Un’opinione importante
Se non sei mai stat@ in Palestina, né a Gaza né in West Bank, nei Territori Occupati, è solo tramite il racconto di chi la vede tutti i giorni o di chi la attraversa ogni tanto che la puoi incontrare. Non è mai così semplice trasferire quello che vedi e senti in un racconto. Leggere e sentirsi immerso, è questo il punto. La Palestina è l'insieme dei suoi odori, dei suoi sapori, delle sue mille contraddizioni, dal giallo del deserto al verde dei suoi ulivi, dal calore dei sorrisi di chi lotta e resiste ogni giorno alle pietre della resistenza, alle bombe dei sionisti. L'occupazione sionista e la tecnologia che hanno e usano per reprimere ogni giorno chi difende la propria terra. L'atto di resistenza che ogni giorno contadini, bambin@, ragazz@ affrontano per difendere la loro terra, con il coraggio e la tenacia di chi non ha niente da perdere. La Palestina è tutto questo. È nella frase di Vittorio Arrigoni fuori dall'uscio di casa. Anche se sembra così lontana, la Palestina siamo noi e dove decidiamo di essere e andare ogni giorno. Lolla
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Una premessa personale
Le premesse su questo ipotetico racconto sarebbero infinite. Così come le righe che dovrei scrivere per la dedica. Chiaramente ne tralascio la maggior parte, perché risulterebbero inutilmente incomprensibili. Ci sono, forse, alcune cose da dire. Il contesto. Ho scritto questo racconto nell’ottobre del 2014, dopo esser tornato dal mio ritorno in Palestina, che tanto avevo atteso. Ecco, il ritorno dal ritorno. Un ciclo di pensieri che si sono confrontati con uno dei periodi più intensi e strani della mia vita. Quasi una catastrofe di emozioni e riflessioni a cui è stato chiesto di potersi mettere in fila. Una delle cose più complicate che abbia mai fatto in vita mia. La scusa. A settembre del 2014 sono tornato in Palestina grazie al progetto internazionale Beyond Walls del Servizio Civile Internazionale. Ero il coordinatore di una delle delegazioni che hanno attraversato quello spicchio di mondo nel contesto della cosiddetta joint struggle. Water for Palestine. Un’esperienza che definire interessante mi sembra sempre poco. Colgo l’occasione di questa premessa per poter ringraziare chi mi ha proposto il viaggio, l’associazione per il bellissimo progetto che ha portato avanti per due anni, i miei compagni e le mie compagne di delegazione. Nell’ultima pagina metterò un breve testo descrittivo del progetto dello SCI che invito a leggere ed approfondire. “Viaggio lungo la via del ritorno” non è un racconto politico. Non è un punto di vista sulla situazione in Palestina. Non è neanche un racconto di lotta o una storia di pura fantasia. È una storia. È una delle tante sto4
rie che si possono scrivere. Capitolo 1 è l’unico scritto di una storia molto più lunga che, probabilmente, non verrà mai scritta. È una storia profondamente personale e poco descrittiva, anche se può sembrare esattamente l’opposto. Questa storia sono occhi che parlano. Gli occhi persi in un’osservazione imprecisa. Gli occhi che brillano o ballano perché connessi ad una tracimante quantità di pensieri che attraversano il cervello. Gli occhi che scoprono e gli occhi che si stupiscono. I miei e non solo. Non c’è verità in questo racconto, ma solo un flusso di pensieri che attraversano un viaggio nell’attesa di tornare, senza alcuna voglia di farlo. Silvio
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VIAGGIO LUNGO LA VIA DEL RITORNO
Una storia di ricordi appannati
dedicato a L e V
Capitolo 1
Raccogliere una pietra è la cosa più naturale
Non ho fatto questo viaggio per scappare. Non ho fatto questo viaggio
