chiara e completa l’informazione fornita al pubblico, l’indicazione del costo di un prodotto deve, infatti, includere ogni onere economico gravante sul consumatore, il cui ammontare sia
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Ingannevoli e, quindi, sleali saranno altresì tutte le pratiche a causa delle quali, il consumatore sia stato indotto a recepire nel regolamento negoziale la clausola o la condizione che avrebbe rifiutato in assenza dell’inganno161. Non può, tuttavia, non considerarsi che attualmente i rapporti Business to Consumer sono in gran parte regolati da condizioni generali di contratto, unilateralmente formulati dallo stesso professionista, in cui, al di là delle informazioni di cui il consumatore può disporre, il potere effettivo di quest’ultimo di esercitare una seppur minima influenza è pressoché azzerato. Sul punto deve, però, considerarsi che l’obiettivo del legislatore attraverso la disciplina delle pratiche commerciali sleali non è tanto di riconoscere una tutela individuale del consumatore, bensì una tutela generale e collettiva, tanto da avere come riferimento per la determinazione della slealtà della pratica non il singolo consumatore, ma il consumatore medio. Per questo, il disvalore dei consumatori riguardo le clausole sgradite, ma accettate in ragione di un inganno da parte del professionista, diventa rilevante sotto la prospettiva dei contratti seriali. Attraverso, quindi, le associazioni dei consumatori, l’intera categoria dei consumatori troverà difesa ai propri interessi economici generali solo nel caso in cui la slealtà della pratica commerciale sia divenuta un
determinabile ex ante, o presentare, contestualmente e con adeguata evidenza grafica e/o sonora, tutte le componenti che concorrono al computo del prezzo finale. Tale principio è ormai consolidato negli ordinamenti degli Stati membri. Ad esempio, nel trasporto aereo, la prima indicazione di prezzo dei biglietti deve essere sempre comprensiva di tutte le voci di costo prevedibili e inevitabile (all inclusive). Quindi, lo scorporo di un onere che è determinato ex ante dal professionista (come, ad esempio la c.d. credit card surcharge) ed è nei fatti inevitabile, è una pratica commerciale sleale in quanto idonea a falsare in maniera apprezzabile il comportamento effettivo del consumatore medio in relazione al costo effettivo del servizio offerto dal professionista. Si pensi che nel solo 2011 e nei primi mesi del 2012, in Italia, le principali compagnie aeree nazionali ed estere sono state complessivamente condannate a oltre 1 milione di euro (Provvedimenti AGCM del 2011 e del 2012 contro Rayanair; Germanwings PS3771/2011; Blu Express PS373/2011; Air Italy.it PS4261/2011; Alitalia PS5530/2011; Wizzair PS5667/2011; Easyjet PS6147/2011; Lufthansa Italia PS7430/2011; Vueling Airlines PS7383/2012). Sul medesimo principio si veda, anche, tra le altre, TAR del Lazio, sentenza 8 settembre 2009, n. 8394. Il prezzo è, infatti, senza dubbio l’elemento più sensibile e condizionante le scelte del consumatore, per questo è necessario che la sua presentazione sia la più chiara possibile per non risultare decettiva sin dal primo momento. Per questo, il professionista è tenuto a reclamizzare le concrete performance del prodotto e non può riferirsi alle astratte potenzialità. È, infatti, ingannevole il riferimento, ad esempio, alla teorica velocità di una internet key dal momento che tale riferimento è fuorviante per il consumatore medio che nell’acquisire quel prodotto non è interessato alle astratte potenzialità, ma alla concreta possibilità di fruire di un servizio di elevate velocità di navigazione (Provvedimento AGCM, H3G – Navigazione Internet Key 2011). 161
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fenomeno socialmente rilevante ed allarmante essendo idonea a pregiudicare, non tanto il singolo consumatore, ma il consumatore medio162. Da un punto di vista prettamente civilistico, anche se non espressamente affermato, nella disposizione in questione pare, quindi, potersi sostenere che la decettività della pratica commerciale sia collegabile a ipotesi sia di dolo-vizio determinante (dolus causam dans), sia di dolo incidente. Si discute, invece, se anche il c.d. dolo buono, ovvero la millanteria o l’iperbolica esagerazione, integrino o meno gli estremi delle azioni ingannevoli. Parte della dottrina ritiene che il c.d. dolo buono debba essere considerato giuridicamente irrilevante in quanto non adatto a provocare l’induzione in errore di una persona mediamente attenta e per questo il medesimo sarebbe connotato da una
intrinseca
inoffensività
decettiva163.
Ciò
significa
che
non
qualsiasi
dichiarazione esagerata o qualsiasi vanteria si eleverà a elemento costitutivo della condotta sleale, dovendo necessariamente rimanere prive di rilievo giuridico e ininfluenti rispetto all’accertamento della slealtà di una pratica commerciale le affermazioni del professionista basate su canoni personali di valutazione insuscettibili di un riscontro oggettivo164.
Rispetto a tali contratti, regolati da clausole uniformi, pare irragionevole fuoriuscire dal canone di valutazione correlato alla regola empirica dell’id quod plerumque accidit. Una volta, quindi, riconosciuto che il contratto soddisfi interessi meritevoli di protezione, sembra inevitabile legittimare il professionista a modellare il contenuto sia delle clausole preformulate, sia delle connesse attività pubblicitarie e di marketing alla capacità critica del consumatore medio, CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratti e Impresa / Europa, 2007, I, p. 68. 163 VANZETTI, La repressione della pubblicità menzognera, in Rivista di diritto civile, 1964, I, pp. 584 e ss. Tale opinione non ha trovato, però, riscontro nell’ambito della giurisprudenza in materia di concorrenza sleale che non si è dimostrata particolarmente tollerante verso il dolus bonus, ROSSI, La Pubblicità dannosa, Milano, 2000, p. 79. 164 Sul punto, la dottrina tedesca ha chiarito, ad esempio, che non può considerarsi viziato da dolo il contratto di acquisto di un capo di abbigliamento se il consumatore sia stato indotto all’acquisto sulla base delle rassicurazioni della commessa che rappresentava che lo indossava benissimo, se successivamente il marito abbia, invece, manifestato disappunto per l’acquisto, ritenendo, al contrario, l’abito acquistato di cattivo gusto, KÖHLER, BGB, Allgemeiner Teil, Monaco, 1996, p. 146. Il dolo deve, quindi, tendenzialmente riferirsi a un fatto obbiettivamente verificabile, nel senso che il contenuto della dichiarazione decettiva dovrebbe poter soggiacere al giudizio di “vero” o “falso” e non riferirsi a valutazioni che non sono suscettibili di un siffatto riscontro. 162
84
Il dolo diventa così rilevante in sé e per sé165, divenendo irrilevante la variabile del grado di vulnerabilità del consumatore negli stessi termini in cui non assume significato l’eventuale inescusabilità dell’errore naturale o non provocato166. Di conseguenza, si può affermare che nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali sleali l’art. 6 della Direttiva non considera il c.d. dolo buono, proprio perché tra gli elementi costitutivi della fattispecie rientra la capacità dell’azione ingannevole di trarre in errore il consumatore mediamente accorto, che dovrebbe essere per lo più indifferente alle suggestioni esercitate da dichiarazioni esagerate e da suggestioni esercitate dalle magnificenze, prive di reale attendibilità.
3.2.
LE OMISSIONI INGANNEVOLI
Sono ritenute omissioni ingannevoli, tutte le pratiche commerciali in cui il professionista “ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale”, inducendo o comunque essendo idonea a indurre il consumatore ad assumere decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso (art. 7, § 1, della Direttiva). Gli elementi costitutivi di tali fattispecie sono: (i) l’omissione di informazioni rilevanti e (ii) l’idoneità dell’omissione a indurre il consumatore a prendere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso. L’ingannevolezza di una pratica commerciale si determina, quindi, in particolare, rispetto agli obblighi a carico del professionista di informazione, già previsti a livello europeo rispetto a tutte le comunicazioni commerciali e, qui, estesa anche alle condotte del professionista. In ogni condotta del professionista direttamente connessa con la (potenziale) vendita di un prodotto il consumatore dovrà disporre, infatti, come detto, di tutte le informazioni essenziali per una scelta consapevole. Di fatto, la norma in questione ha riproposto i criteri individuati dalla Corte di Giustizia e dalle Autorità nazionali CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratti e Impresa / Europa, 2007, I, p. 67. 166 ROPPO, Il contratto, in IUDICA – ZATTI (a cura di), Trattato di diritto privato, Milano, 2000, p. 818 SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da SACCO, vol. I, 2004, p. 570. 165
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nell’ambito della pubblicità ingannevole. Per questo, il § 4 dell’art. 7 detta un elenco assai particolareggiato di informazioni utili a superare il deficit cognitivo che può condizionare il consumatore, la cui omissione rende sleale, quindi vietata, una determinata pratica167. Ricorrerà un’ipotesi di omissione ingannevole, anche lo sfruttamento, doloso o colposo, da parte del professionista della situazione di preesistente errore in cui si trovi il consumatore, anche se non provocato dal professionista. Ciò significa che anche la mancata “illuminazione” nei confronti dei consumatori che già versavano nella condizione di ignoranza assume il significato di condotta negativa sleale, e come tale vietata ai sensi dell’art. 7 della Direttiva. Le omissioni assumono, poi, particolare rilevanza relativamente ai prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza. L’impatto che le omesse informazioni circa possibili controindicazioni all’utilizzo di determinati prodotti possono provocare sui fruitori degli stessi affetti da patologie mediche è, infatti, molto elevato. Rispetto a tale tipologia di prodotti, quindi, è necessario che qualunque controindicazione all’utilizzo deve essere evidenziata con chiarezza nei messaggi pubblicitari con cui i prodotti vengono offerti al pubblico. La potenziale induzione ad una decisione di natura commerciale non riguarda, però, come detto, solo l’an della scelta, ma anche tutte le condizioni a cui essa può essere effettuata che possano arrecare un pregiudizio al comportamento economico del consumatore. La sleale chiusura del canale informativo è, pertanto, ravvisabile anche nell’ipotesi in cui il consumatore sia indotto a concludere un contratto che non avrebbe altrimenti stipulato o comunque a condizioni diverse da quelle che
Rientrano, infatti, in tale ambito tutte le informazioni diffuse attraverso le confezioni dei prodotti (come ad esempio, l’elenco degli ingredienti, a cui i consumatori stanno sempre più attenti, le avvertenze d’uso, etc.); le complessive campagne pubblicitarie e, in genere, le informazioni indirizzate con qualsiasi mezzo al singolo consumatore, al fine di indurlo a prendere una decisione di natura commerciale. Realizza un’ipotesi di omissione ingannevole la mancata indicazione della natura onerosa di un servizio offerto che induce così i consumatori a ritenere che la fruizione dei prodotti disponibili collegati a tale offerta sia gratuita, quando in realtà non lo è. L’AGCM ha sanzionato un professionista per aver realizzato una pratica commerciale scorretta attraverso sofisticate omissioni ingannevoli per indicizzare il proprio sito web nel motore di ricerca Google, in quanto ometteva di evidenziare la natura onerosa del servizio offerto. I consumatori erano, infatti, indotti ad attivare inconsapevolmente un contratto di abbonamento a titolo oneroso di durata biennale che non avrebbero altrimenti sottoscritto (Provvedimento AGCM, Italia Programmi.net, PS7444/2011). 167
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avrebbe accettato se fosse stato edotto delle circostanze chiarificatrici, fondamentali ai fini della corretta rappresentazione della realtà, materiale e giuridica, di riferimento168. Nella fattispecie di omissione ingannevole sopra tratteggiata pare, così, potersi scorgere i tratti di una norma di interpretazione autentica della fattispecie del dolo omissivo, viziante il consenso del consumatore della prestazione informativa, dato che la medesima serve a orientare l’interprete a tradurre in termini concreti la clausola generale di divieto. Fermo quanto sopra, il legislatore europeo ha ritenuto, inoltre, di dover considerare omissione
ingannevole
l’occultamento
o
la
presentazione
in
modo
non
comprensibile, ambiguo o intempestivo delle informazioni rilevanti o la mancata indicazione dell’intento commerciale della pratica medesima laddove ciò non risulti evidente dal contesto in cui si inserisce e svolge. Ciò sempre a condizione che le medesime inducano o siano idonee ad indurre il consumatore medio a prendere decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso169 (art. 7, § 2, della Direttiva). A differenza delle fattispecie di cui al § 1, dell’art. 7, tale ipotesi non ha nulla a che fare con la categoria del dolo omissivo, dato che si fonda su di una condotta attiva del professionista che conduce all’occultamento, oppure alla presentazione in modo oscuro, ambiguo o intempestivo delle informazioni necessarie per assicurare il consenso informato del consumatore170. Attraverso tale disposizione, infatti, il legislatore europeo ha inteso vietare tutti i comportamenti del professionista, anche attivi, preordinati a celare informazioni rilevanti per le scelte dei consumatori, ovvero quei casi in cui il professionista
CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratti e Impresa / Europa, 2007, I, p. 73. È il caso delle c.d. half truths individuate dalla dottrina inglese, Chitty on Contracts, 2008. 169 MELI, Le pratiche sleali ingannevoli, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 104. 170 CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratti e Impresa / Europa, 2007, I, p. 74. 168
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divulga sì informazioni, ma in maniera tale che le medesime sfuggano ad un consumatore mediamente avveduto171. Come per la fattispecie di cui al § 1, anche quelle previste nel § 2, hanno comunque il compito di riempire di contenuti la clausola generale, di cui all’art. 5 della Direttiva, attraverso un’illustrazione nel dettaglio dell’essenza della prestazione informativa a carico del professionista.
3.3.
LE PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI IN OGNI CASO SLEALI
La prima parte dell’Allegato I della Direttiva enumera ventitré pratiche considerate sempre ingannevoli e, come tali, vietate172.
CARTWRIGHT, Misrepresentation, mistake and non-disclosure, 2007, § 6-017. In giurisprudenza Smith v Hughes (1871) LR 6 QB 597. 172 Sono, infatti, considerate sempre sleali: 171
1) le affermazioni da parte del professionista di essere firmatario di un codice di condotta, anche quando non lo sia; 2) esibire un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente senza avere ottenuto le necessarie autorizzazioni; 3) asserire che un codice di condotta ha l’approvazione di un organismo pubblico o di altra natura, ove esso non lo abbia; 4) asserire che un professionista e le sue pratiche commerciali o un prodotto siano stati approvati, accettati o autorizzati da un organismo pubblico o privato quando esso non lo sia stato o senza rispettare le condizioni dell’approvazione, dell’accettazione o dell’autorizzazione ricevuta 172; 5) invitare all’acquisto di prodotti a un determinato prezzo senza rivelare l’esistenza di ragionevoli motivi che il professionista può avere per ritenere che non sarà in grado di fornire o di far fornire da un altro professionista quei prodotti o prodotti equivalenti a quel prezzo entro un periodo e in quantità ragionevoli in rapporto al prodotto, all’entità della pubblicità fatta e al prezzo offerti. Nell’ambito di una bait advertising ovvero di una pubblicità propagandistica è stata ritenuta “in ogni caso sleale” la condotta del professionista che utilizzi la dicitura “salvo esaurimento scorte”. Tale dicitura, senza i necessari chiarimenti in merito all’esistenza di limitazioni della disponibilità di prodotti, rientrerebbe nell’ipotesi di un invito all’acquisto di prodotti a un determinato prezzo, senza rilevare l’esistenza di ragionevoli motivi che il professionista può avere per ritenere che non sarà in grado di fornire o di far fornire da un altro professionista quel prodotto a quel prezzo (Allegato I, n. 5); 6) invitare all’acquisto di prodotti a un determinato prezzo e successivamente, rifiutare di mostrare ai consumatori il prodotto pubblicizzato, oppure, rifiutare di accettare ordini per tale articolo o di consegnarlo entro un periodo ragionevole, oppure fare la dimostrazione dell’articolo con un prodotto difettoso, con l’intenzione di promuovere un altro prodotto (bait and switch ovvero pubblicità con prodotti civetta); 7) dichiarare falsamente che il prodotto sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o che sarà disponibile solo a condizioni particolari per un periodo di tempo molto limitato, in modo da ottenere
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una decisione immediata e privare i consumatori della possibilità o del tempo sufficiente per prendere una decisione consapevole; 8) impegnarsi a fornire l’assistenza post-vendita a consumatori con i quali il professionista ha comunicato prima dell’operazione commerciale in una lingua diversa dalla lingua ufficiale dello Stato membro in cui il professionista è situato e poi offrire concretamente tale servizio soltanto in un’altra lingua, senza chiaramente comunicarlo al consumatore prima che questi su sia impegnato a concludere l’operazione; 9) affermare o generare comunque l’impressione che la vendita del prodotto è lecita ove non lo sia. Ciò si verifica, ad esempio, dove all’interno di un esercizio commerciale si venda merce contraffatta; 10) presentare i diritti conferiti ai consumatori dalla legge, come ad esempio il diritto di recesso, come una caratteristica propria dell’offerta fatta dal professionista; 11) impiegare contenuti redazionali nei media per promuovere un prodotto, qualora i costi di tale promozione siano stati sostenuti dal professionista senza che ciò emerga chiaramente dai contenuti o da immagini o suoni chiaramente individuabili per il consumatore (advertorial ovvero pubblicità redazionale); 12) formulare affermazioni di fatto inesatte per quanto riguarda la natura e la portata dei rischi per la sicurezza personale del consumatore o della sua famiglia se egli non acquistasse il prodotto; 13) promuovere un prodotto simile a quello fabbricato da un particolare produttore in modo tale da fuorviare deliberatamente il consumatore facendogli credere che il prodotto è fabbricato dallo stesso produttore, quando invece non lo è; 14) avviare, gestire o promuovere un sistema di promozione a carattere piramidale nel quale il consumatore fornisce un contributo in cambio della possibilità di ricevere un corrispettivo derivante principalmente dall’entrata di altri consumatori nel sistema piuttosto che dalla vendita o dal consumo di prodotti; 15) affermare che il professionista sta per cessare l’attività o traslocare, ove non stia per farlo; 16) affermare che alcuni prodotti possono facilitare la vincita in giochi d’azzardo; 17) affermare falsamente che un prodotto ha la capacità di curare malattie, disfunzioni o malformazioni. È il caso, ad esempio, dei bracciali di silicone e neoprene pubblicizzati come aventi ipotetiche proprietà ed effetti sull’equilibrio, sulla forza e sulla resistenza fisica delle persone. L’istruttoria compiuta sui medesimi dallo stesso Istituto Superiore di Sanità italiano ha portato a escludere categoricamente qualsivoglia proprietà benefica dei bracciali pubblicizzati (con provvedimenti dell’AGCM Power Balance PS6307/2010 e EFX Ologrammi PS6325/2011, la società produttrice e quella distributrice di tali braccialetti sono state sanzionate per pratiche commerciali scorrette); 18) comunicare informazioni inesatte sulle condizioni di mercato o sulla possibilità di ottenere o sulla possibilità di ottenere il prodotto allo scopo di indurre il consumatore ad acquistare il prodotto a condizioni meno favorevoli di quelle normali di mercato; 19) affermare in una pratica commerciale che si organizzano concorsi o promozioni a premi senza attribuire i premi descritti o un equivalente ragionevole. Possono rientrare in tale fattispecie i diffusi finti telequiz in cui nessun utente ha la possibilità di fatto di partecipare al programma per vincere il montepremi posto in palio in tale sede. In realtà, la diffusione televisiva di tali finti quiz è volta alla commercializzazione di contenuti multimediali per telefoni cellulari, tanto che nel corso delle dirette televisive è stato accertato che le chiamate telefoniche non sono mai di consumatori, ma degli stessi collaboratori del professionista, impedendo così che il consumatore possa vincere il premio pubblicizzato (Provvedimenti AGCM, Publimar – Quiz Time PS6196/2911; DP Mobile – Telequiz Giocare, PS6339/2011);
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Accanto alla clausola generale di ingannevolezza, il legislatore europeo ha, infatti, previsto un elenco tassativo – modificabile solo con una revisione della Direttiva – di pratiche considerate “in ogni caso” ingannevoli, “senza una valutazione caso per caso in deroga alle disposizioni degli articoli da 5 a 9” (considerando n. 17). Le condotte in questione non hanno, quindi, una mera finalità esemplificativa, ma rappresentano ipotesi tassative vietate a prescindere, al di là dell’accertamento della sussistenza dei presupposti di legge in merito alla sussistenza nel caso di specie del carattere dell’ingannevolezza. Tale valutazione è di fatto svolta preventivamente dal legislatore con il fine di assicurare un’armonizzazione completa nel merito della disciplina, riducendo al massimo livello la discrezionalità degli interpreti nazionali e i rischi di una eccessiva frammentazione della disciplina rispetto a determinate pratiche. La meticolosità e la completezza della lista di pratiche commerciali in ogni caso ingannevoli conferma come tali singole fattispecie ben si adattano a svolgere il compito di criteri interpretativi della clausola generale, di cui all’art. 5 della Direttiva, che individua la nozione onnicomprensiva di pratiche commerciali sleali173.
20) descrivere un prodotto come gratuito, senza oneri o simili se il consumatore deve pagare un sovrappiù rispetto all’inevitabile costo di rispondere alla pratica commerciale e ritirare o farsi recapitare l’articolo; 21) includere nel materiale promozionale una fattura o analoga richiesta di pagamento che dia al consumatore l’impressione di avere già ordinato il prodotto in commercio mentre, in realtà, non lo ha fatto; 22) dichiarare falsamente o dare l’impressione che il professionista non agisca nel quadro della sua attività professionale o presentarsi falsamente come consumatore; 23) dare la falsa impressione che i servizi post-vendita relativi a un prodotto siano disponibili in uno Stato membro diverso da quello in cui si è venduto il prodotto. CALVO, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contratti e Impresa / Europa, 2007, I, p. 74. 173
90
3.4.
LE PRATICHE COMMERCIALI AGGRESSIVE
La comunicazione dell’11 giugno 2002 della Commissione europea174 aveva evidenziato come la disciplina delle pratiche commerciali sleali dovesse andare oltre al concetto di ingannevolezza, già utilizzato nell’ambito della pubblicità commerciale, e ricomprendere ogni pratica sleale posta in essere dal professionista anche attraverso il ricorso alla forza fisica, a molestie, coercizione e indebito condizionamento e dirette verso soggetti particolarmente vulnerabili. La comunicazione in questione già delineava i caratteri essenziali di una pratica commerciale aggressiva che saranno poi ripresi dall’art. 8 della Direttiva che, per la prima volta a livello europeo, ha introdotto una nuova categoria di illeciti, quali le condotte aggressive. Fino all’entrata in vigore della Direttiva, il legislatore europeo non aveva, infatti, previsto una disciplina idonea a tutelare i consumatori nel caso in cui gli stessi fossero “manipolati”, ovvero manovrati, controllati e condizionati con riguardo a quelle condotte, ricomprese le pubblicità che, seppur privi di attitudine ingannatoria, possono comunque produrre l’effetto di alterare il processo di libera formazione della volontà del consumatore o addirittura provocare stati di soggezione psicologica o reazioni inconsce175. Tipica in tal senso è la minaccia da parte del professionista di distacco di un’utenza unitamente all’invio del sollecito di pagamento al consumatore. Infatti, non è solo l’inganno che condiziona o può essere idoneo a condizionare le scelte del consumatore, ma anche l’aggressività che il professionista può porre nel relazionarsi con il consumatore. Metodi e strumenti intimidatori agiscono sul comportamento del consumatore, anche in chiave emotiva, senza magari alterarne la reali capacità della vittima di discernimento e valutazione delle caratteristiche del prodotto, ma non per questo non possono non incidere sulle decisioni di natura commerciale che il consumatore è chiamato a prendere.
Comunicazione dell’11 giugno 2002, “Seguito dato al Libro Verde sulla tutela dei consumatori nel mercato interno”, COM(2002) 289. 175 FUSI, Pratiche commerciali aggressive e pubblicità manipolatoria, in Rivista del diritto industriale, 2009, I, p. 5. 174
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Anzi, proprio tali condotte sono le più condizionanti per il consumatore e come tali non possono essere tollerate all’interno di un ordinamento come quello europeo che intende tutelare in ogni modo la libertà di scelta dei consumatori. Una pratica commerciale è considerata aggressiva se “mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, limiti o sia idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induca o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” (art. 8). L’effetto di tali condotte del professionista, a differenze delle pratiche ingannevoli, non è quindi quello di falsare la corretta rappresentazione delle caratteristiche del prodotto e del professionista, ma di impedire o di limitare, anche fisicamente, la libertà di scelta o di comportamento del consumatore (considerando n. 16). Nel determinare se una pratica commerciale sia da considerarsi aggressiva, il legislatore individua una serie di situazioni, circostanze e fattori che l’interprete dovrà valutare al fine di valutare se la medesima comporti una limitazione considerevole della liberta di scelta o di comportamento del consumatore176. L’art. 9 della Direttiva ha così il compito di individuare i parametri attraverso cui valutare la pratica e, allo stesso tempo, di specificare le modalità esemplari di comportamento aggressivo, esemplificative di quanto disposto dalla clausola generale. In particolare, devono essere presi in considerazione nella valutazione di aggressività della pratica: a) i tempi, il luogo, la natura o la persistenza con cui la medesima è posta in essere; b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale. Inoltre, il legislatore europeo ha previsto fattispecie specifiche, già definite, di illecita pressione, indebito condizionamento o ostacolo, quali “lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale
È stata, per questo, ritenuta aggressiva la condotta del professionista che intenzionalmente indichi agli operatori del proprio call center di non fornire, anche dietro insistenza del consumatore, l’indirizzo e il numero di fax a cui inviare la disdetta dal servizio (Provvedimento AGCM SKY – Recesso contratto, PS5014/2011). 176
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da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto”(art. 9, lettera c) della Direttiva) e “qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista” (art. 9, lettera d) della Direttiva). L’ipotesi di utilizzo da parte di “qualsiasi minaccia di promuovere un’azione legale ove tale azione non sia giuridicamente ammessa” (art. 9, lettera e) della Direttiva), pare in realtà potersi configurare come una fattispecie di pratica commerciale in ogni caso aggressiva e come tale sempre e comunque vietata. L’aggressività della pratica dovrà essere valutata, secondo i principi generale della materia, prima, durante e dopo la conclusione del rapporto contrattuale tra professionista e consumatore e la vasta gamma di ipotesi ricomprese nella norma, farà sì che alcune di esse potranno, per lo meno per certi elementi, sovrapporsi, essendo sottile la differenza tra minaccia, coercizione e indebito condizionamento. Con il ricorso a tali formule, in parte, come detto, anche sovrapponibili, il legislatore ha voluto escludere che vi fosse la possibilità che condotte comunque aggressive, poste in essere con qualsiasi modalità da parte del professionista, potessero rimanere esenti da sanzioni. Del resto, il ricorso a nozioni, all’apparenza così simili e contigue tra loro è giustificato anche dalle possibili differenze esistenti tra i vari ordinamenti nazionali, in cui le medesime sono sì presenti, ma non necessariamente trovano esatta corrispondenza177.
In Italia, nell’ambito del diritto contrattuale sicuramente la minaccia, la violenza e la coercizione sono nozioni sviluppate dalla giurisprudenza quali vizi del consenso (artt. 142, 1435 cod. civ.). Stessa cosa nel Regno Unito dove tali nozioni si sono sviluppate nell’ambito degli illeciti da undue influence. 177
La trasposizione di tali concetti nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali sleali comporta comunque il fatto che le medesime debbano essere valutate alla stregua dell’attitudine a pregiudicare considerevolmente la libertà di scelta e di comportamento commerciale del consumatore, così da indurlo a prendere decisioni di carattere economico che altrimenti non avrebbe preso. È rispetto a tale fine, quindi, che tali concetti vanno riportati e indirizzati, così che dovranno considerarsi pratiche moleste, invasive della sfera privata del consumatore, anche gli atti semplicemente fastidiosi. In ogni caso, non avranno influenza su tale nozione le ipotesi legali di molestia elaborate in altre aree della vita di relazione, come nei rapporti di vicinato, interpersonali o in ogni altra situazione di turbativa di persone valutabile alla stregua delle clausole dell’ordine pubblico o del buon costume, DALLE VEDOVE, Le pratiche commerciali aggressive, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 123.
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L’art. 9 della Direttiva contiene, infatti, tutti i parametri per valutare se una pratica commerciale possa essere considerata sleale, in quanto aggressiva. Per cui, l’inserimento da parte del professionista di posta nella cassetta del consumatore, nonostante l’esplicito avviso essere la medesima non gradita, è sì una pratica commerciale sleale, ma non aggressiva, dal momento che non pone limiti alla libertà di comportamento del consumatore medio178. Allo stesso tempo non può considerarsi molesta e quindi aggressiva, la prassi del volantinaggio stradale utilizzata dal professionista per pubblicizzare i propri prodotti dal momento che non incide direttamente sugli interessi economici dei consumatori, ma che, se svolta con modalità contrarie al buon gusto e alla decenza, è soggetta alle sole norme dei singoli ordinamenti nazionali (considerando n. 7 della Direttiva). Rispetto, invece, alle frequenti ipotesi di sollecitazione a contrarre al di fuori dei locali commerciali, di per sé lecite, al fine di valutare la sussistenza di eventuali profili di aggressività nella condotta del professionista, occorrerà valutare la medesima in ragione dei tempi, del luogo e della persistenza con cui è stata condotta. Nell’ambito delle pratiche commerciali aggressive, il parametro di riferimento da tenere è sempre quello del consumatore medio, con un’accezione, però, parzialmente diversa da quella utilizzate nell’accertamento delle pratiche commerciali ingannevoli. In tale contesto, il parametro del consumatore medio porta a escludere qualsiasi rilevanza del timore fondato esclusivamente su una inusuale e ingiustificata reazione soggettiva prodottasi in una persona non sensata e facilmente impressionabile e la cui diagnosi imporrebbe al professionista di utilizzare una diligenza superiore a quella richiesta179 e non compatibile con un’impostazione della disciplina non più paternalistica. Il consumatore è oggi, secondo la nuova
HOWELLS, Aggressive Commercial Practices, in HOWELLS, MICKLITZ, WILHELMSSON (a cura di), European fair trading law: the unfair commercial practices directive, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, p. 181. 179 DALLE VEDOVE, Le pratiche commerciali aggressive, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 131. 178
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impostazione data dal diritto europeo, un attore privilegiato del mercato e non sempre e comunque una vittima180. Si può, infatti, sostenere che ogni volta che il professionista possa ragionevolmente riconoscere uno stato di scemata capacità di discernimento da parte del consumatore, a causa di un’oggettiva minorazione per ragioni di età o infermità, comuni ad intere categorie di soggetti, o anche di particolari condizioni soggettive percepibili, ma nonostante ciò induca a porre in essere un’operazione commerciale, tale condotta sarà da considerarsi aggressiva e come tale vietata, in quanto contraria alla buona fede e alla diligenza professionale.
3.5.
LE PRATICHE COMMERCIALI AGGRESSIVE IN OGNI CASO SLEALI
Come per le ipotesi di pratiche commerciali ingannevoli, anche nel caso di pratiche commerciali aggressive, seppure in maniera decisamente più ridotta, il legislatore europeo ha previsto otto fattispecie di condotte da considerarsi in ogni caso sleali, elencate nella seconda parte della black list di cui all’allegato I. Tali fattispecie non necessitano, come detto, di alcuna verifica per valutarne la slealtà, in quanto aprioristicamente ritenute contrarie ai principi di cui alla clausola generale e, quindi, alla diligenza professionale. Non può, tuttavia, escludersi che anche al ricorrere di tali ipotesi, il professionista possa tentare di eccepire che la sua condotta è risultata ininfluente rispetto alle scelte e al comportamento del consumatore. La previsione espressa che tali condotte sono da considerarsi “in ogni caso sleali” e la loro diversa collocazione all’interno della stessa Direttiva confermano, però, che la disciplina in questione è speciale e derogatoria rispetto a quella generale che prevede l’accertamento concreto dell’idoneità della pratica ad incidere sulle scelte economiche del consumatore. Nel caso, però, il professionista si renda conto e sia consapevole dello stato d’ansia, del timore, dell’irritabilità del consumatore di fronte alle sue offerte, e giunga così a concludere un contratto gravoso per il consumatore, sfruttando in mala fede lo stato emotivo di quest’ultimo, la pratica dovrebbe considerarsi senza dubbio sleale: SACCO, Il contratto, tomo I, in Trattato Sacco-De Nova, Torino, 2004, p. 581 che affronta la problematica del contratto concluso a condizioni gravose in ragione del timore spontaneo, reverenziale, immotivato, che la controparte sfrutta in mala fede. 180
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Ciò significa che tali ipotesi devono essere sempre e comunque considerate sleali, e quindi vietate, iuris et de iure, e potranno essere esperiti nei confronti delle medesime i rimedi inibitori e restitutori anche nell’ipotesi in cui siano inidonee a incidere sulla libertà di determinazione del consumatore181. L’unica valutazione che si ritiene necessario debba essere fatta dalle competenti Autorità è la corrispondenza tra il caso concreto e la fattispecie indicata nella black list. Nel caso in cui la condotta realmente posta in essere dal professionista coincida con una di quelle dell’elenco di cui all’Allegato I, la medesima sarà da considerarsi sleale. In particolare, sono pratiche commerciali aggressive in ogni caso: a)
l’ipotesi di “creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto ” (n. 24) dal momento che la medesima configura un’ipotesi di condotta estremamente grave in cui confluiscono tutti gli elementi caratterizzanti l’aggressività, quali la molestia, la minaccia, la coercizione e l’indebito condizionamento;
b)
l’ipotesi di “effettuare visite presso l’abitazione del consumatore, ignorando gli inviti del consumatore a lasciare la sua residenza o a non ritornarvi, fuorchè nelle circostanze e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell’esecuzione di un’obbligazione contrattuale” (n. 25) in ragione del fatto che si tratta di una forma di assedio e intrusione fisica nella vita del consumatore, tanto da poter integrare una velata minaccia. Deve considerarsi, tuttavia, che la Direttiva non vieta di per sé le vendite door to door, né reputa le medesime aggressive a priori, ma ritiene che le medesime lo possano essere nel caso in
Sul punto, in senso conforme a tale tesi, si veda PALLOTTA, Le pratiche commerciali aggressive, in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le pratiche commerciali sleali, MILANO, 2007, p. 178; AUTERI, Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, pp. 1 e ss. In senso dubitativo, DALLE VEDOVE, Le pratiche commerciali aggressive, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 137, secondo il quale la tesi del divieto assoluto delle condotte di cui alla black list, a discapito di quella della presunzione relativa, presenterebbe l’inconveniente e l’antinomia che il legislatore consentirebbe la repressione di eventuali door to door fattispecie innominate, il cui carattere socialmente riprovevole potrebbe essere anche maggiore di quelle di cui all’Allegato I, sarebbe condizionata alla prova della presenza in concreto dell’idoneità a incidere sulle scelte del consumatore, mentre le seconde ne sarebbero esenti. 181
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cui vengano ignorati i divieti del consumatore a lasciare la sua abitazione o a non ritornarvi, mentre “le pratiche commerciali quali ad esempio le sollecitazioni commerciali per strada possono essere indesiderabili negli Stati membri per motivi culturali” (considerando n. 7); c)
l’ipotesi di “effettuare ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza, fuorchè nelle circostanze e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell’esecuzione di un’obbligazione contrattuale, fatti salvi l’articolo 10 della direttiva 97/7/CE e le direttive 95/46/CE e 2002/58/CE” (n. 26) rappresenta una delle fattispecie più gravi di molestie, mal tollerata dal consumatore;
d)
l’ipotesi di “imporre al consumatore che intenda presentare una richiesta di risarcimento in virtù di una polizza di assicurazione di esibire documenti che non potrebbero essere considerati pertinenti per stabilire la validità della richiesta, o omettere sistematicamente di rispondere alla relativa corrispondenza, al fine di dissuadere un consumatore dall’esercizio dei suoi diritti contrattuali” (n. 27) presuppone un contratto già concluso e la violazione da parte del professionista degli obblighi di eseguire il medesimo secondo buona fede;
e)
l’ipotesi di “includere in un messaggio pubblicitario un’esortazione diretta ai bambini affinchè acquistino o convincano i genitori o altri adulti ad acquistare loro i prodotti reclamizzati” (n. 28) rappresenta un grave esempio di indebito condizionamento indiretto, dal momento che si agisce su soggetti terzi, particolarmente deboli come i bambini, cui si legati da particolari vincoli affettivi;
f)
l’ipotesi di “esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto, salvo nel caso dei beni di sostituzione di cui all’art. 7, paragrafo 3, della direttiva 97/7/CE (fornitura non richiesta)” (n. 29) è una grave ipotesi di minaccia tanto che tale fattispecie è colpita anche dalla sanzione della totale inefficacia di ogni fornitura non richiesta.
