UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN POESIA E CULTURA GRECA E LATINA IN ETÀ TARDOANTICA E MEDIEVALE
CICLO XXV
Le guarigioni operate da S. Martino nella riscrittura poetica di Venanzio Fortunato
TUTOR
DOTTORANDA
Chiar.mo Prof. Giuseppe Flammini
Dott. Anna Fraternali
COORDINATORE Chiar.mo Prof. Roberto Silvano Palla
Anno 2013
INDICE INDICE ........................................................................................................................ 1 Premessa ....................................................................................................................... 3 CAPITOLO I ................................................................................................................ 9 Le origini del poeta ................................................................................................... 9 La permanenza a Ravenna e la formazione (letteraria, culturale, religiosa) .............. 12 La miracolosa guarigione agli occhi ..................................................................... 16 La partenza per la Gallia ed il viaggio ad Turones ................................................... 18 La permanenza di Fortunato presso la corte austrasiana ....................................... 22 La prosecuzione del viaggio di Fortunato ............................................................. 23 Il definitivo insediamento di Fortunato a Poitiers ..................................................... 24 Le opere...................................................................................................................... 30 I carmi ..................................................................................................................... 30 Gli scritti agiografici in prosa .................................................................................. 37 La Vita Sancti Martini ............................................................................................. 39 CAPITOLO II ............................................................................................................. 52 La guarigione della paralitica di Treviri (Ven. Fort. Mart. 1, 366-428) .................... 52 Traduzione ........................................................................................................... 55 Commento ........................................................................................................... 57 La guarigione del lebbroso (Ven. Fort. Mart. 1, 487-513) ........................................ 92 Traduzione ........................................................................................................... 94 Commento ........................................................................................................... 95 La guarigione della figlia di Arborio (Ven. Fort. Mart. 2, 19-37) ........................... 121 Traduzione ......................................................................................................... 122 Commento ......................................................................................................... 123 La guarigione di Paolino (Ven. Fort. Mart. 2, 38-40) ............................................. 137 Traduzione ......................................................................................................... 138 Commento ......................................................................................................... 138 La guarigione di Martino (Ven. Fort. Mart. 2, 44-57) ............................................ 143 Traduzione ......................................................................................................... 144 Commento ......................................................................................................... 145 La guarigione di Evanzio (Ven. Fort. Mart. 3, 74-96) ............................................ 154
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Traduzione ......................................................................................................... 156 Commento ......................................................................................................... 157 La guarigione dello schiavo morso dal serpente (Ven. Fort. Mart. 3, 97-120) ........ 171 APPENDICE BIBLIOGRAFICA ............................................................................. 186 Elenco delle abbreviazioni ..................................................................................... 186 Edizioni ................................................................................................................. 186 Sitografia............................................................................................................... 187 Bibliografia ........................................................................................................... 187
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Premessa Dalla fine del V secolo la Gallia merovingia fu oggetto di un’opera programmatica di evangelizzazione, che coinvolse in particolare le campagne e le popolazioni rurali, da parte delle gerarchie ecclesiastiche, le quali furono portatrici di nuovi valori e di nuovi costumi, scontrandosi con credenze tradizionali improntate al paganesimo. Il modello proposto dalla Chiesa era il solo che rispondeva ad un criterio di giustezza, impersonando il bene comune, ed è all’interno di questo contesto che nel secolo si caricò nuovamente di grande attualità la figura di Cristo medicus et medicamentum, “come elemento fondante sul piano ideologico del processo di affermazione della Chiesa come struttura di potere”. Questa “medicina celeste” si manifestava mediante l’attività dei santi, presentati quale figura Christi, che operavano sia in vita sia post mortem mediante le reliquie e gli oggetti ad essi appartenuti, venerati dai fedeli1. Tali pratiche andarono a sostituirsi gradatamente alle guarigioni di cui beneficiarono in precedenza gli abitanti della Gallia per mezzo dei santuari, cosiddetti “sanctuaires de l’eaux”, e dell’attività medica tradizionale di impronta pagana, operanti fino al IV secolo; è in questo quadro che si inserisce appunto l’azione taumaturgica dei santi2. Quello appena messo in evidenza costituisce soltanto uno degli aspetti della cristianizzazione della Gallia, che non fu esclusivamente un fenomeno storico, ma altresì un processo interiore, che coinvolse gli individui ed i diversi gruppi sociali; tale processo ebbe un riflesso anche nei generi letterari, in particolare nell’agiografia che rispecchia lo sviluppo del culto dei santi3. A partire dalla fine del VI secolo le biografie dei santi furono proposte sempre più diffusamente, destinate alla lettura pubblica o privata, individuale o collettiva 4.
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Cfr. Lavarra, pp. 172-173. Cfr. Rousselle, pp. 31-52. La studiosa precisa che tali santuari furono oggetto di distruzione nel corso delle invasioni barbariche e che con la cristianizzazione dell’impero, essi non vennero più ricostruiti, determinando nel IV secolo la progressiva scomparsa di tali santuari (p. 61). 3 Cfr. Fontaine (3), p. 113. 4 Cfr. Fontaine (3), p. 113. Secondo quanto affermato da Van Uytfanghe (1), p. 110, l’agiografia diviene nella Gallia merovingia espressione tipica della nuova cultura formatasi all’epoca, una cultura cristiana, ecclesiastica, monastica e pertanto medievale, che si andò sviluppando dai primi del VII secolo. Cfr. inoltre Van Dam (4), p. 408; Van Uytfanghe (2), pp. 135-188. 2
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Contemporaneamente i protagonisti dello scenario politico in Gallia, ossia i reali della dinastia merovingia, vennero man mano definendo i propri santi patroni, in accordo con le autorità episcopali, e coltivarono soprattutto uno stretto legame con il culto di S. Martino5. Tale devozione è testimoniata in particolare da uno dei poeti che ruotarono intorno alla corte dei Merovingi, Venanzio Fortunato, il quale nel 588 assieme a Gregorio di Tours, facendo ritorno a Metz, visitò la corte austrasiana del re Childeberto II, che tre anni prima aveva riconquistato la città di Tours al suo regno. In occasione di tale visita e della celebrazione del dies natali di S. Martino, il letterato dedicò al re Childeberto ed a sua madre Brunichilde un carme, in cui declamò che i sovrani merovingi veneravano Martino quale loro patrono 6. Il culto di questo santo, sviluppatosi lentamente nella prima parte del V secolo, sarà accresciuto dall’azione combinata dell’alto clero, dei pellegrini, dell’attività artistica e letteraria e della componente politica dell’epoca 7. È tuttavia nel VI secolo, grazie all’attività pastorale del vescovo Perpetuo di Tours (459-488/9) che sarà dato un forte impulso alla diffusione del culto martiniano. Al concilio di Tours del 566 i vescovi scrivono alla monaca Radegonda che la predicazione di Martino aveva prodotto in Gallia un numero assai notevole di conversioni 8. Successivamente i vescovi Eufronio e Gregorio proseguirono l’iniziativa intrapresa dal predecessore Perpetuo e, mediante opere di ristrutturazione architettonica di edifici religiosi, di restauro artistico di opere sacre 9 e di divulgazione letteraria, 5
Cfr. Van Dam (3), p. 25; Pietri (4), pp. 353-369. Originario della Pannonia, nato a Sabaria nell’attuale Ungheria, nel 316-317 Martino iniziò la carriera militare, ancora molto giovane, nelle scholae alares di Costanzo II: dovette aspettare venticinque anni prima di ricevere la sua missione dall’imperatore Giuliano. Quanto alla vita cristiana, egli fu battezzato all’età di diciotto anni e si recò in Gallia per formarsi presso Ilario di Poitiers, fino a che gli fu conferito il grado di esorcista. In seguito fece ritorno in patria, dove convertì sua madre. In quanto avversario dell’arianesimo, si ritirò a vita solitaria nell’isola di Gallinaria. Nel 360-361, ritornò in Gallia e fondò un monastero nei pressi di Poitiers; all’incirca un decennio dopo, alla luce di alcuni miracoli eclatanti da lui compiuti e della sua tensione ascetica, Martino fu eletto vescovo di Tours. Egli continuò a vivere nei pressi della città nel monastero di Marmoutier, da lui stesso istituito. Il suo episcopato durò ventisei anni, nel corso dei quali egli visitò instancabilmente le campagne della Gallia, compiendo numerosi miracoli di guarigione e non, convertendo i villaggi ancora pagani e distruggendone templi ed edifici sacri. Martino partecipò anche alla vita della gerarchia ecclesiastica, ai sinodi ed alla vita politica, recandosi in diverse occasioni a Treviri, dove incontrò l’autorità imperiale. Morì a Candes nel novembre del 397. Il suo corpo fu trasportato a Tours e fu deposto in un’umile sepoltura. Sulla biografia di Martino, cfr. in particolare Junod-Ammerbauer, pp. 5-15. 6 Ven. Fort. carm. 10, 7, 31. Cfr. al riguardo, Van Dam (3), p. 26. 7 Mckinley, pp. 173-200. 8 Greg. Tur., Hist. Franc. 9, 39. 9 Cfr. Pietri (1), pp. 419-431; Pietri (2), pp. 526-533; Sauvel, pp. 153-179.
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fecero di Tours una delle più importanti destinazioni dei pellegrinaggi in Occidente10. In particolare Gregorio si dedicò alla raccolta dei miracoli compiuti da Martino dall’inizio del secolo, applicandosi alla medesima dal 573 al 591 11; in seguito egli pubblicò tale silloge suddivisa in quattro libri intitolati De uirtutibus Sancti Martini. Nel prologo del libro I, il vescovo presenta quali suoi antecessori Sulpicio Severo, Paolino di Périgueux e Venanzio Fortunato 12, ossia coloro che a distanza di un periodo tempo notevole, cioè dalla morte del santo (397) agli ultimi decenni del VI secolo, contribuirono dapprima, con Severo, a difendere e provare le gesta del santo ed in seguito, con Perpetuo e Fortunato mediante la versificazione del testo sulpiciano, ad elevare una sorta di panegirico al medesimo ed a diffonderne il culto non solo in Gallia, ma in tutta l’Europa. I tre letterati testé menzionati, assieme allo stesso Gregorio, analogamente a quanto operato dagli evangelisti13, diedero vita al canone relativo a S. Martino 14. Tale canone pertanto esercitò una notevole influenza sull’ideologia politica e religiosa della Gallia Merovingia: i contemporanei di Fortunato e di Gregorio erano concordi nel riconoscere in S. Martino il modello per eccellenza della santità cristiana. Le sue reliquie erano venerate in ogni dove, la sua uirtus veniva invocata in caso di necessità e le sue biografie, in particolare il cosiddetto Martinellus, di cui facevano parte i materiali raccolti ed organizzati da Sulpicio Severo, furono diffuse largamente. Tali opere dunque risultarono determinanti nella definizione dell’ideologia merovingia di santità15. Come accennato, uno degli aspetti principali dell’agiografia dell’epoca, fu l’intento di celebrare le virtù miracolose dei santi, fra cui spiccano per importanza i poteri taumaturgici. Quest’ultima osservazione trova la sua ragion d’essere nelle affermazioni precedenti relative all’evangelizzazione della Gallia ed alla “medicina celeste”. Ed è 10
Cfr. Pietri (2), pp. 204-235; 247-333; Pietri (3), pp. 23-35; Van Dam (3), pp. 27-28; Quesnel, pp. XIXXXIV. 11 Nel ventennio del suo episcopato, Gregorio recensì duecentoventinove miracoli. 12 Cfr. Greg. Tur., Mart. 1, prol. 13 Il paragone tra gli agiografi di Martino e gli evangelisti è istituito da Ghiberto di Gembloux. 14 Cfr. Van Dam (3), p. 2; Nazzaro (6), p. 175. 15 Cfr. Fontaine (3), pp. 113-114; 139-140.
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proprio S. Martino il primo santo guaritore della Gallia, il quale apportò un notevole contributo alla conversione degli abitanti della regione16. L’intento di porre in rilievo le virtù guaritrici di Martino è maggiormente evidente nella stesura biografica più tarda delle tre menzionate, ossia quella di Fortunato databile alla metà circa del terzultimo decennio del VI secolo, e nella raccolta redatta da Gregorio di Tours, il quale annotando i miracoli giorno per giorno, grazie alla testimonianza diretta dei beneficiari e dei fedeli presenti alla guarigione, si fa garante di fronte al lettore di quanto riportato. Il testo di Gregorio documenta l’afflato religioso che ruotava attorno agli edifici ed ai luoghi ritenuti sacri della città di cui Martino era patrono ed egli stesso vescovo, fra cui la basilica in cui erano custodite le reliquie del santo e la grotta di Marmoutier, situata in periferia17. I suoi scritti permettono, inoltre, di ricavare informazioni rilevanti per gli storici, in particolare per gli storici della medicina e di comprendere che l’importanza conferita alle guarigioni miracolose rientra in un più ampio programma, condotto contro la medicina tradizionale a favore appunto della “medicina celeste”, cui si è fatto cenno precedentemente18. Le credenze ed i rituali connesse all’attività dei santi ed ai loro santuari post mortem ebbero pertanto un notevole successo e furono la risposta ai bisogni dei fedeli malati, ai quali la medicina tradizionale ancorata al paganesimo e le pratiche dei medici di età merovingia, non riuscivano a dare conforto 19. È in un contesto simile dunque che si inserisce l’opera oggetto di questa trattazione, la Vita Martini di Venanzio Fortunato20. Di quest’opera poetica sono commentati di seguito alcuni excerpta, costituiti appunto dai miracoli di guarigione operati dal santo: la guarigione della fanciulla paralitica di Treviri (Mart. 1, 366-428), il risanamento del lebbroso (Mart. 1, 487513), la guarigione della figlia di Arborio (Mart. 2, 19-37), cui seguono il 16
Cfr. Rousselle, pp. 109-110. Lo studioso ritiene che si è di fronte ad un processo percorribile nei due sensi opposti: il santo guarisce i fedeli ed essi si convertono, ma allo stesso tempo il santo li converte ed essi allora guariscono. 17 Sull’affluenza dei pellegrini, talvolta costituiti da mendicanti ed invalidi, cfr. Neri, p. 69. 18 Cfr. Vons, pp. 471-487. Cfr. inoltre, Giordano, pp. 161-209; De Nie (3), pp. 135-150. 19 Cfr. Van Dam (3), pp. 82-115. 20 L’opera ed i suoi caratteri fondamentali, nonché il rapporto con l’ipotesto sulpiciano e con la parafrasi di Paolino di Périgueux, ed ancora questioni concernenti il contenuto e lo stile, saranno indagati nella sezione relativa alla Vita Martini.
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risanamento di Paolino e, quale intermezzo, la guarigione di cui fu protagonista Martino stesso per mano di un angelo (Mart. 2, 38-57), quindi il risanamento di Evanzio e dello schiavo morso da un serpente (Mart. 3, 74-120)21. Lo studio del testo, condotto ad uerbum a livello stilistico-formale, lessicale e metrico, ha consentito di istituire confronti intratestuali e di mettere in evidenza le strutture narrative ricorrenti, quali l’iterazione di alcuni atteggiamenti del santo e le diverse modalità con cui questi opera le guarigioni, e non di meno i procedimenti stilistici di volta in volta adottati dal poeta. Sono stati messi in luce nel corso della trattazione alcuni espedienti retorici ed alcune tecniche compositive, quali la “Ringkomposition” e l’inclinazione alla ridondanza, che contraddistinguono la narrazione di diversi episodi e che sono impiegati dal poeta con la finalità di esaltare i poteri taumaturgici di Martino. Anche la marcata elaborazione formale e la ricercatezza nello stile che caratterizzano i suoi versi hanno lo scopo di lodare il santo. Dal punto di vista lessicale, occorre porre in evidenza la compresenza nel testo di termini tecnici tratti del linguaggio medico, talvolta rinvenuti nell’ipotesto e talaltra propri della parafrasi venanziana, e di espressioni poetiche altamente allusive. Fortemente metaforiche le immagini mediante le quali il poeta rappresenta i corpi dei personaggi guariti riportati alla salvezza, come quella architettonica e quella relativa invece all’ambito della rappresentazione grafica. Costante è stato il raffronto con l’ipotesto prosastico di Sulpicio Severo e con la versione parafrastica di Paolino di Périgueux; tale confronto ha permesso di mettere ulteriormente in rilievo gli intenti specifici dell’opera fortunaziana, individuando gli episodi cui il poeta conferisce maggiore importanza. Indispensabile altresì l’indagine intertestuale intesa ad accertare i rapporti intercorrenti tra i versi fortunaziani e quelli degli Auctores classici e cristiani, “memorizzati” dal Nostro, nonché i rimandi ai Testi Sacri, vetero e neotestamentari, spesso creazione originale di Fortunato. Il dialogo del testo di Venanzio con i modelli classici mostra che le citazioni non rimangono fine a se stesse, ma sono
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Dei passi antologizzati è riportata l’edizione francese curata da Quesnel per l’editore Belles Lettres (1996), seguita da una traduzione italiana propria. Nonostante l’esistenza di traduzioni precedenti in lingua italiana, si è ritenuto necessario procedere ad un’operazione di traduzione personale scaturita altresì dal lavoro di analisi effettuato sul testo.
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volte all’evidenziazione di alcuni elementi, manifestando l’intento emulativo di tali riprese. Per quanto concerne le allusioni ai testi cristiani, occorre accennare al fatto che in particolare i richiami ai Vangeli ed alle parafrasi bibliche sono da ricondurre alla volontà di presentare il santo quale figura Christi. Dall’analisi svolta su vari livelli e dal commento approntato emerge pertanto marcatamente l’interesse del poeta per un tema, quello dei risanamenti miracolosi, molto sentito dai lettori dell’epoca e che rientra nel progetto del vescovo Gregorio, amico e protettore di Fortunato, il cui scopo precipuo era quello di rafforzare ulteriormente il culto di Martino, sottolineandone in special modo, i miracoli operati a vantaggio dei fedeli per la salvezza del corpo e dello spirito22.
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Cfr. Kithcen, pp. 15-32.
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CAPITOLO I La vicenda biografica di Venanzio Fortunato Le origini del poeta Le notizie biografiche relative a Venanzio Fortunato provengono pressoché esclusivamente dalle sue stesse opere, in particolare dagli undici libri dei Carmina e dalla Vita Martini, opera agiografica redatta in esametri, che costituisce la sua impresa poetica di maggior peso. Da quest’ultima si apprende il luogo di nascita, Duplavenis (o Duplavilis) nella Venetia del VI sec., l’attuale Valdobbiadene in provincia di Treviso 23, mentre ne rimane incerta la data, collocabile nel decennio compreso tra il 530 ed il 54024. Altrettanto ignoti risultano l’anno della sua ordinazione sacerdotale, quello della sua elezione a vescovo di Poitiers ed infine la data della morte. Le note autobiografiche fornite da Venanzio sono riecheggiate nella testimonianza di Paolo di Warnefrit, meglio noto come Paolo Diacono all’interno della sua Historia Langobardorum25, ove è stato riprodotto l’epitafio in distici elegiaci da lui medesimo composto dietro richiesta dell’abate Apro26. Degno di essere menzionato il fatto che il vescovo Gregorio di Tours, amico ed estimatore delle doti poetiche di Fortunato, dedica a quest’ultimo una sola riga nelle sue Historiae, in cui ne parla in qualità di presbyter, autore della biografia del vescovo Germano, la Vita Beati Germani, mostrando di non avere intenzione di dilungarsi né sulle sue opere né sulla sua persona 27. 23
Mart. 4, 665. Alcuni studiosi, fra cui Manitius (4), p. 170, Tardi, p. 24, e De Labriolle, p. 757, propendono per il 530; altri quali Koebner, p. 11, Schuster, coll. 677-695, propendono per il 540, altri ancora lasciano la questione in sospeso, prediligendo tuttavia una datazione a ridosso del 540 (Brennan (1), pp. 49-78, e George (4), p. 19); Reydellet (3), p. VII, propone invece di collocare la nascita del letterato a metà del decennio in questione, ossia nel 535. 25 Cfr. Hist. Lang. 2, 13. L’intero paragrafo che Paolo Diacono dedica a Venanzio Fortunato prende le mosse dalla narrazione dell’incontro “diplomatico” tra il re Alboino e Felice, vescovo di Tarvisio, di cui il uenerabilis et sapientissimus Fortunatus era stato socius, cfr. Rosada (1), pp. 25-57. Quanto rinvenuto nel racconto dello storico concorda con quanto affermato da Venanzio, dal momento che quest’ultimo con le sue opere costituisce la fonte da cui lo storico ha estrapolato le sue informazioni, cfr. Brennan (1), pp. 4950. 26 Lo storico attese alla redazione dell’epitafio allorché, trovandosi in Francia, visitò la tomba del poeta nella basilica di Sant’Ilario a Poitiers. Al riguardo, cfr. Aigrain, pp. 233-236; De Gaffier, pp. 262-284. Quello composto da Paolo Diacono non è l’unico epitafio che celebra Fortunato, dal momento che alcuni anni dopo Alcuino ne scrisse un altro, da cui traspare l’intento di celebrare il vescovo di Poitiers più per il suo talento di scrittore che per i suoi meriti di santo, cfr. De Gaffier, pp. 265-266. 27 Cfr. La Rocca, pp. 15-36. 24
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I manoscritti tramandano la forma completa del nome dell’autore, Venantius Honorius Clementianus Fortunatus, in cui il gentilizio Honorius ed il cognomen Clementianus, all’epoca alquanto rari, sembrano poco significativi: gli unici Onori conosciuti nella tarda antichità sono quelli appartenenti alla famiglia imperiale sotto Teodosio, ma il poeta non fa alcuna allusione ad una possibile connessione con questi rilevantissimi personaggi, seppure molto distanti nel tempo, lasciando dedurre che non vi fosse alcun legame tra le famiglie. Il solo Clemenziano a noi noto è un senatore romano che visse a cavallo tra IV e V secolo, che fu probabilmente il padre di Appius Nicomachus Dexter28. L’ultimo elemento, il signum Fortunatus, con cui il poeta è solito designare se stesso, rimanda senza dubbio al culto del martire di Aquileia, all’epoca molto diffuso in tutta la Venetia ed al quale il poeta si riferisce chiaramente nella Vita Martini 29. Il praenomen Venantius compare nella prosopografia romana solo nel V secolo ed è connesso, anche nel secolo successivo, a diversi personaggi di una certa rilevanza, che tuttavia non sono in alcun modo riconducibili alla famiglia di Fortunato 30. Dalla stessa polinomia è possibile dedurre che il soggetto non apparteneva agli strati sociali più modesti, ma che al contrario doveva provenire da una famiglia di un certo prestigio31. Ciò nonostante non è possibile identificare con precisione tale famiglia, anche a motivo delle scarse informazioni ricavate in merito dalle opere di Fortunato, il quale si limita a citare i familiari sporadicamente, menzionando due volte il padre e la madre, un fratello, la sorella Titiana ed una schiera di nipoti (ordo nepotum)32.
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PLRE II, p. 303. Mart. 4, 658-660. Al riguardo cfr. Brennan (1), p. 50; Di Brazzano (1), p. 16; il volume testé citato è recensito da Fedalto, pp. 73-77. Cfr. inoltre Mantovanelli, pp. 79-86. Quanto rinvenuto nella introduzione al medesimo volume è consultabile anche in Di Brazzano (2), pp. 37-72. 30 Cfr. PLRE III, pp. 1367-1369. 31 Cfr. Šašel, pp. 359-360; Reydellet (3), p. VIII; Di Brazzano (1), p. 16. Occorre precisare che Tardi (pp. 24-25) ipotizza in merito che con ogni probabilità la famiglia di Venanzio era di classe media e possedeva alcune proprietà terriere a Duplavilis. 32 carm. 7, 9, vv. 7 ss., in cui il poeta, parlando in terza persona di se stesso afferma exul ab Italia nono, puto, uoluor in anno/litoris Oceani continuante salo./Tempora tot fugiunt et ad adhuc per scripta parentum/nullus ab exclusis me ricreaui apex./Quod pater ac genetrix, frater, soror, ordo nepotum,/ quod poterat regio, soluis amore pio; Mart. 4, 669-670: qua natale solum est mihi sanguine, sede, parentum, prolis origo patrum, frater, soror, ordo nepotum. Il nome della sorella Titiana è noto da uno dei poemetti (carm. 9, 6) dedicato alla “sorella” spirituale Agnese, in cui il poeta paragona la sua relazione con la badessa a quella che lo lega alla sorella naturale: te mihi non aliis oculis animoque fuisse,/quam soror ex utero tu Titiana fores. 29
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Sembra che la sua famiglia fosse in relazione con Paolino, vescovo di Aquileia nel 557, il quale assunse per primo il titolo di patriarca in maniera abusiva e che cercò di introdurre Fortunato, ancora fanciullo, alla carriera monastica, come confida il poeta stesso nella Vita Martini33. Sulla base di queste affermazioni è stato ipotizzato che Fortunato con la sua famiglia abbia lasciato la zona di Treviso, poco sicura in quanto teatro principale della seconda fase della guerra tra Bizantini ed Ostrogoti che imperversava all’epoca in Italia34, e che si sia diretto dunque ad Aquilea, dove ricevette una prima istruzione soprattutto in ambito religioso 35. Proprio il contatto con Paolino sembra aver favorito l’insorgere di una fede sincera che lo avrebbe guidato nelle sue scelte future e che lo avrebbe indotto a comporre dei carmi di successo, quali quelli in onore della Santa Croce. È in questo periodo che Fortunato intraprende lo studio dei Testi Sacri, sia del Nuovo sia dell’Antico Testamento, come dimostrano le frequenti citazioni e le allusioni di cui è imbevuta tutta l’opera fortunaziana 36. Di recente è stato ipotizzato che non necessariamente Venanzio e la sua famiglia abbiano dovuto lasciare la zona di Treviso per recarsi ad Aquileia: le uniche prove al riguardo, ossia l’incontro con il vescovo Paolino, menzionato dallo stesso autore, e la sua devozione per il martire della città, Fortunato, autorizzano a supporre una visita da parte di Venanzio ad Aquileia e non per forza il trasferimento in zona dell’intera famiglia 37. Non vi sono dubbi invece sul fatto che, con ogni probabilità in seguito alla vittoria dei Bizantini per mano di Narsete nel 552 ed alla restaurazione della pace, 33
Mart. 4, 661-662 pontificemque pium Paulum cupienter adora/qui me primaeuis conuerti optabat ab annis. 34 Cfr. Tardi, p. 26. Sembra infatti che, sebbene la città di Treviso fosse rimasta nelle mani dei Goti, l’area circostante fosse posta sotto il controllo del generale bizantino Vitaliano, cfr. Macchiarulo, pp. 19-20. Tuttavia occorre precisare al riguardo che altri studiosi ritengono che Fortunato si sia trasferito ed abbia incontrato Paolino non ad Aquileia, bensì in uno dei centri urbani dislocati nella zona del bacino del Piave, sedi di vescovati, come Acilum (Asolo), Taruisium (Treviso) e via dicendo, dove analogamente era possibile ricevere una formazione scolastica inferiore. Cfr. Di Brazzano (1), p. 16. 35 Cfr. Macchiarulo, p. 1. 36 Cfr. Macchiarulo, pp. 21-24. Alla luce delle citazioni prese in esame dallo studioso, risulta maggiormente evidente e meglio consolidata la conoscenza da parte del poeta di parabole, di personaggi e di episodi rinvenuti nel Nuovo Testamento. 37 Cfr. Brennan (1), p. 52. Lo studioso precisa altresì che le affermazioni di Fortunato, rinvenute nella Vita Martini (4, 665-671) e databili pertanto tra il 573 e 576, circa la sua famiglia residente nell’area di Treviso sotto la dominazione longobarda, lascerebbero intuire il contrario di quanto ipotizzato da Tardi e dagli altri sostenitori dell’ipotesi di un trasferimento di Venanzio, al seguito della sua famiglia, ad Aquileia.
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Fortunato si sia recato a Ravenna per completare la sua formazione artistico-letteraria, in una città in cui la società si caratterizzava per una mescolanza di antiche culture, ossia quella latina, greca e barbara38.
La permanenza a Ravenna e la formazione (letteraria, culturale, religiosa) Come testimonia Fortunato stesso, nella capitale bizantina fu educato secondo il curriculum che poteva aprire ad un giovane di buona famiglia le porte di una carriera non solo di poeta e di insegnante, ma anche di funzionario amministrativo: egli studiò infatti la grammatica, la retorica, la metrica e verosimilmente anche il diritto 39. Per quanto concerne in particolare l’educazione letteraria, è possibile osservare che essa fu pressoché esclusivamente di carattere profano. Fra i suoi maestri a Ravenna ebbe senza dubbio Aratore, ricordato da Venanzio nella Vita Martini40; sin da subito fu introdotto 38
Cfr. Tardi, pp. 28-29. Quest’ultimo afferma che lo spostamento di Venanzio da Aquileia a Ravenna è da ricondurre alla questione dei Tre Capitoli, dal momento che la sede metropolitana di Aquileia, assieme a quella di Milano, costituiva una delle Chiese “scismatiche”, allontanatesi dalla Chiesa apostolica di Roma, in seguito alla definitiva condanna dei Tre Capitoli da parte di quest’ultima; numerosi studiosi ritengono invece che il soggiorno di Fortunato a Ravenna non abbia niente a che fare con tale avvenimento, cfr. al riguardo Brennan (1), p. 52; Di Brazzano (1), p. 17; riguardo al rapporto di Venanzio con lo scisma dei Tre Capitoli, cfr. Bratož, pp. 363- 386. 39 Mart. 1, 26-33. Anche Paolo Diacono nel paragrafo dedicato a Fortunato (Hist. Lang. 2, 13) si esprime in merito alla formazione culturale del poeta nei seguenti termini: Sed tamen Ravennae nutritus et doctus, in arte grammaticae sive rethorica seu etiam metrica clarissimus extitit. Cfr. Moricca, p. 55; Macchiarulo, p. 1; Di Brazzano (1), pp.16-17. Il Marrou, trattando del declino della scuola antica a causa delle invasioni barbariche nel VI sec. d.C., menziona in particolare l’Italia fra le zone in cui “la scuola antica ha visto prolungarsi il suo crepuscolo”, annoverando fra le città in cui la vita scolastica era ancora attiva Roma, Milano e Ravenna. Proprio a partire dalla formazione classica sfoggiata da Fortunato nelle sue opere, lo studioso evince la floridezza che ancora nella II metà del VI sec. doveva caratterizzare le scuole ravennati (Marrou, p. 453; carm. 7, 8, 26). Infatti il sistema di apprendimento classico che Teodorico aveva preservato sopravvisse fino a questo periodo, godendo in particolare dal 552 al 568 di un rinnovato momento di crescita e prosperità (Macchiarulo, pp. 28-29). Riché (pp. 127-128) precisa che l’esperienza di Venanzio Fortunato a Ravenna costituisce uno degli esempi di educazione liberale ricevuta fuori Roma e che lo studio del diritto ha lasciato poche tracce nelle opere dell’autore. Alcuni studiosi (cfr. Reydellet (3) p. VIII) ritengono che Fortunato non si sarebbe formato anche nel diritto, contrariamente a quanto lasciano intendere alcune affermazioni rinvenute nella Vita Martini (cfr. l’espressione cotes iuridica). Secondo Koebner (p. 11), le cui supposizioni sono confermate da Stein (p. 695 nt. 1), l’espressione di Venanzio testé citata alluderebbe al giudizio critico in materia letteraria e pertanto non agli studi di giurisprudenza. Non si trovano in accordo con quest’ultimo Macchiarulo (p. 31) che a sua volta riprende quanto affermato da Tardi (p. 51) e da Riché (pp. 127-128). Al di là dei dubbi nutriti in merito alla formazione giuridica, è possibile asserire che alla sua dipartita da Ravenna Fortunato rappresenta “one of the last true products of the school of antiquity” (Macchiarulo, p. 26), distinguendosi da altri scrittori coevi, come Gregorio di Tours (Tardi, p. 51). Sul livello culturale dell’epoca nelle zone in cui si formò ed operò Fortunato, cfr. Pizzani, pp. 63-80. 40 Mart. 1, 22-23. Questo distico è inserito all’interno dei vv. 14-25 della Praefatio in cui Fortunato richiama direttamente gli autori che lo hanno preceduto in una simile impresa letteraria, ossia nella trasposizione in versi dei Testi Sacri e delle gesta dei Santi, menzionando pertanto Giovenco, Sedulio, Orienzo, Prudenzio, Paolino, Aratore ed il vescovo Alcimo e dichiarando subito di seguito la sua povertà intellettuale e la sua rozzezza letteraria rispetto ai predecessori chiamati in causa.
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allo studio dei principali autori di età classica, specialmente dei poeti, di cui memorizzò un numero piuttosto elevato di passi, riflessi ampiamente nelle sua opera densa di citazioni e reminescenze 41. L’educazione letteraria di Fortunato infatti fu essenzialmente quella che avevano ricevuto i suoi predecessori in Italia ed in Gallia, ossia Paolino di Nola a Bordeaux e Sidonio Apollinare a Vienna 42. Come sopra accennato è l’opera stessa del poeta a fornire delucidazioni in merito alla sua formazione, sia direttamente attraverso le affermazioni di Venanzio sia indirettamente mediante le numerosissime allusioni reperibili nei suoi poemi e gli stilemi adottati in questi ultimi. Alla già citata Praefatio della Vita Martini vanno ad aggiungersi ulteriori passi in cui il poeta allude alle sue conoscenze letterarie e filosofiche 43, come l’epistola a Martino, vescovo di Galizia 44; il carme 7, 12 a Giovino, governatore della Provenza, in cui volendo mostrare l’inefficacia delle doti e delle attività umane, fra cui la stessa poesia, se private della Grazia divina, il poeta menziona miti, eroi, filosofi greci e latini; infine il carme 9, 7 in cui il poeta, su richiesta di Gregorio di Tours (carm. 9, 6 sotto forma di epistola in distici elegiaci) si cimenta nel metro saffico, sottolineando tuttavia la sua inadeguatezza nella padronanza di tale forma metrica rispetto ai modelli classici greci e latini, alludendo in particolare alla stessa Saffo, al “greco Pindaro” e ad Orazio, cui il poeta si rivolge per così dire affettuosamente con il possessivo meus45. Al di là dei riferimenti testé citati, va evidenziato che il debito di Venanzio nei confronti degli autori pagani è imponente e coinvolge l’intera sua opera: ad avere il primato è Virgilio, cui seguono Ovidio, uno degli autori preferiti del Nostro, anche se mai citato direttamente 46, ed Orazio47, Lucano,
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Cfr. Meneghetti, p. 3. Cfr. Tardi, p. 51. 43 Da precisare al riguardo che Fortunato nell’alludere ai suoi studi ricorre ad una modestia che non deve trarre in inganno il moderno lettore, come accaduto al Brower (ed. 1603 Prol.), il quale accenna agli scarsi risultati raggiunti dal poeta, che fu a sua detta un mediocre studente. Cfr. Tardi, pp. 51-52. 44 carm. 5, 1, 6. 45 In aggiunta alla testimonianza dell’autore stesso ed a quella di Paolo Diacono, la lettura dell’opera poetica di Fortunato getta luce sul suo dominio delle forme metriche classiche, specialmente di quelle dell’elegia e dell’epica: nel primo caso il modello principale appare Ovidio, mentre nel secondo è costituito senza dubbio da Virgilio. Nel metro saffico (carm. 9, 7) Venanzio si ispira ad Orazio. Cfr. Macchiarulo, p. 36. 46 Cfr. Meyer, p. 31; Meneghetti, p. 3. 47 Riguardo alla conoscenza di Orazio da parte di Fortunato sono state nutrite in passato delle remore, dovute al fatto che Orazio e la sua poesia furono introdotti in Gallia soltanto nel IX secolo dai monaci Irlandesi (cfr. Elss, p. 12); tuttavia questi dubbi sono stati fugati alla luce delle testimonianze rinvenute nei testi fortunaziani e dell’istruzione letteraria ravennate del poeta, come lascia supporre lo stesso 42
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ed in misura minore Stazio, Catullo, Cicerone, Properzio, Persio, Silio Italico ma anche Marziale, Giovenale ed infine Claudiano e Marziano Capella48. Questa è in buona sostanza la biblioteca del nostro Autore49. Rimane una questione aperta la conoscenza da parte di Fortunato della lingua greca dal momento che Ilduino, abate di Saint-Denis e vescovo di Parigi nel IX secolo, in riferimento a Fortunato, asserisce che “linguae graecae penitus expers fuit”50; quest’ultima affermazione appare alquanto bizzarra, tenendo conto di quanto sino ad ora rilevato sulla formazione ravennate del poeta ricevuta in concomitanza col ritorno della città sotto la dominazione bizantina e soprattutto alla luce della lettura e dell’analisi delle sue opere, che palesano la familiarità del poeta con questa lingua 51. Se nello stile, nelle modalità di espressione e nel metodo Fortunato è influenzato grandemente dai poeti classici pagani, nei contenuti, nei pensieri e nei sentimenti sono
fortunato nei testi sopra menzionati, ossia carm. 5, 6 e carm. 9, 7. Al riguardo cfr. inoltre Meneghetti, p. 6; Tardi, pp. 53-54; Monteverdi, pp. 162-180. 48 Sulle citazioni e le reminescenze dei classici nell’opera fortunaziana, cfr. Manitius (1) in calce all’edizione dell’opera in prosa di Venanzio a cura di Krusch, pp. 132-137; Meneghetti, pp. 3-9; Tardi, pp. 51-57; Blomgren (1), pp. 81-88; Macchiarulo, pp. 31-36; George (3), pp. 53-66; Nazzaro (3), pp. 99135; in particolare per la Vita Martini cfr. Labarre, pp. 161-187, in cui la studiosa concentra l’attenzione principalmente sulla ripresa del poema epico virgiliano da parte di Venanzio Fortunato e di colui che lo ha preceduto nella riscrittura esametrica della Vita Martini, ossia Paolino di Périgueux. Sui rimandi fortunaziani ai singoli autori si riporta di seguito la bibliografia attinente a ciascuno di essi; relativamente a Virgilio sono da segnalare: Zwierlein, 1926; Blomgren (2), pp. 81-88; inerenti ad Ovidio: Blomgren (2), pp. 81-84; Pizzimenti, pp. 545-548; Viarre, pp. 291-324; in merito ad Orazio: Farrés, pp. 259-266; riguardo a Lucano e Claudiano: Blomgren (4), pp. 150-156; Zicàri, pp. 205-215; per quanto concerne Stazio: Blomgren (3), pp. 57-65; afferenti a Catullo: Delbey (1), pp. 225-234; riguardanti Giovenale: Willis, pp. 122-123; su Marziano Capella, infine, cfr. Macchiarulo, p. 35 nt. 45 49 In generale sul rapporto tra Venanzio e la cultura classica si vedano ancora Clerici (1), pp. 244-251; Nazzaro (3), pp. 99-135; Reydellet (2), pp. 81-98; Santorelli (2), pp. 293-308. 50 S. Ilduino, Ep. ad Ludov. Pium, in cui l’ecclesiastico parlando della Vita di S. Denis attribuita a Fortunato, si esprime in questo modo: De natione autem eius et ordinatione episcopatus mentionem non facit, quia linguae graecae penitus expers fuit. 51 A titolo esemplificativo si vedano Ven. Fort. Mart. Ep. ad Greg., 1; carm. 3, 4. Cfr. inoltre i numerosi grecismi (traslitterati nella corrispondente forma latina) contenuti nelle sue opere (Tardi, pp. 54-55, sulle traslitterazioni dal greco in particolare p. 55 nt. 3 e Meneghetti, pp. 12-13; pp. 83-86, s.v. Parole greche, voci greche profane e voci greche ecclesiastiche); Macchiarulo, p. 32, in particolare nt. 32). Tuttavia occorre rilevare che alcuni studiosi, fra cui il Courcelle, ritengono che le citazioni sopra elencate non siano sufficienti a provare un contatto tra Fortunato e la letteratura greca, se non tramite l’ausilio di traduzioni. Lo studioso considera la menzione degli autori greci cristiani, Gregorio, Basilio, Atanasio associati ad Ilario, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Sedulio, Orosio, Cesario (carm. VIII,1, 53 ss.) come “une énumération rhétorique de tous les Pères de l’Église dont Fortunat connaît les noms” ed a conferma di ciò adduce le stesse parole del poeta che, nel passo più volte menzionato (carm. 5, 1, 7) dichiara di conoscere a stento i nomi di alcuni dei maggiori filosofi greci, ossia Platone, Aritstotele, Crisippo e Pittaco (cfr. Courcelle, pp. 249-251). Quacquarelli (pp. 97-98) stempera il dibattito, affermando che, dato il dominio greco a Ravenna, la scuola di retorica cui Fortunato si formò non poteva prescindervi e che pertanto il poeta “si riferisce ad una cultura greco-cristiana di base”.
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la sua fede e la sua devozione di cristiano ad avere un ruolo predominante52. Già nel corso del suo soggiorno ad Aquileia, presso il vescovo Paolo, Fortunato aveva intrapreso la lettura dei Testi Sacri e degli autori cristiani 53. Fra questi ultimi sono senza dubbio noti a lui quelli menzionati quali suoi predecessori nella Praefatio alla Vita Martini, ossia Giovenco, Sedulio, Orienzio, Prudenzio, Paolino di Périgueux, Aratore ed Avito54. Ancora dalla penna di Fortunato si apprende che i Padri della Chiesa, in particolare Ilario, Gregorio, Ambrogio, Agostino “gli sono noti non per averli letti, ma per averli visti – se fosse possibile – in un dormiveglia”55. Tuttavia anche questa rivelazione, come quelle contenute nella Praefatio alla Vita Martini, può essere interpretata come declaratio modestiae56, dal momento che dal resto dell’opera fortunaziana traspare che il poeta aveva una conoscenza dei Padri della Chiesa probabilmente non molto approfondita, ma reale ed alquanto vasta per l’epoca in cui egli si trovava a vivere57. Fortunato, infine, descrivendo la formazione della monaca Radegonda, fa menzione di alcuni dei Padri greci, fra cui Gregorio, Basilio ed “il severo Atanasio” e nei versi successivi fra quelli di lingua latina sono presentati, oltre ad Ambrogio, Girolamo ed Agostino, “il soave Sedulio”, “l’acuto Orosio” e Cesario di Arles con la sua Regola58. Agli autori citati esplicitamente dal poeta vanno ad affiancarsi quelli presenti, in alcuni casi massicciamente, nei testi di Fortunato sotto forma di richiami letterali o di
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Cfr. Macchiarulo, pp. 36-37. Cfr. Mart. 4, 661-662; Pietri (8), pp. 127-131. La studiosa nel contributo testé citato indaga i luoghi ed i tempi della formazione cristiana di Venanzio, collocando il theologiae tirocinium (carm. 5, 1, 7) di Fortuanto a Ravenna ed Aquileia e soffermandosi sulle modalità di accesso alle opere dei Padri e sulla diffusione o meno nei suoi scritti poetici o in prosa degli insegnamenti ricevuti. 54 Mart. 1, 14-25. 55 Cfr. Nazzaro (3), p. 103, che riprende la già citata epistola a Martino di Braga (carm. 5, 1, 7). Da segnalare che quanto sostenuto riguardo ai Padri della Chiesa nel passo in questione segue immediatamente alle considerazioni sulla conoscenza da parte del poeta dei filosofi greci (Platone, Aristotele, Crisippo e Pittaco), cui si è fatto riferimento in precedenza. 56 Cfr. George (3), p. 53 nt. 1; sulla ripresa del topos della declaratio modestiae da parte degli autori cristiani, fra cui Fortunato, cfr. Curtius, pp. 83-85. 57 Cfr. Tardi, pp. 42-44, ripreso da Nazzaro (3), p. 130 nt. 24. Le considerazioni dei due studiosi si fondano su ulteriori passaggi dell’opera di Fortunato, come i versi del I libro della Vita Martini (vv. 123148) dedicati ad Ilario di Poitiers, mentre all’epistolario di Girolamo rimandano i vv. 41-44 di carm. 8, 1. Gli stessi Padri ricordati in carm. 5, 1, 7 sono citati anche in carm. 8, 1, 54-60 con una serie di appellativi che inducono a supporre una conoscenza di questi autori, per lo meno ottenuta mediante la lettura dei medesimi in raccolte antologiche. 58 carm. 8, 1, 54-60. 53
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allusioni letterarie, come Sulpicio Severo, Sidonio Apollinare, Draconzio, Ausonio, Ennodio, Paolino di Nola ed infine Prospero di Aquitania 59. Fortunato dunque ha letto molti dei Padri latini del IV secolo e degli inizi del secolo successivo e cerca di evocarli nei suoi versi: tuttavia le nozioni teologiche contenute nei suoi carmi di ispirazione religiosa sono destinate ad essere comprese esclusivamente da rappresentanti del mondo ecclesiastico, così da ridurre il suo ruolo nell’insegnamento della fede, ben più modesto rispetto a quello rivestito in campo letterario60. In conclusione è possibile rilevare che la formazione e la produzione di Fortunato rientrano in quel processo che prende avvio nel VI secolo, il cui carattere generale è la concentrazione dello sviluppo intellettuale nella sfera religiosa, per cui non si assiste più alla coesistenza di due letterature, una profana ed una religiosa, ma alla presenza pressoché esclusiva di quest’ultima. La mescolanza di poesia religiosa e poesia profana nell’autore veneto, costituisce una sorta di transizione alla nuova epoca, accelerando in tal modo il processo già avviato da Sidonio ed Ennodio 61.
La miracolosa guarigione agli occhi Il periodo di formazione trascorso a Ravenna, oltre ad averne influenzato lo stile e la produzione poetica, ha lasciato numerose tracce nei primi carmi della sua raccolta, che è inaugurata da due componimenti realizzati con certezza negli anni trascorsi a Ravenna: il primo carme è dedicato infatti al vescovo Vitale e fu probabilmente pronunciato in occasione della consacrazione della Chiesa, mentre il secondo, dedicato alla basilica di Sant’Andrea fatta edificare dal medesimo vescovo, era inciso su una delle pareti dell’edificio in onore del donatore62. È possibile datare al medesimo periodo 59
Cfr. L’Index dell’edizione dei Monumenta, sopra menzionato, redatto a cura di Manitius (pp. 132-137); Meneghetti, pp. 8-10; Tardi, pp. 39-45; Macchiarulo, pp. 30-31; Nazzaro (3), pp. 102-113, sp. pp. 102103; Reydellet (2), pp. 81-98; Pietri (8), pp. 127-141. Per quanto concerne i punti di contatto tra Fortunato e Draconzio, cfr. Clerici (2), pp. 108-150, in cui lo studioso si sofferma soprattutto sulla ripresa da parte di Fortunato della Satisfactio e del De laudibus Dei, esaminando in particolare alcuni aspetti della morfo-sintassi delle loro opere comuni ai due autori. Sulla dipendenza di Fortunato dalle opere di Ausonio e di Ennodio, cfr. Hosius (1); Navarra (1), pp. 79-131; Schönberger, 2000. 60 Pietri (8), p. 141. 61 Tardi, pp. 56-57. 62 Sull’identità del vescovo Vitale, non attestato nelle liste degli episcopi ravennati, cfr. Di Brazzano (1), pp. 108-109 nt. 1 e la bibliografia riportata dallo studioso, il quale afferma che l’aggettivo ravennensem associato al nome di Vitale nella dedica del carme (1, 1) sia da espungere, in quanto assente nel catalogo dei carmi e, soprattutto, non rintracciato, come accennato sopra, nella lista dei vescovi di Ravenna. L’ipotesi condivisa da un numero considerevole di studiosi è quella formulata dal Koebner, che rintraccia
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la composizione dei carmi 1, 3 ed 1, 4, che commemorano rispettivamente la Chiesa di Santo Stefano e quella di S. Martino63. Riguardo alla permanenza di Fortunato a Ravenna si può asserire con certezza che uno dei suoi compagni di studio fu Felice, divenuto in seguito vescovo di Treviso. A costui il poeta dedica un carme (7, 13) di soli quattro versi che con ogni probabilità doveva avere un’estensione maggiore. Fra le varie ipotesi proposte c’è quella che esso dovette configurarsi come un breve biglietto d’accompagnamento ad una lettera in prosa64. Il medesimo Felice è ancora menzionato nella Vita Martini65, in cui il poeta ricorda che alquanti anni prima, a Ravenna, il suo amico ed egli medesimo ricevettero miracolosamente da Maritino il dono della vista. In questi versi il poeta allude alla guarigione miracolosa di cui fu protagonista assieme all’amico Felice: entrambi affetti da una malattia agli occhi si recarono nella basilica ravennate intitolata ai Santi Giovanni e Paolo, nella quale c’era un altare dedicato a S. Martino, vescovo di Tours; ivi, unte le palpebre con l’olio della lampada che illuminava l’altare, i due furono sanati miracolosamente66. Anche questo fatto è confermato dalla testimonianza di Paolo Diacono, che si rifà agli esametri fortunaziani ed individua anch’egli nella devozione al santo Martino e nel desiderio di ringraziarlo per la miracolosa guarigione la causa della partenza di Venanzio da Ravenna per la Gallia, dove si trova la città di Tours in cui Martino esercitò la funzione di vescovo ed operò numerosi dei suoi miracoli 67.
in Vitale il vescovo di Altinum, un piccola città situata tra Treviso ed il mare, che ivi occupò la sede episcopale sino all’ascesa di Giustino II, come ricordato da Paolo Diacono (Hist. Lang. 2, 4). Questo Vitale sarebbe stato pertanto uno dei “patroni” di Fortunato nel periodo trascorso nelle zone venete si provenienza. Cfr. Koebner, pp. 120-125; Brennan (1), p. 53. 63 Cfr. Brennan (1), p. 54. 64 Cfr. Reydellet (2), p. 109; Di Brazzano (1), pp. 404-405. 65 Mart. 4, 665-667. 66 Mart. 4, 686-701; Paul. Diac. Hist. Lang. 2, 13. In realtà nella narrazione fortunaziana, al contrario di quanto rinvenuto nell’opera storica testè citata, non è menzionato l’altare votivo, ma esclusivamente un dipinto che raffigura il santo (cfr. Mart. 4, 690-691). Cfr. al riguardo, Quacquarelli, p. 102. 67 Mart. 1, 42-44; Paul. Diac. Hist. Lang. 2, 13. Al riguardo cfr. anche Greg. Tur. Mart. 1, 15.
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La partenza per la Gallia ed il viaggio ad Turones Fortunato partì da Ravenna, per non farvi più ritorno, nell’anno 565 e dopo un lungo viaggio giunse nella Gallia dominata all’epoca dai Merovingi; l’intero iter è descritto dettagliatamente dal poeta stesso in due differenti passi della sua opera, ove, conformemente ai motivi propri della letteratura odeporica, sono commentate le principali tappe68. Il racconto maggiormente esteso e ricco di particolari è quello contenuto nell’ultima sezione della Vita Martini, dove nel finale del IV libro, ai vv. 621-710, Venanzio immagina l’invio del suo “libellus” in patria, nella basilica dei Santi Paolo e Giovanni, in cui il poeta aveva ricevuto la grazia della guarigione agli occhi per intercessione di S. Martino69. Il poeta descrive le varie fasi della sua peregrinatio ripercorrendo a ritroso tutti i luoghi toccati nel suo itinerario verso la Gallia, al punto che il brano può essere definito “une vrai guide du voyageur-pèlerin au VIe siècle”, a motivo del suo interesse geografico e turistico molto spiccato, che non tralascia alcuna curiosità 70. Dunque, dopo aver attraversato le Alpi Carniche, Venanzio pervenne dapprima a Metz, dove risiedeva la corte di Austrasia, ossia la più orientale delle quattro parti in cui era stato suddiviso il regno dei Franchi nel 561 in seguito alla morte di Clotario I, figlio di Clodoveo. L’arrivo di Venanzio nella capitale austrasiana si colloca nella primavera del 566, in concomitanza con le nozze del re dei Franchi Sigiberto con la principessa
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Cfr. Rosada (1), p. 26. Sull’analisi dei vv. finali della Vita relativi all’invio del libellus, cfr. Ammerbauer, pp. 110-113. La bibliografia relativa al viaggio di Fortunato verso la Gallia è molto ampia: per una panoramica dei contributi principali, cfr. Di Brazzano (1), p. 18; Bratož, pp. 387-388 nt. 3. Ai riferimenti menzionati nell’apparato di note redatto dagli studiosi testé citati sono da aggiungere le seguenti recenti ricerche: Rosada (2), pp. 331-362: in questo articolo lo studioso, in occasione del secondo convegno di studi sul poeta tenutosi a Treviso nel 2001, riprende e ridefinisce i temi trattati nel convegno di studi precedente, ossia quello del 1991, cfr. Rosada (1), in cui l’itinerario tracciato da Fortunato in Mart. 4, 629-685 viene analizzato dallo studioso che interpreta il viaggio di Venanzio come le tappe di un itinerario spirituale basato su motivazioni ideologiche che fungono da giustificazione per il poeta alla sua scelta di abbandonare l’Italia a favore di una nuova patria e di una nuova vita. Cfr. inoltre Vielberg (1), pp. 153186, in cui si riprende l’espressione “extensa uiatica” (carm. Praef. 5) impiegata a ragione dal poeta per definire il suo girovagare per la Gallia ed in cui si afferma che la mescolanza di elementi fittizi e reali, nella descrizione del viaggio verso il Nord intrapreso dal poeta, stiano ad indicare che esso abbia avuto anche ragioni politiche, oltre che una forte valenza estetica. 70 Cfr. Quesnel (1), p. LXII. 69
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visigota Brunichilde, figlia di Atanagildo; proprio per questo l’avvento di Fortunato a Metz costituisce il primo avvenimento della carriera del Nostro databile con certezza 71. Per le solenni nozze, il poeta redasse un epitalamio, anche al fine di accattivare il favore delle classi sociali più elevate della corte merovingia, che era rappresentata sia nella sua componente franca che in quella gallo-romana, giunte a Metz per l’occasione72. La composizione di questo e numerosi altri testi, connessa a precise circostanze del contesto sociale e politico in cui il poeta si trovava di volta in volta ad essere inserito, ha fatto guadagnare a Fortunato, presso la critica moderna, il titolo di “Gelegenheitsdichter” , ossia “poeta d’occasione” 73. La dedica di questo carme al re Sigiberto ed alla sua sposa ed alcune notizie estrapolate dalle opere fotunaziane 74 inducono a credere che l’arrivo del poeta nella città contemporaneamente alle nozze reali non sia da ritenere una coincidenza 75. Tale considerazione introduce la questione relativa all’effettiva causa del viaggio intrapreso da Venanzio, resa ancora più intricata dal fatto che il poeta, oltre a proporre due versioni del suo percorso, produce altrettante motivazioni: nell’epistola a Gregorio premessa alla prima parte della sua raccolta di poemi (libri I-VII), egli si presenta infatti come una sorta di “poeta errante” e ravvisa nel viaggio a Metz la prima delle avventure che lo condurranno sempre più lontano 76; nel libro IV della Vita Sancti Martini, invece, il poeta presenta l’insieme delle tappe descritte nei suoi versi come peregrinatio 71
Il 566 è riconosciuta pressoché da tutti gli studiosi come datazione indubbia delle nozze fra Sigibertoe Brunichilde. Cfr. Rouche, p. 154 e p. 159; Reydellet (3), p. IX. 72 carm. 6, 1. Il carme è composto da un prologo di dodici distici elegiaci e dall’epitalamio in esametri; nella sua struttura il componimento si avvicina a quelli elaborati da Claudiano (carm. 9-10) e da Sidonio Apollinare (carm. 10-11); in esso inoltre numerosissime appaiono le riprese degli autori antichi. Al riguardo, cfr. Pavlovskis, pp. 164-177, in cui si sottolinea l’influenza esercitata dagli epitalami di Stazio su quelli redatti successivamente da Ennodio, Claudiano, Paolino di Nola e Venanzio Fortunato. Al fine di celebrare le nozze reali, nel testo compaiono personaggi quali Venere e Cupido: al contrario di quanto operato da Paolino di Nola, pertanto, Venanzio non tenta di creare un nuovo genere di epitalamio totalmente cristiano e scevro di elementi pagani. Cfr. Di Brazzano (1), pp. 70-72; pp. 282-283. Cfr., inoltre, Aiello, pp. 7-24. Anche il carme 6, 1a è dedicato alla coppia reale (Item de Sigiberto rege et Brunichilde regina), in particolare in esso si fa riferimento alla conversione al cattolicesimo di Brunichilde. Sui carmi dedicati alla corte reale di Metz, cfr. George (2), pp. 35-43; George (3) pp. 25-33. 73 Il composto “Gelegenheitsdichter” risale a Dostal (p. 2), che lo utilizza in riferimento ad un solo carme di Fortunato, mentre di lì a poco Meyer impiegherà tale termine, che peraltro funge da titolo per il contributo dello studioso (Der Gelegenheitsdichter Venantius Fortunatus), in relazione a tutta l’opera del poeta. L’idea espressa dall’impiego di queste definizioni in riferimento a Venanzio Fortunato ed alla sua opera poetica riappare di recente in una monografia che contiene la traduzione in tedesco e note di commento relativamente agli undici libri dei carmina e della Vita Sancti Martini: Venantius Fortunatus. Gelegentlich Gedichte. Das Lyrische Werk. Die Vita des hl. Martin, (a cura di W. Fels, 2006). 74 carm. 10, 16, 1-4. 75 Reydellet (3), pp. IX-X; Di Brazzano (1), p. 20. 76 Per la definizione di “poeta errante” (“Wandering Bard”), attribuita a Fortunato, cfr. George (4), p. 26.
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religiosa che prevede quale meta la tomba di S. Martino, a cui Venanzio desidera rendere grazie per la miracolosa guarigione agli occhi. A questo riguardo occorre precisare che alcuni studiosi conferiscono valore storico alla motivazione addotta da Fortunato, legata per così dire alla devozione religiosa77, mentre altri vi guardano in maniera più critica, suggerendo in alternativa diverse soluzioni connesse anche a problematiche di tipo sociale e politico 78. Per approfondire la questione, è necessario prendere le mosse da alcune considerazioni relative ai passi sopra citati, rilevando che la Vita Sancti Martini è stata scritta probabilmente tra il 573-574 e senz’altro prima del 576, dal momento che in essa è menzionato ancora vivente, il vescovo di Parigi, Germano, che morirà nel 576; la Praefatio alla prima parte della raccolta dei carmi è stata scritta con certezza qualche tempo dopo il 576. Tali precisazioni cronologiche stanno ad indicare che il poeta potrebbe aver deliberatamente scritto due differenti versioni del viaggio, a seconda di quanto gli convenisse al momento della stesura delle medesime, al punto che esse appaiono ora infarcite di accenni a santuari e tombe di martiri ora intessute di preziose allusioni classiche79. A ciò va ad aggiungersi il fatto che lo stesso itinerario descritto dal poeta induce a ritenere che egli abbia scelto proprio Metz come primo approdo in Gallia a motivo delle nozze reali sopra citate80: presso una dinastia barbara, desiderosa di avere contatti con il mondo romano, il poeta avrebbe potuto avere maggiori possibilità di affermarsi come letterato di successo rispetto a quante ne avrebbe avute rimanendo a Ravenna 81. La corte austrasiana, infatti, ansiosa di aspirare all’eredità culturale dell’aristocrazia 77
Leo (2), p. 415; Erbert, p. 553. Lo studioso suggerisce che il poeta compiendo questo viagggo abbia voluto soddisfare il desiderio di fare un pellegrinaggio piuttosto che di sciogliere un voto; Skeabeck, p. 1034. Cfr. infine Van Dam (1), p. 126, il quale intende il viaggio di Fortunato in Gallia come “an expression of his gratitude for the saint’s assistance”. Cfr. inoltre quanto afferato al riguardo nella sezione dedicata alla Vita Martini. 78 Koebner, p. 14. In particolare quest’ultimo ritiene che Fortunato si sia fatto malvolere dal governo bizantino ed abbia cercato riparo presso il re Sigiberto; Tardi, p. 62, vede nel viaggio dall’Italia alla Gallia una sorta di fuga del poeta, che temeva l’invasione longobarda della penisola italiana, verificatasi di lì a poco; Walsh, pp. 292-302; Brennan (1) p. 55, che contestualizzando l’epilogo della Vita Martini, vi individua “the emotional coda” di un testo recitato quasi sicuramente in pubblico, che va considerato pertanto con la dovuta cautela a fini informativi sulla biografia dell’autore. 79 Brennan (1), p. 56. 80 Di Brazzano (1), pp. 23-24. 81 Brennan (1), pp. 55-59. Al riguardo c’è da precisare che alcuni studiosi, fra cui Koebner (p. 28) hanno ipotizzato che Fortunato abbia avuto presso Sigiberto un ruolo all’interno della cancelleria della corte austrasiana. Quest’ultima supposizione e la conseguente identificazione di Venanzio come poeta di corte e panegirista viene rigettata da Brennan (p. 60) che non individua elementi probanti al riguardo, se si eccettuano la popolarità ed il successo ottenuto a corte dal poeta.
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romana che il poeta incarnava a motivo delle sue origini e della sua formazione, gli offrì momentaneamente “una casa” 82. A questa considerazione generale sulle reali motivazioni del viaggio di Fortunato si affiancano alcune ipotesi più complesse ed articolate, fra cui quella elaborata agli inizi degli anni ’80 da Šašel83, che individua in Venanzio Fortunato un agente inviato da Bisanzio alla corte franca per questioni strettamente diplomatiche. Secondo lo studioso, il poeta sarebbe giunto a Metz non a caso in concomitanza con le nozze di Sigiberto con la principessa Brunichilde, la quale dal punto di vista politico poteva definirsi “probizantina”; i successivi spostamenti di Fortunato, inoltre, sarebbero stati strettamente connessi ad alcuni degli eventi politici che interessarono la Gallia dell’epoca84. La causa di carattere diplomatico non è l’unica a meritare di essere menzionata per la sua peculiarità. Necessita altresì di un accenno la teoria che individua quale motivazione della partenza di Fortunato dall’Italia la questione religiosa dei Tre Capitoli: dal legame del poeta con il vescovo scismatico suffraganeo di Aquileia, Vitale, infatti, è stato dedotto che Venanzio fosse un partigiano dello scisma e che perciò egli si fosse visto costretto a lasciare l’Italia 85.