neanche per fuggire quei pensieri che avrebbero rinchiuso la mia mente in un vortice di immaginiriflessioni. Il Caso ha guidato tanta parte della mia vita a partire dal 15 giugno dell’anno scorso ed è come se i pezzi del puzzle abbiano cominciato ad incastrarsi perfettamente senza mai poter riuscire, almeno, ad intravedere l’immagine finale. Quel giorno la mia vita è cambiata definitivamente. Quella strana attitudine che mi ritrovo di dovermi mettere sempre alla prova, quella sensazione costante di disagio e di non fare mai la cosa giusta. Le mie contraddizioni. Quell’idea di me sempre così inadeguata alla vita che faccio e che scelgo ogni giorno di affrontare. Quella stima infinita verso le persone che mi circondano e la continua ricerca di poter raggiungere anche solo per poco il loro livello. Senza mai riuscirci. L’incapacità di reggere il confronto con me stesso. Le persone meravigliose a cui voglio bene e per cui ho capito di essere altrettanto importante. Queste e mille altre cose. In un millisecondo la sensazione che tutto fosse possibile. Trovarsi di fronte ai propri spettri e poterli affrontare a viso aperto, senza paura. Non è durata molto. Non è servita a molto, anzi. Poi la proposta del viaggio. Molto tempo dopo. Una cosa che ho imparato in questo anno è che ho un bisogno estremo di sentirmi utile, che non voglio fare le cose semplicemente perché mi va. Chiaro che non sto parlando di tutto, ma di cose specifiche, di quelle cose di cui ho già sperimentato la validità nel mettermi a confronto con me stesso. La Palestina è una di queste cose. La Palestina per me è da sempre una cosa personale e poi politica. Forse questo aspetto non può essere capito più di tanto, perché è legato ad un concetto che difficilmente si può spiegare: 8
l’empatia. Un concetto che nell’ambito dei percorsi politici di movimento non è mai, o poco, considerato, ma che io credo sia un elemento importante in quanto proveniente da ciò che io considero il cuore delle nostre azioni, ovvero la pancia. Ciò che rende ancora più strano il tutto è che, sebbene non considerato in ambito generale, sembra che su questa questione specifica mi si riconosca questo: una connessione. Forse non capendo bene il perché, visto che non faccio grandi percorsi sulla Palestina, ma evidentemente traspare che è una questione che ha a che fare con me, con chi sono e le scelte che faccio, con la mia pancia. Mi è stato chiesto di non andare o anche solo il perché proprio adesso. Mi è stato chiesto da più persone e mi è stato chiesto a poco più di un anno da quel 15 giugno. Anche Lei me l’ha chiesto. Mi è stato chiesto nel momento più alto della mia esistenza, nel periodo più importante e complicato. Forse nessuno capirà mai esattamente perché ho scelto di andare questa volta e sfido chiunque ad entrare nella mia testa e dargli una forma comprensibile al genere umano, ma la cosa più bella è stata leggere negli occhi la fiducia nella mia scelta e il desiderio che tornassi. Sono tornato e non stavo scappando, semplicemente ero alla ricerca. Experience is not what happens to you. It is what you do with what happens to you (Aldous Huxley)
Fiumicino Aeroporto, Terminal 3, 8:45 del mattino. Puntuale come, forse, mai nella mia vita! Lina mi ha accompagnato e per noi sarà il saluto della mia partenza e del suo ritorno. Non posso credere che l’inizio del mio viaggio in Palestina porti con sé la fine del periodo più bello della mia vita. Gli zaini per terra uno accanto all’altro e si capiscono i diversi approcci al viaggio. L’esperienza, il dubbio, l’eccesso, la mezza misura, la furbizia. La tecnologia, arma avvincente dell’era moderna, che all’inizio del viaggio sembra solo un ingombro. Ultima occhiata alle rubriche, alle mail, ai social. Colazione al bar e poi verso il gate. Si parte. Ah no, il Terminal è sbagliato! Il Terminal è il numero 1. È cambiato da poco. Grande organizzazione degli aeroporti d’Italia! Nessuno comunica con nessuno. Avere Lina lì con me mi rassicura. Sa che è un momento importante. Sa che il giorno prima ero stato esattamente lì dove ci trovavamo alle 9:05 del mattino. Sa cosa significa questo. Sa che doverla salutare e non ritrovarla al mio ritorno mi mette un po’ d’ansia e mi riempie di tristezza. Sa di dover cancellare dalla mia testa, almeno per 9