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Le due ultimi ipotesi di pratiche commerciali considerate in ogni caso aggressive di cui all’elenco dell’Allegato I, in realtà, sono state inserite in maniera non corretta in tale elenco, trattandosi piuttosto di ipotesti di ingannevolezza. Tali pratiche consistono, infatti, nell’ “informare esplicitamente il consumatore che se non acquista il prodotto o servizio sarà in pericolo il lavoro o la sussistenza del professionista” (n. 30) e nel “dare la falsa impressione che il consumatore abbia già vinto, vincerà o vincerà compiendo una determinata azione un premio o una vincita equivalente, mentre in effetti: - non esiste alcun premio né vincita equivalente oppure qualsiasi azione volta a reclamare il premio o altra vincita equivalente è subordinata al versamento di denaro al sostenimento di costi da parte del consumatore”182. Al di là, comunque della qualifica di aggressive o ingannevole, è evidente che tali condotte contrastano con i principi di cui alla clausola generale e, per questo, devono ritenersi sleali, in ogni caso.
4.
LA SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI NEGLI STATI MEMBRI
L’obiettivo dell’armonizzazione completa imposto dal legislatore europeo ha consentito di avere all’interno degli Stati membri una disciplina delle pratiche commerciali sleali pressoché uniforme alle disposizioni contenute nella Direttiva, nonostante i dubbi sull’effettivo risultato, in ragione degli ampi spazi, di cui si è detto, lasciati dal legislatore europeo a quelli nazionali. Anche nelle legislazioni nazionali di recepimento e attuazione della disciplina delle pratiche commerciali sleali la struttura normativa resta quella c.d. “a piramide” con una clausola generale che definisce l’intera categoria e due norme generali di divieto relative a specifiche sottocategorie di pratiche commerciali, ovvero “ingannevoli” e “aggressive”. Per quanto concerne le pratiche commerciali in ogni caso vietate in quanto a priori ingannevoli o aggressive, alcune legislazioni, come quelle inglese, hanno ripreso il modello dato dal diritto europeo di prevederle in un elenco allegato alla disciplina Sul punto, HOWELLS definisce le pratiche di cui alla black list come “sketchy and not wholly consistent with any teorie that might be contingently derived from the legislative texts. As we have seen the preparatory texts were also not very enlightening about the core idea underpinning the “aggressive practices” concept or how that should be concretised ” in HOWELLS, Aggressive Commercial Practices, in HOWELLS, MICKLITZ, WILHELMSSON (a cura di), European fair trading law: the unfair commercial practices directive, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, p. 169. 182
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generale, altre legislazioni hanno, invece, trasportato tali fattispecie all’interno della stessa disciplina, nelle disposizioni relative alle pratiche commerciali ingannevoli e aggressive come avvenuto in Italia. Si tratta, tuttavia, di differenze soltanto formali che non hanno un impatto sull’essenza della disciplina che può, per questo, considerarsi uniforme a livello di legislazioni nazionali. Del resto, come già sopra rilevato, il testo della Direttiva era già su molti punti un compromesso tra le varie istanze nazionale, in grado di contemperare le differenze storico-giuridiche degli Stati membri e, in particolare, le note contrapposizioni tra civil law e common law183. Al di là delle conseguenze giuridiche in caso di violazione del divieto generale, che in ragione delle facoltà concesse ai legislatori nazionali, possono essere di tipo penale, piuttosto che amministrative o civili, per quanto si dirà in appresso, dal punto di vista sostanziale della disciplina, non si riscontrano, infatti, particolari differenze con quanto stabilito a livello europeo.
4.1.
LA SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI IN ITALIA
Come previsto dalla Direttiva, anche in Italia, non sono previsti a carico del professionista obblighi di contenuto positivo, limitandosi, per contro, il legislatore a stabilire un generale divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette184, come vengono definite dal legislatore italiano (art. 20, comma 1, Codice del Consumo).
Secondo MOCCIA, in realtà, i rapporti civil law-common law dovrebbero essere intesi non (più) solo in termini di contrapposizione, ma anche di “distinzione inclusiva”, in Comparazione giuridica, diritto e giurista europeo: un punto di vista globale, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2011, fasc. 3, pp. 767 e ss. “In questo senso, la stessa contrapposizione civil law-common law cessa di essere solo e soprattutto la linea di confine tra culture antagoniste geograficamente collocate o collocabili, per essere – se così posso dire – interiorizzata come componente dialettica di ogni esperienza giuridica, all’interno della quale – cioè – vive sia l’anima di civil law, sia l’anima di common law. In altri termini, la dicotomia civil law-commin law, se va letta a livello epistemologico in termini di frattura verificatasi nella storia più che nella geografia del mondo occidentale, nondimeno essa reca con sé un livello pure e soprattutto assiologico, che investe sempre e propriamente, in ogni esperienza giuridica, la figura e il ruolo dei giuristi e il loro modo di intendere il diritto”, L’educazione alla comparazione, in TREGGIARI (a cura di), Per Alessandro Giuliani, Perugia, 1999, p. 92. 184 Tale circostanza non esclude che alla base del divieto generale vi sia un precetto di contenuto positivo quale l’agire leale, come rilevato da RADEIDEH, Fair Trading in EC Law. Information and Consumenr Choice in the Internal Market, Groningen, 2005, p. 259. 183
99
Un divieto, quindi, che trova anche in Italia applicazione a tutte le condotte poste in essere da professionisti in relazione alla promozione, alla vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori o a microimprese, “prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto”. Non sono, però, chiare, come già rappresentato, le ragioni per cui il legislatore italiano abbia optato per l’aggettivo “scorrette”, piuttosto che quello “sleali” utilizzato dal legislatore europeo. La soluzione più accreditata è che tale aggettivo sia stato scelto per non interferire con la disciplina della concorrenza sleale di cui agli artt. 2598 e ss. cod. civ.185, anche se si ritiene possa escludersi che il ricorso all’uno piuttosto che all’altro aggettivo possa comportare ripercussioni o conseguenze di qualsivoglia rilievo, sia ai fini della ricostruzione della nuova disciplina, sia ai fini dell’interpretazione delle disposizioni che la compongono. In quest’ottica, quindi, la slealtà esprimerebbe l’attitudine di una condotta del professionista a ledere in via diretta gli interessi economici di altri professionisti concorrenti, che rende illecito l’atto di concorrenza ai sensi dell’art. 2598 e ss. cod. civ., mentre, per contro, la scorrettezza esprimerebbe l’attitudine di una condotta del professionista a ledere in via diretta gli interessi economici dei consumatori (e ora anche delle microimprese), che rende illecita la pratica commerciale ai sensi dell’art. 20 del Codice del Consumo, con le conseguenze di cui all’art. 27 del Codice del Consumo. Sicuramente rilevante è, però, il fatto che la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette non è stata recepita singolarmente all’interno dell’ordinamento italiano, ma è stata inserita dal legislatore nel Codice del Consumo, dove è contenuta l’intera disciplina normativa a tutela dei consumatori. Ciò ha portato a dover innanzitutto valutare il rapporto fra la scorrettezza di cui all’art. 20, comma 1 con i “principi di buona fede, correttezza e lealtà” al cui rispetto sono improntate tutte le attività commerciali ai sensi dell’art. 39 dello stesso Codice
BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e le modifiche al codice del consumo, in Rass.dir.civ., 2008, p. 274. 185
100
del Consumo, anche in ragione del fatto che nell’elenco dei diritti riconosciuti ai consumatori e agli utenti è stato appositamente inserito quello “all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà” (art. 2, comma 2, lettera c-bis, introdotta dall’art. 2 del d.lgs. 23 ottobre 2007 n. 221). Non paiono sussistere dubbi sul fatto che i principi di buona fede, correttezza e lealtà richiamati nell’art. 2, comma 2, lettera c-bis che devono contraddistinguere le pratiche commerciali siano gli stessi a cui si fa riferimento all’art. 39 del Codice del Consumo. Ciò trova conferma nel fatto che nella Relazione illustrativa del Codice del Consumo, era stato previsto che l’art. 39 avrebbe introdotto “regole generali nelle attività commerciali, conformi ai principi generali di diritto comunitario in tema di pratiche commerciali sleali”, mentre nella Relazione illustrativa del d.lgs n. 221/2007, che ha introdotto nel Codice del Consumo l’art. 2, comma 2, lettera c-bis, era stato specificato che la medesima avrebbe contenuto “una disposizione di richiamo ai principi di correttezza, lealtà e buona fede, conformemente con quanto previsto dalla direttiva 2005/29/Ce in materia di pratiche commerciali sleali recepita con il decreto n. 146/2007”, che confermano, quindi, la stretta connessione tra la disciplina europea e le disposizioni un questione. Al riguardo, deve condividersi l’opinione di chi ritiene che i principi di buona fede, di correttezza e di lealtà espressamente menzionati nelle disposizioni in questione rappresentino tre sinonimi186. Ne consegue che la locuzione pratiche commerciali di cui all’art. 2, comma 2, lettera c-bis deve essere intesa nell’accezione generale di cui all’art. 18, lettera d), del Codice del Consumo e altrettanto deve dirsi per la locuzione di cui all’art. 39 del Codice del Consumo, nonostante nella medesima si faccia riferimento ad “attività”, anziché a “pratiche”187. È, infatti, pacifico che non è possibile limitare la portata applicativa
BARENGHI, Art. 39, in CUFFARO (a cura di), Codice del Consumo, Milano, 2006, p. 182 (secondo il quale la lealtà è già ricompresa nella buona fede e nella correttezza); GENTILI, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in Contratti, 2006, p. 161, nt. 30 (secondo cui non va dato troppo rilievo alla distinzione tra buona fede e lealtà); MINERVINI, Codice del consumo e direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in MINERVINI – ROSSI CARLEO (a cura di), Le pratiche commerciali sleali, Milano, 2007, p. 80. 187 DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 128. 186
101
dell’art. 39 del Codice del Consumo alle sole attività rientranti nel fenomeno del credito al consumo188. Fermi i rilievi di cui sopra, anche l’accertamento della scorrettezza di una pratica commerciale nell’ambito dell’ordinamento italiano è coerente con quello previsto a livello europeo, con la previsione di una clausola generale, contenente i principi generali e delle sottocategorie di pratiche commerciali ingannevoli, azioni ed omissioni (artt. 21 e 22 del Codice del Consumo), e di pratiche commerciali aggressive (artt. 24 e 25 del Codice del Consumo). A differenza della struttura della Direttiva, il legislatore italiano ha, però, optato di inserire le pratiche considerate in ogni caso scorrette direttamente all’interno delle disposizioni che regolano le rispettive categorie ovvero quelle ingannevoli e aggressive e non in un allegato a parte. Rispettando l’impostazione data dal legislatore europeo, anche in Italia la disciplina delle pratiche commerciali scorrette è stata attuata facendo ampio ricorso alla tecnica legislativa per clausole generali (correttezza, diligenza, buona fede, ragionevolezza, solo per fare qualche esempio) e a formulazioni che lasciano ampio margine di discrezionalità all’interprete chiamato ad applicarle (se pensi alla clausola “ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole”). Da questo punto di vista, si è ritenuto il Codice del Consumo un ulteriore passo in avanti per la legislazione “per principi ” che sin dagli anni Sessanta del secolo scorso è stata ritenuta la naturale evoluzione dei sistemi giuridici di civil law189; la generalità di una clausola viene, infatti, considerata come un aspetto positivo190. I parametri di valutazione della scorrettezza di una pratica, al di là di qualche modifica testuale, di scarso significato, restano i medesimi previsti nella Direttiva, ad eccezione dell’estensione dell’applicabilità della disciplina ai rapporti tra professionisti e microimprese, e rendono pienamente conforme la disciplina italiana al modello indicato dal legislatore europeo. Infatti, il procedimento che l’interprete MEOLI – EGIZIANO, Art. 39, in STANZIONE – SCIANCALEPORE (a cura di), Commentario al codice del consumo, Milano, 2006, p. 322. 189 RODOTÀ, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, Napoli, 2007 (ristampa), p. 43. 190 CALABRESI, A Common Law for the Age of Statutes, Cambridge (Mass.), 1982, pp. 20 e ss. 188
102
dovrà seguire per valutare se una determinata pratica commerciale è da ritenersi scorretta, e quindi vietata, sarà il medesimo previsto dal legislatore europeo. Una riproduzione così pedissequa, del resto, che, come visto, ha, però, portato il legislatore italiano a non avvalersi sostanzialmente di alcuna delle facoltà ad esso concesso dalla Direttiva, lasciando, in certe parti monca la disciplina. Al contempo è stato attribuito, di fatto, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il ruolo di assicurare l’effettiva applicazione della disciplina. Per fare ciò, il legislatore italiano ha ritenuto opportuno incrementare le competenze dell’Autorità anche alle pratiche commerciali e non solo alla pubblicità ingannevole e comparativa, già rientranti nel proprio ambito, attribuendo altresì alla stessa, oltre il potere di indagine, anche l’irrogazione delle sanzioni amministrative ai carico dei professionisti “scorretti”191. L’Autorità ha così attualmente il potere (i) di disporre con provvedimento motivato la sospensione provvisoria della pratica commerciale scorretta, (ii) richiedere informazioni non solo al professionista, ma anche al soggetto che ha diffuso la pratica commerciale, nonché a ogni altro soggetto che possa avere informazioni o documenti rilevanti, (iii) disporre ispezioni al fine di controllare i documenti aziendali e acquisirne copia, (iv) disporre la realizzazione di perizie e analisi economiche e statistiche, nonché la consultazione di esperti in merito a qualsiasi elemento potenzialmente rilevante e, in caso, di mancata ottemperanza da parte del professionista a quanto disposto dall’Autorità, quest’ultima potrà erogare sanzioni da Euro 2.000,00 a Euro 20.000,00, mentre se le informazioni o la documentazione fornite risultino non veritiere le sanzioni aumentano da Euro 4.000,00 a Euro 40.000,00. Tali poteri, investigativi e esecutivi, si estendono, per quanto garantito dal Regolamento
2006/2004/Ce,
sulla
cooperazione
tra
le
autorità
nazionali
responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori, anche all’accertamento di infrazioni intracomunitarie.
“Ogni soggetto o organizzazione” che vi abbia interesse può, infatti, richiedere all’Autorità garante della concorrenza e del mercato di accertare la pretesa scorrettezza di una pratica commerciale posta in essere da un professionista. L’intervento dell’Autorità, che potrà al riguardo avvalersi dell’ausilio della Guardia di Finanza, è indipendente dal fatto che i soggetti pregiudicati dalla pratica commerciale si trovino nel territorio dello Stato membro in cui è stabilito il professionista o in un altro Stato membro. 191
103
Se a seguito delle indagini istruttorie, l’Autorità dovesse accertare l’effettiva scorrettezza della pratica commerciale posta in essere dal professionista, allo stesso sarà applicata una sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 5.000,00 a Euro 50.000,00, tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Nel caso di pratiche commerciali scorrette che riguardano prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, nonché quelle che sono suscettibili di raggiungerne bambini e adolescenti e possano minacciarne, anche indirettamente la sicurezza (art. 21, commi 3 e 4 del Codice del Consumo), la sanzione non potrà essere inferiore a Euro 50.000,00192.
4.2.
LA SLEALTÀ DELLE PRATICHE COMMERCIALI IN INGHILTERRA
Attraverso la Direttiva, il legislatore europeo ha inteso tutelare la libertà di scelta del consumatore, ricorrendo a una normativa caratterizzata da clausole generali e definizioni, che mal si concilia con la prassi inglese di redigere atti normativi particolarmente dettagliati, come avvenuto, ad esempio con il Trade Description Act del 1968. La preferenza per una disciplina particolarmente dettagliata rispetto a definizioni ampie di scorrettezza riflette, come visto, il rapporto tra il legislatore e le Corti inglesi,
nonché
la
volontà
di
limitare
la
discrezionalità
dei
giudici
nell’interpretazione di tali norme. Nonostante ciò, anche in Inghilterra, al fine di garantire un’armonizzazione completa delle legislazione degli Stati membri della disciplina delle pratiche commerciali sleali, è stata seguita l’impostazione data dal legislatore europeo del ricorso alla clausole generali.
Nella fase dell’accertamento della scorrettezza della pratica, al fine di evitare l’applicazione delle sanzioni, ad eccezione dei casi di manifesta scorrettezza e di gravità della pratica commerciale, il professionista responsabile potrà comunque proporre all’Autorità degli impegni formali a porre fine all’infrazione, cessando la diffusione della stessa o modificandola così da eliminare i possibili profili di illegittimità. Nel caso in cui tali impegni siano accettati da parte della stessa Autorità e siano poi stati violati dal professionista, lo stesso è passibile di sanzioni da Euro 50.000,00 a Euro 150.000,00, e in caso di reiterazione può essere disposta la sospensione dell’attività di impresa. 192
104
L’introduzione nel diritto inglese di una normativa basata su clausole generali rappresenta senza dubbio una novità, proprio, come detto, in ragione di quella tradizionale diffidenza degli ordinamenti di common law verso il ricorso a tale tecnica legislativa, specialmente in tema di rapporti economici. Del resto, era stato proprio tale atteggiamento a far fallire, ancora negli anni Settanta, i primi tentativi di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri nell’ambito della concorrenza sleale. In Inghilterra, infatti, come detto, il diritto è storicamente caratterizzato da casi giurisprudenziali e solo in via secondaria da norme scritte. Non si rinviene nell’ordinamento inglese una clausola generale che fissi principi e regole a carico dei professionisti nei rapporti con i propri concorrenti, ma il determinarsi di tali obblighi è lasciato sostanzialmente agli usi correnti e alle decisioni delle Corte. Ciò significa che il concetto di fairness in Inghilterra è ancora oggi legato all’autodisciplina. In tale ordinamento ha trovato, infatti, ampio consenso la teoria della c.d. Corporate Social Responsability, secondo la quale tra i professionisti vi sarebbe in atto una competizione virtuosa per la reputazione dell’impresa che si realizzerebbe attraverso codici di condotta, aziendali e collettivi, in cui il ruolo del legislatore dovrebbe essere limitato a consolidare tale fenomeno193. Nonostante la cennata diffidenza, l’ampio dibattito dottrinale in tema di clausole generali ha, comunque, portato alla conclusione della praticabilità anche nel diritto inglese di una clausola generale di protezione dei consumatori194, anche se, ancora oggi, molti autori inglesi percepiscono la clausola generale di diligenza professionale come fonte di incertezza195, cui solo l’autodisciplina può porre rimedio. In Inghilterra, infatti, si ritiene che i codici di condotta abbiano un ruolo Si vedano sull’argomento, in particolare, i saggi raccolti in Guida critica alla Responsabilità sociale e al governo dell’impresa, a cura di SACCONI, Bancaria, Milano, 2005. Critiche contro tale filone di pensiero sono espresse da ZAMAGNI, La critica alle critiche alla CSR e il suo ancoraggio etico, in Guida critica, Bancaria, Milano, 2005, pp. 319 e ss. 194 Cfr. il Report redatto per il Department of Trade and Industry da BRADGATE, BROWNSWORD, TWIGGFLESNER, The impact of adopting a duty to trade fairly, 2003, reperibile sotto www.dti.gov.uk/files/file32101pdf. 195 Si veda, ad esempio, COLLINS, Ec Regulation of Unfair Commercial Practices, in COLLINS (a cura di), The forthcoming EC Directive on Unfair Commercial practices, The Hague-London, 2004, p. 26-27; TWIGGFLESNER, PARRY, HOWELLS, NORDHAUSEN, An Analysis of the Application and Scope of the Unfair Commercial Practices Directive. A Report for the Department of Trade and Industry, 2005, www.dti.gov.uk/files/file32095.pdf; HOWELLS, Codes of Conduct, in HOWELLS, MICKLITZ, WILHELMSSON (a cura di), European Fair Trading Law, Ashgate, Aldershot (UK), 2006, pp. 209 e ss.; 193
105
importante, se non addirittura decisivo nella concretizzazione delle clausole generali in questo campo196. Anche la disciplina inglese delle pratiche commerciali sleali parte dal presupposto che un mercato sia efficiente quanto più elevato è il grado di informazione di cui il consumatore può disporre: “the informed consumer stands on the common ground between the goal of competition policy – the maintenance o fan efficient, innovative, competitive economy, and the goal of consumer law – confident consumer operating free from reception or ignorance concerning the material features of product and services and the term of supply”197. Il fulcro della disciplina è contenuto nell’art. 3, comma 1, delle CPUTR, ovvero la clausola generale che prevede il divieto generale di pratiche commerciali sleali nei confronti dei consumatori (Consumers) e rispetta la struttura data dal legislatore europeo che ritiene sleali le pratiche commerciali poste in essere da un professionista (Trader) che: a)
non rispettino il requisito della diligenza professionale;
Già dal 1986, con il Report del Fair Trading Office, A General Duty to Trade Fairly, in Inghilterra si aprì un dibattito mai chiuso sul ruolo dei codici di condotta nell’ambito della concorrenza sleale. La disciplina sulle pratiche commerciali sleali non esclude il controllo che gli Stati membri possono incoraggiare sulle medesime attraverso i codici di condotta, ricorrendo ad apposite previsioni di autodisciplina. Le ragioni di tale scelta sono molteplici: in primo luogo, vi è da considerare la recente tendenza verso la “privatizzazione” delle attività di produzione normativa e di enforcement, secondo cui lasciare in tutto o in parte ai privati di definire le regole loro applicabili è sicuramente sinonimo di una maggiore rapidità, flessibilità e conoscenza dei fenomeni reali, riducendo così le distanze tra istituzioni europee e cittadini; in secondo luogo, il dettare disposizioni ad hoc per i codici di condotta è dovuto, senza dubbio, alle esperienze di autodisciplina avute in alcuni degli Stati membri, in particolare in materie affini a quella delle pratiche commerciali sleali, come la pubblicità ingannevole e dall’importanza pratica assunta dai codici di autodisciplina pubblicitaria. Peraltro, ciò è tanto più necessitato dal fatto che il ricorso all’autodisciplina è tipico, appunto, degli ordinamenti di common law, come quello inglese, che vedono ancora con molta diffidenza una legislazione che fa ricorso a clausole generali, quali la Direttiva, e l’autodisciplina il suo naturale rimedio. Anche in tale ambito, quindi, non può non rilevarsi che il risultato ottenuto dal legislatore europeo è di un compromesso che contemperasse le varie esigenze nazionali, tanto da ridimensionarne ampiamente il significato. Se da un lato, infatti, il legislatore europeo riconosce l’utilità dei codici di condotta nel dare ai professionisti una guida, così da ridurre il contenzioso, autorizzando gli Stati membri ad incoraggiare il controllare, dall’altro lato, non è però previsto che la violazione di norme di condotta auto-disciplinari rappresenti di per sé una pratica commerciale sleale. Ad essere vietato è, infatti, unicamente l’uso ingannevole dei codici, autorizzando gli Stati membri a prevedere la possibilità di azioni contro i responsabili di codici contra legem e il ricorso alle istanze dell’autodisciplina non esclude in via definitiva il ricorso all’Autorità. 196
197
www.oft.gov.uk
106
b)
influenzino siano idonee ad influenzare il comportamento economico del consumatore medio, con riferimento al prodotto specificamente offerto dal professionista e, quindi, inducano il consumatore a prendere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso. Tale decisione è definita dal legislatore inglese come transactional decision intesa come la scelta del consumatore relativamente al come e cosa acquistare, alle modalità di pagamento e alla possibilità di esercitare o meno i propri diritti contrattuali. Il c.d. test of material distorsion si caratterizza, quindi, come la distorsione della capacità del consumatore di operare una scelta consapevole ed informata.
La definizione di Commercial Practice198 conferma che, anche nell’ordinamento inglese, l’ambito di applicazione della disciplina è circoscritto alle condotte, attive o omissive, poste in essere da un soggetto che agisce in qualità di professionista199, con la conseguenza che laddove l’agente non abbia tale qualifica, le relative azioni, anche illegittime, continueranno ad essere disciplinate dalle normative vigenti in materia di compravendita e fornitura di beni. Anche la definizione di “consumatore medio”, il c.d. avarage consumer200, non si discosta dalla nozione europea basata sulle pronunce della Corte di Giustizia201, anche se la medesima non era del tutto estranea al diritto inglese, dal momento che era già presente nel Trade Description Act del 1968 per determinare la sussistenza di una falsa rappresentazione e la conseguente azionabilità di un diritto. La letteratura e giurisprudenza inglese è, quindi, ancora oggi uniformemente orientata a considerare il consumatore come una persona fisica, ovvero natural person.
“any act, omission, course of conduct, representation, or commercial communication by a trader, which is directly connected with the promotion, sale or supplì of a product to or from a consumer, chete occuring before, during or after a commercial transaction in relation to a product” (art. 2). 199 GRIFFITHS, Unfair Commercial Practices – A new regime, in Communication Law, 12[6], 196-204, 2007. 200 A seguito delle consultazioni avvenute tra il maggio 2007 e il termine ultimo previsto per il recepimento della disciplina del 21 agosto 2007, il termine avarage consumer ha sostituito quello presente nella prima stesura di typical consumer. 201 Per una rassegna sulle definizioni di consumatore provenienti da fonti internazionali e europee si veda ALPA – ANDENANS, Fondamenti del diritto privato europeo, Milano, 2005, pp. 282 e ss. 198
107
Le associazioni di categoria degli imprenditori inglesi hanno rappresentato, però, l’esigenza che l’interprete tenga in debita considerazione la differenza tra average consumer e vulnerable consumer, così come previsto dalla Direttiva, che prevede che l’effetto della pratica commerciale su un soggetto vulnerabile deve essere considerato solo se la medesima è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico solo di un gruppo di consumatori chiaramente individuabili, particolarmente vulnerabili alla pratica o al prodotto cui essa si riferisce. Una nozione nuova per il diritto inglese è, invece, quella di invito all’acquisto, invitation to purchase, intesa come la comunicazione, inclusa la pubblicità, attraverso la quale il professionista fornisce al consumatore dettagli sulle caratteristiche del prodotto o sul prezzo, esortando così il consumatore all’acquisto del prodotto. Prima dell’attuazione della disciplina sulle pratiche commerciali sleali, in Inghilterra si conosceva soltanto l’invitation to treat, ovvero l’invito a contrarre che non presupponeva necessariamente l’indicazione del prezzo, ma soltanto la volontà del professionista a instaurare un rapporto con il consumatore al fine di vendere i propri prodotti. Oltre alla clausola generale, di cui all’art. 3, in cui è contenuto il divieto generale di unfair commercial practices, sono presenti anche nella disciplina inglese le fattispecie specifiche di pratiche commerciali sleali (Misleading Actions and Misleadings Omissions) e aggressive (Aggressive Practices) a cui si aggiunge, a parte, sul modello della legislazione europea, un apposito Allegato 1, un elenco di pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali e, pertanto, vietate (Banned Practices). L’elenco proposto ricalca pedissequamente la black list di cui alla Direttiva. Anche le nozioni di Misleadind Practices e di Aggessive Practices non si discostano da quelle dettate dal legislatore europeo. In particolare, rispetto alle Misleading Actions, l’art. 5 delle Consumer Protection from Unfair Trading Regulations specifica che ve ne sono di tre tipologie, ovvero: a)
le informazioni ingannevoli in generale;
b)
le informazioni che creano confusione con i prodotti concorrenti; 108
c)
il mancato rispetto di impegni precisi e verificabili, presi con la sottoscrizione di un codice di condotta.
Per quanto riguarda il primo gruppo, quello delle informazioni ingannevoli in generale, si deve precisare che le medesime: -
contengono false informazioni o inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore medio, anche nel caso in cui le informazioni siano vere (in quest’ultimo caso, l’ingannevolezza risiede nella forma con cui è complessivamente presentata al consumatore una data informazione);
-
l’informazione erronea, o ingannevole, si riferisce a una o più parti dell’informazione resa dal professionista e verte su elementi essenziali per la scelta del consumatore, come le caratteristiche del prodotto;
-
il consumatore prende o è in procinto di prendere una decisione che non avrebbe altrimenti preso.
Il secondo gruppo di pratiche commerciali ingannevoli si riferisce, invece, alle ipotesi in cui il professionista crei confusione con i prodotti, i marchi, e in genere tutti i segni distintivi che contraddistinguono i prodotti di un professionista concorrente e che tale confusione è potenzialmente idonea a indurre il consumatore a prendere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso. Ciò si verifica, ad esempio, nel caso si utilizzino nomi o marchi simili per la medesima tipologia di prodotti. Innovativa per il diritto inglese è senza dubbio, invece, la nozione di omissioni ingannevoli che considera sleale “una pratica che nella fattispecie concreta […] ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale”. L’art. 6 delle Consumer Protection from Unfair
Trading
Regulations
prevede
che
una
pratica
commerciale
integri
un’omissione ingannevole se, in concreto: a)
omette alcune di informazioni essenziali;
b)
nasconda alcune informazioni rilevanti per una scelta consapevole da parte del consumatore; 109
c)
rende determinate informazioni in maniera non chiara, incomprensibile o ambigua;
d)
non identifica il suo intento commerciale;
e di conseguenza induce il consumatore medio a prendere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso202. Così facendo, il legislatore europeo ha introdotto un dovere di informazione a carico del professionista che non era presente nel diritto inglese, dal momento che il Trade Descriprion Act considerava ingannevoli, oltre alle ipotesi in cui il professionista mentisse totalmente al consumatore, le sole ipotesi in cui l’informazione offerta, seppur veritiera, fosse incompleta203. I parametri per la valutazione di tale slealtà, come detto, sono quindi i medesimi individuati dal legislatore europeo nella Direttiva, rispetto ai quali non v’è stata da parte del legislatore inglese alcun discostamento. Nell’ambito dell’ordinamento inglese, salve limitate eccezioni, il porre in essere da parte di un professionista una pratica commerciale sleale rappresenta un reato, ovvero un’offesa di rilievo penale. La previsione di un reato in caso di condotta sleale da parte del professionista lascia intendere
come
la
correttezza
professionale
rappresenti
un
elemento
imprescindibile per chi opera sul mercato e una sua violazione non è in alcun modo consentita, dal momento che è in grado di compromettere non solo gli interessi dei consumatori, ma l’intero funzionamento del mercato.
202
“A commercial practice is a misleading omission if, in its factual context, taking account of the matters in paragraph (2)— (a) the commercial practice omits material information, (b) the commercial practice hides material information, (c) the commercial practice provides material information in a manner which is unclear, unintelligible, ambiguous or untimely, or (d) the commercial practice fails to identify its commercial intent, unless this is already apparent from the context, and as a result it causes or is likely to cause the average consumer to take a transactional decision he would not have taken otherwise”. 203 RAMSAY, Consumer Law and Policy: Text and Materials on Regulating Consumer Markets, OxfordPortland, 2007.
110
5.
LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL DIVIETO DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI NEGLI STATI MEMBRI
Fermo il divieto generale di porre in essere per i professionisti che operano nel mercato interno pratiche commerciali sleali, il legislatore europeo non ha, però, in alcun modo affrontato la questione delle conseguenze privatistiche della violazione del divieto di pratiche commerciali sleali, ovvero del rapporto fra pratiche commerciali
sleali
e
responsabilità
civile
(precontrattuale,
contrattuale
e
extracontrattuale), i cui rimedi sono rimessi interamente alla discrezionalità ed autonomia delle legislazioni nazionali. Tale autonomia e discrezionalità ha portato, quindi, in sede di recepimento e attuazione della Direttiva a livello nazionale, a soluzioni tra loro differenti, compromettendo in parte l’obiettivo prefissato di un’armonizzazione completa della disciplina. Quindi, se da un punto di vista sostanziale la disciplina delle pratiche commerciali sleali è pressoché armonizzata a livello di legislazioni nazionali, le differenze sussistono per le conseguenze giuridiche del divieto. Ciò è essenzialmente dovuto al fatto che l’art. 3, § 2, prevede che le disposizioni della Direttiva “non pregiudicano l’applicazione del diritto contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità e efficacia di un contratto”, escludendo quindi un’incidenza diretta di tale divieto sul diritto nazionale dei contratti dei consumatori. Tale disposizione potrebbe essere letta come la volontà del legislatore europeo, al 2005, di non interferire con i lavori, ancora in corso, di elaborazione del diritto europeo dei contratti204. La conseguenza di ciò è, però, che la Direttiva non ha imposto agli Stati membri di apportare modifiche alle rispettive discipline in materia di contratti, così che per il legislatore europeo il porre in essere da parte di un professionista di una pratica commerciale sleale non determina una nullità o annullabilità del contratto. WHITTAKER, The Relationship of the Unfair Commercial Practices Directive to European and National Contract Laws, in WEATHERILL BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techiniques, Hart, 2007. 204
111
Di fatto, quindi, gli Stati europei sono liberi di ritenere valido o meno un contratto la cui conclusione sia stata preceduta o determinata da una violazione dell’art. 5, § 1, della Direttiva, ma sicuramente non è il legislatore europeo ad imporlo. Le soluzioni offerte dai legislatori nazionali sul punto non sono, pertanto, univoche e lasciano intravedere differenze anche radicali nel recepimento della disciplina che dimostrano che l’obiettivo dell’armonizzazione completa in realtà è stato, come già anticipato, per questo, in parte potenzialmente disatteso. Le principali soluzioni adottate sono state le seguenti: a)
i legislatori di Paesi come Italia, Romania205 e Malta206 hanno sostanzialmente riproposto la disposizione della Direttiva con cui si statuisce che le disposizioni in materia di pratiche commerciali sleali non “pregiudicano” la normativa vigente in materia di contratto e, in particolare quelle relative alla formazione, validità ed effetti del contratto;
b)
i legislatori di Paesi come Inghilterra, Irlanda207 e Estonia208 hanno espressamente escluso che la violazione del divieto di pratiche commerciali sleali possa ex se portare all’invalidità del contratto concluso tra professionista e consumatore;
“Prezenta lege nu aduce atingere: a) dispoziţiilor legale ce reglementează contractele şi, în special, prevederilor referitoare la validitatea, întocmirea sau efectele contractelor; b) dispoziţiilor comunitare sau naţionale privind aspectele de sănătate şi securitate a produselor; c) dispoziţiilor legale ce stabilesc competenţa instanţelor de judecată; d) condiţiilor de intrare într-o profesie sau de obţinere a autorizaţiei pentru desfăşurarea acesteia, codurilor deontologice sau altor dispoziţii legale specifice ce guvernează profesiunile, în scopul menţinerii unui înalt nivel de probitate al acestora; e) dispoziţiilor referitoare la serviciile financiare, astfel cum sunt definite în Ordonanţa Guvernului nr. 85/2004 privind protecţia consumatorilor la încheierea şi executarea contractelor la distanţă privind serviciile financiare, aprobată prin Legea nr. 399/2004, şi nici dispoziţiilor referitoare la bunurile imobile, în cazul în care aceste dispoziţii sunt mai restrictive sau mai riguroase decât cele din prezenta lege” (art. 3, comma 2, legge n. 363 del 21 dicembre 2007 di recepimento della direttiva sulle pratiche commerciali sleali). 205
“The provisions of this Title shall be without prejudice to any prevision under the laws of Malta regulating contract, in particolar those governing the validity, formation or effect thereof” (art. 51l, let. a), della legge generale sulla tutela dei consumatori (Consumer Affairs Act del 23 gennaio 1996), introdotto con la legge n. 2 del 29 gennaio 2008). 207 La Section 91 (Saving for certain Contract) del Consumer Protection Act 2007 dispone che “a contract for the supplì of any goods or the provision of any services shall not be avoid or unenforceable by reason only of a contravention of any provision of this Act”. 208 Il § 12, comma 2, della legge generale estone sulla tutela del consumatore dell’11 febbraio 2004, così come modificata dalla legge dell’11 ottobre 2007 di recepimento della Direttiva 2005/29/Ce. 206
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c)
nelle legislazioni di Austria, Grecia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia la questione non è stata affrontata in alcun modo, evitando anche di riprodurre la formulazione di cui alla Direttiva;
d)
in Francia e Portogallo, seppure con soluzioni differenti tra loro, è stata prevista la possibilità che un contratto possa essere dichiarato inefficace a causa della condotta sleale del professionista. In particolare, il Code de la consommation francese prevede che il contratto concluso attraverso una pratica commerciale aggressiva è nullo e privo di effetti (art. L 122-15209); quindi le sole pratiche commerciali aggressive incidono sulla validità del contratto, ma non anche quelle ingannevoli. In Portogallo, invece, nel caso di conclusione di un contratto “sotto l’influenza” di una pratica commerciale sleale (“Os contratos celebrados sob a influência de alguma prática comercial”), il consumatore potrà richiedere l’annullamento del contratto, modificare il contratto secondo un giudizio di equità o l’eliminazione delle sole clausole inserite a causa della pratica sleale del professionista210;
e)
soluzione unica è stata data dal legislatore belga che ha previsto che in caso di violazione del divieto di pratiche commerciali sleali, il contratto oneroso tra professionista e consumatore si convertirebbe ex lege in contratto gratuito (art. 94/14 della Loi sur le pratiques du commerce et sur l’information et la protection di consommateur211).
L’articolo in questione prevede che “Lorsqu’une pratique commerciale agressive aboutit à la conclusion d’un cntrat, celui-ci est nul et de nul effet”. 210 L’art. 14 del Decreto-Lei n. 57 del 26 marzo 2008 prevede “Invalidade dos contratos: 1 — Os contratos celebrados sob a influência de alguma prática comercial desleal são anuláveis a pedido do consumidor, nos termos do artigo 287.º do Código Civil. 2 — Em vez da anulação, pode o consumidor requerer a modificação do contrato segundo juízos de equidade. 3 — Se a invalidade afectar apenas uma ou mais cláusulasdo contrato, pode o consumidor optar pela manutenção deste, reduzido ao seu conteúdo válido. 211 Il secondo comma dell’art.94/14 della legge 14 luglio 1991 prevede che «Lorsqu'un contrat a été conclu à la suite d'une pratique commerciale déloyale visée aux articles 94/8, 12°, 15° et 16° et 94/11, 1°, 2° et 7°, le consommateur peut, dans un délai raisonnable à partir du moment où il a eu connaissance ou aurait dû avoir connaissance de son existence, exiger le remboursement des sommes payées, sans restitution du produit livré ou du service fourni. Lorsqu'un contrat a été conclu à la suite d'une pratique commerciale déloyale visée aux articles 94/5 à 94/7, 94/8, 1° à 11°, 13° et 14°, 17° à 22°, 94/9 à 94/10 et 94/11, 3° à 6°, le juge peut, sans préjudice des sanctions de droit commun, ordonner le remboursement au consommateur des sommes qu'il a payées sans restitution par celui-ci du produit livré ou du service fourni» 209
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Sul punto, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in via pregiudiziale212 nell’ambito di una controversia sorta tra dei consumatori slovacchi e un istituto non bancario che concede crediti al consumo, in relazione a un contratto di credito, nel quale il tasso di interesse indicato era inferiore a quello realmente applicato. In particolare, la Corte di Giustizia era stata chiamata a pronunciarsi su due specifiche questioni: (i) se, nel caso in cui siano individuate in un contratto clausole abusive, la normativa europea consenta di ritenere il contratto nel suo complesso non vincolante per il consumatore, qualora ciò sia più favorevole a quest’ultimo e (ii) se l’inserimento in un contratto di un tasso d’interesse inferiore a quello reale possa considerarsi una pratica commerciale sleale. Il Tribunale di prima istanza slovacco ha, quindi, richiesto ai giudici europei di esaminare la condotta del professionista che inserisce contrattualmente un tasso di interesse inferiore a quello reale, in relazione sia alla normativa concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (direttiva 93/13/Cee del Consiglio, del 5 aprile 1993), sia alla normativa relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori del mercato interno. Relativamente al primo quesito, è stato rilevato che il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13/Cee è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative, sia il grado di informazione, inducendolo ad aderire alle condizioni predisposte preventivamente dal professionista senza un effettivo potere di incidere sul contenuto delle medesime213. In tale ambito, quindi, i giudizi nazionali che accertano il carattere abusivo delle clausole contrattuali, da un lato, devono trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale affinché il consumatore non sia vincolato da tali clausole, dall’altro, devono valutare se il contratto in questione possa rimanere efficace in assenza di dette clausole abusive. Sentenza del 15 marzo 2012 nella causa C-453/10 Perenicovà – Perenic vs. SOS financ. spol. S.r.o., curia.europa.eu. 213 Si veda al riguardo, anche la Sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre 2009 nella causa C40/08, Asturcom Telecomunicaciones, curia.europa.eu. 212
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In questo modo, il legislatore europeo ha inteso ripristinare l’equilibrio reale tra le parti, salvaguardando sempre, in linea di principio, la validità del contratto nel suo complesso. Peraltro, secondo i giudici europei, la posizione di una delle parti del contratto, nella fattispecie il consumatore, non può essere presa in considerazione quale criterio determinante per disciplinare la sorte del contratto. Di conseguenza, l’art. 6, § 1, della Direttiva deve essere interpretato nel senso che, nel valutare se un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore e contenente una o più clausole abusive possa continuare a sussistere in assenza di dette clausole, il giudice nazionale adito a risolvere la controversia non può fondarsi unicamente
sull’eventuale
vantaggio
per
una
delle
parti
derivante
dall’annullamento del contratto nel suo complesso. Ciononostante, la direttiva 93/13/Cee non osta a che uno Stato membro possa prevedere che un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore e contenente una o più clausole abusive sia nullo nel suo complesso qualora questo possa garantire una migliore tutela del consumatore. Relativamente al secondo quesito, i giudici europei hanno osservato come la Direttiva considera ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia per questo non veritiera, anche nella sua presentazione complessiva, e inganni o possa ingannare per questo il consumatore medio. Ne consegue che menzionare nel contratto un tasso di interesse inferiore a quello reale costituisce una falsa informazione quanto al costo complessivo del credito e quindi del prezzo, inducendo così il consumatore medio, anche solo potenzialmente, ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. L’accertamento della slealtà della pratica commerciale rappresenta, inoltre, uno degli elementi su cui il giudice competente può basare la sua valutazione sul carattere abusivo delle clausole di un contratto, in ragione della formulazione ampia dell’art. 4 della direttiva 93/13/Cee che ricomprende tra i criteri che permettono di svolgere la valutazione sulla abusività della clausola tutte le circostanze che accompagnano la conclusione del contratto, senza però che l’accertamento del carattere sleale di una pratica commerciale abbia incidenza diretta sulla validità del contratto medesimo. 115
Ne consegue che l’inserimento in un contratto di un tasso di interesse inferiore a quello reale è una condotta che rileva tanto ai fini dell’abusività della clausola in questione, quanto alla slealtà della pratica commerciale posta in essere, il cui accertamento può rappresentare uno degli elementi per verificare altresì l’abusività della clausola medesima. Stando, quindi, anche a quanto disposto dal considerando n. 9, gli Stati membri non sono obbligati a introdurre nuove norme rispetto a quelle già in vigore rispetto alla formazione, alla validità e l’efficacia del contratto, quali ad esempio le richieste di risarcimento del danno. Rispetto alle conseguenze del divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali da parte del professionista nei confronti dei consumatori, i legislatori nazionali sono stati lasciati liberi di decidere se e a quali condizioni la sola violazione di tale divieto possa far sorgere in capo ai singoli consumatori il diritto ad agire nei confronti dei professionisti. Ne consegue, quindi, che gli Stati membri, laddove lo ritenessero opportuno per tutelare gli interessi dei consumatori, potranno apportare alle proprie normative nazionali, anche privatistiche, innovazioni o integrazioni, essendo comunque su di loro gravante l’obbligo di predisporre “mezzi adeguati ed efficaci” per contrastare le pratiche commerciali sleali (art. 11, § 1), di prevedere l’irrogazione di sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive” nei confronti di chi viola tale divieto, adottando a tal fine “tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’applicazione” (art. 13)214. In alcuni Stati membri, tra i quali l’Irlanda215, l’Olanda216, la Grecia217 e il Portogallo218, infatti, la violazione da parte del professionista del divieto di pratiche Secondo GUERINONI, La direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Prime Note., in Contratti, 2007, p. 178, i legislatori nazionali in sede di attuazione della Direttiva 2005/29/Ce possono sancire la nullità relativa o l’annullabilità dei contratti stipulati a seguito di una pratica commerciale sleale, riconoscendo al consumatore il diritto al risarcimento del danno eventualmente subito. 215 “A consumer who is aggrieved by a prohibited act or practice shall have a right of action for relief by way of damages, including exemplary damages, against the following: (a) any trader who commits or engages in the prohibited act or practice; (b) if such trader is a body corporate, any director, manager, secretary or other officer of the trader, or a person who purported to act in any such capacity, who authorized or consented to the doing of the cat or the engaging in of the practice” (Consumer Protection Act 2007, Section 74 (Consumer’s right of action for damages), subsection (2)). In Irlanda, quindi, il consumatore può richiedere al professionista che ha posto in essere una pratica commercial sleale, anche il risarcimento di “danni esemplari”. 216 Il Codice civile olandese dispone: “1. Indien een vordering wordt ingesteld, of een verzoekschrift als bedoeld in artikel 305d lid 1 van Boek 3 wordt ingediend ingevolge de artikelen 193b tot en met 193i, rust op de handelaar de bewijslast ter zake van de materiële juistheid en volledigheid van de informatie die hij heeft verstrekt 214
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commerciali sleali fa sorgere in capo al consumatore il diritto al risarcimento del danno subito. In altri ordinamenti nazionali manca, invece, una disposizione specifica con cui si attribuisce al consumatore il diritto al risarcimento nel caso in cui subisca un danno dalla pratica commerciale sleale posta in essere da un professionista, ma tale diritto pare potersi desumere dal contesto in cui la disciplina delle pratiche commerciali sleali è stata recepita. Ciò accade, ad esempio, in Slovacchia, in cui la disciplina in questione è stata recepita all’interno della legge generale sulla tutela dei consumatori che prevede sempre in caso di violazione delle disposizioni a tutela di questi ultimi un diritto al risarcimento del danno subito219 e in Austria, dove la Direttiva è stata recepita, come visto, all’interno della più ampia disciplina della concorrenza sleale che riconosce al consumatore, nella sua qualità di attore all’interno del mercato, alla pari dei professionisti, il diritto al risarcimento del danno in caso di condotte sleali da parte del professionista. La maggior parte degli ordinamenti nazionali, come quello italiano, invece, non ha previsto conseguenze civilistiche in caso di violazione da parte del professionista del divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali. Seppure non vi siano disposizioni in tal senso, non può escludersi tuttavia che in tali ordinamenti il diritto al risarcimento del danno possa essere riconosciuto dalla giurisprudenza che si formerà in materia.
als dat passend lijkt, gelet op de omstandigheden van het geval en met inachtneming van de rechtmatige belangen van de handelaar en van elke andere partij bij de procedure. 2. Indien op grond van artikel 193b onrechtmatig door de handelaar is gehandeld, is hij voor de dientengevolge ontstane schade aansprakelijk, tenzij hij bewijst dat zulks noch aan zijn schuld is te wijten noch op andere grond voor zijn rekening komt” (Art. 193j del Burgerlijk Wetboek Boek 6). 217 L’art. 9θ, comma1, della legge sulla tutela dei consumatori del 1994 (inserito dalla legge n. 3587/2007) attribuisce sia ai singoli consumatori, sia alle associazioni dei consumatori il potere di adire il giudice per ottenere l’inibizione e il divieto, nonché il risarcimento del danno provocato da pratiche commerciali sleali. Sul punto vedi ALEXRANDRIDOU, The Harmonization of the Greek law with the Directive on Unfair Commercial Practices, in European Review of Contract Law, 2008, p. 174 e ss. 218 “O consumidor lesado por efeito de alcuma pràtica commercial desleal proibida nos termos do presente decretolei è ressarcido nos termos gerais” (art. 15 Responsabilidade civil del Decreto-Lei del 26 marzo 2008). 219 Il § 3 della legge slovacca del 9 maggio 2007 (legge generale sulla tutela dei consumatori, in cui è stata recepita la disciplina della pratiche commerciali sleali) prevede per il consumatore un diritto a una adeguata compensazione finanziaria in caso di danno subito a causa di qualsivoglia condotta lesiva posta in essere dal professionista.
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La scelta di non avvalersi delle facoltà accordate agli Stati membri dalla Direttiva, ha portato, in particolare, al fatto che la violazione del divieto di pratiche commerciali sleali non abbia nell’ordinamento italiano conseguenze dal punto di vista del diritto privato, ma sia esposta soltanto a possibili sanzioni amministrative, come previsto nella Direttiva, ed erogabili, come detto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Nel caso in cui la violazione assuma una dimensione collettiva e che incida sugli interessi di più consumatori, in ogni caso, le associazioni dei consumatori220 potranno comunque promuove dinnanzi al giudice ordinario, ai sensi dell’art. 140 del Codice del Consumo221, un provvedimento con cui si inibisca al professionista la continuazione della pratica commerciale scorretta e con cui vengano adottate le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi che la medesima ha prodotto222. Allo stesso tempo, le stesse associazioni dei consumatori potranno agire attraverso l’azione collettiva risarcitoria (la c.d. class action) dinnanzi al giudice ordinario “a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al tribunale l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori […] in conseguenza di pratiche commerciali scorrette ” (art. 140-bis del Codice del Consumo). In altri ordinamenti, come quello inglese, la mancata previsione di una disposizione che riconosca in capo al consumatore pretese risarcitorie è, in realtà, ostativa a qualsivoglia riconoscimento in tal senso, ma non per questo esclude la possibilità, come detto, di configurare tali fattispecie come illeciti penali, conformemente alla tradizionale disciplina inglese dei torts la cui origine è penale e la relativa sanzione è una pena. Come accade anche in Polonia, dove la Law on Prevention of Unfair Hanno legittimazione attiva a proporre siffatto tipo di azione soltanto le associazioni dei consumatori iscritte nell’elenco di cui all’art. 137 del Codice del Consumo. 221 Le associazioni dei consumatori possono richiedere al Tribunale civile ordinario: “a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate: c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (art. 140 del Codice del Consumo). 222 BARTOLOMUCCI, L’attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e le modifiche al codice del consumo, in Rass.dir. civ., 2008, p. 281. 220
118
Commercial Practices prevede, oltre la sospensione della pratica e il risarcimento del danno subito, anche possibili limitazioni alla libertà personale del professionista da tre mesi a cinque anni. Le differenze attuative della disciplina nei vari Stati membri sopra descritte hanno portato parte della dottrina europea ad esprimersi in termini critici su questa vera “porta d’accesso” al mantenimento di differenze fra le normative nazionali che è potenzialmente in grado di compromettere l’arduo obbiettivo di incoraggiare le transazioni
transfrontaliere
all’interno
del
mercato
unico
attraverso
una
semplificazione ed uniformazione del quadro normativo applicabile223 e che potrebbe rendere difficilmente conciliabile il tutto con l’obiettivo di una armonizzazione completa224.
AUGENHOFER, Ein Flickenteppich oder doch der groβe Wurf? Uberlegungen zur neuen RL uber unlautere Geschaftspraktiken, in ZfRV, 2006, p. 207; dello stesso parere HOWELLS, The Scope of European Consumer Law, in ERCL, 2005, p. 365. In senso parzialmente contrario si è espresso BROMMELMEYER, Der Binnenmarkt als Leitstern der Richtlinie uber unlautere Geschaftspraktiken, in Gewerblicher Rechtsschutz – und Urheberrecht, 2007, p. 299, per il quale la previsione del settimo considerando della Direttiva 2005/29/Ce che attribuisce agli Stati membri di poter derogare alla disciplina delle pratiche commerciali sleali, vietando pratiche commerciali per ragioni culturali, non è in grado di compromettere l’obiettivo dell’armonizzazione completa a cui il provvedimento si ispira, ma rappresenta esclusivamente una limitazione dell’ambito di operatività di tale armonizzazione; per cui nell’ambito del suo campo di applicazione, la disciplina europea sulle pratiche commerciali sleali è in realtà esaustiva e completa. 224 MICKLITZ, in HOWELLS, MICKLITZ E WILHELMSSON (a cura di), European Fair Trading Law. The Unfair Commercial Practices Directive, Aldershot, 2006, p. 218 e ss. 223
119
CAPITOLO III LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLE PRATICHE COMMERCIALI: PROFILI COMPARATISTICI E DIRITTO EUROPEO 1. LA
DILIGENZA PROFESSIONALE: UNA NOZIONE AMBIGUA
DILIGENZA NEL SISTEMA DI
LAW: L’ESPERIENZA
CIVIL LAW: L’ESPERIENZA
INGLESE
- 5. LA
- 2. LA
ITALIANA
DILIGENZA NELLA
- 4. LA
DILIGENZA PROFESSIONALE NEL
“STORIA” - 3. LA
DILIGENZA NEL SISTEMA DI
DIRITTO EUROPEO - 6. LA
COMMON
DILIGENZA
PROFESSIONALE NELLE LEGISLAZIONI DEGLI STATI MEMBRI: ESPERIENZE A CONFRONTO
* * * 1.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE: UNA NOZIONE AMBIGUA
Il legislatore europeo ha individuato nel rispetto delle norme “diligenza professionale” la modalità attraverso il quale poter garantire al mercato e, in particolare, ai consumatori condotte leali da parte dei professionisti. La diligenza professionale rappresenta, infatti, la nozione attorno alla quale ruota l’intera disciplina delle pratiche commerciali e viene definita come “il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori”, “rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio della buona fede nel settore di attività del professionista” (art. 2, lettera h) della Direttiva). L’ambiguità della locuzione “diligenza professionale” e della sua definizione contenuta nella Direttiva ha posto, però, gli interpreti europei e i legislatori nazionali dinnanzi a numerose problematiche interpretative, che sono poi confluite in sede di attuazione della disciplina nei singoli Stati membri. Ciò è dovuto principalmente alla disordinata commistione, in un unico contesto, di più nozioni complesse e generiche (“diligenza”, “buona fede”, “ragionevolezza”, “onestà”), la cui portata è molto ampia e i relativi significati non sono definiti in maniera specifica, ma anzi sono mutevoli in relazione alle diverse esperienze giuridiche nazionali, tanto più se accostati forzatamente all’interno di un’unica definizione225.
HENNING-BODEWING, Die Richtlinie 2005/29/EG über unlautere Geschäftspraktiken, in Gewerblicher Rechtsschutz und Urheberrecht Internationaler Teil, 2005, quaderni 8/9, p. 631, citato da DE CRISTOFARO, Il 225
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La nozione di diligenza è intrinsecamente connessa con quella di correttezza, con la differenza, però, che la prima presuppone essere già stabilita l’estensione precisa di ciò che il debitore è tenuto a fare. A differenza della correttezza, infatti, la diligenza si profila come un criterio per valutare la conformità del comportamento del debitore a quello dovuto, come criterio alla stregua del quale poter apprezzare la violazione del limite individuato dalle norme sulla correttezza e, quindi, come un tipico criterio di responsabilità226. Il dovere di diligenza così delineato si riferisce, pertanto, al solo debitore, escludendo la reciprocità che, invece, caratterizza il dovere di correttezza. Inoltre, la diligenza sembra riferirsi alla sola attività strumentale richiesta al debitore ai fini dell’adempimento, mentre il dovere di correttezza riguarderebbe lo stesso contenuto del rapporto obbligatorio227. La diligenza è, infatti, un dovere personale di porre in essere tutti quei comportamenti che rendano possibile l’attuazione di tale dovere, una sorta di regola tecnica che si accosta al generale principio di buona fede a cui è, invece, dato il compito di strumento di integrazione del contenuto dell’obbligazione. È, così, possibile che una condotta sia scorretta dal punto di vista della concorrenza tra imprese, ma allo stesso tempo corretta nei confronti dei consumatori o viceversa sleale verso questi ultimi, ma corretta nei confronti degli altri professionisti concorrenti. Se, invece, la scorrettezza dovesse sussistere nei confronti sia dei concorrenti,
sia
dei
consumatori,
le
rispettive
tutele
si
applicheranno
congiuntamente, senza che i due binari si elidano a vicenda228. Il tutto dipenderà dai presupposti di applicazione della relativa disciplina a livello nazionale che, come visto, divergono. Ciò è del resto coerente con il fatto che la disciplina della concorrenza sleale è, come più volte ribadito, ancora disciplinata soltanto a livello divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, nt. 9, p. 148. 226 COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955, p. 124. 227 Ad avviso della dottrina prevalente il disposto dell’art. 1176 cod.civ. fornisce una regola volta a guidare la valutazione di legittimità del comportamento tenuto dal debitore, FRANZONI, Degli effetti del contratto – Volume II – Integrazione del contratto. Suoi effetti reali ed obbligatori. Artt. 1374 – 1381, in Commentario al codice civile diretto da SCHLESINGER, Milano, 1999, p. 185. 228 DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 134.
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di legislazione nazionale, con finalità, a volte anche diverse nei singoli Stati membri. In Germania229, Austria230 e in Spagna231, ad esempio, la disciplina generale della concorrenza sleale è espressamente finalizzata non solo i professionisti concorrenti, ma anche i consumatori, in quanto soggetti che partecipano al mercato. In tali ordinamenti, evidentemente, da un punto di vista della protezione della concorrenza, la condotta sleale nei confronti di un professionista rileverà anche nei confronti dei consumatori e viceversa, ma perché è lo stesso legislatore ad averlo previsto232. In tali ordinamenti, quindi, correttezza e diligenza si fondono di fatto dando vita ad un unico parametro di condotta, molto probabilmente quello stesso parametro unitario a cui aspira il legislatore europeo. Il concetto di correttezza è, comunque, ormai associato a quello di lealtà e di buona fede, tanto da avere acquisito tali concetti nel linguaggio giuridico significati pressoché identici, ed essere impiegati come un’endiadi233 e molto vicini alla nozione inglese di fairness234. Correttezza, lealtà e buona fede rappresenterebbero, infatti, articolazioni della più ampia nozione di “buona fede” in senso oggettivo, che conferma l’impossibilità di distinguere in maniera netta e precisa concetti così contigui e sovrapponibili, tanto più nell’ambito della tutela dei consumatori, dove vengono orami comunemente tra loro associati235. La Corte di Giustizia ha avuto modo di chiarire in passato che vi sia un generico collegamento tra fairness e tutela del consumatore: “gli ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti dalla disparità delle legislazioni nazionali relative al commercio Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb del 3 luglio 2004. Bundesgesetz gegen den unaluteren Wettbewerb del 1984. 231 Ley de Competencia Desleal n. 3 del 10 gennaio 1991. 232 Non può non notarsi come con l’occasione del recepimento della normativa sulle pratiche commerciali sleali, il legislatore italiano ben avrebbe potuto sottoporre l’intera materia della concorrenza sleale a una radicale riforma, attraverso l’emanazione di una normativa unica a tutela di concorrenti, consumatori e interessi del mercato, abbandonando il discutibile modello “binario” che separa nettamente gli interessi dei concorrenti da quelli dei consumatori, nonostante gli stessi siano insieme attori dello stesso mercato. 233 Cass., SS.UU., 15 novembre 2007, n. 23726, in Rivista diritto civile, 2008, II, pp. 335 e ss. con commenti di DE CRISTOFARO E DALLA MASSARA. Sulla identità sostanziale dei due concetti, si veda, anche VISENTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, pp. 83 e ss.; RICCI, Il criterio della ragionevolezza nel diritto privato, Padova, 2007. 234 ALPA – ANDENAS, Fondamenti del diritto privato europeo, Milano, 2005, p. 402. 235 DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 126. 229 230
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dei prodotti di cui trattasi vanno accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori”236. Negli anni si è così giunti a livello europeo alla definizione di un parametro di correttezza volto a promuovere un bilanciamento tra esigenze delle libertà di movimento e quelle di tutela del consumatore237, ricorrendo a un più ampio principio di proporzionalità, idoneo a far convergere lo standard di correttezza nazionale e quello europeo. I giudici europei hanno, infatti, avuto modo di chiarire che non sussiste correttezza nella condotta del professionista che non consenta al consumatore di acquisire una corretta percezione del servizio e/o del prodotto offerto238, tanto che il principio della correttezza professionale e della correttezza nei confronti dei consumatori vengono valutati alla luce del pregiudizio su un destinatario ragionevolmente avveduto e informato239.
Sentenza Corte di Giustizia del 20 settembre 1979, case 120/78 – Cassis de Dijon (Rewe-Zentral-AG vs. Bundesmonopolverwaltung fur Branntwein, in ECR, 1979, p. 649. Una diversa impostazione è stata, però, poi successivamente seguita dalla stessa Corte di Giustizia nella sentenza del 24 novembre 1993, Procedimenti penali contro Bernard Keck e Daniel Mithouard, Cause riunite C-267/91 e C-268/91, in Raccolta della giurisprudenza, 1993, in cui è stato affermato che “non può costituire ostacolo diretto o indiretto, in atto o in potenza, agli scambi commerciali tra gli Stati membri ai sensi della giurisprudenza Dassonville (sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74, Racc. pag. 837), l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempreché tali disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgano la propria attività sul territorio nazionale e sempreché incidano in egual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri”. In linea con tale orientamento la sentenza della Corte di Giustizia del 15 dicembre 1993, Ruth Hunermund e altri contro Landesapothekerkammer Baden-Wurrttemberg, causa C-292/92, in Raccolta della giurisprudenza, 1993, in cui è stato confermato che le previsioni relative alle modalità di vendita non sono valutabili ai sensi e per gli effetti di uno standard comune di correttezza professionale (“For the European fairness principle (as developed through the Cassis test) this means thet National selling arrangements are no longer compared to the European fairness concept and, vice versa, that the European fairness concept is no longer nurtured by concepts of National selling arrangements. However, this does not signify that selling arrangements are always considered fair under the European concept, it rather implies that the European concept no longer deals with selling arrangements and therefore simply does not guarantee their fairness (since they are not considered a real obstacle to the free movement of goods)”, in The Feasibility of a General Legislative Framework on Fair Trading, novembre 2000, www.europe.eu., p. 355. 237 Si veda la sentenza della Corte di Giustizia, 13 dicembre 1990, Pall Corp. Contro P.J. Dahlhausen & Co., causa C-238/89, in Raccolta della giurisprudenza, 1990, in cui è stata proposta una nozione di correttezza incentrata sulla valorizzazione della tutela del consumatore. 238 Corte di Giustizia, 7 marzo 1990, GB-Inno-BM contro Confederazione del commercio lussemburghese, causa C-362/88, in Raccolta della giurisprudenza 1990. 239 Corte di giustizia, 16 luglio 1998, Caso C-210/96, Gut Springenheide Gmbh and Rudolf Tusky, in ECR, 1998. Nella sentenza del 26 ottobre 1995, caso C-51/94, Commissione vs Germania, in ECR, 1995, la Corte di Giustizia ha osservato che il principio della correttezza nazionale non può essere invocato per giustificare una misura che interferisce sul dispiegamento delle libertà fondamentali, a ciò ostando un 236
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È proprio da tali principi che il legislatore europeo è partito per costruire la nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali. Partendo da quella correttezza che era ed è il principio cardine di quella concorrenza sleale, ormai non più terra solo di professionisti, ma di tutti gli attori del mercato, come lo sono anche i consumatori240, nei confronti dei quali si è tenuti ad agire sempre lealmente. Da qui la necessità di reimpostare la questione risolvendo il conflitto tra professionisti e consumatori ricorrendo a un corpus di principi fondamentali attinenti al buon funzionamento del mercato, inteso come luogo di incontro dei contrapposti interessi, e non più solo alla composizione del singolo contrasto di volta in volta emergente. Coerentemente, il principio della correttezza professionale può essere la sintesi di tale modello di mercato leale, “socialmente compatibile”, in cui l’interesse del professionista e del consumatore sono proporzionalmente contemperati241. Proprio l’utilizzo del principio generale della correttezza professionale, nella sua declinazione di diligenza professionale, seppure lasciando ancora formalmente autonome e separate le differenti discipline, ha rappresentato per il legislatore europeo lo strumento per costruire un mercato leale. Per comprendere, quindi, in pieno la scelta del legislatore europeo di ricorrere alla nozione di diligenza, è opportuno inquadrare la medesima in chiave storicocomparatistica, anche al fine di estrapolarne il suo significato più intrinseco.
2.
LA DILIGENZA NELLA “STORIA”
Per poter dare un significato oggi alla nozione di diligenza professionale, così come intesa dal legislatore europeo ed entrata poi a far parte dei singoli ordinamenti generale principio di proporzionalità. Si veda anche la sentenza della Corte di Giustizia del 2 febbraio 1994, Verband Sozialer Wettbewerb eV contro Clinique Laboratoires SNC e Estée Lauder Cosmetics GmbH, Causa C-315/92, in Raccolta della giurisprudenza 1994. 240 Con la nota sentenza del 4 febbraio 2005, n. 2207, la Suprema Corte di Cassazione italiana ha affermato che la legge antitrust “non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere”, come poi confermato anche nel 2007. 241 FALCE, Appunti in tema di disciplina comunitaria sulle pratiche commerciali sleali, in Rivista del diritto commerciale, nn. 4-5-6, 2009, p. 452.
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nazionali, non può che recuperarsi il significato e il ruolo che la diligenza ha avuto, in particolare, nell’ambito delle esperienze romano-germaniche. Il termine diligentia ha, infatti, conservato nel corso delle varie epoche della civiltà giuridica, partendo da quella romana, in maniera più o meno inalterata, il suo significato semantico di: accuratezza, cura scrupolosa, solerzia, attività, zelo. Lo stesso Cicerone, qualificando la diligentia come una virtus, dichiarò che la stessa comprende in sé le virtutes di cura, attentio animi, cogitatio, vigilantia, adsiduitas, labor242. Nonostante la varietà di accezioni, già nel 50 a.c., tale nozione esprimeva lo scrupoloso e attento agire dell’individuo, che si ricava dalla sua stessa etimologia, comprensiva dei termini dis e lego, “scelta” e “discernimento” dell’atteggiamento psichico-volitivo, per portare a buon fine con la propria condotta un’opera o un’azione243. Nell’ambito della dottrina giuridica romana, la diligentia venne così utilizzata per esprimere l’oculata, attenta e previdente condotta di chi svolge una funzione gestoria nell’interesse altrui e di chi deve adempiere a una obbligazione. Nel primo caso, ovvero nell’ambito degli officia, della diligentia prevale il significato di “attività” (administratio, industria, labor, sollertia, opera); nel secondo caso, ovvero quello delle obbligationes, prevale, invece, il significato di “prudenza” (prudentia, ratio, sedulitas, custodia, cura).