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Alcuni studiosi ritengono che l’arrivo di Venanzio alla corte di Sigiberto fosse il frutto di contatti episcopali con la sua patria d’origine (Coates, p. 1112). Lo studioso cerca di mostrare come tutta l’opera del poeta, non solo quella di contenuto strettamente agiografico contribuisca a formare un’immagine dell’autorità vescovile che unisce due elementi, ossia l’autorità che deriva al vescovo dalla carica che egli riveste all’interno della gerarchia ecclesiastica e quella che gli deriva dalla sua azione personale in favore della popolazione posta sotto la sua giurisdizione ecclesiastica. Sulla figura del vescovo tratteggiata nelle opere di Fortunato cfr. inoltre, Consolino (1), pp. 82-87; p. 143-167; George (1), pp. 189-205; George (4), pp. 106-131; Donnini, pp. 247-258; Brennan (3), pp. 115-144. Quest’ultimo precisa come i versi fortunaziani cristallizzino “an image of the ideal bishop as the loved first citizen of his urban community” e come i vescovi della Gallia dell’epoca trovino nei panegirici e nella poesia epigrafica di Venanzio un utile sostegno per il consolidamento della loro posizione sociale. Cfr. inoltre Fiocco, pp. 213-230; Consolino (2), pp. 75-93. 83 Šašel, pp. 359-375. 84 L’ipotesi di un incarico rivestito da Venanzio Fortunato per conto dell’impero di Costantinopoli è stata ripresa da Rouche, pp. 157-158, il quale ritiene che il poeta sia stato inviato in Gallia per tentare un riavvicinamento tra le corti di Metz e di Parigi da un lato e l’impero Orientale dall’altro. Nonostante la sua originalità, quest’ultima proposta non ha incontrato grande favore presso gli studiosi (cfr. Macchiarulo, pp. 58-60; Pietri (2) pp. 736-737) ed è stata minuziosamente controbattuta a metà degli anni ’90 da Brennan (4), il quale conclude che le opere di Fortunato, in particolare quelle redatte in onore di Sigiberto, Brunichilde e del giovane Childeberto, contengono materiale neutrale dal punto di vista politico: il poeta aveva portato con sé nel suo girovagare per le Gallie il bagaglio culturale acquisito nella Ravenna Bizantina, ma aveva abbandonato ogni obbedienza ed ogni devozione politica all’impero (pp. 15-16). 85 Wopfner, pp. 365-366; Stein, pp. 833-834. Quanto espresso nelle pagine testé citate non è condiviso da Pietri (5), pp. 735-736, e da Bratož (pp. 363-386).
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Da questo breve excursus, è possibile intuire che con ogni probabilità i motivi della partenza del poeta fossero stati molteplici: scelte personali, come l’intenzione di intraprendere una peregrinatio religiosa e la necessità di porsi sotto la protezione di un patrono autorevole86, vanno ad intrecciarsi con fattori esterni, quali la situazione politica complessa e poco sicura del Norditalia tra il 560 e il 570, ed infine le tensioni religiose dovute alla posizione scismatica della Chiesa di Aquileia, che si sarebbero ritorte sul poeta sia se egli fosse rimasto a Ravenna sia se fosse tornato nelle sue zone di origine 87.
La permanenza di Fortunato presso la corte austrasiana Quali che fossero le cause che condussero Fortunato a recarsi in Gallia, si può affermare con certezza che egli non fece più ritorno in patria. Grazie ai componimenti redatti dal poeta, inoltre, si hanno notizie sui suoi spostamenti e sugli avvenimenti principali che caratterizzarono la sua esistenza dal momento dell’arrivo in Gallia a quello della sua scomparsa. Recano testimonianza del favore di cui Fortunato beneficiò presso i più autorevoli personaggi del mondo politico, culturale e religioso dell’epoca i numerosi carmi che egli compose in loro onore, nel periodo trascorso alla corte austrasiana: in particolare quelli indirizzati ai vescovi permettono di ricostruire l’itinerario seguito da Venanzio nell’ultima fase del suo viaggio all’interno del regno franco, quando in seguito alle nozze del re Sigiberto e di Brunichilde, il poeta accompagnò questi ultimi nel tragitto che permise loro di toccare le principali città del regno, al fine di presentare ai sudditi la nuova regina. L’itinerario della famiglia reale e del suo seguito interessò dapprima le città lungo il corso della Mosella e del Reno, quali Magonza, Colonia e Treviri88, come dimostrano i carmi indirizzati ai rispettivi episcopi, ossia Sidonio, Carentino e Nicezio 89 e di seguito Verdun, Reims e Soissons 90, dove il poeta si diede alla stesura di una composizione in onore del vescovo Medardo di Noyon, scomparso nel 560 ed ivi sepolto.
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George (4), p. 26. Cfr. Boesch Gajano, pp. 105-106; Bratož, pp. 363- 386. 88 Cfr. rispettivamente carm. 2, 11-12; 9, 9; 3, 14; 3, 11-12. Sui poemi composti in questo periodo trascorso alla corte meronìvingia di Sigiberto, cfr. George (2), pp. 225-235. 89 Riguardo al passaggio del poeta nella zona d’influenza del vescovo Nicezio, cfr. Jochen, pp. 19-42. 90 Cfr. rispettivamente carm. 3, 23-23a; 3,15; 2, 16. 87
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Contemporaneamente, Venanzio intesse rapporti amicali con alcuni dignitari laici della corte austrasiana, quali Berulfo, Bodegisilo, Condane, Dinamio, Gogone, Giovino, Lupo, Mummoleno, anch’essi destinatari e protagonisti di carmi 91.
La prosecuzione del viaggio di Fortunato Nella primavera del 567 il poeta si diresse verso Parigi, capitale del regno di Cariberto, fratello di Sigiberto, a cui Venanzio dedicò un carme solenne 92. Anche in questo contesto Fortunato entrò in contatto con numerosi esponenti della dinastia merovingica della generazione precedente
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e nello stesso periodo strinse amicizia con
il vescovo di quella diocesi, Germano, una delle grandi figure della Chiesa di Gallia, di cui in seguito Venanzio compose una biografia in prosa94. In seguito alla morte di Cariberto nell’inverno 567/8, il poeta ripartì alla volta di Tours, che con Poitiers entrava a far parte del regno di Sigiberto in seguito alla spartizione del regno di Cariberto tra i tre fratelli. L’unica testimonianza di questo primo soggiorno a Tours è il carme che il poeta dedicò al vescovo Eufronio, cugino e predecessore di Gregorio 95. Data la scarsità di notizie al riguardo, si ritiene che la permanenza a Tours fu in questo caso molto breve, costituendo una sorta di sosta sulla strada per Poitiers96. Di lì a poco infatti il poeta si spostò in quest’ultima città, dove avvenne l’incontro più decisivo della sua vita, ossia quello con Radegonda, principessa di stirpe
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Cfr. rispettivamente carm. 7, 15 (Berulfo); 7, 5 (Bodegisilo); 7, 16 (Condane); 6, 9-10 (Dinamio, cfr. al riguardo Berschin-Dieter, pp. 19-40); 7, 1-4 (Gogone); 7, 11-12 (Giovino: su questo carme, cfr. Malaspina, pp. 197-233); 7, 7-9 (Lupo); 7, 14 (Mummoleno). Riguardo ai rapporti del poeta con gli esponenti della nobiltà merovingia, cfr. George (4), pp. 132-178; George (5), pp. XVI-XXV; Pietri (5), pp. 729-754. In generale, sui personaggi menzionati nei carmi di Fortunato, cfr. in particolare l’appendice “Biographical Notes” in George (5), pp. 123-132. 92 Cfr. Koebner, p. 17 e ss.; Brennan (1), p. 60; George (4), p. 28; Godman, pp. 22-28; Di Brazzano (1) p. 21. Non concordano con la datazione della partenza del poeta da Metz al 567 alcuni studiosi, quali Meyer, p. 8 e Reydellet (3), p. 12, che retrodatano il congedo dalla corte austrasiana all’autunno del 566. 93 carm. 6, 2, su cui cfr. George (4), pp. 43-48; George (3), pp. 34-38. In generale sui panegirici indirizzati ai reggenti del regno franco, cfr. Hoeflich, pp. 123-136. 94 carm. 2, 9-10; 8, 2; cfr. inoltre la stessa Vita Sancti Germani, biografia in prosa, scritta da Fortunato, composta probabilmente qualche tempo dopo la morte del Santo, avvenuta il 28 maggio del 576. La paternità fortunaziana di questa opera è comprovata da Gregorio di Tours (Hist. Lang. 5, 8). Sull’opera, cfr. inoltre De Vogüé, pp. 77-80. 95 carm. 3, 3. È possibile che proprio in questo periodo Fortunato fece la conoscenza di Gregorio, cfr. Redeyllet (1), p. XII. 96 Cfr. Brennan (1), p. 61; Redeyllet (1), p. XIII: Di Brazzano (1) p. 22.
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turingia catturata dai Franchi, che conquistarono il regno turingio nel 520 circa ed il cui re Clotario I prese la fanciulla in sposa97 . Dopo che il re franco comandò l’uccisione del fratello di Radegonda, accusato di alto tradimento, la donna si allontanò dallo sposo e si ritirò in solitudine. In seguito fu consacrata diaconessa dal vescovo Medardo di Noyon e tra il 552 ed il 557, con la protezione del vescovo Germano di Parigi, fondò un monastero a Poitiers, di cui nominò badessa la sua discepola Agnese98. Soprattutto dopo la morte di Clotario, il prestigio di Radegonda crebbe a tal al punto che la monaca aveva l’onore di godere del rispetto di tutti i regnanti, cioè dei suoi quattro figliastri fra cui fu diviso il regno (Chilperico, Sigiberto, Gontramo e Cariberto)99. Da Poitiers Fortunato proseguì il suo viaggio con il proposito, tuttavia, di ritornarvi. Il poeta soggiornò a Bordeaux, dove fece la conoscenza del vescovo Leonzio II100, giunse poi a Tolosa 101 e si spinse forse sino a Bracara (l’attuale Braga) in Portogallo, città in cui ricopriva la carica di vescovo Martino, con il quale Venanzio intrattenne in seguito uno stretto rapporto epistolare102.
Il definitivo insediamento di Fortunato a Poitiers Al suo ritorno a Poitiers, collocabile alla fine del 568 103, Fortunato si impegnò con Radegonda a stabilirvisi definitivamente. Il poeta con ogni probabilità si diede alla cura degli interessi del monastero in qualità di sovrintendente laico ed economico: la monaca gli chiese verosimilmente di occuparsi degli affari esteri104. Il rapporto fra Radegonda, la sua “figlia adottiva” Agnese, ed il poeta era molto stretto ed alquanto intenso anche dal punto di vista umano: l’intimità tra loro fu così profonda da dare adito a maldicenze, come testimonia il fatto che Fortunato sentì la 97
Su Radegonda, cfr. carm. 8, 5-10; 9, 2-9. Cfr. Bezzola Reto, pp. 55-60; Reydellet (3), pp. XVII-XVIII; Di Brazzano (1), pp. 22-23. 99 Baudonivia, Vita Radegundis, 10; Fontaine, (1) pp. 113-140. 100 Il vescovo Leonzio II è menzionato dal Nostro in numerosi poemi, cfr. carm. 1, da 8 a 20. 101 carm. 2, 7-8. 102 L’ipotesi della conoscenza personale tra i due, che vada al di là del mero cartiglio, è stata formulata da Tardi (p. 76) e rilanciata da Redeyllet (p. 1 nt. 23), che colloca la visita di Venanzio Fortunato a Braga nel 567. Cfr. inoltre, Ferreiro, pp. 195-210. 103 Nel percorso a ritroso verso Poitiers, il poeta fece una breve sosta a Saintes (carm. 1, 12-13). Cfr. Brennan (1), pp. 64-65. 104 Sulle mansioni di Fortunato all’interno dell’istituzione monastica fondata da Radegonda, cfr. Brennan (1) p. 69; Di Brazzano (1), p. 28 nt. 71. 98
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necessità di difendersene e di ribadire la natura tutta spirituale del legame che lo univa alle due donne105. In questo stesso periodo, il poeta strinse relazioni con il vescovo diocesano di Poitiers, Pascenzio, al quale indirizzò due composizioni in prosa sui miracoli e sulla vita di Sant’Ilario di Poitiers, e con Eufronio di Tours, destinatario di tre carmi 106. Di lì a poco, entrambi i presuli morirono: al primo subentrò Maroveo 107, che si distinse per la sua ostilità nei confronti del monastero di Radegonda e dei suoi collaboratori108, ed al secondo Gregorio, il quale strinse con Fortunato un’intensa amicizia, che si protrasse sino alla morte del metropolita di Tours, avvenuta nel 594. Quest’ultimo può definirsi con certezza il migliore amico ed il più fermo sostenitore del poeta veneto, presumibilmente anche a motivo dei loro tratti in comune, quali l’età anagrafica, che doveva essere all’incirca la stessa, ed i medesimi gusti letterari: proprio su invito di Gregorio, Fortunato pubblicò i primi sette libri (I-VII) dei suoi carmi109. Fra le altre personalità con cui il poeta venne in contatto in questa fase della sua vita, è da ricordare Felice, episcopo di Nantes, con cui i rapporti si indebolirono in seguito all’inimicizia insorta tra quest’ultimo ed il vescovo di Tours110. In questi primi anni a Poitiers, dunque, Venanzio trascorse il suo tempo tra il servizio presso il monastero di Radegonda ed una vita mondana alquanto dinamica. Trattando della vita di Fortunato relativamente a questo momento, non si può tralasciare il fatto che nel 569, quando egli si era da poco stabilito nel monastero, Radegonda prese contatti con l’imperatore Giustino II e con l’imperatrice Sofia, per poter giungere in possesso di un frammento della Santa Croce di Cristo. Dopo aver ricevuto il benestare del re Sigiberto, un’ambasceria franca partì da Metz per Bisanzio e ritornò al monastero conducendo con sé la preziosa reliquia, che fu collocata nella
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carm. 11, 6. Relativamente all’amicizia tra Fortunato e Radegonda, cfr. Cristiani, pp. 117-131; riguardo alla immagine del genere femminile che traspare dalle opere del poeta, cfr. Latzke, pp. 22-65; Roberts (1), pp. 107-113; George (8), pp. 227-243; sul rapporto tra Fortunato, Radegonda ed Agnese riflesso nei carmi, cfr. De Vogüé, pp. 89-104. 106 carm. 3, 1-2-3. 107 Su Maroveo, cfr. Mineau, pp. 361-383. 108 carm. 5, 9, 7. Greg. Tur., Hist. Franc. 9, 40. Sull’ostilità di una parte dell’episcopato gallico nei riguardi del monastero di Radegonda e più in generale del monachesimo femminile, cfr. Brennan (5), pp. 73-97. 109 Cfr. Redeyllet (1), pp. XX-XXI. 110 Del rapporto intercorso tra Fortunato e Felice sono testimoni indiscutibili alcuni carmi che il poeta dedicò al vescovo di Nantes, cfr. carm. 3, 4-10; 5, 7. Sull’inimicizia tra quest’ultimo ed il presule turonense si ha notizia dall’opera storica dello stesso Gregorio (Hist. Franc. 5, 5; 6, 15).
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chiesa conventuale con una cerimonia solenne, in seguito alla quale il monastero fu intitolato non più alla Santa Vergine, bensì alla Santa Croce. Le celebrazioni programmate in onore della reliquia furono presiedute dal vescovo di Tours, Eufronio, dal momento che Maroveo aveva defezionato; per l’occasione il poeta ideò una serie di componimenti, fra cui spiccano i due carmina figurata cruciformi ed i famosissimi inni processuali Vexillla regis prodeunt e Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis, accolti sin da subito nella liturgia della Chiesa latina111. Alla fine della cerimonia Fortunato indirizzò a nome di Radegonda un panegirico all’imperatore Giustino II e all’imperatrice Sofia 112, nonché un lamento per la morte del cugino di Radegonda, Amalafredo 113. Nel periodo tra il 569 ed il 570, il poeta assistette al passaggio nella città di Poitiers del corteo che accompagnava a Parigi la promessa sposa del re Chilperico I, Gelesvinta, figlia del re visigoto Atanagildo e sorella di Brunichilde, che dopo pochi mesi fu rinvenuta morta per strangolamento nel proprio letto 114. Per il poeta il grave avvenimento fu di ispirazione per la composizione di una lunga elegia consolatoria che egli volle inviare alla madre ed alla sorella della defunta fanciulla115. Probabilmente fu Radegonda stessa a suggerire la stesura di questo carme, per tentare una riconciliazione dei vari rami della famiglia reale, dal momento che questo evento criminoso e funesto infiammò la lotta tra Chilperico I ed il fratellastro Sigiberto. Un fatto lieto e gioioso, quale la consacrazione di Gregorio a vescovo nel 573, fu,
invece, l’occasione che spinse il poeta a redigere un carme di felicitazioni
indirizzato alla popolazione della città di Tours116. Verosimilmente tra la primavera e l’estate del 575, Fortunato si diede alla elaborazione della sua opera poetica di maggiore impegno, la Vita Martini117. Nel 111
Carmina figurata: 2, 4-5; il Vexilla regis prodeunt corrisponde a carm. 2, 2 ed il Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis a 2, 6. 112 carm. app. 2. Cfr. inoltre George (4), pp. 62-67; Pisacane (3), pp. 303-342. 113 carm. app. 1, De excidio Thuringiae. Cfr. inoltre, George (4), pp. 164-166. 114 Greg. Tur. Hist. Franc. 4, 28. 115 carm. 6, 5. Sul componimento, cfr. Steinmann, 1975. Un’interpretazione diversa per alcuni dei versi del carme citato è proposta da Blomgren (3), pp. 131-138. Al riguardo, cfr. inoltre Davis, pp. 118-134; Pisacane (2), pp. 82-105, in cui si mostra come il poeta in questo testo cristianizzi l’insieme dei topos concernenti la lamentatio della donna abbandonata. Sui carmi consolatori di Venanzio Fortunato, infine, cfr. George (3), pp. 53-66. 116 carm. 5, 3. 117 Sulla datazione della Vita Martini, cfr. quanto osservato nella sezione dedicata all’opera.
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contempo la lotta fra Sigiberto e Chilperico vide un rovesciamento improvviso a favore di quest’ultimo e, proprio contemporaneamente allo svolgimento di tali fatti, gran parte degli studiosi collocano l’ordinazione sacerdotale di Fortunato 118. Gli anni che seguirono furono caratterizzati da eventi alquanto sfavorevoli al poeta veneto, come l’occupazione del territorio di Poitiers per mano di Chilperico: tale mossa strategica impediva i contatti con il regno di Austrasia, governato dal figlio di Sigiberto, Childeberto II, sotto la reggenza della madre Brunichilde. La situazione era aggravata da una condizione politica interna per nulla ottimale 119. Proprio in questo frangente emerse in maniera evidente la stima di Gregorio per Fortunato, allorché il vescovo donò all’amico un podere lungo il corso del fiume Vienne 120. In questi momenti di difficoltà, tuttavia, Fortunato seppe mettere a frutto la sua arte poetica per tentare di attenuare le divergenze e le ostilità che serpeggiavano fra i vari rappresentati sia del potere laico che di quello religioso. È da ricondurre a questi intenti riconciliatori il panegirico per Chilperico e sua moglie, accusata da voci calunniose di relazioni adulterine 121: nello scandalo fu coinvolto l’amico Gregorio, accusato di aver diffuso le diffamazioni ai danni della moglie del re122. Successivamente una violentissima epidemia di dissenteria fece numerosissime vittime, fra cui i due giovani figli di Chilperico e Fredegonda, Clodoberto e Dagoberto, in onore dei quali il poeta scrisse gli epitafi ed un carme consolatorio indirizzato ai genitori123. Dopo l’assassinio di Chilperico nel 584, Fortunato poté riprendere i contatti con la corte di Austrasia, che lo aveva accolto al suo arrivo in Gallia, e con gli esponenti della nobiltà che erano stati ammaliati dalla sua abilità poetica. Una fase cruciale fu rappresentata per il poeta dall’anno 587 sia in campo politico, dal momento che il re Childeberto II ottenne tutte le quattro parti del regno con 118
Cfr. Brennan (1), p. 67 nt. 77; George (4), p. 212, pone, invece l’ordinazione sacerdotale del poeta tra il 587 ed il 593. 119 Alcuni studiosi hanno ritenuto che questo momento di incertezza politica abbi avuto un riflesso sulla produzione poetica di Venanzio, determinandone una battuta d’arresto, cfr. Koebner, pp. 91-95. 120 carm. 8, 19-20; 9, 6. 121 carm. 9, 1. 122 Questa risposta di Fortunato è stata interpretata, in passato, come espressione di adulazione nei confronti del potere e come una forma di opportunismo, cfr. Dill, p. 333; Koebner, p. 95; Pietri (1), p. 744; tuttavia alcuni studiosi hanno rivalutato questa composizione del poeta, rinvenendovi il tentativo di venire in aiuto ad un caro amico, ossia Gregorio, cfr. Meyer, pp. 113-126; George (4), pp. 48-57; Godman, pp. 28-37; George (7), pp. 236-245. 123 Rispettivamente carm. 9, 4-5; 9, 2.
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il trattato di Andelot, sia in ambito affettivo ed emotivo, poiché scomparvero una di seguito all’altra Radegonda ed Agnese. Poco dopo Venanzio si recò con Gregorio a Metz, presso Childeberto II: entrambi furono invitati a compiere un viaggio sul battello reale lungo la Mosella ed il Reno, con tappa a Treviri e Coblenza, per giungere fino ad Andernach 124. Nel 588, il poeta fece ritorno a Poitiers, dove compose la biografia di Radegonda e successivamente di San Severino di Bordeaux125. Negli anni seguenti, Fortunato fu coinvolto dapprima nei disordini insorti a causa di una monaca ribelle alla nuova badessa del monastero di S. Croce 126, di cui il poeta non aveva mai smesso di occuparsi, ed in un secondo momento nella controversia scatenatasi fra gli esattori delle tasse del re Childeberto II e la città di Tours. Nel 590, in occasione della dedicazione della cattedrale di Tours, restaurata da Gregorio, Venanzio ebbe da quest’ultimo l’incarico di comporre didascalie in versi da apporre sotto i dipinti che decoravano l’edificio, raffiguranti i miracoli e le storie relative a S. Martino127. Nello stesso periodo, il poeta pubblicò quelli che costituiscono gli attuali libri VIII e IX della raccolta dei suoi carmi. L’anno seguente, il 591, fu contraddistinto da un fatto di notevole importanza per la carriera ecclesiastica di Fortunato, dal momento che succedette a Maroveo, vescovo di Poitiers, un arcidiacono di Tours128. Questi, essendo deceduto poco dopo, fu sostituito dallo stesso Fortunato, a cui l’amico Gregorio conferì l’ordinazione episcopale129.
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carm. 10, 9. Riguardo al presente carme e a quello composto contestualmente allo svolgimento del medesimo itinerario al seguito di Sigiberto ventidueanni prima (carm. 6, 8), cfr. Hosius, 1909; Roberts (2), pp. 1-22; Dräger, pp. 67-88. 125 Sulla Santa sono state redatte due biografie, una composta in prosa dallo stesso Venanzio, la Vita Radegundis, ed una scritta nei primi anni del VII secolo da Baudonivia, discepola di Radegonda, che volle completare l’opera intrapresa dal suo predecessore, ritenuta meno attenta alle azioni ed ai fatti concreti che caratterizzarono la vita della badessa e strettamente mirata ad accrescerne la santità. Al riguardo, cfr. De Vogüé, pp. 59-73. Sulla Vita Radegundis, cfr. Skubiszewski, pp. 195-236. Riguardo al personaggio di Radegonda, cfr. in particolare, AA.VV., La riche personalité de Sainte Radegonde, Paris 1988. In generale sulle biografie di contenuto agiografico ad opera di Fortunato, cfr. Pricoco, pp. 175193; Collins, pp. 105-131; Heinzelmann (1), pp. 27-44. 126 carm. 8, 12-12a. 127 carm. 10, 6. Sulla cattedrale di Tours nel VI secolo, cfr. Pietri (6), pp. 223-234. 128 carm. 10, 14. 129 Brennan (1), p. 78.
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Quest’ultimo scomparve tra il 593 e il 594 e Venanzio gli sopravvisse di non molti anni. Durante l’ultima fase della propria vita, oltre ad esercitare il suo ruolo di vescovo, il poeta compose le due opere omiletiche sul Pater Noster130 e sul Symbulum Apostolorum131 e l’estesa elegia in lode della Vergine, la cui autenticità è stata definitivamente dimostrata negli anni ’30 da Blomgren132. La data della morte di Fortunato non è nota, ma va posta verosimilmente nel primo decennio del VII secolo 133; certo è che egli fu sepolto nella basilica di S. Ilario a Poitiers e fu venerato pressoché sin da subito come santo. Questo titolo, infatti, gli è attribuito già al tempo di Carlo il Calvo, mentre è noto che a partire dal XII secolo la Chiesa di Poitiers celebrò il suo dies festus il 14 dicembre, benché in realtà il giorno della morte fosse sconosciuto134.
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carm. 10, 1 (Expositio Orationis Domincae). carm. 11, 1 (De Expositione Symbuli). 132 Blomgren (2), pp. 3-26. 133 Cfr. Di Brazzano (1), p. 38. 134 Sul culto di Venanzio Fortunato, cfr. De Gaffier, pp. 262-284; Caraffa, pp. 985-987; Sartor, pp. 267276. 131
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Le opere I carmi L’attività poetica di Fortunato è meglio rappresentata dalla raccolta dei carmi, a motivo della quantità, dell’estensione e della varietà che caratterizza tali testi. Essi costituiscono inoltre una fonte inesauribile di informazioni relative al milieu culturale in cui videro la luce e permettono di cogliere appieno i tratti principali della personalità e dell’attività di scrittore di Venanzio 135. Il corpus infatti è formato da oltre duecento componimenti in versi, per l’esattezza duecentodiciotto, e di dieci epistole in prosa, ripartiti in undici libri, cui vanno ad aggiungersi le due opere omiletiche, l’Expositio Orationis Dominicae e il De Expositione Symbuli, citati pocanzi, che aprono rispettivamente il libro X ed il libro XI. A questi vanno ad aggiungersi altri trentuno poemi, isolati rispetto agli undici libri, ma con certezza di paternità fortunaziana, rinvenuti nei primi decenni del XIX sec. in un manoscritto parigino, e pubblicati a partire da Leo nella sezione dal titolo Appendix carminum136. Il più noto fra i testi contenuti in questa piccola silloge è l’elegia denominata De excidio Thoringiae: si tratta di un’epistola in distici elegiaci, scritta da Venanzio su commissione di Radegonda ed indirizzata, a suo nome, al cugino Amalafredo, che si trovava a Costantinopoli137. La pubblicazione dei carmi è opera dello stesso Fortunato che, verso il 576, dopo i primi dieci anni di permanenza in Gallia, per esortazione dell’amico Gregorio di Tours, si dedicò alla edizione di tutta la produzione poetica scritta fino ad allora, che stava circolando in maniera indipendente per mano dei destinatari stessi dei vari componimenti. 135
La silloge dei carmi rappresenta pertanto la sezione più studiata delle opere fortunaziane. Diverse le edizioni dei testi, fra cui ricordiamo quella di Leo, contenuta nei Monumenta all’interno del volume dedicato all’Opera Poetica, in cui è collocata altresì la Vita Martini, e fra le più recenti, quella edita per la Collection des Universités de France, da Redeyllet (1994). Si ricorda inoltre che l’intera raccolta è stata pubblicata nel Corpus Scriptorium Ecclesiae Aquileiensis da Di Brazzano nel 2001, con traduzione italiana e testo latino a fronte, basato per lo più sull’edizione di Redeyllet. Entrambi gli studiosi testé citati hanno contemplato nei loro studi una corposa introduzione relativa alla struttura, alle tematiche, alla storicità dei carmi ed in generale alle loro peculiarità, e sono dotate di un nutrito apparato di note di commento. Cfr. infine George (4), la quale presenta in traduzione inglese una selezione di poemi, focalizzando l’attenzione su quelli di contenuto secolare. Da rilevare che la studiosa propone, alla fine del suo testo (pp. 123-149), un apparato di note biografiche relative ai vari personaggi storici menzionati da Fortunato. 136 Cfr. al riguardo, Redeyllet (1), p. LXXV ss.; Di Brazzano (1), pp. 616-612. 137 carm. app. 1. Sul componimento, cfr. Consolino (2), pp. 241-254; Pisacane (1), pp. 177-208.
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L’Autore scelse di organizzare la materia a disposizione non secondo un criterio cronologico, bensì in base ai temi ed ai destinatari dei testi138. Come accennato in precedenza, la caratteristica più evidente di questa raccolta è la varietà: in primo luogo la lunghezza dei carmi oscilla da pochi versi a diverse centinaia; per quanto concerne la forma, predomina il distico elegiaco a motivo probabilmente dei generi poetici praticati più spesso da Venanzio, come l’epigramma funerario o l’epistolografia in versi, tradizionalmente composti in metro elegiaco. Quest’ultimo è adottato tuttavia anche laddove ci si aspetterebbe un’altra forma metrica, come nel panegirico, riguardo alla cui composizione il poeta si colloca pertanto in posizione di rottura rispetto alla tradizione letteraria. Cinque soltanto sono i carmi scritti in esametri stichici, tre dei quali costituiscono carmina figurata139, quattro invece i componimenti in metri lirici, due in dimetri giambici, uno in tetrametri trocaici catalettici ed uno in strofe saffiche minori140. La polimorfia delle forme adottate rispecchia quella tematica. Nonostante si sia tentato di determinare una classificazione dei temi 141, è assai difficile inventariali in maniera definitiva; l’unica osservazione possibile è quella concernente il segno comune di questi poemi, rappresentato dal loro intento encomiastico; la maggioranza dei carmi inoltre è indirizzata ad un personaggio, ma non è dato sapere se si tratta di una lettera inviata realmente o di un discorso pronunciato di fronte al destinatario 142. Le occasioni che ispirano l’attività poetica di Fortunato sono le più svariate al punto da far meritare al poeta l’appellativo, attribuitogli dai critici moderni, di Gelegenheitsdichter, cui si è accennato in precedenza; assai numerose le richieste da parte dei committenti, per lo più vescovi e funzionari statali, con scopi celebrativi in relazione ad avvenimenti solenni ed importanti iniziative, in particolare di carattere edilizio 143. Taluni componimenti mostrano palesemente il carattere di improvvisazione da cui hanno avuto origine, mentre altri manifestano una certa ricorrenza di temi e di
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Sui destinatari ed il pubblico delle opere poetiche fortunaziane, cfr. Consolino (4), pp. 231-268. carm. 2, 4-5; 5, 6 (carmina figurata); 5, 7; 6, 1. Sui carmina figurata, cfr. Polara, pp. 211-230. 140 Cfr. rispettivamente carm. 1, 16; 2, 6; 2, 2; 9, 7. 141 Cfr. Meyer, pp. 30-39. 142 Cfr. Redeyllet (1), p. XXIX. 143 Cfr. Pietri (5), pp. 729-754 139
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formule, ingenerata probabilmente dalle condizioni, spesso non proprio favorevoli, in cui il poeta si trovava a svolgere la sua attività versificatoria 144. Il I libro consta di ventuno testi, scritti con l’intenzione di commemorare chiese, basiliche e ville, di nuova costruzione od oggetto di restauro. Le principali figure di riferimento in questo libro sono il vescovo di Bordeaux, Leonzio II, e la sua ex moglie Placidina, che si fecero promotori di un’operazione di risanamento di chiese e ville dei secoli IV e V145. Il II libro è costituito da sedici componimenti, in cui si distingue un blocco iniziale di sei carmi dedicati alla Santa Croce; di seguito è collocato un carme dedicato a S. Saturnino, due carmi indirizzati al clero ed alla chiesa di Parigi, mentre i carmi 11-13 sono da ricondurre al soggiorno del poeta in Austrasia. Il carme 14 è dedicato ai martiri di Agauno morti durante la persecuzione di Diocleziano e Massimo, il componimento successivo, la cui autenticità è stata messa in discussione da diversi studiosi146, è offerto ad Ilario di Poitiers, mentre l’ultimo testo riguarda la vita ed i miracoli di S. Medardo e fu composto probabilmente dal poeta in occasione di uno dei suoi viaggi, in cui fece tappa nella città di Soissons, dove è sepolto il corpo del santo. Il III libro si differenzia per la sua lunghezza ed è formato da trentatré carmi e tre epistole, diretti a vescovi ed altri rappresentanti dell’alto clero, in diversi momenti storici147. Fra questi personaggi si distinguono soprattutto le figure di Eufrone di Tours e Felice di Nantes, destinatari dei primi dieci poemi. Il IV libro invece si caratterizza per l’unità tematica, dal momento che in esso sono ospitati esclusivamente epitaffi, per un totale di ventotto. La loro organizzazione interna è strettamente gerarchica, nel senso che il poeta ha collocato fra i primi dieci, epigrammi funerari concernenti il clero episcopale 148, mentre il carme 11 ha come soggetto un abate, i carmi 12-14 riguardano dei sacerdoti, il 15 un diacono ed infine dal 16 al 24 sono celebrati dei laici, uomini, e dal 25 al 28 donne, fra cui spicca quello composto per la regina Teodechilde149; degno di nota altresì il carme 26, dedicato a
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Cfr. Di Brazzano (1), p. 52. Su carm. 5, 1 cfr. in particolare Delehaye (2), pp. 204-211. 146 Cfr. Leo, p. 43; Meyer, p. 28. 147 Cfr. Jochen, pp. 19-42. 148 Cfr, al riguardo, Consolino (1), pp. 117-142. 149 Sulla figura della donna negli scritti di Fortunato, cfr. Piredda, pp. 141-153; George (8), pp. 227-243; Consolino (3), pp. 75-93. 145
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Vilituta, nobildonna parigina trasferitasi a Poitiers, moglie di Dagaulfo 150, menzionato in carm. app. 9, 15; tale carme, data la lunghezza, è riconducibile piuttosto al genere della consolatio151. Va precisato che gli studiosi dibattono sul reale carattere epigrafico di questi epigrammi; nonostante non siano stati effettuati precisi ritrovamenti archeologici 152, si protende oggi a riconoscere la destinazione epigrafica dei medesimi 153. Il V libro, rivolto ai vescovi, consta di venti carmi e tre epistole in prosa; i primi due scritti sono diretti a Martino di Braga; il sesto testo rappresenta il terzo ed ultimo dei carmina figurata composti da Fortunato ed è indirizzato a Siagrio di Autun, mentre il settimo poema è riferito a Felice di Nantes; dodici carmi sono dedicati a Gregorio che campeggia come figura principale. Il VI libro presenta undici scritti, tutti riguardanti i detentori del potere temporale: i primi due testi risalgono al 566 e sono costituiti dall’epitalamio, composto in occasione del matrimonio tra Sigiberto I e Brunichilde, e dal poema che solennizza la conversione all’ortodossia cattolica di quest’ultima. Il terzo è un panegirico ed ha come soggetto il re Cariberto154, mentre di seguito sono lodate la regina Teodechilde, Gelesvinta, sposa di Chilperico, in onore della quale il poeta compose l’elogio funebre155, ed Ultrogota, vedova di Childeberto156. Gli ultimi tre componimenti sono riconducibili in generale alla permanenza di Fortunato presso la corte austrasiana, tra il 566 ed il 567. Il VII libro, formato da trentuno carmi, è assimilabile a quello precedente, poiché esso raggruppa alcune epistole in versi indirizzate ai notabili austrasiani, talune redatte in Austrasia nel 566, altre inviata da Poitiers all’incirca un decennio dopo, al fine di mantenere i contatti con la corte austrasiana 157. L’ultimo poema, diretto al comes
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Sui due personaggi, cfr. rispettivamente PLRE III, p. 1377; p. 380. Cfr. George (4), pp. 94-96; Santorelli (1). 152 Meyer, p. 32. Quest’ultimo ha manifestato il suo scetticismo relativamente alla reale destinazione epigrafica dei carmi. In generale, cfr. sull’argomento Leclercq, DACL, V (2), pp. 1982-1997. 153 Cfr. Di Brazzano (1), p. 54. 154 Sulla figura del re rappresentata nei carmi fortunaziani, cfr. Hoeflich, pp. 123-136. 155 Cfr. al riguardo, Blomgren (10), pp. 131-138; Delbey (2), pp. 256-266. 156 Su quest’ultimo carme, cfr. George (2), pp. 53-66. La studiosa, soffermandosi sul tema della consolatio nella produzione poetica fortunaziana, analizza altresì carm. 9, 1-2 indirizzati al re Chilperico I e a sua moglie Fredegonda per la perdita di due dei loro figli. 157 In particolare relativamente a carm. 7, 7, cfr. Adkin, pp. 1-2. 151
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Galattorio, si svincola dalla cronologia sopra proposta, in quanto datato all’incirca al 538. Il libro VIII è denominato da Reydellet (p. XXXII) “livre de Sainte-Croix”, dal momento che esso racchiude nella prima metà i poemi relativi alla vita condotta nel monastero di Radegonda, in particolare i poemi 3-4 furono composti in occasione della consacrazione di Agnese a badessa della comunità. Il primo dei due testi sopra citati è corredato dal sottotitolo De Virginitate, data la tipica struttura dell’epitalamio tardo antico che lo contraddistingue; in esso però la verginità è vista come esercizio propedeutico alle nozze con lo Sposo divino 158. La seconda sezione del medesimo libro, che consta di undici carmi, è indirizzata invece a Gregorio di Tours. Il libro IX è formato da sedici scritti: i carmi 1-5 sono si riferiscono al re Chilperico I ed alla sua famiglia e sono collocabili temporalmente tra il 580 ed il 581 159. I restanti undici testi, la cui cronologia è di difficile ricostruzione, sono nuovamente rivolti a Gregorio ed altri vescovi. Il libro X presenta all’inizio quattro componimenti in prosa, primo fra tutti l’Expositio Orationis Dominicae, mutilo nella parte finale e scritto probabilmente da Venanzio nel corso della sua attività pastorale a Poitiers, risalente pertanto all’ultima fase della vicenda biografica del poeta; nell’opera egli ricorre verisimilmente a repertori omiletici e catechetici. Anche gli altri testi contenuti nel libro appartengono con ogni probabilità al medesimo periodo160; tra di essi va segnalato il nono carme De navigio suo, scritto nel 588, che descrive il viaggio compiuto da Fortunato, in qualità di ospite della corte austrasiana, da Metz fino ad Andernach, navigando il fiume Mosella. L’itinerario è affine a quello compiuto dieci anni prima a seguito di Sigiberto, narrato in carm. 6, 8; in questo caso invece la finalità del componimento è quella di celebrare il figlio di quest’ultimo, il re Franco Childeberto II, nel quale Fortunato vede un “degno erede dei fasti della Gallia romana” 161. Da menzionare infine i due carmi (16-17)
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Cfr. Campanale, pp. 75-128; cfr. altresì Brennan (5), pp. 73-97. Cfr. George (3), pp. 5-18. 160 Sui carmi del X e dell’XI libro, cfr. George (6), pp. 32-43. 161 Di Brazzano (1), p. 526 nt. 55; sul poema, cfr. inoltre la monografia di Hosius (1926); Navarra (1), pp. 79-131; Roberts (2), pp. 1-22; cfr. inoltre Bruno, pp. 539-559. Lo studioso analizza i tre poemetti fortunaziati classificabili come poesia odeporica, ossia carm. 6, 8 (De coco qui ipsi navem tulit); 11, 25 (Ad easdem de itinere suo) ed il carme sopra citato De navigio suo (10, 9). Su carm. 6, 8 e 10, 9, cfr. Dräger, pp. 67-88. Sull’argomento, cfr. infine, Rosada (2), pp. 331-362. 159
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indirizzati al conte Sigoaldo, che fu il primo ad accogliere il poeta al suo arrivo in territorio franco nell’inverno 565-566162. Il libro XI, l’ultimo della raccolta, analogamente al precedente si apre con un’opera in prosa di carattere epesegetico-omiletico, l’Expositio Symbuli, datata anch’essa agli anni dell’episcopato, che si configura come una sorta di compendio dell’opera più accreditata sull’argomento, ossia il commento composto da Rufino di Concordia con ogni probabilità sul finire del IV sec. La totalità dei brani rimanenti, venticinque per l’esattezza, è indirizzata a Radegonda ed è riconducibile pertanto all’intervallo di tempo racchiuso tra il 568 ed il 587. Alla luce delle considerazioni relative ai contenuti dei vari libri ed alla folta schiera di vescovi, sovrani e dignitari, che popolano i versi di Venanzio, è possibile dedurre che la silloge fortunaziana rappresenta una fonte considerevole di informazioni relative alla storia dell’epoca, ma soprattutto ai vari personaggi menzionati, finendo per connotarsi come una sorta di compendio all’opera di carattere prettamente storico, l’Historia Francorum, redatta dall’amico dell’Autore Gregorio. Non va dimenticato tuttavia che l’intento principale di Fortunato è più che altro di carattere encomiastico e che la sua inclinazione lo conduce a presentarsi non come storico, ma piuttosto come panegirista di corte. L’attenzione del poeta è rivolta in particolare ai sovrani della dinastia dei Merovingi, conosciuti e celebrati dal Nostro, ossia Sigiberto, Cariberto, il fratello di quest’ultimo Chilperico 163, e Childeberto II, figlio di Sigiberto e Brunichilde, nonché le regine che gravitano attorno ad essi, prima fra tutte quest’ultima e la moglie di Chilperico, Gelesvinta, dalla infelice sorte164. Di seguito vengono i vescovi, di cui viene descritta e decantata l’attività politica e quella catechetica, permettendo al lettore moderno di avere una visione a tutto tondo dell’episcopato gallo-franco della seconda metà del VI sec. 165; presenti nei componimenti venanziani infine i dignitari della corte austrasiana, fra cui spiccano Dinamio, Gogone, Lupo e Giovino 166. 162
Su carm. 10, 17, cfr. Pisacane (4), pp. 441-478. Cfr. al riguardo, George (3), pp. 5-18. 164 Sull’attività di panegirista della corte merovingia, cfr. George (7), pp. 225-246. 165 Sulla figura vescovile tratteggiata negli scritti di Fortunato, cfr. Consolino (1), pp. 143-167; Brennan (3), pp. 115-139. 166 Cfr. al riguardo, Brennan (2), pp. 145-171. 163
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Le sue opere poetiche meritarono a Fortunato una smisurata fortuna nel Medioevo167, che diminuì fortemente nel periodo umanistico fino al XVIII secolo, quando fu edita a stampa per la prima volta l’intera opera fortunaziana, sia quella in versi che quella in prosa. L’impulso più deciso allo studio dei testi di Venanzio venne tuttavia nella seconda metà dell’Ottocento con la pubblicazione di tutte le opere dell’Autore nella Patrologia Latina (1850) e con la loro edizione critica inserita nella serie dei Monumenta Germaniae Historica (1881)168. In conclusione, la poesia di Fortunato ha origine dall’esperienza vissuta e rispecchia la sua visione del mondo: essa celebra i personaggi incontrati, i luoghi in cui essi operavano, i monumenti, i paesaggi e le comunità con cui il poeta venne in contatto nel suo peregrinare per la Gallia. L’Autore nei carmi passa con disinvoltura da contenuti ispirati dal sentire religioso alla poesia d’occasione, fondendo evidenti richiami ai Testi Sacri, ai Padri latini ed agli autori classici, la cui ripresa è assai consistente ed investe diversi aspetti, dalle strutture compositive alle citazioni letterali. La forma che caratterizza l’opera fortunaziana è improntata alla semplicità, compensata tuttavia dalla ricercatezza espressiva e dal virtuosismo stilistico. Il poeta non disdegna di cimentarsi nelle tecniche versificatorie più elaborate come i carmina figurata, gli inni abecedari e gli acrostici: predominano numerosi “Wortspiele”, fra cui spiccano la figura etimologica e la paronomasia 169. Per quanto concerne gli aspetti prosodici e metrici, è possibile osservare brevemente che ricorrenti sono le irregolarità relative alle quantità sillabiche, dovute verisimilmente alla ristrettezza dei tempi di composizione; l’elemento più evidente è tuttavia rappresentato dalla ricerca, nella versificazione, della rima e dell’assonanza.
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Cfr. Stella, pp. 269- 290. Sulla fortuna dei testi fortunaziani nel tempo ed in particolare sul valore letterario dei carmi, cfr. Quacqurelli, pp. 431-465; Redeyllet (3), pp. LI-LXXI; Di Brazzano (1), pp. 68-80. 169 Sullo stile di Fortunato, cfr. Reydellet (1), pp. 69-77. Studi approfonditi sulla lingua, sia dei testi in prosa che della produzione poetica del Nostro, sono stati condotti agli inizi del secolo scorso da Elss, Meneghetti, Dagianti, Blomgren e negli anni ’70 in particolare da Clerici. 168
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Gli scritti agiografici in prosa Il maggiore interesse dei critici moderni, come accennato sopra, verte sulle opere poetiche di Fortunato, mentre nell’antichità quest’ultimo veniva decantato in particolare come cantore di santi, data l’importanza rivestita dalle Vitae scritte di sua mano. Negli ultimi decenni tuttavia l’attenzione per questi testi è aumentata, soprattutto relativamente al loro significato storico, dal momento che essi possono collocarsi nel panorama della prima agiografia latina ed allo stesso tempo nel periodo della rinascita culturale carolingia; la loro rilevanza è data altresì dagli esempi di santità proposti e dalla possibilità che essi offrono di conoscere il loro pubblico ed in generale il contesto socio-culturale in cui sono inserite 170. Gli scritti di carattere agiografico di certa paternità sono sette, composti soprattutto su richiesta altrui: sei di essi ruotano attorno alla figura di alcuni vescovi della Gallia, Ilario di Poitiers 171, Germano, Albino, Paterno172, Marcello e Severino di Bordeaux173, mentre una è incentrata su Radegonda. Di dubbia o smentita paternità le Vitae di Amanzio, Remigio, Medardo, Leobino, Maurilio e le Passiones di Dionigi, Rustico ed Eleuterio; l’insieme di questi scritti è definito da Krusch “opuscula Venantio Fortunato male attribuita”, per i quali tuttavia alcuni studiosi propongono la necessità di un accurato riesame174. Le Vitae composte da Fortunato sono in media più brevi rispetto alla prima biografia di ambito cristiano; i testi più lunghi sono quelli concernenti Germano e Radegonda175. Tali testi agiografici esibiscono una struttura similare, in cui sono preponderanti schemi ideativi che si ripetono e l’utilizzo di materiale topico. Mediante quello che è stato definito “processo generalizzante”, l’Autore spoglia i suoi protagonisti dei loro tratti individuali a vantaggio della presentazione di una determinata visione della santità vescovile, caratterizzata da alcuni riferimenti ricorrenti, quasi imprescindibili, fra cui la
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Pricoco, pp. 175-176. Sulla Vita Hilarii, cfr. Duval, pp. 133-152. 172 Sulla vita dei “ vescovi-monaci” Albino, Germano e Paterno, cfr. De Vogüé, pp. 75-86. 173 La Vita Severini Burdigalensis non era inclusa fra le Vitae edite dal Krusch per i Monumenta, dal momento che essa fu scoperta agli inizi del ‘900 da Dom Quentin, anonima, e di seguito attribuita a Venanzio Fortunato sulla base della testimonianza di Gregorio di Tours e di considerazioni di carattere letterario. 174 Cfr. Navarra (2), pp. 607-610. 175 Pricoco, p. 176. 171
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nobiltà di natali, l’abbandono del nucleo familiare per seguire la propria vocazione, la presenza di particolari virtù sin dall’infanzia, l’elezione all’unanimità popolare al soglio vescovile, il martirio sine cruore ed infine la narrazione di miracoli compiuti ancora in vita176. Il modello agiografico proposto nelle Vitae venanziane è incentrato su quello vescovile, tranne che nelle biografie di Paterno e Radegonda, in cui predomina il modello ascetico-monastico. Le biografie, commissionate da vescovi, commemorano il santo e la comunità cittadina; in generale “l’elemento ascetico si riduce al riconoscimento che, anche dopo aver conseguito dignità vescovile, il santo mantiene un regime di vita penitente177”. I caratteri sopra delineati, in particolare la brevità dei testi, la scelta della prosa, la semplificazione dello schema biografico, la ricorrenza di elementi topici e la minore elaborazione formale rispetto ai carmi ed alla Vita Martini, sono motivati dalla diversa destinazione delle agiografie; il pubblico cui l’Autore indirizza questi scritti coincide infatti con ascoltatori il più delle volte poco colti ed impazienti, come rileva lo stesso Fortunato, il quale nella Praefatio alla Vita Sancti Hilarii178, la prima ad essere proposta nella sua raccolta, afferma: sed ne protracta pagina fastidium potius generet quam prouocet auditorem […]179.
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Cfr. Consolino (1), pp. 82-87. Pricoco, pp. 179-184; sp. p. 184. Al riguardo, cfr. inoltre Fiocco, pp. 213-230. 178 Sulle prefazioni alle Vitae in prosa, cfr. Santorelli (3), pp. 291-316. 179 Ven. Fort. Vita Hil. 2, 5; la necessità della brevità del testo è ribadita da Fortunato anche altrove, cfr. Vita Hil. 13, 38; Vita Radeg. 39, 91. Cfr. al riguardo Pricoco, pp. 177-178. Sul pubblico, e più in generale sulla lingua e sulla forma delle biografie in prosa, cfr. Collins, pp. 105-131. 177
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La Vita Sancti Martini
La Vita Sancti Martini costituisce il testo poetico più lungo composto da Fortunato: esso consta infatti di 2243 esametri dattilici ripartiti in quattro libri. Il poema fu scritto intorno alla metà degli anni ’70 del 500 180: verisimilmente fu terminato dal poeta nel periodo intercorrente tra il primo o il secondo anno dell’episcopato dell’amico Gregorio di Tours, con ogni probabilità il 573, ed il 576, anno in cui morì il vescovo di Parigi, Germano, presentato ancora vivo all’interno dell’opera181. Il termine post quem è pertanto indicato dall’elezione al soglio vescovile di Gregorio, definito nell’opera appunto vescovo di Tours, ed il termine ante quem è rappresentato dalla morte di Germano, per il motivo sopra esposto. L’autore stesso precisa invece il lasso di tempo in cui si dedicò alla stesura dell’opera, riferendo che essa fu composta nel breve spazio di sei mesi, quindi di fretta e con scarsa cura ed in mezzo a frivole occupazioni182. Diverse le ragioni che spinsero Venanzio alla redazione di un simile poema: in primis, apertamente dichiarata dal poeta stesso, è la volontà di ringraziare S. Martino per la guarigione agli occhi, ottenuta per sua intercessione in gioventù a Ravenna, cui si è accennato nella sezione biografica relativa all’autore. Al motivo devozionale vanno tuttavia affiancati ulteriori elementi, quali i personaggi e la situazione politica con cui il poeta venne in contatto al suo arrivo in Gallia. Come noto, alla corte austrasiana egli fece la conoscenza di Gregorio, di cui ricercò l’amicizia ed il sostegno, in particolare nel momento della sua elezione a vescovo di Tours. Gregorio, ponendosi sulla scia dei suoi predecessori, rinsaldò ulteriormente il culto del santo patrono di Gallia, facendo di Tours la città di Martino 183. Ed è proprio a Gregorio che il poeta dedica la sua opera, come dichiarato apertamente nell’epistola indirizzata al medesimo, premessa al poema184. La collaborazione tra il vescovo ed il letterato non si esaurisce in questo 180
Cfr. Roberts (5), p. 258. Tardi (p. 181) propende per individuare quale periodo della composizione dell’opera l’estate del 574; Quesnel (p. XVI) e Nazzaro (6), p. 176, datano il poema al 575. 181 Mart. 4, 637. 182 Cfr. Ep. ad Greg. 3 ita ut breuissime iuxta modulum pauperitatis nostrae in quator libellis totum illud opus uersu hoc ter bimestre spatium, audax magis quam loquax, nec efficax, cursim, inpolite, inter friuulas occupationes sulcarem. Gli editori ritengono maggiormente verisimile l’informazione in hoc ter bimemenstre spatium, cfr. Leo p. 293; Quesnel, p. XVII. 183 Cfr. Pietri, pp. 333-334; Kitchen, p. 16; Labarre, p. 36. 184 Tale epistola è contenuta esclusivamente in un manoscritto, N, ritenuto fra l’altro dagli editori spesso impreciso, cfr. Quesnel, p. XIV.
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senso, dal momento che Gregorio sembra aver coinvolto direttamente Fortunato nel suo programma pastorale, incaricandolo di comporre delle didascalie destinate agli affreschi relativi alla vita di Martino che stavano prendendo corpo all’interno del progetto di restauro della cattedrale, dedicata a Martino, che il vescovo volle riedificare perché semidistrutta da un incendio 185. Alcuni studiosi ritengono che Gregorio sia il committente stesso dell’opera 186; altri, invece, in particolare alla luce del fatto che Fortunato compose l’opera ancor prima di ricevere la richiesta dell’amico vescovo di versificare il suo De uirtutibus Sancti Martini, identificano quali committenti le monache Agnese e Radegonda, che proposero probabilmente il soggetto a Fortunato per istituire uno stretto legame tra il loro monastero e Gregorio, appena eletto al soglio episcopale 187. Alle due affezionate amiche il poeta indirizza una Praefatio in ventuno distici elegiaci, che si apre con la metafora del nauta rudis188. Quest’ultima immagine, assai cara al Nostro, ben si presta al convenzionale locus humilitatis: come il marinaio inesperto, infatti, Venanzio è costretto ad intraprendere una navigazione poco sicura, e per questo motivo conclude il prologo chiedendo alle due donne che intercedano per lui presso Martino e presso Cristo189. L’opera, scritta nel metro virgiliano, rappresenta una retractatio in versi della biografia martiniana curata da Sulpicio Severo nel 397. Nello specifico, Fortunato prende a modello la Vita Martini nei primi due libri del suo poema: il libro I, che consta di 513 versi, parafrasa l’ipotesto fino alla fine del capitolo 18, mentre il libro II di 490 versi giunge sino alla fine della Vita sulpiciana190. Nei libri III e IV, costituiti rispettivamente da 529 e da 712 versi, il poeta tiene presenti i Dialogi dello stesso Severo, in particolare il II (dal capitolo 1 al 13) ed il III 185
Cfr. Ven. Fort. carm. 10, 6; Brennan (6), pp. 65-83. Lo studioso mostra inoltre le numerose affinità tra l’opera poetica del Nostro e le arti figurative del tempo. Sull’argomento, cfr. inoltre Quesnel, p. LIII; Tavano, pp. 87-102; Roberts (6), pp. 175-177; Nazzaro (6), p. 203; Pietri (7), pp. 175-186; Vielberg (2), pp. 63-84; Roberts (7), pp. 189-198. 186 Chase, p. 57. 187 Quesnel, pp. XIV-XV; Roberts (5), p. 258. 188 Mart. Praef., 1-26. 189 Cfr. Quesnel, p. 4. La medesima metafora è ripresa altresì nell’incipit del libro II (cfr. Mart. 2, 1-10) e dei restanti due libri: nel libro III essa compare in forma rinnovata ed accresciuta, in quanto dal libro III ha inizio la parafrasi della narrazione di Gallo, protagonista dei Dialogi di Severo, cui si accennerà di seguito; all’inizio dell’ultimo libro invece la medesima immagine della navigazione è accompagnata dal tema bucolico del pastore che si riposa adagiato sull’erba. Sull’argomento, cfr. Braidotti, pp. 107-119. 190 Sulla Vita sulpiciana, sul contesto della sua composizione, sulla sua struttura e relativamente, infine, al suo valore letterario storico e religioso, cfr. Fontaine (2), pp. 17-210. Cfr. inoltre Delehaye (1), pp. 5-136.
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(dal capitolo 1 al 17) che rappresentano il racconto di Gallo, monaco del monastero di Marmoutier, istituito da Martino, incaricato da Sulpicio di redigere una sorta di dossier relativo al fondatore. È lo stesso autore a specificare quanto operato nell’epistola dedicatoria e Gregorio, sopra citata191. Non è possibile tuttavia stabilire se il poeta si sia dedicato alla lettura dell’opera sulpiciana nel corso dei suoi studi ravennati o del suo soggiorno ad Aquileia o a Poitiers. Altrettanto incerto se il medesimo abbia letto o meno le Epistulae dello stesso Sulpicio. Nonostante la presenza di richiami qua e là alle medesime, infatti, il poeta non avrebbe tralasciato di chiudere l’opera con la narrazione della morte edificante del santo, contenuta appunto esclusivamente nelle Epistulae, se ne fosse venuto a conoscenza192. Ben nota a Fortunato la parafrasi composta, sulla base dei medesimi scritti agiografici martiniani, all’incirca un secolo prima, da Paolino di Perigueux193. Questi, analogamente a quanto accaduto tra Fortunato e Gregorio, è invitato dal vescovo di Tours, Perpetuo, a celebrare il santo patrono della città: la sua opera pertanto si pone in linea con le direttive episcopali, contribuendo all’affermazione del culto martiniano e di Tours come città cristiana 194. La translatio paoliniana è assai più ampia di quella fortunaziana, poiché costituita da 3622 esametri, ripartiti in sei libri, di cui i primi tre libri riprendono la Vita Martini di Sulpicio; nei due libri successivi il poeta parafrasa, analogamente a quanto operato da Venanzio, il II ed il III libro dei Dialogi; la sesta ed ultima parte dell’opera riprende il racconto dei miracoli postumi di Martino redatto in prosa dall’allora vescovo di Tours, Perpetuo195. Fortunato riprende senza dubbio la versificazione del predecessore: alcuni studiosi ritengono che le allusioni al poema paoliniano siano tuttavia limitate e messe in scarsa evidenza dall’autore e che i due parafrasti di differenzino alquanto nei modi e nella finalità della loro opera196; altri, invece, ritengono che la lettura della versione
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Cfr. Ep. ad Greg. par. 3. Cfr. Quesnel, p. XXXII; Nazzaro (4), p. 309. 193 Su Paolino, cfr. Quesnel, pp. XXIX-XXX; sp. nt. 56. 194 Cfr. Pietri (2), pp. 737-739; Van Dam (1), pp. 567-573; Nazzaro (6), p. 176; Nazzaro (8), pp. 252-294. 195 Il testo, dal titolo Charta de miraculis sancti Martini, è andato perduto. 196 Nazzaro (4), p. 309. 192
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parafrastica di Paolino abbia influito in maniera più consistente sulla redazione del successore197. Concretamente Fortunato menziona quest’ultima in due sole occorrenze, in un caso confondendone l’autore con Paolino di Nola 198, come accade anche all’amico Gregorio199, e nell’altro accumunandolo a Severo: egli definisce infatti entrambi gli autori brillanti biografi, vinti tuttavia dalla grandezza della materia 200. Il Nostro, però, a differenza di quanto operato nei confronti di Sulpicio, in nessuna occasione individua Paolino come modello dichiarato. È inevitabile notare che entrambe le opere esibiscono caratteri simili, analogie nella struttura e nell’organizzazione globale ed alcuni elementi in comune non rintracciabili nell’ipotesto sulpiciano. Come si accennava pocanzi, analogamente a quanto ravvisato nel rapporto tra il vescovo Perpetuo e Paolino all’incirca un secolo prima, Fortunato contribuisce alla rivalutazione della figura di Martino portata avanti da Gregorio 201: i due poeti riprendendo l’ipotesto sulpiciano danno vita ad un poema epico che celebri le gesta del santo, come dimostrato dalla scelta dell’esametro e dalle frequenti citazioni, in entrambe le opere, dell’Eneide virgiliana202. Da rilevare altresì la presenza di temi ricorrenti, di espressioni affini, che non possono essere ricondotti esclusivamente alle medesime reminescenze classiche o alla casualità203. Fortunato pertanto conosce l’opera del predecessore e vi attinge, in maniera più evidente nel primo libro, dal momento che nei restanti libri i richiami tra i due testi diventano meno frequenti204.