due settimane, il pensiero che al mio ritorno loro (Lei) non ci saranno (sarà). Ho fatto una promessa. Promettere di tornare a qualcuno che non sarà lì ad aspettarti è un po’ strano. Tornare ed essere tu la persona che sta aspettando. Non so se è più folle o ingiusto. O, forse, è semplicemente triste. Lina sa che la Palestina saprà guidarmi nella mia ricerca. Grazie. Colazione al bar e poi verso il gate. Si parte. L’aeroporto di Ben Gurion è fottutamente organizzato. Così pulito e così tecnologico. Che fastidio quei rubinetti per l’acqua potabile fuori dal bagno! Scendi dall’aereo e percorri lunghi corridoi coperti di moquette di un grigio chiaro e tapis roulant che ti portano verso un’immensa vetrata. Ti viene spontaneo guardare di sotto. La piazza è piena di chioschi e tavolini e al centro una grande fontana. Noi siamo lì per fare un lavoro sull’acqua. Ciò che ci interessa sarà documentare l’enorme sproporzione dello sfruttamento e della divisione delle risorse idriche tra israeliani e palestinesi. Mentre guardo di sotto e i ricordi vanno alla partenza del 2009 da quello stesso aeroporto, penso a quanto differenti possano essere i pensieri di chi mi sta accanto in quel momento. La crudele magnificenza di quella vista confonde e penso ai “wow”, “wonderful”, “fico” e simili che possono venire in mente. Per un attimo mi lascio trascinare anche io da un commento del tipo “quanto le fanno bene le cose questi stronzi!”, ma poi penso subito a quanto sia uno schiaffo in faccia proprio il mostrare la bellezza dell’acqua. Imponente e maestosa casca dall’alto, come se arrivasse direttamente dal cielo. Zen. Non è così. Arriva dalle sorgenti palestinesi. Rubata. Nessuno attorno a noi sembra, però, curarsi di questo. Fastidio! Andare in Palestina ti mette subito alla prova. Anche perché passi per Israele. Se non ci sei mai stato prima, l’impatto è di un’agghiacciante normalità. Tutto è così curato, nei minimi particolari. All’aeroporto non ci sono militari, l’occupazione è lontana, non c’è lo stato di guerra permanente, non percepisci la tensione. Cammini nei lunghi corridoi, poi la vetrata, la fontana, altri corridoi, senza moquette questa volta. Tutto normale. Tutto pulito e tranquillo. La security. Ecco. Poi arrivi al controllo passaporti dove devono darti il visto d’ingresso, se non ce l’hai. Se ce l’hai, in quel momento è come se stessi ricominciando tutto da capo. Dura un lunghissimo attimo. ---------------------------------hai, in quel momento è come se stessi ricominciando --------------------------tutto da capo. Dura un lunghissimo attimo. Sì, perché tu non è detto che lo sai prima di arrivare in quel punto se potrai entrare o no in Israele. Anche se 10
hai ottenuto un visto prima di partire. Nessuno te lo dice prima, nessuno te lo garantisce prima. Non è come per tutti gli altri Paesi che tu vai all’ufficio visti, fai la richiesta, paghi e aspetti. Dopo un tot di tempo qualcuno ti dice se puoi entrare o no nel suo Paese. Se ti dicono che puoi entrare è fatta. Già questa cosa è allucinante, ma almeno lo sai prima di partire. In Israele no. Non funziona così. Se non sei mai stato in Palestina non lo puoi sapere, ma anche se non sei mai stato in Israele non puoi saperlo. Quando arrivi al gabbiotto dove mostri il tuo passaporto, non sai che, in realtà, tu sei in un limbo in cui il tuo passaggio o meno dall’altra parte dipende quasi esclusivamente dall’umore della persona che ti trovi di fronte. Uno potrebbe pensare: “ma che stai dicendo! Possibile che l’umore di una persona gestisca l’ingresso alla frontiera di un Paese?” Ok, non è così semplice, ovviamente. L’apparato di sicurezza è tanto organizzato, quanto esteso e, se non vuoi vederlo, invisibile. Ma è vero, basta uno sguardo un po’ così, una parola sbagliata, una foto di quando porti i capelli o la barba diversi, un nome o cognome che suonano in un modo che non va bene, magari arabi. Basta un sopracciglio alzato nel momento sbagliato, un tremore della voce. In realtà basta, davvero, che la persona che hai di fronte si sia alzata nel modo sbagliato che ti ritrovi a dover rispondere a delle domande di cui, magari, non sai la risposta. Almeno non sai se la risposta che darai è quella giusta o no. Non sai cosa può succedere se la