Cicerone afferma ciò nel De oratore (2, 35, 150): “XXXV. Et sic, cum ad inveniendum in dicendo tria sint : acumen, deinde ratio, quam licet, si volumus, appellemus artem, tertium diligentia, non possum equidem non ingenio primas concedere, sed tamen ipsum ingenium diligentia etiam ex tarditate 148 incitat ; diligentia, inquam, quae cum omnibus in rebus tum in causis defendendis plurimum valet. Haec praecipue colenda est nobis; haec semper adhibenda ; haec nihil est quod non assequatur. Causa ut penitus, quod initio dixi, nota sit, diligentia est ; ut adversarium attente audiamus atque ut eius non solum sententias, sed etiam verba omnia excipiamus, voltus denique perspiciamus omnes, qui 149 sensus animi plerumque indicant, diligentia est. Id tamen dissimulanter facere, ne sibi ille aliquid proficere videatur, prudentia est. Deinde ut in eis locis, quos proponam paulo post, pervolvatur animus, ut penitus insinuet in causam, ut sit cura et cogitatione intentus, diligentia est ; ut his rebus adhibeat tam- quam lumen aliquod memoriam, ut vocem, ut vires, 150 diligentia est. Inter ingenium quidem et diligentiam perpaulvun loci reliquum est arti. Ars demonstrat tantum, ubi quaeras, atque ubi sit illud, quod studeas invenire; reliqua sunt in cura, attentione animi, cogitatione, vigilantia, assiduitate, labore ; complectar uno verbo, quo saepe iam usi sumus, diligentia ; qua una virtute omnes virtutes reliquae 151 continentur. Nam orationis quidem copia videmus ut abundent philosophi, qui, ut opinor — sed tu haec, Catule, melius — nulla dant praecepta dicendi nec idcirco minus, quaecumque res proposita est, suscipiunt, de qua copiose et abundanter loquantur”. 243 CANCELLI, voce Diligenza (dir. rom.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XII , Milano, 1964, p. 517. 242
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In epoca repubblicana e classica, il termine fu utilizzato principalmente per quei rapporti e istituti giuridici implicanti un’attività gestoria e amministrativa e ne sottolineava il dovere di scrupoloso attivo espletamento. Nel momento in cui tale nozione si estese anche alle obbligazioni, questa andò a indicare più specificamente il parametro della condotta attenta e prudente dell’obbligato, discostandosi dalla quale, la perdita della cosa infungibile e determinata oggetto dell’obbligazione, o comunque la sopravvenuta impossibilità della prestazione, seppure non dipesa da un atto volontario, se non dovuta a causus fortuitus o a vis maior, gli era imputata. La giurisprudenza classica, in genere, si limitava a ricercare, caso per caso, quindi, empiricamente, se il fatto che avesse determinato l’impossibilità della prestazione fosse o meno estraneo all’agire dell’obbligato, culpa commissivo-causativa, senza rapportarla ad astratti paradigmi di condotta244. Per questo, se la condotta tenuta dall’obbligato risultava difforme dal canone normativo, ovvero si fosse accertata una omissione di diligenza, la dottrina ne riscontrava la sua culpa245. I maestri orientali formarono, poi, una graduazione dell’inottemperanza alla diligentia che andava dal massimo della trascuratezza, nimia negligentia – culpa lata, al mancare ai normali criteri di prudenza, culpa levis, rapportati, questi, ora all’uomo modello, diligentia diligentis o boni patris familias, ora alla consueta condotta tenuta dallo stesso obbligato nella cura dei suoi affari, diligentia quam suis. Nel periodo classico, nell’ambito dei compiti sociali di rappresentanza di altri soggetti, sia in quelli rivestiti di giuridicità, sia in quelli di mera relazione sociale, alla nozione di diligentia viene affiancato a quella di fides, tanto da formare un criterio direttivo unitario di fidata e scrupolosa attività.
DE FRANCISCI, Sintesi storica del diritto romano, Roma, 1962, p. 370, secondo cui la culpa “sta quasi sempre, nei testi classici, ad esprimere un nesso causale obiettivo”. 245 ARANGIO-RUIZ sostiene che il termine culpa sia dovuto ai maestri delle scuole postclassiche orientali, ai quali, si sarebbero aggiunti in seguito i compilatori giustinianei a interpolare, sovrapponendolo, nelle fonti anche il criterio della diligentia, in Responsabilità contrattuale in diritto romano, Napoli, 1958, pp. 180 e ss. WIAEACKER attribuisce, invece, ai maestri postclassici l’introduzione nelle fonti del criterio della diligentia e ai compilatori quello della culpa, in Haftungsformen des romischen Gesellschaftreschts, in Zeitschr. Sav-Stift., Rom. Abt., 1934, pp. 35 e ss. (cit. in CANCELLI, voce Diligenza (dir. rom.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XII , Milano, 1964, p. 521). 244
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La fides era, infatti, intesa non solo come la fedeltà alla persona, ma anche quella costanza di impegno nel compimento dell’incarico, dell’officium, assunto246 sia nelle cariche pubbliche, sia nei rapporti gestori privati, quali la tutela, il mandato, la procura, la società e la negotiorum gestio. Queste ultime figure sono rette dalla bona fides247, aspetto morale della diligentia, per cui il giudizio relativo è iudicium bonae fidei, la cui responsabilità non può essere limitata agli atti intenzionalmente dannosi. Chi è incaricato di una funzione gestoria deve, quindi, fornire la prova di non avere omesso la necessaria premura e di non avere trascurato la normale buona amministrazione. Il parametro utilizzato, il grado e la forma di prudenza di vigilanza e attenzione richiesto nell’adempimento dell’obbligazione è solitamente, come detto, quello boni patris familias o anche diligentia diligentis. La diligenza era così parametrata a un ideale modello di uomo, preciso, metodico e puntuale nell’adempiere ai propri doveri, dei quali è sempre consapevole. Tale figura scaturisce dalla stessa società agraria romana dove il “bonus dominus: qui bene praestat quae opus sunt et fummo bona fide solvit”, come descrive Catone nel De Agricoltura (14, 3). Nella letteratura romana, il bonus pater familias rappresenta così il modo più appropriato per indicare l’uomo premuroso e attivo nella gestione degli affari privati e da qui mutato a termine giuridico dagli stessi giureconsulti romani. Del resto, la nozione di diligens pater familias è propria del diritto romano ed è solo in parte sovrapponibile all’ ανηρ σπουδαιος (vir diligens) del mondo bizantino248, anche se la sua teorizzazione la si deve ai maestri postclassici e giustinianei. Altri gradi di valutazione della diligentia nel periodo classico sono: (i) quella consueta dimostrata nelle cose proprie dall’obbligato (diligentia quam in suis rebus) e (ii) la diligentia exacta o exactissima. Nell’Alto Medioevo, anche i legislatori barbarici si posero il problema di individuare un parametro di riferimento alla condotta del professionista CANCELLI, voce Diligenza (dir. rom.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XII , Milano, 1964, p. 517. LOMBARDI, Dalla fides alla bona fides, Milano, 1961, pp. 166 e ss. 248 BUCKLAND, Diligens pater familias, in Studi in onere di Bonfante, Pavia, 1930, pp. 85 e ss. 246 247
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nell’ambito dei rapporti economici e patrimoniali tra privati. Tendenzialmente in tali ordinamenti, e in particolare nella legislazione germanica più antica, soltanto il caso fortuito costituiva un limite alla responsabilità, mancavano cioè delle norme intese a limitare la responsabilità per inadempimento in relazione al grado di diligentia prestata e mancava, a maggior ragione, la distinzione tra culpa lata e culpa levis e il dolo non aveva rilevanza giuridica sotto il profilo della responsabilità civile249. Con gli Editti di Liutprando (717-747) iniziarono, invece, ad affiorare anche nella tradizione germanica spunti di diritto romano che orientavano verso una soggettivizzazione della responsabilità, ovvero verso una valutazione della condotta dell’agente alla luce dei criteri della diligentia e della negligentia. Nel XII secolo, attraverso i grandi maestri glossatori, il problema della diligentia diventò oggetto di raffinate impostazioni e trovò svariate soluzioni, dando una nuova apertura all’interpretazione che si stava svolgendo attorno al diritto romano250. Nella sua Summa teologica, San Tommaso d’Aquino inquadrava la diligenza nella sollecitudine e questa a sua volta nella prudenza, definendola come “electio […] recta eorum quae sunt ad finem”251 e, al contempo, segnando i limiti tra il concetto di prudenza e di imprudenza, tra diligentia e negligentia, esaminando certi stati d’animo che venivano indicati con i termini di pigritia, di indolenza e certe situazioni negative come l’omissione di comportamenti dovuti. I glossatori distinguevano tre gradi principali di diligentia: una diligentia minima, una diligentia exacta e una diligentia exactissima, oltre alla diligentia quam suis, la quale rappresentava senza dubbio un grado di diligenza più concreto degli altri, dal momento che si rapportava non a un parametro esterno al soggetto agente, ma ad un parametro proprio dello stesso soggetto agente.
Sul punto si veda SCHUPFER, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, III, Il diritto delle obbligazioni, Città di Castello, 1909, pp. 314 e ss., così come citato da BELLOMO, in voce Diligenza (diritto intermedio), nota I, p. 528. 250 AZZONE affermava che la mancanza di una diligenza minima poteva dar luogo a una culpa lata o al dolo. 251 TOMMASO D’AQUINO, Summa teologica, II. II. q. 54, a. 2. 249
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La diligentia minima rappresentava il parametro del comportamento di ciascun uomo nell’adempimento di obbligazioni, sia al di fuori dei rapporti obbligatori già esistenti; conformemente a quanto previsto dalle stesse fonti romane. La diligentia minima richiesta che normalmente ricercavano i giuristi medioevali era quella suggerita dalla natura o quella comune a tutti gli uomini: un uomo deve essere “diligens, ut natura desideret, vel ut nomine consueverint esse diligentes”252 ed evitare di essere “negligens ulta naturam hominis”253. Per specificare tali concetti di natura o di naturalis ratio, la giurisprudenza medievale riteneva che ciascun uomo per essere diligente doveva “intelligere quod omnes intelligunt”. Un metro diverso, invece, era utilizzato tra i canonisti per misurare sia la diligentia, sia la peritia, secondo i quali occorreva “scire quod omnes sciunt vel saltem maior pars”254. Il concetto di diligentia fu reso ancor più concreto da Bartolo che, rifacendosi a uno spunto di Pietro Bellapertica, riteneva che si è negligenti al massimo quando si ignorano le regole di comportamento che sono proprie, non di tutti gli uomini, ma di tutti coloro i quali esercitano la medesima professione o attività255, superando però il confine tra diligentia e peritia, “non ergo quaelibet imperitia artificis est lata culpa. Sed si erratur in eo, quod communiter sciunt omnes, erit lata culpa. Si erratur in eo, quod sciunt tantum excellentissimi, erit levissima”, così da far discendere una culpa lata dalla mancanza, non solo di una minima diligenza, ma anche di una minima perizia. In determinati rapporti, quali il mandato, la compravendita, la gestione di negozi altrui, la diligentia richiesta doveva, invece, necessariamente essere exacta e il soggetto doveva comportarsi come il diligens pater familias, tanto nel facere quanto nell’omittere (“tenetur de culpa in faciendo et negligendo” sosteneva Bartolo da Sassoferrato).
AZZONE, Summa, in C. 4, 34, depositi. n. 27. ACCURSIO, gl. Culpanda, ad Dig. 24, 3, 24, 5. 254 GIOVANNI D’ANDREA, Novella, in X 3, 15, I, de deposito c. gravis. 255 “tertii, ut Petrus, diffiniunt: lata culpa est negligentia magna ex fatuitate procedens, quae consistit in eo, quod minorem diligentiam quid adhibet, quam hominum communis natura desiderat, qui sunt eiusdem professioni set conditionis”, BARTOLO DA SASSOFERRATO, in Comm., Dig. 16. 252 253
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La massima diligenza consisteva, invece, nel prevedere ciò che un diligentissimus pater familias prevedrebbe. A differenza della exacta diligentia, questa era richiesta soltanto per talune specifiche obbligazioni, come ad esempio il mandato. Ciò che emerge, quindi, è che da sempre, sostanzialmente, la letteratura, giuridica e non, ha ritenuto la diligentia un requisito essenziale della condotta, attiva e omissiva, di ciascun uomo nell’ambito dei propri rapporti
e relazioni
intersoggettive.
3.
LA DILIGENZA NEL SISTEMA DI CIVIL LAW: L’ESPERIENZA ITALIANA
Nel corso dei secoli, la nozione di diligenza si è sviluppata rispetto alla tradizione dei glossatori e nella medesima sono andate a confluire più sfaccettature, tanto che negli ordinamenti di civil law, come quello italiano, il suo richiamo è estremamente frammentato: si parla della diligenza del buon padre di famiglia, ma vi sono anche disposizioni che parlano di “ordinaria diligenza” o di “persona di normale diligenza”. Se la tradizione storica aveva ritenuto la diligenza una specificazione del principio di buona fede256, le opinioni dottrinarie più recenti hanno, invece, sostenuto che dalla medesima derivino direttamente degli obblighi di protezione257. La diversa collocazione delle regole di correttezza e di diligenza - la prima nel capo relativo alle disposizioni preliminari alle obbligazioni in genere, la seconda in quello relativo all’adempimento delle obbligazioni - ha indotto a ritenere che i due concetti si potessero caratterizzare per funzioni tra loro diverse. Nella Relazione al Codice civile italiano, in conformità con l’opinione prevalente, viene specificato che la diligenza deve essere intesa come “un criterio che va commisurato al tipo speciale del singolo rapporto” ed esprime “quel complesso di cure e di cautele che il debitore deve impiegare per soddisfare la propria obbligazione”. Dal che la dottrina ha dato preminente rilievo a tale inquadramento della diligenza
MENGONI, Obbligazioni di “risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Rivista del diritto commerciale, 1954, I, p. 369. 257 BIANCA, Diritto civile. Il contratto, Milano, 1987, p. 478. 256
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nell’ambito dell’adempimento delle obbligazioni, nonostante tale nozione abbia dei riflessi ben oltre tale ambito. Al di là dei chiarimenti che il legislatore possa dare, è comunque innegabile che il senso di tale nozione debba essere colto nel mondo extra-giuridico, in relazione al comune modo di vedere e di sentire di un determinato ambiente sociale in un determinato momento storico258. Con riferimento alla nozione astratta di diligenza si può considerare come la medesima costituisca una qualificazione di un comportamento umano e che, comunque, questa qualificazione opera nel senso della conformazione del comportamento a un modello ispirato alla cura, alla solerzia, alla cautela ovvero a un complesso di caratteristiche spiegate in modo che il comportamento umano possa essere valutato positivamente, in quanto adeguato al fine che esso deve raggiungere. Tale concetto viene, poi, usato dal legislatore in base alle esigenza di volta in volta riscontrate, lasciandone, comunque, inalterata l’essenza, nonostante il cambiamento della specifica applicazione, e con particolare riferimento alle situazioni di specie, viene ad assumere una sfumatura e una funzione particolare, seppure “la diligenza, per forza di cose, è fondamentalmente la stessa”259. L’essenza di tale concetto ha trovato così, di volta in volta, un ambito di applicazione specifica in relazione all’utilizzo che il legislatore ha fatto del concetto di diligenza nelle varie fattispecie. Gli ambiti di applicazioni legislativa della nozione di diligenza sono stati, infatti, differenti. Trattandosi di un concetto essenzialmente elastico, e come tale graduabile in linea di intensità, si pone quasi come necessaria la determinazione legislativa di tale intensità. Ciò accade tutte le volte in cui il parametro legislativo indicato per la valutazione di un comportamento non è fissato una volta per tutte, essendo stabilite soltanto le modalità attraverso cui dovrà procedersi alla sua
258 259
RAVAZZONI, voce Diligenza, in Enc. giur. Treccani, XI, Ist. Enc. it., Roma, 1989, p. 1. RAVAZZONI, voce Diligenza, in Enc. giur. Treccani, XI, Ist. Enc. it., Roma, 1989, p. 1.
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determinazione nelle differenti situazioni, sia dal punto prettamente fattuale che cronologico. La diligenza si presenta così nell’ordinamento italiano come una espressione ellittica260, volta a individuare un metro di valutazione della condotta rapportato a una pluralità di situazioni di fatto. Come detto, però, l’applicazione classica del concetto di diligenza avviene con riferimento alle obbligazioni e, in particolare, all’entità dello sforzo che il debitore deve compiere per un corretto adempimento. Nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, invece, il riferimento alla diligenza avviene solo in senso negativo ovvero attraverso il concetto di colpa, intesa come negligenza, imprudenza o imperizia, che inevitabilmente è parametrato, a contrario, proprio sulla nozione di diligenza. In linea generale, almeno su di un piano prettamente formale, la diligenza richiesta è quella del buon padre di famiglia, la cui figura già di per sé assorbe implicitamente quella di diligenza, anche se non mancano disposizioni in cui si parla di “diligenza ordinaria” (art. 1227 cod. civ.), “normale” (art. 1431 cod. civ.), “dovuta” (art. 1901 cod. civ.), “del buon allevatore” (art. 2174 cod. civ.), “del mandatario” (art. 2392 e 2407 cod. civ.) o “della prestazione dovuta” (art. 2104 cod. civ.). Nell’ordinamento italiano, i riferimenti normativi di tale nozione sono diversi e, in particolare: (i) l’art. 1176 cod. civ. che prevede che nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia, sulla falsariga del Code civil francese e (ii) l’art. 1710 cod. civ. che con riferimento al mandato individua la misura della diligenza da usare nello svolgimento di attività di regolamento di interessi altrui. Il richiamo fatto dal legislatore italiano al buon padre di famiglia è stato, però, nel corso degli anni contestato da parte della dottrina più autorevole261. Si pensi che in Germania le medesime critiche furono proposte al primo progetto del BGB che
RODOTÀ, voce Diligenza, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1964, p. 540. Si veda, tra gli altri, RODOTÀ, voce Diligenza, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1964, p. 545; NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1965, p. 101; COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955, p. 38. 260 261
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accoglieva tale nozione, nel quale fu poi codificata al § 276 una nozione diversa di diligenza richiesta negli affari, im Verkehr erfordeliche Sorgfalt262. Tale nozione, seppure priva della carica espansiva datale anche dalla tradizione storica, appare indubbiamente più puntale nel definire il grado di diligenza richiesto nell’espletamento di un determinato affare e molto vicina a quella nozione data da Bartolo da Sassoferrato secoli prima. Il modello del pater familias, per come tramandato nei secoli, appariva, infatti, anacronistico e superato dalle nuove realtà ed esigenze del mondo moderno, anche in relazione al diverso modo di valutare i rapporti sociali e la stessa esigenza di eguaglianza, oltre che alle esigenze di vita degli individui. Dovendo, tuttavia, dare un significato alla formula ancora vigente nel Codice Civile, si può dedurre che la caratteristica tipica della condotta del buon padre di famiglia è quella improntata alla prudenza, alla cautela e a un certo egoismo263. Per questo, tale formulazione può ancora avere oggi una sua coerente giustificazione nelle ipotesi specifiche in cui il legislatore la prevede ancora, dal momento che la medesima viene imposta non nell’esercizio di attività proprie, ma nell’adempimento di obbligazioni, ovvero nell’esercizio di attività nell’interesse altrui e, soltanto, per tale specifica attività, che di fatto si concretizza nella gestione (indiretta) di interessi altrui, che tale misura di diligenza è ancora oggi utilizzata. Del resto, il buon padre di famiglia “non è soltanto la figura del cosiddetto uomo medio, di comune intelligenza, ma è la figura del modello del cittadino avveduto che vive in un determinato ambiente sociale, secondo i tempi, le abitudini, i rapporti economici e il clima storico-politico e che risponde perciò ad un concetto deontologico, derivante dalla coscienza generale”264. Il che è evidente che tale nozione rappresenti una evoluzione del concetto di pater familas, tradizionalmente inteso come il buon padre che agisce con responsabilità nei confronti dei familiari, proprio perché con l’evoluzione dei tempi si sono creati inevitabilmente altri modelli di riferimento.
GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975, p. 596. RAVAZZONI, voce Diligenza, in Enc. giur. Treccani, XI, Ist. Enc. it., Roma, 1989, p. 3. 264 Cass., 11 gennaio 1951, n. 49, in Foro italiano Massimario, 1951. 262 263
133
Di ciò è consapevole il legislatore italiano che nella norma cardine che definisce la disciplina dell’adempimento, ovvero l’art. 1176 cod. civ. prevede espressamente che la diligenza del buon padre di famiglia deve essere usata nell’adempiere le obbligazioni (primo comma), ma nel caso di attività professionali, “la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Nella Relazione al Codice Civile si osserva che tale criterio, richiamato in via generale nell’art. 1176 cod. civ. come misura del comportamento del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta, riassume in sé quel complesso di cure e di cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto ed a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo. Si tratta di un criterio obiettivo e generale, non soggettivo e individuale: sicché non basterebbe al debitore, per esimersi da responsabilità, dimostrare di avere fatto quanto stava in lui per cercare di adempiere esattamente l’obbligazione. Ma, d’altra parte, è anche vero che tale criterio va commisurato al tipo speciale del singolo rapporto. Per questo, nell’art. 1176 comma 2, cod. civ. è stato chiarito, a titolo di esemplificazione legislativa che, trattandosi di obbligazioni inerenti all’esercizio (e quindi all’organizzazione) di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata, così che sarà possibile che in determinati casi la diligenza debba apprezzarsi con maggiore o minore rigore. Ciò significa che rispetto a determinate attività, quali quelle commerciali, industriali e artigianali, la diligenza del buon padre di famiglia non è ritenuta dal legislatore italiano sufficiente per poter tutelare le contrapposte esigenze e gli interessi delle controparti, per questo la determinazione dell’entità dello sforzo che il “professionista” è tenuto a compiere per evitare che la prestazione diventi impossibile deve essere sicuramente maggiore rispetto a quello dell’uomo medio. Tale ultimo concetto è stato poi ripreso per regolare sia la diligenza che il prestatore di lavoro deve usare nella sua attività (si veda, ad esempio, l’art. 2104 cod. civ.), sia la diligenza del prestatore d’opera intellettuale, che dovendo affrontare problematiche tecniche di particolare difficoltà, non risponderà dei danni in caso di dolo o di colpa grave. 134
Il giudizio sull’imputabilità o meno dell’impossibilità di una prestazione al debitore, al fine di valutare la sussistenza dell’inadempimento ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., deve essere, quindi, formulato tenendo conto della sua condotta, il cui metro per valutarne l’adeguatezza dello sforzo è rappresentato dalla diligenza265. Nell’ambito dei rapporti intersoggettivi, al di fuori del rapporto obbligatorio, la diligenza viene in considerazione, invece, soltanto in termini negativi, ovvero di colpa, la cui nozione si sostanzia quando l’evento causativo di un danno si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza delle leggi, regolamenti, ordini o discipline. Nell’ipotesi in cui vi sia stata una condotta negligente che abbia causato un danno a terzi non sembra possibile prescindere dalla diligenza del buon padre di famiglia, ovvero a quel grado di diligenza che il legislatore assume come criterio generale, derogabile con specifiche disposizioni richiedendo un grado di diligenza ancora più intenso o più lieve (si pensi alle ipotesi di rilevanza della sola colpa grave o quella di colpa lievissima)266. Sia in caso di inadempimento, sia di responsabilità civile, il legislatore ha previsto che il risarcimento non sia dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (art. 1227, comma 2, cod. civ.). In tale caso, si tratta di una fattispecie di diligenza diversa dal momento che lo sforzo richiesto al creditore è quello diretto di comportarsi in maniera tale da escludere, o comunque contenere, il verificarsi dei danni a lui cagionati dall’altrui condotta. È la diligenza, quindi, dell’uomo medio nella gestione dei propri affari e che i romani definivano, come si è visto, diligentia quam in suis. Allo stesso concetto si richiama l’art. 1431 cod. civ. che prevede che la riconoscibilità dell’errore sussiste, fra le altre, quando una persona di “normale diligenza” avrebbe potuto rilevarlo. Se ci si riflette bene, tale concetto è stato ripreso dallo stesso legislatore europeo nella disciplina delle pratiche commerciali sleali nel momento in cui ha definito il consumatore medio. Il consumatore medio è, infatti, una persona mediamente accorta a cui è richiesto uno sforzo di responsabilità nella sua condotta
265 266
GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975, pp. 242 e ss. RAVAZZONI, voce Diligenza, in Enc. giur. Treccani, XI, Ist. Enc. it., Roma, 1989, p. 5.
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per non subire solo passivamente l’invasione nella sua sfera giuridica da parte del professionista. Ferme le considerazioni di cui sopra che hanno cercato di caratterizzare il criterio della diligenza nell’ambito dell’ordinamento italiano, non può non rilevarsi però come la nozione di diligenza del buon padre di famiglia pare essere irrimediabilmente invecchiata. Pare illogico, infatti, che la nuova società dei capitali e del commercio transfrontaliero possa continuare a fondarsi sull’idea di uomo d’ordine, ormai superato dall’individuo dotato di spirito d’intrapresa e che proprio dal rafforzarsi della categoria dei creditori può derivare l’aggravamento delle condizioni di prestazione267.
4.
LA DILIGENZA NEL SISTEMA DI COMMON LAW: L’ESPERIENZA INGLESE
Negli ordinamenti di common law la nozione di diligenza ha assunto un ruolo decisamente di rilievo quale fonte di responsabilità. A differenza degli ordinamenti continentali legati all’esperienza romanistica, in Inghilterra, manca, tuttavia, una nozione come quella di diligenza del buon padre di famiglia, proprio degli ordinamenti di civil law quali quello italiano (art. 1176 cod. civ.) e francese (art. 1137 Code civil), o quella diligenza richiesta nella vita degli affari,
utilizzata
dal
legislatore
tedesco
(§
276
BGB),
preferendo,
più
pragmaticamente, che la valutazione dell’agire diligente, ossia dello standard of reasonable care, sia desunto dalle circostanze del caso concreto. L’idea di un obbligo di condurre in buona fede le trattative è stata ritenuta nel diritto inglese in contrasto (repugnant) con la contrapposizione (adversal position) che caratterizza le parti nelle trattative, per questo si riteneva che una siffatta clausola non potesse essere contenuta implicitamente in un contratto268. Tale impostazione è giustificata sia dal fatto che il diritto contrattuale inglese è stato da sempre improntato su di un certo individualismo, in forza del quale le parti guardano ai propri interessi e focalizzano la propria attività al fine di ottenere per 267 268
RODOTÀ, voce Diligenza, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1964, p. 546. Si veda l’opinion di Lord Ackner, sentenza della House of Lords, Walfard vs. Miles, (1992) 2 AC 128.
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sé le condizioni migliori, sia dalla diversa nozione di norma giuridica che si ha nei sistemi di civil law e di common law. Nel sistema continentale, infatti, la norma giuridica è concepita come una regola di condotta, che orienta la società verso mete prestabilite, svolgendo una funzione ordinatrice della società stessa. Secondo tale visione, le norme devono essere sufficientemente generali, così che il giurista possa avere un certo margine di libertà nell’interpretarle, avendo la possibilità di adattarlo alle varie esigenze contingenti che si presentano di volta in volta269. Nei sistemi di common law, invece, la legal rule si presenta in maniera più dettagliata e si pone a un livello sistematico più concreto, essendo, storicamente, il frutto dell’opera dei giudici delle Corti regie che danno vita a un diritto uniforme, comune: il common law appunto. La creazione della legal rule è, quindi, in tali ordinamenti fortemente influenzata dagli elementi fattuali che ne stanno alla base, tanto che è impossibile poter apprezzare appieno la portata della norma se non si conoscono i fatti di causa. Essa assolve così alla funzione di risolvere la controversia pendente di fronte ad un giudice, di fornire cioè la soluzione pratica per un determinato processo, piuttosto che formulare una regola generale di condotta270. Il diritto inglese è, infatti, storicamente limitato dalle restrizioni processuali poste dal sistema delle forms of action che, come è noto, consentiva di agire in giudizio soltanto se la situazione giuridica lesa e il rimedio richiesto corrispondevano a quanto previsto dalla formula introduttiva del giudizio predisposta dal Cancelliere271. La legge (statue) ha rivestito, del resto, in questi ordinamenti una importanza secondaria rispetto alla giurisprudenza delle Corti di Westminster (common law) e della Corte della Cancelleria (equity), che grazie al sistema del
Sul tema dell’ampiezza della norma e del sul suo carattere di generalità, si veda DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 2004, pp. 78 e ss. 270 DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 2004, p. 20. Si veda anche MOCCIA, Comparazione giuridica e Diritto europeo, Milano, 2005. 271 ZENO-ZENCOVICH, La responsabilità civile, in AA.VV., Diritto privato comparato – Istituti e problemi, Bari, 2008, p. 345. 269
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precedente vincolante ha assunto negli anni una posizione di predominio tra le fonti del diritto272. Attualmente, però, la situazione è in parte mutata: la legge e i regolamenti non possono più essere considerati anche nell’ambito dell’esperienza anglosassone di rango secondario, nonostante non vi sia stato mai un riordino generale del diritto attraverso un codice e, in concreto, il sistema di fonti e di struttura ha conservato i suoi tratti originari, nonostante il suo evidente avvicinamento ai sistemi di civil law. Negli ultimi anni, le Corti inglesi hanno, per altro, maturato una nuova sensibilità nel riconoscere a carico delle parti un obbligo di agire in buona fede273. Un modello siffatto, il cui approccio è caratterizzato dall’analisi e soluzioni del caso concreto che si pone all’interprete, piuttosto che sull’applicazione di principi e nozioni generali, ha sicuramente inciso sulla elaborazione teorica del generale duty of care, la cui genesi è tutt’altro che lineare274 e caratterizzata da alcune oscillazioni legate all’evoluzione della categoria dei torts. Nell’ambito di tale categoria l’alterità tra l’action of trespass tradizionale275 e l’action of trespass on the case si è protratta per molti secoli, dando vita a un sistema essenzialmente tipizzato di illeciti intenzionali (assault, battery, false imprisonment, malicious prosecution e libel) e non intenzionali, di cui il più rilevante e quasi onnicomprensivo è il tort of negligence276, avente un’applicazione assai estesa. Inizialmente, però, tale tutela era fortemente influenzata del principio della privaty docrtine che richiedeva l’esistenza di una relazione contrattuale per la configurabilità di un obbligo risarcitorio. Ad inizio Ottocento, infatti, le Corti inglesi La letteratura sulla regola del precedente nel Regno Unito è sterminata. A titolo esemplificativo, si veda, ANTONOLLI DEFLORIAN, Il precedente giudiziario come fonte del diritto nell’esperienza inglese, in Rivista di diritto civile, 1993, II, pp. 133 e ss.; BLACK, Law of Judicial Precedent, St. Paul, 1912. 273 Timeload Limited v British Telecommunications Plc, (1995) EMLR 459 (CA); Philips Electronique Grand Public SA v British Sky Broadcasting Limited, (1995) EMLR 472 (CA); Petromec v Petroleo Brasileiro SA Petrobas, (2005) EWCA Civ 891 (CA). 274 FRANKLIN – RABIN – GREEN, Torts Law and Alternatives, Cases and Materials, New York, 2006, p. 132, second I quail il riconoscimento di un generale duty of care è chiaramente il frutto di una evoluzione giurisprudenziale e dottrinale di lungo termine. All’inizio, la tutela per danni era solo penalistica (trespass), venendo successivamente allargata anche al campo civilistico (trespass on the case). 275 Dove il termine trespass indicava l’interferenza illecita con l’altrui persona o proprietà. Essa è originariamente penale, in quanto turba la pace del Re e la sanzione è rappresentata da una pena. Solo successivamente a questa si aggiunse una somma a favore della parte offesa. 276 ZENO-ZENCOVICH, La responsabilità civile, in AA.VV., Diritto privato comparato – Istituti e problemi, Bari, 2008, p. 346. 272
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ritenevano che non vi fosse alcun obbligo risarcitorio se non vi fosse un rapporto contrattuale tra le parti in causa, in quanto, diversamente si sarebbero legittimati un numero illimitato e imprevedibile di soggetti a vantare pretese risarcitorie277. A fine Ottocento, tuttavia, il sistema di common law si è evoluto, stabilendo un obbligo di utilizzare l’ordinaria competenza e cura per evitare il danno ogni qual volta una persona si trovasse in una situazione di fatto tale per cui è prevedibile, per qualsiasi uomo di media avvedutezza, che se non agisse secondo diligenza, la sua condotta può causare danno alla persona o ai beni altrui. L’obbligo risarcitorio sorge, quindi, secondo i giudici inglesi dalla diligenza278 attraverso la quale possono essere tutelati diritti meritevoli dei cittadini, quali la vita e l’integrità fisica. Del resto la figura del tort of negligence era stata elaborata dalla giurisprudenza inglese in risposta all’aumento crescente di infortuni causati dal diffuso impiego delle macchine nell’industria e nella società moderna. Esso si fonda come elemento principale sul legal duty of care, ovvero su un generale dovere giuridico di diligenza che incombe su tutti i consociati di evitare di compiere atti od omissioni che ciascuno può ragionevolmente prevedere (can reasonably foresee) come cause probabili di danno alla persona con cui si è in relazione279. È l’interesse a tale tutela che ha spinto, quindi, le Corti a superare il limite della privaty doctrine, riconoscendo al duty of care una doppia fonte generatrice, ovvero il contratto e la legge, analogamente all’esperienza italiana. L’esistenza di una doppia fonte di responsabilità della duty of care ha così indotto gli avvocati di common law a tentare spesso di qualificare gli stessi inadempimenti
Si veda il caso Winterbottom v. Wright (10 M.&W. 109 [1842)]. Tale principio è stato elaborato da BRETT nel caso Heaven v. Pender, 11 Q.B.D. 503 (1883). Per l’affermazione, invece, che sul proprietario di un immobile incombe un duty of care nei confronti dei suoi ospiti, si veda il caso Indermaur v. Dames, L.R. 1 C.P. 274, L.R. 2 C.P. 318 (1866). 279 Donoghue v. Stevenson [1932] A.C. 562, per Lord Atkin a p. 580 “You must take reasonable care to avoid acts or omissions wich you can reasonably foresee would be likely to injure your neighbour”; sul punto, si veda MOCCIA, Comparazione giuridica e Diritto europeo, Milano, 2005, p. 257. Per ulteriori rilievi: BESSONE, Responsabilità per negligence e teoria dell’illecito. Del caso Denoghue v. Stevenson in prospettiva storica, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1974, pp. 548 e ss.; ALPA, Teorie e ideologie nella disciplina dell’illecito (Appunti sulla evoluzione della “tort liability”), in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1977, pp. 811 e ss. 277 278
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contrattuali come torts, in ragione del fatto che il relativo regime risarcitorio è spesso più favorevole per il danneggiato 280. Le problematiche e le soluzioni offerte all’evoluzione della law of torts rilevano una notevole vicinanza con le problematiche proprie della responsabilità civile italiana, seppure si basino su istituti e tradizioni differenti. Ciò pare dimostrare che, nonostante le differenze tra i sistemi giuridici, esistono comunque identiche tendenze a tutelare nello stesso modo certi interessi socialmente rilevanti. Tra queste soluzioni, vi è senza dubbio quella di porre la diligenza a fondamento della responsabilità. Ciò è dovuto, in particolare, alla elasticità, genericità e adattabilità di tale nozione, idonea a garantire una tutela ad interessi nuovi che vengono considerati rilevanti dall’ordinamento attraverso la manipolazione controllata del duty of care, della sua violazione e del danno281. Nell’ambito dei rapporti intersoggettivi, il concetto di duty of care è tipico del common law ed è, come detto, strettamente collegato alle varie teorie di negligence che ne costituiscono il fondamento. Esso si è evoluto, in particolare, quando nel XIX secolo si è passati da una concezione assolutistica della responsabilità, all’introduzione della imputabilità per colpa, quando cioè la negligence è divenuta una base autonoma per la responsabilità in tort, se non addirittura un particolare tipo di tort282. Infatti, in concomitanza con l’elaborazione del concetto di negligence le Corti hanno sviluppato parallelamente anche il principio di duty. La negligenza del danneggiante non può, però, essere ritenuta un concetto astratto privo di rilevanza pratica, ma contempla un obbligo legale di una parte su un’altra283. Nel sistema di common law, il duty of care e la negligence sono così concetti indissolubilmente intrecciati, dove non si può definire l’uno senza l’ausilio dell’altro. Infatti, i contorni dell’obbligo da rispettare sono a propria volta definiti
PROSSER, Handbook of the Law of Torts, St. Paul, 1971, p. 614. MILLNER, Negligence in Modern Law, London, 1967, p. 2. 282 ROGERS, Winfield & Jolowicz on Tort, Melbourne, 2006, p. 9, second cui “negligence may mean a mental elementin tortuous liability or it may an independent tort”. 283 Tappen v. Ager, 10th Cir. 1979, 599 F.2d 376, 379; Shore v. Town of Stonington, 1982, 187, Conn. 147, 444 A.2d 1379. 280 281
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dalla rischiosità dell’azione, quindi, se non sussiste il rischio di arrecare un danno non esiste il corrispondente duty of care. Ne consegue che la negligence, come il rischio, è una modalità per instaurare una relazione tra i soggetti il cui contenuto è quello proprio del duty in quel determinato momento. Così il duty riguarda la relazione tra i soggetti, ne determina il contenuto e pone a carico di uno un’obbligazione legale per il beneficio di un altro. Il duty of care può così essere definito come l’obbligazione di conformarsi a un particolare standard comportamentale nei confronti dell’altro, la cui violazione genera la responsabilità del contravventore. In termini pratici, le Corti per valutare se sussista o meno il duty accertano prima se chi agisce vanti o meno un interesse giuridicamente protetto nei confronti del convenuto. Dall’esistenza di un interesse giuridicamente protetto consegue automaticamente la sussistenza di un duty of care: la scelta degli individui e delle categorie di interessi da proteggere sono determinati dalla public policy. Questo concretamente significa che anche l’esistenza di un duty of care dipende dalle scelte di policy, con l’effetto che tale duty diviene una tecnica di selezione degli interessi, che tuttavia si presenta come tecnica di valutazione del comportamento dell’agente. Modificando l’approccio casistico e rimediale tipico del sistema di common law, il tort of negligence non si caratterizza per l’offesa di un particolare bene, ma rappresenta così un comportamento che in astratto può risultare lesivo di un numero indeterminato di interessi. Esso deve essere separato dalla sua connotazione soggettiva che lo qualifica come elemento psicologico (frame of mind), accezione che lo farebbe avvicinare alla culpa del diritto romano. Infatti, il tort of negligence individua un comportamento che risulta irragionevolmente pericoloso per i terzi, indipendentemente dall’interesse che l’evento dannoso abbia pregiudicato. I giudici inglesi hanno, infatti, precisato che quando un soggetto si trova in rapporto ad altri in una situazione tale da far ritenere a soggetti normali che se non avesse utilizzato la diligenza e le abilità usuali avrebbe causato pericoli e danni alle persone o alle cose in proprietà, sorge un dovere di fare impiego della diligenza e 141
abilità usuale per evitare quel pericolo. Le Corti inglesi hanno così un potere creatore di singoli duties all’interno dei negligent torts che dimostra che anche nel common law vige il principio generale alterum non laedere, come specificazione del dovere di diligenza. I concetti di diligence e di care sono pertanto perfettamente sovrapponibili al concetto di diligentia proprio della tradizione romanistica. Per evitare, quindi, di essere considerati responsabili di una determinata condotta, i giudici dovranno nel caso concreto accertare la ragionevolezza della condotta (reasonableness), la prevedibilità del danno (foreseeability) e l’eventuale inosservanza del dovere di diligenza (breach of duty of care284). Nell’esperienza di common law la diligenza è così parametrarta alla reasonable conduct ossia alla condotta dell’uomo medio in ogni particolare circostanza, isolando un criterio di apprezzamento della diligenza commisurato sulla base del costo economico del rischio che l’agente si è assunto, comportandosi in quella determinata maniera, e del costo che avrebbe dovuto assumere se si fosse comportato diligentemente. Ciò comporta che l’agente debba sempre valutare con l’ordinaria diligenza e riconoscere la pericolosità delle proprie condotte e, in caso in cui ciò dovesse accedere, vi sarebbe una violazione del duty of care. Viceversa, se l’agente non poteva prevedere la pregiudizialità della propria condotta non vi sarà alcuna violazione del duty of care. La negligence trova così applicazione solo nei casi in cui il danneggiante sia coinvolto nella creazione di un rischio irragionevole, che è tale quando una persona di media avvedutezza non lo avrebbe creato. Un rasonable man che non è troppo distante da quel buon padre di famiglia preso a modello dalla tradizione romanistica e ancora caratterizzante ordinamenti come quello italiano. Oltre a un profilo “previsionale”, la diligenza ha anche un profilo esecutivo o comportamentale che è proprio del momento in cui il soggetto agisce e, nel farlo,
284
DIAS, The Breach Problem and the Duty of Care, in 30 (1956), Tul. L. Review, pp. 402 e ss.