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Manitius (3), p. 444; Godman, p. 88. Mart. 1, 20-21. 199 Greg. Tur., Mart. PL.71, c. 914. 200 Mart. 2, 468-471. 201 In particolare Fortunato con la sua opera incentrata sulla vicenda biografica di Martino e più in generale con la sua devozione al santo, testimoniata anche nei carmi, sembra contribuire sia allo sviluppo dell’autorità di Gregorio a Tours sia alla definizione di alcune questioni politiche ed economiche in collaborazione con i re Franchi, cfr. Brennan (7), pp. 129-133. Nel contributo testé citato (p. 128), lo studioso inoltre mostra come la poesia di Fortunato documenti la costruzione di un’identità martiniana che allo stesso tempo lodi il vescovo Gregorio e, per così dire, ne costringa l’azione a porsi sulla scia di quanto operato in vita dal santo patrono. 202 Sulla dimensione epica dell’opera di Périgueux, cfr. Zarini (1), pp. 177-202; per quanto concerne il testo fortunaziano cfr. quanto sarà rilevato in seguito. 203 Cfr. Labarre, pp. 310-315; Quesnel, p. XXXIV. 204 Quesnel, pp. XXX-XXXIV. 198
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Ad un confronto più serrato tra la prosa di Sulpicio e le parafrasi successive 205, è possibile evincere che, rispetto al modello, Paolino e Venanzio operano alcune evidenti omissioni: cinque rintracciabili nella Vita paoliniana ed altrettante ravvisabili in quella fortunaziana; similmente cinque tagli sono realizzati da entrambi i poeti. In base alle precedenti osservazioni alcuni studiosi hanno dedotto che i due poeti avrebbero avuto a disposizione dei dossier, dei testi sulpiciani su cui attuare la loro versificazione, molto simili tra loro206; altri invece sono contrari all’esistenza di tali materiali 207. Del resto appare assai arduo stabilire se i testi pongono il lettore di fronte a scelte personali degli autori o dei documenti da questi presi a modello. In particolare le omissioni del poema di Paolino vertono soprattutto su ciò che poteva arrecare danno alla chiesa di Tours o alla memoria del santo, come gli accenni al millenarismo, la critica del clero e gli alterchi di Martino con il vescovo Brizio; i tagli del Nostro sono invece di diversa natura, quali la contrazione della narrazione relativa all’adolescenza del santo, del periodo trascorso a Marmoutier e di tutti quegli elementi che non mostrano Martino in azione208. Fortunato inoltre, non essendo incappato nella tentazione di aggiungere ulteriori elementi alla biografia martiniana, si mostra rispettoso del contenuto e della dispositio della materia rinvenuta nell’ipotesto; ciò che cambia nella sua versificazione è la modalità narrativa, in quanto vengono meno gli interventi dell’autore e tutto quello che attiene alla convenzione del dialogo. Tuttavia il racconto, caratterizzato già nella prosa sulpiciana da discontinuità cronologica, viene interrotto o ritardato dall’inserimento di elementi connessi a Martino o all’autore stesso che occupano gran parte della narrazione. Occorre sottolineare infine che Venanzio, a differenza del predecessore parafraste, non riprende il testo di Sulpicio esclusivamente in relazione al suo 205
I rapporti intercorrenti tra la parafrasi di Paolino e quella di Fortunato sono stati indagati in numerosi studi specifici, che partendo dall’ipotesto sulpiciano hanno esaminato a fondo i procedimenti retorici e le scelte contenutistiche e stilistiche effettuate nei diversi contesti dai due autori, cfr. Chase, pp. 51-76; Nazzaro (3), pp. 111-128; Nazzaro (4), pp. 301-346; Labarre, pp. 29-70; 123-159; 247-251; Quesnel, pp. XXXI-XLI; Nazzaro (6), pp. 171-210; Putna, pp. 153-161; Roberts (4), pp. 91-111; Zarini (2), pp. 87103; Roberts (7), p. 222-230. Sull’evoluzione della figura di Martino nel tempo, cfr. Sulla figura di Martino presso i suoi biografi nel tempo, cfr. Brennan (7), pp. 121-135; Reames, pp. 131-164; Van Dam (3), pp. 1-27; Van Dam (4), pp. 13-28; Vielberg (3) tutta la monografia si occupa dei dossier agiografici relativi a Martino ed al cosiddetto Martinellus: appendice con altri testi relativi al culto martiniano, contenuta in alcuni manoscritti della Vita Martini di Sulpicio. 206 Babut, p. 304; Chase, pp. 51-60. 207 Delehaye (1), pp. 13-15; Fontaine (2), p. 223; Nazzaro (6), p. 202. 208 Quesnel, p. XXXVI, sp. nt. 73. Cfr. inoltre Labarre, pp. 114-121.
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contenuto, ma anche per quanto concerne l’elocutio, conservandone la concisione: il poeta infatti di rado dilata il racconto, operando talvolta delle ellissi che rendono oscura la comprensione del testo209. La parafrasi fortunaziana pertanto può essere considerata più vicina al testo sulpiciano di quanto non lo sia la translatio di Paolino, la cui opera si caratterizza altresì per una maggiore complessità 210. Tale discrepanza nella composizione dei poemi in esame va rintracciata con ogni probabilità nell’estetica dei due poeti: nel caso di Paolino, infatti, notevole è l’influenza del gusto dei retori di Gallia, vicino all’asianesimo, mentre Fortunato nella sua formazione ravennate venne a contatto con il preziosismo alessandrino. L’applicazione delle tecniche parafrastiche e gli stilemi adottati dai due autori tuttavia non sono indicativi esclusivamente della loro inclinazione retorica o della differente destinazione della loro opera, ma consentono di appurare come con il passare del tempo siano mutate anche le prospettive dell’agiografia: è dunque il diverso contesto storico-religioso a definire la difformità tra l’ipotesto sulpiciano e le parafrasi successive, che manifestano un nuovo sfondo politico, una differente spiritualità ed un programma poetico dissimile 211. Già al momento della composizione della translatio paoliniana, l’intento apologetico che pervade l’opera di Sulpicio e la volontà di ricercare e selezionare i documenti e, per così dire, le prove finalizzate ad attestare la veridicità dei fatti della biografia di Martino e di stabilirne la santità vengono meno, lasciando il posto al proposito di adoperarsi per la perennità del culto del santo, nel quadro più ampio della vasta opera di rinnovamento intrapresa, come segnalato in precedenza, dal vescovo Perpetuo, con lo scopo di promuovere la città di Tours e di rendere la tomba di Martino un importante luogo di pellegrinaggio 212. Con Paolino si assiste ad uno slittamento che interessa l’intera narratio: dall’apologia si passa al panegirico, dalla polemica
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Quesnel, p. XXXIX. Cfr. Junod-Ammerbauer, p. 127; Fontaine (3), p. 125; Nazzaro (3), pp. 127-128. In passato, tuttavia, alcuni studiosi hanno sostenuto il contrario, ritenendo il testo di Fortunato più complicato e distante dal modello, cfr. Ebert, pp. 573-576; Tardi, pp. 184-187; Moricca, p. 109. In particolare quest’ultimo studioso, a proposito della Vita Martini fortunaziana, afferma “quanto il poema sul taumaturgo turonense di Paolino di Périgueuex è semplice, altrettanto questo di Venanzio è artificioso”. 211 Cfr. Nazzaro (6), p. 199. 212 È noto che nel 470 i pellegrini affluivano a Tours da tutte la parti del mondo, cfr. Paul. Petr. Mart. 6, 34-35; cfr. inoltre Pietri, pp. 735-744; Neri, p. 69. 210
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all’illustrazione213. Il parafraste sembra inoltre maggiormente interessato a porre in evidenza la “fragile umanità di Martino, attribuendogli una psicologia umana e ristabilendo il contesto terreno della sua esistenza”; il medesimo palesa altresì la sua particolare attenzione per le questioni politiche, proponendo il santo come vescovopatronus, che si prodiga per la difesa dei deboli e dei diseredati214. Il poeta propone infine Martino come modello da imitare per i fedeli, estraendo dalla sua biografia materiale per una riflessione di carattere spirituale 215. Ulteriormente trasformato il quadro storico, politico e cultuale in cui si trova a comporre la sua versificazione Fortunato; inoltre la destinazione dell’opera è mutata, dal momento che Paolino cerca di edificare e di commuovere, indirizzando i suoi versi alla folla dei fedeli216, mentre il suo successore aspira a produrre un testo poetico brillante, che possa abbagliare la corte merovingia. Il pubblico cui il poeta rivolge i suoi versi è infatti un pubblico dotto: mentre le Vite in prosa sono pensate per essere declamate in pubblico in Chiesa o nei monasteri217, la Vita Martini è destinata ad un cerchio di lettori letterati218. Analogamente ad altri genere letterati nella Gallia dell’epoca, anche “l’agiografia in versi andava perdendo il suo carattere didascalico a vantaggio della celebrazione”, al punto che “l’impegno didascalico dei poeti cristiani precedenti è ormai assente in Fortunato ancor più che in Avito”219. Il Nostro pertanto si concentra infatti sulla evidenziazione di alcune virtù personali di Martino, quali la bontà, l’indulgenza e la carità sociale 220 ed in particolare sulla sua attività di vescovo, “pastore del suo gregge”221. Un ulteriore aspetto della figura martiniana posto in rilievo dal Nostro è rappresentato dalle sue uirtutes di guaritore, che fanno del santo un vero e proprio doctor222.
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Cfr. Quesnel, p. XXX. Cfr. Nazzaro (6), p. 200. 215 Cfr. Quesnel, p. LVI; Nazzaro (4), p. 344. 216 Paul. Petr. Mart. 6, 501; Fontaine (4), p. 269. 217 Vita Albin., 1, 1, 2-3. 218 Cfr. Quesnel, p. XLI; Malaspina, p. 206; Roberts (6), p. 146. 219 Cfr. Malaspina, p. 209. 220 Cfr. Quesnel, pp. LVI-LVII. 221 Cfr. Mart. 1, 420. 222 Cfr. Van Dam (3), p. 10; Nazzaro (6), p. 201; Roberts (7), pp. 201-202. Dal presente studio emerge in maniera evidente quanto testé asserito. 214
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Nella narrazione sono privilegiati i miracoli compiuti da Martino, del quale appunto vengono intensificate le virtù miracolose ed in particolare taumaturgiche del santo223. Le azioni miracolose rimpiazzano, per così dire, i mirabilia dell’epos classico e, nel contesto in cui si trova a scrivere Fortunato, non devono essere né comprovati né giustificati, dal momento che la vicenda martiniana era ormai nota ai fedeli 224, che la consideravano materia storica ed allo stesso tempo leggenda, poiché le gesta narrate potevano collocarsi a metà tra il mito, in quanto abbastanza distanti nel tempo, e la notorietà popolare, in quanto a sufficienza attuali. Il poeta pertanto racconta tali fatti senza alcun eufemismo né reticenza, intensificandone al contrario il carattere impressionante e straordinario. Tale inclinazione può essere altresì interpretata alla luce della diffusione del culto cristiano all’epoca nella regione, in cui ogni provincia venerava un santo protettore con i suoi santuari e i suoi luoghi devozionali, nei quali poter trovare conforto in un periodo di guerre ed intrighi politici225. Come rilevato precedentemente inoltre, i pellegrini si recavano in questi santuari per beneficiare di guarigioni miracolose, spinti appunto dalle narrazioni agiografiche che privilegiavano tali aspetti, corroborate dalla testimonianza degli altri fedeli226. Dominano nell’opera fortunaziana l’intento panegiristico e la devozione personale al santo, cui si aggiunge lo scopo di comporre un’opera poetica che si affianchi, senza prenderne il posto, alla Vita sulpiciana: dunque non una versione aggiornata, ma una riscrittura poetica, della medesima 227. Come accennato sopra, le dissomiglianze già riscontrate tra i due poeti sono riflesse nell’applicazione delle varie tecniche parafrastiche, regolate dai principi retorici dell’amplificatio e dell’adbreuiatio: il primo di essi è prediletto da Paolino, mentre il secondo dal successore, come dimostra altresì il migliaio circa di esametri in meno con 223
Quesnel, p. XLIX. Quest’ultimo rileva che all’interno del poema fortunaziano la narrazione dei quarantotto miracoli operati dal santo occupano milleduecentottanta versi, ripartiti come segue: libro I, quindici miracoli distribuiti in trecentodieci versi; libro II, sei miracoli ripartiti in centonovantotto versi; libro III, trecentotrentanove versi per dieci miracoli; libro IV, diciassette miracoli suddivisi in quattrocentotrentaversi. Al riguardo, cfr. inoltre Roberts (7), p. 201. 224 Quesnel, pp. L-LI; Nazzaro (4), p. 344. Lo sforzo volto a combattere lo scetticismo nei confronti dei gesti taumaturgici di Martino e degli avvenimenti soprannaturali di cui fu protagonista attuato da Sulpicio è dunque assente nei suoi successori. Per quanto concerne la narrazione sulpiciana dei miracoli di Martino, cfr. Fontaine (2), pp. 198-203. Lo studioso ripartisce tali azioni in diverse categorie, analizzando per ciascuna di esse il grado di verisimiglianza e di stilizzazione letteraria. Cfr. inoltre Rousselle, pp. 114119. 225 Quesnel, p. LI. 226 Cfr. quanto affermato nella “Premessa” al presente studio. 227 Nazzaro (4), p. 345; De Nie (2), pp. 49-83.
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cui quest’ultimo versifica la prosa sulpiciana. Fortunato infatti sviluppando quarantasei nuclei narrativi su settanta, tralascia di inserire nel suo racconto gli episodi che potrebbero non trovare adeguata collocazione all’interno di un panegirico. La Vita fortunaziana, inoltre, intessuta da numerosi rimandi al Carmen Paschale seduliano, si pone altresì sulla scia dell’epos cristiano. Tale indebitamento nei confronti di Sedulio è altresì riconducibile alla volontà di presentare Martino quale figura Christi, evidente altresì nell’ipotesto sulpiciano 228. In particolare l’opera di Venanzio è ascrivibile a quello che è stato definito un sottogenere dell’epica cristiana, ossia l’epica agiografica, che fu protagonista di uno sviluppo in senso diacronico assieme ad ulteriori nuove forme dell’epos, quella legata al panegirico e l’epica biblica che coesistevano assieme a forme tradizionali, quale l’epica di argomento mitologico 229. La parafrasi esametrica biografica, come quella biblica, ha origine dalle esercitazioni delle scuole di retorica realizzate già in età ellenistica per arrivare al V e VI secolo in cui la parafrasi poetica di testi non biblici veniva praticata sotto forma di esercizio retorico assai diffusamente230. Nel caso specifico della Vita Martini fortunaziana è l’autore stesso a specificare che si tratta di una retractatio in forma poetica di un testo redatto precedentemente in prosa; tale pratica doveva essere assai diffusa se Fortunato si offre di versificare la raccolta di miracoli martiniani compilata dall’amico Gregorio 231. Risalgono al V e VI secolo inoltre la trasposizione in versi degli episodi della Genesi curata da Avito di Vienne e Aratore, la cui narrazione prende le mosse da quella degli Atti232. Ulteriori elementi quali la connotazione di Martino come miles Christi rientrano nella volontà di porsi sulla scia dell’epica classica233.
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Quesnel, p. LIX. Roberts (5), pp. 258-259. Sulla dimensione epica del poema fortunaziano, cfr. inoltre JunodAmmerbauer, pp. 53-61. 230 Cfr. Nazzaro (4), pp. 310-313; Sull’importanza del genere parafrastico nella produzione poetica cristiana, cfr. Nazzaro (1), coll. 3909-3916; Nazzaro (5), pp. 69-106; Flammini, pp. 123-137; Cottier, pp. 227-252; Nazzaro (6), pp. 171-173; Nazzaro (7), pp. 397-439. 231 Ep. ad Greg. 2. Al riguardo, cfr. inoltre Quesnel, p. XVII; Nazzaro (6), p. 172. 232 Cfr. Quesnel, pp. XVIII-XIX. 233 Cfr. Junod-Ammerbauer, pp. 32-35; 114-115; Roberts (3), p. 93; Nazzaro (4), p. 345; Roberts (5), pp. 270-271. Lo stesso tema è presente altresì nell’ipotesto sulpiciano (Sulp. Sev. Vita Sanct. Mart. 4, 3, al riguardo cfr. inoltre Fontaine (1), pp. 31-58) e viene amplificato da Fortunato, il quale lo ripropone impiegando diverse metafore nei vari episodi della biografia martiniana. 229
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La Vita Martini composta da Venanzio si inserisce pertanto nella tradizione epica della tarda latinità ed esibisce innanzitutto l’influenza dell’epica biblica seduliana234. L’opera tuttavia mostra altresì tratti caratterestici di altri generi letterari, quali quello del panegirico, dell’ekphrasis e dell’epigramma, come mostrano l’intento celebrativo nei confronti dell’eroe del suo poema, Martino, l’insistenza sulle varie descrizioni presenti nel testo (relative al paesaggio, ai sintomi delle patologie dei malati guariti dal santo, ai fenomeni atmosferici, all’allestimento del banchetto imperiale e via dicendo), e la concisione rilevata nel parafrasare alcuni episodi dell’ipotesto senza ricorrere ad orpelli poetici235. La volontà di Fortunato pertanto è quella di inserirsi nel seno della tradizione dell’epica classica, come comprovato dalla scelta del metro e dalle frequenti citazioni del poema virgiliano, e dell’epica biblica, incarnata in particolare da Sedulio, il cui poema costituisce per Venanzio una fonte inestinguibile di citazioni ed allusioni. Martino, dunque, eroe dell’epopea fortunaziana, è proposto come modello di santità, come figura episcopale esemplare e come manifestazione della potenza divina, della quale il santo, mediante la sua straordinaria fede, diviene strumento prodigioso. Andando ad esaminare più da vicino il contenuto dell’opera, emerge che Venanzio si mostra indipendente dal modello soprattutto nei proemi ai quattro libri e negli epiloghi dei medesimi236. Significativo l’inserimento nel prologo dell’opera della rassegna letteraria, in cui Venanzio enumera i poeti cristiani precedenti, Giovenco, Sedulio, Orienzio, Prudenzio, Paolino di Périgueux, Aratore ed Avito, definendo in un verso le peculiarità artistiche di ognuno di essi237. Il Nostro pertanto si adopera per collocare il suo poema nella tradizione poetica cristiana: similmente a coloro che lo hanno preceduto, Fortunato caratterizza la sua figura come erede dei parafrasti sia dell’Antico Testamento, come Avito, sia dei 234
Cfr. Roberts (7), pp. 203-204. Cfr. Quesnel, pp. XLII-XLVIII; LI-LIII; Roberts (5), pp. 275-282; Nazzaro (6), p. 203. 236 Il contenuto del poema è ben illustrato da Labarre, pp. 89-113. Cfr. inoltre, Quesnel, pp. XXXVIIXVIII; Nazzaro (6), pp. 177-197. Quest’ultimo esamina in maniera approfondita la narrazione di Fortunato, mettendone brevemente in luce altresì i procedimenti retorici e le particolarità stilistiche che caratterizzano il testo. Cfr. inoltre Roberts (7), pp. 204-212. 237 Mart. 1, 14-25. 235
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Vangeli, come Giovenco e Sedulio, sia degli Atti degli Apostoli, come Aratore. Segue una rivendicazione delle sue origini italiane (Mart. 1, 26) e la consueta declaratio modestiae, in cui il poeta fornisce al lettore informazioni relative all’istruzione liberale ricevuta sul suolo ravennate ed infine la finalità letteraria dell’opera, cui si accennava sopra, ossia quella di ringraziare S. Martino per il dono della guarigione agli occhi, presentando al medesimo l’opera che ne canti le lodi. Degna di nota altresì la conclusione dell’opera, costituita da settantasette versi, che formano una sorta di secondo epilogo del poema. A sigillare il libro IV, infatti, Fortunato dopo aver innalzato un ultimo panegirico a Martino, individuato ancora una volta come vescovo esemplare, dopo aver pregato il medesimo perché interceda per lui ed in seguito ad una rinnovata professione di modestia, presenta quello che può essere definito un propempticon ad libellum: il poema, partendo da Tours, città in cui è sepolto il santo, è invitato dal suo autore a recarsi in Italia, precisamente a Ravenna, ripercorrendo in senso opposto le tappe del viaggio intrapreso da Fortunato stesso diversi anni prima, nel suo viaggio verso Gallia. Una volta giunto a Ravenna, il libretto ha il compito di farsi conoscere dai compagni ravennati del poeta, incontrati nel corso della sua formazione giovanile, affinché questi a loro volta attraverso traduzioni in lingua greca diffondano le gesta martiniane in Oriente238. Il motivo dell’apostrofe al libro è mutuato ancora dalla tradizione classica, in particolare esso rimanda all’epistola conclusiva del libro I di Orazio ed all’elegia posta in apertura ai Tristia ovidiani; non da ultimo va menzionato il carme XXIV di Sidonio Apollinare, autore assai noto a Venanzio 239. Dal punto di vista formale, è possibile rilevare che nella Vita il poeta adotta uno stile specifico, diverso da quello dei Carmina. Al contrario di Paolino, Fortunato mira alla ricerca dell’effetto, soprattutto nella narrazione dei miracoli: numerosissimi i procedimenti retorici e le figure di suono e di senso impiegate, fra cui l’allitterazione, l’anafora, l’enumeratio asindetica, l’accumulatio, il pleonasmo, la metafora, l’allegoria,
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Mart. 4, 572-712. Sulla funzione del prologo e dell’epilogo della Vita Martini fortunaziana, cfr. Junod-Ammerbauer, pp. 68-113. La studiosa approfondisce altresì l’analisi dei proemi e degli explicit dei restanti libri dell’opera. Sul carme 24 di Sidonio, cfr. la monografia di S. Santelia, Sidonio Apollinare. Carme 24, Propempticon ad libellum, Bari 2002. 239
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l’iperbole, il paradosso, l’antitesi, l’ossimoro, il parallelismo ed il chiasmo 240. Caratteristica del poema fortunaziano altresì la dimensione intertestuale, dal momento che abbondano nel testo richiami letterali ed allusioni agli autori classici ed ai colleghi cristiani. Come accennato, il poeta nei confronti del quale Venanzio è maggiormente debitore è Virgilio, cui si affiancano Ovidio e Stazio; fra i cristiani, spiccano Sedulio, Aratore, Prudenzio, Draconzio e Corippo 241. Per quanto concerne specificatamente la versificazione, si può constatare che, a motivo dei suoi studi, Fortunato conosceva ancora le quantità e, nonostante il progressivo spostamento verso l’accento d’intensità tipico dell’epoca, i suoi esametri esibiscono una facies classica. Vanno rilevate tuttavia numerose irregolarità metriche e l’eccezionalità dello iato. Ad un’analisi più accurata dell’esametro, è possibile rilevare una preferenza per il dattilo piuttosto che per lo spondeo, mentre nelle clausule preponderano quelle tradizionali del tipo condere gentem o conde sepulchrum, anche se non vengono meno alcune clausule pentasillabiche ed esasillabiche 242. Quanto all’interessamento da parte degli studiosi in relazione al poema fortunaziano, è possibile rilevare che esso non ha goduto presso questi ultimi di grande fortuna243, fino ai primi decenni del secolo scorso, quando alcuni studi specifici sulla lingua di Venanzio hanno accumunato la Vita ai Carmina (cfr. Meneghetti, Dagianti, Elss, Clerici e lo svedese Blomgren) 244. Tuttavia il primo contributo di una certa rilevanza, relativo esclusivamente allo studio della translatio fortunaziana, è quello di H. Junod-Ammerbauer, che si incentrata altresì sul senso dell’opera e non soltanto su un giudizio estetico. In anni più recenti, la parafrasi venanziana è stata invece oggetto di numerosi studi che si sono interessati ad essa nel complesso e, relativamente ad alcuni
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Cfr. Sui caratteri stilistici dell’opera, cfr. Junod-Ammerbauer, pp. 135-155; Labarre, pp. 138-147; Quesnel, pp. LXIV-LXXI; Roberts (6), pp. 140-160; Roberts (7), pp. 213-221. Lo stile ricercato dell’autore è talvolta accumunato a quello dell’orafo, cfr. in particolare Labarre, pp. 143-147. 241 Cfr. Blomgren (2), pp. 81-88; Quesnel, pp. LXIV-LV; Labarre, pp. 161-201. La studiosa si sofferma in particolare sull’imitazione di Virgilio rintracciata all’interno del poema martiniano; Roberts (3), pp. 82100. Quest’ultimo concentra l’attenzione sull’influenza del Carmen Paschale seduliano sul poema di Fortunato. 242 Cfr. Cfr. Leo, Index rei metricae, pp. 424-427. Sullo studio dell’esametro nella Vita fortunaziana, cfr. Longpré, pp. 45-58; Quesnel, pp. LXXI-LXXIV. 243 Cfr. Nisard, p. 33 n. 2. Questi si esprime in merito all’opera nei seguenti termini: “longue et ténébreuse paraphrase”. 244 Cfr. al riguardo il capitolo relativo alla biografia.
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episodi esaminati a fondo in qualità di exempla, in particolare da Roberts, Nazzaro e dalla studiosa francese S. Labarre245. Infine, per quanto riguarda la tradizione manoscritta della Vita e le edizioni critiche approntate della medesima si rimanda alle osservazioni ed alla bibliografia riportate nella recente edizione curata da Quesnel (1996) per l’editore Belles Lettres246. Diverse le traduzioni dell’opera nelle lingue moderne; le più recenti sono quella francese di Quesnel, che accompagna l’edizione critica pocanzi citata, quella italiana curata da Tamburri (1995) e quella tedesca, approntata da Fels, pubblicata nel 2006247.
245
I numerosi contributi degli studiosi testé citati sono riportati nella sezione bibliografica collocata a conclusione della presente trattazione. 246 Cfr. Quesnel, pp. LXXV-LXXXIII; XCI. Relativamente alle scelte editoriali dello studioso, cfr. pp. LXXXIII-LXXXVIII. Sulle edizioni del testo, cfr. inoltre Di Brazzano, pp. 39-40. 247 Le traduzioni precedenti, in lingua francese, tedesca ed italiana, sono citate in Quesnel, pp. XCI-XCII.
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CAPITOLO II
La guarigione della paralitica di Treviri (Ven. Fort. Mart. 1, 366-428)
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Traduzione Questi una volta stava entrando mitemente nella città di Treviri, dove una fanciulla, con le membra languide a causa delle viscere da tempo allentate, giaceva irrigidita, sfinita dalla gelida spossatezza di una paralisi, ansimando con il suo rantolo estremo oramai vicina alla morte. A sorvegliare la morte erano i suoi occhi vigili, fiaccole che rendevano alle membra gli onori funebri. Il respiro, affrettandosi a sciogliere i vincoli della carne attraversata ancora dalla vita, a stento procedeva irregolare con misterioso affanno traendo con le narici l’aria che stava per finire, mentre era ancora incerto il termine della vita. I piedi, le mani, il volto, le gote, a riposare era l’immagine di una bell’e sepolta, certamente non era stata ancora tumulata, ma apparteneva interamente al sepolcro. Ed il vecchio padre di costei, affranto per il pio amore, lacerato nelle gote, scompigliato nei capelli bianchi, giacché non poteva più sopportare e non riusciva a trovare alcun rimedio, non appena apprese che il sant’uomo con la sua magnanimità era giunto nella città, accorse da lì il vecchio con scatto giovanile, nonostante l’anziana età, balzando avanti sollecito, oltrepassando i limiti della propria età nella corsa. Mentre una schiera di vescovi circondava Martino ed il popolo rumoreggiava, quello si precipitò nel mezzo con grida, senza vergogna. Infatti un profondo dolore non guarda alle barriere del pudore. Cadde a terra dunque il vecchio chino sulle sante orme, lambendo con teneri baci le ginocchia, le mani e i piedi. Appena il gemito rallentò, l’infelice così iniziò a parlare: “O Martino, uomo di Dio, nato per la salvezza del popolo, uomo che con la tua bontà sei un padre per tutti quanti, ti porgo le mie sofferenze, affinché le lacrime di un infelice non vadano perse, o amico della pietà, che la mia causa spinse a venire in luoghi così lontani, affinché questa fatica del viaggio offra aiuto alla vita. Ho in casa una figlia che giace a letto per le ferite della malattia, vicina ai suoi funerali senza possibilità di cura e che una volta sana, mio unico diletto, stava intenta ai pii servizi, buona, consolando nella quale la mia vecchiaia, questa vita era per me dolce. Ecco muore e con sé trascina il mio cuore alla morte e conduce nel Tartaro la canizie di un miserando padre. Ma io stesso desidererei andarmene per primo, se per caso mi fosse possibile. Quale vita rimane mai per un vecchio e dove sono dirette le mie
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preghiere di genitore, quando va perduta la speranza di un padre con il nome della figlia che le viene strappata via? Se essa, invece, avesse sposato un uomo, io seppur un tronco secco, attraverso i doni futuri di nipoti avrei potuto rinverdire nei rami della discendenza, dal momento che ritengo che questi siano soprattutto i danni del suo presente stato di salute, che sotto il mio sguardo mia figlia, luce dei miei occhi, è sottratta alla vita, essendo stata disposta da Colui, al quale la cosa riuscisse meglio gradita, questa successione, e cioè che fosse quella a chiudere gli occhi dell’anziano padre. Perciò, o santo, degnati di arrestare l’avida morte e, strumento di aiuto, va’ in soccorso alla fanciulla che stanno per rapirmi. Se c’è indugio, la mia causa va persa: soccorri entrambi. Infatti la preoccupazione mi uccide, se a quella viene meno il rimedio”. E, turbato da queste parole, il santo vescovo arrossì: era un ministro indegno di tale potere. Ma il padre insisteva rivolgendogli le medesime parole: “tu vieni come medico destinato ai malati, mostra le cure, l’estirpazione della malattia senta l’arrivo del medico”. Spinto da queste parole si reca dove giaceva sfinita la fanciulla, mentre la folla stava fuori attendendo che cosa faceva il pastore al suo gregge. Poi, combattendo la sua guerra, da intercessore ricorse alle sue armi, prostrando le membra al suolo, sollevato tuttavia l’animo al di sopra degli astri. Poi, quando alzandosi fissò il volto della fanciulla, subito a lei ritornò la voce, ospite in luoghi lontani, e redivivi risuonarono gli organi della sua lingua, e a poco a poco non appena l’olio penetrò negli arti, la cassa vivificata stette sulle duplici colonne dei piedi e le sommità ben salde rinvigorirono al suo passo.
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Commento Nell’episodio preso in analisi, il poeta narra la guarigione di una fanciulla affetta da paralisi e residente nelle città di Treviri 248. Il racconto è preceduto da cinque versi che celebrabo il potere risanatore di Martino, di fronte al quale la facondia del mondo rimane muta249. Il passo relativo alla paralitica prende avvio al v. 366, caratterizzato dalla “Klangfigur” in incipit, ove si nota l’allitterazione della labiovelare sorda, e in explicit, ove il fonema che si ripete è la nasale. L’allitterazione in clausula appartiene ad una tradizione che risale ad Ennio (cfr. e.g. ann. 20 …dia dearum: 32, 10: uoce uidetur; 32, 14…corde cupitus; 32, 16…uoce uocabam; 43…caerula caeli eqs.)250. Per quanto concerne l’impiego traslato di moenia (sineddoche del tipo pars pro toto), cfr. Iuvenc. 3, 641 Sic adeo ingreditur Solymorum moenia Christus, ove sarei propensa a riconoscere il modello “memorizzato” da Venanzio. La ripresa di Giovenco, che va ad aggiungersi alle tre che sono state già segnalate da altri nel testo fortunaziano 251, si fa notare non solo per la struttura pressoché simile esibita dai due esametri (DDDS nel poeta spagnolo e SDDS in Venanzio), ma anche per la metrica verbale quasi identica nei due versi: prescindendo dalla rituale parola dattilica occorrente in quinta sede, ingreditur Solymorum e ingrediens Treuerorum, formano una sequenza costituita da coriambo + ionico a minore252. La reminescenza di Giovenco è calata dunque nel mutato contesto che presenta Treviri come la nuova Gerusalemme; inoltre al lettore avveduto non sfuggiva l’associazione mitis-Christus. Come traspare già nell’ipotesto, infatti, a differenza degli episodi in cui il santo opera la conversione di interi villaggi pagani, che si avvicinano maggiormente ai cicli profetici dell’Antico Testamento, i racconti di guarigioni istituiscono un parallelo tra Martino e il Cristo neotestamentario 253. Nel caso specifico della guarigione della paralitica di Treviri, il legame con i Testi Sacri è chiaro sin dalla prima frase del
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Il medesimo episodio è descrittoda Severo e da Paolino di Périgueux rispettivamente in Sulp. Sev. Vita Sanct. Mart. 16 e Paul. Petr. Mart. 2, 486-538. 249 Mart. 1, 361-365. Cfr. inoltre Sulp. Sev. Vita Sanct. Mart. 16, 1 e Paul. Petr. Mart. 2, 480-485. 250 Cfr. al riguardo Di Lorenzo, pp. 55-76. 251 Cfr. Manitius (1), pp. 135-137; Labarre, p. 163. 252 Vale la pena accennare al fatto che in poesia il termine mitis è raramente impiegato a fine verso, sugli oltre duecentocinquanta casi testimoniati, soltanto una quindicina registrano l’aggettivo in quella posizione. 253 Fontaine (2), pp. 808-810.
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paragrafo introduttivo 254, con la ripresa pressoché letterale di Cor. I, 12, 28255, che permane anche nella versione metrica venanziana, in particolare al v. 361, ove si nota in posizione di rilievo tra le cesure semiquinaria e semisettenaria, il termine curatio256. Dal confronto dei versi fortunaziani con il testo sulpiciano, in cui la determinazione spaziale è indicata col semplice ablativo di luogo, appare evidente l’intenzione dell’autore di far risaltare appieno la ripresa del “collega” parafraste Giovenco. Il parallelismo con la prosa si mantiene invece nella struttura del brano dal momento che, analogamente a quanto attuato da Sulpicio, Fortunato pone il toponimo all’inizio del racconto, quasi a costituire una sorta di indicazione scenica, palesando sin da subito le ragioni della narrazione di questa guarigione in testa alle altre, della grande cura stilistico-formale e della maggiore lunghezza del racconto stesso: in quanto compiuta a Treviri, capitale imperiale, questa azione afferma ovunque, a corte e nella città, l’autorità e la credibilità di Martino 257. Il testo prosastico e quello poetico differiscono, tuttavia, per alcuni elementi, come la formula di passaggio, quod uel ex consequenti liquebit exemplo258, che permette a Sulpicio di illustrare l’episodio ex abrupto259, e che non compare invece in Fortunato, il quale narra l’ingresso di Martino in città, esprimendo un alone di indeterminatezza a livello temporale con l’avverbio quondam, mentre il predecessore pone l’accento sulla mancata identificazione della fanciulla, mediante l’indefinito quaedam260. Il medesimo avverbio di tempo impiegato da Fortunato si ritrova nella stessa posizione incipitaria anche nel verso d’esordio dell’episodio della paralitica in Paul. Petr. Mart. 2, 486 (quondam Treuericis in moenibus innuba uirgo). Anche in questo 254
Sulp. Vit. Sanct. Mart. 16, 1 Curationum vero tam potens in eo gratia erat, ut nullus fere ad eum aegrotus accesserit, qui non continuo receperit sanitatem. 255 Cor. I, 12, 28 Et quosdam quidem posuit Deus in ecclesia primum apostolos, secundo prophetas, tertio doctores, deinde uirtutes, exinde gratia curationum, opitulationes, gubernationes, genera linguarum, interpretations sermonum. 256 Sulle cesure esametriche impiegate da Fortunato, cfr. Longpré, pp. 51-52. 257 A Treviri Martino sembra aver soggiornato due volte: la prima, con verisimiglianza a motivo della questione priscillanista, anteriormente alla fine del processo dei priscillanisti spagnoli (385-386), e la seconda nell’autunno del 386, in seguito alla condanna dei medesimi. Molto probabilmente, la guarigione della paralitica è da collocarsi nel corso della prima visita di Martino a Treviri, analogamente all’episodio del banchetto imperiale narrato ai vv. 247-268 del libro III. Cfr. Fontaine (2), pp. 815-816. 258 Cfr. Vita Sanct. Mart. 16, 1. 259 Severo dà avvio alla narrazione con le seguenti parole (Vit. Sanct. Mart. 16, 2): Treuiris puella quaedam dira paralysis aegritudine tenebatur [...]. 260 L’avverbio quondam verrà ripreso nel discorso che il padre della fanciulla paralitica rivolgerà a Martino (Mart. 1, 396), di seguito analizzato.
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caso l’autore dà avvio alla scena, fornendo sin da subito indicazioni temporali, spaziali ed informazioni concernenti la benificiaria della guarigione. Per quanto concerne il predicato ingrediens (erat) occorre soggiungere che la perifrasi formata da participio presente e da una voce del verbo sostantivo è costrutto poco frequente presso gli autori classici, come può rilevarsi dalla considerazione che esso si incontra solo in strutture formulari del tipo dicto audiens (oboediens) sum e in sequenze nelle quali il participio è assortito con aggettivi, come in Cic. Cat. M. 26 Videtis ut senectus sit opera et semper agens aliquid et moliens261. Nell’opera poetica fortunaziana, invece, tale impiego è assai ricorrente, come documentato da Dagianti262, che arricchisce le occorrenze registrate dai suoi predecessori, ossia da Leo e da Elss263. Quest’ultimo riprende i loci dell’Index ed aggiunge ulteriori exempla tratti in particolare dai carmina. L’utilizzo del costrutto perifrastico in luogo dell’imperfetto sembra presentare l’ingresso di Martino in città, per così dire, al rallentatore, al fine di cristallizzarne la rappresentazione nell’immaginario del lettore264. Il v. 367 presenta qualche problema di natura sintattica: tanto resoluta quanto fluxa possono riferirsi a uiscera, ma allo stesso modo entrambi gli aggettivi possono attribuirsi predicativamente a puella (resoluta puella rigebat o fluxa puella rigebat). La traduzione sopra proposta presuppone il seguente ordine logico-sintattico: resoluta diu per uiscera fluxa rigebat puella, in cui si rileva l’anastrofe della preposizione. Il poliptoto qui (v. 366) – qua (v. 367) unisce strettamente i due versi, intensificando l’immagine di Martino che fa il suo ingresso a Treviri dove risiedeva la paralitica, introdotta sulla scena, mediante un efficace enjambement, al verso successivo.
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Cfr. Hofmann-Szantyr, pp. 88-89. Cfr. Dagianti, p. 82. Lo studioso cita alcuni esempi, cfr. e.g.: carm. 2, 16, 150; 3,1,1; 4, 10, 7; 5, 5, 121; 6, 1, 17; 7, 14, 30; 8, 3, 328. 263 Cfr. Leo (1), Index grammaticae et elocutionis, s.v. participium cum verbo auxiliari coniuctum pro uerbo finito; Elss, pp. 41-43. Il medesimo costrutto ricorre frequentemente in Gregorio di Tours, cfr. Bonnet, pp. 652-653. 264 Sulla duratività dell’azione espressa da tale costruzione participiale, cfr. Hofmann-Szantyr, p. 388. 262
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Quest’ultimo, caratterizzato dall’iperbato a cornice, va costruito come segue: puella tabida gelido languore paralysis, in cui tabida funge da predicativo del soggetto puella, mentre paralysis è inteso in caso genitivo 265. Quanto alla resa di tale distico (vv. 368-369), di difficile interpretazione, occorre porre attenzione all’operato dei precedenti traduttori: Palermo (1985, p. 70) “[…] nella quale (scil. Treviri) stava da lungo tempo inerte per il cuore debole una fanciulla consunta dall’agghiacciante malattia della paralisi, […]”, dalla quale dissento limitatamente alla resa della giuntura per uiscera fluxa; Tamburri (1991, p. 44), invece, intende tabida quale attributo di paralysis e conferisce al sintagma valore causale, precisando tuttavia in nota che esso potrebbe connotarsi altresì come predicativo di puella ovvero potrebbe costituire nominatiuus pendens266. Nella traduzione francese di Quesnel (1996, p. 23) il distico viene reso alquanto liberamente: “dans cette ville une jeune fille dépérissait depuis longtemps et gisait, toute raide, les membres inertes, minée par les atteintes de la paralysie qui glaçait son corps”; nella recente versione tedesca (Fels, 2006) “wo mit ermattetem Leib, sei langem erschlafft, ohne Regung, lebte ein Mädchen, vergehend, ihr nahm eine Lämhung die Kräfte,”), invece, la descrizione del corpo della fanciulla presenta, quali aspetti preponderanti, la stanchezza e la lassitudine, mentre non vi è alcun cenno alla rigidità ed alla freddezza espresse icasticamente da Fortunato per mezzo di precise scelte terminologiche (rigebat e gelido). La costruzione sopra proposta e la conseguente traduzione italiana da me suggerita sono rinsaldate dal fatto che il sintagma finale del verso richiama espressamente il nesso languore puellam, posto nella medesima sede metrica, che chiude il v. 223 della Ciris pseudovirgiliana267. A questo punto indispensabili appaiono alcune osservazioni di carattere semantico, a partire dal participio resoluta268, dal momento che esso si configura come
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La possibilità che si tratti di nominatiuus pendens (Tamburri, p. 44 nt. 38) non sembra plausibile, come confermato dalle restanti traduzioni che intendono il sostantivo posto in caso genitivo. 266 “[…] dove da tempo, sciolta nelle viscere allentate per una paralisi distruttrice, era irrigidita in un gelido languore una fanciulla, […]”. 267 Ps. Verg. Ciris, 223 corripit extemplo fessam languore puellam. 268 Va precisato che il termine resoluta ricorre una seconda volta nella Vita (4, 39), per indicare il risanamento della giovane muta dalla nascita, in cui l’apparato fonatorio, guarito dal santo con l’olio benedetto, viene paragonato ad una lira che, sciolta (resoluta), muove il “plettro sonoro” ed inizia ad emettere suoni, Mart. 4, 39-40 mox resoluta mouet faucis lyra tinnile plectrum /atque insueta canit camerati concha palati.
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una sorta di tecnicismo impiegato di norma per indicare la condizione della paralisi, definita dalla medicina romana, in particolare da Celso, resolutio neruorum269. La specificità terminologica di questi versi non deriva al poeta dall’ipotesto, che non fornisce una diagnosi molto precisa della malattia, la cui descrizione sembra, inoltre, non avere rapporti con quelle contenute in analoghi passi evangelici, primo fra tutti quello relativo alla guarigione della figlia di Giairo. Severo ricorre piuttosto alle reminescenze della poesia classica, in particolare Lucrezio ed Orazio, per delineare i sintomi della malattia della fanciulla; tali indicazioni, tuttavia, non riuscirebbero ad appagare le esigenze di un esperto medico 270. Andando ad istituire un confronto serrato tra i due passi, quello sulpiciano e la resa di Fortunato, si nota che in entrambi ricorre il medesimo termine, paralysis, il quale, nel primo caso, appare connotato dall’impiego dell’attributo dira271, mentre nel secondo è supportato da una serie di tecnicismi finalizzati all’enfatizzazione dello stato patologico della fanciulla, quali fluxa, tabida272 ed infine resoluta, con cui si definisce in generale lo stato della fanciulla paralitica. Quest’ultimo termine, proprio della medicina latina, potrebbe derivare a Fortunato da Sedulio, che lo impiega nel libro III (vv. 86-102) del Carmen Paschale, allorquando si accinge a descrivere la guarigione del paralitico operata da Gesù, narrata in Mt 9, 1-8; Mc 2, 3-12; Lc 5, 18-26273. Nell’episodio, Sedulio indica il paralitico con l’ossimoro uiuum cadauer (carm. Pasch. 3, 89) e con l’espressione mortis imago (carm. Pasch. 3, 92, cfr. l’analogo sintagma imago sepultae impiegato da Fortunato in Mart. 1, 375)274. La ripresa di Sedulio è amplificata dalla fusione, operata da Fortunato, del racconto della guarigione del paralitico con un ulteriore passo evangelico (Mt 9, 18-19;
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De med. 2, 13, 1, resolutio neruorum (paralysin Graeci nominant). Nel testo medico si precisa inoltre che questo tipo di paralisi è causata da condizioni climatiche ben precise, ossia da lunghi periodi piovosi. 270 Fontaine, p. 818. Anche la descrizione della patologia delineata da Paolino (Mart. 2, 487-490) risulta alquanto più asciutta di quella fortunaziana, mentre per quanto concerne la terminologia impiegata, è da rilevare che i termini tabida e paralysis del Nostro riprendono il testo paoliniano, in particolare il predicato tabuerat e l’aggettivo denominale paralitica. 271 L’attribuzione di questo termine ad una malattia è in realtà maggiormente affine alla tradizione poetica piuttosto che a quella medica, come confermato dall’uso che ne fa Sereno Sammonico, riferendo l’aggettivo a caligo, languor e pestis. Cfr. Fontaine (2), p. 817. 272 Sull’aggettivo tabida, cfr. Forcellini, IV, p. 615. 273 Sui rapporti intertestuali tra il carm. Pasch. di Sedulio e l’opera poetica di Venanzio, cfr. Roberts (5), pp. 262-282. 274 Cfr. al riguardo infra, p. 63.
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23-26; Mc 5, 22-24; 35-43; Lc 8, 41-42; 49-56) parafrasato dal predecessore subito di seguito (carm. Pasch. 3, 103-113; 129-142), ossia quello della guarigione della fanciulla paralitica, la figlia di Giairo. Fra gli elementi comuni ai due passi sono da segnalare il motivo del padre che implora aiuto per la figlia, il concetto della morte che strappa ai genitori la speranza di vedere i figli in età adulta, la supplica del padre, sottolineata nei testi da alcune espressioni, quali lacrimansque gemensque e singultu quatiente275 in Sedulio e dal sintagma gemitu laxante, che nel testo di Fortunato precede la supplica indirizzata dal vecchio padre a Martino276. La disperazione dell’uomo, la sua premura e la sua celerità nella richiesta di aiuto sono accentuate dall’utilizzo della medesima forma verbale, conruit, collocata in entrambi i testi presi in esame nell’incipit del verso, cfr. carm. Pasch. 3, 107; Mart. 1, 386. Entrambi gli scrittori, pertanto, si soffermano sulla descrizione dei sintomi della malattia immediatamente prima della miracolosa guarigione: l’inclinazione ecfrastica propria di questi versi costituisce una caratteristica riconducibile in generale all’epica latina di età tarda277. Dunque, mentre il promotore della poesia parafrastica latina, Giovenco, viene citato con parsimonia da Venanzio, Sedulio si rivela il più influente poeta cristiano sull’intero corpus fortunaziano, inclusa l’epica agiografica, esercitando sul Nostro una speciale autorità. Naturalmente la ripresa del predecessore ha ancora una volta la finalità di istituire un paragone tra la figura di Martino e quella di Gesù 278. Nel v. 369 si ritrovano espressioni quali flatibus extremis, da intendere in funzione di ablativo strumentale, e iam de funere uiuens, in cui il sintagma de funere è collocato in una posizione ricorrente nell’esametro - ove il dattilo della clausula finale è
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Sedul. carm. pasch. 3, 106; 108. Mart. 1, 388. 277 Cfr. Roberts (5), pp. 227-278. Il confronto tra Sedulio e Fortunato in questo caso è condotto sull’analisi del passo relativo alla guarigione dell’emorroissa. 278 Cfr. Roberts (6), pp. 168-169. 276
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costituito dal trisillabo funere279 -, che introducono il tema della “morta vivente”, cui si accennava sopra, e che sarà reso esplicito nei versi immediatamente successivi 280. Dal punto di vista sintattico, è necessario rilevare che la preposizione de è impiegata, in un costrutto estraneo alla sintassi antica, con il significato di “intorno a, a riguardo di”, in dipendenza da uerba affectuum o da verbi ed espressioni che indicano in generale un sentimento od uno stato d’animo 281. Nel v. 370 il nesso relativo è ripreso a livello fonico dall’allitterazione della sillaba -cu-, che conferisce al verso una musicalità lugubre, mentre la metafora degli occhi che fungono da custodi della morte prosegue al verso successivo con l’apposizione lumina: non solo essi illuminano per facilitare la guardia, ma offrono onori funebri alle membra della fanciulla. Il concetto è intensificato dal punto di vista stilistico dall’omoteleuto tra funeris e membris. Al medesimo verso (v. 370) va rilevato che, a differenza del testo edito da Quesnel, l’edizione Veneta, curata da Solanio, presenta l'emendamento uigilis, del tutto inadeguato se si considera che l’espressione oculi uigiles costituisce una ripresa di Verg. Aen. 4, 182 Tot uigiles oculi subter (mirabile dictu). Inoltre relativamente alla fortuna della immagine degli occhi che vigilano sulla morte come torce funebri in Venanzio, cfr. Vita Hil. 10, 26: […] uelut in se membra mortua uigilantes oculi custodiebant. Analogamente a quanto sin qui rilevato, in questo verso spicca il rimando alla classicità nella ripresa dell’espressione ovidiana funeris exequias282. 279
A titolo esemplificativo, cfr. Ov. met. 6, 430 Eumenides tenuere faces de funere raptas; Lucan. 6, 811 quaeritur; et ducibus tantum de funere pugna; Iuv. sat. 6, 565 consulit ictericae lento de funere matris e fra i poeti cristiani, Prud. hamar. 374 morsibus oblectent hilaram de funere plebem; Drac. Romul. 9, 188 et domino iam damna parant de funere tracto. Sull’impiego di funus con il significato di “morte, fine”, cfr. ThLL, VI (2), col. 1604 r. 52 ss. 280 Sullo stato di ambiguità tra la vita e la morte, cfr. Quesnel (p. 125) in cui il presente passo di Fortunato viene raffrontato con una delle opere in prosa del medesimo autore (cfr. Vita Hil. 10, 26) e con il passo corrispondente di Sulpicio Severo (Mart. 6, 1 e 4: praemortua), che nella terminologia si avvicina alla formula adottata nel Nuovo Testamento (Mt 9, 24-25), in riferimento alla fanciulla resuscitata da Gesù: non enim mortua puella sed dormit. Il termine praemortua, ripreso probabilmente da Ovidio (am. 3,7, 65 iacuere uelut praemortua membra), costituisce una sorta di tecnicismo, come dimostrato dalle parole di Plinio il Vecchio (7, 50, 168): membra torpent, praemoritur uisus, auditus, incessus […]. Il testo di Fortunato, invece, si rifà chiaramente alla versione della guarigione del paralitico da parte di Cristo (Mt 9, 1-8; Mc 2, 3-12; Lc 5, 18-26), contenuta nel carm. Pasch. (3, 86-102), in cui Sedulio connota il paralitico con l’ossimoro uiuum cadauer (3, 89) e con l’espressione mortis imago (3, 92) che, come accennato sopra, richiama da vicino il sintagma imago sepultae impiegato da Fortunato in Mart. 1, 375). Cfr. al riguardo Roberts (6), pp. 169-170; Roberts (7), pp. 224-225. 281 Cfr. Dagianti, pp. 46-47. Il medesimo uso, nelle opere venanziane in prosa, è documentato da Meneghetti, p. 219. 282 Cfr. Manitius (1), p. 136: Ov. trist. 3, 5, 40 Dareique docent funeris exequiae. Sulla presenza di Ovidio nell’opera poetica di Fortunato, cfr. inoltre Blomgren (8), pp. 81-84; Pizzimenti, pp. 545-548;
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La struttura della terzina successiva (vv. 372-374), anch’essa elaborata con grande cura formale, include l’iperbato del v. 372, in cui uiscera, l’oggetto del nesso verbale soluere festinans, si trova interposto tra la iunctura animatae carnis ed il chiasmo e l’iperbato che caratterizzano il v. 373. Il terzo stico è contraddistinto anch’esso da un doppio iperbato (fine trahens dubio- perituram naribus auram), con costruzione chiastica (nome-agg./agg.-nome)283. L’omoteleuto (mortis/membris/carnis) contribuisce a creare continuità con i versi precedenti284. L’intensità della terzina che introduce
il tema della “morta vivente” è
amplificata dal richiamo ad una clausula esametrica lucreziana, echeggiata da Draconzio285. Nei versi appena analizzati, pertanto, prosegue la descrizione del corpo della fanciulla in fin di vita. In tal caso l’attenzione non è più concentrata sullo sguardo, ma su una dimensione non prettamente corporea: si parla infatti di uno spiritus che, spinto da un misterioso affanno, si muove a stento e si affretta a condurre colei che lo ospita alla morte286. Gli organi di senso coinvolti sono pertanto le narici (naribus) e il campo semantico preponderante è quello tracciato da termini quali spiritus ed auram e, in parte anche dagli aggettivi animatae ed anhelo. I valori semantici espressi dalle parole testé
Delbey (1), pp. 225-234. Come dimostrato dalle ricerche testé citate, “il poeta classico latino più largamente presente alla memoria di Fortunato è, ovviamente dopo Virgilio, Ovidio”, cfr. Mazzoli, pp. 71-82, sp. p. 77. 283 Nel caso di perituram, si tratta in realtà di un participio futuro in funzione attributiva. 284 Tale tropo è impiegato assai di frequente nella Vita, come specificato da Ammerbauer (pp. 140-141), che inventaria gli esempi rinvenuti nel testo. . 285 Cfr. Lucr. 2, 851 naturam, nullam quae mittat naribus auram. Anche in questo caso, la citazione non è registrata né dal Manitius (1) né da Labarre nel capitolo relativo alle fonti utilizzate da Paolino di Périgueux e da Fortunato (pp. 162-169). Cfr. Drac. laud. dei 1, 594 faucibus excurrens in naribus aura uicissim. In merito alla presenza di reminiscenze di draconziane nell’opera fortunaziana, cfr. Clerici (2), pp. 108-150. Sulla ripresa del laud. dei nei versi fortunaziani, cfr. in particolare pp. 129-143, anche se occorre specificare che il verso in questione non viene preso in esame dallo studioso. Si rileva, infine, che il primo ad indagare il rapporto intercorrente tra le opere dei due poeti è stato il Manitius (2), p. 493. 286 Sul termine spiritus, cfr. Nodes, pp. 282-296. Il medesimo termine compare altresì nell’ipotesto, mentre Paolino esprime un concetto analogo mediante l’impiego di una terminologia affine, spirabat tenuis pectore in frigenti flatus (Mart. 2, 490), contrapponendo anch’egli la componente dello spirito a quella carnale, evocata al verso precedente (Mart. 2, 489) officiis priuata suis. iam carne relicta) nel sintagma conclusivo, carne relicta. L’opposizione tra caro e spiritus riflette il medesimo concetto espresso nei Vangeli e nelle lettere paoline, cfr. Fontaine (2), p. 818.
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citate acquistano maggiore rilevanza in antitesi agli elementi carnali, vincula carnis, che si apprestano ad essere sciolti287. Alla contrapposizione tra la dimensione “spirituale” e quella fisica si intreccia un’ulteriore sensazione, ossia quella del movimento, ingenerata da forme verbali come festinans, ibat, trahens288 e dalla presenza di mobilis: non si tratta tuttavia di un movimento ben determinato e definito, ma di qualcosa che scaturisce da una segreta profondità (cfr. arcano e dubio). Il distico seguente (vv. 375-376) si apre con l’accumulatio in tetrakolon (pes, manus, ora, genae, recubabat imago sepultae 289), costrutto impiegato con sistematicità soltanto nel latino medievale e che ricorre molto frequentemente nella Vita, al fine di ottenere un effetto patetico 290. Da rilevare, inoltre, che mentre i sostantivi con cui si apre il verso, pes e manus sono al singolare, le altre due parti del corpo menzionate per descrivere la positura della fanciulla prossima a morire sono al plurale 291. L’elenco fisico è ritmato dalla opposizione del numero. Il verbo recubare ricorre spesso, all’interno della Vita Martini, nella narrazione dei miracoli di guarigione, in riferimento alla descrizione di soggetti che giacciono malati292. A mio avviso, l’occorrenza di tale predicato in siffatti contesti è senz'altro da mettere in relazione con la locuzione recubare (in) tumulo, per le cui frequenze si cfr. carm. 4, 9, 3; 4, 10, 5; 4, 14, 5; 9, 4, 3. Il termine alluderebbe pertanto al sonno della morte ed intensificherebbe l’immagine ossimorica della “morta vivente”. 287
Per quanto concerne l’accostamento dei termini uincula e carnis, esso non è rintracciabile nella produzione poetica anteriore una espressione identica. Si potrebbe, tuttavia, istituire un confronto con un verso di Damaso, in cui si parla espressamente di uincula mortis, cfr. carm. 9, 3 soluere qui potuit letalia uincula mortis. 288 In riferimento all’uso del verbo trahere in Fortunato occorre precisare che in un caso, più precisamente nella Vit. Germ. 60, 9, esso è impiegato con confusione di coniugazione, ossia appartenente alla II anziché alla III coniugazione: qui tollens se de consensu mulierem vir Dei trahet. Cfr. al riguardo Meneghetti, p. 149. 289 Il predicato recubabat ricorre nell’opera poetica di Fortunato una seconda volta nella medesima posizione metrica, cfr. carm. 8, 3, 215 corpore despecto recubabat in aggere nudo. 290 Cfr. Ammerbauer, p. 139. La studiosa riporta un ulteriore caso di accumulatio in tetrakolon presente nella Vita (3, 443 quae facies, oculi, gena, pes, manus, arca figura). Sull’impiego del medesimo costrutto, cfr. inoltre Elss, pp. 55- 56. 291 Riguardo al plurale poetico o intensivo, cfr. Meneghetti, pp. 156-157, dove si precisa che esso serve a designare un tutto formato di parecchie parti, o a far risaltare l’idea espressa dal nome. Questo uso è ricercatissimo dai retori, specialmente dell’Africa e Venanzio Fortunato, pur mostrandone un utilizzo piuttosto moderato nelle prose, sembra esserne maggiormente attratto nell’opera poetica. 292 Cfr. Mart. 2, 23 Qua superimposita charta recubante puella (in relazione alla figlia di Arborio); 2, 48 Dum cellae recubat grauiter sub nocte sopora (in riferimento a Martino stesso); 3,74 Dum recubaret humo fluitans Euantius aeger (relativamente ad Evanzio).
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I termini sepultae e sepulchri293, uniti tra loro da figura etimologica, esprimono icasticamente l’idea di una morte già avvenuta, amplificata a livello fonico dalla ripetizione allitterante di consonanti mute e liquide quali “t”, “l”, “p” ed, in misura minore, “r” e la sibilante “s”. Infine la frase nominale che occupa per intero il v. 376, suddivisa in due parti, coordinate dalla forte avversativa sed, conferisce al testo un tono epigrafico 294. Al v. 377 il nesso relativo cuius (cfr. supra v. 370), è riferito alla fanciulla paralitica, della quale viene presentato l’anziano padre. Oltre all’allitterazione della bilabiale sorda, è da notare la iunctura amore pio, cara al Nostro295, che riprende una formula virgiliana296, imitata in seguito anche da alcuni autori cristiani, in particolare da Draconzio297. In aggiunta all’affetto paterno, a differenza di quanto rinvenuto nei predecessori298, è posta sin da subito in primo piano mediante l’impiego dell’astratto senectus299, la vecchiaia dell’uomo personificata attraverso l’attribuzione di alcuni caratteri specifici300: exanimata e, al verso successivo, dilacerata, legato al participio precedente dalla rima (exanimata/dilacerata) e determinato dall’ablativo di limitazione, ed ancora (male) compta, chiuso dall’iperbato i cui elementi sono anch’essi in funzione limitativa. I due versi (377-378) pullulano di omoteleuti301. La forma participiale exanimata riprende l’aggettivo exanimis dell’ipotesto: quod ubi puellae pater comperit, currit exanimis pro filia rogaturus (Mart. 16, 3)302. 293
Il genitivo sepulchri assolve in questa occorrenza alla funzione partitiva. È necessario sottolineare che il termine sepulchrum indica talvolta in Venanzio Fortunato la morte stessa, come in Vit. Pat. 19, 30 […] qui beati operibus vivunt integre post sepulchrum; carm. 6, 5, 267 optabas pariter nobis uitam atque sepulcra. Al riguardo, cfr. Meneghetti, p. 110. 294 Sulla caratterizzazione epigrammatica di alcuni passi della Vita, cfr. Roberts (5), pp. 279-282. 295 Cfr. Mart. 4, 89; carm. 1, 9, 7; 4, 4, 16; 5, 8a, 6; 5, 19, 12. 296 Verg. Aen. 5, 296 Nisus amore pio pueri; quos deinde secutus. Fortunato impiega il medesimo sintagma, amore pio, sia nella Vita sia nei carmina per un totale di quattordici volte. 297 Cfr. Orient. comm. 1, 166; Drac. Orest. 541 Natus amore pio flammatus morte paterna; laud. dei 3, 138 Cuius amore pio sunt contemnenda pericla. Come appare evidente, quest’ultimo verso è ripreso da Fortunato pressoché letteralmente nel primo emistichio del v. 377. 298 In Severo, l’appellativo senex comparirà solamente prima del discorso diretto, mentre in Paolino non è rintracciato alcun riferimento alla vecchiaia dell’uomo. 299 Cfr. Meneghetti (p. 153), il quale cita ulteriori passi assimilabili ai versi in questione per un medesimo impiego dell’astratto in luogo del sostantivo concreto corrispondente, cfr. Vita Germ. 12, 41 pernoctabt algida senectus. 300 Cfr. Ammerbuaer, p. 144. La studiosa registra ulteriori cinque casi di personificazione presenti all’interno del poema. 301 Cfr. Ammerbauer, p. 140. 302 Anche relativamente a questo passo, Fontaine (2), p. 818, rintraccia delle reminescenze classiche: Or. sat. 2, 6, 113-114 currere…examines; Verg. Aen. 4, 672 audit exanumis trepidoque exterrita cursu.
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Occorre precisare che il termine exanimatus appare di uso frequente nella produzione drammatica di età arcaica 303, meno nei poeti di età successiva, cfr. Virgilio, in cui si registra una sola occorrenza (Aen. 5, 805 Exanimata sequens impingeret agmina muris), Ovidio (met. 2, 268 Exanimata natant. ipsum quoque Nerea fama est), Commodiano (instr. 2, 14, 19 Exanimata iacet precibus uiduarum erecta) ed infine Ausonio (epigr. 110, 2 Vocis ad extremos exanimata modos). Nell’esametro, esso ricorre di frequente nella medesima posizione di verso in cui è collocato da Fortunato, cfr. Stat. silu. 3, 1, 48 Monstra manu premeres atque exanimata doleres e Sil. It. 13, 10 Armorum tonitru, quas exanimatus in oras; 17, 503 Plena acies propere retro exanimata ruebat ed in particolare Lucrezio, che nella assai nota descrizione della peste di Atene, si esprime in maniera altamente evocativa: exanimis pueris super exanimata parentum (6, 1251), caratterizzando il verso mediante alcuni artifici, quali la figura etimologica e l’omeoptoto. Il v. 379 esibisce struttura chiastica, ove i membri sono separati dalla pausa ritmica. Da rilevare che il termine medellae è documentato a partire da Giovenco. 304 Sia in Giovenco sia nei poeti esametrici successivi (soprattutto Prudenzio e Paolino Nolano)305 la parola, a motivo della sua facies prosodica (a seconda dei casi, anfibraco o bacchio), è collocata in explicit di verso. La dichiarazione contenuta nel secondo emistichio dell’esametro sta preparando il lettore ai mirabilia di Martino. Al v. 380 appare evidente ancora una volta la ripresa letterale dell’ipotesto, cfr. Sulp. Sev. Mart. 16, 3: quod ubi puellae pater conperit, currit exanimis pro filia rogaturus. Tuttavia occorre precisare che, a questa scena, Severo premette un ulteriore 303
Cfr. e.g. Plaut. asin. 265 Sed quid illuc quod exanimatus currit huc Leonida?; aul. 208 Nimi' male timui. Priu’ quam intro reii,, exanimatus fui; Enn.. trag. 21 Tum pauor sapientiam omnem mi exanimato expectorat; trag. 216 Quid sic te extra aedis exanimata eliminas? Ter. Andr. 131 Sati' cum periclo. Ibi tum exanimatus Pamphilus; Phorm. 731 Nam quae haec anus est exanimata a fratre quae egressast meo? 304 Iuvenc. 1, 437 Donabatque citam inualidis aegrisque medellam; 2, 232 Ast ubi dona procul fuerint exclusa medellae; 3, 76 Corpora subiecit miseratus multa medellae. 305 Prud. apoth. 693 Arida terra fuit nulli prius apta medellae; c. Symm. 1, 526 Nec tantum Arpinas consul tibi, Roma, medellae; perist. 6, 160 Fors dignabitur et meis medellam; ib. 9, 64 Plus dat medellae, dum necem prope adplicat; Paul. Nol. carm. 14, 38 Cernere nunc passim est sacra purgata medella; 18, 202 Moxque datam sua confisos ad uota medellam; 18, 257 Te posuit maestis ad saucia corda medellam; 19, 210 Pestibus ingentem poscebat Nola medellam; 20, 111 Limina, mox illic certum reperire medellam; 20, 234 Tali sanatus carnemque animamque medella. Lo stesso Paolino di Périgueux nella sua translatio ricorre a questo termine svariate volte, cfr. e.g. Mart. 2, 664 Vt nihil afflictum corpus sentire medellae; 2, 702 Nomen idem medicusque idem, par causa medella; 5, 496 Et sane manifesta huius documenta medellae; 6, 209 Quam melius tantae recolentem dona medellae.