risposta è sbagliata. Perché non te lo aspetti. “Ok, ci siamo. La storia la conoscete tutti, io vado avanti e voi aspettate dietro di me.” Mi avvicino al gabbiotto e dietro il vetro c’è una ragazza con il volto scuro, puntiglioso. Le do il mio passaporto e lei comincia a farmi le solite domande. “Da dove vieni?” “È la prima volta che vieni in Israele?” Certo che è la prima volta, ci mancherebbe altro!! Ti vengo anche a dire che sono già stato qua, magari ti racconto del viaggio fatto in giro per la West Bank e di come abbia visto e vissuto l’occupazione nei suoi mille aspetti. Magari ti racconto del mitico ingresso a Gaza dopo che hanno ammazzato Vittorio. Alla domanda “Sei qua per turismo?”, prendo un secondo di tempo e comincio a tirare fuori la cartellina con al lettera della Commissione Europea in cui, fondamentalmente, non c’è scritto niente! Dice che siamo qua per svolgere un lavoro per un progetto. Nessuna informazione aggiuntiva. Niente. Cerco di trovare in un microsecondo il modo migliore per spiegare la storia che ci siamo preparati. Sono pronto. In quell’attimo in cui mi ero preparato per gestire la situazione, Fiorenza decide di sbucare alle mie spalle e chiedermi se ho dato la lettera. 12
“Che dobbiamo fare? Aspettiamo lì?” Cazzo! Cosa le prende? Cosa non era chiaro della frase “aspettate dietro di me”. Io dico, come ti viene in mente di irrompere al controllo passaporti in un Paese che sospetta di tutto e di tutti? Il clima si fa teso in un attimo e io tiro subito fuori la lettera che mostro alla ragazza dal volto scuro e puntiglioso. L’intestazione della lettera dice: “European Union (West Bank and Gaza Strip, UNRWA)”. Poi tutto il resto. Niente. Le domande cominciano a farsi più dirette. Cattive. La ragazza, visibilmente infastidita, comincia ad irrigidirsi. Chiede se andremo in West Bank o a Gaza. “No! Per quello che sappiamo, faremo del lavoro tra Gerusalemme e Tel Aviv.” Ad un tratto è tutto così veloce e teso. Cazzo! Mentre provo a far capire alla ragazza puntigliosa e scura in volto che non sappiamo quasi nulla di quello che dovremo fare per questo fantomatico progetto dell’Unione Europea, Stephanie capisce e prende l’iniziativa. Si avvicina al gabbiotto accanto al mio, dove trova un’altra ragazza. Le due cominciano a parlare. Io continuo con il mio “Sappiamo solo che dobbiamo andare all’ufficio a Gerusalemme e mostrare questa lettera. Poi ci diranno cosa fare.” “Chi dovete incontrare?” “Non lo so. Come vedi non c’è scritto niente e questo è tutto quello sappiamo! Dobbiamo fare un’attività di monitoraggio sull’implementazione delle attività e sulla partecipazione al questo progetto di cui noi non dobbiamo sapere nulla. È lavoro!” Le due ragazze dietro ai vetri continuano a parlare. La mia, “ciocchina”, chiama qualcuno al telefono e arriva subito una donna che mi rifà esattamente le stesse domande. Io continuo a rispondere esattamente nello stesso modo. Ad un tratto mi giro verso Stephanie e lei non c’è più. L’hanno portata via. Fiorenza è al gabbiotto accanto al mio. Le ragazze e la donna continuano a parlare. Niente da fare, portano via anche me. Ok, sono un po’ teso, ma devo gestire la situazione, è mia responsabilità fare in modo che almeno loro possano entrare per fare il lavoro per cui siamo venuti. Ritrovo Stephanie nella stanza che precede gli interrogatori. Ora non puoi ignorare la security. Per chi passa in quella stanza, il purgatorio, è impossibile far finta che sia tutto normale. Lì cominci a sospettare di tutti. Saranno qua tutti per il controllo? Ci saranno spie che ascoltano? Quello … quello sembra essere troppo tranquillo! Ma poi devi uscire da questo loop mentale e rimanere lucido. Devi mostrare tranquillità e parlare solo di cose tranquille. Nel nostro caso, siamo qua per un progetto e ci ha chiamato a fare un lavoro nientemeno che l’Unione Europea. Tutto apposto! Il primo pensiero è che abbiano preso me e Steph perché sanno chi siamo e sanno che siamo 13