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deve rispettare il canone della diligenza, ossia lo standard of care desunto dalle circostanze del caso concreto. Tale tipo di diligenza consiste, quindi, nella mancata adozione di quel grado di cura e attenzione nell’agire che, secondo le circostanze di fatto, viola il duty to take care degli altri consociati285. Le fonti di tale duty sono diverse: può sorgere dalla legge, da un rapporto obbligatorio esistente tra le parti (privity relationship), come un contratto, oppure essere desunto dalle circostanze di fatto che, in base al parametro della diligenza del buon padre di famiglia (reasonable man)286, vengono a determinare una particolare prossimità tra i soggetti coinvolti (special relationship). Nella special relationship il duty of care sorge in una serie di casi più ampi rispetto al contatto sociale vigente nell’ordinamento italiano, venendo applicato, ad esempio, anche nei rapporti tra amici. Una tale complessità dogmatica mal però si adatta al pragmatismo della tradizione anglosassone, tanto che si è addirittura sostenuto che il duty of care è un elemento superfluo nel giudizio di negligence. Secondo tale impostazione, per determinare la responsabilità sarebbe sufficiente basarsi sui criteri di prevedibilità del danno e ragionevolezza del comportamento, senza dovere utilizzare il criterio del duty of care287. I tratti salienti di tale diligenza consistono, quindi, in una condotta conforme a quella che terrebbe l’uomo medio nella stessa situazione di fatto. Esso deve essere Di particolare interesse è il caso Headley Byrne v. Heller & Partners [1964] (AC 465) che continua ancora oggi ad animare il dibattito inglese sul duty of care. Nel caso in questione si rileva come fornire informazioni inesatte non equivarrebbe a compiere atti negligenti, sia perché il rasonable man, pur attento nei suoi atti, è solito esprimere le sue opinioni in molte occasioni in cui è possibile che altri possano essere influenzati, sia perché nel caso ad esempio della vendita di un prodotto difettoso il danno può arrecare un solo sinistro ed è facile ricondurre casualmente l’evento dannoso alla colpa del produttore. Nel caso delle parole, secondo i giudici inglesi, esse possono circolare liberamente senza il consenso o la previsione del soggetto che le pronuncia o le scrive. Secondo l’opinion di Lord Reid in questo caso si configurerebbe un duty of care nei confronti di un numero ristretto di persone, ma sarebbe eccessivo sostenere che egli è responsabile nei confronti di qualsiasi consumatore finale delle sue parole. Perché ci sia responsabilità è necessario che la posizione nella quale si trova l’informatore crei un legittimo affidamento nell’informato, per cui il primo assume esplicitamente o implicitamente un duty of care nei confronti del secondo. 286 Per ZENO-ZENCOVICH la figura del reasonable man è assai simile a quella del bonus pater familiae della tradizione romanistica. “Essa serve a oggettivizzare gli standard di condotta richiesti e a rendere ininfluenti le condizioni fisiche o mentali individuali del presunto responsabile (con esclusione degli infanti, degli invalidi e degli incapaci gravi)” in La responsabilità civile, in AA.VV., Diritto privato comparato – Istituti e problemi, Bari, 2008, p. 349. 287 DIAS, The Breach Problem and the Duty of Care, in 30 (1956) Tulane Law Review, pp. 377 e ss. 285
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improntato alla prudenza e precisione che ragionevolmente ci si può attendere dalla media dei consociati. Tale struttura ricalca quanto disposto dal legislatore italiano all’art. 1176 cod. civ., per cui è ragionevole concludere che la soluzione fornita nel sistema di common law è assimilabile a quella italiana, riconoscendo la diligence come creatrice del duty of care, dai quali sorge la responsabilità in tort. La natura eccessivamente teorica per i canoni anglosassoni della figura del duty of care ha fatto così sostenere che la medesima sia in realtà una maschera tecnica dietro la quale si cela in realtà la politica del diritto sugli interessi da proteggere288. Il duty of care diviene in questo modo lo strumento attraverso il quale la società tutela gli interessi di nuova emersione289, come possono essere quelli dei consumatori nei rapporti con i professionisti.
5.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL DIRITTO EUROPEO
Il ricorso a una nozione aperta come quella di diligenza professionale risulta essere certamente funzionale alla libertà dell’agire di consumo che è un necessario completamento alla tutela e alla libertà di concorrenza presidiata dal diritto antitrust290. Da quanto potuto constatare dal raffronto storico-comparatistico della nozione di diligenza nell’ambito, in particolare, dell’esperienza italiana e inglese, si può già anticipare che la nozione di diligenza professionale utilizzata nell’ambito delle pratiche commerciali è in realtà un concetto sostanzialmente nuovo e funzionale alle attuali esigenze del mercato e agli obiettivi prefissati dal legislatore europeo, definito secondo i seguenti parametri: -
il normale grado di speciale competenza e attenzione che in maniera ragionevole si presumono essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori;
ATYAH, Accidents, Compensation and the Law, London, 2006, pp. 51 e ss. Home Office v. Dorset Yacht Co. Ltd. (1970), AC 1004, at 1140 (HL) nella cui motivazione si afferma che “this talk of duty or no duty is simply a way of limiting the range of liability for negligence”. 290 GENOVESE, Ruolo dei divieti di pratiche commerciali scorrette e dei divieti antitrust nella protezione (diretta e indiretta della libertà di scelta) del consumatore, in AIDA, 2008, p. 297. 288 289
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-
l’applicazione di tale parametro rispetto a pratiche oneste e/o al principio generale di buona fede nel settore in cui il professionista svolge la propria attività.
Attraverso il ricorso a tale nozione, da considerarsi una vera e propria clausola generale, composta da un coacervo di una pluralità di concetti, il legislatore europeo ha inteso, infatti, eliminare le notevoli differenze che, nello sviluppo e nell’applicazione giurisprudenziale di tale principio generale che presiede al giudizio di lealtà di una pratica commerciale, caratterizzavano e caratterizzano le singole tradizioni giuridiche nazionali. La nozione di diligenza professionale utilizzata nella Direttiva è, infatti, una sintesi dei riferimenti alla correttezza e alla diligenza contenuti negli Stati membri291, ma da questi si evolve e sviluppa. La diligenza professionale richiamata dal legislatore europeo si trova ad esprimere in questo modo la misura dell’impegno richiesto nel rispettare certe regole, ai fini del giudizio di colpevolezza, senza però alcun riferimento a come le medesime debbano essere individuate292. La scelta normativa di una nozione assai generica e così poco concreta ha comunque determinato, nella dottrina europea, orientamenti differenti sul reale significato da dare alla medesima. Secondo un primo orientamento, la diligenza professionale evocherebbe la diligenza cui il debitore è tenuto nell’adempimento delle proprie obbligazioni, ovvero la negligenza, imprudenza o imperizia quali elementi costitutivi della colpa nell’illecito civile. Secondo la Commissione europea “Il principio generale contra bonos mores si osserva nel diritto dei seguenti paesi: Austria, Grecia, Portogallo e Germania. Il principio delle pratiche commerciali leali è presente nel diritto dei seguenti paesi: Belgio, Italia, Lussemburgo e Spagna. La Francia e i Paesi Bassi applicano disposizioni generali sulla responsabilità civile, i Paesi Bassi utilizzano il concetto di illiceità. Un principio simile, quello delle buone pratiche commerciali, è in vigore in Danimarca, Finlandia e Svezia. Altri principi generali simili caratterizzano gli ordinamenti giuridici di molti paesi terzi, in particolare gli USA e il Canada (dove la tutela dei consumatori è gestita a livello provinciale) e l’Australia. Nel Regno Unito e in Irlanda, sebbene non esistano norme giuridiche generali che disciplinino i rapporti tra le imprese e i consumatori, gli ordinamenti giuridici contemplano principi equivalenti” Libro Verde sulla protezione dei consumatori, Bruxelles, 2 ottobre 2001, COM (2001) 531 definitivo. 292 TINA, L’esonero da responsabilità degli amministratori di s.p.a., Milano, pp. 25 e ss.; LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 46. Nelle formule ricorrenti in giurisprudenza, diligenza e perizia sono indicati come criteri paralleli di valutazione della colpevolezza di una condotta, proposte in una sorta di endiadi. 291
145
Tale concetto sarebbe, quindi, in larga parte equivalente al concetto di duty of care proprio della tradizione di common law, identificandosi nel grado di diligenza che ci si può ragionevolmente attendere da un buon professionista, in relazione alla tipologia dei doveri da assolvere e alle specifiche circostanze del caso concreto293. Il riferimento alla diligenza professionale porterebbe così a dare rilevanza nella disciplina in questione alla colpa (nella sua accezione di diligenza in senso negativo, ovvero di negligenza) del professionista, come elemento soggettivo della pratica commerciale sleale. Tale giudizio di colpevolezza assumerebbe rilievo soltanto ai fini dell’applicazione del rimedio del risarcimento del danno e delle sanzioni previste in caso di violazione del divieto, mentre non sarebbe richiesto ai fini dell’inibitoria delle pratiche commerciali sleali, che si baserebbe su di un distinto giudizio della contrarietà della pratica a buona fede, ovvero di antigiuridicità oggettiva, che prescinde dalla colpa294. L’art. 11, § 2, della Direttiva stabilisce, infatti, che si può chiedere l’inibitoria anche in assenza di prove in merito alla negligenza da parte del professionista. Secondo tale orientamento, quindi, la negligenza non è un contenuto essenziale della fattispecie della pratica commerciale sleale, ma soltanto della specifica fattispecie della pratica commerciale sleale colpevole. Il legislatore europeo, sempre secondo tale impostazione, avrebbe voluto affermare soltanto che il requisito della colpevolezza ai fini del risarcimento del danno e dell’irrogazione delle ammende deve essere accertato con criteri oggettivi e tipici, ovvero attraverso il parametro della diligenza professionale. L’indicazione legislativa tende, quindi, a far sì che il professionista non possa eccepire a discolpa della propria condotta, né la propria disinformazione, né le proprie personali abitudini e che risponderà anche a causa delle disfunzioni
ABBAMONTE, The Unfair Commercial Practices Directive and its General Prohibition, in WEATHERILL – BERNITZ (a cura di), The Regulation of Unfair Commercial Practices under EC Directive 2005/29. New Rules and New Techniques, Oxford, 2007, p. 22. 294 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 47. 293
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imputabili ad una cattiva organizzazione aziendale, intesa in senso ampio, (ausiliari, fornitori, coadiutori) e risponderà di ciò anche nella fase preparatoria295. Ad analoghe conclusioni giunge anche quella parte della dottrina che ritiene la violazione della diligenza in questione equivarrebbe alla diligenza professionale di cui all’art. 1176, comma 2, cod. civ. e una sua violazione integrerebbe un fatto colposo nell’ambito della responsabilità civile ai fini dell’azione risarcitoria, individuale o collettiva, nei confronti del professionista autore del danno296. Da una siffatta impostazione consegue che gli altri due termini “pratiche di mercato oneste” e “buona fede nel settore professionale” avrebbero una portata normativa autonoma. Il criterio della buona fede, della correttezza e dell’onestà, come prescritto dal legislatore europeo (e non da quello italiano), in quanto autonomi, sarebbero da soli sufficienti ad integrare la categoria delle pratiche commerciali sleali. Tale orientamento dottrinario ritiene, infatti, che sarebbe strana una interpretazione letterale della clausola generale dell’art. 5 della Direttiva che porterebbe ad assumere che il criterio di diligenza varrebbe per le pratiche oneste e conformi al principio di buona fede, rimanendo apparentemente, invece, fuori dall’ambito di applicazione della Direttiva le pratiche disoneste e quelle attuate in mala fede. Per cui le pratiche disoneste e quelle contrarie al principio di buona fede sarebbero vietate di per sé, a prescindere da un controllo sulla diligenza della relativa condotta. Il legislatore europeo avrebbe così individuato dei criteri oggettivi di pratiche disoneste e/o contrarie al principio di buona fede, senza imporre ai professionisti standard di comportamento troppo severi: la formula “pratiche di mercato oneste” non può, infatti, che riferirsi alla best practice del settore, con esclusione di criteri deontologici più rigorosi, mentre l’alternativo riferimento all’aggiuntivo e indipendente criterio del “principio generale di buona fede nel settore di attività del professionista” rappresenta un criterio idoneo a imporre anche comportamenti che,
295 296
BRECCIA, Le obbligazioni, Milano, 1991, p. 478. PARTISANI, sub art. 20, in Codice del Consumo ipertestuale, Torino, 2008, p. 84.
147
potenzialmente, sono diversi da tutte le pratiche di mercato esistenti, ma conformi a un dovere di solidarietà verso il consumatore297. Il richiamo al principio di buona fede è sicuramente stato fatto dal legislatore europeo in quanto “principio pervasivo in tutti gli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale”, non limitato alla disciplina delle obbligazioni e idoneo a fondare specifici obblighi di comportamento (custodia, informazione, protezione), sulla base del contatto sociale tra professionisti e consumatori298 che va, quindi, ben oltre il rispetto delle best practices. L’espressione “principio generale di buona fede nel settore di attività professionale” deve, pertanto, essere intesa nel senso che il principio generale di buona fede deve avere una portata generale e comune a tutti i mercati, mentre il riferimento al settore di attività servirebbe solo a declinare i doveri di custodia, informazione e protezione adeguandoli alle specifiche aspettative dei consumatori nei diversi mercati e settori economici. Il riferimento al settore rappresenterebbe, infatti, un implicito rinvio alle regole deontologiche interne, elaborate ed accettate dagli addetti dello stesso settore, che però cadrebbero in caso di conflitto con le norme di legge a tutela del consumatore299. Secondo l’interpretazione di diligenza professionale sopra riportata, quindi, le pratiche commerciali sleali si distinguerebbero: (i)
pratiche commerciali contrarie a buona fede;
(ii)
pratiche commerciali contrarie ai parametri di onestà di mercato;
LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 49. 298 RANIERI, Il principio generale di buona fede, in CASTRONOVO – MAZZAMUTO (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, II, pp. 495 e ss. 299 In materia di pubblicità comparativa, la giurisprudenza europea aveva affermato che le regole deontologiche devono cedere in caso di conflitto con specifiche norme di legge (Trib. I grado CE, 28 marzo 2001, T – 144/99), Istituto dei mandatari abilitati presso l’Ufficio europeo dei brevetti. 297
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(iii)
pratiche commerciali colpose, ovvero poste in essere senza la dovuta diligenza professionale e solo queste sarebbero sanzionabili con ammende o con il risarcimento del danno300.
Tale interpretazione è stata, però, oggetto di numerose critiche che ne hanno contestato la fondatezza, ritenendo la medesima non coerente con il dettato normativo di cui alla Direttiva. Secondo un diverso orientamento interpretativo, infatti, il riferimento fatto dal legislatore europeo alla diligenza professionale sarebbe in realtà improprio e comunque non riconducibile alla nozione di diligenza nota nell’ambito dell’adempimento dell’obbligazioni o di illecito civile301. In questo senso, quindi, la nozione di diligenza data dal legislatore europeo non dovrebbero in alcun modo essere intesa come parametro di valutazione dell’esattezza dell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale assunte nei confronti di consumatori, né con il livello di prudenza e perizia, la cui mancata adozione consente di qualificare come colposa una condotta di un soggetto che con un proprio comportamento cagioni ad altri un danno ingiusto302. Quella di “diligenza professionale” sarebbe, infatti, come sopra anticipato, una nozione specificamente propria della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, una nozione dotata di piena autonomia rispetto alla nozione civilistica di diligenza (nell’adempimento delle obbligazioni) e di colpa (nell’illecito civile)303. Le regole della diligenza professionale sarebbero, così, essenzialmente, regole oggettive di comportamento corrispondenti ad un determinato grado di conoscenze LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 48. 301 Tale principio è consolidato in sede di Consiglio di Stato che ha specificato che la nozione di diligenza professionale assume rilievo specifico nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e si differenzia rispetto alla nozione civilistica di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni e di colpa nell’ambito dell’illecito aquiliano, Cons. di Stato, 31 gennaio 2011, n. 720. Si veda anche sull’argomento, DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 122. 302 Tale tesi è particolarmente sostenuta dalla dottrina tedesca. Si veda, in particolare, KÖHLER - LETTLE, Das geltende europäische Lauterkeitsrecht, der Vorschlag für eine Richtlinie über unlautere Geschäftspraktiken und die UWG-Reform, in Wettbewerb in Recht und Praxis, 2005, p. 1036; SEICHTER, Der Umsetzungsbedarf der Richtlinie über unlautere Geschäftspraktiken, in Wettbewerb in Recht und Praxis, 2005, p. 1090. 303 Tale principio è stato esplicitato nell’ordinamento italiano dai giudici del Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 31 gennaio 2011, n. 720. 300
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specialistiche, di cura e d’attenzione (alla sfera degli interessi patrimoniali dei consumatori e primariamente all’interesse dei consumatori ad assumere “decisioni di natura commerciale” consapevoli ed informate) che il professionista è tenuto ad osservare nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori. Il criterio della diligenza professionale di cui alla disciplina delle pratiche commerciali sleali sarebbe, quindi, del tutto autonomo e non sarebbe riconducibile ai concetti noti nella tradizione giuridica continentale e sviluppati, come visto, nell’ambito della responsabilità contrattuale e civile. Quale debba essere in concreto il livello che possa e debba considerarsi dovuto per far sì che una pratica commerciale possa essere considerata leale è una questione che va risolta, caso per caso, tenendo conto delle specifiche peculiarità della singola fattispecie, e in particolare della natura dell’attività esercitata dal professionista304. Dal dato testuale emerge, quindi, che il legislatore europeo ha inteso imporre a tutti i professionisti che operano all’interno del mercato unico un parametro di diligenza da valutare con criteri oggettivi di tipicità sociale, escludendo ogni rilevanza di criteri di diligentia quam in suis, quella con la quale si curano i propri affari, o comunque non fondati su parametri professionali305. La diligenza esprime in questo modo la misura dell’impegno richiesto al professionista nel rispettare certe regole, ai fini del giudizio di colpevolezza, senza però dire come tali regole debbano essere individuate306. La contrarietà della condotta del professionista alla diligenza professionale non dovrà essere oggetto da parte del consumatore di prova specifica in sede di accertamento, ma sarà il professionista accusato di avere posto in essere una pratica commerciale sleale a dover dare la prova di avere utilizzato la competenza e l’attenzione che il consumatore poteva ragionevolmente attendersi.
DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 151. 305 LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 46. 306 Cfr., TINA, L’esonero da responsabilità degli amministratori di s.p.a., Milano, 2008, pp. 25 e ss. 304
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Generalmente, la nozione di diligenza è abbinata a quella di perizia, individuati così come criteri paralleli per la valutazione della colpevolezza di una determinata condotta e utilizzati in una sorta di endiadi; più di frequente, invece, la perizia è parte integrante dell’obbligo di diligenza, che impone al professionista di agire in modo informato307. Di tale nozione diligenza-perizia, il legislatore europeo ha tenuto conto nel momento in cui ha delineato la disciplina in questione. Anche se, perizia e diligenza sono due concetti dal contenuto non sovrapponibili tra loro, in quanto, la prima si riferisce al dovere professionale di preparazione e aggiornamento, proporzionati alla prestazione da compiere e, quindi, in altre parole, alla capacità di individuare in modo efficiente la soluzione tecnica dei problemi da affrontare; la seconda, invece, si riferisce all’impegno profuso nell’attuazione concreta di tali soluzioni. Può essere, quindi, in colpa sia il professionista espertissimo che non esegue la propria prestazione con diligenza, con scarsa attenzione, o ad esempio ricorrendo a collaboratori inadeguati; sia il professionista diligentissimo che, però, utilizzi tecniche ormai superate o comunque non appropriate al caso, esponendo così il consumatore a costi e rischi, in realtà, evitabili. Il criterio della diligenza professionale, in senso proprio, ha quindi un contenuto preciso, ma che rileva ex se soltanto ai fini del giudizio di colpevolezza del professionista e non anche del giudizio di slealtà, e quindi di antigiuridicità, della pratica, che costituisce fondamento della sanzione inibitoria. Stando al testo della Direttiva, infatti, la violazione di tale obbligo di diligenza ha rilievo soltanto, in ogni caso, ai fini del giudizio di colpevolezza, necessario solo per il risarcimento del danno subito e per l’irrogazione delle eventuali sanzioni, essendo lo stesso un requisito necessario, ma non essenziale, per la configurazione di una pratica commerciale sleale, ma solo della fattispecie della pratica commerciale scorretta colpevole. Si vedano al riguardo: Trib. Modena, 25 ottobre 2007, in Banche Dati Giuridiche Infoutet; Cass. Civ., sez. III, 16 febbraio 2001, n. 2335, in Resp. Civ. prev., 2001, p. 580; Trib. Milano, 10 febbraio 2000, in Giur. Comm., 2001, II, p. 326; 307
151
Il professionista non potrà, infatti, eccepire a sua discolpa né la propria disinformazione, né le proprie personali abitudini e risponderà sempre delle “disfunzioni imputabili alla cattiva organizzazione aziendale concepita in senso ampio (ausiliari esterni, fornitori, coadiutori) e risponde già nelle fasi preparatorie”308. Rispetto alle “pratiche di mercato oneste” e alla “buona fede nel settore professionale”, pare potersi condividere l’opinione di chi consideri le pratiche disoneste e quelle contrarie al principio di buona fede vietate di per sé, a prescindere dal controllo sulla diligenza del relativo comportamento309. Se così non fosse, infatti, e si volesse interpretare letteralmente l’art. 5, si arriverebbe all’assurdo
paradosso
che
il
criterio
della
diligenza
sarebbe utilizzabile
esclusivamente per le pratiche oneste e conformi al principio di buona fede, mentre quelle disoneste e attuate in mala fede sarebbero fuori dall’ambito di applicazione della Direttiva, cosa che evidentemente non può essere. Non pare neanche condivisibile poter ritenere che le “pratiche di mercato oneste” e “buona fede” siano soltanto dei parametri da utilizzare per individuare il livello di competenza, cura e attenzione che si può attendere da un professionista310, in quanto, di fatto, si tradurrebbero in una mera riproposizioni di principi già insiti nel concetto stesso di diligenza professionale. L’indicazione data dal legislatore europeo nell’individuare i criteri per stabilire quali pratiche siano da considerarsi disoneste o contrarie a buona fede, e come tali vietate, è di fatto abbastanza netta, nella logica di compromesso sopra descritta, ed è orientata a non imporre ai professionisti standard di comportamento troppo severi. Il riferimento, infatti, al settore di attività nel rispetto del principio generale di buona fede potrebbe essere non altro che un modo per poter fare riferimento alle pratiche correnti in quel determinato settore, quindi, condotte tipiche del professionista e di fatto non eteronomamente individuate e imposte.
BRECCIA, Le obbligazioni, Milano, 1991, p. 478. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Attuazione e impatto sistematico della direttiva 2005/29/Ce, Padova, 2008, p. 48. 310 Di tale opinione è, invece, DE CRISTOFARO, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 121. 308 309
152
In realtà, il testo della Direttiva fa riferimento al principio generale di buona fede, individuato come un criterio aggiuntivo a quello delle “pratiche di mercato oneste” e come tale è idoneo a imporre anche comportamenti diversi dalle pratiche correnti del mercato, ma conformi al dovere di solidarietà verso il consumatore. Non può, infatti, non potersi riconoscere l’esistenza di un principio minimo di doverosità universale di cura di interessi altrui in occasione di contatto sociale, con il limite costituito dall’apprezzabilità del sacrificio dell’interesse proprio, ma non oltre311. Il principio di buona fede richiamato dal legislatore europeo e pervasivo in tutti gli ordinamenti giuridici dei paesi di civil law non può essere considerato limitato all’esecuzione delle obbligazioni, ma deve intendersi esteso e insito nell’intera condotta del professionista e idoneo a fondare specifici obblighi di comportamento, come la custodia, l’informazione e la protezione, proprio sulla base del contatto sociale che si instaura tra il consumatore e lo stesso professionista312. Un criterio siffatto evidentemente va oltre il rispetto della best practice e impone al professionista obblighi di condotta ulteriori, così da imporre standard di comportamento più elevati e rispettosi degli interessi dei consumatori, cosa che, spesso, non accade nella prassi. Tali principi rappresentano evidentemente criteri valutativi oggettivi ed esterni dei comportamenti delle imprese volti a sollecitare condotte leali nei confronti dei consumatori. Del resto, la giurisprudenza europea, in materia di concorrenza, ha già affermato che le regole deontologiche dei professionisti cadono dinnanzi alle regole legali in caso di conflitto313. Ciò legittima a sostenere che il riferimento al “settore di attività del professionista” non può portare a far prevalere regole deontologiche interne rispetto ai criteri fissati dal legislatore che, in ogni caso, prevarranno al fine di tutelare la libertà di scelta dei consumatori.
BIANCA, Diritto civile, IV, Milano, 1990, p. 89. RANIERI, Il principio generale di buona fede, in CASTRONUOVO – MAZZAMUTO (a cura), Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, II, p. 495 e ss. 313 Tribunale I grado CE, 28 marzo 2001, T-144/99, curia.europa.eu. 311 312
153
Ai fini della puntale determinazione del livello di competenza e attenzione dovuto dal professionista, la concretizzazione dei contenuti di tale nozione avviene poi attraverso l’utilizzazione di un unico parametro, individuato nei principi di correttezza e di buona fede. Per evitare che una determinata pratica commerciale possa essere valutata contraria alla diligenza professionale, il professionista dovrà adottare tutte le cautele, le misure di salvaguardia, la cura e la competenza che nel suo settore di competenza è ragionevole attendersi alla luce dei principi generali di correttezza e di buona fede. La diligenza professionale non va, quindi, sovrapposta né confusa con i principi di correttezza e di buona fede che costituiscono esclusivamente i parametri da applicare nel caso di specie per individuare il livello di competenza, di cura e attenzione che può considerarsi, mediamente, dovuto nel settore di attività del professionista e che ci si può di conseguenza attendere venga rispettato dal professionista nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori. Proprio il mancato rispetto di tale livello di competenza, cura e attenzione qualifica una pratica come contraria alla diligenza professionale. La buona fede intesa dal legislatore è, infatti, da intendersi in senso oggettivo ed è la stessa buona fede che governa il controllo contenutistico di vessatori età delle clausole dei contratti conclusi tra consumatori e professionisti. Nel parere reso in prima lettura dal Parlamento europeo sulla proposta di Direttiva presentata dalla Commissione si faceva espressamente richiamo alla “buona fede così come richiamata nella direttiva 93/13/Cee del Consiglio del 5 aprile 1993” e nonostante tale esplicito riferimento venne mene, il Consiglio stesso, nella motivazione della posizione comune, chiarì che gli emendamenti proposti dal Parlamento “sono stati integrati nella nuova formulazione della lettera h)”. Tale comunanza di principi è funzionale del resto a un sistema unico di tutela dei consumatori, un sistema che d’ora in poi è fondato su due fondamentali divieti imposti ai professionisti nei confronti dei consumatori: il divieto di inserire unilateralmente e senza una specifica trattativa individuale clausole vessatorie nei 154
regolamenti negoziali destinati a disciplinare i rapporti contrattuali intercorrenti con i consumatori e il divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali.
6.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLE LEGISLAZIONI DEGLI STATI MEMBRI: ESPERIENZE A CONFRONTO
Proprio con riferimento alla nozione di “diligenza professionale” e al ruolo della relativa nozione nell’ambito della definizione generale di pratica commerciale sleale, come sopra descritta, sono riscontrabili delle divergenze nelle normative nazionale di attuazione della Direttiva anche in altri Stati membri, oltre all’Italia. In Belgio314 e in Austria315, ad esempio, non si fa alcun riferimento al principio di buona fede e vengono richiamati soltanto gli “usi onesti in materia commerciale”. In Irlanda, invece, non si fa riferimento alle pratiche di mercato oneste, ma al contempo si riconnette la contrarietà di una pratica commerciale alla diligenza professionale alla violazione del principio di buona fede ossia alla mancata adozione del livello di competenza e attenzione dovuta dal professionista316. Il legislatore francese ha, a sua volta, preferito non inserire una definizione di “diligenza professionale” nel Code de la consommation. In Inghilterra, invece, il legislatore ha riproposto nelle CPTUR la medesima definizione presente nella Direttiva, senza alcuna modifica sostanziale, definendo, quindi, la “professional diligence” come “the standard of special skill and care which a trader may reasonably be expected to exercise towards consumers which is commensurate with either (a) honest market practice in the trader’s field of activity, or (b) the general principle of good faith in the trader’s field of activity” (art. 2). Anche nell’ambito del diritto inglese, quindi, la professional diligence che regola i rapporti tra professionisti e consumatori appare essere una naturale evoluzione del duty of care che ha caratterizzato l’esperienza di common law e le considerazioni svolte rispetto al diritto europeo sono valide anche per essa.
Art. 93, n. 8 della Loi sur le pratiques du commerce et sur l’information et la protection du consommateur. § 1, comma 4, n. 8 della legge sulla concorrenza sleale (Gesetz über unlauteren Wettbewerb). 316 Section 41 (2) del Consumer Protection Act del 2007. 314 315
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Deve al riguardo considerarsi che, ad oggi, gli interventi nel settore delle pratiche commerciali sleali in Inghilterra sono stati, però, alquanto limitati e, in nessun caso, le competenti autorità sono intervenute per fornire ulteriori specificazioni di tale nozione. In Italia, invece, la definizione proposta di diligenza professionale è, in parte, formalmente difforme da quella prevista a livello europeo. Nel Codice del consumo, infatti, per diligenza professionale si intende “il normale grado della specifica competenza e attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti” (art. 18, lettera h) del Codice del Consumo). Se il legislatore europeo ha voluto fare riferimento alla competenza e attenzione che si può presumere, da parte di un terzo estraneo e neutrale, che il professionista eserciti nei confronti dei consumatore, quello italiano ha, invece, fatto riferimento alle ragionevoli aspettative dei consumatori per determinare il “normale” grado di competenza e attenzione attesa da parte del professionista. Si consideri che l’aggettivo “normale” è presente soltanto nella versione italiana del testo della Direttiva ed è stato poi ripreso anche nel provvedimento che ha recepito in Italia la disciplina delle pratiche commerciali sleali, anche se tale scelta è alquanto discutibile. La sfumatura di prospettiva nella valutazione può ritenersi, però, soltanto formale, dal momento che da un punto di vista sostanziale appare essere impercettibile. Anche la nozione di diligenza professionale presente nel Codice del consumo può essere letta, infatti, negli stessi termini di neutralità concepiti nella Direttiva, dato che quello che i consumatori possono attendersi, ragionevolmente, coincide con quello che un terzo potrebbe presumere avendo riguardo alla posizione del consumatore medio a cui la pratica è indirizzata317. Ulteriore differenza tra il testo italiano e quello della Direttiva è rappresentato dai parametri rispetto ai quali debbono essere concretizzati i contenuti delle “ragionevoli aspettative”. Nella norma di recepimento italiana è, infatti, sparito sia il riferimento
TROIANO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette, (art. 20, d.lgs. 6.9.2005, n. 206), in CATRICALÀ – TROIANO (a cura di), Codice commentato della concorrenza e del mercato, Torino, 2010, p. 1704. 317
156
alle pratiche oneste, presente nella Direttiva e che pareva ispirato al criterio degli usages honnetes en matière industrielle ou commerciale, di cui all’art. 10 bis della Convenzione di Unione di Parigi del 1954318, sia al “principio generale di buona fede”. Si trattava di un parametro che per la sua genericità aveva dato adito a non poche incertezze interpretative, prestandosi, alternativamente o ad avallare un pericoloso appiattimento del giudizio di slealtà sulla conformità della pratica alle prassi di settore oppure a trasformarsi in un’indicazione superflua e ridondante rispetto al poi richiamato principio della buona fede. Tuttavia, il suo richiamo pareva essere coerente, anche da un punto di vista sistematico, proprio con i principi di correttezza e buona fede richiamati dalla stessa nozione di diligenza professionale. Nell’ordinamento italiano esiste, infatti, come visto, il diritto fondamentale dei consumatori e degli utenti all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà e il porre in essere una pratica commerciale sleale (o scorretta, come viene definita nell’ordinamento italiano) porta alla violazione di siffatto diritto fondamentale (art. 2, comma 2, lettera c-bis) del Codice del Consumo). La sostanziale equivalenza tra correttezza, da un lato, e lealtà e buona fede, dall’altro, pone quindi la disciplina delle pratiche commerciali sleali in stretto rapporto con le disposizioni codicistiche che impongono un generale dovere di correttezza nel rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.) o il dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase precontrattuale (art. 1337 cod. civ.), in quella di pendenza della condizione (art. 1358 cod. civ.), nell’interpretazione (art. 1366 cod. civ.) e nell’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).