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passo, in cui l’autore afferma che i parenti della fanciulla attendevano sconsolati la sua morte, quando all’improvviso fu annunciato loro che era giunto a Treviri il santo Martino. Per questo motivo, l’originale sulpiciano ricorda il passo evangelico della guarigione della figlia di Giairo, sopra citato, in cui gli astanti sono in lutto. Anche Paolino fa riferimento ai parenti della ragazza, cfr. Mart. 2, 386 pallebant pavidi vicina morte propinqui; in Fortunato, invece, campeggia esclusivamente la figura del padre. Al medesimo verso, si osservi l’anastrofe della congiunzione subordinante di natura temporale e l’allitterazione di ad, impiegato come prefisso e preposizione, che continua nel verso successivo. L’avverbio dignanter, attestato per la prima volta in Auspicius (episcupus Tullensis) nell’epistula ad Arbogastem306, ricorre nel Nostro anche in carm. 5, 17, 1 ed è classificabile fra gli avverbi che, pur non essendo di creazione recente, “meritano di essere ricordati per la rarità del loro uso” 307. Nel v. 381 si nota una duplice antitesi, rispettivamente nel primo e nel secondo emistichio, demarcata dalla cesura semiquinaria: da una parte aduolat/senex, ove la nozione espressa dal processo verbale contrasta con l’età del padre, e dall’altra l’avverb1io iuuenaliter, cernitato dalla iunctura uetulis annis308, che richiama il senex del primo emistichio allo stesso modo che iuuenaliter richiama concettualmente aduolat. L’avverbio iuuenaliter è impiegato per la prima volta da Ovidio in ars 3, 733 ille feram uidisse ratus iuuenaliter artus e, nella medesima posizione di verso, in met. 10, 675 e trist. 2, 117; diversamente, invece, in met. 7, 805 uenatum in siluas iuuenaliter ire solebam. Va notato, infine, che il nesso sua tempora del v. 382 è abituale in quella sede metrica, a partire dai poeti di età classica 309. I vv. 380-382 sono legati dall’omoteleuto dignanter…iuuenaliter…inpiger, mentre il v. 382 è caratterizzato dall’omeoptoto exiliens/uincens.
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Cfr. Auspic. ad Arbog. 74 quaeso dignanter accipe. Per quanto concerne la prosa, cfr. Ennodio (Dubois, p. 166) e Gregorio di Tours, presso il quale abbondano gli avverbi in –er, fra cui dignanter, cfr. Hist. Franc. 1, 2; Mart. 1, 36 (Bonnet, p. 469). 307 carm. 5, 17, 1 uisitabat a uobis dignanter epistula currens. Cfr. Meneghetti, p. 81. 308 Sulla presenza dei diminutivi, aggettivi e sostantivi, nel lessico di Fortunato, cfr. Blomgren (9), p. 32. Terminata l’enumerazione di queste forme, lo studioso precisa: “tamen considerandum est pleraque singulis uel paucis locis accurrere”. 309 Cfr. e.g. Verg. app. Aetna 16 Non cessit cuiquam melius sua tempora nosse; Prop. eleg. 2, 18, 31 An si caeruleo quaedam sua tempora fuco; Ov. met. 6, 163 Thebaides iussis sua tempora frondibus ornant; Lucan. 9, 534 Rectior, aut Aries donat sua tempora Librae; Drac. laud. dei 2, 11 Partita cum fratre uices sua tempora.
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Il v. 383 è contraddistinto dal chiasmo che interessa i due ablativi assoluti coordinati dall’enclitica, mediante i quali il poeta descrive la schiera di vescovi, riunitisi in occasione della visita di Martino, e la folla di comuni fedeli accorsi alla notizia dell’arrivo del santo310. Occorre precisare che la costruzione del participio presente con l’ablativo assoluto è molto frequente nell’opera poetica fortunaziana, ove può accadere di trovare due ablativi assoluti nello stesso distico o, come in questo caso, nel medesimo verso 311. Il termine pontifex è usato in riferimento alla carica episcopale o papale dalla fine del V secolo con Gelasio. Il titolo, abbandonato dall’imperatore Graziano per lasciarne il monopolio alla Chiesa cristiana, veniva utilizzato già dalla metà del III secolo con Cipriano sino alla fine del IV con Girolamo, per indicare i sacerdoti dell’Antico Testamento e quelli delle città pagane 312. Necessita di una breve riflessione lessicale anche il termine populus che con l’avvento del Cristianesimo si carica del nuovo significato di “insieme dei fedeli” 313. È proprio questo infatti il significato rivestito dal termine all’interno dell’opera poetica di Fortunato, il quale, come rilevato da Nazzaro, indica il popolo dei fedeli con una terminologia specifica, ossia populus, plebs e christicolae. Quest’ultimo termine definisce i fedeli con una indiscutibile connotazione cristologica, mentre i primi due denotano talvolta genericamente la popolazione civile e talatra, in sendo più ristretto, il popolo credente, che ora coincide con quello della città ora invece ne è parte314. In mezzo alla moltitudine dei vescovi e dei fedeli irrompe il vecchio, come sottolineato al v. 384 dalla iterazione della preposizione in, indicante ingresso, che allittera con l’aggettivo inuerecundus, alquanto raro nella poesia latina. Esso appare per la prima volta in Plauto, sotto forma di superlativo (cfr. Rud. 652 Legerupa inpudens,
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Nella prosa di Severo (Mart. 16, 4) si ritrova il medesimo costrutto ablativale per indicare la turba di fedeli e di esponenti dell’alto clero: spectante populo multisque aliis praesentibus episcopis. 311 Cfr. Clerici (2), pp. 138-139. Lo studioso, istituendo un paragone con il Nostro, rileva che lo tale costrutto “prende un grande sviluppo nel laud. Dei, opera della maturità draconziana”. 312 Gaudemet, pp. 387-402, sp. pp. 401-402. Cfr. inoltre Van Haeperen, pp. 137-159. Quest’ultima analizza l’uso del termine dalle sue prime accezioni cristiane agli inizi del V secolo, quando l’appellativo summus pontifex verrà impiegato per indicare in generale i vescovi metropolitani. 313 Cfr. Mohrmann (vol. II), p. 105; (vol. III), p. 120. Per quanto concerne l’uso poetico del termine populus inteso nell’accezione cristiana, cfr. Ps. Cypr. iud. 144 Nam missus saluator adest populoque salutem. 314 Nazzaro (2), pp. 133-140. La sinonimia tra plebs e populus impiegati nell’accezione sopra descritta è riscontrata anche in Blomgren (1), p. 85.
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inpurus, inuerecundissumus), si ritrova in seguito in Orazio ed infine in Prudenzio 315. Tuttavia l’inserimento del termine in una struttura esametrica rappresenta un unicum, caratterizzato inoltre dalla collocazione a fine verso. L’aggettivo costituisce, infatti, una delle numerose clausule pentasillabiche (undici esclusivamente nei libri II e III) presenti nell’opera poetica di Fortunato ed annoverate nella casistica rara316; tale tipologia è infrequente nella poesia classica, al punto che nell’Eneide essa ricorre soltanto diciannove volte, accogliendo in una sola occorrenza una parola latina, e non greca come negli altri casi, ossia il pentasillabo quadrupedantum317, che ha una forte vocazione onomatopeica; Lucrezio, invece, trova in questa tipo di clausula un modo conveniente per terminare il verso, collocandovi dei termini composti e delle forme arcaiche318. Va precisato, infine, che per evidenti scopi metrici Fortunato abbrevia la terza sillaba dell’aggettivo 319. A differenza dell’ipotesto320, Fortunato non specifica che la moltitudine si era riunita nella chiesa, in cui si precipitò l’anziano padre. L’edificio in oggetto, taciuto dal poeta, è certamente l’antecedente dell’attuale cattedrale di Treviri, ossia la doppia basilica costantiniana costruita all’incirca nel 326 e rimaneggiata sotto il regno di Graziano321. Anche il v. 385 è contraddistinto dall’omoteleuto, in cui il gioco fonico è volto ad esprimere un dolore così profondo, come quello del padre per la figlia morente, che non si lascia scoraggiare dalle barriere del pudore. Il v. 386 richiama, con la presenza di conruit, l’incipit del v. 384 e si caratterizza per l’allitterazione della sibilante e l’anastrofe della preposizione. Alcune scelte lessicali del Nostro, quali inruit, clamoribus ed arma, inducono ad intravedere nell’avvicinamento dell’uomo a Martino i caratteri di un’irruzione militare. L’intento non è quello di portare guerra e distruzione, bensì quello di invocare aiuto; l’impetuosità della richiesta può essere assimilata, tuttavia, al furore bellico del combattente. 315
Hor. epod. 11, 13 Simul calentis inuerecundus dues; Prud. cath. 7, 13 Libido sordens, inuerecundus lepos. 316 Longpré, pp. 50-51; cfr. inoltre Leo (1), pp. 424-425. 317 Verg. Aen. 11, 614. 318 Cfr. al riguardo, Nougaret, pp. 44-45. 319 Cfr. Forcellini, II, p. 925, s.v. inverecundus (tertiam sillaba licenter corripit), dove si riporta a titolo esemplificativo il verso in questione. 320 Sulp. Sev. Mart. 16, 4 et forte Martinus iam ecclesiam fuerat ingressus. 321 Cfr. Fontaine (2), pp. 818-819.
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Il trikolon con cui si apre il verso successivo marca le azioni di sottomissione e di supplica del padre, che culminano nell’espressione per oscula mollia lambens. La iunctura oscula mollia è una ripresa del predecessore Paolino, tratta dal racconto della liberazione di un cuoco dal demonio operata da Martino, e collocata da entrambi i poeti di seguito alla guarigione della paralitica di Treviri ed all’episodio dell’esorcismo dello schiavo di Tretadio 322. Nel v. 388 la ricorrenza di consonanti liquide e nasali accresce la tenerezza e la compassione suscitate dalla scena descritta dal poeta. Dal punto di vista linguistico, occorre rilevare che il verbo laxare, di norma transitivo, è adoperato da Fortunato intransitivamente ma soltanto nel caso in cui esso sia coniugato al participio presente, come nel verso in questione 323. L’aggettivo aeger, data la sua valenza semantica, è utilizzato frequentemente da Fortunato all’interno della stessa Vita e nei carmina324 e, a motivo della sua facies prosodica, esso si incontra numerose volte in explicit di verso, analogamente a quanto accade nei poeti precedenti, a partire da Lucrezio 325. Infine, la formula sic incipit seguita da oratio recta appare nella medesima posizione di verso in Virgilio, cfr. georg. 4, 386 Omine quo firmans animum sic incipit ipsa; Orazio, cfr. sat. 2, 6, 79 Sollicitas ignarus opes, sic incipit: “olim ed infine Silio Italico, cfr. 1, 633 Tum senior maesto Sicoris sic incipit ore. Il motivo della supplica concretizzato nel gesto del bacio delle ginocchia e delle mani del santo prende le mosse dall’ipotesto sulpiciano, in cui si parla tuttavia di abbraccio, cfr. Sulp. Sev. Mart. 16, 4 eiulans senex genua eius amplectitur. In questa commovente scena il tema alessandrino, e quasi elegiaco, della giovane malata declina in un soggetto dai caratteri drammatici, quello della insistente 322
Paul. Petr. Mart. 2, 598 Molliaque insertam presserunt oscula dextram. Cfr. inoltre Enn. carm. 1, 4, 96 Mollia mellitis artauit ad oscula labris. 323 Cfr. Meneghetti, pp. 173-174; pp. 104-105, ove lo studioso precisa che il verbo laxare, assieme al composto relaxare, è impiegato con significato più esteso rispetto a quello che esso aveva in età classica. 71 Mart. 1, 491 Tabe fluens, gressu aeger, inops uisu, asper amictu; 3,74 Dum recubaret humo fluitans Euantius aeger; 3,89 Antea quam medicus pulsum tenet, exilit aeger; 4, 388 Namque ad pseudoforum cellae dum accederet aeger. 325 Lucr. 3, 1070 Propterea, morbi quia causam non tenet aeger; inoltre, cfr. e.g. Verg. Aen. 1, 208 Talia uoce refert curisque ingentibus aeger; Ov fast. 4, 529 Dux comiti narrat quam sit sibi filius aeger; Stat. Theb. 3,552 Primus uenturi miseris animantibus aeger; 4, 38 Mens hausto de fonte uenit. rex tristis et aeger; Sil. It. 10, 289 Ille ego - sed uano quid enim te demoror aeger; Iuvenc. 2, 77 Officium quorum morbus dissoluerat aeger; Prud. c. Symm. 2, 136 Moribus indulsi, quantum moribundus et aeger; perist. 11, 177 Hic corruptelis animique et corporis aeger; carm. 15, 198 Maximus interea solis in montibus aeger.
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preghiera che il padre della fanciulla rivolge a Martino. La nobiltà romana che traspare dagli atti e dalle parole dell’uomo si mescola alle reminiscenze di scene evangeliche analoghe: nei gesti, nell’età e nel pianto del vecchio si ritrovano i toni tradizionali che contraddistinguono la supplica nell’epopea antica 326. Al v. 389 prende avvio il lungo discorso del vecchio, annunciato immediatamente prima. Esso si apre con la serie di vocativi presenti nei tre versi iniziali e delimitati dalle espressioni in chiasmo uir Martine Dei dell’incipit del v. 389 e pietatis amice, con cui si chiude invece il v. 391. Tutte le invocazioni sono caratterizzate da iperbato e sono demarcate dalle cesure, semiquinaria al v. 389 e semisettenaria ai vv. 390-391. Questi ultimi sono strutturati in maniera chiastica, dal momento che il primo emistichio del v. 390 è occupato dall’invocazione al santo e la parte finale è costituita dalla proposizione reggente, mentre nel verso successivo la subordinata finale precede il vocativo pietatis amice327. I vv. 389-390 si caratterizzano infine per l’anafora verticale di uir ed a livello fonico creano una paronomasia con l’avverbio iniziale del v. 388. Dal punto di vista lessicale, i termini salus e parens vanno intesi certamente in senso spirituale328. Il nesso popularis salus rappresenta in poesia un unicum e l’intera espressione populari nate saluti costituisce un esempio dello sforzo fortunaziano finalizzato al rispetto della tradizione che si traduce talvolta nella creazione di espressioni ardite329. L’aggettivo popularis è da intendere in questo caso nel senso specifico di “appartenente/relativo al popolo dei fedeli”; esso è riconducibile, infatti, al termine populus, sul cui significato specifico di “popolo di fedeli” si rimanda a quanto affermato in precedenza. 326
Cfr. Fontaine (2), pp. 819-821. Tale nesso può considerarsi un conio di Fortunato, che lo impiega precedentemente nel poema, in riferimento alla croce, cfr. Mart. 1, 239 Ante uirum, sua bella gerens, pietatis amica. 328 Cfr. Blaise (1), p. 734, s.v. salus, intesa come salute dell’anima, salvezza spirituale; ib., pp. 593-594, s.v. parens (I), in cui si specifica che con il termine poteva intendersi il padre spirituale in contrapposizione a quello carnale, in special modo in riferimento alla figura del vescovo. Sull’uso di questi termini nelle opere fortunaziane, cfr. inoltre Meneghetti, pp. 101-102. Riguardo alla nuova valenza semantica acquisita dalla voce salus nel linguaggio cristiano, cfr. Mohrmann (vol. I), p. 23 ss.; 91 ss. Tale neologismo semantico può essere altresì inteso nel senso di guarigione miracolosa, cfr. Mohrmann (vol. II), p. 113. 329 Cfr. Mohrmann (vol. I), p. 174. Gli altri exempla forniti a riguardo sono: labor unios fit populosa quies (carm. 7, 10, 16); angelicae manus (Mart. 2, 323) e caro apostolica (Mart. 3, 500) . 327
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Il sintagma contribuisce dunque ad istituire nuovamente un paragone tra Martino e Cristo, poiché quest’ultimo viene identificato nei Testi Sacri come salvatore ed unica possibilità di salvezza per l’umanità. Nel distico successivo si ha una certa simmetria tra costruzione sintattica e prosodia, in quanto ad ogni verso corrisponde una proposizione distinta, il cui predicato verbale è situato nella parte centrale. Da notare, al v. 392, l’allitterazione loca longinqua; l’espressione richiama inoltre un verso di Claudiano in cui i due termini compaiono, seppur concordati, in una posizione differente330. Il sintagma iste labor del v. 393, a partire da Virgilio ricorre frequentemente in poesia, in particolare nell’epica 331; fra i poeti cristiani esso è impiegato in particolare da Paolino di Nola e da Fortunato stesso332. Il verso è arricchito da un’ulteriore reminescenza classica, l’espressione compendia uitae, mutuata da Stazio, che la colloca nella medesima posizione di verso 333. Il dativo di possesso in forte posizione di rilievo apre il v. 394, caratterizzato altresì dall’allitterazione della dentale sonora. L’artificiosità dello stile di Fortunato è ben esemplificata al verso successivo (v. 395), contraddistinto dall’iperbato, dall’allitterazione della sibilante e dall’omeoptoto fra exequiis e suis. Il v. 396 è incorniciato da due rimandi, uno di carattere intratestuale, l’altro intertestuale. La prima parte del verso infatti richiama l’incipit del v. 366, con cui il poeta esordisce nella narrazione dell’episodio della paralitica; la parte finale costituisce invece una ripresa di Virgilio. Non è riconducibile al caso il fatto che la citazione sia 330
Claud. Stil. cos. 1, 311 Tot loca sufficerent et tam longinqua tueri? Entrambi i vocaboli compaiono anche in un verso di Sidonio (carm. 2, 407 Est locus Oceani, longinquis proximus Indis), ove tuttavia l’attributo non è riferito al sostantivo locus, ma all’etnonimo Indi. 331 Aen. 2, 708 Ipse subibo umeris nec me labor iste grauabit; 4, 116 Mecum erit iste labor. nunc qua ratione quod instat; Sen. Phaedr. 272 Meus iste labor est aggredi iuuenem ferum; Luc. 5, 696 Sufficit ad fatum belli fauor iste laborque; Ilias Latina 94 Magni diua maris, mecum labor iste manebit; Stat. Ach. 1, 539 Nos uocat iste labor: neque enim comes ire recusem; Mart. 14, 95, 2 Glorior arte magis: nam Myos iste labor. 332 Proba cento 597 Mecum erit iste labor, nec me sententia fallit; Claud. Stil. cos. 3,269 Iste labor; maneant clausis nunc sicca pharetris; Paul. Nol. carm. 10, 316 Hic metus est, labor iste, dies ne me ultimus atris; carm. 21, 795 Nunc tuus iste labor, quo te Felicis adegit; carm. app. 1, 45 Et tamen iste labor sit forte rebellibus asper; Prosp. ingrat. 780 Posse putant, situe ut dignus labor iste iuuar; Lux. anth. 18, 54 Mecum erit iste labor; si quid mea numina possunt; Cypr. Tolon. uers. 10 Sit rogo iste labor placidus sit corde receptus; Ven. Fort. carm. 8, 3, 74 Sed labor iste breuis fruge replendus erit. 333 Theb. 2, 658 Proice; quid timidae sequeris compendia uitae? Cfr. inoltre carm. Sibyll. 130 Bene fecisse nimis, haec sunt compendia uitae. Per quanto concerne l’influenza di Stazio sull’opera fortunaziana, cfr. Blomgren (3), pp. 57-65; Labarre p. 163.
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tratta del discorso di supplica rivolto agli dei dal padre di Pallante, Evandro, affinché essi permettano al figlio di ritornare incolume dalla guerra 334. L’espressione virgiliana introduce, mediante l’attributo sera, anche l’immagine del figlio quale unica gioia nella vecchiaia dell’uomo, che invece sarà espressa esplicitamente da Fortunato nei versi successivi335. Tale reminiscenza offre l’occasione di soffermarsi sul rapporto intercorrente tra Venanzio ed il poeta mantovano, che ha influito grandemente non soltanto sull’opera fortunaziana, ma in generale sulla agiografia martiniana in versi. Come noto dall’indagine di Labarre sull’imitazione virgiliana che caratterizza le parafrasi agiografiche di Fortunato e di Paolino 336, il Nostro sembra non conoscere tutti i dodici canti dell’Eneide allo stesso modo del predecessore. La sua lettura del poema appare per certi versi lacunosa, dal momento che quasi l’ottanta per cento delle sue riprese provengono dai primi sei libri e nessuna, invece, dai libri IX e XI. Quella presa in esame costituisce, invece, una delle tre citazioni presenti nella Vita, che provengono dal canto VIII. Essa riveste un ruolo di rilievo, poiché permette di istituire un paragone tra la situazione di Evandro e quella del vecchio padre della paralitica: il primo, nonostante l’implorazione agli dei non rivedrà più il figlio, che morirà in guerra; il secondo troverà risposta alle sue preghiere, in quanto la figlia affetta da una grave malattia sarà salvata dal santo sia sul piano fisico che su quello spirituale 337. L’emulazione del predecessore è finalizzata a mostrare lo scarto fra lo scarso potere delle divinità pagane e la forza salvifica della fede in Cristo338. Il riferimento al noto passo dell’Eneide contribuisce ad accrescere la componente patetica del discorso di supplica dell’anziano padre e permettere di cogliere a pieno l’importanza che esso riveste nell’economia dell’opera. Ricorrendo alla tecnica dell’amplificatio, Fortunato si distacca da Severo e da Paolino: nell’ipotesto il discorso del padre è limitato ad una trentina di parole, mentre è totalmente omesso dal parafraste. All’interno della retractatio fortunaziana, esso 334
Aen. 8, 581 dum te, care puer, mea sola et sera uoluptas. Cfr. Mart. 1, 397-398. 336 Labarre, pp. 169-201. 337 La rilevanza di questa eco virgiliana è stata constatata dal Roberts (6), pp. 164-165, che sottolinea quanto il linguaggio e gli stilemi virgiliani abbiano arricchito il testo di Fortunato. 338 L’aemulatio costituisce, assieme alla retractatio ed all’adattamento parodico, una delle tre tecniche con cui, secondo Labarre (pp. 197-201), sia Fortunato sia Paolino si trovano ad interagire con il testo di Virgilio. 335
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costituisce, invece, il più lungo esempio di oratio recta. Una situazione analoga si registra una seconda volta nel poema, ossia nella formulazione della richiesta d’aiuto rivolta a Martino da una madre per il figlioletto morto: anche in questo caso il poeta si allontana dall’originale per dare voce all’amore genitoriale 339. Il v. 397 presenta nel primo emistichio, delimitato dalla cesura semiquinaria, la medesima struttura del v. 395, come peraltro si rileva dalla considerazione che si susseguono in entrambi gli esametri parole metriche identiche (coriambo+ palimbaccheo+giambo). Tale costruzione tipica del linguaggio poetico di Fortunato prevede il determinato interposto tra la iunctura sostantivo+aggettivo che funge, invece, da determinante. Il parallelismo formale istituito tra i due versi fa risaltare la contrapposizione tra la condizione attuale, che vede in primo piano la fanciulla mezza morta, e quella passata, in cui ella attendeva alle sue faccende. Da segnalare l’omoteleuto obsequiis…piis placabilis. Quest’ultimo termine, in forte posizione di rilievo, ricorre in poesia all’incirca una trentina di volte, una metà delle quali nella medesima forma del caso presente, a partire da Virgilio 340; in alcuni casi esso compare nella stessa sede metrica, in particolare in Ovidio e nei poeti cristiani341. L’aggettivo, seppure risulti composto dal suffisso –bilis, ha contestualmente uis attiva. Nella stessa accezione esso è impiegato con ogni probabilità da Paolino, che lo riferisce a Martino, enumerandone le qualità342. In generale gli aggettivi verbali in –bilis sono impiegati da Fortunato con significato ora attivo ora passivo molto frequentemente, probabilmente a causa dell’influenza esercitata sugli scrittori dell’epoca dai traduttori biblici; tali aggettivi appaiono in maggior misura nell’opera poetica a motivo verisimilmente della solennità che essi hanno acquisito nella poesia esametrica latina già dai suoi esordi343.
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Mart. 3, 178-186. Cfr. Roberts (6), p. 160. Verg. Aen. 7, 764 Litora, pinguis ubi et placabilis ara Dianae; 9, 585 Flumina, pinguis ubi et placabilis ara Palici; Hor. epist. 1, 20, 25 Irasci celerem, tamen ut placabilis essem; Ov met. 10, 399 Ira deum siue est, sacris placabilis ira; fast. 2, 541 Nec maiora ueto, sed et his placabilis umbra est; trist. 3, 5, 31 Quo quisque est maior, magis est placabilis irae; Pont. 1, 9, 23 O quotiens dixit "placabilis ira deorum est; Val. Fl. 4, 472 Si non ira deum, uel si placabilis, urget. Faccio notare che negli esempi qui sopra prodotti la fine di parola coincide con il quinto piede dell’esametro, ed a questo riguardo rinvio a Segura Ramos, pp. 89-94. 341 Claud. carm. min. 31, 33 Sed quod Threicio Iuno placabilis Orphei; Prud. psych. 636 Cornicinum curua aera silent; placabilis implet; Coripp. Ioh. 8, 589 Magni animi iuuenis, numquam placabilis Vrtanc. 342 Paul. Petric. Mart. 3, 416 Instructus, comis, facilis, placabilis, acer. 343 Cfr. Clerici (1), pp. 238-239. 340
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Va rilevato infine che nella locuzione in qua uita è possibile rintracciare il valore strumentale acquisito dalla preposizione in seguita dall’ablativo, secondo un uso che stava prendendo piede nella lingua letteraria latina già dagli inizi del V sec., sotto l’influenza della lingua greca infiltratasi a Roma tramite le traduzioni delle Sacre Scritture, e non disdegnato fra gli altri da Agostino 344. Il flashback che focalizza l’attenzione sulla stato di cose antecedente alla malattia della fanciulla prosegue al v. 395, in enjambement con il verso precedente e caratterizzato dall’allitterazione della sibilante. Da notare che solando costituisce uno dei numerosissimi esempi di gerundio in ndo riscontrati nell’opera di Fortunato. Quest’ultimo, ma anche Girolamo ed Agostino, impiegano molto di frequente tali forme, difformemente dal latino classico, anche con valore assoluto “per indicare le circostanze che accompagnano l’azione del verbo principale”345. Dal punto di vista metrico infine il v. 398 è caratterizzato dallo iato tra mihi e haec in cesura, analogamente a quanto accade in ulteriori versi dell’opera poetica del Nostro, come documentato da Leo nel suo Index (p. 425), in cui l’attenzione è focalizzata soprattutto sugli esempi rinvenuti nei carmi, e come registrato da Longpré, in relazione ai versi del libro II e III della Vita346. Il ricordo della vecchiaia addolcita ed allietata dalla presenza della fanciulla si interrompe bruscamente al verso successivo con la formula incipitaria ecce perit347, delimitata dalla cesura tritemimera, ed il termine leto, usuale in explicit di verso348. Alquanto alta è la frequenza del sostantivo letum declinato al dativo, che esprime l’idea di movimento verso un luogo (datiuus directionis), come nel caso presente349.
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Cfr. Mohrmann (vol. III), pp. 65-66; Löfstedt (1), vol. II, pp. 425-457. A scopo chiarificatore, si cita di seguito uno dei numerosi exempla di tale costrutto rinvenuto nella Vulgata e riportato dallo studioso, cfr. Mt 4, 4 non in solo pane uiuit homo, sed in omni uerbo, quod procedit ore Deo. 345 Dagianti, p. 84. Lo studioso classifica solando fra i gerundi usati dal poeta in maniera impersonale, ossia che non hanno lo stesso soggetto del verbo finito, cfr. pp. 85-86. Al riguardo cfr. inoltre Meneghetti, p. 238. 346 Cfr. Longpré, p. 57 ss. 347 Il nesso ecce perit è presente anche in alcuni poeti precedenti, cfr. Mart. 7, 33, 4 collige, Cinna, togam; calceus ecce perit; Comm. apol. 475 Ecce perit iustus, nec quidem intellegit ullus. 348 I casi documentati sono all’incirca trecento, in particolare in Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, Valerio Flacco, Silio Italico, e fra i cristiani Giovenco, Claudiano, Cipriano, Alcimo Avito e Corippo. 349 Waszink pp. 249-260. Lo studioso riconduce la ricorsiva presenza del termine al fatto che probabilmente in un’epoca molto remota esso designava la potenza personificata della morte ed il suo regno. Sull’impiego del datiuus directionis in Venanzio Fortunato, cfr. Dagianti, pp. 11-12. Lo studioso
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L’immagine della discesa agli inferi della fanciulla e del vecchio genitore, che ella trascina con sé, è ripresa al verso successivo dall’espressione in Tartara, anch’essa molto impiegata dagli autori classici, soprattutto nell’epica, e dai poeti cristiani 350. Il termine Tartara compare in svariate occorrenze nei versi fortunaziani, il più delle volte declinato al neutro plurale (cfr. e.g. Mart. 1, 168; carm. 2, 7, 48; 3, 9, 33; 4, 2, 1), tranne in alcuni casi in cui esso ricorre, per evidenti motivi stilistici, al maschile, cfr. a titolo esemplificativo carm. 10, 1, 21 (Tartaros) o al singolare, cfr. carm. 11, 1, 42351. Nel linguaggio poetico cristiano infatti i sostantivi latini inferi e infernus sono soppiantati dal calco biblico gehenna, cui tuttavia si preferisce il termine Tartarus, espressione di un’inclinazione prettamente classica, ben rispecchiata nell’opera fortunaziana352. L’aggettivo miserandi riprende il miseri del v. 391: entrambi i termini sono riferiti dall’anziano padre a se stesso. L’intero v. 401 ospita un costrutto ipotetico, le cui apodosi e protasi sono separate dalla cesura semisettenaria. All’interno dell’apodosi il poeta inserisce la congiunzione sed, con forte valore avversativo, evidenziando in tal modo lo stridente contrasto tra il desiderio del vecchio padre e le circostanze reali. Nel distico successivo (vv. 403-404), l’uomo formula una domanda retorica di carattere esistenziale. Il v. 403 è intessuto di rimandi fonici, come l’allitterazione della labiovelare sorda e la adnominatio fra i termini vita e vota, che occupano rispettivamente il primo ed il quinto dattilo, ponendosi all’interno del verso in posizione speculare.
inventaria fra gli exempla relativi a quest’uso, meno frequente nel latino classico, anche il verso in questione. Al rigaurdo, cfr. infine Lunelli, p. 10; pp. 105-107; Löfstedt (1), vol. I, p. 180 ss. 350 Il sintagma ricorre una seconda volta nel poema (Mart. 4, 439 Per spatium ferale trahens in Tartara cunctos), allorquando Martino è chiamato in soccorso per scacciare la peste dalla casa di Liconzio. Cfr. inoltre, a titolo esemplificativo, Lucr. 3,966 Nec quisquam in barathrum nec Tartara deditur atra; 5, 1126 Inuidia interdum contemptim in Tartara taetra; Verg. georg. 2, 292 Aetherias tantum radice in Tartara tendit; Aen. 4, 447 Aetherias, tantum radice in Tartara tendit; 12, 205 Diluuio miscens caelumque in Tartara soluat; Ov met. 1, 113 Postquam Saturno tenebrosa in Tartara misso; Ibis 491 Vel de praecipiti uenias in Tartara saxo; Manil. astr. 2, 794 Vnde tugit mundus praecepsque in Tartara tendit; Stat. Theb. 7, 820 Sicut erat, rectos defert in Tartara currus; Prud. c. Symm. 1, 26 Blanditi, quos praecipites in Tartara mergi; Paul. Nol. carm. 21, 542 Molibus impulsos propriis in Tartara ferri. 351 Cfr. Blomgren (1), p. 99. Lo studiosi riconduce tali slittamenti morfologici all’intenzione di costituire all’interno del verso nessi in omotelueto. 352 Cfr. Mohrmann (vol. I), p. 156.
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Il verso seguente presenta nell’incipit un ablativo assoluto contraddistinto dalla ripetizione della sillaba -pe-, mentre l’allitterazione “a cornice” della bilabiale sorda segna la fine e l’inizio del verso. L’espressione cum nomine, posta in questo caso dopo la cesura semiquinaria, ricorre (anche con anastrofe della preposizione) altre tre volte nelle opere fortunaziane353 ed altresì nei poeti precedenti354; lo stesso dicasi per il participio ademptae, che a motivo della sua facies prosodica, è collocato a fine verso 355. Il v. 404 ricalca il costrutto iniziale del verso precedente e si caratterizza per la ripresa ovidiana dona futura356; quest’ultimo nesso introduce il tema della discendenza che l’uomo avrebbe avuto se la figlia avesse avuto la possibilità di sposarsi, espresso icasticamente al verso seguente dalla metafora del tronco secco rinverdito dai rami della prole. Del verbo reuirescere sono state inventariate una ventina di occorrenze in poesia, una metà delle quali lo vedono comparire coniugato all’infinito 357. In questo contesto il termine acquisisce, assieme ad aridus e ramis, un significato chiaramente metaforico, in riferimento alla vitalità della discendenza358.
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carm. 1, 21, 22 Nomine cum proprio tristis et aeger eget; 5, 1, 1 Martini meritis cum nomine nobilis heres; 10, 10, 21 Additur hic meritis cum nomine Victor opimis, 354 Plaut. Amph. 599 Edissertauit. Tum formam una apstulit cum nomine; Verg. Aen. 12, 828 Occidit, occideritque sinas cum nomine Troia; Ov. ars 3,643 Nomine cum doceat, quid agamus, adultera clauis; Tert. adu. Marc. 5, 10 Maiorum natu cum nomine tempora lustri; Arator. apost. 1, 96 Funeris ex pretio, cum nomine Sanguinis emptus; Coripp. Ioh. 3,123 Hic leuat, hic perdet multas cum nomine gentes. 355 Sono di seguito riportate tutte le occorrenze del termine che presentano la desinenza –ae, ma esso è documentato anche in altri casi ed è solitamente posto, come accennato sopra, in explicit di verso, cfr. Ov. epist. 8,19 Sit socer exemplo, nuptae repetitor ademptae; met. 3, 515 Verba senis tenebrasque et cladem lucis ademptae; 14, 197 Quam nullum aut leue sit damnum mihi lucis ademptae!; Stat. Theb. 1, 627 Saeuior in miseros fatis ultricis ademptae; 5, 609 Archemore, o rerum et patriae solamen ademptae; Val. Fl. 3,737 Non aliter gemitum quondam lea prolis ademptae; Claud. Hon. 6 cos. 245 Docta subire fames aut praedae luctus ademptae. 356 Ov met. 10, 52 Exierit ualles; aut irrita dona futura. Il sintagma è impiegato da Fortunato anche in due versi dei carmina, identici tra loro: carm. 5, 12, 6 Semper agens animae dona futura tuae; 9, 8, 6 Semper agens animae dona futura tuae. 357 Verg. georg. 2, 313 Possunt atque ima similes reuirescere terra; Ov. met. 2, 408 Arboribus laesasque iubet reuirescere siluas Sil. It. 3, 286 Atque inter frondes reuirescere uiderat aurum; 15, 134 Pars credunt toruos patrui reuirescere uultus; Claud. Hon. 6 cos. 38 Atque suas ad signa iubet reuirescere laurus; Prud. c. Symm. 2, 196 Seminibus; natura docet reuirescere cuncta; Paul. Nol. carm. 20, 49 In speciem primae fecit reuirescere formae; Ps. Cypr. gen. 1268 Tondentes prisca facerent reuirescere forma; Ven. Fort. carm. 10, 6, 15 In senium uergens, melius reuirescere discerns. 358 Il verbo tuttavia viene inteso presso gli scrittori cristiani anche in senso spirituale, cfr. Blaise (1), p. 723, in cui si riporta un passo di Agostino (serm. 223, 2).
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Precede il pentasillabo reuirescere il predicato poteram, incorniciato in posizione di rilievo tra le due cesure, semiquinaria e semisettenaria; anche il sostantivo prolis in explicit di verso è messo in evidenza. Al v. 406, precisamente nel secondo emistichio, si nota l’iperbato praesentis damna salutis, in cui il sintagma damna salutis costituisce una ripresa letterale di Prudenzio, occorrente anche in Paolino di Nola ed Ennodio 359. I vv. 407-408 presentano nell’incipit due ablativi assoluti, il primo con participio presente, il secondo con participio perfetto, e sono contraddistinti dalle allitterazioni che ricorrono in particolare nella seconda metà del verso: al v. 407 la nasale bilabiale “m” e la liquida “l” ed al v. 408 la velare sorda “c”. Da segnalare l’espressione mea lumina, posta in rilievo tra la cesura semisettenaria ed il bisillabo finale, e la figura etimologica di fine verso, lumina luci. Il termine lumina, inoltre, costituisce una ripresa del v. 371, ove esso è riferito agli occhi della fanciulla, unica parte vigile del corpo morente. Il sostantivo lux, invece, è volto in questo caso ad indicare metaforicamente la vita, cui la ragazza viene sottratta360. La supplica del padre raggiunge in questi versi i toni più drammatici ed al medesimo tempo più commoventi: il poeta, anche in tale occasione, sembra riecheggiare nei contenuti e nelle scelte stilistiche e lessicali le movenze dell’elegia latina. In particolare paiono qui disseminati alcuni elementi riconducibili a quello che viene definito il prototipo dell’elegia latina 361, il carme 68 di Catullo, di cui Fortunato sembra tenere bene a mente la chiusa finale ed in particolare il v. 162: lux mea, qua uiua uiuere dulce mihi est, che conclude la seconda parte del testo indirizzata ad Allio. In primo luogo il vocativo lux mea richiama lumina mea del v. 407, mentre l’espressione qua uiua uiuere dulce mihi est è riconducibile ai vv. 397-398:…in 359
Prud. ham. 662 Seruatorque mali, numquam post damna salutis; Paul. Nol. carm. 20, 151 Fraude fidem uiolans conuerti in damna salutis; 291 Et, lucra dum captant, adquirere damna salutis; Ennod. carm. 2, 42, 4 Gloria nec mensae damna salutis habet. 360 Lucan. 3, 425 Accessus dominumque timet deprendere luci; 9, 362 Virgineusque chorus, nitidi custodia luci; Stat. Theb. 4, 682 Stat uapor atque omnes admittunt aethera luci; Val. Flac. 2, 360 Gargaraque et Moesi steterant formidine luci; Mart. 8, 21, 9 Tarda tamen nitidae non cedunt sidera luci; 10, 92, 3 Has tibi gemellas barbari decus luci; Avien. orb. terr. 1329; Extendunt celsi uaga late brachia luci; Auson. Mos. 478 Flumina, te ueteres, pagorum gloria, luci; Ps. Cypr. ad senat. 5 Vt te corriperem tenebras praeponere luci; Ios. 346 Tempora ni iubeas noctis se adiungere luci; Paul. Petric. Mart. 5, 222 Obuia uentorum flabris et peruia luci. 361 Sul carme 68 di Catullo, che presenta notevoli problemi relativi alla composizione, alla struttura ed al testo stesso, cfr. Pasoli, pp. 17-26; Pinotti, pp. 42-58.
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qua/uita mihi haec dulcis erat…. Evidenti le riprese lessicali come pure l’emulazione di alcuni costrutti e stilemi, quali il dativo di vantaggio, la relativa ed infine l’impiego della figura etimologica. Da notare la contrapposizione tra il tempo presente del verso catulliano e l’imperfetto che caratterizza, invece, quello fortunaziano. Nella versificazione di Venanzio, all’amore passionale per la donna amata si sostituisce l’amore pio di un padre nei confronti della figlia malata; l’intensità e la capacità evocativa del testo, tuttavia, sembrano permanere immutate. La presenza dei poeti elegiaci, soprattutto di Ovidio 362, ha un ruolo niente affatto trascurabile all’interno delle opere fortunaziane, in particolare nei carmina. Studi precedenti hanno evidenziato il debito del poeta cristiano nei confronti dell’estetica elegiaca da Catullo a Ovidio: in particolare il topos descrittivo del locus amoenus diviene in Fortunato “moyen agréable d’accéder à une vérité supérieure” 363. Il verso successivo (v. 408) ha dato origine a diverse interpretazioni, a seconda della resa del costrutto ablativale e della relativa al congiuntivo. I traduttori precedenti hanno riprodotto i vv. 408-409, come segue: Palermo (p. 72) “quando l’ordine della natura esigerebbe piuttosto che ella chiudesse gli occhi del vecchio padre”; Tamburri (p. 45) “pur essendo stato disposto meglio l’ordine da Colui dal quale è decisa la cosa, che cioè fosse lei a chiudere gli occhi del vecchio padre”. Quest’ultima proposta di traduzione appare alquanto inadeguata, poiché sembra travisare sia il valore dell’ablativo assoluto sia quello della relativa al congiuntivo eventuale. La difficoltà di questo periodo potrebbe derivare in parte dall’uso fortunaziano del pronome relativo che si rivela, per così dire, più libero rispetto a quello riscontrato negli scrittori di età classica. Il caso presente costituisce un exemplum della frequente omissione da parte di Fortunato dell’antecedente costituito da pronome dimostrativo in caso obliquo364. Occorre rilevare, inoltre, che il nesso cui causa compare per la prima volta in Ovidio (Ib., 496 Vt cui causa necis serra reperta fuit) e ricorre in seguito esclusivamente fra i poeti cristiani nella medesima posizione di verso, cfr. Tert. adu.
362
Blomgren (8), pp. 81-84; Labarre, pp. 162-165; Pizzimenti, pp. 545-548. Delbey (1), pp. 225-234. 364 Cfr. e.g. carm. 1, 1, 10; 5, 6, 12; 9, 2, 75. In generale, sull’uso del pronome relativo nelle opere fortunaziane, cfr. Leo (1), pp. 413-414; Blomgren (1), pp. 32-40. Cfr. inoltre Väänänen, pp. 271-272. 363
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Marc. 1, 87 Surgere posse negat carnem, cui causa ruinae; Prud. psych. 313 Perdita deliciis, uitae cui causa uoluptas; Arat. act. 2, 30 Mox didicit lucere fidem, cui causa uidendi. In particolare il termine causa è reso nella presente traduzione con “cosa”, che meglio si addice al contesto e che ha una sua giustificazione: la parola, infatti, sembra aver subito uno slittamento semantico dall’originario significato di “causa”, “processo”, indicando genericamente dapprima “affare” ed in seguito “cosa”, soprattutto a partire dal V sec.365. Tale accezione del termine è documentata altresì nell’opera in prosa dello stesso Fortunato, per cui cfr. Vita Albin. 14, 39 equus […] gressum mouere non uoluit; suspicans rex culpam esse equi magis quam causae366. Il v. 409 racchiude la volitiva epesegetica introdotta dal sostantivo ordine. Nel primo emistichio faccio osservare la figura di suono senis/patris, come è anche da considerare placeret/clauderet. Il gentivo oculorum si trova in forte posizione di rilievo al centro del verso, seguito dalla clausula regolare del tipo 3+2367. Il termine orbes ricorre negli autori precedenti oltre un centinaio di volte a fine verso, in particolare nell’esametro368; d’altro canto, il nesso clauderet orbes parrebbe ricalcare la formula clauditur orbis, per la quale si confrontino Verg. Aen. 1, 233 cunctus ob Italiam terrarum clauditur orbis; Gratt. 241 circum omnem aspretis medius qua clauditur orbis; Manil. 2, 273 circulus ut dextro signorum clauditur orbe. Nella terzina successiva (vv. 410-412) si susseguono tre ulteriori richieste formulate dall’anziano padre in favore della figlia, espresse dagli imperativi che campeggiano nei tre versi, dignare (v. 410), occurre (v. 411), succurre (v. 412), rivolti a Martino, invocato con gli appellativi sacer (v. 410) e minister opis (v. 411); quest’ultimo nesso è impiegato esclusivamente in tale occorrenza da Fortunato. Il v. 410 si caratterizza inoltre per espressioni quali suspendere mortem ed auidae mortis, che potrebbero essere rintracciate, data la rarità del loro utilizzo, rispettivamente in Claud. bell. Gild. 263 Proditor adportet suspensa morte salutem e Sil. It. 14, 622 Et minuere auidae mortis contagia pestes, mentre il sintagma minister
365
Väänänen, pp. 146-147. Cfr. ThLL, III, col. 700 r. 62 ss.; sp. p. 701 rr. 2-5. 367 Cfr. Longpré, p. 50. 368 Cfr. e.g. Prop. eleg. 4, 11, 23; Ov. met. 15, 312; Manil. 1, 333; Luc. Phars. 5, 715; Stat. Theb. 11, 172; Val. Fl. 2, 387; 3, 178; Seren. 588; Claud. Hon. nupt. 181; Prud. ham. 944; Cypr. gen. 211; Arat. act. 2, 225; Coripp. Ioh. 4, 607. 366
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opis del verso successivo è proprio del linguaggio fortunaziano. Al medesimo verso va posto in evidenza il gerundivo che svolge in questo caso la funzione di participio futuro attivo analogamente a quanto riscontrato altrove negli scritti fortunaziani e negli autori successivi369. Il verso successivo si apre con l’ipotetica all’indicativo presente, che connota quindi come reale il decesso imminente della fanciulla in mancanza di un intervento tempestivo del santo; segue l’ultimo imperativo rivolto a Martino, che ricalca il precedente occurre. Al v. 413, che chiude la preghiera dell’uomo, si trova un’ulteriore ipotetica, costruita in maniera chiastica rispetto a quella precedente, presentando nel primo emistichio la conseguenza, in quello che si potrebbe definire hysteron proteron, e dopo la cesura pentemimera la protasi; entrambe le frasi sono connesse altresì dalla figura etimologica cura…curatio. Nel distico successivo (vv. 414-415), il poeta descrive la prima reazione del santo, che arrossisce e confessa la sua manchevolezza. Il v. 414 è contraddistinto dallo stacco tra il nesso qua ed il termine uoce cui esso si riferisce, mentre spiccano in posizione centrale il participio confusus e gli appellativi di Martino sacer e sacerdos, collegati tra loro in figura etimologica. Il verso seguente è occupato per intero dalla dichiarazione di inadeguatezza del santo, il quale riprende alcuni dei termini usati dal padre della paralitica, quali indignum (cfr. dignare, v. 410) e ministrum (cfr. minister opis, v. 411), che incorniciano il verso. Il lessico fortunaziano riprende quello dell’ipotesto: pressoché identiche le espressioni qua ille uoce confusa obstipuit, ricalcata al v. 414, e hoc suae non esse uirtutis […] non esse se dignum, cui Sulpicio premette il verbo dichiarativo dicens, tralasciato dal Nostro, che inoltre sintetizza la relativa del testo originario per quem Dominus signum uirtutis ostenderet nel sostantivo ministrum370. La parafrasi venanziana omette inoltre l’inciso, dal tono assai deciso, senem errare iudicio; tale rielaborazione è posta in rilievo da Quesnel, che definisce il racconto sulpiciano di “une brutalité étonnante qu’atténue Fortunat”371. Paolino d’altro canto amplia le affermazioni 369
Cfr. Blomgren (1), pp. 63-67; Hofmann-Szantyr, p. 374; 394; Quesnel, p. 24 nt. 72. Quest’ultimo studioso parla invece di gerundivo con valore di participio futuro passivo e traduce “qu’on va me ravir”. 370 Sulp. Sev. Mart. 16, 5 Qua ille uoce confusa obstipuit, et refugit dicens hoc suae non esse uirtutis, senem errare iudicio, non esse dignum per quem Dominus signum uirtutis ostenderet. 371 Quesnel, p. 24 nt. 73.
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di Severo, distendendo la recusatio di Martino in sei versi e smorzando allo stesso tempo, analogamente a Fortunato, i toni adottati dal predecessore 372. Il v. 416 si apre con una forte avversativa e funge da intermezzo tra la risposta del vescovo e la replica dell’anziano, le cui parole vengono riferite da Fortunato, che le riporta nuovamente in una breve oratio recta, la quale si estende nel distico successivo ed è anticipata dalla clausula finale uocibus isdem. Al v. 417 infatti il padre rivolge un rinnovato appello a Martino, definendolo debitus…medicus ed invitandolo ancora una volta a curare la figlia, come evidenziato dalla clausula exere curas, in cui la forma verbale manifesta tutta la sua efficacia 373. Il verso seguente ospita nell’incipit sentiat, in uariatio rispetto ai predicati rinvenuti precedentemente nel periodo in esame, ossia l’indicativo uenis e l’imperativo exere. Nel verso testé esaminato si potrebbe intravedere una sorta di anticipazione di quello che accadrà, dal momento che l’estirpazione della malattia, che dovrebbe annuciare l’arrivo del medico è essa stessa causata da tale evento. Evidente
infine
nel
distico
la
ridondanza
prodotta
dal
poliptoto
medicus…medici, i cui termini sono inoltre collocati inoltre nella medesima posizione all’interno del verso. Il motivo dell’arrivo del santo anticipato dalla malattia che inizia a recedere sarà sviluppato in ulteriori episodi di guarigione, in particolare quelli compiuti a distanza, come quello di cui sarà protagonista lo zio del monaco Gallo, Evanzio 374. Al v. 419 prende avvio la descrizione della definitiva azione di Martino, il quale non può che intervenire recandosi dalla fanciulla malata; da rilevare l’avverbio relativo di luogo qua, che riprende l’incipit del passo, in particolare il v. 367, in cui esso svolge la stessa funzione di stato in luogo, difformemente dall’uso classico, come affermato in precedenza. Tale determinazione si sostituisce alla puntuale indicazione spaziale dell’ipotesto in cui si precisa descendit ad domum puellae375; la forma participiale inpulsus riprende pressoché alla lettera il conpulsus di Sulpicio, mentre il complemento 372
Paul. Petr. Mart. 2, 503-508 At contra sanctus pollens pietate modesta/affectum sociat, meritum negat. Abnuit esse/uirtutem qua praestet opem, sed corde dolorem/participat. Refugit pompam, sed deflet erumnam,/et meritum uitando probat. Sic celsior extat/corde humili. Confert laudi, quod demit honori. 373 Sul nesso exere curas, cfr. ThLL, V (2), col. 1857 rr. 51-55; sp. rr. 52-53 in cui è riportato a titolo esemplificativo il verso in esame. 374 Cfr. Mart. 3, 74-96. 375 Sulp. Sev. Mart. 16, 6. Nel testo di Paolino, invece, si accenna alla casa dell’uomo mendiante l’espressione penetralia moesta, cfr. Paul. Petr. Mart. 2, 513.
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d’agente, a circumstantibus episcopis, dell’ipotesto viene reso da Fortunato con un generico pronome dimostrativo his in ablativo semplice senza preposizione, come riscontrato altrove nella sua opera poetica, cfr. Mart. 2, 261 ducitur interea monachis nox peruigil hymnis; carm. 4, 28, 18 uiuens post tumulum uirgo recepta deo. Paolino riferisce della complicità della schiera dei sacerdoti presenti al v. 511 con l’affermazione sancta sacerdotum precibus coniuncta paternis. Infine l’accurata descrizione fornita nell’esordio dell’episodio narrato da Fortunato è qui riassunta nel termine lassa. Al verso successivo (v. 420), invece, prosegue la ripresa pressoché letterale della prosa sulpiciana, in particolare nella sezione che precede la cesura eftemimera con l’espresssione turbat adstante foris faceret, che echeggia l’ipotesto sulpiciano turba pro foribus, expectans quidam Dei seruus esset facturus (Mart. 16, 6) ed allo stesso tempo il verso di Paolino astant pro foribus populi: miracula Christi (Mart. 2, 514). Occorre precisare che quest’ultimo propone ora, cioè immediatamente prima dell’intervento del santo, la descrizione della patologia della fanciulla, anticipata da Sulpicio e Venanzio all’inizio della narrazione 376. Da un’analisi più accurata del medesimo verso fortunaziano, è possibile notare in posizione incipitaria il costrutto del participio presente con l’ablativo assoluto, molto frequente nell’opera poetica di Venanzio, ove può accadere di trovare due ablativi assoluti nello stesso distico come in Mart. 1, 403-404 (spe pereunte patris cum nomine prolis ademptae? Qua nubente uiro per dona futura nepotum) o nel medesimo verso, come riscontrato in Mart. 1, 383 pontificum uallante choro populoque fremente. Nel caso in esame, inoltre, il poeta si distacca dall’uso classico del medesimo costrutto, facendo dipendere dall’ablativo assoluto, in particolare dal suo predicato, ulteriori elementi della frase in cui esso è inserito; tale pratica è riscontrata in ulteriori loci della Vita e dei carmina, registrati da Dagianti nel suo studio condotto a livello sintattico sui testi poetici del Nostro377. Caratterizzano inoltre il v. 420 l’allitterazione cosiddetta “a ponte” della cesura foris faceret, ulteriori suoni allitteranti sia vocalici che consonantici, quali “a” e “t” ed infine l’anastrofe dell’interrogativo quid; significativa la clausula finale che sostituisce il nesso seruus Dei dell’ipotesto con l’appellativo metaforico pastor ouili. 376 377
Cfr. Paul. Petr. Mart. 2, 516-523. Dagianti, pp. 24-25.
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Tale nesso ricorre anche nei carmina, cfr. carm. 3, 11, 3 summus apostolico praecellens pastor ouili, in cui esso designa il vescovo di Treviri, Nicezio, e carm. 5, 8b, 3 haec quoque, quae pridem tribuisti pastor ouili, ove esso è attribuito a Gregorio. Come è evidente, il termine ouile viene impiegato in queste occorrenze metonimicamente per indicare il grex, secondo un uso non comune rilevato da Meneghetti, il quale annovera l’utilizzo del vocabolo in questa accezione tra i “significati nuovi dovuti all’uso delle figure”, portando a titolo esemplificativo carm. 1, 16, 67-68 pastoris arce cognita/gauisa sunt ouilia378. La rappresentazione di Martino, nel caso specifico, e del vescovo in generale quale pastore del gregge dei fedeli è un tratto caratteristico della figura dell’episcopo delineata da Fortunato, testimoniato dall’altissima frequenza della voce pastor, di cui sopra sono stati addotti alcuni exempla. La
metafora pastorale
creata a partire dall’uso
dei termini pastor
(vescovo/sacerdote) e grex/ouile (popolo), deriva al poeta, come affermato da Nazzaro, “dall’immagine, di ascendenza biblica, del gregge”379, che viene declinata in vari modi, descrivendo ora la preoccupazione del pastore di condurre le pecore al pascolo senza rischi ora quella di rendere sicuro l’ovile 380. Significativa la rappresentazione del pastore come medela gregis, che purifica il gregge dalle infezioni che lo affliggono 381. Tornando ora al passo in esame, è possibile osservare che il motivo della folla che attende fuori dall’edificio in cui si sta compiendo il miracolo, ripresa dal Nosto dalla narrazione di Sulpicio, potrebbe derivare a quest’ultimo ancora una volta da alcune scene evangeliche e contribuisce alla drammatizzazione del racconto382. Il v. 421 dà avvio al processo di guarigione e mostra Martino che si appresta a combattere la sua battaglia contro la malattia con le armi della preghiera.
378
Meneghetti, p. 107. Nazzaro (2), p. 143. Riguardo alla derivazione di tale immagine dai testi sacri, lo studioso precisa (nt. 37) che essa, “dopo essere stata riferita a Dio e al suo Messia nell’AT (Sal. 22 ed Ez. 34), fu ripresa e applicata a se stesso da Gesù (Gv 10)”. 380 Cfr. rispettivamente carm. 3, 3, 29 ss; 2, 9, 39 ss; Nazzaro (2), pp. 143-152. 381 carm. 3, 6, 15 ss.; cfr. inoltre Nazzaro (2), p. 148. 382 Lc 5, 15; 6, 17; 9, 37. Cfr. Fontaine (2), p. 825. Quest’ultimo ipotizza che anche il riferimento alla discesa di Martino verso la casa della fanciulla riproduca nuovamente un topos di derivazione biblica, cfr. Lc 18,14. 379
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Il termine orator, che ricorre nelle opere poetiche di Fortunato soltanto in altri due versi della Vita Martini383, uno dei quali inserito nella narrazione della resurrezione del fanciullo, si rifà al predicato orauit dell’ipotesto (Cfr. Sulp. Sev. Mart. 16, 7), e viene a trovarsi in forte posizione di rilievo al centro del verso. Il sostantivo arma è ripreso dall’originale sulpiciano che, come osserva Fontaine384, fa sua l’immagine neotestamentaria, in particolare paoliniana, delle armi spirituali. Sulpicio stesso all’inizio della sua biografia presenta Martino quale miles Christi, che dopo aver abbondanato la milizia temporale abbraccia quella monastica 385. Tale visione viene ripresa da Fortunato, presso il quale essa riveste una notevole importanza. Si citano di seguito, a titolo esemplificativo, ulteriori passi in cui Martino si serve delle sue armi abituali, quali l’episodio della resurrezione dello schiavo di Lupicino386, in cui il santo opera nel medesimo modo riscontrato nella sezione in esame: rimasto solo con il corpo da sanare, Martino si mette a pregare. Al v. 423 Martino assume il consueto atteggiamento di preghiera, prostrandosi a terra; in luogo della voce composta rinvenuta nell’ipotesto (prostratus), il poeta, similmente a quanto attuato da Paolino (sternitur, v. 518), ricorre al verbo semplice. Il prostrarsi al suolo costituiva un atteggiamento tipico dell’orante, pratica largamente documentata nell’AT e ripresa dalla tradizione cristiana. Negli episodi rappresentati da Fortunato esso ritorna svariate volte, in particolare si segnalano i casi della resurrezione del fanciullo e quello della guarigione della muta di Chartres387. Il medesimo verso si caratterizza per l’allitterazione della sibilante e per la cosiddetta rima leonina (solo/reducto): tali accorgimenti pongono in evidenza il contrasto tra i due emistichi e l’espressione iperbolica super astra. Il primo emistichio ritorna anche in Mart. 3, 253 sternens membra solo, suspendens gaudia uoto, in relazione alla moglie dell’imperatore Massimo che si mise a servire il santo nel noto banchetto cui egli partecipò con l’imperatore, mentre la seconda parte del verso risuona in Mart. 4, 34 corpore fusus humi, uolitans super aethera sensu, tratto dal racconto relativo alla fanciulla muta dalla nascita. Il nesso super astra, nella medesima posizione
383
Mart. 2, 399 Peruigil orator mandando negotia Christo. Il verso è estrapolato dal passo in cui si enumerano le qualità intellettuali di Martino; 3, 193 Mox bonus ore preces orator misit in aures. 384 Fontaine (2), p. 826 nt. 2. 385 Cfr. Sulp. Sev. Mart. 4, 3. 386 Mart. 1, 183. 387 Cfr. rispettivamente Mart. 3, 190; 4, 32.
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all’interno dell’esametro, si incontra spesso nelle opere poetiche venanziane 388 e nei predecessori cristiani, in particolare Prudenzio, Paolino Nolano, lo stesso Paolino di Perigueux ed, infine, Draconzio 389. Al v.1 423 si notano l’iterazione dell’avverbio hinc nell’incipit che riprende il v. 421 (il fenomeno è noto come anafora verticale), la duplicazione della sillaba iniziale in consurgens-conspexit ed il termine faciem collocato al centro del verso tra la cesura semiquinaria e quella semisettenaria. Per quanto concerne la parola alumna, mi limito a segnalare che essa è impiegata da Fortunato in relazione alla figlia di Arborio ed alla fanciulla muta, sempre nella medesima posizione all’interno dell’esametro 390. Dal punto di vista lessicale, va rilevato che Fortunato sostituisce con conspexit, più frequente in poesia, l’intuens dell’ipotesto, che costituisce un tecnicismo della medicina romana per designare l’attuazione di esami clinici preliminari alla diagnosi medica. La medesima forma verbale conspexit ricorre anche al v. 163 di libro I ergo ubi conspexit gelidum de febre cadauer, relativo alla vicenda del catecumeno resuscitato dal santo, e costituisce un’ulteriore evidente ripresa del racconto della guarigione operata da Cristo, parafrasato da Sedulio, cui si faceva riferimento sopra, cfr. in particolare carm. pasch. 3, 95 hunc ubi uirtutum Dominus conspexit egentem, in cui il predicato designa l’azione di Gesù che fissa con lo sguardo il paralitico. A differenza dell’ipotesto, infine, nei versi fortunaziani viene a mancare il rifermento alla richiesta da parte di Martino dell’olio da benedire; l’attenzione è, pertanto, focalizzata sulla subitanea reazione della fanciulla, come evidenziato dall’avverbio ilico con cui si apre il verso successivo (v. 424). Nello stesso verso sono da segnalare la ripresa letterale dell’espressione sulpiciana uox reddita est e la clausula esametrica sedibus hospes, impiegata una seconda volta da Venanzio all’interno dell’epitaffio di Eumerio, vescovo di Nantes 391, che costituisce una reminescenza classica; il nesso infatti ricorre a fine esamentro altresì in Catullo e Virgilio 392.