già stati lì. Sanno che siamo attivisti. Ok, poco male. In ogni caso aspettiamo e vediamo. Il gioco è questo, aspettare e vedere che succede. I nervi saldi. La storia pronta. Poi arriva Fiorenza. Le ipotesi sono due: 1) Hanno deciso di non farci entrare; 2) Vogliono solo renderci nervosi e sperare che gli raccontiamo un’altra storia, che entriamo in contraddizione. L’obiettivo rimane lo stesso. Calma. Mentre aspettiamo, parliamo del tempo, del fatto che abbiamo la lettera e questo è tutto quello che sappiamo. Un modo per ripassare la storia senza creare sospetti. Un modo per stare tranquilli. Il tempo passa e un energumeno della security ogni tanto passa e fa gesti strani. Non parla. Non dice niente. Non chiede. Lui ordina. Lui comanda. Ci metto un po’ a capire il senso di quei gesti. Lo capisco definitivamente quando mi punta con le mani congiunte e poi fa un gesto come se fosse Mosè e stesse aprendo le acque. Non capisco subito. Anzi, lo trovo anche un po’ buffo e mi scappa quasi da ridere. No, Silvio … fermo! Lui, senza perdere la fermezza della sua posizione e la convinzione che il suo gesto debba essere capito, ripete il movimento. “Ah, ok. Mi devo spostare! … a destra o a sinistra!” Ma vaffanculo, penso! Lo penso solamente, mica sono scemo! Ci mancherebbe che mi faccio nemico un tipo che, solo per il fatto che sto in quella stanza, mi odia senza sapere chi sono. E poi è grosso! Lui punta con il dito un signore anziano che era seduto dietro di me. Ancora solo gesti. Nessuna espressione, nessuna parola, nessuna pietà. Il signore lo segue e scompare in una delle stanze degli interrogatori. Ne approfitto per guardare fuori dalla stanza e vedo gli altri ancora in fila. La donna che era nel gabbiotto insieme alla ragazza puntigliosa e scura in volto mi fa di nuovo le stesse domande che mi avevano già fatto altre tre volte. Le risposte sono sempre le stesse. Il signore torna dopo qualche minuto e si risiede. Il tempo passa e non ti rendi conto di quanto realmente ne sia passato. Ogni tanto riportano dei passaporti e vediamo qualcuno andare via. Può entrare finalmente. Chissà da quanto stavano aspettando. Una ragazza più bassina delle altre ha la lettera in mano e mi chiama. Ha i capelli neri. La coda. Un finto sorriso e il fischietto per dare l’allarme. Mi fa di nuovo le stesse domande. Stesse risposte. Di nuovo colgo l’occasione per guardare verso il gabbiotto e gli altri non ci sono più. Questo mi tranquillizza. Vogliono solo metterci pressione. Vogliono solo farci perdere tempo. Non si spezza un gruppo che è chiamato a fare un lavoro dall’Unione Europea. O entrano tutti o non entra nessuno. Tre sono passati, prima o poi passeremo anche noi. Il via vai dalla stanza continua così come la nostra attesa. La ra14
gazza bassina si avvicina di nuovo. Stesso sorriso del cazzo. Allora ne sfoggio uno anche io. Perché no?! Lo fai tu, lo faccio anche io. Dai, sorridiamo tutti quanti!! Stronza. Mi fa di nuovo le stesse identiche domande e poi prova ad approfondire. Io le do le stesse risposte e alla fine le dico “guarda, puoi chiedermelo altre cento volte, ma tu hai la lettera in mano. Questo è tutto quello che ci hanno dato e tutto quello che ci hanno detto. Come vedi è praticamente niente, ma di più non sappiamo. Lo capisci, è un lavoro, ci pagano e questo per noi è più che sufficiente!” Tutto con un gran bel sorriso e tanta simpatia. “ok, ok. I understand!” Rientro nella stanza e qualcuno va, qualcuno viene. Dopo qualche minuto riportano i passaporti a Stephanie e Fiorenza. Ancora qualche minuto e anche per me è finita l’attesa. “Può andare, buona permanenza in Israele” Sì certo, buona permanenza sto cazzo! Senza offesa, ovviamente! Passaporto e visto alla mano ripasso accanto al “mio” gabbiotto e attraverso il varco elettronico. Siamo tutti dentro! Valerio, Fulvio e Cinzia hanno già preso i bagagli. Qualche commento e poi subito verso l’uscita. Con Valerio andiamo a cambiare i primi soldi che ci serviranno per arrivare fino a Gerusalemme, poi fino a Betlemme e, come ultima tappa, ad Al-Masara (ةرصعملا), dove saremo di base per tutta la settimana. C’è ancora molta strada da fare e la rabbia è già tanta. Usciti