MELI, voce Pubblicità Ingannevole, in Enciclopedia giuridica Treccani.Aggiornamento, Roma, 2006, p. 7, il quale si esprime, però, in termini critici rispetto a tale scelta del legislatore europeo di fare riferimento a un parametro valutativo tipicamente corporativo. Deve, però, anche considerarsi che nella Direttiva non si fa riferimento agli “usi”, come nella convenzione di Unione di Parigi, ma alle “pratiche” e il citato art. 10-bis non è mai citato dal legislatore europeo e questo è probabilmente stato fatto scientemente. Deve in ogni caso escludersi che le “pratiche oneste di mercato” possano essere identificate puramente con le condotte di fatto usualmente tenute dai professionisti di un determinato settore, dovendo piuttosto ravvisarsi in essere l’insieme dei comportamenti che dovrebbero essere tenuti dai professionisti, la cui onestà viene parametrata rispetto a regole e precetto derivanti dall’ordinamento giuridico e non già intesa nel senso etico della morale del professionista. 318
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Da un punto di vista prettamente formale, le differenze sopra riportate delle legislazioni nazionali rispetto alla nozione di diligenza professionale nell’ambito delle pratiche commerciali non possono che lasciare alquanto perplessi, dal momento che proprio sulla definizione di pratica commerciale sleale si dovrebbe fondare l’armonizzazione completa dei sistemi normativi degli Stati membri perseguita dal legislatore europeo, tanto da ritenere “necessario sostituire le clausole generali e i principi giuridici divergenti attualmente in vigore negli Stati membri” (considerando n. 13 della Direttiva). Se tali differenze vengono, però, considerate su di un piano sostanziale, si può sostenere che la definizione di diligenza professionale di cui all’art. 2, lettera h) della Direttiva è pur sempre una nozione generale rispetto alla quale è opportuno concedere ragionevoli margini di discrezionalità ai legislatori nazionali319, con l’obbligo degli interpreti nazionali di interpretare il diritto interno in maniera conforme a quello europeo. Del resto, ordinamenti come quello italiano e quello inglese si sono trovati ad essere coerenti con l’impostazione data dal legislatore europeo nella disciplina delle pratiche commerciali sleali che intendono tutelare il consumatore, non solo nel momento in cui il rapporto contrattuale è sorto, ma anche prima e dopo la conclusione del contratto, perché anche in tali fasi la condotta del consumatore può essere negativamente influenzata da condotte sleali dei professionisti. Tanto il duty of care dell’esperienza di common law, quanto l’accezione codicistica di diligenza (e negligenza) dell’esperienza italiana, del resto, erano nozioni generalmente già applicabili nei rapporti intersoggettivi, seppure finalizzata ad altre esigenze di tutela. Ed è proprio venendo incontro alle nuove richieste di tutele di più interessi connessi al buon funzionamento del mercato, che il legislatore europeo ha inteso ricorrere alla nozione di diligenza, in una veste nuova e moderna, consapevole del fatto che si tratta sì di un criterio astratto, in quanto obiettivo e generale, ma anche relativo, dal momento che ha la capacità di adattarsi al variare delle situazioni.
DE CRISTOFARO, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione della “scorrettezza”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, p. 149. 319
158
Il mutamento di prospettiva è significativo e percepibile, tanto da poter concludere che a seguito del recepimento della Direttiva negli ordinamenti nazionali è stato introdotta un nuova nozione, quella di diligenza professionale, appunto, che si affianca alle nozioni di diligenza già presenti. Si è, però, esclusa una corrispondenza automatica tra i due ordini di valutazioni, dato che, se è vero che è comune la nozione di buona fede, non del tutto coincidenti sono i criteri alla stregua dei quali la violazione deve essere accertata. La slealtà di una pratica commerciale deve essere valutata, infatti, tenendo conto dell’idoneità della medesima a falsare il comportamento, non di un singolo consumatore - a cui si fa, invece, riferimento nei rapporti contrattuali tout court – ma al consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo di consumatori. Ne consegue, ed è del tutto possibile che accada, che una medesima condotta possa configurarsi come contraria a buona fede nel rapporto che lega il professionista a un singolo consumatore, mentre non possa qualificarsi scorretta avuto riguardo alle caratteristiche mediamente apprezzabili della categoria dei consumatori cui quella pratica è rivolta. Viceversa, una pratica astrattamente scorretta per una data categoria di consumatori può non esserlo, in concreto, in relazione alle qualità del singolo consumatore con cui il professionista abbia contrattato o stia contrattando e per questo non possa dar luogo a conseguenze ulteriori sul piano prettamente risarcitorio. Ferme le considerazioni svolte, per poter garantire l’obiettivo dell’armonizzazione completa delle legislazione degli Stati membri, in ragione delle differenze testuali sopra rappresentate in ordine alla definizione di diligenza professionale di cui alla Direttiva, ai fini della concretizzazione del livello di speciale competenza e attenzione dovuto dal professionista che pone in essere pratiche commerciali, gli interpreti non potranno che provvedere ad integrare in via interpretativa la formulazione testuale, facendo riferimento ai principi individuati dal legislatore europeo prima e dalla Corte di Giustizia poi, anche se non espressamente contemplati dalla normativa nazionale di recepimento. 159
CAPITOLO IV LA CONCRETIZZAZIONE DEL CANONE DELLA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLE PRATICHE COMMERCIALI: VERSO IL RITORNO DEGLI ORDINAMENTI APERTI? 1. LA PRATICA COMMERCIALE: DISCIPLINA DELL’ATTO O DELL’ATTIVITÀ - 2. IL GIUDIZIO DI CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE
PRATICHE
- 3. LA
CONCRETIZZAZIONE DEL CANONE DI DILIGENZA PROFESSIONALE
COMMERCIALI CONTRARIE ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE
- 4. LA
CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA
PROFESSIONALE NELL’OSTRUZIONISMO AL PASSAGGIO AD ALTRO PROFESSIONISTA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’ACQUISTO DI PRODOTTI ON LINE
- 6. LA
- 3.1.
- 5. LA
CONTRARIETÀ ALLA
DILIGENZA PROFESSIONALE NEL
SETTORE DEI PRODOTTI E INTEGRATORI ALIMENTARI - 7. LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’AMBITO DEI SETTORI REGOLATI - 7.1. LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL SETTORE BANCARIO - 7.2. LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL MERCATO ASSICURATIVO
* * * 1.
LA PRATICA COMMERCIALE: DISCIPLINA DELL’ATTO O DELL’ATTIVITÀ
Sin dall’entrata in vigore della disciplina delle pratiche commercialo sleali, gli interpreti si sono trovati a dover affrontare la questione se il fatto costitutivo di una pratica commerciale possa consistere in un comportamento episodico ed occasionale del professionista, oppure debba acquisire la consistenza di un comportamento ripetuto e costante e, in tale seconda ipotesi, quale sia e come debba essere misurato il tasso di ripetitività e di costanza del comportamento medesimo320. Nell’ambito dell’ordinamento italiano, è stato chiarito che nel caso le forme di abuso si manifestino con carattere di sporadicità, ciò “escluderebbe – a fronte dell’imponente massa dei “contatti” attivati nei confronti della clientela – che si possa essere in presenza di una vera e propria “pratica” commercial”321. Tuttavia, “la significatività statistica del dato non assurge ad elemento legittimante escludente la scorrettezza della pratica commerciale”, anzi, “la rilevanza numerica del dato può assumere significatività quale elemento aggravante della condotta”322; ciò anche in SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali scorrette: disciplina dell’atto o dell’attività?, in Federalismi.it, 19, 2010, www.federalismi.it. 321 TAR Lazio, 8 aprile 2009, n. 3722, p. 32. 322 TAR Lazio, 8 aprile 2009, n. 3722, p. 32-33. 320
160
ragione del carattere di mero pericolo dell’illecito colpito dalle disposizioni in materia di pratiche commerciali sleali “di talché il concreto atteggiarsi della relativa casistica viene a perdere (se non nei limiti da ultimo indicati), giuridica significatività”323. In un altro caso, relativo a presunte anomalie, ritardi e comportamenti impeditivi posti in essere da una banca in sede di applicazione della disciplina relativa alla c.d. portabilità dei mutui, però, l’orientamento seguito dai giudici italiani è stato diverso324. Nel caso in questione, l’inadeguatezza e la slealtà della condotta del professionista in relazione all’attuazione della citata disciplina in materia di surrogazione del mutuante era emersa attraverso il sistema del c.d. mistery shopping, ossia una tecnica diretta alla rilevazione in maniera anonima, per mezzo di consumatori appositamente istruiti e “assoldati” dalle associazioni dei consumatori (i c.d. mistery shoppers), ai fini di una valutazione, della qualità dei servizi e dei prodotti, dell’idoneità delle procedure, dei comportamenti dei dipendenti, etc. Di tali rilevazioni, pare che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato si fosse servita in maniera acritica, accertando così la presenza diffusa di pratiche commerciali sleali nel settore bancario325. Per questo, in sede di ricorso, il giudice amministrativo ha rilevato che “la mancata dimostrazione circa l’effettiva diffusione (sotto i profili quantitativo, geografico, della ripetizione in un arco temporale significativo, nonché della identità configurativa) di taluni comportamenti, pur effettivamente osservati in singole filiali, esclude che essi possano ex se assurgere al rilievo di “pratica”, ovvero di una condotta ripetutamente posta in essere dall’operatore commerciale con carattere di apprezzabile omogeneità”. Tale principio è stato successivamente confermato dalla giurisprudenza che ha affermato che in una comunicazione isolata di un professionista al consumatore, in
TAR Lazio, 8 aprile 2009, n. 3722, p. 33. TAR Lazio, 6 aprile 2009, n. 3692. 325 Le banche oggetto di indagine da parte delle associazioni dei consumatori sono state diverse, tanto da aver portato all’avvio di altrettanti procedimenti presso l’AGCM, che hanno portato all’erogazioni di pesanti sanzioni nei loro confronti, tutte impugnate. Le impugnative sono state tutte decise dal Tar del Lazio, con le sentenze n. 3692/2009, n. 3683/2009, n. 3684/2009, n. 3685/2009, n. 3687/2009, n. 3688/2009, n. 3689/2009, n. 3691/2009, tutte coeve e omogenee. 323 324
161
assenza di elementi probatori sulla reiterazione della condotta posta in essere dal professionista, non può ravvisarsi una pratica commerciale sleale326. Gli esiti interpretativi a cui giungono le citate decisioni in merito alla delimitazione della nozione di “pratica commerciale” non paiono essere collimanti. Di fronte a tale questione, i dati testuali e sistematici della disciplina sulle pratiche commerciali sleali paiono poter, però, suffragare l’interpretazione secondo cui un atto episodico ed isolato posto in essere da un professionista nei confronti di un consumatore non integra gli estremi di una pratica commerciale, così come intesa dal legislatore europeo. Tale principio ha trovato conferma anche nel diritto inglese, in cui è stato espressamente previsto che la disciplina delle pratiche commerciali sleali non attribuisce ai consumatori alcun diritto soggettivo o azione diretta nei confronti dei professionisti in relazione alla singola pratica commerciale posta in essere327. Salvi casi particolari, ed espressamente previsti dal legislatore, come il caso delle forniture non richieste da ritenersi sempre scorrette, la disciplina in questione deve, infatti, essere considerata come una disciplina dell’attività e non del singolo atto in cui l’attività si scompone e si articola, ovvero come una disciplina dell’impresa, piuttosto che del singolo contratto. La slealtà di una pratica commerciale deriva, infatti, dalla violazione di specifici canoni e regole propri dell’agire imprenditoriale, piuttosto che dall’inosservanza di obblighi contrattuali gravanti sul professionista328. Tale orientamento non è contraddetto dal fatto che la pratica commerciale sleale rappresenti un illecito, non già di danno, ma di mero pericolo329, dal momento che l’atto prodromico o preparatorio è suscettibile di assumere rilievo in quanto indizio
TAR Lazio, 19 maggio 2010, n. 12281. McGuffick v. Royal Bank of Scotland Plc, [2009] EWHC 2386 del 6 ottobre 2009. 328 SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali scorrette: disciplina dell’atto o dell’attività?, in Federalismi.it, 19, 2010, www.federalismi.it. 329 LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi in materia di pratiche commerciali scorrette, in Giurisprudenza Commerciale, 2009, II, pp. 880 e ss. 326 327
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o segnale di una pratica, ovvero di un comportamento munito di attitudine a ripetersi nel tempo in una serie indefinita di casi, seppure allo stato latente330. Del resto, i principi propri della dottrina e della giurisprudenza in materia di concorrenza sleale, secondo cui la slealtà “non postula una pluralità di atti, potendo sussistere anche in presenza di un solo atto” non paiono esportabili alla disciplina delle pratiche commerciali sleali331. Ciò è giustificato, dalla diversa prospettiva che la disciplina della concorrenza sleale assume, ossia quella dei rapporti bilaterali tra professionisti concorrenti e della repressione di singoli fatti idonei a danneggiare l’azienda concorrente. La disciplina delle pratiche commerciali sleali è, invece, diretta a tutelare la libertà di scelta e di autodeterminazione dei consumatori, impedendo che gli stessi possano prendere decisioni commerciali che non avrebbero altrimenti preso se la condotta del professionista fosse stata leale. La ratio della Direttiva è rivolta, infatti, alla correzione di distorsioni del mercato, costituite da comportamenti lesivi, come detto, della libertà di scelta dei consumatori
che
devono,
comunque,
raggiungere
un
livello
socialmente
apprezzabile, superando una sorta di soglia de minimis, per giustificare l’applicazione del divieto332. Il minimo comun denominatore della fattispecie generale e delle diverse fattispecie previste e l’elemento necessario a qualificare in termini di slealtà una determinata pratica è rappresentato dall’attitudine del comportamento tenuto dal professionista ad alterare ed influenzare in maniera rilevante il comportamento economico del consumatore medio333.
SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali scorrette: disciplina dell’atto o dell’attività?, in Federalismi.it, 19, 2010, www.federalismi.it. 331 Cfr. MARCHETTI – UBERTAZZI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2007, art. 2598, XIX, pp. 2078 e ss. In giurisprudenza, si vedano, ex multiis, Cass., 21 febbraio 1990, n. 130, in GADI, 33; Cass., 10 novembre 1994, n. 9387, in Giustizia Civile, 1995, I, 105; Cass., 30 maggio 2007, n. 12681, in Mass. Giur. It., 2007; Tribunale di Salerno, 13 febbraio 2007, in Redazione Giuffrè, 2007. 332 LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi in materia di pratiche commerciali scorrette, in Giurisprudenza Commerciale, 2009, II, p. 881; SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali scorrette: disciplina dell’atto o dell’attività?, in Federalismi.it, 19, 2010, www.federalismi.it. 333 DE CRISTOFARO, in DE CRISTOFARO – ZACCARIA (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, sub art. 20, Padova, 2010, pp. 144-145. 330
163
Per questo sembra difficile che siffatta influenza possa derivare da un comportamento del tutto occasionale o addirittura eccezionale334, ma si ritiene possa sussistere quando sia accertato che un determinato comportamento tenuto nei confronti di una pluralità di consumatori sia idoneo a pregiudicare interessi collettivi o diffusi degli stessi consumatori. Dalle considerazioni sin qui svolte non può, tuttavia, desumersi, a priori, l’irrilevanza assoluta delle condotte isolate o dei comportamenti non seguiti da altri dello stesso genere da parte del professionista. Innanzitutto, il comportamento occasionale o addirittura eccezionale, laddove arrechi un danno al consumatore ovvero integri gli estremi di un inadempimento contrattuale o configuri una responsabilità pre-contrattuale, potrà essere perseguito e sanzionato sulla base delle “disposizioni comunitarie e nazionali relative al diritto contrattuale, ai diritti di proprietà industriale, agli aspetti sanitari e di sicurezza dei prodotti” (considerando n. 9 della Direttiva). L’applicazione di tali disposizioni non è, infatti, in alcun modo preclusa, né pregiudicata dalle norme sulle pratiche commerciali sleali, come espressamente previsto dal legislatore europeo. Inoltre, la dottrina e la giurisprudenza335 formatasi sul punto hanno avuto modo di affermare che quando il fatto, sebbene non abbia raggiunto le dimensioni temporali e spaziali di una “pratica commerciale”, come sopra intesa, non costituisca l’anomalia imprevedibile e incontrollabile rispetto a un’organizzazione per il resto funzionante e adeguata rispetto agli interessi dei consumatori, ma esprima mancanze e difetti dell’organizzazione stessa, la disciplina delle pratiche commerciali sleali troverà senza dubbio applicazione. La ragione è che le caratteristiche dell’organizzazione rendono del tutto verosimile e attendibile la previsione che quel fatto potenzialmente dannoso per i consumatori
LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi in materia di pratiche commerciali scorrette, in Giurisprudenza Commerciale, 2009, II, p. 881; AUTERI, Introduzione: un nuovo diritto della concorrenza sleale, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, pp. 11-12. 335 TAR Lazio, 19 maggio 2010, n. 12283. 334
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potrà ripetersi in numero indeterminato e potenzialmente illimitato di casi, sino a che dette caratteristiche organizzative non verranno modificate dal professionista. Questo è il caso, ad esempio, di una banca che non si sia dotata di un sistema di monitoraggio idoneo a consentire il puntuale adempimento degli obblighi di legge di
rilascio
della
dell’obbligazione
quietanza garantita
e
al
consumatore
della
al
trasmissione
momento
dell’estinzione
della comunicazione
alla
conservatoria di registri immobiliare. In questi casi, la lacuna organizzativa, da un lato, rileva come indice di slealtà, in quanto violazione del canone di diligenza professionale, che impone al professionista di avere un assetto organizzativo adeguato all’osservanza degli obblighi di legge e comporta un pregiudizio per il consumatore in quanto lede l’interesse di quest’ultimo a che l’estinzione dell’ipoteca già avvenuta in diritto risulti anche sotto il profilo fattuale e probatorio; dall’atro lato, rende sostanzialmente superflua la prova della reiterazione dell’inadempimento, essendo la medesima conseguenza diretta e immediata del problema organizzativo da cui scaturisce l’inadempimento336.
Contraria alla diligenza professionale è la strutturale inadeguatezza delle misure in astratto e in concreto predisposte dal professionista al fine di informare e gestire situazioni di crisi rispetto alla proprie competenze. Di particolare rilievo, in tal senso, è quanto accaduto in Italia tra le giornate del 17 e 18 dicembre 2010, sul tratto fiorentino dell’autostrada A1, in occasione di un’intensa nevicata. In questa situazione il concessionario autostradale nazionale ha mostrato rilevanti inefficienze nella gestione sia delle informazioni fornite alla clientela in transito, in avvicinamento e poi drammaticamente bloccate per ore, sia delle operazioni di prevenzione e successiva gestione della situazione emergenziale creatasi, con gravissimi disagi per gli automobilisti fermi fino anche a trenta ore in una situazione climatica estrema. Nel caso di specie, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha accertato che le informazioni fornite sia attraverso i sistemi informativi presenti su strada, quali i pannelli a messaggio variabile, sia attraverso il servizio radiofonico e di call center, sono risultate non tempestive e incomplete, dal momento che non fornivano informazioni adeguate e corrispondenti alla reale e conosciuta situazione in corso. In questo modo, i consumatori non sono stati posti nelle condizioni di determinare in modo consapevole la scelta del percorso stradale più favorevole e, quindi, se immettersi o meno, uscire o restare nel tratto autostradale congestionato. Tale deficit informativo si è verificato nonostante il professionista disponesse di strumenti di previsione, rilevazione e monitoraggio delle condizioni climatiche e di viabilità diffusi capillarmente sulle tratte autostradali in concessione. L’inadeguatezza della condotta del professionista è stata altresì riscontrata con riguardo alle misure operative concretamente adottate dal professionista che si sono, del pari, rilevate non tempestive e caotiche. Ciò era dovuto non solo ai concreti comportamenti posti in essere dal professionista, ma anche ai protocolli in proposito predisposti dalla società, il cui contenuto si è dimostrato deficitario e non idoneo allo scopo. 336
165
2.
IL GIUDIZIO DI CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE
Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo portano a concludere che la disciplina sulle pratiche commerciali sleali attiva un sindacato sul comportamento del professionista nelle sue relazioni con i consumatori che ha ad oggetto, alternativamente, la verifica della reiterazione nello spazio e nel tempo di determinati atti - tali da farli assurgere allo spessore della pratica - oppure la verifica dell’adeguatezza dell’organizzazione dell’impresa, sul presupposto che l’accertata inadeguatezza della medesima o eventuali lacune organizzative, esime l’interprete da ulteriori indagini circa la reiterazione della condotta, essendo la medesima inevitabile in un siffatto contesto337. Il giudizio di contrarietà alla diligenza professionale non si presenta in molti casi complesso, in quanto, la pratica commerciale, già per le sue caratteristiche obiettive, può apparire strutturalmente diretta a pregiudicare la libertà di scelta e di autodeterminazione del consumatore. Si tratta, in particolare, di pratiche ingannevoli, dove la falsità delle affermazioni o l’omissione di informazioni rilevanti è di tutta evidenza e non necessita di particolari accertamenti. Nei casi, invece, in cui non è possibile argomentare sulla base della sola osservazione oggettiva della pratica, la valutazione della slealtà della condotta diventa più complessa e articolata. Nell’attività interpretativa svolta dalle Autorità nazionali chiamate a valutare le condotte dei professionisti rilevano, quindi, rispetto a ciascuna pratica: a)
l’individuazione di standard di comportamento che appaiono disattesi che è generalmente individuata: (i) in disposizioni giuridiche (es. il diritto di recesso del consumatore dal contratto; la portabilità gratuita dei mutui; la tempistica della cancellazione delle ipoteche o anche gli obblighi giuridici connessi alle modalità di esercizio dell’attività in cui si inserisce la pratica, come quelli all’informazione da fornire al consumatore nel caso di vendite a distanza), (ii) nelle caratteristiche dell’attività esercitata (come quella creditizia, ritenuta di per sé fonte di obblighi speciali di diligenza,
SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali scorrette: disciplina dell’atto o dell’attività?, in Federalismi.it, 19, 2010, www.federalismi.it. 337
166
configurati talvolta come rispondenti ad un dovere di protezione del consumatore) e (iii) nella posizione di fatto rivestita dal professionista nel mercato di riferimento (ovvero se si tratta o meno di operatori di primaria importanza nel loro specifico settore di attività); b)
l’individuazione della specifica negligenza del professionista (un elevato numero di segnalazioni alle Autorità o di reclami al professionista sono in sé idonei a dimostrare la consistenza di una pratica);
c)
l’assenza di cause di giustificazione. Al professionista si riconosce una sorta di responsabilità oggettiva per eventi che avrebbero dovuto essere previsti ed evitati338. È raro, infatti, che le Autorità chiamate a valutare la condotta tenuta dal professionista abbiano riconosciuto ipotesi di forza maggiore, come cause di giustificazione della condotta. Un’ipotesi in tal senso è stata riconosciuta nel caso di fatturazione forfetaria e non a consumo agli utenti di servizio idrico a causa del ritardo con cui la competente autorità aveva approvato l’articolazione tariffaria339.
Solo una accurata applicazione dei principi di cui sopra alle singole fattispecie consente di poter valutare se effettivamente la pratica posta in essere dal professionista possa ritenersi o meno sleale nei confronti del consumatore.
3.
LA CONCRETIZZAZIONE DEL CANONE DI DILIGENZA PROFESSIONALE
Il fatto che la valutazione della slealtà o meno di una pratica commerciale avvenga rispetto all’attività posta in essere dal professionista nel suo relazionarsi con i consumatori può rendere ancora tale disciplina all’apparenza astratta. In realtà, il tutto viene riportato su un piano concreto attraverso l’individuazione delle specifiche condotte da ritenersi compiute dal professionista nel rispetto delle
MELI, “Diligenza professionale”, “consumatore medio” e regole di de minimis nella prassi dell’AGCM e nalla giurisprudenza amministrativa, in MELI – MARANO (a cura di), La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Torino, 2011, p. 8. Si veda anche il caso Office of Fair Trading v. Ashbourne Menagement Services and others, [2011] EWHC 1237 (CH) del 27 maggio 2011 relativamente alla richiesta di pagamenti anticipati da parte del professionista. 339 Provvedimento AGCM Acque potabili siciliane – Fatturazione forfetaria, PS2163/2009. 338
167
norme di diligenza professionale, attraverso appunto il giudizio di contrarietà o meno delle pratiche commerciali a tale principio. È soltanto, infatti, concretizzando il significato di diligenza professionale che si riuscirà anche a dare un risvolto operativo e pratico all’intera disciplina. Per quanto potuto accertare dall’analisi svolta, come si è potuto constatare, la diligenza professionale qui intesa si differenzia rispetto alla nozione tradizionale di diligenza
nell’ambito
delle
obbligazioni
e
della
responsabilità
civile340,
presentandosi come una “sorta di ibrido, tra diligenza professionale in senso civilistico e correttezza professionale”341, anche se non esiste un modello astratto di professionista e dovendosi, quindi, concretizzare tale nozione attraverso le specifiche circostanze del singolo caso e rispetto al settore in cui il professionista opera. Proprio la capacità di tale nozione ad adattarsi a più situazioni e al contempo garantire una armonizzazione a livello di principio sono stati i motivi che hanno spinto, come visto, il legislatore europeo ad avvalersene. A livello sistematico, infatti, l’utilizzo di questa nozione aperta nella formulazione del divieto generale di pratiche commerciali sleali assume importante rilievo per l’inquadramento della disciplina. Al fine di poter attuare rispetto a singole fattispecie, il divieto di pratiche commerciali sleali è, però, necessario che una nozione così aperta venga poi di fatto, come detto, concretizzata. Prima, però, di passare all’analisi dell’esperienza di concretizzazione di tale nozione, si ritiene doveroso considerare se l’attività di concretizzazione da parte degli interpreti sia o meno normativamente guidata, considerata l’elasticità della medesima.
Tale principio è stato esplicitato nell’ordinamento italiano dai giudici del Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 31 gennaio 2011, n. 720. 341 MELI, Le pratiche sleali ingannevoli, in GENOVESE (a cura di), I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, Padova, 2008, p. 98. 340
168
Sicuramente la definizione di diligenza professionale data dall’art. 2, lettera h) della Direttiva che, seppure come visto, non brilla certamente per chiarezza, offre indicazioni ricostruttive sicuramente utili. La prima indicazione è che la diligenza professionale è fondamentalmente “perizia” che include “competenze” e “attenzione”, quali contributi della condotta. La seconda è che il grado di perizia imposto al professionista che si relazione con il consumatore è deficitario se inferiore a quello che ragionevolmente, ossia “motivatamente”342, il consumatore medio può attendersi, tenuto conto dei vincoli economici e delle regole giuridiche che presiedono lo svolgimento dell’attività. Il tutto nel rispetto dei principi di onestà e buona fede. Tale corollario impone, quindi, che nei settori regolati - per quanto si dirà ampiamente in appresso - lo standard di diligenza richiesta al professionista dovrà essere più elevato, dal momento che la specifica regolazione di quel settore rinforza l’aspettativa del consumatore rispetto del grado di competenza e attenzione posta dal professionista. Le considerazioni sino ad ora svolte consentono di poter sostenere che nei rapporti con i consumatori un professionista deve osservare attentamente le norme giuridiche che regolano la propria condotta, in base al parametro della legalità. In caso di settore regolamentato, tale osservanza dovrà intendersi estesa anche alle specifiche disposizioni del settore in cui il professionista opera. Il rispetto di tale specifiche normative non esclude la possibilità di configurare una pratica come sleale, né esonera il professionista dal porre in essere quei comportamenti ulteriori che, pur non espressamente previsti, discendono dall’applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore. In ogni caso, la prova che una determinata condotta sia conforme alla prassi del settore di riferimento del professionista non
GENOVESE, La diligenza professionale, http://aippiit.wordpress.com/category/seminari. 342
Seminario
AIPPI,
17
novembre
2011,
169
esclude la contrarietà della medesima alla diligenza professionale e, di conseguenza, la sua slealtà343. Nel relazionarsi con il consumatore, il professionista dovrà essere sempre preparato e aggiornato rispetto alla prestazione che deve compiere e applicare sempre tecniche appropriate e non superate nello svolgimento della propria attività, non potendo, in alcun modo, ostacolare l’esercizio dei diritti riconosciuti dalla legge al consumatore, quali, il diritto di recesso344, né limitarne in alcun modo l’efficacia e la portata. Al riguardo, può rappresentare un onere eccessivo in capo al consumatore, ad esempio, l’attesa eccessivamente prolungata per la restituzione di un prodotto inviato in assistenza, in quanto pregiudicherebbe il diritto dello stesso consumatore a ottenere la riparazione o la sostituzione richieste entro un termine ragionevole345. La diligenza professionale impone al professionista di informare sempre il consumatore sulle circostanze di fatto o di diritto rilevanti. I consumatori hanno, cioè, diritto ad una corretta informazione commerciale, affinchè possano orientare i propri comportamenti economici conformemente ai rispettivi interessi. La diligenza si compone così di un vero duty to disclose, come lo definisce la dottrina di common law. La corretta rappresentazione della realtà potrà avvenire in forma scritta o orale e alle parole utilizzate dal professionista occorrerà attribuire il significato che il consumatore medio assegnerebbe. Una condotta diligente presuppone, infatti, che non vi sia misrepresentation ovvero che determinate dichiarazioni, seppure esatte, possano essere male interpretate dal consumatore medio, creando così un falso
Provvedimento AGCM, Centro “Gli Orsi”, n. PS2806/2008: “non vale ad esimere il professionista dall’obbligo di diffondere una informazione corretta e completa circa la tipologia di offerte rinvenibile nel proprio centro commerciale l’asserita prassi del settore”. 344 Si veda il provvedimento emesso dal Salisbury County Court nel caso Wiltshire County Counils Trading Standards Department v. Jimmy Stockwell & Shine Stockwell (2008) dell’8 luglio 2008, https://webgate.ec.europa.eu/ucp/public/index.cfm?event=public.cases.showCase&caseID=114&arti cleID=. 345 Tale principio è stato espresso dal provvedimento AGCM, Nokia N72 – mancata garanzia, PS2325/2009. 343
170
convincimento della realtà e, per questo, spingerlo a prendere decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso346. Questo è il caso, ad esempio, delle case automobilistiche che nei propri messaggi pubblicitari enfatizzano l’utilizzo dei pick-up come normali veicoli adibiti al trasporto di persone e utili per gite nel tempo libero, cosa che non corrisponde alla realtà. Tali messaggi pubblicitari possono evidentemente indurre il consumatore all’acquisto di un bene sull’erroneo presupposto di poter utilizzare quel determinato prodotto in una certa maniera che, però, non è consentita dal Codice della strada, con il rischio di sanzioni pecuniarie e di sequestro. In sostanza, nei rapporti con i consumatori, il professionista non può essere mai reticente, omettendo fatti rilevanti per una sua libera scelta o rimanendo addirittura in silenzio dinnanzi a richieste specifiche dello stesso consumatore. Nell’ambito di tale obbligo rientra sicuramente il dovere del professionista di avvertire sempre il consumatore della presenza di un pericolo di danno (una sorta di duty to warn), in maniera chiara e diretta347. Ciò si verifica in particolare rispetto alle modalità di utilizzo di un determinato prodotto. Imprecisioni, incompletezze o la mancata corrispondenza tra la garanzia pubblicizzata e quella effettivamente riconosciuta sono evidentemente ipotesi di condotta sleale348. Spetta, infatti, al professionista diligente specificare al consumatore, ad esempio, che alcune componenti del prodotto sono escluse dalla garanzia pubblicizzata,
Nel procedimento Tiscali UK Ltd v. British Telecommunications Plc, [2008] EWHC 3129 (QB) del 16 dicembre 2008 è stato chiarito da parte dei giudici inglesi che il concetto di “pratiche di mercato oneste” (“honest market practice”) e il principio generale di buona fede, come interpretato in relazione al requisito della diligenza professionale, per l’accertamento della slealtà della condotta posta in essere dal professionista, richiedono che vi sia stata “objective dishonesty”, che può prescindere dalla dimostrazione che nel momento in cui si è rapportato con il consumatore il professionista era a conoscenza della non veridicità delle informazioni rese. 347 Tale principio è stato espressamente ribadito recentemente anche in Germania nel provvedimento emesso dal Landgericht Ulm il 30 settembre 2011, 10 O 102/11 KfH. 348 Si vedano i provvedimenti dell’AGCM: provvedimento, Renault – Difetto di fabbrica, PS1178/2009; Ford – Garanzia Ford Service, PS1579/2009. 346
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piuttosto che comunicargli l’effettivo chilometraggio dell’autovettura usata che il consumatore sarebbe interessato ad acquistare349. Tali oneri gravano sul professionista sin dal primo contatto del consumatore con il professionista e la presenza di eventuali elementi di etero-integrazione informativa non può assurgere “ad equipollente valenza rispetto all’osservanza di un obbligo di diligenza (quanto alla completezza, chiarezza ed esaustività del messaggio promozionale) che, invece, è ascrivibile esclusivamente a fatto proprio del professionista”350. È evidente, tuttavia, che la liceità attraverso la quale viene conseguita l’informazione si riflette sul relativo obbligo di condividerla con l’altra parte. Ad esempio, non pare equo poter richiedere a un professionista di informare il consumatore sul valore di mercato di beni che sia stato stimato a seguito di costose operazioni peritali, così come approfittare di una informazione frutto di spionaggio industriale. L’obbligo informativo a carico del professionista può, comunque, variare anche a seconda della classe generale di appartenenza del soggetto e del relativo bagaglio cognitivo rispetto al singolo caso. Ad esempio, sul professionista venditore di un determinato prodotto graverà un obbligo di informazione maggiore rispetto al professionista che si limita ad effettuare la consegna al consumatore. Di fondamentale importanza è, al riguardo, la natura del contratto. Contratti come la compravendita richiedono, per loro natura intrinseca, sia negli ordinamenti di civil law sia in quelli di common law, e tanto più attualmente in cui si sta andando verso un’unificazione del diritto contrattuale europeo351 che tutti gli elementi a conoscenza delle parti siano resi noti alla controparte. È intuitivo che la mancata conoscenza di un fatto di scarsa importanza ai fini dell’economia del rapporto non può avere rilevanza ai fini della valutazione della
OFT, Consumer Protection from Unfair Trading, Guidance on the UK Regulations implementing the Unfair Commercial Practices Directive, 2008. 350 TAR Lazio, 29 dicembre 2009, n. 13789. 351 ALPA – ANDENAS, Fondamenti del diritto privato europeo, Milano, 2005, pp. 319 e ss. Si considerino, al riguardo, due esempi in tal senso: i Principi del diritto europeo dei contratti e il Codice europeo dei contratti. 349
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slealtà della condotta, in quanto si presume non essere decisivo per la scelta del consumatore. Al fine di valutare se le informazioni fornite dal professionista al consumatore siano idonee a fare assumere a quest’ultimo una decisione consapevole, occorre verificare anche il supporto utilizzato per la comunicazione commerciale. Ad esempio, è stato ritenuto
sufficiente
che
il
professionista
indichi
solamente
alcune
delle
caratteristiche principali di un prodotto, rinviando per il resto al proprio sito internet, a condizione che questo fornisca le informazioni necessarie per un acquisto consapevole da parte del consumatore, quali, in particolare, il prezzo352. Anche le modalità con cui il professionista porta a conoscenza del pubblico le informazioni di cui necessita rilevano ai fini della valutazione della diligenza della sua condotta. Ciò significa, ad esempio, che i messaggi pubblicitari devono dare alle avvertenze che limitano le alte aspettative suscitate dal claim principale un rilievo ed un posizionamento nel contesto complessivo della comunicazione tali da rendere ragionevolmente certo che il pubblico abbia l’immediata percezione delle condizioni di fruizione dell’offerta pubblicizzata. Rispetto alle comunicazioni scritte, invece, il professionista è tenuto ad utilizzare un linguaggio di agevole comprensione per il consumatore medio, scevero quindi da sofisticati tecnicismi, e utilizzare, tendenzialmente, dal punto di vista grafico lo stesso carattere per l’intera comunicazione. In ogni caso, il professionista deve relazionarsi con il consumatore in maniera libera da qualsiasi forma di coercizione che sia idonea ad incidere sulla libertà di scelta del consumatore. Devono per questo essere vietate molestie, il ricorso a minacce o violenza, anche fisica, in quanto comprometterebbero un sano rapporto in cui il consumatore sceglie in maniera consapevole e libera353. Inoltre, il professionista non può sfruttare la propria posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o alla minaccia di tale ricorso. Corte di Giustizia, 12 maggio 2011, causa C-122/10 Marknadsdomstolen v. Konsumentombudsmannen, in curia.europa.eu/juris. 353 R. v. Gilbertson (Lewis Thomas), [2009] EWCA Crim 1715 del 18 giugno 2009 e Wiltshire County Counils Trading Standards Department v. Jimmy Stockwell & Shine Stockwell (2008) dell’8 luglio 2008, https://webgate.ec.europa.eu/ucp/public/index.cfm?event=public.cases.showCase&caseID=114&arti cleID=. 352
173
Sono state ritenute corrispondenti al paradigma di “coercizione” o di “indebito condizionamento”, sia in Italia354, sia in Inghilterra355, le minacce da parte del professionista di distacco della fornitura o della cessazione dell’erogazione dei servizi, unitamente al sollecito di pagamento, essendo idonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a limitare la libertà di scelta del comportamento del consumatore medio. Una condotta diligente nei confronti del consumatore presuppone che il professionista disponga sempre di un’organizzazione adeguata rispetto all’attività che svolge. È quindi fondamentale che l’assetto organizzativo dato dal professionista alla sua attività sia idoneo all’osservanza di quei canoni e precetti, imposti dalla legge356. In caso di eventuali lacune organizzative è, infatti, possibile che una determinata condotta già considerata sleale possa essere reiterata solo per tale motivo. Rilevano in tale contesto, anche i protocolli che il professionista predispone con cui si individuano le condotte da tenere al verificarsi di una determinata situazione: questi devono essere sempre idonei allo scopo che si prefiggono e mai deficitari, così da individuare una condotta fattiva e risolutiva del professionista. L’affidamento in convenzione di alcuni servizi non esclude, inoltre, la responsabilità della società concessionaria laddove quest’ultima non abbia predisposto adeguati strumenti di controllo relativamente ai servizi esternalizzati. Con particolare riferimento agli operatori dei call center, gli stessi devono considerarsi una sorta di longa manus e di articolazione aziendali, in qualità di affidatari di mansioni generalmente svolte dallo stesso professionista non direttamente, ma in regime di outsourcing. Per questo, il professionista dovrà provvedere a far sì che la condotta dei medesimi sia svolta in maniera diligente, in caso contrario rispondendo lo stesso professionista di loro eventuali condotte sleali.