388
Mart. 2, 457; 4, 240; 4, 709; carm. 2, 16, 11; 3, 9, 35. Cfr. e.g. Prud. c. Symm. 2, 868; Paul. Nol. carm. 16, 36; 26, 183; Sedul. hymni 1, 84; Drac. laud. dei 1, 674; 2, 5; Paul. Petric. Mart. 3, 146. 390 Cfr. rispettivamente Mart. 2, 21; 4, 38. 391 carm. 4, 1, 15. 392 Catull. 64, 176 Consilia in nostris requiesset sedibus hospes!; Verg. Aen. 4, 10 Quis nouus hic nostris successit sedibus hospes. 389
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Per quanto concerne l'aggettivo peregrinus, il Blomgren ha fornito spiegazioni in merito mediante la definizione “qui alienus est sanitati” ed ha riportato a conferma della sua esegesi un ulteriore esempio, ove il termine in esame è riferito alla fronte del lebbroso che sta guarendo per l'intervento del santo, nell’episodio che ha per oggetto il risanamento del medesimo e che verrà di seguito analizzato 393. Questo uso lessicale rappresenta dunque una peculiarità del linguaggio di Fortunato. Al verso successivo, che esibisce le proprietà dell'esametro aureo, si nota l’aggettivo rediuiuus ricorrente, in riferimento al corpo umano, anche nella narrazione della resurrezione del catecumeno relativamente al corpo del resuscitato (cfr. Mart. 1, 177); il predicato cecinerunt, invece, è riscontrato altresì nell’episodio del risanamento della fanciulla muta nella forma cecinit (cfr. Mart. 4, 48). La metafora della voce che risuona, propria della versione fortunaziana è rafforzata dalla presenza del termine organa, che, come documentato nel ThLL è utilizzato altrove dal poeta per indicare la lingua (cfr. carm. 2, 9, 55) ovvero per indicare la stessa voce umana (cfr. Vita Marc. 8, 28)394. Il verso seguente (v. 426), caratterizzato da iperbato, presenta nell’incipit l’avverbio paulatim, calco dell’ipotesto sulpiciano che ritorna anche nella versione di Paolino (Mart. 2, 526 Ad tactum medici paulatim infusa recurrunt), impiegato altresì da Fortunato nella descrizione del lento risorgere del corpo del catecumeno, cui si accennava sopra, cfr. Mart. 1, 174. Al medesimo verso viene introdotta l’azione dell’olio, sino ad ora taciuta, al punto che la ripresa delle funzioni vocali antecedentemente alla menzione dell’olio santo potrebbe configurarsi come una sorta di hysteron proteron. La guarigione mediante l’applicazione o lo strofinamento dell’olio benedetto era praticata sin dalle origini del Cristianesimo e diviene attuale nella Gallia dell’epoca in relazione al processo di evangelizzazione, in particolare delle campagne, come elemento fondante finalizzato all’affermazione del potere ecclesiastico. La figura del Christus medicus, medico dell’anima e del corpo, viene pertanto contrapposta ai guaritori ed agli indovini idolatri, da cui i vescovi ed i prelati mettevano mettevao in guardia. I miracoli di guarigione compiuti dai santi e dagli uomini di Chiesa del tempo hanno quale sfondo quello appena delineato, rientrando in un più ampio 393 394
Mart. 1, 499. Cfr. Blomgren (1), p. 169 ss. Cfr. ThLL, IX (2), col. 969, rr. 27-39.
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programma di decostruzione del culto e dei rituali pagani, che diventata a volte una vera e propria guerra come quella condotta da Martino nella sua missione evangelizzatrice 395. Nell’ipotesto sulpiciano, come rilevato da Fontaine, Martino somministra l’olio infondendolo nella bocca della fanciulla, secondo gli usi terapeutici praticati in precedenza dai pagani. Il risanamento mediante l’olio santo ritorna nella Vita Martini anche negli episodi, di seguito analizzati, relativi alla malattia agli occhi di Paolino Nolano ed alla guarigione di Evanzio, in cui sono rappresentati degli unguenti che si propagano attraverso l’aria precedendo l’arrivo di Martino, il quale, a causa dell’età, tardava a giungere dal malato396. La stessa guarigione agli occhi di cui beneficia Fortunato nella basilica di S. Paolo e S. Giovanni a Ravenna, inserita all’interno del propempticon ad libellum che chiude il poema, avviene per mezzo dell’olio contenuto nella lampada posta sotto l’altare dedicato a S. Martino. Numerosi casi di guarigioni attuati tramite l’unzione con l’olio benedetto vengono descritti, inoltre, da Fortunato, in quanto operati da S. Germano, all’interno della biografia in prosa che vede protagonista il santo. Il v. 427 si caratterizza, similmente al v. 425, per l’evidente stacco tra aggettivo e sostantivo, che contribuisce ad accrescere la suggestione ingenerata dal linguaggio fortemente simbolico e metaforico adottato da Fortunato. Al medesimo verso merita la debita attenzione il termine uiuificata che ricorre, analogamente al predicato stetit, nella resurrezione dello schiavo di Lupicino e ed in quella di cui fu protagonista il fanciullo di Chartres397. Il verbo uiuificare, infatti, rappresenta il più diffuso derivato in –ficare fra i cristianismi lessicali diretti, alla formazione dei quali ha contribuito l’influenza greca; il termine viene acquisito dall’uso letterario cristiano per indicare il concetto di “dare vita soprannaturale, resuscitare”, come nel caso presente398. Da porre in rilievo altresì il sostantivo arca, mediante il quale il corpo della giovane viene caratterizzato come un feretro, un’urna sepolcrale, richiamando le suggestioni descrittive iniziali della fanciulla connotata come “bell’e sepolta”.
395
Cfr. Lavarra, pp. 173-174. Cfr. rispettivamente Mart. 2, 43; 3, 85. 397 Mart. 1, 195-196; 3, 195. Il termine è utilizzato altresì nei carmi, cfr. carm. 1, 18, 14 Et fauet auctori uiuificata suo; 2, 16, 112 Ante tuos tumulos uiuificata manus; 7, 12, 46 Et redit ex tumulo uiuificatus homo. 398 Cfr. Loi, pp. 105-117; Mohrmann (vol. IV), p. 18. 396
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Il ludus metaforico si basa sull’ambivalenza del termine arca, che esso riveste presso il Nostro, indicando talvolta l’urna sepolcrale, come in questo caso, talaltra una parte del corpo umano, più precisamente il petto 399. Atto a esemplificare tale polisemia è il v. 185 del libro I et premit arca sacri hunc ne premat arca sepulchri, estrapolato ancora una volta dall’episodio della resurrezione dello schiavo di Lupicino, in cui il termine compare due volte, ma con le diverse accezioni sopra evidenziate. Il termine columnis, determinato dall’attributo geminis, designa in questo caso gli arti inferiori del corpo della fanciulla, come in Mart. 1, 174 paulatim adsurgit fabrica titubante columna, ove esso compare in riferimento agli arti del catecumeno resuscitato400. L’uso traslato di tale voce, coniato dal poeta amplifica la metafora del corpo visto come tumulo, edificio sepolcrale. Il v. 428, che ricalca perfettamente nella struttura il v. 425, configurandosi anch’esso come esamentro aureo, ospita in clausula il termine gressu, ripresa letterale dell’ipotesto e della trascrizione di Paolino, cfr. Mart. 2, 530. Il cenno al passo saldo del malato guarito è un tratto caratteristico dei processi di guarigione rappresentati da Venanzio, fra cui quello relativo al risanamento di Martino stesso operato da un angelo, che sarà tra breve analizzato401; talvolta il riferimento all’andare del malato serve a connotarne lo stato di insania precedente alla guarigione, come nel caso della descrizione del lebbroso, definito gressu aeger402. Da un ultimo confronto con il testo di Sulpicio e con la parafrasi paoliniana emerge infine che nella versificazione fortunaziana viene meno il riferimento alla presenza dei testimoni a guarigione avvenuta403. In conclusione, la “Ringkomposition” che caratterizza il passo accresce il contrasto tra lo stato della fanciulla semimorente, la cui guarigione sembrava oramai impossibile, ed il processo di risanamento attuato da Martino, del quale viene risaltato in tal modo il potere salvifico. Inoltre, mentre alcuni elementi, quali il ricorso alla preghiera ed all’olio benedetto, sono ravvisabili anche nella rappresentazione dei miracoli di guarigione, altri 399
Mart. praef. 34 Cum sint uota, mihi non ualet arca loqui; carm. 7, 8, 36 Non abolenda uirum pectoris arca tenet. Al riguardo, cfr. inoltre ThLL, II, col. 432, r. 10 ss.; Du Cange (vol. I), p. 358; Blomgren (1), p. 158 nt. 2. 400 Cfr. Blomgren (1), pp.158-159. 401 Mart. 2, 51 Tangens membra manu solidat uestigia gressu. 402 Mart. 1, 491 Tabe fluens, gressu aeger, inops uisu, asper amictu. 403 Cfr. Sulp. Sev. Mart. 16, 8 populo teste; Paul. Petric. Mart. 2, 536 populo mirante.
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caratteri contraddistinguono esclusivamente la dinamica delle resurrezioni operate dal santo, creando una certa affinità tra queste ultime e l’episodio in oggetto. L’insieme degli elementi strutturali, narrativi e stilico-formali, rilevati sino ad ora, concorre quindi ad esaltare le virtù miracolose di Martino, in particolare l’insistenza nella descrizione della patologia della fanciulla, l’uso di un linguaggio fortemente allusivo e simbolico, la struttura ad anello, sopra evidenziata, ed i continui rimandi intratestuali alla narrazione degli altri prodigi compiuti dal santo, non rimangono semanticamente vuoti, ma sono finalizzati alla lode di quello che si potrebbe definire in termini propri dell’epica, l’eroe del poema. Conferiscono maggiore solennità al racconto e lo impreziosiscono le ricorrenti citazioni dei poeti precedeni, cristiani e non; in questo caso emerge principalmente il discorso diretto del padre della ragazza, che si rifà agli stilemi dell’elegia latina e che richiama il passo virgiliano relativo al padre di Pallante, Evandro. L’oratio recta dell’anziano padre costituisce infatti un ampliamento del Nostro rispetto al racconto dei predecessori, Sulpicio e Paolino, contrariamente alla tendenza ad abbreviare quanto rinvenuto nell’ipotesto, che caratterizza solitamente la parafrasi venanziana. Al di là dell’inevitabile rapporto con il testo sulpiciano e la versificazione paoliniana pertanto, l’attività parafrastica di Venanzio si pone in stretta connessione con l’epica biblica, in particolare Sedulio, e con la stessa epica classica, soprattutto con l’Eneide404. Rifacendosi al poema virgiliano, egli intende inserirsi nella tradizione classica, nella quale si era formato nel corso degli studi giovanili, mentre il riferimento alla parafrasi dei testi evangelici gli permette di istituire un serrato confronto con i miracula Christi, focalizzando appunto l’attenzione sulle virtù miracolose di Martino e sugli episodi che forniscono l’occasione di porle in evidenza.
404
Cfr. Roberts (7), pp. 201-204.
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La guarigione del lebbroso (Ven. Fort. Mart. 1, 487-513)
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Traduzione In seguito, mentre il santo entrava rapidamente per una porta di Parigi, si imbatté in un lebbroso che si dirigeva verso di lui. Questi non aveva più la medesime sembianze e procedeva senza essere noto neppure a se stesso. Era un uomo screziato dalle macchie, con la pelle nuda, coperto di piaghe, grondante di putrefazione, sofferente nell’andatura, misero a vedersi, vestito rozzamente, dalla mente ottusa, con il volto putrefatto, con i piedi mutili, con la voce spezzata. Il pallore aveva ricoperto l’infelice di una veste che gli era estranea. Ed infatti il santo, improvvisamente, lo trasse a sé baciandolo e stringendolo lo ristora con il versargli il suo medicamento. Infatti non appena gli toccò con la bocca la saliva con questa benedetta, il fardello della malattia sfuggì al contatto con l’unguento. Ritorna l’aspetto che era rimasto nascosto, una nuova pelle riveste il suo volto. Il suo aspetto ritorna identico sulla fronte a lui estranea e i lineamenti del suo volto a lungo cancellati sono ridisegnati. Quanto è grande la fede nelle sue virtù miracolose, quando gli assalti della malattia svanirono dopo il gesto di pace del santo. Con il suo abbraccio quella terribile condizione fuggì, venendo meno la piaga della terribile malattia, i baci condussero una nuova battaglia. Eccelsa santità di Martino, grazie al cui onore la salda fede nel patto, fedele, rende belle le cose turpi. O regione felice, resa illustre dal piede, dalla luce, dal contatto del santo, giacché quest’uomo ne illumina i luoghi, gli stagni, gli arbusti, città, campagne, case, templi, piazzeforti, mura, fattorie e te che meriti segni tanto insigni di un uomo insigne. L’acqua del Giordano, vincendo tutte le altre grandi imprese, dalla sua santa bocca fluì nei suoi baci per curare il lebbroso e l’onda della saliva lava l’origine della fluida macchia.
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Commento La guarigione del lebbroso segue all’insieme di passi che nell’ipotesto sulpiciano costituisce il cosiddetto “ciclo di Treviri” (Mart. 16-18, 2), in cui si susseguono la guarigione della paralitica e tre esorcismi405. Similmente, l’episodio in oggetto rappresenta la prima di quattro guarigioni miracolose narrate in successione, rivestendo così una posizione di rilievo per la sua affinità con uno dei più noti miracoli evangelici e non, come potrebbe sembrare ad una prima lettura, perché collocato spazialmente a Parigi. La città, ingranditasi durante il IV sec. soprattutto poiché l’imperatore Giuliano ne aveva fatto la sua residenza preferita in Gallia, ospitò Martino con ogni probabilità nel corso di uno dei suoi viaggi da Tours a Treviri406; non è possibile tuttavia ricavare ulteriori informazioni sul passaggio e sulla permanenza del santo a Parigi. L’incipit della narrazione relativa alla guarigione del lebbroso è assimilabile a quello dell’episodio concernente la paralitica 407. Anche in questa occasione l’autore presenta Martino che fa il suo ingresso attraverso una delle porte della città 408, riprendendo l’ipotesto sulpiciano, cfr. Sulp. Sev. Mart. 18, 3-4: apud Parisios uero, dum portam ciuitatis illius magnis secum turbis euntibus introiret […]409.
405
Cfr. Fontaine (2), p. 862. Cfr. Fontaine (2), pp. 863-864. La città accolse nel 360 un concilio dei vescovi galli in funzione antiariana, mentre oltre un secolo più tardi (486 ca.) essa divenne parte del Regno dei Franchi. Quanto alla toponomastica, è possibile rilevare che dalla fine del IV sec. si preferì a civitas Parisiorum (o Lutetia Parisiorum) l’espressione corrente e di origine barbara Parisii, indicante non la popolazione, bensì la città medesima, cfr. lo stesso Severo (Mart. 18, 3 apud Parisios). Con Fortunato (carm. 3, 26, 4; 4, 26,13; 6, 2, 9) e Gregorio di Tours si avrà il definitivo impiego di Parisius (usato in maniera invariata tranne che al genitivo plurale) e dell’aggettivo, parisiacus, molto caro in particolare a quest’ultimo. Cfr. DACL, XIII (2), pp. 1817-1818. Cfr. inoltre Löfstedt (1), vol. II, pp. 192-193. Sull’uso specifico del toponimo in Venanzio, cfr. Elss, pp. 71-72; Blomgren (1), p. 103. 407 Mart. 1, 366. Cfr. inoltre Mart. 4, 636 Inde Parisiacam placide properabis ad arcem; 680 Inde Rauennatem placitam pete dulcius urbem, analogamente a quanto rilevato nel verso in esame, l’avverbio inde è accompagnato dalla determinazione di luogo in forma aggettivale. Entrambi i versi testé citati sono estrapolati dal propempticon ad libellum con cui Fortunato chiude il suo poema. 408 L’avvenuta guarigione e la sua collocazione spaziale nei pressi della porta sopra menzionata sono confermate dal fatto che, come riferito da Gregorio (Hist. Franc. 8, 33), fu fatta costruire sul posto una cappella al fine di commemorare l’evento. Sulla posizione della porta nel perimetro cittadino ed in generale sulla struttura e la planimetria della città all’epoca, cfr. Pachtère, p. 36; pp. 118-141. 409 La narrazione sulpiciana riprende ancora una volta le guarigioni descritte nei Vangeli: nello specifico ammontano a due - tralasciando al momento la presenza del lebbroso - gli elementi di rimando, ossia la collocazione dell’evento nei pressi della porta della città (cfr. Lc 7, 12) e la presenza della folla (cfr. Mt 4, 25; 8, 1; 19, 2; Lc 14, 25). Cfr. al riguardo Fontaine (2), pp. 865-866. 406
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Il Nostro omette però l’elemento della folla che accompagna il santo, caratterizzando d’altra parte l’ingresso di quest’ultimo mediante l’avverbio concite410. La fretta di Martino, che niente può arrestare, suggerita da Fortunato tramite l’impiego di tale avverbio, non è posta in evidenza dai predecessori411. Al v. 488 si trova in forte posizione di rilievo tra la cesura pentemimera, racchiuso dall’omoteleuto faciem…euntem, il termine leprosum, che ricorre esclusivamente nella poesia di matrice cristiana412, sia in qualità di aggettivo sia in funzione di sostantivo come nel caso presente413. A motivo di quanto appena rilevato, è necessario soffermarsi su alcune questioni terminologiche. Il sostantivo lepra è stato mutuato dal greco tramite i testi biblici, nei quali la polisemia della voce greca ben si prestava a rendere il corrispettivo ebraico caraah414. Con ogni probabilità Girolamo nella Vulgata riprese il termine direttamente dal greco senza interrogarsi sul suo effettivo significato tecnico-medico, canonizzando in tal modo quello che era destinato a diventare il simbolo del peccato per eccellenza 415. Analogamente il vescovo Quodvultdeus alla metà del V sec. riconduceva le diverse eresie alla varietà della sintomatologia della lepra mostrata dagli adepti416. Tale morbo pertanto era messo in relazione con uno stato impuro dell’anima piuttosto che della carne e la sua eziologia veniva individuata nella manifestazione della 410
Esso va inteso, infatti, col medesimo significato di celeriter, cfr. ThLL, IV, col. 38, rr. 38-41. Occorre rilevare che tale forma avverbiale, ripresa al v. 501 per indicare la rapidità dell’efficace intervento di Martino, è impiegata da Fortunato anche nei carmina, pur costituendo una forma alquanto rara: si hanno notizie del suo uso poetico esclusivamente nell’innografia cristiana anonima, cfr. Hymni Christ. (Walpole, 1922) 91, 11 Sermone Christi concite; 111, 25 Illae dum pergunt concite. È possibile pertanto inserire la presente voce fra gli avverbi composti, che costituiscono un conio venanziano e fra i quali sono annoverati altresì inaduersus (Mart. 1, 238), incomminus (carm. 3, 4, 8) e praesens (carm. 10, 1, 29). Da sottolineare infine che dal punto di vista metrico concite è considerato in questo caso termine dattilico. 411 Cfr. Labarre, p. 139. 412 Cfr. Prud. perist. 2, 286 Nil tam leprosum aut putidum; Paul. Nol. carm. 31, 507 Contemnis caecum, leprosum tangere uitas; Sedul. carm. pasch. 3, 27 Leprosus poscebat opem uariosque per artus; 253 Leprososque simul populos surdasque cateruas; 4, 192 Leprosi portenta uiri, quos corpore foedo. 413 Anche nell’ipotesto sulpiciano (Sulp. Sev. Mart. 18, 3) il malato viene designato con il termine leprosus, che non compare nella versificazione di Paolino, il quale ricorre ad alcune perifrasi che descrivono i sintomi della malattia. 414 Il significato più antico del termine λέπρα appare in Ipponatte (IV sec. a.C.), privo di un’accezione tecnica precisa, mentre nel Corpus Hippocraticum esso acquisisce significato medico, alludendo in generale a patologie della pelle che non hanno nulla a che fare con la lebbra medievale, cfr. Martín Ferriera, pp. 272-273. 415 La tradizione cristiana pertanto va ritenuta responsabile della sinonimia esistente tra la denominazione della lebbra (λέπρα), ripresa dal Corpus Hippocraticum, e la elephantiasis degli scrittori medici posteriori; specificatamente nella lingua latina, inoltre, il termine lepra si imporrà sul rivale soprattutto a motivo delle connotazioni politiche, religiose e sociali, fortemente dispregiative, che esso verrà ad assumere nel tempo, cfr. Martín Ferriera, pp. 276-277. 416 Quodv. prom. 2, 6, 10-11.
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punizione divina. Questa tradizione cristiana è riconducibile ad alcuni passi veterotestamentari, in particolare Lev. 13, 43-47, Par. 2, 16-22 e 2 Reg. 5, 3-14417. Il passo in esame mostra come anche nelle fonti altomedievali non manchino considerazioni relative ad una dimensione spirituale della lebbra e che “l’intervento miracoloso dei santi rimaneva la vera possibilità di salvezza per i malati” 418. Dall’analisi del brano emergono in particolare la condizione di esclusione del lebbroso, relegato ai margini della città - l’uomo si trova infatti nei pressi di una delle porte d’ingresso al centro urbano - , ed il richiamo ai passi neotestamentari, da cui il gesto compiuto da Martino si distacca per l’inserimento del motivo del bacio alle piaghe del volto. La guarigione della lebbra è un tratto tipico dell’agiografia medievale ed al contempo la presenza del santo risulta vincolante per la cessazione delle pene inflitte da una simile patologia, che viene a connotarsi come una malattia “opportuna” 419; quest’ultima, infatti, mette sull’attenti chi ne è affetto e lo conduce alla salvezza del corpo, ma soprattutto dell’anima, conseguita esclusivamente mediante la penitenza e l’intercessione del santo420. Per quanto concerne l’iconografia, occorre precisare che l’episodio evangelico del risanamento dei lebbrosi è pressoché inesistente o di arduo riconoscimento, in quanto gli artisti tendevano a cogliere nelle raffigurazioni il momento della guarigione avvenuta. Dal V sec., invece, l’avvenimento è rappresentato più distintamente in avori e miniature421. Il riferimento all’ambito figurativo permette a questo punto di soffermarsi sugli altri due testi redatti da Fortunato in cui è descritta, anche se più brevemente e con minor dovizia di particolari, la guarigione del lebbroso, ossia carm.1, 6, 9-10; 10, 6, 3136; 93-102. Il primo distico menzionato è collocato all’interno del carme dedicato alla basilica di S. Martino, che fu oggetto anch’essa della grande opera di restauro di chiese
417
Cfr. Piazza, pp. 5-6. Tale considerazione è supportata da numerosi passi dell’opera di Gregorio di Tours, che riporta provvedimenti della legislazione civile ed ecclesiastica relativi alla questione dei lebbrosi, nonché svariati miracoli compiuti da monaci e vescovi in vita e post mortem a favore di questa categoria di malati. Cfr. Piazza, pp. 9-15. 419 Lançon, pp. 226-228. 420 Piazza, pp. 18-20. 421 Bisconti, p. 1918. 418
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e ville dei secoli IV e V, di cui furono promotori il vescovo di Bordeaux, Leonzio II, e la sua ex moglie Placidina 422. I due restanti gruppi di versi sopra indicati sono estrapolati dal lungo poema (132 versi) ad ecclesiam Turonicam, attorno al quale sussiste una problematica alquanto complessa concernente la struttura e la redazione. Esso celebra infatti la ricostruzione della ecclesia prima di Tours che fu distrutta da un incendio al tempo dell’episcopato precedente a quello di Gregorio e per questo fatta edificare nuovamente e fatta decorare con dipinti da Gregorio stesso, ed inaugurata infine nel diciassettesimo anno del suo episcopato, cfr. Hist. Franc. 10, 31. Il carme sembra essere costituito da due poemi differenti giustapposti, che trattano lo stesso soggetto: entrambi prendono avvio dall’elogio dell’edificio e del costruttore, passando di seguito alla narrazione dei vari episodi della vita di Martino, distribuiti ciascuno in una strofa differente. La prima parte tratta di otto miracoli compiuti dal santo, cinque dei quali sono ripresi anche nella seconda, in cui tuttavia gli episodi miracolosi sono soltanto sette, tutti preceduti da un titolo 423. Nonostante le opinioni contrastanti degli studiosi424, sembrerebbe più conveniente considerare il carme come un unico testo, nel modo in cui del resto esso è stato trasmesso dalla tradizione manoscritta: con ogni probabilità, analogamente a quanto operato da Paolino di Nola nella lettera inviata a Sulpicio Severo 425, Venanzio avrebbe indirizzato a Gregorio, tra i vari elogi, le due serie di iscrizioni metriche tra cui il vescovo avrebbe potuto scegliere quella che gli era di maggior gradimento, da impiegare in qualità di sequenza didascalica per gli affreschi sulla vita del santo, che stavano prendendo vita all’interno della basilica di Tours426. Nonostante la mancanza di ritrovamenti archeologici o testimonianze di altro genere, il contesto in cui sono state elaborate le opere può senza dubbio suggerire un ultimo argomento in favore del loro carattere epigrafico 427. 422
Di Brazzano (1), p. 53; p. 117 nt. 25. Tuttavia non è possibile stabilire con precisione dove fosse collocata la chiesa in questione; alcuni studiosi (Viellard-Troiékouroff, p. 55) ritengono che tale edificio corrisponda al S. Martino di Mont-Judaïque di Bordeaux, mentre altri (Lombard-Jourdan, p. 146) credono che si tratti della Chiesa di Montmartre di Parigi, dato che il miracolo cui allude Venanzio nel testo è avvenuto, stando a quanto affermato da Severo, proprio in quella città. 423 Cfr. Pietri (2), p. 828. Di Brazzano (1), p. 512 nt. 19. 424 Meyer, pp. 62-69; Delehaye (2), pp. 204-211. 425 Cfr. Paul. Nol. Ep. 32, 1-6. 426 Pietri (2), pp. 828-829; Brennan (6), pp. 65-83. 427 Pietri (2), p. 830.
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Va sottolineato infine che nella prima sezione del carme l’episodio del lebbroso è narrato in seguito a quello del mantello; nella seconda invece esso si trova al primo posto nella successione dei fatti relativi alla biografia martiniana. Tornando ora al passo in esame, il lebbroso si fa incontro a Martino, come messo in evidenza dalle espressioni ridondanti in faciem e uersus. Tale precisazione, assente nell’ipotesto e nella versione di Paolino, sembra riprendere invece il brano evangelico corrispettivo, per cui cfr. Mt 8, 2 et ecce leprosus ueniens adorabat eum dicens Domine si uis potes me mundare; Mc 1, 40 et uenit ad eum leprosus deprecans eum et genu flexo dixit si uis potes me mundare; Lc 5, 12 et ecce uir plenus lepra et uidens Iesum et procidens in faciem rogauit eum dicens Domine si uis potes me mundare. È possibile, infine, affermare che le parafrasi dei passi neotestamentari sopra citati sembrano proporre la richiesta di aiuto da parte del lebbroso a Gesù senza porre l’accento sul motivo dell’avvicinamento, del farsi incontro, cfr. Sedul. carm. pasch. 3, 26-27 Ecce autem mediae clamans ex agmine turbae/leprosus poscebat opem uariosque per artus, e Iuvenc. 1, 733-735 Ecce sed horrenda confixus uiscera tabe,/ quem toto obsessum foedarat corpore lepra,/ procubuit uenerans iuuenis Christumque precatur. Prende ora avvio la elaborata descrizione del malato: il v. 489 è suddiviso dalla cesura
centrale
in
due
emistichi
coordinati
dalla
negazione,
funzionale
all’intensificazione del concetto dell’estraneità del malato a se stesso, introdotto nella prima metà del verso ed espresso a livello retorico dal poliptoto del riflessivo di terza persona e dalla litote nec cognitus428. L’espressione dispar sibi potrebbe forse rimandare ad Hor. Sat. 1, 3, 19 sic impar sibi. Nunc aliquis dicat mihi: “Quid tu?”, in cui l’espressione impar sibi, peraltro collocata nella medesima posizione esametrica riscontrata in Fortunato, sottolinea l’incoerenza rilevata negli atteggiamenti del cantore Tigellio 429. Il predicato ibat posto in chiusura del v. 489 riprende poliptoticamente il participio conclusivo del verso precedente, ben rappresentando l’andatura ciondolante del lebbroso.
428
Il concetto di estraneità del lebbroso rispetto al proprio corpo è rintracciabile anche in Paolino, Mart. 2, 625. 429 Sulla ripresa di Orazio da parte di Fortunato, cfr. Monteverdi (p. 162), il quale afferma che “l’ultimo autore che mostri effettivamente di ricordarsi di Orazio, del «pindarico Flacco», com’egli lo chiama, è Venanzio Fortunato”.
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La terzina seguente (vv. 490-492) si caratterizza per la presenza di una lunga enumeratio costituita dalla successione di undici coppie agg. al nominativo – sost. all’ablativo: il primo verso inoltre è composto da tre membri allineati in parallelo ed i due esametri successivi sono formati, invece, da quattro coppie di termini, coordinate per asindeto, in chiasmo tra loro, cfr. tabe fluens/gressu aeger/inops uisu; ore putris/lacerus pede430. Dal punto di vista metrico, tali versi sono ritmati in maniera differente, dal momento che il v. 490 è suddiviso dalle cesure tritemimera ed eftemimera, il v. 491 da quella del terzo trocheo che accompagna l’eftemimera ed il v. 492 dalla seconda trocaica cui si appoggia la cesura pentemimera. Al v. 490 ancora una volta si ritrova una duplice cadenza allitterante: quella trimembre della semivocale e quella bimembre della gutturale sorda. Dal punto di vista lessicale, l’aggettivo uarius permette di istituire sin da subito, anche in questo caso, un confronto serrato con Sedul. carm. pasch. 3, 26-32, in cui Sedulio parafrasa il racconto del risanamento del lebbroso operato da Cristo, narrato in Mt 8, 2-4431. I nessi cute nudus e uulnere tectus ricorrono anche nei poeti precedenti, cfr. e.g. Colum. 10, 344 Hinc caput Arcadici nudum cute fertur aselli; Paul. Nol. carm. 18, 261 Nunc oblite mei, cur me rogo uel cute nudum; Prud. c. Symm. 1, 650 Sed liceat tectum seruare a uulnere pectus. Si noti in particolare la ripresa pressoché letterale della clausula prudenziana testé citata, dalla quale il nesso impiegato da Fortunato differisce unicamente per la sostituzione della consonante iniziale del secondo termine (tectus pro pectus); la forma participiale tectum è posizionata dallo Spagnolo all’interno del verso. I sintagmi che caratterizzano il distico successivo sono, invece, meno frequenti: il primo di essi costituisce una ripresa letterale di Drac. laud. dei 2, 119 Tabe fluens quaecumque cutis madefacta rubebat; il nesso gressu aeger costituisce invece un rimando intratestuale, cfr. Mart. 1, 240 Obuia turba riget gressuque extorpuit aegro, analogamente a mente hebes, per cui cfr. Mart. 1, 28 Mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers. Il poeta richiama se stesso anche nell’espressione inops uisu, per cui cfr. carm. 2, 16, 139 Dum iacet alter inops, uisu caligine clauso. Per quanto 430
Cfr. Nazzaro (6), pp. 184-185; 207 nt. 48. Sedul. carm. Pasch. 3, 26-32: Leprosus poscebat opem uariosque per artus/plus candore miser: si uis, Domine, inquit, ab istis/Me maculis mundare, potes. "uolo Christus ut inquit,/confestim redit una cutis proprioque decore/laeta peregrinam mutarunt membra figuram,/inque suo magis est uix agnitus ille colore. Sulla ripresa di Sedulio da parte del Nostro, cfr. Roberts (3), pp. 96-98.
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concerne invece il nesso lacerus pede, è possibile rintracciare ancora una volta un precedente in Prudenzio, cfr. perist. 3, 46 Ingreditur pedibus laceris. Il v. 493 è incorniciato dal predicato verbale e dal soggetto che aprono e chiudono il verso. Il sostantivo pallor ricorre nella medesima posizione anche in alcuni poeti precedenti, a partire da Virgilio, cfr. Aen. 12, 221 Tabentesque genae et iuuenali in corpore pallor; Lucan. 3, 414 Ipse situs putrique facit iam robore pallor; Stat. silu. 5, 1, 70 Quae tibi cura tori, quantus pro coniuge pallor; Sil. It. 13, 582 Et Maeror pastus fletu et sine sanguine pallor; 14, 637 Ne sit spes hosti, uelatur casside pallor; Prud. psych. 464 Cura Famis Metus Anxietas Periuria pallor; Alc. Avit. carm.1, 119 Inficit ora rubor: toto tum corpore pallor. Il termine peregrino, per cui cfr. altresì al v. 499 la forma avverbiale, come affermato in precedenza, indica nel lessico fortunaziano una condizione aliena a quella di salute; il v. 493 infine può essere annoverato fra gli exempla di personificazione cui ricorre Fortunato nella sua opera poetica 432. I vv. 493-494 sono legati tra loro dall’allitterazione verticale del prefisso in-; l’impiego dell’aggettivo inprouisus, che ricorre nella poesia latina non più di una cinquantina di volte nelle sue varie forme433, potrebbe essere ricondotto alla preferenza, motivata da ragioni metriche e stilistiche, di “comodi aggettivi” in luogo di avverbi che potrebbero risultare di difficile inserimento all’interno del tessuto poetico 434. Una forte consonanza a fine verso (traxit/laxat) crea un rimando tra il v. 493 e il v. 494, unendo strettamente i due esametri, con cui si apre la descrizione del processo di guarigione messo in moto da Martino. A differenza di quanto operato con la fanciulla paralitica, in questo caso il santo non si limita al contatto, ma accompagna il tocco apportatore di olio benedetto con la potenza salvifica della saliva infusa mediante il bacio.
432
Cfr. Ammerbauer, p. 144. Esso compare in posizione incipitaria declinato come nel caso presente ed in funzione predicativa in Verg. Aen. 1, 595 Inprouisus ait: "Coram, quem quaeritis, adsum; 9, 49 Inprouisus adest (maculis quem Thracius albis); Ov. rem. 347 Inprouisus ades: deprendes tutus inermem; Stat. Theb. 3, 347 Inprouisus adest, iam illinc a postibus aulae; Proba cento 663 Inprouisus ait: 'coram, quem quaeritis, adsum’. 434 Cfr. Lunelli, p. 27. 433
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Il termine oscula ricorre nella medesima posizione metrica a partire da Virgilio in molti poemi esametrici435. Nella Vita Martini esso compare un numero considerevole di volte, senza contare le occorrenze del medesimo nei carmina436. La voce osculum merita ulteriori precisazioni sia dal punto di vista linguistico sia e soprattutto dal punto di vista concettuale. A differenza di basium e basiare, attestati da Catullo in poi, osculum è una parola antica, frequente e dai molti significati che si incontra presso numerosi autori in tutte le epoche della latinità 437. Il latino classico possiede infatti tre sostantivi diversi per designare il bacio, ossia osculum, basium e sauium, che non sono sinonimi tra loro, bensì dotati di caratteri semantici ben delineati. Gli oscula sono riconducibili ad obblighi sociali, a “situazioni di etichetta”438; i basia a momenti di effusione sentimentale improntati al pudore ed i sauia costituiscono invece una manifestazione concreta della passione amorosa439. La differenza più significativa è quella esistente tra osculum e sauium, per cui cfr. Servio ad Aen. 1, 256, et sciendum osculum religionis esse, sauium uoluptatis440. A tale distinzione di carattere morale è possibile affiancare inoltre anche una differenziazione stilistica 441. Nell’antichità classica pertanto l’osculum rivestiva una
435
Cfr. e.g. Verg. georg. 2, 523; 2, 490; 12, 434; Ov. met. 1, 499; 1, 556; 2, 357; 3, 24; 4, 141; Lucan. 3, 739; 3, 745; 4, 180; Stat. Theb. 2, 641; 3, 151; 4, 20; 4, 27; 7, 194; Val. Flac. 3, 561; 7, 123; Sil. It. 11, 331; 12, 592; 12, 738; Paul. Petric. Mart. 2, 598; 2, 674; 4, 199; Drac. Romul. 9, 171; 9, 207; 10, 126; 10, 163; 10, 265; Coripp. Ioh. 1, 155; 4, 311; 7, 234; Iust. 1, 158. 436 Mart. 1, 387; 1, 494; 1, 504; 1, 512; 2, 484; 3, 275; carm.1, 6, 9; 6, 5, 71; 6, 5, 153; 6, 5, 179; 6, 5, 341; 7, 12, 92; 8, 3, 126; 8, 3, 210; 8, 3, 256; 10, 6, 33; 10, 6, 97; carm. app. 1, 23; 1, 53; 1, 138; 1, 162; 1, 164. 437 Wolf, pp. 255-256. 438 Il termine osculum pertanto ricorre spesso in formule stereotipate, quali osculum ferre alicui o osculum dare alicui, che sottolineano la non reciprocità del gesto ed il suo collocarsi all’interno di ambiti afferenti alla sfera del cerimoniale e della cortesia. Cfr. Cipriani, p. 77; Flury, p. 151. 439 Cfr. Cipriani, pp. 68-102. Wallner, pp-213-227, il quale riporta a testimonianza delle sue osservazioni, fra gli altri Donato (Ter. Eun., 456, 1: Meum sauium. Tria sunt: osculum, basium, sauium . Osculum, sauium. Oscula officiorum sunt, basia pudicorum affectum, sauia libidinum uel amorum); Ps. Isidoro (Diff. 1, 398, Inter osculum et pacem. Pacem amicis, filiis osculum dari dicimus. Uxoribus basium, scorto sauium. Item osculum charitatis est, basium blanditiaem sauium uoluptati); Tertulliano, orat. 14, in cui sono individuate tre diverse tipologie di osculum, a seconda delle finalità: per il saluto dei familiari, come congedo ed infine in segno di omaggio e venerazione per figure importanti, quali re e principi. 440 Cipriani, p. 75. 441 Cfr. al riguardo Axelson, p. 35. Proprio una considerazione di carattere stilistico ha indotto Moreau (pp. 87-97, sp. p. 97) a mettere in discussione la distinzione, sopra rimarcata, tra osculum e sauium: i due termini avrebbero finito per identificarsi a motivo del preponderante uso letterario di osculum, per cui la voce basium sarebbe stata introdotta in seguito per rivestire la sfumatura lessicale del predecessore soppiantato nei testi letterari.
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funzione eminentemente pubblica, che andava dalle relazioni tra familiari ad una finalità reverenziale nei confronti di personaggi di rilievo. Per quanto concerne la pratica del bacio fra le comunità dei primi Cristiani, occorre precisare in via preliminare che l’osculum costituiva segno di saluto già presso gli Ebrei, per cui cfr. Es. 4, 27; Sal. 85, 11e gli stessi Vangeli, in particolare Lc 7, 36-50 e Mt 26, 48442. Le prime fonti cristiane quindi presentano il bacio quale segno di pubblico saluto tra due persone, ma non solo: nella chiesa primitiva il bacio era segno di carità e di pace, come suggerisce il fatto che gli Apostoli esortassero a tale gesto gli altri fedeli ed esso finisce per connotarsi mano a mano come segno di fratellanza e unione 443. In particolare in Paolo trova le sue radici l’espressione “bacio santo”, che acquisisce il senso di pubblica dichiarazione di fede 444, giungendo col medesimo significato fino ai Padri della Chiesa, a partire da Giustino ed Atenagora per arrivare a Tertulliano. Presso quest’ultimo prendono piede due affermazioni specifiche, ossia osculum pacis (de orat. 12), con la quale egli fa riferimento al bacio tra i cristiani prima di accostarsi alla comunione e signaculum orationis, con cui l’autore si riferisce al bacio liturgico di riconciliazione che sigilla la preghiera (de orat. 14)445. Alcune fonti del V sec. continuano a mostrare una crescente diversità nelle pratiche del bacio nel primo cristianesimo. Tale consuetudine diviene sempre più un modo per definire la cristianità come una famiglia: analogamente al bacio scambiato tra consanguinei, infatti, fra i cristiani delle origini il bacio rituale aveva la finalità di costituirli come una famiglia, fondata non su legami biologici, ma su una relazione di fede446. Va precisato infine che con Girolamo, Rufino, Agostino e Paolino di Nola, questa pratica divenne man mano uno strumento potente per consolidare l’ortodossia: il bacio rituale finì per distinguere coloro tra i quali era possibile scambiare un simile 442
Wallner, pp. 214-215. 1 Petr. 5, 14. Cfr. inolre Di Berardino, pp. 466-467. Sul bacio scambiato all’interno delle prime comunità cristiane, cfr. inoltre RAC, pp. 505-519; DNP, VI pp. 944-947. 444 Rom. 16,16; 1 Cor. 16, 20; 2 Cor. 13,12; 1 Thess. 5, 26. Cfr. DACL, II, pp. 117-130; Klassen, pp. 122135. 445 Blaise (1), p. 586 s.v. osculum. Cfr. inoltre gli scritti di Ambrogio, in cui il nesso osculum sanctum diviene sinonimo di signum pacis (hex. 6, 9, 58), ed Agostino (serm. 227) dove il medesimo sintagma è determinato dall’espressione pacis signum est, in riferimento al momento liturgico dello scambio della pace. 446 Penn (1), pp. 161-166. 443
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gesto, ossia coloro che praticavano l’ortodossia, e coloro che erano esclusi da questo rituale, ossia gli eretici447. Il bacio del lebbroso rappresenta tuttavia un hapax: non essendone rintracciabili esempi all’interno delle Sacre Scritture né nell’agiografia precedente, il gesto di Martino si configura come simbolo di carità per eccellenza, divenendo un topos della letteratura agiografica448. La novità del bacio, introdotta da Sulpicio Severo, potrebbe derivare a quest’ultimo tuttavia dal brano evangelico di riferimento, in particolare dalla narrazione di Marco (1, 41) in cui è descritto esplicitamente il sentimento di compassione provato da Gesù nei confronti del lebbroso, cfr. in particolare il termine misertus449. Compiendo questo miracolo pertanto Martino offre una lezione di carità, istituendo un paragone con la vicenda della divisione del mantello con il povero ad Amiens (Ven. Fort. Mart. 1, 50-67): ciò nonostante nell’episodio parigino l’eroismo del santo è sviluppato, giungendo alla sua piena maturazione 450. La guarigione del lebbroso è divenuta pertanto “sintomatica” delle virtù curative di Martino, come testimoniato dalle affermazioni di Gregorio di Tours (Mart. 1, 19), il quale narra di una donna cieca che chiedeva di essere risanata dall’uomo che poteva guarire un povero lebbroso con un bacio 451. Tale gesto diviene centrale all’interno del racconto fortunaziano, probabilmente sotto l’influsso delle arti visive (cfr. gli affreschi che si stavano realizzando all’interno della cattedrale di Tours), le quali prevedevano la focalizzazione dell’attenzione sull’atto distintivo che portava a termine il miracolo452. Fortunato infine attribuisce la pratica del bacio dei lebbrosi anche a Radegonda, allorquando al capitolo XIX della sua biografia, egli presenta la santa mentre si prende cura di alcuni lebbrosi, dopo averli abbracciati e baciati. In questo caso l’autore impiega il predicato osculabatur, a differenza del testo poetico in cui si pone in evidenza l’impetuosità del gesto, espressa icasticamente mediante il sintagma ad oscula traxit, collocato a fine verso e richiamato peraltro dalla scelta lessicale operata all’inizio del v. 495. 447
Penn (2), pp. 625-640, sp. pp. 639-640. Quesnel, p. 27 nt. 83. Dietro all’atto del bacio del lebbroso, è stata ravvisata altresì una certa valenza ascetica, in quanto gesto di mortificazione data la ripugnanza dell’“oggetto” baciato, cfr. Ciccuto, p. 288. 449 De Nie (1), p. 163. 450 Fontaine (2), pp. 866-867. 451 Cfr. Roberts (3), p. 86. 452 Cfr. Robers (7), pp. 208-209. 448
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Tornando ora al passo in esame, al v. 494 è documentato il sostantivo medicamen, che si ritrova nell’opera fortunaziana esclusivamente in quattro occorrenze, due tratte dalla Vita Martini e altrettante estrapolate dai carmina453. Oltre al presente episodio del lebbroso, il termine ricorre dunque nella resurrezione del fanciullo di Chartres, nel carme dedicato a Gelesvinta ed infine nel carme, più volte menzionato, composto per il restauro della basilica di Tours, in particolare in riferimento al potere curativo della lettere inviate da Martino. Nei poeti precedenti il termine compare soprattutto in Ovidio 454, nell’opera di carattere medico di Sereno Sammonico 455 e nei Cristiani, in particolare Prudenzio, Paolino Nolano, Paolino di Périgueux e Draconzio456. Anche in questo caso, è possibile constatare la predilezione da parte dell’autore per il suffisso -men, proprio del linguaggio poetico elevato, a discapito del suffisso equivalente -mentum, tipico della lingua d’uso e della prosa letteraria 457. Il termine medicamen, in uso dall’età ciceroniana, analogamente a quanto accade per altri suffissati in -men458, è protagonista di un forte sviluppo nella lingua poetica e viene evitato nella prosa a vantaggio del corrispettivo medicamentum, come dimostrato dal fatto che lo stesso Cicerone nei discorsi impiega il primo termine una sola volta contro le quindici ricorrenze del secondo. Quest’ultima parola infatti risale al periodo arcaico, in cui il suffisso –mentum è assai produttivo, soprattutto nei campi della lingua d’uso 459; di esso è rintracciata una sola occorrenza in poesia, risalente appunto all’età plautina460. Il secondo emistichio del v. 496 è contraddistinto dall’iperbato e dalla dieresi bucolica che isola la clausula finale, la quale rimanda palesemente a Paul. Nol., carm. app. 1, 81 Flagris dorsa, alapis maxillas, ora saliuis e Coripp. Ioh.7, 328; Aspera 453
Cfr. Mart. 3, 184 Qui restas, precor, adfer opem medicamine uerbi; carm. 6, 5, 159 Quidquid erit, crucior; nulla hic medicamina prosunt; 10, 6, 69 Vnde salutifero medicamine charta fouebat. 454 Cfr. fra gli altri exempla, Ov. met. 2, 122 Tum pater ora sui sacro medicamine nati; 4, 388 Fecit et incesto fontem medicamine tinxit; 6, 140 Sparsit, et extemplo tristi medicamine tactae; 7, 116 Sensit anhelantes (tantum medicamina possunt); 7, 262 Interea ualidum posito medicamen aeno. 455 Seren. 183; 224; 268; 286; 299; 391; 553; 607; 767; 805; 812; 961; 1052; 1064. 456 Prud. cath. 10, 52 Corpus medicamine seruat; apoth. 677 Contrectans digitis. Luteum medicamen operta; 690 Ante tenebrosam, proprii medicamen et oris; Paul. Nol. carm. 27, 427 Composuit gemino uitae medicamina libro; 31, 71 Sed quia nec legis posito medicamine primi; Paul. Petric. Mart. 1, 279 Lectaque in antiquis quondam medicamina libris; 2, 525 Sternitur; a domino uerbi medicamina poscens; 4, 138 Nec mora contactum dextrae medicamine uulnus; Drac. laud. dei 1, 744 Impendis cui, sancte, tuam medicamine nullo; satisf. 65 Aspis habet mortes, habet et medicamina serpens. 457 Cfr. Lunelli, pp. 99-100. 458 Sull’impiego dei suffissati in -men in particolare nelle opere poetiche, cfr. Perrot, p. 104; 112-113 459 Cfr. Perrot, pp. 109-110; 125. 460 Cfr. Plaut. Pseud. 870 Quem medicamento et suis uenenis dicitur.
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subtracta feruescunt ora saliua. Il termine saliua ricorre anche nel verso finale del passo in esame che costituisce l’explicit dell’intero primo libro 461. Nei carmina, Fortunato lo impiega due volte all’interno del medesimo componimento, ancora una volta nel carme 10, 6, nei versi relativi alla guarigione del lebbroso per mezzo del bacio del santo 462. Tuttavia va rilevato che nel verso in questione il termine è impiegato al plurale, analogamente a quanto avviene, in Lucr. 4, 638; Prop. 4, 7, 37; Colum. 6, 9,2; Pers. 2, 33; 6, 24, presso i quali, come rilevato, si ha tale forma in quanto trattasi di nomi di materia463; fra i poeti cristiani il termine è declinato nel medesimo numero in particolare in Giovenco e Prudenzio 464. Per quanto concerne l’episodio in esame, il motivo della saliva è presente esclusivamente nella narrazione fortunaziana dal momento che nella prosa sulpiciana si ritrovano i predicati osculatus est e benedixit per designare le azioni purificatrici di Martino, in maniera non dissimile dal verso paoliniano che recita oscula dat misero, uultu connexus et ore465. La saliva, stando alla tradizione letteraria greca e latina e a quella mishnaica, aveva diverse funzioni: essa rivestiva un valore rituale apotropaico, veniva impiegata come medicina ovvero come veleno ed infine in qualità di rimedio magico 466. Ma verosimilmente sono ancora i testi evangelici a fungere da modello per Fortunato, in particolare con la guarigione compiuta da Gesù a beneficio del cieco di Betsàida (Mc 8, 22-26), del sordo-muto (Mc 7, 31-37) e del cieco nato (Gv 9, 1-12)467. Va precisato tuttavia che nella Vulgata non si trova mai impiegato il termine saliua: in Marco si rinviene infatti la forma participiale expuens e nel testo giovanneo l’espressione ex sputo. La funzione risanatrice della saliva è descritta da Venanzio,
461
Mart. 1, 513 Et fontem fluidae maculae lauat unda saliuae. carm.10, 6, 36 Quod Iordanis agit tacta saliua facit; 98 Curat et infectum pura saliua uirum. 463 Cfr. Stegman-Kuehner, vol. I, p. 76. 464 Iuvenc. 4, 64 Iudaeae gentis faciemque lauere saliuis; Prud. ham. 592 Infusasque bibit caro pereunte saliuas; perist. 1, 101 Spumeas efflans saliuas, cruda torquens lumina. In Giovenco l’espressione fa riferimento agli sputi di scherno ricevuti da Cristo nella Passione; anche nelle opere prudenziane, essa è impiegata con accezione negativa, nell’Hamartigenia in relazione al veleno emesso dalla bocca del maschio nella fecondazione della vipera e nel Peristephanon in rapporto ad un uomo posseduto dal demonio. 465 Paul. Petric. Mart. 2, 623. 466 Su tale distinzione cfr. Artes Hernandez (pp. 155-170), il quale nella sua esposizione riprende la distinzione elaborata già nell’antichità da Plinio (nat. hist. 27, 36.1-39.8). 467 Al riguardo cfr. Artes Hernandez, pp. 171-182. 462
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inoltre, in una delle biografia in prosa, ossia quella concernente S. Germano, in relazione a tre guarigioni operate dal santo468. L’uso della saliva a scopo taumaturgico può essere annoverato pertanto fra i procedimenti attraverso i quali operava la “medicina celeste” mediante un linguaggio rituale, assimilandola in tal modo ad altri riti quali l’unzione con l’olio, il segno della croce e l’applicazione della reliquia 469. Al v. 497 acquistano particolare rilievo il predicato in posizione iniziale e l’attributo unguiferum, derivato da unguen, che costituisce un neologismo fortunaziano, in luogo dell’esistente unguiniferum470, creato probabilmente per ragioni metriche. Tale aggettivo rientra infatti nel novero delle nuove formazioni che il poeta realizza per evidenti motivi estetici e metrici, rifacendosi al greco: nel caso specifico la formazione in –fer e –ger si contrappone “alla terminazione dell’aggettivo greco in -φορος che già Cicerone trovava di valore poetico ed usava più in poesia che in prosa”, cfr. medellifer (Mart. 1, 362), amoenifer (Mart. 4, 4), legifer (carm. 9, 2, 25), floriger (carm. 3, 9, 1)471. Il sostantivo tactum riprende in figura etimologica il tetigit del verso precedente, ponendo l’accento sul tocco apportatore di salvezza, analogamente a quanto avviene nell’antecessore Paolino, per cui cfr. Mart. 2, 624 Nec metuens tali faciem sordescere tactu; 627 sensit in attactu diuini munera doni. Non vi è alcun cenno alla sfera del tatto nell’ipotesto né nella versificazione di Sedulio, mentre nell’episodio originale della guarigione del lebbroso narrato nei sinottici, si sottolinea che Gesù opera il risanamento per mezzo del tocco della mano, cfr. Mt. 8, 3 et extendens manum tetigit eum Iesus dicens uolo mundare et confestim mundata est lepra eius; Mc 1, 41 Iesus autem misertus eius extendit manum suam et tangens eum ait illi uolo mundare; Lc 5, 13 et extendens manum tetigit illum dicens uolo mundare et confestim lepra discessit ab illo.
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Vita Germ. 28, 30; 68, 33; 69, 185, 36. Cfr. Lavarra p. 173. 470 Cfr. Meneghetti p. 18; Blomgren (9), pp. 25-26, che concorda con l’interpretazione di Leo, dissentendo da quanto affermato nel Forcellini (IV, p. 865): “cfr. Ven. Fort. Mart. 1, 497: unguibus instructus est”; l’errata interpretazione è ripresa anche da Tardi (p. 232), che intende “qui porte des ongles”. 471 Clerici (1), p. 237. 469
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Innovativa l’espressione languoris sarcina472: il termine languor, similmente ad altri ricorre una seconda volta nella sezione finale del passo, precisamente al v. 503 complexu res dira fugit, languoris iniqui e nel complesso della produzione fortunaziana esso ritorna in ulteriori tre versi, rivestendo uniformemente il significato di “malattia, malanno” 473. Ancora una volta ad ultimare il risanamento del malato è il tocco portatore di unguento474, che in questo specifico episodio segue al bacio del santo. Tuttavia, a differenza di quanto descritto nella guarigione della paralitica in cui si passa subito ad indicare l’olio benedetto, ora il poeta pone l’accento sul contatto, mediante l’impiego dei corradicali tactum e tetigit. Nella terzina successiva (vv. 498-550) il poeta si sofferma sugli effetti dell’intervento di Martino che permette il ritorno dell’aspetto esteriore del lebbroso perduto a causa della malattia. Tale ritorno è espresso in maniera incisiva dall’utilizzo di tre predicati redit (v. 498), remeat475 (v. 499) e rescribitur (v. 500), caratterizzati dal prefisso re- e posti logisticamente nella medesima posizione all’interno del verso, il primo dopo la cesura del secondo trocheo, il secondo dopo quella tritemimera e l’ultimo dopo la cesura pentemimera. La ricomparsa dell’antiche sembianze dell’uomo, prima perdute a causa della malattia, è resa mediante l’aggettivazione, in particolare aduena (v. 498) e peregrina (v. 499)476. Il primo dei due termini ricorre all’interno dell’opera fortunaziana, in particolare nei carmina, numerose volte, una delle quali nuovamente in coppia con l’attributo peregrinus477. Come evidenziato dalla traduzione sopra proposta, sono messi in luce, mediante l’aggettivazione il cambiamento del corpo dell’uomo ed il passaggio 472
Un’espressione analoga potrebbe essere ravvisabile in Iuvenc. 1, 736 Vt caream tandem languoris pondere tanti. Quest’ultimo verso appartiene alla narrazione dell’episodio della guarigione del lebbroso da parte di Gesù. 473 Mart. 1, 368; 4, 479; carm. 8, 11, 7. 474 Cfr. la guarigione della paralitica, Mart. 1 , 426. 475 Il predicato remeare compare altresì in Paolino, cfr. Mart. 2, 628 et remeare citam raptim per membra salutem. Il prefisso re- ritorna anche nei versi paoliniani sempre a sottolineare l’idea di rinnovamento, cfr. 2, 629 dispergi et celerem renovata in carne nitorem. 476 Su peregrinus, cfr. quanto affermato nella trattazione relativa all’episodio della paralitica; su aduena, cfr. Blomgren (1), p. 169, ove lo studioso cita a titolo esemplificativo il verso in esame. Quest’ultimo termine inoltre, secondo un uso diffuso nella lingua latina, in special modo quella di età tarda, è impiegato all’interno dell’espressione in funzione di aggettivo, cfr. Stegman-Kuehner, vol. I, pp. 232-233. 477 Mart. 3, 350 Corruit ante pedes titubans lepus aduena supplex; carm.1, 21, 36 Piscibus exclusis aduena regnat aquis; 3, 3, 19 Aduena si ueniat, patriam tu reddis amatam; 4, 10, 16 Aduena mox uidit, hunc ait esse patrem; 6, 5, 244 Pauperibus tribuens aduena mater erat; 10, 9, 77 Praesentatur item mensae Rheni aduena ciuis; carm. 6, 5, 113 Quem, precor, inueniam peregrinis aduena terris.
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ad una rinnovata esistenza; non a caso il termine aduena riveste nel latino cristiano il significato di “nuovo battezzato”478. Il confronto tra la rigenerazione prodotta dal processo di guarigione compiuto da Martino e la rinascita battesimale, qui soltanto suggerito velatamente, verrà reso esplicito nella conclusione dell’episodio mediante l’efficace paragone tra la saliva del santo e le acque del fiume Giordano. L’impiego di peregrinus con tale significato, ossia quello di alieno alla salute, potrebbe derivare invece con ogni probabilità al Nostro ancora una volta da Sedul. carm. pasch. 3, 31 laeta peregrinam mutarunt membra figuram479. I vv. 30-31 del III libro, in cui Sedulio rappresenta il ritorno alla salubrità del lebbroso guarito da Gesù, presentano infatti notevoli affinità lessicali con il passo in esame, ravvisabili in particolare nelle espressioni confestim redit una cutis (v. 30) e peregrinam…figuram (v. 31). Tornando ora agli aspetti retorici dei versi in esame, è da rilevare ai vv. 498-499 l’allitterazione tra figura, faciem e fronte. Come evidenziato da tali termini, nella presente descrizione Fortunato sottolinea il ricomponimento di quanto appare alla vista, per cui cfr. inoltre i nessi ad speculum480 (v. 499) e rescribitur oris imago (v. 500). In particolare quest’ultima espressione necessita di alcune precisazioni. Essa infatti pone l’accento su una specifica parte del corpo del lebbroso, il volto, utilizzando una particolare metafora, quella grafica. Il poeta ricorre esclusivamente in questo passo all’immagine della riscrittura, che va pertanto a sostituirsi alla metafora architettonica, maggiormente cara a Fortunato, per cui si prenda in considerazione, fra gli altri loci, quello relativo alla guarigione della paralitica di Treviri481.
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Cfr. ThLL, I, col. 829, r. 7 ss. Quesnel, p. 126 nt. 84. Cfr. Blaise (1), p. 61 s.v. advena: “nouveau converti”. Il termine è impiegato probabilmente con significato affine in Paul. Nol. carm. 27, 550 in relazione ai pellegrini pagani che si convertono alla religione cristiana, dopo essersi recati alla basilica votata a San Felice. 479 Sul confronto tra il testo di Sedulio ed i versi fortunaziani, cfr. Roberts (3), pp. 97-98; Roberts (7), pp. 207-209; 225. 480 Tale sintagma in poesia è assai raro, cfr. Mart. 6, 64, 4 Sed patris ad speculum tonsi matrisque togatae; Paul. Petric. Mart. 2, 113 Traxerat ad tantae speculum uirtutis, ut inde. 481 Cfr. Roberts (3), pp. 84-85.
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La componente grafico-visiva di questi versi è richiamata altresì nella clausula del v. 499 dal termine caracter, assai raro in poesia482, il cui significato originario rimanda alla pratica della scultura483. In questo caso specifico con il termine caracter il poeta alluderebbe pertanto all’aspetto del lebbroso, analogamente a quanto accade in altre due occasioni Mart. 3, 157 ed expos. Symb. 7; in quest’ultima occorrenza l’autore si riferisce al Cristo con la seguente espressione: uere filius est uerbum et speculum et caracter et imago uiuens patris uiuentis484. Nella prima metà del v. 500 va notata l’allitterazione delle dentali, bilanciata nel secondo emistichio dall’allitterazione della vibrante, evidente specialmente nel sintagma rescribitur oris. Al medesimo verso merita attenzione anche la costruzione, in cui l’aggettivo ed il sostantivo cui esso si riferisce incorniciano il predicato collocato in posizione centrale. La focalizzazione dell’attenzione sulla descrizione della ristabilita sanità è un elemento peculiare della parafrasi venanziana. L’ipotesto sulpiciano non si sofferma affatto su tale aspetto, mentre Paolino allude solamente al ritrovato candore della pelle dell’uomo485. Anche Sedulio, da cui Fortunato importa l’inclinazione ecfrastica nella presentazione sia dei sintomi della malattia che dei caratteri della guarigione, sembra in questo caso risolvere in maniera, per così dire, più snella del successore. Dal v. 501 prende avvio l’elogio di Martino, posto a conclusione non solo dell’episodio in questione, ma dell’intero primo libro. Il passo si apre con una esclamazione del poeta introdotta da quam, mentre in posizione incipitaria al v. 501 è collocato il termine uirtutum, ad indicare che il santo viene celebrato in questo caso per i suoi poteri di guarigione. Il termine uirtus compare con il significato di miracolo, inteso come manifestazione della potenza divina nella Vulgata, traducendo il δύναμις della Settanta. Difficile stabilire se già nel latino profano tale vocabolo rivestisse il senso di “prodigio”, analogamente a mirabile e miraculum486. Ad ogni buon conto, esso si
482
Esso è utilizzato da Fortunato e da un unico predecessore collocabile nella Gallia del V sec., Orienzio, carm. app. 3, 67 Monstrat adorandum tota ratione character. 483 Forcellini, I, p. 600. 484 ThLL, III, coll. 993-994, rr. 2-5. 485 Paul. Petric. Mart. 2, 629 dispergi et celerem rinouata in carne nitore. 486 Cfr. Vermeer, pp. 62-65; 83 ss.; 97-99.