dalle porte dell’aeroporto, Cinzia sta provando a mandare un messaggio, ma il cellulare non le prende. Dentro le prendeva almeno la rete, quindi si aggira davanti alle porte scorrevoli cercando una fottuta connessione che non arriva. Scherziamo sulla cosa e ridiamo cercando il punto giusto. Una ragazza davanti le porte. Sembra essere una di quelle persone che ti danno informazioni all’ingresso dell’aeroporto. Ci guarda e sorride. Si avvicina e … “cosa state facendo?” Le spieghiamo il motivo di tanta ilarità. “Passaporti!” “Ma no, siamo appena arrivati e stiamo solo cercando di mandare un messaggio alla famiglia.” “Passaporti!” L’apparato di sicurezza ha mille vesti e mille volti. Non finisce mai. È ovunque e se non vuoi vederlo non lo vedi. Ma c’è sempre qualcuno che ti osserva, che ti controlla e che può chiederti conto di chi sei e cosa fai. Mostriamo i passaporti e il visto fresco fresco di stampa. Lei controlla e chiede se siamo appena arrivati. Ma che cosa avete tutti qua? Te l’ho appena detto che siamo arrivati ora! “Sì, siamo appena usciti. Un messaggio alla famiglia e andiamo”. Concede a Cinzia di rientrare e poi ci avviamo alla ricerca di uno sherut che ci porterà via da questo incubo. Sempre sorridendo. Sempre commentando a denti stretti fingendo felicità per essere arrivati. Che bravi turisti che siamo!! Welcome to Israel! 15
Ormai è chiaro a tutti. Bisogna entrare subito nel “mood turisti”. Tenersi dentro i commenti che vorremmo fare, le facce strane e trasparenti che potrebbero apparire come una rivelazione di ciò che pensiamo di tanta indifferente normalità. Un’apparente normalità. Ci muoviamo verso lo sherut e proviamo a confonderci in mezzo ai pochi turisti, ai tanti autisti ed a chi attraversa l’aeroporto durante le sue giornate. La cosa strana è che ci sono pochi bagagli che girano fuori dalle porte scorrevoli. Se penso a Fiumicino, quando siamo partiti, dove pure chi non doveva prendere un aereo aveva una borsa che gli ciondolava dalla spalla e chi l’aereo doveva prenderlo, magari, ne aveva tre o quattro che si ammassavano su tutto il corpo. Trovando l’incastro migliore per non far cadere niente ed evitare di fare più viaggi verso il checkin. Italian style! Se penso a quanto sia differente quella scena da quello che vediamo ora. Molte persone hanno solo una borsetta, una ventiquattrore, qualcuno non ha niente. Poi dici che uno sospetta di tutti. Ok, è vero che la paranoia in quel momento è a livelli altissimi. Però. Bisogna ammettere che è un po’ strano che tu vai all’aeroporto o vieni dall’aeroporto e non hai niente con te. Pure se ci lavori, dai, una borsettina, una sacchettina, uno zainetto, la borsa del pranzo. Niente. È un po’ strano! Detto questo. Troviamo il nostro sherut e concordiamo il prezzo: 380 shekel, circa 84 euro. Dobbiamo arrivare a Gerusalemme, ma siamo in sei e i posti sono nove. Dobbiamo aspettare che si riempia altrimenti l’autista non parte. Sigaretta. Il tempo passa e finalmente cominciano ad arrivare i tre personaggi che ci mancano per proseguire nel nostro viaggio. Uno di loro ha uno zaino. Poi c’è il tipo in giacca e cravatta, parla inglese. Non ha niente con sé. Lui scende e risale più volte dallo sherut, come se avesse delle cose da fare, ma in realtà non fa niente. Magari vuole solo prendere un po’ d’aria. Magari è solo un po’ insofferente. Magari. Con Stephanie ci guardiamo e sappiamo cosa stiamo pensando, entrambi. Gli altri in questo sembrano più ingenui, forse solo più incoscienti della situazione in cui si trovano. È la prima volta per loro. Nessuno di loro ha un particolare legame personale o politico con la Palestina. Sentire tante storie e tante testimonianze non ti rende bene l’idea di come poi sarà quando ci vai. Finché non lo provi di persona, finché non ti scontri con una realtà così piena di contraddizioni e sospetto. Finché non hai mai dovuto mentire o anche solo stare attento alla verità che racconti al supermercato, al bar o mentre compri il tabacco. Finché non pensi “cazzo, forse quella cosa non dovevo dirla”. 16