Consiglio di Stato, sez. VI, 31 gennaio 2011, n. 720. Office of Fair Trading v. Ashbourne Menagement Services and others, [2011] EWHC 1237 (CH) del 27 maggio 2011. 356 TAR Lazio, 19 maggio 2010, n. 12281 (Intesa SanPaolo Cancellazione ipoteca); TAR Lazio, sentenza 19 maggio 2010, n. 12325 (Italfondiaria Cancellazione ipoteca). 354 355
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Una volta, invece, che il consumatore abbia concluso un contratto, il professionista diligente non potrà più modificare unilateralmente le condizioni contrattuali, né provvedere a rimodulazioni tariffarie senza il consenso del consumatore. Lo ius variendi deve essere, infatti, limitato soltanto a momenti eccezionali e circoscritti, nonché caratterizzato dalla più ampia trasparenza e dalla tutela di tutti i diritti riconosciuti ai consumatori, con particolare riferimento al diritto di recesso senza alcun onere economico. Se non esiste un astratto paradigma suscettibile di integrare un univoco termine di riferimento quanto alla individuazione di un comportamento diligente in capo al professionista, la concreta commisurazione del relativo obbligo deve essere parametrata necessariamente con la condotta concretamente esigibile nella particolare fattispecie in considerazione; ossia, in quel comportamento che, avuto riguardo alla peculiarità del rapporto negoziale, nonché al complesso di conoscenze riferibili al professionista stesso e alla qualificazione del contatto con la clientela, sia suscettibile o meno di essere valutato come una pratica commerciale sleale.
3.1.
PRATICHE COMMERCIALI CONTRARIE ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE
Calando dall’astratto al concreto i principi della disciplina delle pratiche commerciali sleali, dall’analisi dei provvedimenti sin’ora resi nell’ambito degli Stati membri, risultano essere state accertate, in particolare in Italia, una pluralità di condotte contrarie alla diligenza professionale. Condotte tra loro sicuramente differenti, ma che hanno come comun denominatore la contrarietà ai principi di quel fair trading a cui vorrebbe tendere definitivamente il diritto europeo. Dall’analisi svolta, emerge, tuttavia, che in molti ordinamenti nazionali - vuoi perché storicamente già poco proliferi in generale di provvedimenti, a differenza di Paesi come l’Italia, vuoi perché già conformati ai principi di fairness come i Paesi Scandinavi - manca attualmente un’effettiva concretizzazione del principio della diligenza professionale.
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In particolare, per quanto qui consta, nell’ordinamento inglese, a meno di quattro anni dall’entrata in vigore della disciplina delle pratiche commerciali sleali i provvedimenti emessi dalle competenti Autorità al fine di accertare la lealtà o meno delle condotte poste in essere dai professionisti sono poche decina. L’OFT ha comunque avviato, anche autonomamente, in questi anni una serie di indagini rispetto a determinate pratiche commerciali, in particolare vendite on line e concorsi a premi, ma nella maggior parte dei casi tali indagini o si sono concluse con accordi tra l’Autorità e il professionista o sono ancora in corso. La concretizzazione dei principi propri della disciplina delle pratiche commerciali sleali, come quello della diligenza professionale, sono stati concretizzati comunque in Inghilterra attraverso delle vere e proprie guide emanate dalla stessa OFT e dal Department for Business, Enterprise and Regulatory Reform rivolte agli stessi professionisti, al fine di indirizzarli verso condotte leali nei confronti dei consumatori357 In Italia, invece, la situazione è completamente differente. Ad oggi le pratiche commerciali accertate essere sleali dapprima dall’AGCM e successivamente dal giudice amministrativo sono molteplici e i procedimenti avviati in questi anni sono nell’ordine di centinaia358. Anche in Germania, sono state accertate nel corso di questi anni numerose condotte sleali poste in essere dai professionisti. A differenza dei provvedimenti emessi in Inghilterra, quelli delle Autorità italiane e tedesche sono, inoltre, molto dettagliati e in essi è stato, in molti casi, reso concreto il principio della diligenza professionale.
Di particolare interesse, al riguardo, sono la guida “Good news for those who treat customers fairly – Bad news for those who don’t” del Department for Business, Enterprise and Regulatory Reform e “Consumer protection from Unfair Trading – Guidance on the UK Regulations implementing the Unfair Commercial Practices Directive” dell’ Office of Fair Trading. 358 Negli ultimi anni, anche in Italia, come in Inghilterra, molti procedimenti di accertamento di pratiche commerciali sleali si stanno concludendo attraverso appositi impegni da parte del professionista di cessare e/o comunque modificare la condotta contestata. In questo modo, il professionista evita l’erogazione di sanzioni da parte dell’Autorità e non si arriverà a un accertamento formale della slealtà della pratica commerciale contestata. 357
176
Considerato lo spirito della Direttiva di realizzare una legislazione uniforme in materia di pratiche commerciali sleali e il fatto che, seppur per certi aspetti le nozioni di diligenza professionale proposte in sede di attuazione dai legislatori nazionali sono, in alcuni casi, formalmente differenti, ma comunque conformi da un punto di vista sostanziale a quanto disposto a livello europeo, pare logico poter sostenere che la concretizzazione del principio della diligenza professionale avvenuta in uno Stato membro possa valere anche per le altre esperienza nazionali, in ragione della comunanza di principi. Del resto, ad oggi, non si riscontrano contrasti applicativi della normativa sulle pratiche commerciali sleali con riferimento alla concretizzazione del principio della diligenza professionale. Come già osservato, infatti, gli interpreti non potranno che provvedere ad integrare in via interpretativa la formulazione testuale della rispettiva legislazione nazionale, facendo riferimento ai principi individuati dal legislatore europeo, anche se non espressamente contemplati dalla normativa nazionale di recepimento, e di quanto statuito nella stessa materia negli altri Stati membri, nell’ottica di un ordinamento, quello europeo, ormai da dover (ritornare a) considerare, oltre che multi-livello, anche comunicante. La storia del diritto europeo ci insegna, infatti, tra il XVI e il XVIII secolo, dell’apertura giuridico-istituzionale, dal lato delle fonti, e culturale, dal lato della mentalità dei giuristi, nei quali era normale “anzi doveroso” ricorrere a auctoritates di dottori e tribunali stranieri, costituenti la communis opinio, oppure alla lex alius loci, ovvero a regole e principi comuni ad altri ordinamenti359. Negare oggi l’applicazione di tali principi all’interno dell’Unione europea significherebbe - cosa ormai non più possibile, nonostante le note criticità riscontrate nel processo di integrazione europeo - abbattere i grandi sforzi fatti in questi anni per l’effettiva realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, regolato da un diritto comune europeo.
MOCCIA, Comparazione giuridica e Diritto europeo, Milano, 2005, p. 127; ma si veda anche GORLA, Il diritto comparato in Italia e nel “mondo occidentale” e una introduzione al “dialogo civil law – common law”, Milano, 1983. 359
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L’armonizzazione completa delle legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali sleali voluta dal legislatore abbia necessariamente portato verso una possibile circolazione delle declinazioni concrete occorse in un ordinamento anche negli ordinamenti di altri Stati membri, ad una comunanza dei principi, che può essere letta come una sorta, appunto, di reale ritorno agli ordinamenti aperti del XVI-XVIII secolo. Gli ordinamenti dei singoli Stati membri non possono, quindi, che essere considerati aperti, dove ciò concretamente significa che il singolo interprete nazionale potrà e dovrà ricorrere a quanto eventualmente già statuito a livello europeo o comunque a casi già risolti negli altri ordinamenti nazionali nel concretizzare principi come quello della diligenza professionale, garantendo così un’effettiva e reale armonizzazione della materia. Ferme le considerazioni appena svolte, possono essere ritenute pratiche commerciali contrarie alla diligenza professionale nel mercato interno: 1.
l’attivazione
di
forniture
non
richieste
di
energia
elettrica,
delle
telecomunicazioni e/o gas naturale, finalizzata all’acquisizione di clientela residenziale nel mercato libero, in assenza di sottoscrizione da parte del consumatore o in virtù di firme falsificate attraverso i propri agenti commerciali; comunicazioni di informazioni ingannevoli al fine di ottenere la sottoscrizione dei contratti, nel corso di visite a domicilio (cd. porta a porta) ovvero mediante contatti telefonici (c.d. teleselling outbound); imposizione di ostacoli, all’esercizio del diritto di recesso360; l’invio di comunicazioni ai consumatori in fase di switching o clienti di un professionista concorrente, prospettando il rischio di sospensione di forniture per carenze del nuovo fornitore o del professionista concorrente361.
Si vedano i provvedimenti in Italia dell’AGCM Acea Electrabel – attivazioni non richieste, PS2545/2011; Edison – attivazioni non richieste, PS3764/2011; Wind – Conclusione contratti, IP111/2011. In Inghilterra, analoghi principi sono stati proposti nel caso R. v. Gilbertson, [2009] EWCA Crim 1715 del 18 giugno 2009. 361 In Italia, Provvedimento AGCM, Sinergas – pubblicità comune di Mirandola, PS6586/2011. Analogo principio è stato previsto in Inghilterra nel caso Tiscali UK Ltd v. British Telecommunications Plc, [2008] EWHC 3129 (QB) del 16 dicembre 2008. 360
178
2.
La diffusione di messaggi pubblicitari che enfatizzano una percentuale elevata di sconto, senza però fornire alcuna indicazione ai consumatori dell’entità economica su cui andava applicata la percentuale di sconto offerta. È evidente, infatti, che il consumatore medio presuma sempre che la percentuale di sconto sia applicata sul prezzo finale, se così non è il professionista diligente deve indicare specificamente la componente di prezzo su cui applica lo sconto362. Non può, inoltre, essere considerata una condotta diligente il riferimento a un non meglio identificato prezzo di listino, come parametro di riferimento per il calcolo dello sconto, se questo non corrisponde al prezzo usuale di vendita, noto al consumatore. Allo stesso modo è contraria alla diligenza professionale la condotta del professionista che presenta come “sconto” un’offerta che non prevede, in realtà, uno sconto immediato sul prezzo dei prodotti in promozione, ma soltanto l’attribuzione di un buono-spesa da utilizzare per successivi acquisti.
3.
Il prolungamento da parte del professionista di offerte promozionali, prospettate come valide, oltre i termini indicati nelle proprie comunicazioni, il raffigurare in detti messaggi pubblicitari prodotti esclusi dalla promozione363. Del pari è sleale la mancata indicazione di prodotti il cui acquisto non concorre alla promozione ovvero l’omissione delle limitazioni connesse alla promozione medesima (ad es.: solo se si effettua una spesa minima; con la limitazione del numero di buoni “spendibili” per ogni scontrino; per il solo acquisto di specifici prodotti che saranno segnalati nei punti vendita, etc). Nell’effettuazione di saldi e sconti, quindi, il professionista è tenuto ad applicare effettivamente lo sconto pubblicizzato sul prezzo finale del prodotto, il quale non deve essere artatamente modificato per simulare l’applicazione di una percentuale di sconto più alta rispetto a quella praticata.
4.
La modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, quali ad esempio il canone di abbonamento, o l’inclusione in bolletta di oneri riferibili a servizi
Provvedimento AGCM, Gas naturale – sconto 50%, PS7402/2011. Provvedimento AGCM Poltrone Sofà . Divano a metà prezzo, PS3762/2010; Chateaux d’Ax – Sconti divani, PS2111/2010. 362 363
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aggiuntivi,
non
preventivamente
richiesti
dal
consumatore,
senza
un’adeguata indicazione della natura facoltativa dei medesimi. 5.
La presentazione di un’offerta come gratuita quando la medesima, invece, comporta un esborso da parte del consumatore. Laddove una determina offerta pubblicizzi la gratuità di un bene o un servizio, questo significa che il consumatore non deve corrispondere alcunché al professionista per poter usufruire di quel determinato prodotto. Non è, quindi, diligente la condotta del professionista che induce il consumatore a ritenere gratuita un’offerta quando la medesima, invece, è onerosa senza che il consumatore possa percepirlo, come nel caso si indichi la dicitura “numero verde” accanto al numero da contattare, quando in realtà il numero è a pagamento364. Altrettanto sleale è la condotta del professionista che pubblicizza visite al domicilio del consumatore da parte di un agente, sul falso presupposto della consegna di un regalo o di un prodotto in visione gratuita, mentre in realtà tale visita è solo finalizzata alla vendita dei prodotti365.
Il settore delle comunicazione è caratterizzato ormai da decenni da un elevato tasso di evoluzione tecnologica che incide sulla varietà e tipologia dei servizi offerti. Offerte sempre più articolate e complesse da parte dei professionisti sono funzionali all’acquisizione di nuova clientela in mercati, spesso, vicini alla saturazione. È in tali contesti che condotte sleali, anche aggressive, possono proliferare a danno del consumatore, al quale deve, invece, essere garantita la consapevolezza sugli effetti economici e giuridici delle proprie scelte, nonché la concreta possibilità di operare confronti tra le condizioni offerte dai diversi professionisti. A tali fini, il professionista deve assolvere, con particolare diligenza, agli oneri informativi su di lui incombenti circa le caratteristiche e le condizioni dell’offerta di tali prodotti, in particolare nella fase commerciale di lancio dei medesimi. Ciò impone al professionista diligente di utilizzare termini chiari nella presentazione delle proprie offerte, senza possibilità che le medesime possano essere mal interpretate dal consumatore medio. Nell’ambito delle comunicazioni, infatti, tutto ruota intorno all’utilizzo corretto di certi termini, enfatici, che possono condizionare le decisioni commerciali del consumatori. È il caso, ad esempio, del concetto di “assenza di corrispettivo”, ovvero di effettiva “gratuità”, e quello di semplice “rimborso” che non possono essere utilizzati dal professionista come sinonimi e, per questo, il loro utilizzo nell’ambito delle campagne pubblicitarie deve avvenire in maniera appropriata (si veda, al riguardo, il provvedimento AGCM, Infostrada – Mancato rimborso canone Telecom, PS359/2009). La dicitura “assenza di corrispettivo” potrà, infatti, essere utilizzata dal professionista soltanto nel caso in cui vi sia una totale mancanza di corrispettivo da parte del consumatore a fronte della prestazione del professionista, mentre se utilizza il concetto di “rimborso” deve rendere edotto il consumatore sul fatto che vi sarà da parte di quest’ultimo un iniziale esborso che solo successivamente sarà restituito. Il claim “per sempre” lascia intendere al consumatore medio che le condizioni dell’offerta a lui proposta saranno permanenti, senza possibilità per il professionista di poter modificare le medesime unilateralmente, anche in un lontano futuro. Ciò significa che laddove il professionista intenda proporre un’offerta commerciale, come “per sempre”, può farlo esclusivamente se con ciò intende di voler rinunciare implicitamente alla possibilità di modificare in qualsiasi momento le condizioni contrattuali. 364
365
Office of Fair Trading v. Purely Creative Ltd, [2011] EWHC 106 (CH).
180
6.
Il pagamento ex novo dell’intero prezzo di un biglietto smarrito del quale il consumatore richiede al professionista un duplicato, anche a fronte di esibizione di formale denuncia alle autorità preposte e della prova dell’identità del titolare366, tenuto conto, in particolare, della significativa sproporzione del sinallagma in danno del consumatore.
7.
La mancata adozione di comportamenti tesi a verificare ed eventualmente rimuovere fenomeni già segnalati di pratiche illecite. In particolare, è stata ritenuta sleale la condotta del professionista che sia adoperato in un’attività di natura riparatoria parziale e circoscritta soltanto ai consumatori che avevano presentato reclamo367. Il comportamento del professionista è, infatti, contrario al grado di diligenza ragionevolmente esigibile nel caso di specie, se, consapevole circa la natura e la dimensione del problema, non assume misure adeguate ad assicurare una gestione corretta e tempestiva di quanto segnalato dai consumatori, come possono essere le difficoltà riscontrate in merito all’esercizio del diritto di recesso.
8.
Nel settore della grande distribuzione, il professionista deve operare con un livello di diligenza tale da assicurare ai consumatori che tutti i prodotti offerti siano disponibili in quantità ragionevoli in rapporto all’entità della promozione effettuata e della domanda che essa sollecita, consentendo al consumatore la realizzazione delle proprie aspettative di acquisto sollecitate dalla campagna promozionale. A tal fine, il professionista per essere diligente deve disporre di procedure che garantiscano al consumatore la successiva fornitura dei prodotti eventualmente risultati indisponibili o di prodotti sostitutivi equivalenti368.
Provvedimento AGCM, Trenitalia Duplicazione Biglietti, PS4982/2011. In un caso esaminato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, le condotte contestate consistevano nell’addebito di costi per l’acquisto di un apparecchio, proposto in realtà attraverso l’operatore del call center in comodato gratuito associato ad un nuovo piano tariffario e l’ordine di un prodotto pregiato presso un dealer consenziente da parte un soggetto che illecitamente utilizzava i dati personali dell’ignaro intestatario della linea, che si trovava quindi in bolletta addebitato il costo di tale acquisto; Provvedimento AGCM, Telecom – Fornitura non richiesta di prodotti pregiati, PS4058/2011; Provvedimento AGCM, Mediaset Premium – Gestione richieste di recesso, PS5672/2011. 368 Provvedimento AGCM, Auchan – Prodotti in offerta non disponibili, PS2837/2010. 366 367
181
4.
LA CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’OSTRUZIONISMO AL PASSAGGIO AD ALTRO PROFESSIONISTA
Il consumatore ha un diritto a trasferire le proprie utenze presso un altro operatore e l’esercizio del medesimo non può essere in alcun modo ostacolato o comunque condizionato dal professionista. Rispetto a tali procedure di migrazione previste a livello legislativo e regolamentare, il professionista ha nei confronti del consumatore una responsabilità funzionale al loro buon esito. Tale responsabilità non può che tradursi nell’adozione di uno standard di diligenza rafforzato, da cui deriva la necessità di implementare misure e cautele idonee a garantire che il favor del legislatore nei confronti del diritto di migrazione non si traduca in una mera petizione di principio. Per questo è da ritenersi contraria alla diligenza professionale la condotta del professionista che non tiene condotte idonee ad agevolare il passaggio dei propri utenti ad altro operatore professionista, non si attivi per risolvere vari disservizi verificatisi al momento delle richieste di passaggio ad altro operatore presentate dai propri utenti369 o contatti i clienti di un professionista concorrente fornendo informazioni non veritiere sul professionista a cui il consumatore è legato370. Una volta avviate le procedure per la migrazione ad altro operatore, il professionista può comunque effettuare pratiche di retention a condizione che le proposte commerciali volte a trattenere il consumatore siano formulate in maniera esatta, completa e veritiera attraverso modalità trasparenti, così che l’eventuale revoca della procedura di trasferimento dell’utenza avviata avvenga in maniera consapevole. La formulazione di tali contr-offerte è fatta diligentemente soltanto se avviene in forma scritta, mentre se avviene in forma orale deve essere registrata e comunque l’operatore del call center che chiama per conto del professionista deve avvalersi di linee guida vincolanti o di script standardizzati.
Provvedimento AGCM, Fastweb – Ostruzionismo nel passaggio ad altro operatore, PS361/2009; Provvedimento AGCM, Telecom – Disservizi passaggio ad altro operatore, PS50/2009. 370 Tiscali UK Ltd v. British Telecommunications Plc, [2008] EWHC 3129 (QB) del 16 dicembre 2008. 369
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Senza tali accorgimenti, la condotta del professionista non può considerarsi diligente in quanto non consente al consumatore di effettuare una comparazione ponderata e consapevole tra l’offerta commerciale del nuovo operatore (cosiddetto recipient) e la “contro-proposta” formulata dall’operatore telefonico originario (cosiddetto donating).
5.
LA CONTRARIETÀ ALLA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’ACQUISTO DI PRODOTTI ON LINE
Oggetto di specifiche valutazione in ordine alle loro condotte sono state senza dubbio i professionisti che propongono on line i propri prodotti, a cui sempre più i consumatori si rivolgono. In Inghilterra e in Italia, rispetto a tale tipologie di pratiche, sono state avviate numerose indagini. In particolare, le Autorità italiane hanno accertato numerose condotte contrarie alla diligenza professionale, sanzionando pesantemente i professionisti colpevoli, mentre in Inghilterra sono stati conclusi numerosi accordi con l’assunzione di impegni da parte dei professionisti371. Ad essere, invece, accertate in contrasto con il principio di diligenza professionale, sono state, in particolare, pratiche commerciali poste in essere da agenzie di viaggio on line o compagnie aeree372, a carico delle quali: (i)
è stata riscontrata la scarsa trasparenza delle informazioni fornite per avere promosso la propria offerta con l’illustrazione ingannevole e incompleta delle tariffe vantaggiose nella home page del sito. Solo nella fase finale del processo di prenotazione, il consumatore riceveva l’informazione completa sul prezzo globale effettivo, nettamente superiore a quello pubblicizzato sulla prima pagina;
Al riguardo si vedano i procedimenti conclusi con l’assunzione di impegni da parte dei traders nei confronti dell’OFT: Investigation into the trading practices of MyCityDeal Limited (trading as Groupon UK), CRE – E – 26964 concluso nel giugno 2012; Investigation into The Online Shopping Company, an online retailer relating to non-delivery of rodersi and failure to provide refunds, CRE – E/27913 concluso nel settembre 2012. 372 Si vedano, in Italia, i provvedimenti dell’AGCM: Expedia, PS680/2011; eDreams, PS1442/2011 e Opodo, PS513/2011 e, in Inghilterra, il procedimento Airlines/ Payment surcharges, CRE – E/27017. 371
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(ii)
è stata considerato contrario alla diligenza professionale il ricorso al meccanismo del silenzio-assenso per l’acquisto della assicurazione per l’annullamento del viaggio, perdita/danneggiamento del bagaglio e spese mediche, proposta nella fase finale del processo di prenotazione;
(iii)
è risultato inefficiente il processo di prenotazione e pagamento dei servizi mediante carta di credito o carta prepagata, non avendo il professionista garantito ai consumatori lo sblocco in tempi rapidi delle somme congelate per operazioni di pagamento non andate a buon fine, secondo le regole previste dai circuiti delle carte. Sono risultate inadeguate anche le procedure dei reclami e le informazioni sui rischi connessi al sistema di pagamento e alle motivazioni reali del blocco delle somme;
(iv)
sono state ritenute sleali altresì le modalità di assistenza alla clientela fornite dal professionista mediante un numero telefonico a pagamento dai costi particolarmente elevati, che costituiva l’unico strumento per avere un contatto diretto e rapido con l’agenzia on line.
6.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL SETTORE DEI PRODOTTI E INTEGRATORI ALIMENTARI
Nel settore dei prodotti e integratori alimentari, relativamente ai claims il professionista è tenuto al rispetto delle disposizioni di cui al Regolamento Ce 1924/2006, con particolare riferimento alle indicazioni nutrizionali e sulla salute dei prodotti alimentari commercializzati. Rispetto a determinati claims “salutistici” attraverso i quali il professionista comunica che quel determinato alimento ha determinate caratteristiche nutritive salutari per il consumatore, il legislatore europeo, in ragione dell’interesse diretto al diritto alla salute, ha previsto che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) renda un parere scientifico obbligatorio sui medesimi. Pertanto, nei casi in cui l’organismo tecnico abbia già riconosciuto la fondatezza dell’effetto salutistico attribuito al prodotto in ragione delle sostanze in esso contenute, è da ritenersi contrario alla diligenza professionale 184
l’utilizzo di un claim che non coincida con quanto validato in sede di esame dall’EFSA. Al contempo sarà contrario alla diligenza professionale l’utilizzo di claim pubblicitari volti a promuovere le proprietà e gli effetti conseguibili attraverso l’impiego di tali prodotti con modalità e contenuti non compatibili con la natura dei medesimi e non coerenti con quanto riportato in etichetta. Ciò si verifica, ad esempio, nel caso di messaggi diretti ad attribuire ad un integratore alimentare la proprietà di intervenire con successo, curare o risolvere patologie o disfunzioni, a volte operando in maniera più o meno esplicita, un improprio paragone con prodotti farmacologici ovvero a prospettare una specifica e autonoma azione dimagrante del prodotto senza evidenziare in maniera adeguata la funzione meramente coadiuvante della dieta e lasciando così intendere che il relativo utilizzo potesse costituire un correttivo a comportamenti alimentari non corretti373. Per i prodotti il cui consumo è soggetto a particolari cautele, il requisito della diligenza viene soddisfatto attraverso l’espresso rinvio, orale o scritto, alla lettura delle avvertenze riprodotte in etichetta o all’interno della confezione del prodotto.
7.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELL’AMBITO DEI SETTORI REGOLATI
Il macrosettore sin qui considerato è caratterizzato altresì dalla presenza di discipline di settore, spesso regolanti le stesse relazioni tra professionista e consumatore, la cui applicazione può essere demandata addirittura a specifiche autorità di vigilanza e di regolamentazione. Il divieto di pratiche commerciali sleali ha in tali settori regolati un ambito di applicazione notevole e di particolare complessità, che testimoniano come vi sia (non solo) una sensazione collettiva di un costume di scorrettezza professionale proprio in quei settori in cui la posizione del consumatore è di particolare sensibilità, attesa l’asimmetria rispetto al professionista.
373
Provvedimento AGCM, Kilocal, PS1898/2010.
185
Per questo il tema del rilievo della regolazione analitica settoriale nella concretizzazione dello standard di diligenza esigibile dai professionisti di un settore regolato ha un rilievo preponderante in tali settori. La giurisprudenza sulle pratiche commerciali sleali poste in essere nei settori regolati appare influenzata dai contenuti della normativa di settore e, al contempo, appare volta ad accrescere il livello di protezione garantito al consumatore dalla normativa settoriale. È proprio la determinazione e concreta definizione del concetto ampio di diligenza professionale che identifica la specifica funzione della normativa sulle pratiche commerciali sleali, in rapporto alla disciplina generale dei contratti e alle discipline di settore. Il richiamo alla nozione aperta di diligenza professionale è così utilizzato per colmare i vuoti che una disciplina analitica presenta374, ma allo stesso tempo le normative di settore offrono indicazioni utili a concretizzare la nozione di diligenza professionale esigibile dal professionista nei confronti dei consumatori. La diligenza professionale che i consumatori possono ragionevolmente attendersi dai professionisti che operano in settori regolati è, quindi, quella di volta in volta in grado di “proteggerli”, ossia di neutralizzare i rischi commerciali connessi al forte squilibrio informativo che inevitabilmente contraddistingue il rapporto375. Ne consegue che la diligenza richiesta ai professionisti è tanto più elevata quanto più alta è la asimmetria informativa specifica in cui versa il consumatore nei confronti del professionista con cui si rapporta; asimmetria che può variare di intensità anche nei settori regolati a causa della complessità del rapporto interessato
Cfr. Provvedimento AGCM, Barclays Bank – Rata di Cauzione, PS4126/2010 GENOVESE, La diligenza professionale, Seminario AIPPI del 17 novembre 2011 presso l’Università Europea di Roma, http://aippiit.wordpress.com/category/seminari. Si veda FIORENTINO, Autorità Garante e tutela dei consumatori nel settore bancario e finanziario, Intervento in ABI, Dimensione Cliente 2010, la Costumer Experience nel mercato retail, 25 marzo 2010, parla di una sorta di “dovere di soccorso” del cliente, che incomberebbe sulle banche nelle varie fasi del rapporto con il consumatore. 374 375
186
dalla pratica o della scarsa o elevata frequenza con cui il consumatore ricorre ad alcuni prodotti376. Per cui, è possibile sostenere che la diligenza professionale che il consumatore può aspettarsi e che il legislatore europeo esige dal professionista di un settore regolato si determina in base al parametro della legalità specifica dell’attività esercitata, ma non si esaurisce nell’osservanza delle normative di settore, laddove queste non siano in grado di “sterilizzare” il rischio di asimmetria tra professionista e consumatore377. Ciò significa che più la normativa di settore è dettagliata e complessa e maggiore è il grado di diligenza richiesto al professionista che dovrà quindi concretizzarsi anche attraverso una vera e propria consulenza tecnica in favore del consumatore sulla normativa applicabile alla pratica e sulla convenienza economica delle diverse opzioni378. Nei settori regolati, quindi, il canone di diligenza richiesto al professionista è: a)
funzionale alla salvaguardia di uno specifico interesse consumeristico, come la possibilità per i consumatori di effettuare scelte libere e consapevoli, in settori in cui, per varie ragioni, sia particolarmente difficile l’agire di consumo libero e consapevole;
b)
conformato dalla regolazione generale o specifica dell’attività, non si limita a rispecchiare questa;
c)
proporzionale alla posizione marginale o di rilievo, come operatore di primaria importanza, che il professionista abbia nel settore379.