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diffonderà in seguito presso gli autori Cristiani, primi fra tutti Tertulliano, Girolamo e Cipriano, andandosi a collocare fra i numerosi calchi semantici dal greco 487. Venendo ora all’analisi del v. 501, è possibile osservare che il primo emistichio costituisce un’evidente autocitazione, cfr. carm. 3, 22a, uirtutum quid celsa fides mereatur honoris, nel quale il poeta si rivolge al vescovo Avito. In posizione di rilievo al centro del verso il nesso celsa fides, che ritorna nella Vita Martini in 2, 217 O pietas et celsa fides, praesumptio dulcis, ancora una volta in riferimento a Martino impegnato in tal caso nella lotta contro il demonio, e nel carme dedicato al re Cariberto, in relazione alla fede dei suoi antichi progenitori488. Il sintagma rappresenta fra l’altro una ripresa letterale di Sedulio, che attribuisce l’espressione alla donna Cananèa, implorante l’aiuto di Gesù per la figlia indemoniata489. L’impiego di fides preceduto da un aggettivo all’interno di una frase esclamativa è presente anche in Paul. Nol. carm. 19, 550. Da notare infine la ripresa dell’avverbio concite, il quale, analogamente a quanto si verifica nel verso iniziale del racconto, va a costituire il dattilo nella clausula finale del verso. Il poeta sembra avere l’intenzione di richiamare a livello linguistico e stilistico quanto operato da Martino nel miracolo sopra descritto, per esaltarne al massimo la potenza, ricorrendo nuovamente alla tecnica della “Ringkomposition”. Il verso seguente si caratterizza per l’evidente “Klangfigur” che percorre l’intero esametro e per l’iperbato iniziale, mentre il predicato è posto in forte posizione di rilievo al centro del verso, dopo la cesura pentemimera. Introducono la metafora della guerra, che investe ancora una volta Martino del ruolo di miles Christi, i termini proelia e perierunt ed il sintagma pacis ab officio, che si pongono tra loro in posizione ossimorica 490.
487
Cfr. Meneghetti, p. 102; Löfstedt (2), p. 213, il quale inserisce fra gli esempi di mutamento di significato dal latino classico a quello tardo, in particolare quello ecclesiastico, il termine uirtus da intendere con “prodigio, miracolo, oggetto con poteri miracolosi”; Mohrmann (vol. I), p. 248; Schrijnen, pp. 41-44. Quest’ultimo tuttavia riporta la voce uirtutes come calco di ’αρεταί, asserendo che il “passaggio semantico era favorito dal fatto che uirtus nella lingua popolare significava il concreto atto di valore” (pp. 43-44); Blaise, p. 851. Lo studioso in relazione al termine uirtus si esprime nei seguenti termini: “manifestation de puissance, pouvoir de faire des miracles, prodigies, miracles”. Cfr. inoltre Johnson, pp. 117-124, sp. p. 124; Neri, p. 69. 488 carm. 6, 2, 31 Cuius celsa fides eduxit ad astra cacumen. 489 Sedul. carm. pasch. 3, 248 Vox humilis, sed celsa fides, quae sospite nata. Cfr. Mt 15, 21-28. 490 Sulla militia Christi, cfr. Lorié S. J., pp. 102-105. Sull’importanza rivestita dal medesimo tema nella Vita Martini, cfr. Junod-Ammerbauer, pp, 32-35; Roberts (3), p. 93.
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Mediante tali scelte linguistiche il poeta intende probabilmente evocare l’inizio della vicenda biografica del santo, quando ancora indossava le vesti del soldato, ed in particolare l’episodio della condanna di Martino a combattere disarmato davanti ai nemici, che tuttavia chiesero la pace il giorno prima di quello stabilito per la battaglia, salvandolo da morte certa, cfr. Mart. 1, 68-77491. Il fatto è richiamato pertanto dalla risposta pacifica di Martino, costituita dal bacio del lebbroso, all’“atto di guerra” dichiarato dalla malattia492. La sequenza pacis ab+ablativo, analogamente alla metafora della guerra, si ritrova anche in carm.1, 6, 10 pacis ab amplexu morbida bella tulit ed è rintracciabile nella produzione poetica precedente soltanto in un altro parafraste, Aratore, da cui con ogni probabilità il Nostro ha mutuato l’espressione 493. Il sostantivo pax merita particolare attenzione, dal momento che esso ricorre altresì negli altri due testi poetici in cui Fortunato racconta il presente episodio, cfr. carm.1, 6, 10 e 10, 6, 34, nei quali il medesimo termine va interpretato nel senso di “'αγάπη”, “caritas”. Nei versi in esame lo stesso sostantivo è attribuito alla virtù del santo, ma dato il riferimento alla lotta contro il male, si pone a metà tra il significato proprio del termine e quello sopra indicato di caritas, di quella virtù veramente cristiana494. Il binomio officium pacis, che sembra costituire una creazione originale, è impiegato da Fortunato per indicare il bacio del santo al lebbroso, analogamente a quanto accade in carm.10, 6, 34, dove l’espressione quod ab ore dedit pax presuppone quale antecedente sottinteso del pronome relativo il termine osculum495. È evidente pertanto che con il sintagma pacis ab officio il poeta indente fare riferimento al bacio della pace sopra menzionato, talora designato anche con il semplice pax496. Ai vv. 503-504 prosegue la descrizione della battaglia ingaggiata dai baci contro il male definito con terminologia varia e peculiare del linguaggio fortunaziano, come res dira, pestis ed infine languor iniquuus. 491
Cfr. Sulp. Sev. Mart. 4, 1-7; Paul. Petric. Mart. 1, 140-178. Cfr. Roberts (3), pp. 86-87. 493 Arat., act. 1, 102 pacis ab indicio bellum lupus intulit agno. Tale rimando è registrato altresì da Blomgren (7) p. 154, che commenta al riguardo “utrobique in initio hexametri”. 494 Cfr. Blomgren (1), pp. 188-189. Lo studioso afferma che la sfumatura lessicale ivi riscontrata nel termine pax è ravvisabile anche in Prud., psych. 778. 495 Cfr. al riguardo Blomgren (1), p. 189. 496 Du Cange, IV, p. 741; V, p. 156; Mohrmann (vol. I), pp. 28- 30. Cfr. inoltre Blomgren (1), pp. 188189. 492
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Ancora una volta grande affinità lessicale lega versi testé citati al carm. 10, 6, in particolare al v. 50 Hic digitum ut posuit, pestis iniqua fluit, collocato all’interno della narrazione della guarigione dell’uomo morso da un serpente operata dal santo. Il v. 503 è ripartito in due dalla pausa sintattica sottolineata dalla cesura semisettenaria, mentre quella semiternaria isola nell’incipit del verso il sostantivo complexu, che ricorre nell’opera poetica fortunaziana in due ulteriori occorrenze 497. Il nesso con valore di specificazione rinvenuto a fine verso è riferito all’ablativo assoluto con cui si apre il verso successivo, creando in tal modo un distico strettamente unito in enjambement. Al v. 504 il costrutto ablativale in posizione incipitaria è isolato dalla cesura del secondo trocheo, mentre l’altro emistichio, racchiuso da omeoptoto, è caratterizzato dall’iperbato. In questo verso prosegue il tema della battaglia ingaggiata dal santo per mezzo dalla particolare arma del bacio che, protagonista già nella poesia erotica pagana di metafore belliche498, si inserisce in questo specifico contesto nella più ampia campagna contro il male, condotta da Martino sotto varie forme. Quanto ai nessi res dira (v. 503) e peste cadente (v. 504), è possibile affermare che si tratta di due accostamenti terminologici non rinvenuti nella produzione poetica precedente. L’allitterazione a cerchio della bilabiale sorda apre e chiude il verso, conferendo maggiore unità al medesimo. Il distico successivo (vv. 505-506) costituisce la prima di una serie di esclamazioni che inneggiano alla potenza della fede di Martino e che, andando oltre il caso specifico della guarigione del lebbroso, allargano lo scenario sulla figura del santo quale taumaturgo, fornendone una visione a tutto tondo499. L’espressione inclita religio con cui si apre il v. 505 è propria di Fortunato ed afferisce alla santità di Martino in quanto monaco, dal momento che il termine religio nel lessico della vita monacale 500 (cfr. Girolamo e Cassiano), analogamente ad altri, quali sanctitas instantia ed opus dei, veniva impiegato pe
497
Mart. 3, 413 Et quasi complexum recreet per uerba parentem; carm. 2, 15, 11 Quam male complexus, cupiens calcare prophetas. 64 Cfr. e.g. Tib. 1, 8, 36-37 Et dare anhelanti pugnantibus umida linguis/osculaet in collo figere dente notas; Ov. met. 4, 358 Pugnantemque tenet luctantiaque osculacarpit. 499 Cfr. Roberts (3), p. 99. 500 Cfr. in particolare Girolamo (e.g. ep. 22, 26, 1) e Cassiano (Coll. 14, 1, 3).
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501
. Il riferimento alla vita ascetica dei monaci mediante il medesimo termine è
ravvisabile in maniera più esplicita in carm. 4, 11-12, allorquando in relazione a Vittoriano, abate del monastero di Asan (Spagna), il poeta afferma: religionis apex, uitae decus, arma salutis502. Il paragone tra la società dei monaci e quella delle api proviene a Fortunato verosimilmente da Girolamo (ep. 58, 3: examina monachorum)503, mentre il sintagma religionis apex potrebbe derivare al poeta da Seneca, il quale lo impiega all’interno di una scena di necromanzia, in relazione al ministrante del sacrificio, descritto in toni alquanto dispregiativi 504. Il. v. 506, a motivo della presenza di diverse figure di suono, dall’allitterazione alla paronomasia, costituisce un exemplum dell’artificiosità retorica della poetica fortunaziana, dando avvio ad una serie di “Wortspiele” che arricchiscono l’explicit del primo libro505: in primo luogo, esso si configura come esametro oloallitterante, che trova il suo modello lontano in Enn. ann. 109 V2 O Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti506; i termini fida, fides e fidelis inoltre costituiscono figura etimologica. Infine il richiamo tra foedere e foeda è esclusivamente fonico, mentre dal punto di vista semantico i due termini possono considerarsi in antitesi tra loro. Particolare attenzione merita il termine formosare, creazione venanziana a partire dall’aggettivo formosus507, da intendere con il significato di “ornare, decorare”508. La neoformazione è riconducibile al grande sviluppo, nel linguaggio fortunaziano, dei verbi della prima coniugazione, nella quale confluiscono molti verbi delle altre coniugazioni e le nuove costruzioni509. Nel caso specifico il neologismo si colloca in opposizione all’esistente foedare, ripreso fra l’altro dalla forma aggettivale foeda, che si presenta subito di seguito. 501
Lorié, pp. 71-73; 93; 100; Mohrmann (vol. IV), p. 294; 296. Il medesimo nesso compare anche in altre due occorrenze, nella prima in riferimento al vescovo Gregorio (carm. 5, 10, 12), nella seconda in rapporto al re Chilperico (carm. 9, 1, 144). 503 Reydellet (3), p. 203 nt. 143. 504 Sen. epigr. 406, 2 (R). 505 Cfr. e.g. Meneghetti, p. 258; Ammerbauer, pp. 137-139. La studiosa (p. 137) annovera i v. 506, 508 e 510 fra gli exempla di adnominatio, definendo quest’ultima la figura di suono di gran lunga più popolare presso Fortunato; Roberts (5), p. 281, definisce il verso in esame “the most extreme example in the poem of Fortunatus’ precious play with language”; Nazzaro (6), p. 185. 506 Per quanto concerne questa “Klangfigur” insistita, cfr. altresì Naev. com. 113 R3 Libera lingua loquemur ludis Liberalibus.. 507 ThLL, VI (1), col. 1110 rr. 63-65. 508 Du Cange, III, pag. 568. 509 Cfr. Clerici (1), p. 243. Lo studioso afferma che molte creazioni venanziane, nonostante l’erudizione che caratterizza alcune forme, sono connesse ai neologismi della lingua parlata. 502
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Il verso testé esaminato, data la ricercatezza formale che lo contraddistingue, ha sul lettore un effetto disorientante; tuttavia ancora una volta il lusus poetico non rimane fine a se stesso, ma ha palesemente una funzione encomiastica, esaltando l’inclita religio di Martino510. Al v. 507 prende avvio l’evocazione della regione nella quale opera il santo, definita “felice” proprio a motivo della presenza di Martino ravvisabile dovunque sul territorio. Il linguaggio di questa apostrofe conclude degnamente sia l’episodio del lebbroso sia dell’intero libro I. In generale, è possibile affermare che Fortunato sembra solitamente interessato a collocare spazialmente i miracoli, al contrario di quanto avviene in Paolino, il quale tralascia ad esempio di riferire che l’incontro di Martino con il lebbroso ha avuto luogo a Parigi511. Venanzio pertanto alla fine di questo libro pone l’attenzione su tutta l’area resa sacra dagli interventi prodigiosi di Martino, inclusa la città dei Parisii, che costituirà la prima tappa del viaggio di ritorno del suo libellus da Tours all’Italia, posto dal poeta a chiusura della sua opera512. Egli pertanto riconosce due impulsi esercitati dal culto di Martino, uno “centrifugo” che diffonde la devozione al santo in numerose località tra la Gallia e l’Italia, ed uno “centripeto” che si concentra nell’area interessata dall’episcopato e dalla missione di Martino ed è rappresentata in particolare dalla città di Tours513. Il sintagma felix regio ricorre nella medesima posizione metrica nei carmina, in particolare in 6, 5, 100 Stas felix regio, cur ego praeda trahor?; 10, 18, 7 Sit regio felix felicis regis amore. Ancora al v. 507, il secondo emistichio è costituito da un trikolon, i cui membri sono declinati nello stesso caso e coordinati per asindeto. La medesima costruzione inoltre è riportata nella seconda metà del verso successivo in cui la triade di parole è accumunata altresì da fonemi allitteranti. Nello stesso verso sono da segnalare la figura etimologica tra inlustris e lustrante, la paronomasia tra lustra e ligustra ed il lusus uerborum, che percorre l’intero verso e che
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Roberts (5), pp. 281-282. Soltanto in un caso Paolino precisa la località in cui Martino opera il miracolo, cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 486. 512 Mart. 4, 621-712. 513 Roberts (3), p. 99; Roberts (7), p. 237. 511
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ruota attorno alla ripetizione del gruppo lustr- (cfr. inlustris lustrante lustra ligustra), in particolare la rima tra gli ultimi due termini. Gli elementi stilistici evidenziati, soprattutto l’insistenza sul gruppo lustr-, conducono ad osservare, come rilevato da Quesnel, che il contesto sembra imporre il senso di “purificare” piuttosto che quello di “percorrere” 514. Contribuiscono a ciò anche alcune delle scelte lessicali attuate dal poeta, quali lustrum, data la doppia valenza semantica del termine, e ligustrum, traducibile genericamente con “arbusto”, ma impiegato spesso quale termine di paragone per indicare il colore bianco ed il candore, simbolo per eccellenza di purezza515. Nel verso successivo proseguono gli oggetti retti dall’ablativo assoluto lustrante uiro, presentati in accumulatio516, fra i quali urbes e rura potrebbero considerarsi in contrapposizione, analogamente a domus e templa, mentre oppida e moenia potrebbero ritenersi espressioni pressoché sinonimiche. Al v. 510 il poeta si rivolge nuovamente alla regione mediante il relativo quae e, dopo averla definita “felice” e “illustre” grazie alla presenza del santo, afferma che essa merita i gesti compiuti da Martino. Come nel v. 508, anche in questa occorrenza egli è definito con il termine uir determinato dall’aggettivo insignis, in poliptoto con il successivo insignia; i due termini sono inoltre legati da figura etimologica con signa517. Le due coppie uiri insignis e insignia signa sono costruite chiasticamente ed entrambe sono precedute e seguite da un solo termine; dal punto di vista metrico esse sono ritmate dalla cesura pentemimera, la prima, e dalla dieresi bucolica, la seconda. Persiste dunque l’artificiosità retorica che caratterizza la sezione finale del libro I, finalizzata ad evidenziarne la solennità. Lampante infine ancora una volta il richiamo a carm. 10, 6, 93-96, con il riferimento alla Gallia, fortunata per aver ricevuto in dono Martino, inlustrem meritis (cfr. inlustris del v. 508), che “detiene, quale senatore, il posto più alto nella dimora dei cieli” 518.
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Quesnel, p. 28 nt. 85. ThLL, VII (2), col. 1397 rr. 47-54. 516 Cfr. Ammerbauer, p. 139. 517 Cfr. Elss, p. 57. Dagianti (pp. 135-136) registra numerosi esempi di giochi di parole simili a quelli rinvenuti nei versi in esame (figura etimologica e poliptoto), tratti tuttavia esclusivamente dai carmina. Cfr. infine Junod-Ammerbauer, p. 138. 518 Trad. Di Brazzano (1), p. 517. Sulle particolarità morfologiche nell’impiego dell’aggettivo inlustris in Venanzio, cfr. Meneghetti, p. 123. 515
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Nell’ultima terzina (vv. 511-513) il poeta focalizza nuovamente l’attenzione sul miracolo della guarigione del lebbroso, esplicitando il paragone con la purificazione ottenuta mediante le acque del Giordano ed il rito del battesimo. Il nominativo Iordanis, sconvolgendo la costruzione della frase, si trova in forte posizione di rilievo al centro del secondo verso (v. 512), in maniera analoga a quanto avviene per magnalia del verso precedente519; l’inciso magnalia cetera vincens mette ancora una volta in evidenza la maggiore importanza attribuita a questo prodigio rispetto agli altri compiuti dal santo520. Al medesimo verso si trovano in posizione incipitaria il nesso relativo e l’espressione ab ore, in cui è ripreso il momento dell’effusione della saliva dalla bocca del santo (cfr. v. 496). Al verso successivo ritorna invece il termine leprosi (cfr. leprosus v. 488) a costituire la “Ringkomposition”, cui si accennava precedentemente. La terzina si conclude con una coordinata in cui prosegue la metafora delle acque purificatrici arricchita dal’elemento della fluida macula (v. 513), in posizione di rilievo tra le cesure tritemimera e pentemimera. Il termine macula afferisce allo stesso campo semantico della lebbra, similmente a leprosi del verso precedente, mentre tutti gli altri vocaboli del medesimo verso (fontem, fluidae, lauat, unda) sono riconducibili a quello delle acque, anticipati al v. 512 da Iordanis e fluxit. La parola saliuae, che chiude il verso finale, si riallaccia invece all’espressione di apertura della terzina (cuius ab ore sacro, v. 511) ed al nesso in oscula (cfr. v. 494), in quanto essa esprime metonimicamente il medesimo significato; il termine, inoltre, potendo essere ricondotto anche alla sfera semantica dell’acqua, funge da elemento di continuità nel paragone tra le acque del Giordano e la saliva del santo521. Anche l’ultimo verso è caratterizzato da un ordo verborum poco lineare e, dal punto di vista fonico, esso si contraddistingue per l’allitterazione della fricativa labiodentale (fontem fluidae), riprendendo il verso precedente (fluxit), e per la frequenza della laterale (fluidae maculae lauat saliuae), che sembra voler riproporre fonosimbolicamente lo scorrere delle acque.
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Il termine va inteso nel senso di “magna facta, mirabilia, signa”. Esso ricorre esclusivamente nella Vulgata e nei testi cristiani. Fra i testi poetici si ricordano di seguito adv. Marc. 1, 54; Hymn. Ambros. II 38 b, 20; Sedul. hymn. 1, 59, cfr. ThLL, VIII (1), col. 100 rr. 1-3. 520 Cfr. Roberts (3), p. 99. 521 Sul particolare significato del termine unda nel latino cristiano, in riferimento alle acque battesimali, cfr. Blaise (2), p. 108.
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Da rilevare anche il rapporto antitetico istaurato all’interno del verso tra i due emistichi mediante l’impiego dell’espressione fontem fluidae maculae che richiama, seppure per contrasto la seconda parte del verso lauat unda saliuae; il campo semantico relativo alle acque ed al loro fluire è presente in entrambi i casi, ma la sua declinazione è ordinata in senso opposto, accrescendo così la forte contrapposizione tra il peccato e la sua purificazione mediante le acque benedette522. Dal punto di vista lessicale, infine, il v. 513 rimanda a Mart. 4, 265 Et restricta fluens redit in fontem unda cruoris, in cui i termini fontem ed unda sono connotati negativamente,
in quanto
finalizzati alla
descrizione
del
flusso
sanguigno
dell’emorroissa. Anche in questi versi appare evidente il rimando a carm. 10, 6. Per quanto concerne la prima sezione del carme, essa presenta ancora una volta numerose affinità lessicali con il passo in questione, specialmente al v. 33, che recita leprosi maculas pretiosa per oscula purgans, al v. 34 con l’espressione ab ore, al verso successivo con il participio curans ed infine al v. 36, in cui compaiono assieme il riferimento al Giordano ed alla saliva del santo523. Nella seconda sezione del carme, in particolare ai vv. 97-102, ritornato alcuni termini, quali maculas ed oscula (v. 97), curat (cfr. curam, v. 512), saliua (v. 98), Iordanis (v. 100) ed infine al medesimo verso l’espressione ab ore. Elementi lessicali affini sono rintracciabili altresì nel distico relativo alla guarigione del lebbroso, contenuto in carm. 1, 6 (cfr. v. 9: maculas). Il rimando alle acque del Giordano, riproposto dal poeta in tutti i testi che narrano della guarigione del lebbroso, tranne uno (carm. 1, 6), acquista numerosi significati metaforici. Innanzitutto il paragone tra la saliva di Martino e le acque del fiume ha una funzione iperbolica nel descrivere la potenza della virtù risanatrice posseduta dal santo; in secondo luogo, esso crea un rimando intertestuale con i testi sacri, in particolare con il passo dell’Antico Testamento (2 Re, 5, 1-14), sopra citato, in cui il generale siriaco Naaman, viene curato dalla lebbra mediante l’immersione, ripetuta sette volte, nelle
522
Cfr. Elss, p. 59. Lo studioso annovera il verso fra gli exempla di antitesi rinvenuti nell’intera opera fortunaziana. 523 carm. 10, 6, 36 quod Iordanis agit tacta saliua facit.
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acque del fiume Giordano, prefigurando il Battesimo di Gesù nelle acque del medesimo fiume524. La guarigione del lebbroso pertanto nei diversi racconti fortunaziani presenta caratteri similari sia dal punto di vista contenutistico che retorico-lessicale. Tuttavia le varie narrazioni pervengono ad un grado di approfondimento diverso: l’elemento dell’osculum pacis è presente in tutti i brani coinvolti, così come quello della macula che rimanda all’idea del peccato, mentre soltanto in carm. 10, 6 e nel passo in esame si ha un ulteriore passaggio, che implica lo slittamento dalla saliva del bacio alle acque purificatrici del fiume Giordano. Quest’ultima versione è senza dubbio la più lunga e la più elaborata ed ha la finalità di dare speranza di guarigione non solo a chi è malato nel corpo, ma anche a tutti i fedeli ed ai pellegrini che giungono a Tours per essere purificati dall’inondazione dei poteri risanatori di Martino simili appunto alle acque del Giordano. Il poeta stesso, infine, aspira alla salvezza offrendo la sua “umile” opera come segno di devozione525. L’importanza rivestita dall’episodio del lebbroso nella biografia martiniana ed altresì all’interno dell’economia dell’opera di Fortunato è confermata da numerosi fattori: l’elaborazione formale dei versi, i riferimenti intertestuali ai testi sacri e ad illustri predecessori ed infine l’affermazione dello stesso Venanzio magnalia cetera uincens (cfr. 1, 511). Tuttavia è un elemento strutturale del poema a conferire ulteriore rilevanza alla narrazione di questo miracolo, ossia la sua collocazione alla fine del libro I, per cui opta il poeta, anche a costo di separare gli altri miracoli di guarigione contenuti nel medesimo libro da quelli con cui si apre il libro II, introdotto da una breve prefazione assommante a dieci versi. Inoltre i versi finali di questo libro I trovano eco nelle conclusioni del libro II e del libro IV: nel primo caso tale ripresa ha luogo contestualmente alla preghiera rivolta a Martino dall’Autore (Mart. 2, 468-490). Quest’ultimo fa riferimento al santo mediante l’espressione qui leprae maculas medicata per oscula purgas (v. 484), ricordando esclusivamente questo tra i miracoli compiuti dal santo e conferendo esplicitamente
524
Il significato tipologico di quanto narrato in 2 Re 5, 1-14 era ben radicato nel VI sec., cfr. Cesario di Arles serm. 129, 4; Greg. Tur. Hist. Franc. 2, 31. Cfr. Kessler, p. 82; Roberts (3), p. 94; De Nie (1), p. 165. 525 Roberts (3), p. 95; 99; cfr. inoltre, Consolino (4), pp. 248-251.
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all’evento un significato spirituale, dal momento che le maculae del poeta non costituiscono una malattia corporale, ma ne affliggono al contrario l’animo. Tale rimando intratestuale ha lo scopo di legare strettamente i primi due libri della Vita Martini, mentre la connessione con la sezione finale dell’ultimo libro contenente il propempticon ad libellum più volte citato, in cui Fortunato immagina che il suo poema compia una sorta di viaggio di ritorno dal Nord Europa, richiama l’apostrofe racchiusa nella sezione finale del libro I (vv. 507-510), nella quale il poeta si rivolge alla regione della Gallia, resa beata dalla presenza di Martino 526.
526
Roberts (6), pp. 130-131.
120
La guarigione della figlia di Arborio (Ven. Fort. Mart. 2, 19-37)
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Traduzione Mentre il giudice Arborio, lo stesso che una volta era prefetto, poiché una febbre quartana affliggeva gravemente la figlia, applicava numerosissime cure, nessuna delle quali riusciva a guarirla, una lettera benedetta del santo a lui inviata fece cessare la febbre. E posto questo cartiglio sopra la fanciulla allettata, non appena la lettera asciutta fece scorrere rivi di sudore, l’arida febbre fu estratta dalle membra interne. Rasserenato il cielo, inumidendosi senza un filo di nubi, la vampa di fuoco fu estinta dalla rugiada dell’inchiostro. Come nel secondo libro di Mosè degli Israeliti [l’Esodo], affinché il calore non dia tormento, la pagina stende una nube. Quale meraviglioso artefice, quello che dà la salvezza attraverso una lettera. Così operava laddove egli stesso non era presente. E questa viene offerta dal padre Arborio a Martino beato, perché sia consacrata dalla mano stessa da cui è stata salvata. Quale felicità per la fanciulla doppiamente salva con la verginità! Costui [scil. Martino] la rese al proprio padre, il padre a quello celeste. Così con un solo guaritore ottenne una doppia salvezza, poiché sottrasse la cara figlia all’una ed all’altra morte.
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Commento La narrazione di questo episodio, che Fortunato pone all’inizio del libro II, è annoverata fra le quattro guarigioni definite da Fontaine “éclatantes” 527, fra cui sono incluse quella del lebbroso, precedentemente esaminata, e quelle che seguono il risanamento della figlia di Arborio, relative a Paolino di Nola e a Martino stesso, guarito quest’ultimo per mezzo dell’intervento angelico 528. In seguito al miracolo evangelico del risanamento del lebbroso dunque, Severo pone attenzione alle guarigioni compiute dal santo a distanza, fra le quali sceglie quella relativa alla figlia di uno dei personaggi più illustri della Gallia del tempo 529. Il collegamento tra i risanamenti avvenuti per contatto diretto e quelli operati, per così dire, in absentia è costituito dal cenno, posto alla fine dell’episodio del lebbroso, al potere curativo delle frange del mantello e del cilicio di Martino 530. Entrambi i parafrasti Paolino e Venanzio seguono l’ordine narrativo proposto dal predecessore, ma sviluppano gli episodi in maniera differente: il primo racconta i fatti con un numero all’incirca duplice di versi rispetto al suo successore531. Analogamente a quanto accade per la guarigione del lebbroso, anche il presente miracolo è narrato all’interno della serie di didascalie composte per la basilica di Tours (carm. 10, 6, 67-72), ma esclusivamente nella prima sezione del carme e non in forma duplice come avviene per il risanamento del malato di lebbra. In questi versi tuttavia il poeta non specifica chi sia la beneficiaria dell’intervento del santo, ma parla in generale di aliis […] febre crematis (v. 67). Nel racconto fortunaziano contenuto nella Vita, al contrario, viene messa subito in evidenza la figura di Arborio, mediante il lusus uerborum del v. 19, isolato dalla cesura pentemimera e costruito attorno al nome del personaggio, secondo un pratica
527
Fontaine (2) p. 862. Sulp. Sev. Mart. 19, 3-5 ; Paul. Petric. Mart. 2, 690-726; Ven. Fort. Mart. 2, 38-57. 529 Fontaine (2), pp. 863-864. 530 Sulp. Sev. Mart. 18, 4; Paul. Petric. Mart. 2, 650-652; Ven. Fort. Mart. 2, 11-18. 531 La guarigione della figlia di Arborio: Paul. Petric. Mart. 2, 653-689 (37 versi); Ven. Fort. Mart. 2, 1937 (19 versi); la guarigione di Paolino di Nola: Paul. Petric. Mart. 2, 690-702 (13 versi); Ven. Fort. Mart. 2, 38-43 (6 versi) ed infine la guarigione di Martino: Paul. Petric. Mart. 2, 703- 726 (24 versi); Ven. Fort. Mart. 2, 44-57 (14 versi). Al riguardo, cfr. Labarre, pp. 94-95. 528
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molto cara al Nostro532. Egli in questo caso inserisce rispetto all’ipotesto il solo appellativo arbiter che gli permette di realizzare tale nesso fortemente allitterante. Il nome proprio Arborius e la titolatura uir praefectorius sono ripresi dunque dal testo di Severo, che caratterizza inoltre il personaggio con una affermazione di tipo qualitativo: sancti admodum et fidelis ingenii. L’impiego di questi due aggettivi, sanctus e fidelis, nella descrizione di Arborio rappresenta una scelta lessicale oculata, dal momento che consente all’Autore di indicare contemporaneamente sia la moralità romana sia la santità cristiana proprie del personaggio 533. Siamo infatti di fronte a Magno Arborio, aristocratico gallo-romano proveniente dall’Aquitania, nipote di Ausonio; grazie ai versi di quest’ultimo è possibile ricostruire l’albero genealogico del notabile dalla metà del III sec. L’uomo ricoprì sotto Graziano gli incarichi di comes largitionum sacrarum (379) e praefectus urbi (380)534; fervente cristiano ed ammiratore di Martino, fu protagonista nel corso di una Messa celebrata dal vescovo di Tours di una visione gloriosa, che egli stesso narrò a Sulpicio, il quale riportò l’accaduto nei suoi Dialogi535. Arborio pertanto era in rapporti di amicizia con il santo e con il suo biografo, in particolare il legame fra l’uomo politico e Martino costituì per quest’ultimo una sorta di protezione e di possibilità di difesa dai suoi nemici 536. Tornando al passo in esame, al v. 20 contraddistinto da fonemi allitteranti, in particolare la gutturale sorda e sonora (genitam grauiter cruciante camino), viene introdotta la fanciulla protagonista del risanamento, la figlia di Arborio, affetta da una grave febbre quartana. Anche in questo caso il poeta combina il linguaggio tecnico medico ripreso dall’ipotesto (quartano)537 con espressioni poetiche (cruciante camino). Il termine caminus ricorre spesso in Fortunato e nei poeti precedenti, e si trova in quasi 532
Cfr. e.g. Mart. 1, 19. Sussiste in particolare all’interno dell’opera poetica fortunaziana una serie di espressioni che giocano sull’etimologia dei nomi propri: carm. 1, 20, 6; 1, 21, 22; 14, 29; 3, 14, 2; 19, 2; Mart. 1, 458; 2, 59. Cfr. al riguardo, Elss, pp. 56-57; Meneghetti, pp. 258-259; Dagianti, p. 136. 533 Cfr. Fontaine (2), pp. 873-874. Paolino di Perigueux descrive invece il ruolo politico svolto da Arborio in una terzina (2, 655-657), impiegando una terminologia che si discosta da quella rinvenuta nella prosa di Severo e nella versificazione venanziana: Arborius, mundi eximio perfunctus honore/clarus praecelsae qui culmine praefecturae/romana indultis moderamina rexit habenis. 534 Fontaine, p. 874-875. Lo studioso afferma che si tratta di uno dei protagonisti meglio conosciuti menzionati all’interno della Vita; Quesnel, p. 127. Sul personaggio, cfr. inoltre DNP, I, p. 975 s.v. Arborius (2); PLRE I, pp. 97-98 s.v. Arborius (3). 535 Sulp. Sev. Dial. 3, 10, 6; Paul. Petric. Mart. 5, 651-694; Ven. Fort. Mart. 4, 284-304. 536 Fontaine (2), p. 875. 537 Sulp. Sev. Mart. 19, 1 cum filia eius gravissimis quartanae febribus ureretur. Il termine quartana ricorre in poesia un numero molto esiguo di volte, cfr. Hor. sat. 2, 3, 290; Mart. 10, 77, 3; Iuv. sat. 4, 57; Seren. 897; Paul. Pell. euch. 119. Paolino di Perigueux (Mart. 2, 655) adopera una perifrasi per indicare la patologia, ossia febris […] ad quartum reditura diem.
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tutte le occorrenze a fine verso; esso denota in questo contesto per metonimia il fuoco stesso538, che a sua volta sta ad indicare la vampa di febbre che tormenta la fanciulla. È chiaro pertanto che con l’espressione quartano camino il poeta intende la febbre quartana, quartana febris o quartana, ossia febris quarto quoque die rediens539. Non ci si allontanerebbe troppo dal vero, infine, ipotizzando che potrebbe sottendersi alla voce caminus il significato di “pena, supplizio” attestato, a partire dai testi evangelici, in numerosi scritti cristiani540; tale osservazione acquista maggior rilievo se riletta alla luce dell’interpretazione finale dell’intero passo. Riguardo a tale malattia e soprattutto alla sua eziologia in questo particolare contesto, non è possibile riferire nient’altro se non quanto affermato da Fontaine, il quale paragona l’accesso febbrile della fanciulla alla febbre che condusse alla morte il monaco risuscitato a Ligugé da Martino541. Al v. 21 ritorna il tema dell’inutilità delle cure praticate precedentemente all’intervento del santo, che costituisce una nota supplementare rispetto al testo sulpiciano, ripresa probabilmente da Paolino 542. A livello stilistico vanno rilevati l’omeoptoto tra le due forme verbali e la collocazione in posizione di rilievo a fine verso del sostantivo alumnae543. Dal punto di vista sintattico, è da segnalare l’uso di dum con significato temporale assieme al congiuntivo, costruzione comune a tutti gli scrittori del tardoantico544, ed il predicato mederet coniugato come verbo attivo anziché deponente545. Infine il soggetto della prima temporale è costituito da Arborio che, come sopra evidenziato, si trova nell’incipit del testo a causa della rilevanza del personaggio. Il verso seguente (v. 28) introduce il motivo della lettera inviata dal santo che con le sue virtù curative riesce ad estinguere la febbre. Ancora una volta l’ordo uerborum è alterato: il predicato si trova al centro del verso ed è interposto tra gli attributi del soggetto ed il soggetto stesso; conclude il verso l’oggetto della frase, il 538
Cfr. ThLL, III (1), col. 205 rr. 65-66. Forcellini, III, p. 1003. Cfr. inoltre Gell. 17, 12. Cels. 2, 8, 16; Cic. Fam. 16, 11; Hor. Sat. 2, 3, 290; Mar. 10, 77, 3; Iuv. sat. 4, 57; Plin. nat. hist. 7, 51 (166); Seren. 895-916; Paul. Pell. Euch. 119. 540 ThLL, III (1), col. 206 rr. 77-78. 541 Sulp. Sev. 7, 2-7; Paul. Petric. Mart. 1, 317-365; Ven. Fort. Mart. 1, 159-168. 542 Mart. 2, 654-655 Ut nihil afflictum corpus sentire medullae/posset […]. 543 Come segnalato in precedenza, il sostantivo ricorre altresì nell’episodio della guarigione della paralitica di Treviri (Mart. 1, 423) ed in quello relativo alla fanciulla muta (Mart. 4, 38). 544 Dagianti, p. 105; Meneghetti, pp. 241-242. 545 Cfr. Meneghetti, p. 140. 539
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sostantivo febrem. L’aggettivo beata546 costituisce un’aggiunta rispetto all’ipotesto, che invece limita il riferimento alla lettera ad un precisazione relativa alla casualità con cui essa fu recapitata all’uomo 547. Occorre precisare che l’informazione relativa alla lettera presuppone che Arborio tenesse una corrispondenza con il santo e testimonia pertanto una certa intimità tra i due uomini548. Dal v. 23 al v. 27 il poeta si sofferma sulla descrizione del processo di guarigione: molti gli elementi che ritornano, quali la presenza del nesso relativo, l’uso dell’ablativo assoluto e dal punto di vista lessicale l’impiego di recubare e superinponere549. Quest’ultimo termine compare nelle opere poetiche un numero limitato di volte e sempre nella medesima sede esametrica 550; il suo impiego in tale contesto è riconducibile all’uso frequentissimo negli scritti fortunaziani della preposizione super, in qualità di prefisso nei verbi composti551. In questo caso ed in carm. 10, 6, 69 il sostantivo charta acquisisce per metonimia il significato di epistola, come accade altrove nella letteratura latina e nel passo analogo di Paolino (Mart. 2, 673)552. Significativo il fatto che nel linguaggio medico, il termine viene impiegato spesso nella preparazione di “medicinali”: si consigliava infatti in alcune terapie di applicare carta macerata o cenere di carta bruciata553. In particolare nel poema di carattere medico di Sereno Sammonico due sono i casi rilevanti in cui è menzionata la charta quale rimedio contro diverse patologie: nel primo caso (vv. 935-940) charta indica il foglio su cui bisognava scrivere una sorta di formula magica e che veniva legato al collo per curare la febbre semiterzana, nel 546
Il termine compare nell’opera fortunaziana un numero considerevole di volte, in particolare nei carmina. Nella Vita Martini esso ricorre cinque volte, tre delle quali nella medesima posizione metrica (Mart. 2, 22; 332; 3, 18). 547 Sulp. Sev. Mart. 19, 1 […] epistulam Martini, quae casu ad eum [scil. Arborio] delata fuerat. Cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 671-672 Oblata ad trepidam peruenit epistula dextram/quam pius antistes maesto mittebat amico. 548 Cfr. Fontaine (2), p. 875. 549 Cfr. l’episodio della paralitica, Mart. 1, 375 recubabat; il termine superinponere ricorre altresì in Mart. 4, 236 quae superimpositum simulacrum hostile gerebat, all’interno della narrazione della distruzione di una colonna pagana. 550 Ov. met. 9, 100 Aut superinposita celatur harundine damnum; Stat. silu. 1, 1, 1 Quae superimposito moles geminata colosso; Prud. psych. 266 Et superimposito simularat caespite campum; Coripp. Iust. 3, 10 Quae superimpositis implebant atria ceris. In particolare nei versi di Stazio e di Corippo il participio è in coppia con il nesso relativo, analogamente a quanto accade nelle due occorrenze della Vita Martini. 551 Cfr. Blomgren (1), p. 136. Lo studioso enumera tutti gli esempi relativi a tale uso. 552 Cfr. e.g. Cic. Att. 2, 20, 3; Ov. epist. 20, 244; Mart. 14, 11; Plin. epist. 4, 16, 3; Hier. epist. 7, 1; Sulp. Sev. epist. 2, 19; Sidon. epist. 1, 7, 5. Cfr. al riguardo ThLL, III (1), col. 999 rr. 8-25. 553 Cfr. ThLL, III (1), col. 997 rr. 24-38.
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secondo caso il termine designa invece la terapia contro l’insonnia causata dalla febbre, per cui si propone di bere la cenere di un foglio bruciato sciolta nell’acqua calda (vv. 979-983). Nella sua versificazione (vv. 895-913) Sereno tratta altresì della febbre quartana, proponendo diversi rimedi, fra cui “sottoporre il quarto canto dell’Iliade Meonia”554; ulteriori terapie stravaganti sono quelle praticate mediante l’applicazione sul corpo del malato di parti animali, proposte da Plinio, il quale premette alla sezione dedicata all’argomento che “nelle febbri quartane la medicina clinica non funziona quasi per nulla”555. Al di là della specificità delle terapie suggerite contro la febbre quartana, l’impiego della lettera come oggetto guaritore era frequente anche nel caso di esorcismi; tuttavia tutte le testimonianze della letteratura cristiana relative a tale prassi sono posteriori alla Vita sulpiciana556. Essa potrebbe prendere spunto però da un racconto di Postumiano (Dial. 1, 20, 2), in cui un monaco d’Egitto scrive una lettera destinata a operare la guarigione desiderata, anche se nell’episodio martiniano siamo di fronte ad una epistola qualunque, priva cioè dello specifico fine risanatore557. Un ulteriore antecedente cristiano potrebbe essere ravvisato in taluni atteggiamenti, descritti da Luca negli Atti e caratteristici delle prime comunità cristiane, i cui membri in alcuni casi ricorrevano, con scopi curativi, all’applicazione di fazzoletti o lini venuti in contatto con il corpo di S. Paolo 558. I vv. 24-25 delineano nello specifico l’azione della lettera arida che fa scorrere rivoli di sudore, estirpando dalle membra della fanciulla la febbre. Tale procedimento viene enfatizzato dal gioco di antitesi che ruota attorno alla contrapposizione tra l’idea di umidità e quella di secchezza, la prima resa mediante espressioni quali sudoris aquas e rigauit, la seconda tramite gli aggettivi sicca559, riferito alla lettera, e arida, attribuito invece alla febbre stessa. Il medesimo contrasto è presente nel racconto analogo del carm. 10, 6 (vv. 67-72), in cui il poeta adottata una terminologia affine a quella sopra 554
Trad. it. C. Ruffato, p. 104. In tempi recenti tuttavia il verso che menziona l’Iliade è stato sottoposto ad emendamento, per cui la medicina proposta sarebbe un intruglio estratto dalla pianta della peonia, eliminando così la “scomoda” e più che altro bizzarra citazione del testo omerico nel verso, cfr. LunelliMaini, pp. 47-52. 555 Trad. it. I. Garofalo, p. 445. Cfr. Plin. nat. hist. 30, 30 (98-104). 556 Cfr. Smit, p. 278. 557 Fontaine (2), p. 876. 558 Ac. 19, 12. 559 L’accostamento tra l’aggettivo siccus e la voce rigare è presente altresì in Sedul. carm. pasch. 1, 274 Numina sicca rigant uerique hac arte uidentur.
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analizzata, cfr. sudores refluos vs sicca (v. 68); ignes vs tinguet aquis; rigabat (v. 71); succensis vs fons (v. 72) 560. Tale antitesi, infine, assente nell’ipotesto, caratterizza il verso paoliniano, cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 680 et rigat exhaustas uerborum rore medullas. Andando ad osservare più da vicino gli aspetti morfosintattici e lessicali di questi versi, va rilevato un uso improprio del verbo rigare, nel senso di effundere, analogamente a quanto accade in carm. 2, 7, 13; 4, 4, 26; 4, 14, 7; 7, 5, 1; 8, 1, 58561; ancora una volta risulta alquanto intricata la costruzione del periodo a motivo dei numerosi iperbati che contraddistinguono entrambi i versi (vv. 24-25). Degno di menzione l’uso di mox in concomitanza con ubi, che, secondo una consuetudine riscontrata esclusivamente nel latino tardo, è da intendersi nel senso di simul ac562. Il distico successivo (vv. 26-27) ribadisce il concetto della estinzione del furore febbrile mediante una metafora relativa al cielo rasserenato che tuttavia è carico di umidità, pur non ospitando alcuna nube. Nello specifico il v. 26, che costituisce un ulteriore esempio della predilezione di Fortunato per le forme participiali, è ricco di rimandi intertestuali, quali l’ablativo assoluto iniziale che si rifà a Sil. It. 12, 637 Ecce serenato clarum iubar emicat axe ed in cui potrebbe avere altresì risonanza l’espressione axe sereno rintracciata in Stazio e nell’opera di un autore coevo al Nostro e più volte menzionato, ossia Corippo 563; anche il nesso sine uellere costituisce una ripresa, collocata peraltro nella medesima sede esametrica, di Val. Fl. 7, 429 Patris iussa tui; numquam sine uellere abibo e dello stesso Paolino, cfr. Mart. 3, 93 Et rutilat docte ductis sine uellere pensis. La voce serenatus costituisce una forma poetica ed è intesa da Fortunato in senso attivo in luogo di serenus, per cui cfr. altresì carm. 7, 6, 9; 7, 7, 75 564. Il termine serenare con il significato di “rasserenare, rendere sereno”, è impiegato infatti per lo più in opere poetiche sia in senso proprio (Verg. Aen. 1, 259; Stat. Achill. 1, 120) che
560
Cfr. Redeyllet (1), p. 186 nt. 121. Cfr. Leo, p. 416; Meneghetti, p. 106. Lo studioso annota altresì che il medesimo verbo è usato con il significato di fluere in app. carm. 19, 9. 562 Hofmann-Szantyr, p. 652. Sull’uso di mox negli scritti di Fortunato, cfr. Leo, p. 406; Meneghetti, p. 74; Blomgren (1), p. 140; 142. 563 Stat. Theb. 5, 86 Lucentes, ceu staret, equos; quater axe sereno; Coripp. Iust. 4, 96 Et finit sine fine dies. iubar axe sereno. 564 Meneghetti, p, 117. 561
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traslato (Verg. Aen. 4, 477; Sil. It. 11, 368; Stat. Theb. 2, 55) ed infine negli stessi carmi fotunaziani, cfr. carm. 6, 4, 103)565. Il termine uellus, secondo un uso attestato in precedenza, potrebbe indicare in tal caso metaforicamente qualcosa di simile alla lana, in particolare ai suoi filamenti 566. Anche il verbo madidare, seppure non costituisca creazione fortunaziana, va segnalato a motivo della rarità del suo utilizzo; in particolare la forma al participio presente con valore intransitivo ricorre, oltre che nel Nostro, esclusivamente in Claud. Rapt. Pros. 2, 88567. Il verso successivo prosegue la metafora della vampa di febbre smorzata dall’inchiostro che stilla dalla lettera del santo, paragonato alle gocce della rugiada. Anche in questo caso l’ordo uerborum è lontano da quello del linguaggio prosastico, con il verbo posizionato al centro del verso ed il soggetto nella clausula finale. Proprio questo emistichio recupera letteralmente Sedulio (carm. pasch. 1, 205 Ardentis fidei restincta est flamma camini), mentre la clausula finale ricorre altresì in alcuni poeti precedenti568 e come rimando intratestuale nel libro III della Vita Martini569. La forma verbale perifrastica riprende quella collocata nella sezione iniziale della narrazione del miracolo, restinxit (v. 22). Ancora evidente infine l’affinità lessicale con Paolino, per cui cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 679 Febris et igniti remouetur flamma caloris; 680 et rigat exhaustas uerborum rore medullas. Nel distico seguente (vv. 28-29) predomina il richiamo al testo biblico, mediante il riferimento alla nube che protegge dalle vampe del calore, similmente a quella che aiutò gli Ebrei in cammino nel deserto verso la Terra Promessa e a quella che avvolse il monte Sinai allorquando Mosè fu invitato dal Signore a salirvi per ascoltare la sua Parola570. Al v. 28 prende avvio la similitudine, introdotta da ueluti ed esplicitata al verso successivo che ospita appunto nella seconda parte l’analogia tra la nube e la lettera.
565
Cfr. Forcellini, IV, p. 328. Cfr. Forcellini, IV, p. 929. 567 Venanzio lo impiega anche in carm. 5, 1, 2. Cfr. Meneghetti, p. 76; ThLL, VIII, col. 36 rr. 21-24. 568 Cypr. exod. 1144 Mollitumque dehinc feruentis flamma camini; Drac. laud. dei 3, 175 Torridus aut aditum lambebat flamma camini; Alc. Avit. carm. 3, 64 Sed sic accipiet feruentis flamma camini. 569 Mart. 3, 293 Ac uelut ex stipulis coqueret se flamma camini. 570 Es. 13, 21; 40, 36; 24, 15. Cfr. Quesnel, p. 127. 566
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L’aggettivo moysiticus compare soltanto in Fortunato, che lo impiega per altro esclusivamente in quest’unica occasione 571; l’etnonimo Israhelitae572 è comunemente attestato presso gli autori cristiani573, in particolare nella poesia esametrica esso ricorre spesso nella forma al genitivo plurale, pertanto esasillabica, collocata nell’incipit del verso574. Occorre a questo punto soffermarsi brevemente sul riferimento alla nube di Mosè. Oltre agli inevitabili accenni alla nube contenuti nel commentario redatto sulla vita di Mosè da Gregorio di Nissa 575, all’interno della poesia cristiana latina è possibile rinvenire la menzione di tale elemento nel carmen aduersus Marcionitas (5, 210-227), in cui si parla della nube che, facendo ombra agli ebrei in marcia, li protegge dalla calura del deserto, similmente a quanto riferito in Cypr. exod. 415 Ante uolans niuea sulcabat sidera nube e Drac. laud. dei 2, 796 Candida dux fuerat nubes flammaeque columna. Nel contesto dei testi biblici questo elemento naturale si carica di numerosi significati, a volte anche opposti tra loro, proprio a motivo della varietà dei suoi caratteri, quali leggerezza, rapidità negli spostamenti e d’altra parte pesantezza ed oscurità. L’immagine della nube pertanto può denotare “la vicinanza benefica di Dio od il castigo di colui che nasconde la sua faccia. Più ancora, è un simbolo privilegiato per indicare il mistero della potenza divina: manifesta Dio pur velandolo” 576. Nella citazione fortunaziana l’analogia si fonda, come accennato sopra, sul riferimento al fatto che Jahvè precedeva il suo popolo sotto forma di colonna di nube e di fuoco, guidando così nel deserto gli Ebrei rispettivamente nelle ore diurne ed in 571
Forcellini,VI (Onomasticon), p. 294: ad Moysen, Hebraeorum ducem, pertinens. Il poeta lo impiega anche in qualità di aggettivo, Mart. 3, 498 Israhelita canit, simul Atticus atque Quiritis; carm. 3, 3, 10 Quo nullus dolus est, Israhelita uires; carm. 9, 2, 31 Israhelita potens Dauid res atque propheta. 573 Forcellini, VI (Onomasticon), p. 810; sulla differenza tra Hebraeus e Israhelita e sul loro utilizo, cfr. Forcellini, V (Onomasticon), p. 708. Va precisato che Fortunato impiega altrove il termine, anche in qualità di aggettivo, cfr. carm. 3, 3, 10 Quo nullus dolus est, Israhelita uires; carm. 9, 2, 31 Israhelita potens Dauid res atque propheta; Mart. 3, 498 Israhelita canit, simul Atticus atque Quiritis. Quest’ultima occorrenza testimonia il differente impiego dei termini Hebraeus e Israhelita sopra citato, dal momento che il verso precedente (v. 497) suona come segue: Hebraeus, Graecus, Barbarus, Romanus, Indus, per cui si nota la corrispondenza rispettivamente tra Haebreus e Israhelita, Graecus e Atticus, Romanus e Quiritis. Infine il nesso (pangit, v. 496: dogmate tanto rum Christi data munera pangit) Hebraeus (v. 497) costituisce un evidente richiamo a Prud. apoth. 379 Hebraeus pangit stilus, Attica copia pangit. 574 Cfr. Iuvenc. 2, 205a Israhelitarum sublimis gloria gentis; Cypr. exod. 175 Israhelitarum dominum iussisse superne; Drac. laud. dei 2, 171 Israelitarum plebi, quae facta superstes; satisf. 97 Israhelitarum populum sic culpa tenebat; Eug. Tolet. satisf. 91 Israhelitarum populum sic culpa tenebat. 575 Cfr. Greg. Nyss. Vit. Mos. 1, 30-31; 41. 576 Leon-Dufour, p. 773. 572
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quelle notturne: il Signore è presente in ogni momento affinché il suo popolo possa proseguire il cammino; la colonna cambia il suo aspetto rivelando in questo modo il duplice volto del mistero divino, “santità inaccessibile al peccatore, vicinanza di grazia per l’eletto”. Nel caso invece della nube che appare quando il Signore mostra la volontà di comunicare con Mosè, il testo sacro allude alla impenetrabilità di Dio: la nube diviene un velo che protegge dagli sguardi impuri la gloria di Dio ed allo stesso tempo la manifesta577. L’intertestualità biblica che caratterizza la narrazione fortunaziana è assente nell’ipotesto di Severo e nella parafrasi paoloniana 578. Il richiamo veterotestamentario costituisce probabilmente una sorta di compensazione al fatto che in questa occasione non sia possibile instaurare un paragone diretto con i miracoli compiuti da Gesù. Al v. 30 è riportata la prima delle due esclamazioni che Fortunato pone, analogamente a quanto operato all’interno degli altri prodigi di guarigione, nella conclusione con la finalità di elogiare l’operato di Martino. Da rilevare la musicalità del verso ottenuta mediante l’allitterazione della nasale finale (quam mirum artificiem dantem per scripta salutem) e l’omeoptoto in –em. Con il termine artifex, molto adoperato nelle opere poetiche fortunaziane579, l’Autore intende spesso indicare la figura del medico, per cui cfr. carm. 4, 14, 12; 11, 16, 4580; tale uso non costituisce tuttavia peculiarità lessicale del Nostro, ma è attestato altrove, a partire da Properzio e Celso per arrivare ad Oribasio 581. Al verso successivo è introdotto il motivo della guarigione in absentia: alquanto efficace la collocazione di praesens nel mezzo del verso tra la cesura pentemimera e quella eftemimera, in forte iperbato rispetto a quanto segue, quasi ad indicare la presenza del santo anche qualora la sua persona fosse fisicamente assente. L’ipotesto sulpiciano rimarca tale situazione mediante l’espressione con valore concessivo quae per absentem licet curata esset (Sulp. Sev. Mart. 19, 2), che sembra costituire un gioco di parole con la frase precedente in cui compare il termine praesens
577
Leon-Dufour, p. 774. Sull’importanza rivestita da tale elemento nei testi sacri, cfr. la monografia sul tema di Luzarraga. 578 Sui richiami al testo biblico presenti nell’opera di Fortunato, cfr. Nazzaro (3), pp. 99-135. 579 Mart. 4, 294; 302; 325; 526; carm. I, 12, 18; 2, 10, 14; 4, 14, 12; 17, 8; 6, 1, 10; 9, 1, 64; 15, 2; 10, 6, 54; 116; 10, 12; 11, 16, 4. 580 Cfr. Meneghetti, p. 98. 581 Prop. 2, 1, 58; Cels. 1, pr.; Oribasio syn. 6, 22. Cfr. al riguardo, ThLL, II, col. 698, rr. 58-84.
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in relazione alla fanciulla definita praesens uirtutum eius testimonium, “vivente testimonianza dei suoi miracoli” 582. Dal punto di vista strettamente linguistico, è necessario evidenziare l’uso particolare del pronome ipse, talvolta impiegato dal poeta nel senso di idem e talaltra in luogo dei dimostrativi hic ed ille, come nel caso presente583. Il verbo operor, a mio avviso, è da intendere in questa occorrenza, secondo quanto proposto da Flury in ThLL IX, 2 (5) p. 695 rr. 37-38: “spectat ad bona opera, quae sec. leg. Iud. Christ. praestantur.” noto Occorre a questo punto precisare che quello concernente la figlia di Arborio è uno degli esempi più noti di guarigione realizzata a distanza da Marino, ma ve ne sono altri similmente rilevanti, come il miracolo di cui beneficiarono il notabile Liconzio e gli abitanti della sua proprietà colpiti da una grave pestilenza 584 e l’esorcismo compiuto a posteriori grazie ad un filo della paglia su cui aveva riposato il santo nel corso della sua visita al convento di Claudiomagus585. Il v. 32 introduce invece il motivo della consacrazione della fanciulla a Martino da parte del padre Arborio. Da rimarcare la presenza del nesso relativo, l’anastrofe della preposizione ab, l’interposizione della forma verbale tra il nome proprio Martino ed il suo attributo ed infine l’omeoptoto tra Arborio, Martino ed opimo. Quest’ultimo termine è impiegato un numero molto considerevole di volte nell’opera fortunaziana, in special modo nei carmi; in riferimento a Martino, esso appare nella Vita all’interno della narrazione di un esorcismo, in relazione alla cella di Martino (4, 398), ed infine nell’incipit della preghiera finale di supplica al santo, perché interceda per il poeta (4, 594). In carm. 1, 15, 22 l’aggettivo è attribuito alla progenie del vescovo Leonzio, mentre in carm. 5, 9, 3 esso è usato in rapporto ai meriti di Martino. Il termine afferisce inoltre ad altri personaggi, in particolare vescovi e santi, quali Germano, vescovo di Parigi (carm. 1, 7, 11; 2, 9, 40); Nicezio (carm. 3, 12, 44); Villico, vescovo di Metz, (carm. 3, 13, 44; 3, 13a, 1); il vescovo Agricola (carm. 3, 19, 2); Gregorio di Tours (carm. 5, 14, 24; 7, 17, 5) ed infine Radegonda (carm. 10, 7, 25). Nelle occorrenze
582
Vit. Sanct. Mart. 19, 2. Trad. it. di L. Canali. Cfr. Meneghetti, p. 163; Väänänen, pp. 215-218. 584 Sulp. Sev. Dial. 3, 14, 3-6; Paul. Petric. Mart. 5, 787-856; Ven. Fort. Mart. 4, 426-488. 585 Sulp. Sev. Dial. 2, 8, 9; Paul. Petric. Mart. 4, 453-464; Ven. Fort. Mart. 3, 279-295. Sulle guarigioni a distanza operate da Martino, cfr. inoltre Rousselle, pp. 117-118. 583
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sopra citate pertanto il termine va inteso come sinonimo di “felix, beatus, clarus”, secondo un uso attestato in altri loci586. Il v. 33 completa il senso del verso precedente rendendo esplicito il riferimento all’offerta della ragazza a Martino perché la consacri, mediante il gerundivo e la relativa seguente. Il verbo consecro nel significato cristiano di “consacrare a Dio” comprende altresì l’ordinazione delle vergini, oltre a quella dei sacerdoti, dei vescovi e dei monaci587. Il distico (vv. 31-32) echeggia il verso conclusivo del racconto paoliniano, che propone un efficace trikolon: consecrat antistes, pater offert, uirgo sacratur588. Il verso di Paolino a sua volta riprende la prosa di Severo, il quale impiega una terminologia affine (cfr. obtulit e consecrari). Il termine uirginitas accumuna esclusivamente Sulpicio (perpetuae uirginitati; habitu uirginitatis) e Venanzio (v. 34 cum uirginitate), mentre Paolino si riferisce più volte alla fanciulla impiegando il sostantivo uirgo (Mart. 2, 679; 682). Dal punto di vista sintattico, va sottolineato l’uso del gerundivo con valore finale consecranda manu in un contesto insolito, a seguito cioè del verbo offerre589 e la presenza del congiuntivo nella relativa propria contrariamente alle norme del latino classico590. Degno di nota infine il termine saluificata, di uso molto raro: nei poeti precedenti esso non ricorre mai, se non nella forma aggettivale saluificus in Sedulio (carm. pasch. 5, 6-7 Exclamansque palam "pater istac memet ab hora/Saluifica, sed in hanc ideo ueni tamen horam)591, che riprende a sua volta Gv 12, 27 est et quid dicam Pater saluifica me ex hora hac sed propterea, peraltro unica occorrenza del termine nella Vulgata. La consacrazione delle figlie in tenera età non era rara a quell’epoca e si conforma sia alla tradizione romana del potere per così dire “assoluto” del paterfamilias
586
Cfr. e.g. carm. ad Marc. 2, 46. Al riguardo, cfr. inoltre ThLL, IX, 2 (5), col.711 rr. 1-12. ThLL, IV, col. 382 rr. 24-29. 588 Cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 689. 589 Cfr. Dagianti, p. 120. Sull’uso del gerundivo negli scritti fortunaziani, cfr. inoltre Meneghetti, p. 234; Blomgren (1), pp. 63-67. 590 Cfr. Dagianti, p. 103. 591 Cfr. Meneghetti, p. 77. 587
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sia ai costumi cristiani dell’epoca592. Arborio, inoltre, potrebbe aver interpretato il gesto di Martino come un segno divino che lo chiamava a rinnovare la tradizione familiare inaugurata dalla prozia della fanciulla, Emilia Ilaria, che stando a quanto affermato da Ausonio, fu uirgo devota593. Per quanto concerne il rito della consacrazione delle vergini, nel IV secolo prese piede in maniera graduale una cerimonia liturgica: a Roma, la cerimonia consisteva nel prendere il velo, in Africa faceva la sua comparsa per la prima volta l’imposizione del velo; a Milano il medesimo rituale dell’imposizione era affiancato dalla benedizione episcopale. Tale cerimoniale passò dall’Italia alle zone della Gallia. Sul finire del IV secolo il rito prevedeva la pubblica professione di castità della fanciulla, alla quale il vescovo consegnava il velo, ed una preghiera di benedizione recitata dal prelato 594. La presenza delle monache sul territorio in cui opera Martino è confermata da ulteriori episodi della sua biografia: chori uirginei accolgono il santo nel corso di una visita pastorale a Claudiomagus595, allo stesso modo in cui un chorus uirginum piange la dipartita di Martino, come accennato da Sulpicio nelle sue epistole 596. Al v. 34 ritorna in posizione incipitaria l’avverbio con valore esclamativo quam in omoteleuto con sanam e puellam, ad intensificare il concetto della doppia salvezza ottenuta dalla fanciulla mediante l’intervento di Martino, espresso in maniera esplicita dalla coppia di avverbi qualitativo e numerale che si rafforzano vicendevolmente, connessi anche dal punto di vista fonico da una evidente “Klangfigur”597. Il concetto della duplice guarigione di cui beneficia la ragazza non è espressamente riportato da Sulpicio, che insiste sullo stupore e la conseguente devozione del padre, che la condurrà a Tours dal santo, e sul fatto che la fanciulla permise soltanto a Martino di imporle l’abito di vergine e di consacrarla (Sulp. Sev. Mart. 19, 2); in Paolino invece il motivo del doppio risanamento è accennato nel distico
592
Cfr. Fontaine (2), p. 877; Quesnel, p. 127 nt. 33. Auson. paren.VIII (165), 8. Al riguardo, cfr. inoltre Fontaine, p. 878; Smit, p. 278. 594 Cfr. Metz, pp. 110-136; Smit, p. 279. 595 Ven. Fort. Mart. 3, 273. 596 Cfr. Sulp. Sev. ep. 3, 19. Da menzionare altresì l’accenno alla moglie del soldato convertito che si ritira in una comunità di monache, cfr. Sulp. Sev. Dial. 2, 11; Paul. Petric. Mart. 4, 594-639; Ven. Fort. Mart. 3, 388-404. 597 Sull’avverbio bis, cfr. ThLL II (2), p. 2008 r. 11 ss. L’avverbio, probabilmente a motivo del suo monosillabismo e della sua versatilità all’interno dell’esametro, sembra essere molto caro a Fortunato che soltanto nell’opera poetica vi ricorre oltre una ventina di volte. 593
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che recita nec solam haec membris tribuit medicina medellam,/sed cordi adiecit ueram fides aucta salutem. Il termine uirginitas ricorre nel linguaggio poetico sia presso gli autori pagani che quelli cristiani, mentre il sintagma cum uirginitate è utilizzato soltanto da Fortunato. Quest’ultimo affronta il tema della verginità più approfonditamente nei carmina, in particolare in carm. 8, 3, definito appunto carme De uirginitate. Il poema, infatti, dedicato alla consacrazione a badessa di Agnese, per mano di Germano vescovo di Parigi, è qualificato come “epitalamio mistico”, essendo caratterizzato dalla struttura dell’epitalamio tardo antico, dalla forte presenza del linguaggio della poesia erotica e dai canoni della consolatio; il soggetto del brano è tuttavia allegorizzato, dal momento che il poeta allude alle nozze mistiche con lo Sposo divino, alle quali conduce la pratica della verginità598. L’intento di Fortunato dunque è quello di lodare l’ideale di verginità cristiana, incoraggiando alla vita consacrata femminile, e di “pubblicizzare” in special modo il convento dell’amica Radegonda. Le affermazioni di Fortunato in relazione alla professione di castità si pongono sulla scia della letteratura sul tema, la cui diffusione sotto forma di sermoni e trattati, era andata crescendo sul finire del IV sec. 599. Al v. 35 il lusus uerborum ruota attorno alla paternità terrena di Arborio e a quella divina: il predicato è collocato all’inizio del verso, mentre i successivi membri (soggetto e dativo di termine), separati dalla cesura eftemimera, sono intrecciati mediante l’impiego in poliptoto di pater, in entrambi i casi usato in relazione al padre naturale della fanciulla, e dei dimostrativi iste600 ed ille, il primo riferito a Martino, il secondo concordato con pater per designare invece Arborio. Sono pertanto gli aggettivi proprio e superno a creare la contrapposizione tra il padre reale e Dio. Dal punto di vista fonico infine, il verso è animato dall’allitterazione dell’occlusiva bilabiale sorda. Il verso successivo (v. 36) ribadisce il motivo della doppia guarigione, indicata mediante il sintagma geminam medellam che racchiude al suo interno l’ablativo assoluto solo curante; quest’ultima espressione accentua maggiormente il concetto, 598
Campanale, pp. 75-128. Cfr. inoltre Di Brazzano, p. 427 nt. 9; Brennan (5), pp. 73-97. Anche carm. 8, 4 è dedicato alle vergini, mentre in carm. 8, 1, 41-46 il poeta enumera diversi personaggi femminili, vergini e vedove, votati alla castità. 599 Cfr. e.g. Hier. ep. 22, 19; 41. Sull’argomento, cfr. Quesnel, p. 128 nt. 8. 600 Il pronome, come accade spesso nell’opera fortunaziana ed in generale presso tutti gli autori del suo tempo, è usato impropriamente in sostituzione degli altri dimostrativi, in questo caso di hic. Cfr. Meneghetti, p. 165.