Beh, finché non vivi almeno una volta una di queste cose con quel brivido di paura che ti sale dalla schiena fino al cervello. Finché tutto questo, finché l’esperienza non la vivi di persona, non realizzi fino in fondo dove sei e le cose a cui fare attenzione. Ma, forse, è meglio così. Io e Steph, invece, ci guardiamo e i nostri occhi parlano più chiaramente di mille parole. Chissà chi è lui? E poi lei, la signora con la borsa bianca. Lei sembra uscita da un film, da uno di quei film che raccontano l’olocausto attraverso le storie di chi l’ha vissuto e alla fine ti fanno vedere chi sono le persone vere che corrispondono ai personaggi del film. Schindler’s list. Ecco, lei sembra uscita da quel film. Naso pronunciato e appuntito, ricci bianco scuro, corti e ordinati, ma lasciatiinlibertà. Carnagione olivastra e sguardo di chi nella vita ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Si siede nel posto di fronte al mio e per tutto il viaggio non sorride. Non parla. Osserva o, per meglio dire, scruta. Non si gira mai verso dietro, non interagisce con l’autista. Ogni tanto mi guarda e il suo sguardo mi sa di giudizio. Forse capisce perché siamo lì. Forse ha capito che stiamo andando verso la West Bank, che non siamo turisti. Forse pensa che siamo complici di chi “cospira” per la distruzione del loro “sogno”, lo Stato d’Israele. Forse prova disprezzo. L’autista corre veloce verso la destinazione e attorno a noi cominciano a scorrere quei paesaggi che raccontano di una terra che non avrebbe mai dovuto subire un così grave stupro. Quella terra che è da sempre disposta ad accogliere chiunque senza chiedere niente in cambio. Solo un po’ di rispetto. Quella terra dai colori tenui e così intensi allo stesso tempo. Quei colori che avrebbero volentieri fatto a meno della guerra, dell’occupazione, delle colonie, dei muri, del filo spinato, dei bunker, dei tank, dei droni, dei razzi, di tutti quei lacrimogeni che la fanno bruciare, di quei proiettili che, come semi malati, la penetrano e fanno crescere solo odio, del sangue versato inutilmente, per crudeltà pura. Ma avrebbe fatto a meno anche dei Comitati Popolari, delle Intifada, dei Fedayyin, perché non ce ne sarebbe stato bisogno. Che spreco, questo sarebbe potuto essere uno dei posti più belli al mondo, un esempio. Un esempio lo è diventato, ma nel senso più sbagliato che la storia dell’uomo abbia mai potuto raccontare. I pensieri volano e i ricordi cominciano ad affiorare vivi nella mia testa. Gli amici che vorrei rivedere, quelli che non sento più, quelli di Gaza. I pensieri si mischiano e le sensazioni mi riportano a quella strana felicità piena di tristezza che ho vissuto nelle due settimane precedenti alla mia partenza. La Palestina è un po’ così, rabbia e amore, energia e impoten17
za, felicità e tristezza, frustrazione e sogni. Che strano capitolo della mia vita che si sta scrivendo. Il ritorno in una terra così importante per me e il ritorno a casa delle due persone più importanti della mia vita. Il ritorno, un concetto così ambivalente in questa terra. Un concetto così importante. Già penso alle cose che vorrei raccontare al mio ritorno e la realtà del ritorno mi ricorda che non ci sarà nessuno ad ascoltarle. L’autista corre veloce e la donna continua a guardarmi con quell’aria di sospetto. Io penso “signora mia, forse dovrebbe venire con noi e provare a dare uno sguardo a ciò che il vostro di ritorno produce da così tanti anni. Forse dovrebbe vedere ancora qualcosa che non si dovrebbe mai vedere.” Provo a buttarle là un sorriso, ma niente. Beh, il mio tentativo l’ho fatto. Cinquecento metri dalla Porta di Damasco e si scende. Siamo a Gerusalemme, che bella! Mentre camminiamo lungo il muro della città vecchia verso la Porta: “mi raccomando, siamo qua per visitare la terra di nostro Signore Gesù Cristo” e scherziamo su questo. Ma non troppo. “Turisti, cristiani e anonimi!” Passiamo davanti alle macchine della polizia che presidia la Porta e … “Attento!” Il mio piede maldestro si scontra con un tombino leggermente rialzato e inciampo. Quasi cado. “E meno male che si era