GENOVESE, La diligenza professionale, Seminario AIPPI del 17 novembre 2011 presso l’Università Europea di Roma. 377 GENOVESE, La diligenza professionale, Seminario AIPPI del 17 novembre 2011 presso l’Università Europea di Roma. 378 Proprio in ragione della complessità delle normative nei settori bancario e assicurativo e degli evidenti rischi di condotte sleali da parte dei professionisti in tali settori, in Inghilterra è stato raggiunto un accordo nel novembre 2009 tra l’OFT e il Financial Services Authority (FSA) per collaborare nell’individuazione di condotte sleali proprio in tali settori. 379 Provvedimento AGCM, BNL – Contratto di mutuo, PS705/2010. 376
187
Il professionista è inoltre tenuto ad adottare una diligenza professionale consona sia alle caratteristiche dell’organizzazione industriale dell’offerta, sia al livello di “reattività” della domanda. Relativamente al primo profilo, in relazione alle specifiche ed elevate professionalità che l’operatore abbia la possibilità, economica e industriale, o l’obbligo, in base alla normativa di settore, di mettere in campo, il professionista è tenuto ad agire attraverso il ricorso alle sue migliori professionalità, anche quando interagisce con i consumatori. Rispetto alla reattività della domanda, il grado di diligenza richiesta al professionista che interagisce con il consumatore in un settore/contesto caratterizzato da asimmetria informativa deve essere maggiormente elevato. Nel settore creditizio e delle assicurazioni, caratterizzato dall’esistenza di una forte asimmetria informativa tra operatori economici e consumatori, in ragione della complessità dei prodotti offerti, l’attività di tutela del consumatore è per questo idonea a garantire un corretto funzionamento del mercato e una più consapevole scelta del prodotto da parte dello stesso consumatore e dell’operatore che meglio soddisfa le sue esigenze. La complessità dei prodotti commercializzati in tali settori e l’incidenza che gli stessi hanno sul patrimonio del consumatore impongono obblighi di diligenza particolarmente elevati agli operatori del settore, con particolare riferimento al momento in cui tali prodotti vengono pubblicizzati. Le offerte di tali servizi sono, però, nella maggior parte dei casi difficili da valutare dal consumatore medio, sia dal punto di vista qualitativo sia della convenienza, anche perché i contratti in tale settore sono spesso complessi anche per gli operatori. La vulnerabilità dei consumatori è evidente e il professionista ha grandi spazi per “ingannare” o “aggredire” al fine di trarre profitto.
188
Ne consegue che la diligenza esigibile da un professionista in questi settori è sicuramente più elevata della media380, imponendo, tra le altre, allo stesso di conoscere le pratiche correnti del settore, ma di discostarsene quando siano lesive degli interessi dei consumatori. Una sorta di “professionista modello” a cui sono imposti obblighi specifici di diligenza, configurati come dei veri e propri dovere di protezione del consumatore e spetterà all’interprete accertare se la disciplina nazionale contenga regole che su taluni aspetti impongano obblighi “aggiuntivi” rispetto a quelli della Direttiva381. I professionisti che operano nei settori regolati dovranno quindi conformare le loro condotte verso i consumatori alle nuove regole, aumentando così inevitabilmente la loro esposizione al c.d. “rischio di compliance”, ossia il rischio originato dal mancato rispetto di leggi e regolamenti che espongono l’impresa a sanzioni, multe, penalità e che nei casi più gravi può portare alla sospensione dell’attività produttiva382.
7.1.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL SETTORE BANCARIO
Le pratiche commerciali sleali che hanno ad oggetto prodotti bancari, in senso lato, sono particolarmente pericolose, in quanto hanno una maggiore incidenza, economica, sul consumatore. Si pensi al credito al consumo, al credito ipotecario, ai servizi di pagamento, tramite carte di credito, bancomat, assegni e i servizi di cassa dai quali il consumatore dipende per ogni sua scelta e sono ormai indispensabili nella moderna società del consumo. La congiuntura di crisi rende, però, il settore bancario, più degli altri, esposto a condotte sleali delle banche383.
TAR Lazio, 28 gennaio 2009, n. 3689. Si ricordi, infatti, che l’art. 3, § 4 della Direttiva dispone che, in caso di contrasto tra le disposizioni della predetta Direttiva e di quella nazionale di attuazione, e altre norme comunitarie e relative regole nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime che trovano applicazione su tali aspetti specifici. 382 MARANO, Le pratiche commerciali scorrette nel mercato assicurativo: pubblicità, offerta ed esecuzione dei contratti dei rami danni, in MELI – MARANO (a cura di), La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Torino, 2011, 63. 383 Si consideri che alcune pratiche commerciali sleali poste in essere nel settore bancario hanno determinato criticità di sistema, come il caso dei mutui subprime americani, MCCOY, Il contagio dei subprime, in RISPOLI FARINA – ROTONDO (a cura di), La crisi dei mercati finanziari, Milano, 2009, p. 25. 380 381
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Ciò che deve evitarsi è, tuttavia, che l’imposizione di una particolare diligenza professionale richiesta ai professionisti che operano nel settore bancario non si traduca in un eccessivo paternalismo, che andrebbe altrimenti a contrastare con la disciplina generale delle pratiche commerciali sleali che non intende tutelare un consumatore privo di spirito critico e capacità di selezionare le informazioni, distratto e superficiale. Il livello di diligenza professionale che può essere imposto a una banca nei rapporti con la propria clientela è, quindi, il medesimo che si può richiedere nello svolgimento della propria attività, ovvero di quella elevata attenzione che il professionista pone nel rispetto delle complesse normative applicabili all’attività. In sostanza, i professionisti che operano nel settore bancario quando interagiscono con i consumatori devono osservare standard di diligenza elevati e non inferiori a quelli che adottano interamente per perseguire gli scopi dell’attività. Gli operatori bancari sono, così, tenuti come tutti i professionisti al rispetto dei generali obblighi di buona fede, correttezza e lealtà, ma anche alla piena osservanza delle previsioni settoriali che regolano l’attività. Nel settore bancario, è stata ritenuta contraria al dovere di diligenza l’attività di orientamento delle scelte del consumatore “in direzione diversa dai suoi interessi e dagli obiettivi perseguiti dal legislatore” attraverso la regolazione settoriale384. Per questo, è contraria alla diligenza professionale l’inosservanza delle procedure interbancarie, rispetto alle quali il consumatore è confidente del rispetto385. I consumatori possono così attendersi dal professionista una condotta idonea a neutralizzare i rischi commerciali connessi al forte squilibrio che caratterizza la relazione, che si determina in base al parametro della legalità specifica dell’attività esercitata, ma che non può esaurirsi nell’osservanza della normativa di settore,
Si vedano i provvedimenti AGCM, Intesa San Paolo – Cancellazione Ipoteca, PS1130/2009; BNL – Cancellazione Ipoteca, PS1481/2009. 385 È da ritenersi contraria alla diligenza professionale, ad esempio, l’applicazione di una commissione, addebitata in qualità di banca esattrice, per il pagamento di un bollettino MAV emesso da un’altra banca, nonostante la regolamentazione della relativa procedura interbancaria escluda espressamente l’applicazione di commissioni a carico del versante. 384
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quando le medesime non garantiscano un’effettiva tutela della liberta di scelta del consumatore. La casistica sulle pratiche commerciali sleali nel settore bancario è alquanto vasta e imperniata proprio sull’elevata diligenza professionale che il consumatore medio potrebbe ragionevolmente attendersi dagli operatori bancari, che molto spesso però non trova. Le violazioni contestate a tali professionisti sono, in particolare, quelle relative all’omesso rilascio di informazioni di cui il consumatore ha bisogno per prendere una decisione economica consapevole. Il professionista è tenuto, infatti, a fornire nel messaggio pubblicitario una corretta indicazione degli elementi essenziali da cui poter ricavare le condizioni economiche, ad esempio di erogazione dei finanziamenti, e l’incidenza delle voci che partecipano alla determinazione dei costi complessivi dei medesimi. Nel settore del credito al consumo è così imposto che l’indicatore che consente al consumatore di valutare e calcolare l’esatto importo dell’intera operazione finanziaria, ovvero il TAEG, deve essere sempre indicato specificamente, non essendo sufficiente, per una condotta diligente, l’indicazione del medesimo attraverso una “forbice” che appare troppo generica e non consente al consumatore di valutare correttamente l’offerta. Allo stesso modo è contraria alla diligenza professionale la condotta del professionista che ometta ogni indicazione circa l’esistenza e l’ammontare di una soglia infruttifera, al di sotto della quale non si applica il rendimento promesso. In tale settore, in particolare, il consumatore è legittimato ad attendersi dal professionista che lo stesso gli offra informazioni idonee a poter valutare l’effettiva convenienza dell’offerta anche per poterla raffrontare con altre simili. Allo stesso modo una condotta diligente impone al professionista di dare seguito alle richieste del consumatore di chiusura del conto corrente, il cui processo deve avvenire nella maniera più semplice, senza particolari oneri a carico del consumatore. 191
Deve considerarsi sleale, quindi, l’addebito dei costi connessi alla tenuta del conto corrente (come il canone, imposta di bollo, etc.) nelle more dell’estinzione del rapporto, nel caso in cui il consumatore abbia richiesto il recesso del conto, del quale non poteva più usufruire pienamente, avendo già restituito i supporti per l’utilizzo dei servizi di pagamento, come assegni e carte. Al professionista è così imposto di: (i) rendere prevedibili ai consumatori i tempi di chiusura dei rapporti di conto corrente, riportando dettagliatamente nei fogli informativi i tempi necessari per la chiusura a seconda dell’esistenza di rapporti collegati al conto corrente (quali, ad esempio, carte di crediti, RID, telepass, utenze domiciliate, etc.); (ii) indicare i tempi massimi previsti per la chiusura del conto, dal momento in cui la richiesta sarà completata, all’interno anche del modulo di richiesta di recesso; (iii) chiedere al consumatore la disponibilità a comunicare le coordinate di un conto corrente anche presso un’altra banca in cui il professionista sia autorizzato ad addebitare eventuali saldi negativi; (iv) effettuare una formale comunicazione al consumatore in tutti i casi in cui insorgano elementi ostativi alla chiusura del rapporto; (v) non applicare costi connessi alla tenuta del conto nel caso in cui successivamente alla richiesta di recesso il consumatore non abbia più la piena disponibilità del medesimo. Deve ritenersi contraria al dovere di diligenza professionale la condotta posta in essere da istituti di credito volta a negare o comunque ostacolare la cancellazione gratuita delle ipoteche da parte dei mutuatari prevista dalla legge. Ciò si verifica, in concreto, se, ad esempio, la banca consigli il consumatore di rivolgersi a un notaio a proprie spese per ottenere la cancellazione dell’ipoteca, quando tale attività deve essere imposta dalla banca a proprie cure e spese o ponga in essere una condotta ostruzionistica che porti a una dilazione dei tempi per il rilascio della quietanza del debitore e per la trasmissione al conservatore della relativa comunicazione, tale da costituire un ostacolo non contrattuale imposto al consumatore in relazione all’esercizio di un diritto. Con particolare riferimento al settore dei servizi bancari, devono ritenersi sleali tutte le condotte poste in essere dal professionista, seppur conformi formalmente al 192
dato normativo, che sono in realtà volte ad aggravare la condizione economica del consumatore. Si pensi, in Italia, al caso delle commissioni di massimo scoperto che con l’entrata in vigore della legge 28 maggio 2009 n. 2386 sono state eliminate dall’ordinamento, imponendo così alle banche di adottare nuove commissioni nel caso in cui il saldo del cliente risulti a debito per un periodo inferiore a trenta giorni o a fronte di utilizzi in assenza di fido, il cui corrispettivo deve essere predeterminato, unitamente al tasso debitore, con patto scritto non rinnovabile tacitamente, in misura proporzionale all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente387. Rispetto, invece, alle ipotesi di richieste di portabilità dei mutui, i doveri di diligenza professionale debbono essere declinati tenendo conto del favor espresso dal legislatore per la portabilità gratuita dei mutui, nel senso di riconoscere uno specifico dovere a carico della banca di porre in essere procedure tali da garantire la gratuità della surroga, dovendosi considerare contrarie alla diligenza professionale tutte le condotte che impongano degli oneri a carico del consumatore. Secondo la giurisprudenza italiana, sul punto, non può comunque essere vietata la pratica che orienta il cliente verso una opzione contrattuale piuttosto che verso un’altra, anche se quest’ultima sia più conveniente e sia stata espressamente prevista dal legislatore per avvantaggiare il consumatore388.
Legge di conversione del decreto legge 29 novembre 2008 n. 185 recante “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funziona anti-crisi il quadro strategico nazionale”. 387 Dalle verifiche effettuate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato è emerso che, in molti casi, gli istituti bancari, seppur introducendo nuove commissioni conformi con le modifiche normativa, in realtà hanno applicato ai consumatori aliquote che in via generale risultavano peggiorative rispetto alle commissioni di massimo scoperto quando gli utilizzi delle somme avvenivano entro il fido e più vantaggiose quando si verificava uno sconfinamento rispetto alla somma affidata, penalizzando in questo modo le condotte dei clienti virtuosi. L’accertamento di tali condotte evidentemente non conformi alla diligenza professionale ha imposto al legislatore un ulteriore intervento normativo volto a rendere che le nuove commissioni applicate siano effettivamente vantaggiose. 386
Consiglio di Stato, 23 dicembre 2010, n. 9329. Tale posizione è sicuramente discutibile in quanto negherebbe implicitamente, cosa che non può essere, il dovere del professionista di attivarsi per ottenere affidabili chiarimenti sulla portata degli obblighi di legge da cui è gravato. In tal senso, LIBERTINI, Le prime pronunce del giudice amministrativo in materia di pratiche commerciali scorrette, in Giurisprudenza commerciale, 2009, II, p. 888 388
193
7.2.
LA DILIGENZA PROFESSIONALE NEL MERCATO ASSICURATIVO
Le norme europee in materia assicurativa individuano una nozione di consumatore più ampia rispetto a quella di cui alla disciplina delle pratiche commerciali sleali e, in parte, differente, identificandolo nell’esposizione sia delle persone fisiche, sia delle persone giuridiche ai rischi c.d. di massa che sono tutti quelli diversi dai grandi rischi, limitatamente all’offerta di prodotti assicurativi e ai conseguenti flussi informativi riguardanti la relazione fisica, non a distanza, tra il professionista e il contraente attuale, a prescindere se il rischio assicurato attiene alla sfera personale o all’attività economica di quest’ultimo389. L’applicazione dei criteri individuati dalla Direttiva per disapplicare le sue disposizioni rispetto ad altre norme europee specifiche o all’esercizio della potestà degli Stati membri che impone vincoli maggiori per i servizi finanziari, porta a dei risultati particolari, ma che spingono a una riflessione più generale rispetto all’intera disciplina. Parrebbe, infatti, che il consumatore che assume rilievo ai fini della valutazione del pregiudizio arrecato dalla pratica commerciale sleale alla sua libertà di scelta, nel mercato assicurativo, possa essere, non solo una persona fisica, ma anche una persona giuridica che agisce per acquistare coperture assicurative, anche nell’ambito della sua attività professionale o imprenditoriale, salvo la polizza copra grandi rischi. Si tratta di un evidente cambio di prospettiva – sicuramente compatibile con l’assetto normativo europeo – dalla persona che consuma a ciò che la stessa consuma, ovvero le coperture per rischi di massa390. Del resto, il mercato assicurativo è alquanto peculiare in quanto nel medesimo non è solo il professionista a dover informare il consumatore, ma anche quest’ultimo è
MARANO, Le pratiche commerciali scorrette nel mercato assicurativo: pubblicità, offerta ed esecuzione dei contratti dei rami danni, in MELI – MARANO (a cura di), La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Torino, 2011, 70. 390 MARANO, Le pratiche commerciali scorrette nel mercato assicurativo: pubblicità, offerta ed esecuzione dei contratti dei rami danni, in MELI – MARANO (a cura di), La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, Torino, 2011, 72. 389
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tenuto a trasferire al professionista tutta una serie di informazioni essenziali, al fine di poterlo determinare in merito all’assunzione o meno delle conseguenze economiche del rischio gravante sullo stesso. Il flusso informativo voluto dalla normativa di settore è, infatti, caratterizzato per i c.d rischi di massa da una biunivocità che attiene non solo alla direzione di tale flusso, ma anche al suo contenuto. Lo stesso legislatore europeo aveva considerato al considerando n. 18 della Direttiva che l’individuazione del consumatore medio a cui la pratica commerciale si rivolge deve tenere conto anche del contesto economico e di mercato nel quale il consumatore si trova ad agire; mercato assicurativo che il legislatore europeo con la direttiva 2002/92/CE, conformemente a quanto consentito dalla disciplina delle pratiche commerciali sleali, ha inteso configurare in un modo che distingue rispetto ai rischi e non ai soggetti a essi esposti. Nella stessa disciplina delle pratiche commerciali, il legislatore ha espressamente previsto che la medesima offre “una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore”, ovvero che le norme della Direttiva si applicano solo in assenza di una disciplina specifica di settore, della cui completezza occorre verificare caso per caso. La disciplina assicurativa impone, infatti, al professionista specifici obblighi di diligenza per ogni fase del rapporto con il consumatore: dai messaggi pubblicitari aventi ad oggetto prodotti assicurativi, alla relazione precontrattuale che sorge a seguito del contratto che si instaura tra il consumatore e il professionista (a prescindere se un messaggio pubblicitario vi sia stato), alla gestione vera e propria del contratto assicurativo. Tali specifiche disposizioni concorrono, quindi, a tracciare quel modello di diligenza professionale concretamente voluto dal legislatore europeo rispetto al caso di specie. Nel settore assicurativo saranno così da considerarsi sleali i messaggi che:
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a)
non specificano l’eventuale esistenza di condizioni limitative per fruire del prodotto assicurativo reclamizzato, siano esse di tipo soggettivo, oggettivo o misto391;
b)
comunicano sconti riferiti a grandezze non determinate;
c)
contengono affermazioni non conformi alle condizioni contrattuali.
Contraria alla diligenza professionale e sicuramente sleale è la condotta del professionista che presenta come obbligatoria una copertura assicurativa al consumatore quando, in realtà, la medesima è solo facoltativa392. L’omissione del carattere facoltativo della copertura assicurativa non
è
evidentemente conforme al normale grado della specifica competenza e attenzione che, ragionevolmente, occorre attendersi da un professionista che opera in settori di attività caratterizzati da asimmetrie informative e ai quali è richiesto di essere pienamente consapevoli dei prodotti che propongono. Da ciò deriva che la conoscenza del prodotto commercializzato implica la consapevolezza da parte del professionista che eventuali omissioni o inesattezze nella sua offerta al consumatore non possono considerarsi casuali, ma rappresentano una precisa volontà del professionista finalizzata a influire sul comportamento economico del consumatore. L’Office of Fair Trading inglese ha condotto un approfondito studio sulla pratica di pubblicizzare un prezzo per un prodotto e aggiungere extra charges durante il processo di acquisto (i c.d. partitioned prices)393. Questa pratica si riscontra di sovente in genere per tutte le offerte on line nelle quali è stato accertato che il ricorso all’opt out per evitare l’acquisto dei servizi aggiuntivi, quali l’assicurazione, è idonea a influenzare le scelte dei consumatori. I consumatori tendono, infatti, ad affidarsi alla scelta pre-selezionata dal professionista o perché la considerano la più consigliata, ponendo gli stessi fiducia Provvedimento AGCM, Arfin – Polizza 110 e lode, PS4307/2010. Provvedimento AGCM, Fiditalia – Carta Eureka, PS1311/2011; Ducato – carta revolving, PS2940/2009. 393 Office of Fair Trading, Advertising of prices, December 2010, www.oft.gov.uk/shared_oft/marketstudies/AoP/OFT1291.pdf. 391 392
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sullo stesso professionista394 o perché non sono in grado, talvolta, di rimuovere la pre-scelta selezionata dal professionista395. Per questo, nel caso in cui dall’offerta online il consumatore non sia pienamente edotto del carattere facoltativo dell’adesione alla polizza, del costo complessivo della medesima, con evidenza anche del suo specifico ammontare che sarà scomputato dal prezzo complessivo in caso di mancata adesione, la pratica dovrà ritenersi sleale.
MADRIAN – SHEA, The power of suggestion, Inertia in 401 (k) partecipation and savings behavior, in Quarterly Journal of Economics, 2001, pp. 1149 e ss. 395 Office of Fair Trading, Advertising of prices, December 2010, www.oft.gov.uk/shared_oft/marketstudies/AoP/OFT1291.pdf., p. 30. 394
197
CONCLUSIONI
L’analisi della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali ha confermato come il diritto dei consumatori sia l’espressione più significativa del primato del diritto europeo su quelli nazionali e come lo stesso sia un diritto in movimento che lo sta portando a essere un vero e proprio diritto dei cittadini europei. Tale evoluzione è del resto coerente con il riconoscimento della cittadinanza europea come fondamento di legittimazione dell’Europa unita e come fattore destinato ad accrescere il livello di integrazione politico-istituzionale e socioculturale, ovvero con la c.d. “via della cittadinanza” al diritto europeo come sostenuto da Moccia. Ciò ha, quindi, portato al cambiamento di prospettiva anche degli interventi del legislatore europeo in materia, superando quell’armonizzazione minimale probabilmente necessaria nella prima fase dell’esperienza del diritto europeo - per tendere verso un’armonizzazione massima e completa delle legislazioni nazionali che, grazie anche agli interventi della stessa Corte di Giustizia, ha portato a un’effettiva limitazione per i legislatori nazionali di oltrepassare il livello di protezione posto dal diritto europeo. Trovandosi a regolare le condotte dei professionisti nell’ambito del mercato interno nel loro relazionarsi con i consumatori, il diritto dei consumatori è, però, inevitabilmente connesso con quello della concorrenza, in una visione di reciproco completamento e combinazione, in cui entrambe le discipline tendono, direttamente o anche indirettamente, a tutelare la libertà di scelta dei consumatori così che l’una concorre a definire ambito e lineamenti portanti dell’altra. Per questo, per poter raggiungere gli obiettivi fissati dagli stessi Trattati e realizzare un mercato caratterizzato da un effettivo fair trading, il legislatore europeo ha ritenuto doveroso intervenire in un siffatto contesto normativo, ritenendo che la politica
della
concorrenza
e
quella
a
tutela
dei
consumatori
debbano
necessariamente completarsi tra loro.
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Tenuto conto, però, che la materia della concorrenza sleale non rientra ad oggi tra le competenze proprie dell’istituzione europee, il primo intervento sostanziale volto a definire un parametro di correttezza da imporsi al professionista nell’ambito delle proprie relazioni di mercato è avvenuto proprio nell’ambito della tutela dei consumatori-cittadini europei. La disciplina europea delle pratiche commerciali sleali rappresenta, così, al momento, la più significativa tappa volta al progressivo ravvicinamento delle politiche della concorrenza e della protezione dei consumatori, per tendere poi necessariamente verso la definizione di uno statuto della correttezza professionale, ovvero di fair trading, come modello delle relazioni tra gli operatori del mercato, intesi come professionisti e consumatori. La comparazione delle legislazioni nazionali ha mostrato come già in alcuni degli ordinamenti nazionali, come la Germania, la Grecia, la Svezia, il Belgio, l’Austria e la Danimarca, di fatto, i canoni della diligenza richiesta al professionista che opera sul mercato sono i medesimi sia che lo stesso si relazioni nei confronti dei consumatori, come prevede la legislazione europea, sia che lo faccia con altri professionisti. Un principio questo che è stato recentemente introdotto anche in Italia, dove la disciplina delle pratiche commerciali, e con essa gli obblighi di diligenza professionale poste a carico dei professionisti, è stata estesa anche ai rapporti tra professionisti e microimprese, ovvero, di fatto, altri professionisti. Tale evoluzione è coerente con l’obiettivo, prefissato a livello europeo, di un corretto funzionamento del mercato interno in cui i consumatori-cittadini europei sono stimolati ad acquistare beni e/o servizi offerti loro da professionisti con sede in altri Stati membri, i quali, a loro volta, sono incentivati a proporre i propri prodotti anche al di fuori dei propri confini nazionali. Per questo, la Direttiva, oltre a risultare per il linguaggio e le definizioni utilizzate decisamente evocativa della disciplina sulla concorrenza sleale, di quest’ultima costituisce il primo autentico nucleo a livello europeo, in particolare nell’improntare i rapporti allo standard di correttezza (diligenza) professionale.
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Il principio della correttezza professionale è diventato, così, il punto di collegamento delle discipline della tutela del consumatore, della tutela della concorrenza e della repressione della concorrenza sleale, seppur ciascun nucleo normativo mantiene la sua autonomia. Da qui, l’adozione di una nozione aperta, come quella di diligenza professionale nella formulazione del divieto generale di pratiche commerciali sleali, ha avuto un rilievo determinante per l’inquadramento dell’intera disciplina. Gli approfondimenti svolti hanno portato a ritenere la clausola generale di cui all’art. 5 della Direttiva 29/2005/Ce, in cui è contenuto il divieto per i professionisti di porre in essere pratiche commerciali sleali, la norma fondamentale dell’intera disciplina delle pratiche commerciali, la quale è su di essa interamente plasmata. Da tale conclusione, deriva che le norme in cui vengono disciplinate le pratiche commerciali ingannevoli e aggressive debbano essere ritenute delle norme di dettaglio, ovvero applicazioni particolari della disposizione di principio, secondo lo schema“norma fondamentale/norme applicative”. Ciò significa che al ricorrere dei presupposti di cui alle norme di dettaglio vi è una presunzione legale di conflitto con il principio generale di cui all’art. 5 della Direttiva che regola la disciplina e quindi una contrarietà di tale fattispecie alle norme della diligenza professionale. L’esame specifico poi della clausola generale ha portato a ritenere che, su un piano sostanziale, la nozione di diligenza professionale, individuata dal legislatore europeo, esula dal concetto sia (i) di diligenza intesa come parametro di valutazione dell’esattezza dell’adempimento di obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale assunte da imprenditori e liberi professionisti nei confronti di consumatori e come metro di commisurazione delle sforzo cui può e deve considerarsi tenuto un professionista che sia “debitore” di un consumatore; sia (ii) di diligenza la cui mancata adozione consente di qualificare come colposa la condotta del soggetto che con un proprio comportamento cagioni ad altri un danno ingiusto. La nozione di diligenza professionale proposta dal legislatore europeo deve, quindi, considerarsi autonoma e caratterizzata da una sorta di oggettività, in quanto costituita dalle regole oggettive di comportamento corrispondenti a un determinato 200
grado di conoscenze specialistiche, di cura e attenzione che il professionista è tenuto ad osservare nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori. Il criterio della diligenza professionale di cui alla disciplina delle pratiche commerciali sleali, per questo, non può che ritenersi del tutto autonomo e non riconducibile ai concetti noti nella tradizione giuridica continentale e sviluppati, come visto, nell’ambito della responsabilità contrattuale e civile. Dalla diligentia propria del diritto romano e dal duty of care dell’esperienza di common law, la diligenza professionale richiesta dal legislatore europeo come criterio di condotta dei professionisti nell’ambito del mercato interno prende, però, la sostanza per svilupparsi poi come concetto nuovo e atto a far fronte alle nuove esigenze di tutela del mercato, in quello spazio giuridico senza frontiere che è il mercato interno europeo. Quale debba essere, poi, in concreto il livello che possa e debba considerarsi dovuto per far sì che una pratica commerciale possa essere considerata sleale è una questione che va risolta, caso per caso, tenendo conto delle specifiche peculiarità della singola fattispecie, e in particolare della natura dell’attività esercitata dal professionista. Ne consegue che è di fondamentale importanza, anche al fine di rendere applicabile le norme europei rispetto fattispecie reali, poter concretizzare la nozione di diligenza professionale. La concretizzazione di una nozione così, all’apparenza astratta, avviene, però, con l’individuazione delle specifiche condotte da ritenersi compiute dal professionista nel rispetto o meno delle norme di diligenza professionale, ovvero attraverso appunto il giudizio di contrarietà o meno delle pratiche commerciali a tale principio. Del resto, proprio la capacità di tale nozione di adattarsi a più situazioni e al contempo garantire una armonizzazione a livello di principio sono stati i motivi che hanno spinto, come visto, il legislatore europeo ad avvalersene. A livello sistematico, infatti, l’utilizzo di questa nozione aperta nella formulazione del divieto generale di pratiche commerciali sleali assume importante rilievo per l’inquadramento della disciplina. La prima indicazione è che la diligenza professionale è fondamentalmente “perizia” che include “competenze” e “attenzione”, quali contributi della condotta. 201
La seconda è che il grado di perizia imposto al professionista che si relazione con il consumatore è deficitario se inferiore a quello che ragionevolmente il consumatore medio può attendersi, tenuto conto dei vincoli economici e delle regole giuridiche che presiedono lo svolgimento dell’attività. Il tutto nel rispetto dei principi di onestà e buona fede. Tale corollario impone, quindi, che nei settori regolati lo standard di diligenza richiesta al professionista dovrà essere più elevato, dal momento che la specifica regolazione di quel settore rinforza l’aspettativa del consumatore rispetto del grado di competenza e attenzione posta dal professionista. Il rispetto di tale specifiche normative non esclude, però, la possibilità di configurare una pratica come sleale, né esonera il professionista dal porre in essere quei comportamenti ulteriori che, pur non espressamente previsti, discendono dall’applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore. In ogni caso, la prova che una determinata condotta sia conforme alla prassi del settore di riferimento del professionista non esclude la contrarietà della stessa alla diligenza professionale e, di conseguenza, la sua slealtà. Nel relazionarsi con il consumatore, il professionista dovrà, pertanto, essere sempre preparato e aggiornato rispetto alla prestazione che deve compiere, e applicare sempre tecniche appropriate e non superate nello svolgimento della propria attività e non potrà, in alcun modo, ostacolare l’esercizio dei diritti riconosciuti dalla legge al consumatore, quali, il diritto di recesso, né limitarne in alcun modo l’efficacia e la portata. L’analisi dei provvedimenti sin’ora resi nell’ambito degli Stati membri ha portato a concludere che risultano essere state accertate, in particolare in Italia, una pluralità di condotte sleali poste in essere da professionisti evidentemente poco diligenti. Condotte tra loro sicuramente differenti, ma che hanno come comun denominatore la contrarietà ai principi di quel fair trading a cui vorrebbe tendere definitivamente il diritto europeo. Dall’analisi svolta, emerge, tuttavia, che in molti ordinamenti nazionali - vuoi perché storicamente già poco proliferi in generale di provvedimenti, a differenza di Paesi come l’Italia, vuoi perché già conformati ai principi di fairness come i Paesi 202
Scandinavi - manca attualmente un’effettiva concretizzazione del principio della diligenza professionale. In particolare, per quanto qui consta, nell’ordinamento inglese, a quattro anni dall’entrata in vigore della disciplina delle pratiche commerciali sleali, i provvedimenti emessi dalle competenti Autorità al fine di accertare la lealtà o meno delle condotte poste in essere dai professionisti sono poche decina. In Italia, invece, la situazione è completamente differente. Ad oggi le pratiche commerciali accertate essere sleali dapprima dall’AGCM e successivamente dal giudice amministrativo sono molteplici e i procedimenti avviati in questi anni sono nell’ordine di centinaia. Considerato lo spirito della Direttiva di realizzare una legislazione uniforme in materia di pratiche commerciali sleali e il fatto che, seppur per certi aspetti le nozioni di diligenza professionale proposte in sede di attuazione dai legislatori nazionali sono, in alcuni casi, formalmente differenti, ma comunque conformi da un punto di vista sostanziale a quanto disposto a livello europeo, pare logico poter sostenere che la concretizzazione del principio della diligenza professionale avvenuta in uno Stato membro possa valere anche per le altre esperienza nazionali, in ragione della comunanza di principi. Del resto, ad oggi, non si riscontrano contrasti applicativi della normativa sulle pratiche commerciali sleali con riferimento alla concretizzazione del principio della diligenza professionale. Gli interpreti non potranno, quindi, che provvedere ad integrare in via interpretativa la formulazione testuale della rispettiva legislazione nazionale, facendo riferimento ai principi individuati dal legislatore europeo, anche se non espressamente contemplati dalla normativa nazionale di recepimento e di quanto statuito nella stessa materia negli altri Stati membri, nell’ottica di un ordinamento, quello europeo, ormai da dover (ritornare a) considerare, oltre che multi-livello, anche comunicante. La storia del diritto europeo è caratterizzata, infatti, tra il XVI e il XVIII secolo, da una reale ed effettiva apertura giuridico-istituzionale, dal lato delle fonti, e culturale, dal lato della mentalità dei giuristi, nei quali era doveroso ricorrere a auctoritates di dottori e tribunali stranieri, costituenti la communis opinio, oppure alla lex alius loci, ovvero a regole e principi comuni ad altri ordinamenti. 203
Negare oggi l’applicazione di tali principi all’interno dell’Unione europea significherebbe - cosa ormai non più possibile, nonostante le note criticità riscontrate nel processo di integrazione europeo - abbattere i grandi sforzi fatti in questi anni per l’effettiva realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, regolato da un diritto comune europeo. Gli ordinamenti dei singoli Stati membri non possono, quindi, che essere considerati aperti, dove ciò concretamente significa che il singolo interprete nazionale potrà e dovrà ricorrere a quanto eventualmente già statuito a livello europeo o comunque a casi già risolti negli altri ordinamenti nazionali nel concretizzare principi come quello della diligenza professionale, garantendo così un’effettiva e reale armonizzazione della materia. L’armonizzazione completa delle legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali sleali voluta dal legislatore ha, infatti, inevitabilmente portato a una possibile circolazione delle declinazioni concrete occorse in un ordinamento anche negli ordinamenti di altri Stati membri, ad una comunanza dei principi, che può essere letta proprio come una sorta di reale ritorno a quegli ordinamenti aperti del XVI-XVIII secolo. Il passaggio successivo che il legislatore europeo dovrà compiere sarà ora quello di estendere tale regola di condotta non solo ai rapporti tra professionista e consumatori, ma anche ai reciproci rapporti tra professionisti. Non si comprende, infatti, per quale motivo all’interno dello stesso mercato il professionista debba relazionarsi con gli altri operatori del mercato in maniera differente, con livelli di cura e attenzione che possono cambiare anche con riferimento alla medesima pratica, come quando quest’ultima sia rivolta indistintamente a consumatori e professionisti. Se l’idea è quella che il consumatore non si trovi in una condizione paritetica con il professionista, deve considerarsi però che non sempre il fatto di avere questa qualifica consente di sopperire a tale asimmetria. Si consideri il caso di un piccolo imprenditore che si relaziona con un professionista accreditato sul mercato per l’acquisto di prodotti che esulano dal proprio oggetto sociale. È evidente che tale posizione non si discosta da quella di un semplice consumatore e, quindi, non si 204
comprendono le ragione per cui nei rapporti con quest’ultimo il professionista non debba tenere lo stesso grado di diligenza che avrebbe nel relazionarsi con un consumatore, per consentire alla propria controparte di prendere decisioni commerciali in maniera libera e consapevole. È su questa strada che il legislatore europeo dovrà proseguire una volta che la nozione di diligenza professionale, come intesa nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali sleali, diventerà effettivamente parte dei principi giuridici delle esperienze nazionali, così che la medesima potrà essere trasportata anche nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale. Lo sviluppo dell’Unione europea e del suo diritto non possono, infatti, ormai più prescindere da un’integrazione reale tra i singoli ordinamenti nazionali e un’uniformazione delle relative legislazioni, in ogni ambito. Oggi che l’esperienza europea sembra essersi consolidata, sulla base anche delle sue comuni radici giuridiche, il diritto europeo unitario costituisce il vero elemento costitutivo del mercato unico e del suo corretto funzionamento e la disciplina delle pratiche commerciali sleali è la prova che le istituzioni europee hanno deciso di perseguire tale obiettivo diligentemente.
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