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contrapponendo l’aggettivo solo al geminam precedente. Nell’incipit del verso la coppia sic meruit riprende il nesso sic operabatur del v. 31601, mentre i termini curante e medellam si riallacciano alla sezione iniziale del passo, in particolare al v. 21 (neque cura mederet) 602. Il v. 37 completa il significato del verso antecedente ed è introdotto da dum, che assume in questo caso il valore di congiunzione causale 603. Evidenti in questo stesso verso la ricorrenza del prefisso sub-, l’allitterazione della –m in finale di parola, che percorre la prima metà del verso, e l’anastrofe che caratterizza il secondo emistichio. Il sostantivo suboles compare nell’opera venanziana in altri due casi 604, mentre l’accostamento del medesimo termine con l’aggettivo carus potrebbe derivare al Nostro ancora una volta da Virgilio, cfr. ecl. 4, 49 cara deum suboles, magnum Iouis incrementum. L’espressione morti utraeque ribadisce con maggiore intensità l’idea della duplice salvezza, sia quella corporale che quella spirituale, ottenuta dalla fanciulla. In conclusione, il poeta nel racconto di tale episodio pone in evidenza tramite artifici retorici, citazioni e tecniche narrative, la notorietà della figura di Arborio ed il suo legame con Martino, l’efficacia dell’intervento di quest’ultimo, anche a distanza, ed il tema della doppia guarigione della fanciulla che culmina con la consacrazione della medesima. Caratteristici del racconto fortunaziano, molto più conciso rispetto a quello di Paolino, il riferimento veterotestamentario alla nube mosaica e l’insistenza sul tema della verginità, assai caro al Nostro.
601
L’avverbio sic viene utilizzato spesso da Fortunato, accanto ad altri dimostrativi quali inde, ergo, tot, talis, per riprendere quanto affermato in precedenza. Cfr. Elss, p. 50. 602 Sul termine medella, cfr. episodio della paralitica (Mart. 1, 379; 395). 603 Cfr. Hofmann-Szantyr, p. 614. 604 Mart. 3, 186; carm. 10, 12a, 6.
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La guarigione di Paolino (Ven. Fort. Mart. 2, 38-40)
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Traduzione E un raggio acuto penetrò, dopo che il santo ebbe imposte le mani, l’occhio di Paolino oscurato da una fosca caligine e, dissipata la nube, il giorno sereno brillò nuovamente ed il volto non più cieco risplendette di una luce uguale. Mentre dalla dita di Martino zampillava l’olio della sua lucerna, (questo) superava, al tocco risanatore, tutti i colliri.
Commento Prosegue il ciclo delle guarigioni cosiddette eclatanti605, con la narrazione relativa a Paolino di Nola, probabilmente non a caso posta nell’ipotesto di seguito a quella concernente la figlia di un eminente personaggio quale fu Arborio. Anche in questo caso infatti Sulpicio ci pone di fronte ad un ricco aristocratico di Aquitania, istruito da Ausonio e protagonista di una brillante carriera politica, che in seguito al Battesimo ed alla conversione “clamorosa”, per cui lasciò tutti i beni terreni, e dopo un soggiorno di quattro anni in Spagna, si installò a Nola in Campania, dove aveva operato anni prima in qualità di consolare; nel 409 ne fu infine eletto vescovo. Paolino fu amico di Martino, dal quale fu guarito probabilmente qualche anno prima della sua “conversione” a Vienne, tra il 386 ed il 389, dove il Nolano incontrò Martino e Vittrice, vescovo di Rouen, come racconta egli stesso in un’epistola redatta nel 398606. Fu verisimilmente in seguito a questo viaggio che Paolino fece incontrare Martino ed il suo amico Sulpicio Severo 607. L’amicizia tra Severo e Paolino, testimoniata dal loro carteggio e dal fatto che quest’ultimo è l’oggetto di smisurati elogi contenuti nei Dialogi, di cui Paolino fu peraltro diffusore a Roma, è intensificata dalla loro comune devozione a Martino; quest’ultimo elemento ebbe probabilmente grande responsabilità nella stessa conversione del Nolano alla “vita perfetta”608. Va rilevato che l’episodio del risanamento della figlia di Arborio e quello di cui fu protagonista Paolino sono connessi esclusivamente dall’inclitica –que, proprio ad
605
Fontaine (2), p. 862. Paul. Nol., ep. ad Victr., 18, 4-9. 607 Cfr. Quesnel, p. 129. 608 Fontaine (2), pp. 884-885. 606
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indicare la stretta connessione tra i due passi, che nell’ipotesto sulpiciano sono accostati l’uno all’altro per asindeto, cfr. Sulp. Sev. Mart. 19, 3. Analogamente all’episodio precedente, il nome di Paolino è posto in posizione di rilievo nell’incipit del primo verso (v. 38). Segue la menzione della malattia descritta ancora una volta in maniera specifica mediante un’espressione del linguaggio tecnicomedico. Il termine caligo infatti è impiegato soprattutto nelle opere di carattere medico per designare una malattia dell’occhio 609. Al v. 40 tuttavia la patologia di Paolino viene indicata con l’immagine simbolica della nube, probabilmente tratta dall’ipotesto sulpiciano, che riferisce: nubes superducta texisset610; nella parafrasi di Paolino si fa menzione sia della caligo che della nubes611. Il significato figurato del termine nubes, attestato già nella poesia latina, procede oltre, evocando talune manifestazioni della potenza divina presenti nell’Antico Testamento, riassunte da Severo nei suoi Chronica612. In questo caso dunque la nube è presentata con connotazione negativa, contrariamente alla funzione positiva che essa rivestiva nella citazione veterotestamentaria dell’episodio precedente: probabilmente, il riferimento alla nube con opposte accezioni in due diverse occasioni a distanza di pochi versi costituisce una casualità ovvero sottintende ancora una volta l’intento manifestato dal poeta di collegare strettamente i due passi, seppur per contrasto. Il v. 39 si apre ancora una volta con un ablativo assoluto che racconta l’avvenuta imposizione delle mani da parte di Martino, mediante la quale il santo ridona la vista all’amico. Il secondo emistichio è contraddistinto dall’iperbato, per cui il predicato si trova ad essere collocato tra il soggetto ed il suo attributo. La voce penetrauit inoltre è presente anche in un ulteriore episodio di guarigione esaminato in precedenza, ossia quello relativo alla paralitica di Treviri (Mart. 1, 426 Paulatimque artus liquor ut 609
Cels. 1, 3; 2, 7; 8; 4, 2; 6; 34; Seren. 200; 208. Cfr. inoltre ThLL, III (1), col. 160 rr. 4-29. Fortunato utilizza il termine con il medesimo significato anche in carm. 2, 16, 139, in relazione alla guarigione del cieco operata da S. Medardo, ma altrove anche in senso metaforico, cfr. Mart. 1, 6; 3, 455. 610 Sulp. Sev. Mart. 19, 3 […] cum oculum graviter dolore coepisse et iam pupillam eius crassior nubes superducta texisset […]. 611 Paul. Petric. Mart. 2, 690-694. Quin et Paulino similis medicina salutem/reddidit, insignis fidei quem gloria late/extulit obducta cuius tum nube latebra/uisus, et infusis caligo extenta tenebris/arcebat cunctam macularum tegmine lucem. Il Nostro sembra riprendere da quest’ultimo tuttavia lo stesso nesso caligine taetra (Mart. 3, 372), allorquando il poeta si accinge a narrare lo scontro tra Martino e Satana travestito da Cristo vincitore; il medesimo sintagma ricorre peraltro anche in Paul. Nol. carm. 19, 33; Prosp. ingr. 584; Alc. Avit. carm. 3, 327. 612 Sulp. Sev. Chron. 1, 14, 4-5; 17, 5; 19, 10. Cfr. al riguardo, Fontaine (2), p. 886.
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penetrauit oliui), in riferimento all’olio benedetto impiegato da Martino per operare la guarigione. L’espressione radius acutus è ripresa verisimilmente da Ovidio, cfr. epist. 4, 159 Quod sit auus radiis frontem uallatus acutis; met. 6, 56 Inseritur medium radiis subtemen acutis. L’idea di luminosità introdotta da tale nesso percorre altresì i due versi successivi (vv. 40-41), in special modo per mezzo di sintagmi quali serena dies refulsit e lumen et emicuit facies. La terzina (vv. 39-41) è strettamente connessa mediante il polisindeto atque (v. 40)/ et (v. 41) e per mezzo dell’enjambement che collega i vv. 4041. Efficace in quest’ultimo verso l’iperbato a cornice che caratterizza la coppia lumen gemellum, la cui intensità semantica è rafforzata dalla litote non lusca. Particolare attenzione merita l’uso transitivo di emicare riscontrato al v. 41, documentato assai di rado nell’intera produzione letteraria latina 613. L’ultimo distico specifica la modalità del risanamento operato da Martino: ancora una volta il medium è l’olio benedetto che cola dalle dita del santo, il cui tocco salvifico è rammentato altresì al verso seguente dal nesso salutifero tactu. Di nuovo infine, il rimedio adottato da Martino supera la medicina tradizionale e le sue terapie, rappresentate in tal caso dall’uso dei colliri. Anche il termine collirium (collyrium) è tratto dal latino medico, ma è rinvenuto altresì sia in senso proprio che metaforico nei poeti d’età classica, nei testi sacri e negli scritti poetici cristiani 614. In questa guarigione l’elemento di novità rispetto ai predecessori è costituito dalla menzione della lanterna; nell’ipotesto di Severo infatti non sono presenti cenni all’olio della lucerna né alle dita del santo. L’Autore parla invece di un penicillum615, per mezzo del quale Martino toccò l’occhio di Paolino e che rappresentava all’epoca uno strumento proprio degli oculisti, con cui appunto essi applicavano il collirio. In
613
Cfr. ThLL, V (2), col. 487 rr. 33-38. Cfr. e.g. Cels. 5, 28; Hor. sat. 1, 5, 30. Iuv. 6, 579; Vulgata (Apoc. 3, 18); Ambr. in Psal. 118, 3, 22; Paul. Nol. carm. 19, 34. Sul termine, cfr. ThLL, III (2), col. 1668 rr. 10-54; sull’uso fortunaziano, cfr. sp. rr. 48-49. Occorre ora fare una precisazione in merito alla menzione di Paolino; infatti nei versi del carme 19, ivi citato per la seconda volta, l’autore si riferisce alla cecità in senso simbolico, da intendere come malattia dell’anima, caratterizzata da empietà e fede vacillante; il rimedio proposto pertanto sarebbe costituito dal collirio infuso da Cristo. 615 Cfr. ThLL, X (1), col. 7 rr. 71-73. 614
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Paolino (Mart. 2, 696), invece, si fa menzione di una spongia e della mano benedetta del santo616. Il fatto che Sulpicio abbia limitato l’accenno al processo di guarigione menzionando esclusivamente tale tecnicismo medico, il penicillum, senza impreziosire l’episodio con riferimenti agli analoghi risanamenti narrati nei brani evangelici, come quello del cieco nato, hanno indotto Fontaine a ipotizzare che in questo caso niente suggerisce il carattere soprannaturale della guarigione. A ciò va ad aggiungersi il fatto che il Nolano non accenna in nessun luogo a tale guarigione destando alcuni sospetti sulla sua reale attuazione; vero è che il medesimo nel carme 19, sopra menzionato, e nelle epistole (18, 9) allude alla purificazione del suo occhio interiore mediante il collirio infuso da Cristo che lo avrebbe guidato all’“illuminazione”, ossia alla conduzione di una vita di ascesi e perfezione. Severo dunque, evitando di proporre allegorie e stilizzazioni del testo neotestamentario ed adottando al contrario uno stile personale, avrebbe alluso a questa guarigione metaforica derivata dall’incontro di Paolino con Martino a Vienne, per mezzo di un’immagine medica, quella della guarigione dell’oftalmia617. Con ogni probabilità, pertanto, Fortunato introduce l’elemento della lampada come riferimento autobiografico, dal momento che egli stesso a Ravenna assieme al suo compagno di studi Felice fu guarito da una fastidiosa malattia agli occhi grazie all’olio della lampada che ardeva sopra l’altare votato a S. Martino nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Come ricordato in precedenza, l’episodio è riferito da Venanzio stesso nell’explicit del poema, che viene presentato quale dono votivo offerto al santo in cambio della miracolosa guarigione agli occhi618. Al v. 42 il nome del santo spicca nell’incipit del verso, in maniera analoga a quanto accade per Paolino all’inizio del passo. Stilisticamente il v. 43 si distingue per l’allitterazione a ponte (salutifero superans) che, riguardando i termini posti a cavallo della cesura pentemimera, funge da collegamento delle due parti del medesimo kolon ed è incorniciata a sua volta dall’allitterazione della gutturale sorda (cuncta…collirio tactu).
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Anche il termine spongia costituisce una sorta di tecnicismo ripreso dal linguaggio medico, cfr. Seren. 19. 617 Fontaine (2), pp. 886-888. 618 Mart. 4, 686-701. Cfr. inoltre Paul. Diac. Hist. Lang. 2, 13.
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Dal punto di vista sintattico, vanno posti in rilievo alcuni elementi, quali la ricorrenza della forma participiale associata alla voce del verbo sostantivo, nel presente caso est, il più delle volte sottinteso619 e la coincidenza tra il soggetto della sovraordinata e quello dell’abaltivo assoluto oleum, contrariamente alle norme classiche. In conclusione, Fortunato riserva all’episodio un numero limitato di versi, contrariamente a quanto attuato da Paolino, che si dilunga maggiormente sia nella descrizione della malattia che del processo di guarigione e termina con una preghiera rivolta al santo, finalizzata all’ottenimento un simile beneficio 620.
619
Su tale costrutto, cfr. quanto affermato a p. (episodio della paralitica). È necessario accennare al fatto che nella sua edizione, il Leo propone per ovviare all’apparente problema del nominatiuus pendens, che il testo sembra presentare ad una prima lettura, l’emendamento superas, rifiutato dalla recente edizione di Quesnel (p. 129). 620 Cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 699-702.
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La guarigione di Martino (Ven. Fort. Mart. 2, 44-57)
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Traduzione Anch’egli scivolò in seguito ad una caduta dalla cima di una scala e, mentre la caduta non gli risparmiava alcun gradino, rimase offeso alla testa e nel volto, finendo con le membra schiacciate in seguito ai suoi rovinosi capitomboli. Mentre, seppur medico di molti, sopportando così tante ferite giaceva penosamente nella cella nella notte soporifera, mandato dal cielo, giunge un angelo del Signore che veglia continuamente. Toccando tutte le ferite dell’uomo, mentre le palpava una ad una tastando le membra con la mano, consolida i piedi nel passo e la piaga che consuma viene scossa via con un balzo fuggitivo e la pelle torna tutt’una sugli arti lacerati dai pali. L’indomani guarito, il corpo indenne, avanzò testimone vivente dell’angelica azione. Non doveva sopportare lunghe sofferenze questo uomo pio, dal momento che egli non permetteva che alcuno fosse gravemente tormentato.
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Commento Nel passo in esame siamo di fronte al racconto della guarigione del “guérisseur guéri”
621
, in quanto protagonista del risanamento è lo stesso Martino, caduto da una
scala e curato da un angelo inviato dal Signore. L’episodio sembra strettamente connesso a quello precedente, come confermato dalla congiunzione etiam, che riprende in un certo qual modo l’autem dell’ipotesto, il quale si presenta nell’incipit pressoché identico alla parafrasi venanziana, cfr. Sulp. Sev. Mart. 19, 4 Ipse autem, cum casu […] 622. Le circostanze della caduta non sono indagate a fondo da Fortunato che recupera in maniera ulteriormente sintetica le stringate informazioni rinvenute nel testo sulpiciano, che riferisce cum casu quodam esset de cenaculo deuolutus; Paolino invece si dilunga sull’accaduto fornendone una dettagliata descrizione623. Se il primo emistichio del v. 44 richiama pressoché letteralmente l’incipit della prosa di Severo, la seconda metà è impreziosita da un rimando ai poeti classici, nella fattispecie Lucano (Phars. 3, 272 qua Croeso fatalis Halys, qua uertice lapsus), la cui influenza nell’opera fortunaziana, è stata indagata in particolare da Blomgren 624. Il verso successivo è tagliato in due dalla cesura eftemimera, mentre le pause al secondo e terzo trocheo isolano al centro il gerundio cadendo. La forma verbale dinumerare è impiegata nella poesia latina una ventina di volte in totale, alcune delle quali al participio come nel caso presente625. Un’immagine simile a quella espressa da Fortunato in relazione al ruzzolone del santo che tocca nella sua caduta gli scalini uno ad uno è rappresentata altresì da Paolino, cfr. Mart. 2, 711 Corruit [scil. Martino] et crebram gradibus renouando ruinam, mentre Sulpicio si sofferma sul fatto che gli scalini lungo i quali scivola Martino sono tutti diseguali, cfr. Sulp. Sev. Mart. 19, 4 […] et confragosos scalae gradus decidens626. 621
Fontaine (2), p. 888. Paolino invece se ne distacca completamente, cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 703-708. 623 Cfr. Paul. Petric. Mart. 2, 708-712 Namque ad sublimem nitens conscendere partem,/qua domus excelsis pendebat fulta columnis,/lubrica dum scalis figit uestigia, pronus/corruit et crebram gradibus renouando ruinam/colliso terram collapsus corpore pressit. 624 Cfr. Blomgren (4), pp. 150-156. 625 Verg. Aen. 6, 691 Tempora dinumerans, nec me mea cura fefellit; Opt. Porf. carm. 20, 10 Dinumerans, cogens aequari lege retenta; Columb. Seth. 62 Tempora dinumerans aeui uitaeque caducae; Anth. Lat. 676, 2 Tempora dinumerans aeui uitaeque caducae; Anth. Lat. 719a, 4 Tempora dinumerans deus euocat agmine magno. 626 L’aggettivo confragosus è alquanto raro ed è riferito di solito ad elementi naturali, come monti, scogli e colline. Nonostante dunque l’uso manieristico che ne fa Severo, il senso del temine nel contesto è 622
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Nel secondo emistichio del verso fortunaziano prende avvio la rappresentazione delle conseguenze della caduta: significativo l’uso del verbo relido, adoperato da Fortunato con una certa frequenza 627. Tale termine, assente negli scrittori classici ed impiegato dai poeti della tarda latinità, in particolare i cristiani fra cui Prudenzio e Paolino di Nola, riveste il significato di “percuotere di nuovo” 628. La sintassi dei vv. 44-46 risulta complicata. Nella traduzione sopra proposta le forme participiali lapsus ed adtritus, coordinate dall’enclitica –que, sottintendono la voce del verbo sostantivo est. Ma allo stesso tempo potrebbero intendersi i participi lapsus e dinumerans coordinati tra loro dal –que e relisus ed adtritus, uniti per asindeto, potrebbero invece sottendere est. Ciò che appare evidente dal testo fortunaziano, tuttavia, è l’amore del poeta per la ridondaza che in questo caso conduce il poeta a commettere un’incoerenza nella narrazione della caduta rovinosa del santo: infatti la locuzione dinumerans gradus, che precisa il tipo di caduta (gradino dopo gradino), confligge con l’explicit del v. 46 descendendens saltibus amplis. Se la caduta avviene per “grandi capitomboli” è pressoché impossibile che siano toccati dal corpo del santo tutti i gradini della scala. Dal punto di vista stilistico, il v. 46 è caratterizzato altresì dall’allitterazione in fine di parola della “s”, quasi a replicare l’azione dello scivolare del santo giù per gli scalini; il verso, inoltre, presenta nella prima parte un’ulteriore descrizione delle ferite riportate da Martino e nel secondo emistichio, delimitato dalla cesura pentemimera, una precisazione sul suo modo di procedere nella rovinosa caduta, costituendo così con il verso precedente una sorta di chiasmo che coinvolge sia il senso che la sintassi del distico (v. 45: part. pres. - part. perf.; v. 46: part. perf. - part. pres. con allitterazione dei membri esterni). La terzina successiva descrive l’intervento notturno dell’angelo inviato dal Signore al santo che riposava a fatica, a causa delle molte ferite riportate nel suo capitolare. Il v. 47 si apre con il nesso allitterante multorum medicus, posto in rilievo chiaro, in quanto esso è finalizzato a sottolineare la disuguaglianza dei gradini e la conseguente pericolosità insita nei medesimi. Cfr. ThLL, VI, col. 253 rr. 57-58. 627 Mart. 2, 172 Belliger hoc clipeo hostilia tela relidens; 3, 15 Maius iter gradiens, ubi se uada glauca relidunt; 4, 41 Dente relisa cauo producens uerba fritillo; carm. 2, 9, 12 Et uelut incudo cura relisa terit; 6, 10, 4 Qua citharis Erato dulce relidit ebur. 628 Auson. epist. 21, 43 Quae firmata probant aut infirmata relidunt; Prud. apoth. 95 Aspergunt, alapis non uexat palma relisis; perist. 9, 48 Frangunt, relisa fronte lignum dissilit; Paul. Nol. carm. 28, 119 Arceremque hostem collato umbone relisum; Avian. fab. 3, 2 Hispida saxosis terga relisit aquis; 9, 10 Exanimem fingens, sponte relisus humi. Cfr. Forcellini, IV, p. 68.
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all’inizio: il riferimento è ovviamente a Martino. L’appellativo medicus non è mai richiamato da Fortunato nel corso delle tre guarigioni narrate in precedenza, ossia quella del lebbroso, della figlia di Arborio ed infine quella di Paolino; come evidenziato, esso ricorre invece nell’episodio della paralitica. Degno di essere menzionato il participio portans, ennesima forma participiale rinvenuta nel testo, che acquisisce con ogni probabilità nella presente occorrenza, il particolare significato di “sopportare”, “sostenere”629. Il termine è classificabile fra le parole non propriamente poetiche, il cui uso, frequente nei versi fortunaziani, è comune anche agli antichi poeti630. Al verso successivo si ritrova, posticipata rispetto al resto della frase contenuto al v. 48, la congiunzione dum; seguono il locativo cellae631 ed il predicato recubat che ricorre anche negli altri episodi di guarigione raccontati da Fortunato, fra cui quello della paralitica, quello della figlia di Arborio ed infine quello di cui fu protagonista Evanzio, zio del monaco Gallo 632; l’avverbio grauiter si ritrova nella guarigione del notabile sopra menzionato (Mart. 2, 20) ed in ulteriori versi dell’opera: se ne rammentano in particolare due che richiamano molto da vicino i versi del passo in esame, ossia Mart. 4, 131 Concutit et grauiter, ne cederet ipse sopori (cfr. Mart. 2, 48) e 4, 144 Quando flagellatur grauiter te iudice iudex (cfr. Mart. 2, 57)633. Nella sezione finale del verso, separata dalla cesura eftemimera, risalta un rimando intertestuale a Stazio, rinvenuto altresì nell’opera di Cipriano 634. A differenza di Fortunato che descrive il dolore provato dal santo in un solo verso, Paolino insiste più approfonditamente al riguardo; un elemento tuttavia accomuna le due parafrasi, ossia la presenza col medesimo significato della forma participiale portans, cfr. Mart. 2, 713-714 Ecce autem praefracta trucem dum membra dolorem/fessa gemunt, subita afflicto solacia portans. L’ipotesto sulpiciano invece caratterizza l’agonia di Martino mediante espressioni quali multis uulneribus esset adfectus, cum esanimi iaceret in cellula ed inmodicis doloribus cruciaretur (Sulp. Sev. 629
Cfr. quanto affermato in Forcellini, III, p. 770, ove il medesimo uso è riscontrato in Coripp. Iohann. 4, 735. 630 Cfr. Axelson, p. 30 ss; Blomgren (9), p. 31. 631 Con il termine cella si intende evidentemente in questo caso la stanza ricavata per ciascun monaco all’interno del monastero, cfr. ThLL, III, col. 760 rr. 12-22. Esso si ritrova anche in Vita Radeg. 13, 30, 2. 632 Cfr. rispettivamente Mart. 1, 375; 2, 23; 3, 74. 633 Cfr. Mart. 2, 20; 3, 47. 634 Stat. Theb. 1, 403 Conscius horror agit eadem, sub nocte sopora; Cypr. gen. 1218 Eloquitur, quae uisa forent sub nocte sopora.
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Mart. 19, 4). La precisazione relativa all’ambiente in cui avviene la guarigione, la cella del santo, e la determinazione temporale avvicinano il testo fortunaziano a quello di Sulpicio; le due informazioni sono invece omesse nella versificazione paoliniana. Al v. 49 entra in scena l’angelo del Signore635, il cui ingresso è posto in rilievo al centro del verso dopo la cesura pentemimera, preceduto dal nesso peruigilis domini ad indicare la volontà del Signore, come puntualizzato altresì dalla clausula finale aere fusus. Quest’ultima espressione echeggia probabilmente ancora una volta il verso di un poeta assai caro e familiare a Fortunato, cfr. Drac. laud. dei 2, 34 Nam quasi aer fusus sic omnia contegit implens636. L’apparizione dell’angelo ad un uomo sofferente non costituisce un hapax nella letteratura cristiana: prima fra tutti è da menzionare l’apparizione dell’angelo liberatore a Pietro incarcerato da Erode, narrata negli Atti637; si avvicinano tuttavia maggiormente alla visione di cui fu protagonista Martino, le apparizioni vissute dai martiri condannati e torturati, fra cui quelle narrate nella Passio di Perpetua e Felicita, nell’Africa degli inizi del III. sec. e quelle contenute nelle Passiones letterarie, in prosa ed in versi, redatte a partire dal IV sec. 638. Infine, il tema preciso dell’angelo guaritore si rifà più da vicino ancora una volta alle tradizioni monastiche dell’Egitto 639. Il fatto che la guarigione per mano dell’angelo abbia avuto luogo di notte induce a supporre che la visione del medesimo sia avvenuta nel sonno e sia identificabile pertanto con una visione onirica. Il v. 50 esibisce una struttura sintattica conforme a quelle precedenti, presentando nel primo emistichio la forma participiale e dopo la cesura eftemimera la subordinata introdotta da dum; da rilevare la presenza degli aggettivi quaeque (indefinito con valore distributivo) e singula (numerale distributivo), semanticamente
635
All’interno della biografia martiniana, l’angelo del Signore farà la comparsa una seconda volta nell’episodio relativo al concilio di Nîmes, per raccontare a Martino le deliberazioni prese in sua assenza, cfr. Sulp. Sev. Dial. 2, 13, 8; Ven. Fort. Mart. 3, 430-508. Anche in alcuni testi poetici precedenti è documentata la presenza del messaggero inviato da Dio, cfr. Cypr. exod. 225 Angelus ecce uenit domini mortemque minatur; num. 599 Ecce uiae medio domini mox angelus offert; Victorin. uita dom. 5 Angelus et caelis uenit qui diceret ante; Paul. Petric. Mart. 1, 199 A domino missus praestrauerat angelus oras; 4, 318 Angelus haec domini mandati uerba profatur. 636 Il nesso è rintracciato altresì nell’opera del meno noto Aviano, cfr. fab. 11, 4 Aere prior fusa est, altera ficta luto. 637 Ac. 12, 7. 638 Cfr. e.g. il sogno di S. Vincenzo, descritto in Prud. perist. 5, 269 ss. Cfr., inoltre, quanto affermato al riguardo da Fontaine (2), pp. 890-891. 639 Cfr. Rufin. Hist. mon. 15.
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sinonimi, che sottolineano l’intervento totalizzante dell’angelo. Interessante infine l’impiego di termini quali tractare e palpare: il primo di essi ricorre di consueto anche in poesia ed in maniera significativa è rintracciabile nell’opera di carattere medico di Sereno Sammonico, sopra citata in diverse occasioni640; il significato di “cogitare” attribuito al verbo da Meneghetti nel suo studio (p. 106) sembra dunque in questo specifico caso inappropriato. La voce palpare invece è adottata con una certa frequenza dal Nostro, in particolare nel corso delle altre guarigioni operate dal santo, quali quella dello schiavo morso dal serpente e quella dell’emorroissa, in cui tuttavia il verbo è usato in relazione alle fibre della veste di Martino toccate dalla donna, che troverà in tal modo la sua via di salvezza641. Notevole il fatto che la medesima forma verbale è rinvenuta altresì nella Vulgata allorquando Gesù, dopo la resurrezione, invita i discepoli a toccarlo per mostrare loro che era proprio lui642. Il campo semantico connesso al tatto è ampliato al verso successivo dall’espressione, caratterizzata anche dall’allitterazione della “m”, tangens membra manu, che riprende la costruzione del primo emistichio del verso precedente, invertendone i termini (v. 50: c. ogg.-part. pres.; v. 51 part.pres.-c. ogg.). A differenza dei risanamenti operati da Martino, il motivo del contatto con il corpo del malato non è in questo caso accompagnato dall’unzione con l’olio santo; verosimilmente l’angelo, messo del Signore, è creatura divina e non necessita di un medium, come l’olio santo, per operare la guarigione. Nella seconda metà del v. 51 il poeta accenna alla ritrovata salute del santo, facendo riferimento al passo saldo dell’uomo (solidat uestigia gressu); quest’ultima affermazione è organizzata in parallelismo rispetto a quella che, precedendo la cesura pentemimera, si colloca nella prima parte del medesimo verso. Il riferimento all’andatura nuovamente salda del beneficiario della guarigione è presente anche nel brano concernente la paralitica di Treviri, cfr. Mart. 1, 428 et fundata suo uiguerunt culmina gressu.
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Seren. 21 Profuit et cocleis frontem tractare minutis; 75 Nec pudeat tractare fimum, quod bucula fudit; 249 Hinc tractato locum: miram experiere medelam. 641 Cfr. rispettivamente Mart. 3, 104; 4, 260. Il medesimo verbo è riferito altresì a S. Medardo che agisce con il suo tocco risanatore a beneficio di un cieco, cfr. carm. 2, 16, 29. Cfr. infine ThLL, X (1, 2), col. 166 rr. 44-50, in cui si menzionano gli usi del termine in relazione all’azione del medico. 642 Cfr. Lc 24, 39 Videte manus meas et pedes quia ipse ego sum palpate et uidete quia spiritus carnem et ossa non habet sicut me uidetis habere.
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Il verbo solidare, registrato altresì da Leo nel suo Index, è usato dal poeta ripetutamente643; l’accostamento tra tale forma verbale e il termine uestigia è rinvenuto anche in Corippo644. Molto più ricorrente, a partire dall’età classica con Silio Italico (3, 500), il nesso uestigia gressu, ripreso successivamente da Giovenco, Claudiano, Paolino di Nola ed infine Aviano ed impiegato in tutte le occorrenze menzionate come clausula finale645. Al di là dei rimandi intertestuali, è opportuno constatare a questo punto che nell’ipotesto in prosa è assente qualsiasi cenno alla dimensione del tocco da parte dell’angelo, cfr. Sulp. Sev. Mart. 19, 4 eluere membra e salubri unguedine contusi corporis superlinire liuores. Anche nel testo di Paolino si fa menzione di particolari unguenti con proprietà risanatrici e l’unico cenno alla dimensione del tatto è contenuta al v. 718, in cui il poeta afferma: perducens (scil. l’angelo) tenuem tactu leuiore liquorem. Tuttavia sia la versione di Fortunato che quella sulpiciana si contraddistinguono per la presenza di tecnicismi derivati dal linguaggio medico, proponendo la descrizione di un mondo soprannaturale fortemente umanizzato, in cui sono piuttosto l’efficacia immediata della cure ed il pronto ristabilimento del giorno successivo, a definire in maniera netta, come si vedrà di seguito, il carattere miracoloso della guarigione 646. Il v. 52 si sofferma ancora una volta sulla malattia che fugge in seguito all’azione salvifica, in questo caso dell’angelo; da rilevare a livello stilistico l’intarsio del gruppo attributivo presente nel verso. Dal punto di vista lessicale, occorre precisare che il termine lues ricorre in ulteriori quattro occorrenze nell’opera poetica del Nostro647, mentre il sostantivo saltu richiama la sezione iniziale del passo (cfr. saltibus, v. 46). L’aggettivo tabida rimanda invece alla guarigione della fanciulla di Treviri
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Mart. 2, 306 Mens solidata manens, rimans alta atque profunda; 2, 442 Huius in affectu insertus solidatus adultus; 4, 267 Ueste sacra medici solidantur glutine riui; carm. 1, 11, 13 Qui feruente fide, Christi solidatus amore; 2, 10, 10 Haec pretio mundi stat solidata domus; 2, 16, 89 Cum solidarentur non sic strepuere catenae. 6, 5, 330 Aut uitrea glacie se solidasset iter; 7, 12, 45 Multorum dubiam solidant pia funera uitam; carm. app. 2, 23 Ecclesiae turbata fides solidata refulget. 644 Coripp. Ioh. 7, 265 Arua gemunt: solidant latos uestigia campos. 645 Iuvenc. 3, 102 Fluctibus in liquidis sicco uestigia gressu; Claud. Hon. III cos. 39 Mox ubi firmasti recto uestigia gressu; Paul. Nol. carm. 18, 348 Si qua illi extremo tulerant uestigia gressu; Avian. fab. 9, 9 Ille trahens nullo iacuit uestigia gressu. Il sintagma ricorre, seppur non a fine verso in qualità di clausula, anche in Paul. Petric. Mart. 2, 242 Tardata immoto uestigia sidere gressu. 646 Fontaine (2), p. 892. 647 Mart. 2, 363; 4, 429; 4, 464; carm. app. 1, 158.
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operata da Martino (Mart. 1, 368 ), ove esso è impiegato in riferimento alla terribile paralisi che affligge la ragazza. Il v. 53 descrive la fase finale della guarigione delle ferite riportate dal santo nella caduta: significativa la posizione del verbo al centro del verso, inquadrato assieme al soggetto all’interno delle due parti separate del gruppo subordinato (laceros…per artus). Costituisce ripresa intertestuale l’espressione rediit cutis una, che rinvia infatti ancora una volta a Sedul. carm. pasch. 3, 30648. Inoltre va sottolineato che il verbo redire è utilizzato con una frequenza altissima dal Nostro, in special modo nelle narrazioni dei miracoli di guarigione e di resurrezione compiuti da Martino649. L’aggettivo lacerus è impiegato da Fortunato anche nella descrizione del lebbroso, in riferimento ai suoi piedi, cfr. Mart. 1, 492 mente hebes, ore putris, lacerus pede, uoce refrictus. Degna di nota la clausula una per artus, assimilabile a quelle per così dire normali, in qualità di varianti del tipo conde sepulcro650; il nesso finale per artus, rinvenuto nei versi venanziani in questa sola occasione, ricorre nei poeti esametrici precedenti un numero elevatissimo di volte, in particolare in Lucrezio, Stazio, Sedulio e Draconzio651. Pertanto il processo di risanamento del santo prende avvio nel secondo emistichio del v. 51, dove la pausa logica si sovrappone a quella metrica, e prosegue nei due versi successivi; la terzina è connessa dall’enjambement (vv. 51-52) e dal polisindeto –que…et (vv. 52-53). Il v. 54 presenta la situazione di Martino l’indomani della guarigione notturna: per conferire maggiore solennità al verso, il predicato è posto al centro ed è incorniciato da due coppie, la prima formata in maniera anomala da agg.-agg. e la seconda regolarmente da agg.-sost., incrociate tra loro a costituire il cosiddetto esametro aureo. L’aggettivo crastinus è ivi impiegato con valore predicativo 652, mentre il termine 648
Sedul. carm. pasch. 3, 30 Confestim redit una cutis proprioque decore. Cfr. e.g. Mart. 1, 498 Mersa figura redit, faciem cutis aduena uestit (guarigione del lebbroso). 650 Cfr. Longpré, p. 50. Lo studioso, su un campione di ottocento versi (i primi quattrocento del libro II ed i primi quattrocento del libro III), ha rilevato quattrocentonove clausule del genere sopra citato. 651 Lucr. 2, 267; 282; 949; 964; 3, 245; 283; 376; 393; 398; 492; 529; 533; 586; 589; 710; 758; 767; 923; 4, 916; 1215; 5, 851; 898; 6, 661; 797; 945; Stat. Theb. 1, 416; 493; 2, 413; 627; 7, 761; 9, 44; 10, 37; Sedul. carm. pasch. 3, 27; 93; 293; 4, 178; Drac. laud. dei 3, 694; 3, 713; Romul. 5, 65; 6, 26. 652 Sul medesimo uso nei testi poetici, cfr. Sidon. carm. 24, 22; Drac. Romul 10, 447. Cfr. inoltre ThLL, IV (7), col. 1107 rr. 1- 2. In generale sull’uso dell’aggettivo in funzione predicativa, cfr. Väänänen, p. 273; Löfstedt (1), vol. I, p. 86; Hofmann-Szantyr, pp. 171-172. 649
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comptus, da rendere in questo caso nell’accezione particolare di “guarito”653, richiama nuovamente il risanamento della paralitica, in cui esso serve a designare la capigliatura poca curata del padre della fanciulla (male compta) angosciato per la salute della figlia 654. Il v. 55, connesso al precedente mediante l’enclitica, accenna alla fiducia riposta da Martino nell’intervento angelico; indicativo il fatto che ancora una volta il riferimento sia, come nel caso della guarigione del lebbroso655, alla fede del santo che gli permette pertanto sia di operare in favore degli altri sia di essere salvato in prima persona. Da rilevare che l’espressione angelicam fidem, rimanda di nuovo a Sedul. carm. pasch. 5, 333 angelica didicere fide. Perterritus autem. Il distico finale riporta la necessaria conclusione dell’episodio: Martino che si è prodigato per evitare la sofferenza di un gran numero di persone non può non essere egli stesso sottratto a simili pene. Pertanto la coppia di versi si apre con la negazione nec che assieme al predicato decebat delimita il v. 56, mentre le due forme verbali, quella principale e quella dell’oggettiva, includono tra loro i restanti termini; caratterizza la prima parte del medesimo verso l’allitterazione della “p”. Occorre ora fare una precisazione in merito all’uso della congiunzione nec in Venanzio, dal momento che il poeta la impiega svariate volte in luogo di ne…quidem656 e di non, come accade nel caso presente657. Il nesso longinqua flagella è proprio di Fortunato; quest’ultimo termine ricorre spesso nell’opera poetica dell’autore, soprattutto nella Vita e, analogamente a quanto rinvenuto nei poeti precedenti, esso è collocato a fine esametro 658. L’aggettivo pius, che funge qui da sostantivo è riferito spesso a Martino 659; nei versi esaminati in precedenza esso ricorre una volta e designava l’amore dell’anziano padre per la figlia nell’episodio della paralitica, cfr. Mart. 1, 377. Nell’incipit del verso successivo (v. 57) si trova la congiunzione quando, la quale, altrove impiegata da Venanzio con significato temporale anche al di fuori delle 653
Simbeck (THLL, III (2), col. 2169 rr. 59-75) riporta esclusivamente il significato di ornatus. Mart. 1, 378. 655 Mart. 1, 501 Virtutum quam celsa fides ubi concite sancti. 656 Cfr. e.g. carm. 1, 15, 73; 16, 47; 3, 2, 1; 4, 4, 7; 5, 1, 1; 7, 15, 4;8, 18, 5. Per quanto concerne la prosa, cfr. Vita Radeg. 3, 11, 20; Vita Germ. 12, 41, 30; 23, 70, 30;34, 99, 44. Sull’argomento cfr. inoltre, Meneghetti, pp. 182-184. 657 Cfr. Vita Radeg. 3, 9, 12; 28, 66, 4; 35, 81, 31. 658 Mart. 1, 120; 2, 7; 2, 175; 2, 207; 3, 137; 3, 232; 3, 299; 4, 182; 4, 194; 4, 443; carm. 5, 2, 38. 659 Cfr. e g. Mart. 1, 85; 1, 149; carm. 8, 11, 4; 10, 12a, 7. 654
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proposizioni interrogative 660, acquista in questa occorrenza valore causale, come rilevato dal Leo nel suo Index (p. 414)661. Tale uso pertiene già al latino classico ed ancor prima a quello arcaico, ove tuttavia il termine tendeva ad introdurre una motivazione specifica; nel latino tardo presso gli autori ecclesiastici, esso riveste un significato più ampio, finendo per esprimere una causa generica 662. Al medesimo verso, segue l’infinito flagellari dipendente da pertulit della clausula finale: entrambi connettono strettamente i vv. 56-57: il primo riprende in figura etimologica il flagella del v. 56, mentre il verbo di modo finito richiama l’infinito perferre del verso precedente, preceduto anche in questo caso dalla negazione. L’identificazione di Martino con gli afflitti, che pervade il passo, è sottolineata anche dall’avverbio grauiter che si riallaccia al v. 48, relativo alle sofferenze del santo patite a causa delle ferite riportate nella caduta. Il motivo della necessità della guarigione di Martino in quanto guaritore egli stesso manca nell’ipotesto sulpiciano e nella parafrasi di Paolino, anzi quest’ultimo mette in luce il fatto che il santo ritiene di non meritare l’intervento divino 663. In conclusione, anche nella narrazione del risanamento di Martino, numerose sono le affinità lessicali riscontrate, nel confronto con gli altri episodi di guarigione, e diversi gli elementi e le strutture ricorrenti: anche in questo caso spiccano l’inclinazione del poeta alla ridondanza, l’uso di termini specifici del lessico medico ed il ruolo rilevante, nella pratica di guarigione adottata dall’angelo, del tatto non accompagnato in tal caso dalla promanazione dell’olio benedetto. La precisazione finale che, come rilevato pocanzi, caratterizza esclusivamente il testo fortunaziano, contribuisce infine a mettere in risalto le virtù curative di Martino, il quale proprio per questo motivo merita di essere risanato e di essere sottratto dunque al dolore fisico.
660
Cfr. Meneghetti, p. 125. Cfr. Mart. 2, 212; 4, 144; carm. 10, 7, 67. 662 Hofmann-Szantyr, p. 607. 663 Cfr. Sulp. Sev. Mart. 19, 4 Atque ita, postero die, restitutus est sanitati, ut nihil umquam pertullise incommodi putaretur; Paul. Petric. Mart. 2, 725-726 Dum dominum laudat, sibimet nil arrogat inde/prodidit et meritum, quia se meruisse negauit. 661
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La guarigione di Evanzio (Ven. Fort. Mart. 3, 74-96)
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Traduzione Mentre Evanzio, vacillando nella fede, giaceva a terra ammalato, poiché il suo respiro si faceva affannoso e stava giungendo all’estremo, con le preghiere mandò subito a chiamare il vescovo affinché si affrettasse e la via intrapresa dal santo, una volta tornato indietro, risultasse per lui la vita. E Martino, da quel viandante che era, non esitò a riprendere il cammino. Non aveva compiuto ancora la metà del percorso a causa della vecchiaia avanzante, quando inviò il suo soccorso di salvezza prima che sopraggiungesse di persona e il rimedio somministrato al malato annuncia che il santo stava arrivando, la medicina facendo anche da battistrada indicava che quello le stava dietro. Mentre l’eroe tardava nel passo, la cura lo precedette in volo ed annuncia che il santo stava arrivando, la medicina facendo anche da battistrada indicava che quello le stava dietro. Per soccorrerlo subito, gli unguenti attraversano l’aria. Come il sole con i suoi raggi invia calore più lontano della sorgente, così Martino con la sua virtù offre soccorso anche dove non è. È cosa assai meravigliosa, quando, messa in fuga la malattia, il malato salta su prima che il medico abbia tastato il polso. Corse incontro al santo e gli presentò ringraziandolo i suoi ossequi e condusse egli stesso a casa sua l’uomo, che lo restituì a se stesso con la luce della vita, ora con passo vivace, mentre poco prima giaceva a letto. Frattanto Evanzio, avendo sperimentato le miracolose azioni di Martino, guarito, supplica il santo che si attardi a casa sua fino all’indomani. E, anche se per il breve spazio di un giorno, conserva la vista di un così grande ospite, ma questo indugio fu allora occasione per dispensare salvezza.
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Commento La narrazione della guarigione di Evanzio costituisce una sorta di dittico assieme alla guarigione di cui beneficia lo schiavo di quest’ultimo morso da un serpente; sulla scia di quanto operato da Sulpicio nei Dialogi, i parafrasti raccontano i due episodi in successione, rispecchiando quella che con ogni probabilità fu la cronologia dei fatti. Come accennato, l’ipotesto è rappresentato in questo caso dai Dialogi, che Sulpicio redasse, sei anni dopo la pubblicazione della Vita, sulla base di una raccolta di trenta miracoli circa estrapolati dagli atti martiniani per mano del monaco di Marmoutier, Gallo, incaricato dallo stesso Severo. Quest’ultimo utilizzò il materiale fornito dal monaco e lo organizzò appunto sotto forma di dialoghi, animati, a differenza della Vita, da uno spirito di competizione e dalla polemica contro i membri del clero 664. Gli episodi relativi ad Evanzio ed al suo schiavo sono raccontati da Severo all’inizio del II Dialogus, in seguito al gesto di Martino che dona la sua tunica al povero e celebra di seguito la Messa; gli eventi sono sigillati dall’apparizione di un globo di fuoco665. Paolino e Fortunato parafrasano tali avvenimenti rispettivamente all’inizio del IV e del III libro delle loro Vitae666, in seguito ad una breve introduzione, assommante in entrambi i casi ad una ventina di versi667. Nella suo proemio al libro III, Venanzio riprende il tema della navigazione, introdotto nella Praefatio all’opera, dedicata ad Agnese e Radegonda, dove la scrittura è paragonata all’arte del navigare, e richiamato altresì nell’incipit del libro II, in cui, nel medesimo contesto metaforico, Sulpicio rappresenta per Fortunato la guida, Gallo colui che rema e Martino il timoniere, sotto la protezione di Cristo che fa spirare i venti adatti668. Tornando ora al passo in esame, è possibile osservare che il primo verso (v. 74) ospita il nome del protagonista dell’episodio, collocato nella clausula finale assieme all’attributo aeger669; aprono il verso la congiunzione dum con valore temporale e la forma verbale, ancora una volta posta al congiuntivo imperfetto, secondo un uso 664
Cfr. Nazzaro (4), p. 302. Sulle intricate questioni concernenti il titolo, la datazione, la suddivisione, la destinazione ed infine la finalità dell’opera, cfr. Fontaine (3), pp. 13-38. 665 Sulp. Sev. Dial. 2, 1, 2, 1-2. 666 Paul. Petric. Mart. 4, 21-95; Ven. Fort. Mart. 3, 24-73. 667 Paul. Petric. Mart. 4, 1-20; Ven. Fort. Mart. 3, 1-23. 668 Ven. Fort. Mart. praef.; 2, 1-10. 669 L’aggettivo ritorna nella medesima forma e nella stessa posizione metrica all’interno del passo in esame (Mart. 3, 89) ed analogamente nell’episodio della fanciulla paralitica (Mart. 1, 388) e nella narrazione di un esorcismo contenuta nel IV libro (v. 388).
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attestato presso tutti gli autori del tardo antico670. Segue l’ablativo in funzione locativa humo671, che ritorna in connessione con il verbo recubare anche in carm. 8, 3, 253 cum recubaret humo neque uicta sopore quieuit. L’uso dell’ablativo humo, in luogo del locativo humi per indicare lo stato in luogo è documentato soprattutto presso gli autori della tarda latinità, fra cui Sidonio e Gregorio di Tours672. Occorre soffermarsi a questo punto sul personaggio e sulla caratterizzazione che ne forniscono gli autori. Evanzio è lo zio materno di Gallo, come ricordato nei Dialogi, la cui identità tuttavia è discussa dagli studiosi. Secondo Quesnel egli fu proprietario terriero residente nella zona di Tours673, mentre Fontaine precisa che sulla base del suo epitafio ritrovato a Roma egli fu avvocato, senatore e governatore della regione di Vienne nella Gallia del Sud 674; infine con ogni probabilità, l’uomo si rifugiò in Italia al tempo dell’usurpazione di Costantino III (406)675. L’ipotesto e la versione di Paolino precisano altresì che Evanzio fu fervente cristiano (admodum Christianus)676, mentre nella parafrasi venanziana, l’autore lo designa con il participio presente fluitans, frequentativo di fluo, che ben definisce la situazione psicologica dell’uomo, titubante perché ancora legato ai beni terrreni 677; il senso di quanto appena affermato è espresso più chiaramente da Paolino, il quale, in maniera dissimile dal predecessore, sviluppa il concetto in una quartina anziché in unico verso678. Il testo fortunaziano, dunque, in questo caso è esemplificativo della concisione del poeta, che talvolta rischia di rendere ardua la comprensione di quanto affermato, lasciandovi gravitare attorno un alone di oscurità.
670
Cfr. Dagianti p. 105; Meneghetti, pp. 241-242. Cfr. ThLL, VI (3), col. 3122 rr. 24 ss. 672 Cfr. Hofmann-Szantyr, p. 145; 149. 673 Dial. 2, 2, 3 auunculus meus, uir licet saeculi negotiis occupatus admodum Christianus. 674 L’epigrafe è pubblicata in Année Epigraphique, 1953, p. 200. 675 Fontaine (3), p. 223 nt. 6. 676 Fontaine (3), p. 223 nt. 7, chiarisce che, secondo l’ideologia dell’Impero cristiano, lo zio di Gallo riesce a conciliare la carriera politica e la condotta da buon cristiano. 677 Cfr. Quesnel, p. 143 nt. 13. Lo studioso corrobora la sua ipotesi, citando l’epistola di Paolino di Nola indirizzata a Severo (Paul. Nol. ep. ad Sulp. 5, 6), nella quale l’autore fa riferimento all’abbandono da parte di Severo del padre, rimasto invece in balia degli affari terreni (“in nauicula fluctuante”). Bacherler (ThLL, VI (1), col. 956 rr. 73-84 riporta la forma participiale impiegata in funzione aggettivale, ma non registra il caso presente fra i vari loci riportati per esemplificare rispettivamente due principali significati del termine: 1. “agitatus, motus, inquietus” 2. “mutabilis, instabilis, incertus, inconstans”. Infine il verbo fluito ritorna nella Vita in 4, 76 Lintea dum retrahit fluitantia nescius alter. 678 Paul. Petric. Mart. 4, 96-100 Quidam uir locuples Euanthius et, licet istis/astrictus mundi per uincla tenacia curis,/attamen illaesae fidei cordisque benigni,/conseruans purum terreno a crimine sensum. 671
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Il termine fluitans mostra pertanto notevoli difficoltà nella traduzione: nelle versioni italiane, Palermo (p. 102)679 e Tamburri (p. 103) riallacciano la voce a humo, rendendo entrambi “stando per andar via dalla terra”, ma alla luce di quanto sopra affermato relativamente alla funzione locativa di humo ed al nesso fortunaziano recubare humo, tale resa sembra inopportuna. Il v. 75 è connesso a quello precedente dall’enjambement che lega aeger e fessus in una sorta di crescendo, culminante nella narrativa in cui si fa riferimento all’esalazione dell’ultimo respiro. Da rilevare l’omeoptoto tra fessus, extremus ed habitus, lo stacco tra quest’ultimo sostantivo ed il suo attributo, molto evidente e finalizzato ad enfatizzare la descrizione del malato680, la presenza dell’avverbio temporale iam documentato anche nel racconto della guarigione della paralitica e del lebbroso, ad indicare la fine quasi certa dei malati che implorano l’aiuto di Martino681 ed infine il nesso super halitus. Quest’ultimo, infatti, oltre a costituire una ripresa intratestuale (cfr. Mart. 2, 158), rimanda ancora una volta a Virgilio (cfr. Aen. 4, 684 Abluam et, extremus si quis super halitus errat)682. Il v. 76 ospita l’azione principale di questo primo periodo, puntualizzata nuovamente dall’aggettivo in funzione predicativa, riferito al soggetto; la sezione iniziale è caratterizzata inoltre dall’allitterazione della “p”, mentre la clausula finale contiene la completiva, il cui senso è ampliato dalla coordinata che segue al verso successivo. Da menzionare infine il nesso precibus…euocat che potrebbe ricordare Sidon. carm. 5, 308 Euocat hunc precibus. Sed non se poena moratur. Il v. 77 si contraddistingue per la paronomasia tra uia e uita e per la connessione di quest’ultimo sostantivo con la forma participiale coepta, per cui cfr. Ov. epist. 6, 126; 21, 70; Cypr. num. 222 ed ancora una volta Sedul. carm. pasch. 1, 282. A fine verso la voce reducti che costituisce lectio difficilior dei manoscritti, adottata dagli editori
679
Va precisato che il traduttore nelle note in calce al testo riferisce, erroneamente, che Evanzio era lo zio materno di Sulpicio Severo. 680 Sul carattere enfatico degli stacchi di parole di una certa ampiezza, cfr. Hofmann-Szantyr, pp. 13-14. 681 Mart. 1, 369 Flatibus extremis quasi iam de funere uiuens; 1, 489 Qui sibi dispar erat nec iam a se cognitus ibat, 682 Cfr. al riguardo Blomgren (2), pp. 83-84; Quesnel p. 36 nt. 29. Il sintagma è presenta anche in Mart. Cap. nupt. 7, 802, 3 Si tamen ullus inest nostris super halitus aris. Sulla specificità del significato rivestito da halitus in questo preciso contesto, cfr. ThLL, VI (3), col. 2517 r. 34 ss.
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laddove ci si aspetterebbe reducto683: Blomgren giustifica il genitivo per omoteleuto, citando altri esempi all’interno dell’opera e presso alcuni predecessori684. Al v. 78 ritorna la negazione nec, secondo l’uso non propriamente classico riscontrato altrove nell’opera; in posizione di rilievo al centro del verso, dopo la cesura pentemimera, spicca la figura di Martino, che senza esitazione da buon viaggiatore si mette in cammino. Meritano particolare attenzione il participio cunctatus che sottintende la voce del verbo sostantivo, la cui ricorrenza negli scritti di Venanzio è stata più volte menzionata, e che regge il successivo infinito adire685 ed il sintagma composto dalla medesima voce verbale e dal termine uiator che Fortunato ripropone altresì nei carmi (cfr. carm. 7, 1, 12). Degni di essere menzionati altresì la collocazione di quest’ultimo termine a conclusione del verso, come riscontrato spesse volte nell’opera fortunaziana 686, e più in generale nella poesia esametrica a partire da Virgilio 687, e la cadenza allitterante fondata sulla ripetizione di alcuni suoni sia vocalici sia consonantici (“i”, “a”, “t”, e “r”), che ritma l’intero verso. L’appellativo di uiator ascritto a Fortunato va al di là del mero senso letterale, rimandando ad un significato spirituale, che connota Martino come colui che compie il viaggio da questa vita verso quella celeste688. I v. 76 e 78 riecheggiano l’ipotesto sulpiciano, in particolare il predicato euocauit e l’intera frase nec cunctatus ille properauit689; Paolino, invece, si sofferma maggiormente sulla descrizione della patologia di Evanzio 690. 683
Il verbo reducere, in particolare cristallizzato nell’espressione reducere saluti, acquista anche altrove negli scritti fortunaziani tale significato, cfr. Vita Germ. 16, 51, 17; 56, 152, 13. 684 Cfr. Blomgren (1), p. 11; Quesnel, p. 144 nt. 14. 685 Cfr. Hofmann-Szantyr, p. 347, ove si precisa che l’uso di cuntor seguito da infinito è documentato a partire da Accio. 686 Mart. 1, 89; 1, 471; 3, 361; 4, 113; carm. 1, 5, 1; 1, 6, 19; 2, 12, 7; 3, 7, 45; 3, 18, 5; 10, 16, 3. Analogamente a quanto avviene nel verso in esame, l’appellativo è riferito a Martino anche in Mart. 4, 113. 687 Cfr. e.g. Verg. georg. 4, 97; Aen. 5, 275; 10, 805; Hor. sat. 1, 5, 16; 5, 17; Prop. eleg. 2, 11; Ovid. am. 1, 13, 13; met. 1, 493; fast. 2, 341; trist. 3, 3, 71; Stat. Theb. 2, 511; silu. 4, 3, 28; Mart. 2, 6, 14; 9, 64, 3; Claud. Stil. cos. 1, 223; Prud. c. Symm. 2, 790; Paul. Nol. carm. 19, 506; Avian. fab. 4, 13; 29, 3; Sedul. carm. pasch. 3, 234; Sidon. epist. 2, 10, 4, 28; 3, 3 Drac. laud. dei 2, 308; Orest. 632; Arat. act. 2, 449; 554; Coripp. Ioh. 2, 221; 3, 330. 688 Cfr. Blaise (1), p. 846 s.v. uiator; Blaise (2), p. 110 s.v. uiator. 689 Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 3 Per idem fere tempus cum Euanthius auunculus meus, uir licet saeculi negotiis occupatus admodum Christianus, grauissima aegritudine extremo mortis periculo coepisset urgueri, Martinum euocauit. Nec cunctatus ille properauit: prius tamen quam medium uiae spatium uir beatus euolueret, uir tutem aduenientis sentit aegrotus, receptaque continuo sanitate uenientibus nobis obuiam ipse processit.
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Al v. 79 risalta dal punto di vista fonico l’allitterazione della “m” (medium spatium emensus), per quanto concerne la sintassi, invece, si distinguono le costruzioni participiali, in particolare l’ablativo assoluto posto a fine verso, in cui l’accostamento tra gradior e senecta sembra costituire una novità 691. Da evidenziare d’altra parte le notevoli eco vergiliane, dal momento che il nesso spatium emensus costituisce una ripresa letterale di Aen. 10, 772 Atque oculis spatium emensus quantum satis hastae, mentre la clausula finale gradiente senecta potrebbe richiamare un ulteriore verso dell’Eneide, tratto in questo caso dal libro V, cfr. v. 395 Pulsa metu; sed enim gelidus tardante senecta. Il v. 80 completa il senso del verso precedente: rilevanti la posizione del predicato al centro del verso, tra la cesura pentemimera e quella eftemimera, e la congiunzione temporale in tmesi accompagnata dal congiuntivo imperfetto; il nesso salutis opem ricorre nell’opera poetica del Nostro un numero considerevole di volte, cfr. Mart. 2, 14; 4, 270; carm. 3, 9, 60; 3, 14, 20; 5, 5, 86; 8, 12, 8. Dunque è il rimedio salvifico a giungere per primo dal malato implorante l’aiuto di Martino; l’arrivo di quest’ultimo è annunciato dal rimedio stesso, in questo caso personificato, come affermato al v. 81, dove ritornano alcune scelte lessicali operate nei versi iniziali del passo, cfr. aegro (aeger v. 74) e ire (iret v. 75); la personificazione del farmaco è ribadita similmente al verso successivo (v. 82), in cui il soggetto medicina, che richiama il medella del verso precedente, è qualificato da cursor. Quest’ultimo termine, un vero e proprio tecnicismo, ricorre nei testi poetici latini non più di una ventina di volte, dato il suo carattere tecnico: esso è impiegato infatti per indicare la funzione, sia in ambito pubblico che nel privato, del tabellarius ovvero in campo sportivo la figura del corridore692. Nel passo in esame il sostantivo, rinvenuto altresì nel medesimo libro III al v. 300, acquista il significato generico di “messaggero”, come rilevato da Blomgren693. Il verbo significare ricorre nell’opera poetica di Fortunato esclusivamente in questo caso; in generale esso non è molto utilizzato nella poesia latina, per cui si 690
Paul. Petric. Mart. 4, 100-105. Nei lessici non sono registrate espressioni analoghe, mentre è possibile rilevare che il trisillabo senecta ricorre nella poesia esametrica il più delle volte a fine verso, cfr. e.g. Lucr. 5, 886; Hor. epist. 2, 2, 211; Tib. 1, 6, 77; Ov. met. 7, 299; Stat. silu. 2, 3, 50; Val. Fl. Argon. 8, 14; Sil. It. 1, 405; Mar. Victor. aleth. 3, 225. 692 Cfr. ThLL, IV (7), coll. 1527-1528. 693 Blomgren (1), p. 160. 691
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segnalano di seguito le occorrenze nella forma e nella posizione metrica riscontrate nel presente testo, cfr. Val. Fl. Argon. 8, 215 Significans, iam regna Lyci, totiensque gementem; Paul. Nol. carm. 19, 639 Significans regnare deum super omnia Christum; 26, 147 Significans illos mundo labente tegendos. L’impiego di una voce per così dire poco poetica è riconducibile probabilmente alla diffusione presso gli scrittori tardi, in particolare cristiani, dei composti verbali in –ficare694. Il v. 83 riafferma il concetto sopra espresso, mediante una costruzione quasi chiastica dei suoi membri: nel primo emistichio seguono a dum695 l’ablativo di mezzo, il predicato ed il soggetto, mentre dopo la cesura pentemimera si trovano, nell’ordine, predicato, soggetto ed ablativo con la medesima funzione, quest’ultimo, di quello precedente. Da segnalare il rimando intertestuale ad Ovidio (ep. 10, 20 Alta puellares tardat harena pedes), annotato altresì da Leo nel suo Index, e la presenza del termine heros, proprio dell’epica classica, ricorrente anche fra i poeti cristiani in riferimento ai vari personaggi della sacra scrittura ed ai santi e ai martiri, con marcato intento emulativo nei confronti dei classici. Venanzio tuttavia impiega l’appellativo nei suoi scritti solamente due volte, nel verso in esame in riferimento a Martino, ed in carm. 2, 14, 12 Alter in alterius caede natauit heros, ove il termine è attribuito ad ognuno dei martiri di Agauno, uccisi durante la persecuzione di Diocleaziano e Massimiano696. In entrambi i casi è necessario supporre un abbreviamento della prima sillaba 697. L’ampliamento relativo alla lentezza del piede di Martino presente nella narrazione fortunaziana ed in quella di Paolino non caratterizza il testo sulpiciano 698; pressoché letterali sembrano invece alcune espressioni estrapolate per mano di Venanzio dall’ipotesto, quali medium uiae spatium (cfr. v. 79) e uir beatus (cfr. v. 81). L’enclitica –que connette il verso seguente, nel quale è presente il riferimento all’odore, per così dire, di santità originato dall’arrivo della cura che anticipa l’avvento
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Cfr. Väänänen, p. 175. A differenza di altri loci dell’opera fortunaziana, tale congiunzione temporale indicante contemporaneità è ivi accompagnata, analogamente all’uso classico, dall’indicativo presente. 696 Cfr. ThLL, VI 3 (19), col. 2664 rr. 6-22; la citazione dei versi fortunaziani è contenuta ai rr. 19-22. 697 Cfr. Leo, Index p. 424; Quesnel, p. 144 nt. 18. 698 Paul. Petric. Mart. 4, 119 Praecedens tardos uirtus pernicior artus; Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 3 prius tamen quam medium uiae spatium uir beatus euolueret , uirtutem aduenientis sentit aegrotus, receptaque continuo sanitate uenientibus nobis obuiam ipse processit. 695
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di Martino: ancora una volta il verso è caratterizzato dalla collocazione del gruppo soggetto-predicato al centro, racchiuso tra i vari complementi. L’espressione aura salubris ritorna nella Vita al libro IV (v. 99), in un contesto diverso, ossia all’interno di una sorta di declaratio modestiae che il poeta premette al racconto dell’episodio relativo ad Aviziano, reso mite dal santo ed indotto a liberare i prigionieri, e nella quale l’Autore dichiara il suo procedere con passo tardo nella narrazione. Il motivo del profumo del santo che precede il suo avvento è assente sia nell’ipotesto sulpiciano sia nella versione di Paolino, il quale tuttavia, nella sezione antecedente, si dilunga sulla richiesta di aiuto da parte di Evanzio e sulla repentina risposta di Martino699. Significativa dunque l’allusione all’aura salubris, con cui si intende verisimilmente il profumo degli unguenti che si stavano propagando attraverso l’aria, mentre il nesso pii…odorem potrebbe essere ricondotto sia all’olezzo dei medesimi oli benedetti di cui Martino si serviva nelle sue pratiche di guarigione, e che probabilmente avevano per così dire impregnato l’uomo, sia all’odore piacevole del santo, “emanato” dalle sue virtù. Il riferimento all’olfatto non è casuale, ma pone l’accento su una dimensione importante del primo cristianesimo, quella della corporalità, finalizzata all’interazione tra l’uomo e Dio. In particolare la sensazione olfattiva rivestiva un ruolo notevole, connesso con l’utilizzo, a scopi religiosi cultuali e curativi, di unguenti benedetti, incensi e via dicendo 700. La rilevanza rivestita da queste pratiche e soprattutto il simbolismo connesso alla sensazione olfattiva, cui fa riferimento il medesimo Fortunato, è riconducibile con ogni probabilità ai testi neotestamentari, in particolare alle lettere paoline, in cui l’edificazione dei Cristiani è paragonata al Christi bonus odor
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Paul. Petric Mart. 4, 105-114 Impediens, fractis enisus saepe loquellis/affectum signare suum, rogat ocius ad se/aduentum sancti obtineat miseranda precantum/ambitio, ac si quem stimulet uel cura doloris/vel pietatis amor, quaerens fomenta salutis/Hunc adeat solum: renouanda ad tempora uitae/Martini aspectum cunctas superare medellas./Nec tardat iustum saltim dilatio uotum./Credidit optatis diuino munere signis/Hanc satis esse fidem. mox et res ipsa probauit. 700 Sull’argomento, cfr. la monografia di A.S. Harvey, Scenting Salvation: Ancient Christinity and the Olfactory Imagination, Berkeley 2006.
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e l’attività apostolica è assimilata all’emanazione di un profumo, quello della conoscenza di Dio 701. Torando ora al passo in esame, è possibile rilevare che, data la modalità della guarigione, è possibile istituire un confronto con il risanamento operato da Gesù a beneficio del figlio dell’ufficiale reale (cfr. Gv 4, 51 ss.): nel racconto evangelico tuttavia il padre apprende l’avvenuta guarigione del figlio tornando da lui, mentre nel passo in esame è il malato ad andare incontro al suo guaritore, similmente a quanto attuato da uno dei primi lebbrosi risanati da Gesù (cfr. Lc 17, 15)702. Occorre ora soffermarsi sugli appellativi attribuiti a Martino in questo versi, data la loro abbondanza e la loro varietà. Al v. 76 il santo è menzionato con il titolo di pontifex, analogamente a quanto avviene in altre occasioni (cfr. Mart. 1, 43; 1, 355; 2, 225; 2, 268; 4, 553) e con l’aggettivo sostantivato sacer al v. 77. Al verso seguente il poeta conferisce a Martinus l’appellativo di uiator, sopra esaminato, mentre al v. 81 il termine di riferimento è beatus; al v. 83 è presente l’epiteto heros, con cui si allude al santo unicamente in questo luogo ed infine al v. 84 ricorre l’aggettivo pius, per mezzo del quale Martino viene designato assai di frequente. Al v. 85 viene esplicitato il medium con cui il santo opera la guarigione, costituito ancora una volta dagli unguenti, che in questo caso attraversano l’aria, per giungere il prima possibile al malato. Per quanto concerne il sintagma finale del verso, si potrebbe ravvisare un precedente in Coripp. Ioh. 6, 288 Aera per calidum tranat suspensa uolucris. Da evidenziare nel medesimo verso gli intrecci prodotti dall’omeoptoto tra succurant e tranant e l’omoteleuto tra unguenta ed aera. Nel distico successivo (vv. 86-87) Fortunato descrive quanto attuato da Martino in questo contesto, utilizzando un’efficace similitudine: il santo viene paragonato infatti al sole che con i suoi raggi fa giungere il suo calore molto più lontano di quanto potrebbe esso stesso. L’analogia è introdotta da ueluti ed il secondo termine di paragone, Martino, è preceduto nel testo dall’avverbio sic. La medesima similitudine ricompare in rapporto a Martino nell’ultimo elogio che il poeta intesse in suo onore alla fine del libro IV (vv. 572-593), ove il santo viene 701
Cfr. rispettivamente 2 Cor. 2, 15 quia Christi bonus odor sumus Deo in iis, qui salui fiunt; 2 Cor. 2, 14-17 Deo autem gratias qui semper triumphat nos in Christo Iesu et odorem notitiae suae manifestat per nos in omni loco. Cfr. al riguardo Denis, pp. 617-656. Sulle accezioni del termine odor nel linguaggio cristiano, cfr. Blaise (1), p. 573 s.v. odor. 702 Cfr. Fontaine (3), p. 224 nt. 1.
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comparato al sole per i suoi raggi ed alla luna per il suo corso: ut solem radiis et lunam cursibus aeques (4, 590); l’immagine del sole ed i suoi raggi ricorre in generale nei versi del Nostro un numero considerevole di volte, soprattutto nei carmi 703. Tale uso metaforico della rappresentazione del sole è rintracciabile altresì nei Testi Sacri, dove l’espressione sol iustitiae è rifertita a Cristo (Mal. 4, 2 et orietur uobis timentibus nomen meum sol iustitiae et sanitas in pinnis eius et egrediemini et salietis sicut uituli de armento)704; l’idea di Cristo Verus Sol, inoltre, ricorre di frequente nella letteratura cristiana del IV e degli inizi del V sec. 705. Al v. 56 ritorna, nella medesima posizione di verso, il termine opem (cfr. v. 80), mentre la clausula finale exhibet arte potrebbe derivare al poeta da Prudenzio, sebbene il contesto metrico sia costituito dall’endecasillcabo falecio, cfr. cath. 4, 60 Agresti bonus exhibebat arte. Il bisillabo arte ricorre assai frequentemente a fine esametro in tutta la produzione poetica precedente; infine il medesimo termine potrebbe avvicinarsi in questo caso alla sfumatura lessicale di uirtus, rivestendo il significato di potere miracoloso. Ai vv. 88-89 è rafforzato il concetto della guarigione anteposta all’avvento di Martino, mediante l’impiego della perifrastica passiva (v. 88), con il gerundivo admiranda. È da notare che la collocazione di questa parola in incipit di verso, secondo un uso riscontrato in precedenza 706, è dovuta al fatto che si connota prosodicamente come epitrito IV. In questo contesto il sintagma admiranda est svolge funzione analoga alle esclamazioni riscontrate nella parte finale dei racconti di guarigione esaminati in precedenza, introdotte il più delle volte da quam. A concludere il verso è l’ablativo assoluto peste fugata che costituisce clausula esametrica. Il verso successivo si apre con la congiunzione temporale anteaquam che in poesia ricorre, nella forma in tmesi ed in quella sintetica, esclusivamente in Venanzio, cfr. carm. 2, 9, 38; 2, 16, 42-43; 4, 25, 14; 6, 2, 2; 6, 5, 107-108; 6, 10, 49. Per quanto riguarda la produzione letteraria latina in prosa, tale congiunzione è riscontrata in Livio, 703
Cfr. carm. 2, 10, 16; 3, 8, 6; 6, 1, 25; 6, 5, 221; 7, 6, 8. Cfr. Blaise (2), p. 100. 705 Cfr. Mohrmann, IV, p. 336. 706 Verg. georg. 4, 3 Admiranda tibi leuium spectacula rerum; Paul. Nol. carm. 21, 369 Admiranda uidens operum documenta sacrorum; Coripp. Iust. 3, 143 Admiranda magis quam conumeranda fateri. Il termine ricorre nell’opera poetica fortunaziana in ulteriori quattro loci, cfr. carm. 2, 7, 3 Admiranda haec est occasio facta salutis; 7, 7, 73 Admiranda etiam quid de dulcedine dicam; 9, 1, 109 Admirande mihi nimium rex, cuius opime. 704
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che emula probabilmente il posteaquam ciceroniano (cfr. epist. 3, 6, 2), e poi presso gli autori della tarda latinità 707; l’aggettivo admirandus accompagnato dall’avverbio nimis è riscontrato altresì nell’opera di Sidonio, cfr. ThLL, II, col. 745 r. 5. L’espressione pulsum tenet, che rappresenta nuovamente un tecnicismo medico, potrebbe riprendere in ambito poetico il nesso lucaneo pulsum…tenebit, ove tuttavia il significato rivestito dal sintagma non coincide con quello espresso dal verso fortunaziano708. Si ripresenta a fine verso il termine aeger, riallacciandosi al v. 74, con cui prende avvio il passo concernente Evanzio e la sua guarigione. L’uomo, infatti, non è più menzionato per nome all’interno della narrazione, ma soltanto mediante la voce testé citata, se non nella sezione finale del brano (v. 94), quando ormai il risanamento è compiuto e l’autore formula una riflessione al riguardo 709. Il tema della ripresa del malato avvenuta prima dell’arrivo del medico, espresso già icasticamente dal predicato exilit del v. 89, è esteso alla terzina successiva: Evanzio corre incontro al salvatore per ringraziarlo e lo conduce a casa sua. Il primo emistichio del v. 90 è occupato dal nesso obuius occorrens, ove è ravvisabile un richiamo sia intratestuale che intertestuale: il poeta infatti ripropone la medesima formulazione nella Vita al v. 560 del libro IV e nella variante obuius occurrit in Mart. 1, 90, che a sua volta si rifà a Paolino di Périgueux, cfr. Paul. Petric. Mart. 4, 176. Il medesimo accostamento risuona infine nel poema epico vergiliano, cfr. Aen. 10, 73. Dal punto di vista sintattico, occorre sottolineare che il participio occurrens sottintende anche in questa occorrenza lo voce del verbo sostantivo (est), mentre a livello formale vanno posti in evidenza l’allitterazione della “o” ad inizio parola nell’espressione sopra menzionata e l’iterazione del prefisso ob- in obuius-obsequium. L’elaborazione retorica è accentuata al v. 91, connesso al precedente dall’enjambement e dall’omeoptoto rependit/duxit…reduxit e caratterizzato altresì dall’anastrofe duxit et, dall’omotelueto ipse se, dal poliptoto se sibi ed infine dal 707
Hofmann-Szantyr, p. 600; ThLL II, col. 139 rr. 70-79. Lucan. 8, 271 Me pulsum leuiore manu Fortuna tenebit?. 709 Va segnalato a proposito che nell’ipotesto, Gallo si riferisce allo zio, oltre che con il nome proprio, con il termine aegrotus; nella descrizione della situazione iniziale, inoltre, egli afferma che Evanzio era tormentato da un morbo gravissimo impiegando la locuzione grauissima negritudine, cfr. Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 3. Quest’ultimo termine, infine, che nel latino classico indicava il più delle volte un disturbo mentale, identificabile con la depressione, equivale in questo luogo a morbus, cfr. Fontaine (3), p. 223 nt. 8. 708
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rimando, che incornicia il verso, tra duxit…reduxit; quest’ultima forma verbale, dato il prefisso re-, richiama infine il rependit che occupa la medesima posizione metrica al v. 90710. Il verso che segue mostra una contrapposizione tra la situazione attuale (nunc), descritta nella prima metà del verso, delimitata dalla cesura pentemimera, e la condizione di malattia di Evanzio; l’uomo infatti viene definito ora con l’espressione alacer saltu, cui si contrappone il nesso recubans grabato del secondo emistichio, con il quale Venanzio si riferisce alla stato antecedente. Il predicato recubans riprende il verso iniziale (recubaret v. 74), mentre l’aggettivo alacer si contrappone all’aeger, mediante il quale il poeta ha caratterizzato sino ad ora la figura di Evanzio. Il sintagma alacer saltu sembra non ricorrere altrove 711; il termine grabatus, invece, riveste qui il significato di letto, intendendo in particolare quello su cui giacciono i malati, come affermato da Brandt, il quale annovera tra gli esempi concernenti tale accezione altresì il verso fortunaziano ed annota fra gli esempi relativi ad un uso metaforico del termine un ulteriore verso della Vita (Mart. 4, 6)712. Il riferimento al fatto che Evanzio conduce il santo a casa sua, sotteso nei racconti di Gallo e di Paolino, è reso esplicito da Fortunato, cfr. v. 91 (duxit et ipse domus…), mentre la menzione della corsa dell’uomo guarito incontro al suo guaritore contraddistingue, accumunandoli, i tre testi713; la versione fortunaziana, analogamente all’ipotesto, sottolinea infine che fu Evanzio in persona a correre incontro al santo (Dial. 2, 2, 3 […] ipse processit, per cui cfr. v. 91). I vv. 93-96 costituiscono l’epilogo del passo in esame nonché il collegamento con il risanamento narrato di seguito: Evanzio, guarito, chiede infatti a Martino di fermarsi per un giorno ancora a casa sua, dandogli così seppure inconsapevolmente la possibilità di guarire, l’indomani, uno dei suoi schiavi.
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Entrambe le forme ricorrono nella poesia latina il più delle volte a fine verso, come riscontrato nell’uso fortunaziano. 711 Cfr. ThLL, I (2), col. 1473. Il Vollmer registra (rr. 73-73) esclusivamente un’espressione, legata al mondo militare, in cui i due termini sono associati, cfr. Sall. Hist. fr. 2, 19 (il frammento è estrapolato da Veg. mil. 1, 9) cum alacribus saltu, cum velocibus cursu…certant. 712 ThLL, VI, 2 (11), col. 2129 r. 6; rr. 11-12. 713 Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 3 […] receptaque continuo sanitate uenientibus nobis obuiam ipse processit; Paul. Petric. Mart. 4, 119-120 Occurrit ualidus medico. gratantur uterque/corpore sanato transfusam in corda salutem.
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Al v. 93 si fa menzione per la seconda volta di Evanzio, definito in questa occasione miris actibus expers e, al v. 94 connesso al precedente da enjambement, incolumis, in riferimento alla guarigione appena avvenuta. Sono necessarie a questo punto alcune precisazioni lessicali: infatti il nesso mirus actus è da intendersi con il significato di “miracolo”, come rilevato altrove nella letteratura latina e come confermato dall’uso sostantivato di mirus riscontrato in un altro verso fortunaziano, cfr. carm. 10, 6, 108, in cui il poeta parla di mira uiri714, sempre in relazione alle uirtutes di Martino; l’aggettivo expers, infine, è qui impiegato nella medesima accezione di “expertus, peritus, gnarus” e, secondo un uso tipico del Nostro, esso richiede di seguito una costruzione ablativale 715. Il v. 94 si apre dunque con la supplica, che l’uomo rivolge a Martino, espressa nella sezione finale del verso, dopo la cesura eftemimera; da rilevare che il locativo domi è estrapolato dalla completiva, precedendo la congiunzione ut, e che il predicato tardet riprende la forma tardat del v. 83, ove si faceva riferimento al passo lento del santo. L’aggettivo incolumis riferito, in funzione predicativa, ad Evanzio si contrappone all’aeger riscontrato nei versi precedenti, ribadendo con la consueta ridondanza, la condizione di ristabilita sanità e rimarcando, come nei passi precedentemene analizzati, la struttura “ad anello” del brano. Il termine incolumis, infine, richiama i racconti fortunaziani delle altre guarigioni operate dal vescovo di Tours, cfr. il risanamento della paralitica (Mart. 1, 396), dove il termine è impiegato in connessione alla situazione antecedente alla paralisi che affliggeva la fanciulla, la ripresa di Martino stesso successivamente alla brutta caduta dalle scale ed all’intervento notturno dell’angelo (Mart. 2, 54), la guarigione che sarà analizzata di seguito relativa allo schiavo di Evanzio (3, 118) ed infine quella concernente l’emorroissa (4, 269)716. Il primo emistichio del v. 95 è caratterizzato dallo stacco tra sostantivo e relativo attributo, tra i quali si interpone et, con la finalità di creare una sequenza fortemente 714
Cfr. ThLL, VIII (6), col. 1070 r. 56 ss; rr. 71-75, in cui si parla dell’utilizzo del termine al plurale in qualità di sostantivo con il significato di miracula. Da rilevare infine che l’aggettivo mirus è riscontrato altresì nelle opere di carattere medico (cfr. e.g. Seren. 249; 905; 1048), per evidenziare lo straordinario potere curativo di alcuni rimedi (col. 1072 r. 40 ss.) 715 Mart. 1, 28; 2, 222. Cfr. al riguardo ThLL, V, 2 (8), col. 1690 rr. 74-79 716 Il termine è usato altresì nell’episodio riguardante la liberazione di un posseduto dal demonio (Mart. 3, 360) e quello in cui si riferisce della capacità del santo di guardare attraverso i muri, in riferimento in particolare al monaco impudico (Mart. 4, 507).
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allitterante (hospitis et tanti tenet), mentre la seconda metà del verso è contraddistinta dall’ablativo di luogo una diecula, in cui è da porre in rilievo il diminutivo diecula717, che ricorre in poesia esclusivamente negli autori arcaici, Plauto e Terenzio e, dopo alcuni secoli, in Prudenzio 718, mentre nella prosa esso è rintracciabile, oltre che nei testi dei grammatici719, in Cicerone ed Apuleio 720. L’accostamento tenere uultum ricorre in Fortunato in un verso dei carmina (8, 3, 281), anche se con accezione semantica differente rispetto a quella del verso in esame, dove il sostantivo uultum indica metonimicamente la persona del santo, riprendendo così la prosa sulpiciana 721. Il verso conclusivo del passo (v. 96) introduce esplicitamente l’episodio che segue e si contraddistingue per la ripresa del termine mora del v. 94 e per l’enallage, dal momento che haec, connesso grammaticalmente a occasio, va invece riferito a mora; anche la clausula finale danda salutis, merita particolare attenzione, in quanto oggetto di diverse interpretazioni, data la peculiarità del costrutto. Dagianti giustifica quest’ultimo presentandolo come esempio della “fusione del genitivo del gerundio e del gerundivo”; Blomgren, invece, appoggiandosi ad ulteriori loci dell’opera fortunaziana, attribuisce il genitivo salutis ad occasio e legge il nesso fuit danda con la perifrasi dari debuit722. Va rilevato inoltre che all’interno dei carmina, in tre diverse occorrenze, la formula dando salutis opem costituisce il secondo emistichio del pentametro723, mentre in Ausonio (prof. 2, 17) si riscontra nell’incipit del verso l’espressione danda salute. Andando ad osservare quanto operato dai traduttori, è possibile rilevare che Quesnel (p. 55: “mais ce répit fut pour Martin l’occasion d’apporter la guérison”) e Palermo (p. 104: “ma questa fermata fu allora l’occasione per dare salute”) rendono il nesso conclusivo in maniera analoga, mentre Tamburri (p. 63) se ne distacca e, rispecchiando la tesi di Blomgren, traduce “ ma questa sosta fu allora una occasione da offrire per la salvezza”.
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Il diminutivo è registrato da Blombren (9), p. 31, nell’elenco dei diminutivi impiegati da Fortunato nella sua opera poetica, testimoniando l’uso diffuso di tali forme nella verisificazione, contrariamente a quanto rinvenuto nella classicità. 718 Plaut. Pseud. 503; Ter. Andr. 711; Prud. cath. 7, 96. 719 Cfr. e.g. Don. ad Ter. Andr. 603; 710; Hec. 127. 720 Cfr. Cic. Att. 5, 21, 13; Apul. met. 1, 10; 6, 16; 7, 27. 721 Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 4. 722 Dagianti, p. 86; Blomgren (1), p. 66; Quesnel condivide le osservazioni in merito elaborate da Blomgren, dissentendo tuttavia dagli ulteriori esempi proposti dallo studioso a sostegno della sua tesi. 723 carm. 3, 9, 60 Intras mortis iter dando salutis opem; 3, 14, 20 Rite pater populi dando salutis opem; 8, 12, 8 Cursibus atque fide dando salutis opem.
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In conclusione, Venanzio pertanto riferisce in una quartina quanto è affermato dall’ipotesto in maniera assai stringata, una riga, cfr. Dial. 2, 2, 4 Altera die, redire cupientem magna prece tenuit […]; Paolino analogamente al successore si dilunga sul fatto, descrivendolo in tre versi724. La narrazione di Gallo, sopra riportata, tuttavia definisce Martino con l’espressione redire cupientem, ripresa altresì da Paolino al v. 123 e racchiusa cripticamente dal Nostro, come accade altrove, nella clausula mora crastina tardet.
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Paul. Petric. Mart. 4, 122-124 Ergo ut sublata est cunctarum causa morarum,/confestim remeare uolens multa prece uictus/ praestitit unius spatia exorata diei.
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La guarigione dello schiavo morso dal serpente (Ven. Fort. Mart. 3, 97-120)
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Traduzione Subito un giovane schiavo viene colpito dal velenoso dente di un serpente e la violenza del veleno aveva gonfiato le membra di quello che era stato colpito. Negando spazio alla vita una morte inesorabile e dominando il veleno in tutto il debole corpo, Evanzio pose il fanciullo ai piedi del venerabile, confidando nel fatto che Martino meritava di potere tutto . Infatti subito il santo scorre col tatto le singole membra e palpa con la mano curativa le viscere morenti. Poi, non appena pose il dito sopra la ferita dove la bestia aveva colpito, da ogni parte fluì il fiotto del veleno e l’umore tossico ritornò indietro per la via da cui la vipera lo aveva diffuso. Allora vedendo il santo il gonfiore, causato dal liquido putrefatto accumulato, che il serpente aveva infuso attraverso la ferita, rimosso il pollice, tutta la violenza del veleno uscì attraverso il foro della ferita. Stillando di sangue rappreso, come il latte da una mammella di capra, la piaga tumefatta vomitò la morte espellendola fuori dalla ferita in un lungo filamento, rilasciando l’umore denso ad ogni pulsazione della vena; il veleno inerte porta fuori il liquido dalla vena che rifluisce ed il canale prodotto richiama indietro il rivolo mortale. Trionfando la fede, il morso del serpente perde la sua forza e le armi del veleno muoiono, poiché non uccidono. Sta in piedi incolume il fanciullo e sul viso non persiste il pallore. Il padrone guarda con meraviglia il servo e tutta la casa si stupisce nel veder correre al servizio colui che credeva andare al sepolcro.
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Commento L’episodio che, come accennato, viene subito dopo quello relativo ad Evanzio sia nel tempo del racconto sulpiciano che nella narrazione fortunaziana, a differenza del passo precedente, è presente altresì fra le didascalie descritte nella prima sezione, precisamente ai vv. 49-54, del carme fortunaziano (carm. 10, 6) relativo ai miracoli compiuti dal santo, citato in precedenza. Anche in questo caso, come nella versione della guarigione dalla febbre quartana, non si specifica l’identità del personaggio risanato. Gli elementi che emergono sono la causa dell’infermità, ossia il morso del serpente, e l’imposizione del dito di Martino sulla ferita, che permetterà al malcapitato di riprendersi e di rialzarsi725. Tornando ora al passo in esame, è possibile osservare che il v. 97 connette strettamente questo episodio al precedente, in particolare mediante l’avverbio ilico, posto nell’incipit, che Fortunato impiega nella sua opera poetica in altri due versi, estrapolati entrambi dalla Vita (1, 424; 2, 108), collocandolo nella medesima posizione726. Subito il poeta introduce l’accaduto, menzionando il fanciullo morso dal serpente, mediante la sequenza allitterante perculitur puer e la ripresa letterale del nesso oraziano atro dente727, non rintracciabile altrove nella poesia latina precedente e successiva al Nostro. Fortunato sigilla il verso con il termine chelidrus, indicante letteralmente il serpente d’acqua, in luogo della voce serpens rinvenuta nell’ipotesto (cfr. Dial. 2, 2, 4), probabilmente a motivo della sua facies prosodica, dato che esso ritorna nella poesia esametrica, a partire da Virgilio, all’incirca una ventina di volte sempre nella stessa posizione all’interno del verso 728. Degno di nota il predicato perculitur che richiama alla lettera sia la prosa di Sulpicio (cfr. perculit) che il testo di Paolino (cfr. Paul. Petric. Mart. 4, 128 perculerat 725
carm. 10, 6, 49-54 Serpentis morsu tumido suprema regenti/hic digitum ut posuit, pestis iniqua fluit/collecto morbo huc et ab ulcere pollice tracto,/dumque uenena cadunt erigit ille caput./Vnguentumque nouum, digitis traxisse venenum/et tactu artifici sic superasse neces! 726 Tale avverbio ricorre soprattutto nei poeti, Plauto e Terenzio e negli autori tardi, fra cui Giovenco, Paolino di Nola, Paolino di Pella e Corippo. Cfr. ThLL, VII (1), col. 330 r. 59 ss. 727 Hor. epod. 6, 15 An si quis atro dente me petiuerit. 728 Verg. georg. 2, 214; 3, 415; Ov. met. 7, 272; Colum. rust. 378; Lucan. 9, 711; Sil. It. 1, 412; 2, 536; 3, 316; 5, 354; 9, 463; Avien. orb. terr. 1370; Prud. c. Symm. 1, 130; Sedul. carm. pasch. 1, 134; 3, 190; Prosp. prou. 141; Drac. laud. dei 3, 308; Ennod. carm. 2, 44, 8; Coripp. Ioh. 3, 111; 4, 327; Eug. Tolet. carm. 4, 1. Sull’uso del termine, diffuso soprattutto nelle opere poetiche, cfr. inoltre ThLL, III, col. 1005 r. 39 ss.
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serpens, infectum felle ueneni). Il termine è inoltre echeggiato a livello fonico al verso successivo (v. 98) dal participio sostantivato percussi; la clausula finale del medesimo verso, ira ueneni, sembra costituire un accostamento esclusivamente venanziano. Il verso successivo invece è impreziosito da un rimando intratestuale ad Ovidio 729 e si caratterizza altresì per l’impiego del nesso spatium uitae che si incontra di frequente in poesia. Il predicato negaret della narrativa costituisce con il verbo della coordinata contenuta al v. 100, regnaret, una sorta di rima al mezzo; contraddistingue il primo emistichio dello stesso verso, inoltre, l’anastrofe della congiunzione et e l’evidente iperbato flebile…in toto regnaret corpore, mentre il uirus di fine verso riprende l’ira ueneni del v. 98. Al v. 101 è nuovamente menzionato Evanzio, in questo caso “promotore” della guarigione del giovane servo morso dal serpente. Da rilevare che il predicato exposuit, arricchito dalla determinazione ante pedes, è ripreso ad uerbum dall’ipotesto730; caratterizzano il verso infine l’allitterazione della “p” e l’aggettivo almi, in questo caso sostantivato in riferimento a Martino, e corrispondente al nesso della prosa sulpiciana sancti uiri. Il termine almus è impiegato molto di frequente nella produzione poetica fortunaziana, sia nella Vita in relazione a Martino stesso731 che nei carmina, ove esso è attribuito a vescovi e uomini di Chiesa 732; la voce infine ricorre allorquando il poeta si riferisce ad una della Persone della Trinità, cfr. e.g. Mart. 1, 117; 3, 481; carm. 5, 5, 13, secondo un uso riscontrato in precedenza nella letteratura cristiana, in cui il termine è utilizzato per celebrare Dio, gli apostoli ed i martiri, ma anche vescovi e sacerdoti733. La somiglianza con il testo originario contraddistingue anche il verso seguente, data la presenza della forma participiale confisus, connessa ad Evanzio, che dopo essere stato egli stesso oggetto delle virtù miracolose di Martino, confida nella “onnipotenza” del santo, come riferisce Gallo, cfr. nihil illi inpossibile confisus (Dial. 2, 2, 4), e come
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Ov. met. 10, 634 Nec mihi coniugium fata inportuna negarent; tale clausula sembra risuonare anche in un verso di Sedulio, cfr. carm. pasch. 4, 216 Importuna fides! quidquid res dura negarit. 730 La versificazione di Paolino si allontana invece dalle affermazioni di Gallo, cfr. Paul. Petric. Mart. 4, 133-134 Ipse herus, inflectens iusto pia dorsa labori,/Pertulit ad ueri uestigia sancta patroni. 731 Mart. 3, 327; 4, 615. 732 carm. 3, 13, 19; 21; 16; 4, 3, 15; 5, 5, 137. 733 Cfr. ThLL, I (2), col. 1703 r. 79 ss; col. 1704 r. 12 ss.
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confermato da Fortunato, omnia confisus Martinum posse mereri (Mart. 3, 102)734. Quest’ultimo verso, in particolare nella clausula finale, apre a diverse possibili interpretazioni, dando luogo a traduzioni differenti: Palermo (p. 104) infatti traduce “confidando che Martino potesse ottenere tutto”, analogamente a Tamburri (p. 63) che rende “fiducioso che Martino potesse ottenere tutto”; la versione francese di Quesnel invece si distacca dalle precedenti, interpretando più liberamente “confiant dans la toute puissance que conféraient au saint ses mérites”. Al v. 103, il nesso iniziale sembra riprendere Prosp. epigr. 22, 5 sanctus enim sanctos facit, et de lumine lumen, dal momento che esso ricorre esclusivamente in queste due occorrenze, mentre il termine sanctus, così declinato, in posizione incipitaria è assai ricorrente nei poeti precedenti, soprattutto cristiani e nella stessa opera poetica fortunaziana735. Nel primo emistichio dunque si fa riferimento all’azione del santo che si traduce nuovamente nel tocco apportatore di salvezza, mentre la seconda parte del verso descrive la modalità del gesto martiniano, assimilabile a quella di un medico che tocca una ad una le membra del malato. Da porre in evidenza il predicato pererrat, che ricorre nel Nostro in una sola ulteriore occorrenza, cfr. carm. 7, 4, 17 Aut aestiua magis nemorum saltusque pererrans, ove esso è usato in senso proprio, difformemente al presente caso, in cui il termine è impiegato con significato figurato 736. Non si registrano tuttavia ricorrenze della medesima parola in relazione a tactu; l’accostamento potrebbe essere assimilato all’espressione di Boezio uisu…pererrans, cfr. cons. 2 carm. 6, 5737, anche se la sfera sensoriale cui si fa riferimento nel testo è quella della vista, e a due distici prudenziani, cfr. perist. 5, 337-338 ille ungularum duplices/sulcos pererrat osculis e 10, 899-900 ille et palatum tractat et digito exitum/uocis pererrans uulneri explorat locum. In quest’ultimo distico, in particolare, il poeta sta trattando dell’amputazione della lingua del martire Romano, diacono della Chiesa di Cesarea, che subì numerose torture, fra cui appunto il taglio della lingua. 734
Anche in questo caso, il predecessore parafraste diversifica la sua narrazione, cfr. Paul. Petric. Mart. 4, 135 Non dubitans meritis per tot documenta probatis. Probabilmente Venanzio riprende da quest’ultimo l’accenno ai meriti del santo, cfr. mereri del v. 102. 735 Cfr. e.g. Tert. adu. Marc. 3, 179; Damas. carm. 20, 1; Prud. praef. 2, 3; Paul. Nol. carm. 19, 68; 27, 279; Paul. Petric. Mart. 1, 286; 5, 508; Drac. laud. dei 2, 32; Alc. Avit. carm. 3, 220; Ven. Fort. Mart. 4, 400; carm. 1, 2, 23; 10, 6, 9. 736 Cfr. ThLL, X (1), col. 1342 r. 71 ss. 737 Boeth. cons. 2, carm. 6, 5 Corpus et uisu gelidus pererrans.
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Lo Spagnolo impiega il participio pererrans, avvicinandolo al termine digito: il chirurgo tasta il palato del martire per cercare un luogo adatto in cui amputare l’organo in questione, percorrendo la bocca con il dito fino all’ugola: il digito del verso di Prudenzio è assimilabile al tactu dell’esametro fortunaziano, che conferisce all’accezione del toccare una particolare sfumatura lessicale, suggerita dall’abbinamento con la voce pererrare. Il verso seguente (v. 104) ospita nuovamente una ripresa letterale del testo virgiliano, manu medica, cfr. Aen. 12, 402 Multa manu medica Phoebique potentibus herbis; come evidente, il Nostro ricalca altresì la collocazione del nesso ablativale all’interno dell’esametro. Il verso virgiliano echeggiato da Fortunato è estrapolato dall’episodio della guarigione di Enea, ferito da un dardo, operata dal troiano Iapige, esperto di medicina. Quest’ultimo, ispirato da Febo, cerca di recare il suo aiuto all’eroe troiano, ma determinante per la riuscita delle cure è l’intervento di Atena, svolto all’insaputa del medico stesso. Martino, invece, in nome della sua fede agisce a vantaggio dello schiavo morso dal serpente, riportandolo repentinamente alla salvezza. Manifesto in questo caso l’intento emulativo della ripresa virgiliana: la manus medica di Martino appare assai più potente di quella di Iapige. La citazione testé menzionata, andrebbe ad aggiungersi alle quattro reminescenze tratte dal libro XII dell’Eneide annotate da Labarre, che includono quella concernente il v. 398 del medesimo libro, Stabat acerba fremens ingentem nixus in hastam ricordato da Venanzio in Mart. 3, 399 Thoraca ex humeris indutus, nixus in hasta. Conferisce maggiore solennità al medesimo verso l’allitterazione della “m”, manu medica morientia, e l’omoteleuto medica morientia uiscera; il nesso finale uiscera palpat è assimilabile alla clausula singula palpat (Mart. 2, 50), tratta dall’episodio relativo alla guarigione di Martino stesso operata da un angelo, precedentemente analizzata. La terzina successiva (vv. 105-107) descrive la reazione al gesto di Martino, introdotta ancora una volta dalla congiunzione temporale ut (v. 106). Da rilevare ancora l’uso dell’avverbio relativo qua con valore di stato in luogo (v. 105) ripreso al v. 107, ove esso svolge tuttavia una funzione logica diversa, indicando il luogo attraverso il quale il veleno si era propagato in precedenza.
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Al v. 105 il serpente introdotto al primo verso è qui indicato con il vocabolo generico bestia, mentre la clausula fixerat ictum si caratterizza per la novità del binomio proposto; l’impiego del termine ictus in rapporto al morso del serpente, infine, è riscontrato altrove, in particolare in Plinio, che lo utilizza parlando del chelydrus e del serpente in generale738. Al v. 106 segue alla cesura pentemimera l’accenno al veleno che inizia a rifluire dalle vene dell’uomo; il termine uenenum ricorre assai frequentemente nelle clausule esametriche, mentre la paronomasia uena ueneni costituisce un tratto tipico della versificazione fortunaziana. Da rilevare che il predicato fixerat del verso precedente potrebbe essere stato impiegato dal Nostro anticipando il motivo del veleno del v. 106 dal momento che è attestato l’uso del verbo figere in connessione al veleno, cfr. Cic. carm. frg. 52, 431 hic ualido cupide uenantem perculit ictu,/mortiferum in uenas figens per uulnera uirus. Il v. 107 si contraddistingue per l’utilizzo del verbo repedare, nella forma repedauit, in allitterazione con iter, assai raro nel linguaggio poetico, come provano le quattordici occorrenze riscontrate nella poesia latina precedente 739, quattro delle quali rinvenute nella stessa opera fortunaziana e cinque invece nel parafraste Giovenco 740. Da segnalare altresì l’anastrofe qua dederat ed infine l’allitterazione ad inizio parola tra uipera e uirus. Nella terzina sopra esaminata costituiscono evidente richiamo all’ipotesto soprattutto i vv. 104-105, cfr. Dial. 2, 2, 5 […] Martinus, porrecta manu uniuersa pueri membra pertractans, digitum prope ipsum uulnusculum quo bestia uirus infuderat fixit: manifesta la ripresa dei termini digitum, bestia e uirus e della forma verbale fixit, che tuttavia Sulpicio riferisce propriamente al dito di Martino e non alla bestia, in maniera dissimile dal suo successore. Nei versi seguenti procede la rappresentazione dell’operato di Martino sul corpo del servo, come palesato dall’avverbio hinc, in apertura del v. 108, cui segue il participio inspiciens, riferito a sacer, che ricorre nei testi poetici alquanto 738
Cfr. Plin. nat. hist. 5, 27, 10. Al riguardo, cfr. inoltre ThLL, VII (1), col. 165 rr. 47-50. Sul termine, cfr. Forcellini, IV, p. 86. 740 Iuuenc. 1, 104 Ad propriamque domum repedat iam certa futuri; 1, 223 Ad patriam laeti repedant puerumque reportant; 2, 75 Inde domum repedat terrarum lumen Iesus; 3, 195 Inde Galilaeas repedat seruator in oras; 4, 494 Tunc ad discipulos repedat, sed somnus anhelis. Ven. Fort. Mart.1, 1 Altithronus postquam repedauit ad aethera Christus; 265 Extimuit fugitiua uirum repedabilis arbor; carm. 5, 5, 31 Tempore quo Christi repedauit ad alta potestas. 739
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sporadicamente, poco più di una decina di volte in totale, soprattutto fra gli autori cristiani, cinque delle quali riscontrate nella Vita Martini di Fortunato741. Dopo la cesura pentemimera è collocato l’ablativo assoluto caratterizzato dall’allitterazione della sillaba -ta-; il medesimo costrutto ritorna nell’incipit del v. 109, riproposto in chiasmo rispetto al precedente, evocato altresì dall’iterazione del suono -ct- in entrambe le forme participiali. Il secondo emistichio del v. 109 è costituito dal pronome quam, riferito al sostantivo tabe del verso precedente in iperbato con il resto della relativa chiusa dal soggetto serpens, ed utilizzato altrove dal poeta in alcuni casi ad indicare metaforicamente Satana 742,
ed in generale spesso
ricorrente nelle clausule
esametriche743. Singolare la traduzione del nesso ablativale pollice subducto rinvenuta nelle versioni italiane e nella resa francese di Quesnel: quest’ultimo traduce (p. 55) infatti “appuie le pouce”, mentre i traduttori italiani Palermo (p. 104) e Tamburri (p. 64) rendono rispettivamente “messo il pollice” e “posto il pollice”. Nella latinità non si rilevano tuttavia loci in cui il verbo subducere sia inteso con i significati sopra proposti744. Tale osservazione inoltre acquista maggiore rilevanza, se il testo è messo a confronto con carm. 10, 6, 51. In questo caso, la narrazione della guarigione dal morso del serpente, che in generale non presenta rilevanti affinità con il passo parallelo estrapolato dalla Vita, potrebbe fornire delucidazioni in merito all’interpretazione dei vv. 108-109. Il v. 51 del carme recita infatti collecto morbo huc et ab ulcere pollice tracto745, riprendendo sia il concetto della flusso velenoso che si concentra in un unico punto, espresso al v. 108 dall’ablativo assoluto collecta tabe, sia l’azione di Martino che sollevando il dito estrae il morbo dalla corpo del ragazzo.
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Cfr. e.g. Lact. pass. dom. 79 Sanctorum inspiciens aeternae pacis amoena; Iuvenc. 2, 353 Ille sed inspiciens, quid pectora clausa tenerent: Paul. Nol. carm. 18, 55 Inspiciens uiduae palmam dedit; illa diurni. Ven. Fort. Mart. 1, 244 Tunc sacer inspiciens opus hoc esse exequiarum; 3, 226 Qui sanctum inspiciens, quod adesset frenduit ore; 3, 373 Inspiciens itidem sanctus per rura subulcum; 4, 276 Quem sacer inspiciens ait haec: "in nomine Christi. 742 Mart. 2, 308; 4, 273; carm. 2, 3, 3; 3, 3, 18; 5, 6, 13. 743 Cfr. e.g. Lucr. 4, 60; 5, 33; Verg. Aen. 5, 91; 273; Ov. met. 1, 439; Seren. 559; Iuvenc. 2, 722; Prud. apoth. 406; Paul. Petric. Mart. 5, 619; Drac. laud. dei 1, 288; Arator. apost. 2, 1160. 744 Cfr. Forcellini, IV, pp. 528-529. 745 “Il terribile morbo si raccolse in quel punto, ed egli lo estrasse dalla ferita con il dito” (trad. it. a cura di Di Brazzano, p. 515).
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Al v. 110 vanno rilevati l’espressione ueneni uis che richiama il sintagma ira ueneni del v. 98 ed il binomio per hiatum, in uariatio rispetto all’ablativo ulcere del verso precedente. Occorre sottolineare che le due terzine testé esaminate sono contraddistinte da un’evidente alternanza dei tempi verbali, in particolare le forme al piuccheperfetto rimandano al veleno immesso nel corpo dello sventurato a causa del morso del serpente, mentre i due presenti fluit (v. 106) ed exit (v. 110) descrivono l’uscita del liquido tossico dalle vene, dovuta all’intervento del santo denotato dal predicato posuit e dal costrutto ablativale pollice subducto, entrambi al tempo perfetto. La terzina (vv. 108-110) pone inoltre un problema strutturale, dal momento che al sacer inspiciens del v. 108 non corrisponde un verbo di modo finito, come ci si aspetterebbe: Quesnel ha chiamato in causa l’anacoluto, più volte riscontrato nell’opera fortunaziana746, ma anche in questo caso, data la forma participiale inspiciens, potrebbe sottintendersi alla medesima la voce del verbo sostantivo est, documentato altrove nella versificazione del Nostro. Ancora una volta il testo di Venanzio si distingue per un’andatura ridondante, finalizzata ad intensificare la drammatizzazione del processo di risanamento, analogamente a quanto accade nelle altre narrazioni relative alle guarigione operate da Martino. Al v. 111 prosegue la rappresentazione della ferita da cui stilla il sangue, accentuata dalla similitudine relativa al latte che stilla dalle mammelle delle capre rinvenuta nella prosa sulpiciana; Fortunato omette tuttavia l’elemento della mano del pastore che preme sulle mammelle 747. Anche i versi precedenti risentono dell’influsso dell’ipotesto, che si sofferma sulle fasi della guarigione del ragazzo, descritta nuovamente con vivido realismo 748, motivato dalla “autopsia”, ossia dalla visione
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Cfr. Quesnel, p. 144 nt. 19. Quesnel (p. 144 nt. 20) parla a proposito di “emprunt incomplet”. 748 Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 6 Tum uero – mira dicturus sum – uidimus uenenum ex omni parte prouocatum ad Martini digitum cucurrisse: dein per illud ulceris foramen exiguum ita uirus stipasse cum sanguine, ut solet ex uberibus caprarum aut ouium pastorum manu pressis longa linea copiosi lactis effluere. Riguardo al testo ivi riportato, si rende necessario fare una precisazione, dal momento che il predicato stipasse adottato nell’edizione proposta e nel testo stesso posto in calce all’edizione della Vita Martini fortunaziana dei Monumenta, nel codice Veneto presenta la lezione stillasse, per cui cfr. stillans del v. 111 di Fortunato; d’altronde il testo di Paolino al v. 143, estratto dal medesimo episodio, riferisce Stipauit 747
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diretta di un simile avvenimento ed allo stesso tempo dal riferimento certo ad una tradizione medica749. La parafrasi di Paolino non accoglie la similitudine bucolica di Severo e nel complesso si distacca dal predecessore; Fortunato sembra echeggiare il testo paoliniano esclusivamente nell’espressione collecta tabe, per cui cfr. pestis collecta (Paul. Petric. Mart. 4, 142). Al medesimo verso, il nesso sanguine concreto non è esclusivo dell’uso linguistico fortunaziano, ma ricorre presso alcuni poeti precedenti, cfr. Ov. met. 13, 492 Canitiemque suam concreto in sanguine uerrens; Lucan. 3, 573 Spumat, et obducti concreto sanguine fluctus; Claud. carm. min. 49, 23 Victricemque ligat concreto sanguine dextram750. Il nesso turgida plaga del verso successivo, invece, è proprio del lessico di Venanzio, che impiega il medesimo aggettivo in una sola ulteriore occorrenza all’interno dei carmi, in connessione con i boccioli dell’albero che si prepara a fiorire; anche in questo caso il linguaggio del poeta è fortemente allusivo e caratterizzato dalla metafora “del parto” dell’albero, paragonato alla figura della “madre” 751. Peculiare altresì l’espressione uomere necem ed il participio filans della clausula finale. Il verbo filare infatti è assai insolito e si incontra pressoché esclusivamente nell’opera di Fortunato, il quale lo utilizza sia in senso proprio, cfr. Vita Germ. 16, 50 puella quaedam filans; Vita Radeg. 30, 72 glomus, quem sancta filaverat, che in senso traslato, come nel caso presente752. Il significato di quest’ultima occorrenza è registrato dal curatore della voce corrispondente lemmatizzata nel Thesaurus, il quale lo deduce dal confronto con l’ipotesto sulpiciano 753. A livello stilistico, emergono la sorta di rima interna tra stillans (v. 111) e filans (v. 112) e l’allitterazione tra uomuit e uulnere (v. 112). Le forme participiali sono richiamate anche nella clausula del verso seguente (v. 112 relaxans), contraddistinto dalla ripresa in poliptoto dell’aggettivo concreto del v. iussum confestim erumpere uirus. Relativamente all’influenza esercitata dalle parafrasi di Paolino e di Fortunato sulla tradizione manoscritta del testo sulpiciano, cfr. Chase, pp. 61-76. 749 Cfr. Fontaine (3), p. 225 nt. 9. 750 Sull’accezione semantica del termine nel contesto del verso fortunaziano, cfr. ThLL, IV, col. 97 rr. 314. 751 carm. 3, 9, 19-20. Cortice de matris tenera lanugine surgens/Praeparat ad partum turgida gemma sinum. 752 Cfr. ThLL, VI (1), col. 760 rr. 33-35. 753 Lackenbacher, ThLL, VI (1), p. 760 rr. 35-40.
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111 e dall’ablativo assoluto uena saliente in chiasmo con il medesimo costrutto del v. 114, refluente canale. La sintassi dei vv. 113-114 appare complessa: Quesnel (p. 144 nt. 21), per evitare una contraddizione con quanto riferito dal poeta nei versi immediatamente precedenti, prospetta una differente interpretazione che muove dalla possibilità dell’uso transitivo di refluens; ciò permetterebbe di considerare uirus iners in qualità di complemento oggetto e canale in veste di soggetto, non solo dell’ablativo assoluto ma anche del predicato effert, secondo una consuetudine aliena al latino classico. In realtà la possibilità che il nesso uirus iners sia il soggetto della frase, la cui azione è quella di uscire fuori dalla piaga e portare con sé anche il sangue corrotto, non appare in contrasto con il senso dei versi antecedenti. Il v. 115 completa quanto affermato sopra dal poeta, configurandosi come una sorta di esametro aureo; la congiunzione et, collocata nell’incipit del verso, connette mediante enjambement il medesimo verso a quello precedente, mentre l’avverbio retro marca il predicato reuocat, posto al centro del verso, dopo la cesura pentemimera. L’iterazione del prefisso –re che caratterizza i vv. 113 (relaxans), 114 (refluente) e 115 (reuocat) raffigura icasticamente la marcia all’indietro del veleno all’interno delle vene. Dal punto di vista lessicale, il nesso uirus iners non è riscontrato altrove754, mentre l’aggettivo iners è impiegato dal poeta, con il valore di debilis, in un ulteriore verso della Vita (2, 278), in relazione al diavolo755. Il medesimo sintagma, inoltre, potrebbe echeggiare, seppur in un contesto metrico diverso, il tetrametro prudenziano Virus inerme piger reuomit (v. 154), estratto dall’Inno III del Cathemerinon Liber e precisamente dalla sezione (vv. 126-155) in cui il poeta fa riferimento all’episodio del serpente, narrato in Gen. 3, 15-16756; si noti inoltre che il predicato uomit del v. 113 di Fortunato riprende il reuomit prudenziano e che, nel riferirsi al serpente, egli si avvale dei termini impiegati nel medesimo passo dallo Spagnolo per indicare il serpente biblico, ossia uipera (Cath. 3, 150; Mart. 3, 107) ed anguis (Cath. 3, 153; Mart. 3, 117) Tale richiamo non è casuale e, ancora una volta, permette di istituire un confronto con i Testi Sacri, in particolare con l’Antico Testamento, laddove non sia possibile impostare da parte dell’Autore un paragone diretto con i miracoli evangelici, 754
Sul termine iners, cfr. ThLL, VII (1, 8), col. 1308 e ss. Cfr. ThLL, VII (1, 8), col.1312 rr. 29-30. 756 Cfr. al riguardo Palla, pp. 87-97. 755
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similmente a quanto si verifica, ad esempio, nel passo relativo alla guarigione della figlia di Arborio. Nell’ultimo caso il rimando veterotestamentario è esplicitato dal poeta in maniera evidente, mentre nella situazione presente esso è sotteso all’intero episodio e riaffiora dai rimandi alla poesia cristiana precedente, alludendo al simbolismo relativo al serpente di origine veterotestamentaria, assai diffuso nella letteratura cristiana 757. Il termine fistula ricorre nell’opera poetica fortunaziana anche altrove, cfr. Mart. 4, 26; carm. 2, 9, 58; 7, 8, 29; 10, 11, 4; 10, 11, 6, mentre l’aggettivo letifer è utilizzato da Fortunato in una sola ulteriore occorrenza, tratta dalla Vita, ove esso è impiegato nuovamente in connessione al veleno, cfr. Mart. 2, 179 Hinc quoque letiferi suffusus felle ueneni758. Il v. 116 annuncia la definitiva vittoria delle fede sul morso del serpente; esso si apre con l’ennesimo ablativo assoluto, mentre il resto dei membri della frase è contraddistinto da un evidente iperbato; il v. 117 riprende la metafora bellica introdotta al verso precedente ed è impreziosito dalla paronomasia perimunt perierunt e dalla clausula arma ueneni, per cui cfr. ira ueneni (v. 98), uena ueneni (v. 106) ed ancora carm. 5, 6, 12 occultus mendax mox exerit arma ueneni, in cui ritorna il medesimo nesso. Il carme testé citato costituisce uno dei carmina figurata composti dal Nostro, dedicato in questo caso a Siagrio d’Autun; in esso si fa riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva ed alle insidie tramate contro l’uomo e la donna dal serpente, cfr. Gen. 3, 5. Successivamente il poeta esprime il ristabilimento del giovane servo in un verso dal tono epigrafico (v. 118), che prende avvio con una citazione letterale di Ov. fast. 2, 650 Stat puer et manibus lata canistra tenet. Il poeta di Sulmona ritorna anche nella clausula finale dell’esametro, cfr. Ov. met. 8, 801 Hirtus erat crinis, caua lumina, pallor in ore, rinvenuta altresì in Lucan. 7, 129 Ictibus incertis. Multorum pallor in ore e Prud. psych. 702 Comminus astantem prodit; nam pallor in ore. Il termine pallor è impiegato da Fortunato come indice di malattia nel passo relativo alla guarigione del lebbroso, esaminato in precedenza, per cui cfr. Mart. 1, 493 Induerat miserum peregrino tegmine pallor, mentre l’aggettivo incolomis rimanda al personaggio di Evanzio risanato il giorno antecedente, cfr. Mart. 3, 94 Supplicat 757
Sulla simbologia relativa al serpente e la sua fortuna nella letteratura cristiana, cfr. Ciccarese, pp. 253283. 758 Sul termine, cfr. ThLL, VII (2), col. 1188 r. 32 ss.
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incolumis, domi ut mora crastina tardet: i due versi sembrano inoltre costruiti in maniera similare, presentando il predicato in forte posizione di rilievo ad inizio verso. Da notare al medesimo verso l’anastrofe tra la negazione neque, usata nuovamente in maniera impropria dall’Autore ed il verbo remanet, posizionato dopo la cesura pentemimera. Per quanto concerne il raffronto con l’ipotesto, appare evidente il calco di alcuni termini, quali puer ed incolumis, cfr. Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 7 Puer surrexit incolumis. Nel distico conclusivo è messo in evidenza lo stupore del padrone e della casa tutta, analogamente a quanto rinvenuto nella prosa sulpiciana in cui tuttavia, data l’identità del narratore Gallo, campeggia il pronome nos. Nel testo originario, inoltre, sono posti in rilievo il carattere miracoloso dell’evento (miraculo), che percorre tutto l’episodio (cfr. Dial. 2, 2, 6 -mira dicturus sum-) e l’onnipotenza di Martino, dichiarata all’inizio del passo (cfr. Dial. 2, 2, 4 nihil illi inpossibile confisus) e ripresa nell’epilogo759. Al v. 119 il sintagma domus omnis potrebbe costituire un rimando a Stat. Theb. 7, 577 Vrbem iniere gradu, domus omnis et omnia sacris; da segnalare infine la figura etimologica tra dominus del primo emistichio e domus della clausula finale760. Il verso successivo è incorniciato da espressioni analoghe nella struttura, ma di significato opposto, currere seruitio ed ire sepulchro, formate entrambe da infinito e dativo; ambedue i nessi si caratterizzano inoltre per il cosiddetto datiuus directionis incontrato in precedenza nella versificazione fortunaziana e frequente nei testi poetici latini761. Il parallelismo formale sopra esaminato fa risaltare maggiormente la contrapposizione tra lo stato di “semi-morte” in cui giaceva il fanciullo, in seguito al morso del serpente, e la ripresa di tutte le funzioni vitali e delle mansioni svolte all’interno della casa del padrone. Il riferimento al sepolcro, che indica metaforicamente la morte stessa, è presente anche nell’episodio della paralitica (cfr. Mart. 1, 376) e nella resurrezione dello schiavo di Lupicinio (cfr. Mart. 1, 185) e concorre, nelle guarigioni, ad intensificare l’idea di
759
Sulp. Sev. Dial. 2, 2, 7 […] Nos, obstupefacti tantae rei miraculo, id quod ipsa cogebat ueritas fatebamur, non esse sub caelo qui Martinum possit imitari. 760 Sul rapporto tra i lessemi domus ed il derivato dominus, cfr. Ernout, pp. 40-41. 761 Cfr. Dagianti, p. 11-12; Lunelli, p. 10; pp. 105-107; Löfstedt (1), vol. I, p. 180 ss.
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scampato pericolo di morte e ad accrescere, di conseguenza, le virtù miracolose di Martino. L’ipotesto sulpiciano mostra altresì l’intento testé rilevato nei versi fortunaziani, presentando la voce verbale surrexit, similmente all’episodio della guarigione della paralitica (Sulp. Sev. Mart. 16, 8), che a sua volta riprende il testo evangelico della Vulgata, relativo alla narrazione della guarigione del paralitico (Mt 9, 7). Il testo rinvenuto in carm. 10, 6, 49-54 limita il riferimento alla morte scongiurata grazie all’intervento di Martino all’esclamazione sic superasse neces (v. 54), che mette ancora una volta in luce il potere del santo di vincere il male; il predicato surrexit sopra citato è reso nel testo del carme con una perifrasi meno efficace, erigit ille caput (v. 52). Nel racconto tratto dalla Vita, dunque, Venanzio enfatizza il motivo del personaggio “bell’e morto” salvato dall’azione martiniana e cede ancora una volta alla ridondanza nella descrizione della malattia che fugge al contatto con la mano, in questo caso, il dito di Martino. Da rilevare infine che i richiami intertestuali alla classicità ed alla poesia cristiana sono finalizzati alla celebrazione del santo, ma allo stesso tempo mettono in luce la vasta cultura del poeta che si diletta, per così dire, ad interloquire con i suoi predecessori. In particolare il richiamo a Prudenzio e l’allusione al serpente biblico lasciano intendere una profonda conoscenza del Testo Sacro, della tradizione patristica e della poesia cristiana 762.
762
Cfr. al riguardo quanto affermato nella sezione introduttiva relativa alla formazione di Fortunato.
185
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-
Venantii
Honorii
Clementiani
Fortunati…carminum,
epistolarum
ac
expositionum libri XI…Omnia recens illustrata a r.p. Chist. Brower S.I., Maguntiae 1603, 16302. -
Venantii Fortunati opera omnia. Iuxta editione Michaelis Angeli Luchi recensita PL, LXXXVIII, 9-596, Parisiis 1850.
-
Venanti Honori Clementiani Fortunati Presbyteri Italici Opera Poetica. RecensUit et emendavit F. Leo, MGH, AA IV (1), Berolini 1881 (rist. anast. München 1981).
763
Nel breve elenco sotto riportato sono enumerate le edizioni principali dell’opera fortunaziana, cui si è fatto cenno nel corso della trattazione.
186
-
Venanti Honori Clementiani Fortunati Presbyteri Italici Opera Pedestria. Recensuit et emendavit B. Krusch, MGH, AA IV (2), Berolini 1885 (rist. anast. München 1995).
-
Venance Fortunat. Oeuvres. Tome IV. Vie de Saint Martin. Texte établi et traduit par S. Quesnel, Paris 1996.
-
Venance Fortunat. Poèmes. Tome I (Livres I-IV), Tome II (Livres V-VIII), Tome III (Livres IX-XI; Appendice: In laudem Sanctae Mariae), Texte établi et traduit par M. Reydellet, Paris 1994-2004.
Sitografia -
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http://www.mqdq.it
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