detto di rimanere anonimi!!” Una grande idea inciampare proprio davanti alla polizia. Ops! Proseguiamo facendo finta di niente e indicando la cresta delle mura, le vecchie torri, come se stessimo ammirando e raccontando la loro storia. Beh, in parte lo stavamo facendo davvero. La bellezza della città vecchia incanta. Gli odori delle bancarelle, i colori, i rumori. L’ordine comincia a cedere ad una gestione dello spazio e dei movimenti più … in libertà. Siamo vicini. Gerusalemme è una città strana, in cui le contraddizioni assumono forme quotidiane spesso violente e inquietanti. Una città che tiene insieme e contemporaneamente divide. Una città divisa, c’è il muro. I cappelli neri con questi cilindri enormi e variegati, i riccioli che scendono lungo il profilo delle barbe. Le gonne lunghe e le camicette bianche. Lungo le rotaie del tram. Solo per israeliani. Gli hijab ( )باَجِحe i vestiti lunghi, le camice nei pantaloni e i mocassini. Davanti alla Porta. Non si parlano, quasi non interagiscono. Una città di cui hanno trasformato la magica atmosfera in una tensione diffusa. Una tensione che puoi anche non percepire, se non vuoi. Quello che non sono riusciti a fare è cancellare la magia della vita che giorno dopo giorno continua con i suoi rumoricolorisaporiodori. Cambio di soldi. Il tasso è migliore, ma non troppo. Il mio naso continua ad essere rapito da quell’odore di carne alla brace: kebab alla palestinese. Mmm, che tentazio18
ne! Quell’odore misto a spezie e fumo e colori e vita. Ne voglio uno, ma non posso, non c’è tempo e dobbiamo cercare l’autobus che ci porterà a Betlemme, dove verrà a prenderci Mahmoud o chi per lui. Ci stanno aspettando. Il 21. Dobbiamo cercare il 21. Ci dirigiamo alla stazione degli autobus e chiediamo. Il 21 ha le porte chiuse e non sembra voler partire a breve. È venerdì e tutto è più difficile. Accanto c’è il 21x. Dico “x” perché non ricordo la lettera che affianca il numero. Arriva a Betlemme. Alla fine è come un 21, ha solo una “x” in più! Lo prendiamo e i posti si riempiono di palestinesi. Probabilmente vengono a lavorare a Gerusalemme o sono solo venuti a trovare qualcuno. C’è un gruppo di orientali che spezza quell’atmosfera che altrimenti ti proietterebbe direttamente dall’altra parte del muro. Poi ci siamo noi. Probabilmente ai loro occhi sembriamo davvero turisti cristiani. Un po’ mi da fastidio che questo pensiero possa anche solo sfiorare le loro menti. Vorrei alzarmi e chiarire a tutti che noi non siamo lì davvero per nostro Signore Gesù Cristo. Noi siamo attivisti per la Palestina. Vorrei gridarlo in modo che tutti possano sapere che sappiamo dove stiamo andando, davvero. Ma siamo ancora in Israele, questa cosa non si può fare. Questa cosa non si può dire. Qualche sorriso agli sguardi che si incrociano. Si parte. Le luci della città viva si perdono dietro le nostre spalle. I colori della terra si confondono, ormai, nel buio che è sceso con tanta veemenza, quasi a voler nascondere, o a rendere più dolce, il nostro passaggio al di là del muro. Le città diventano costellazioni a due colori. Bianco e arancione. I cartelli stradali aggiungono nomi arabi e si leggono i primi nomi degli insediamenti. Anche se non lo vediamo, lo scenario sta cambiando sottovoce. La strada è lunga e cominciamo a pensare che quella “x” fosse più importante di quanto avessimo pensato. Con Steph, proviamo a riconoscere la strada o almeno a capire se siamo nelle vicinanze di Betlemme. Niente. Non abbiamo la minima idea di dove siamo e che strada stiamo facendo. I minuti passano e i ricordi sono sempre più confusi. Forse tutte quelle immagini che ho nella mia testa non sono proprio ricordi così chiari. Forse la Betlemme che ricordo io è solo uno sfocato sovrapporsi di immagini che tengono insieme le mille stradevolticittà che ho attraversato nel 2009. Proviamo a rilassarci e i miei occhi si fissano al di là del vetro del finestrino. Più che ricordare, ho voglia di riscoprire, di godere di nuovo. Mi piace sempre riscoprire cose che ho già vissuto e provare a dargli una forma e un sapore diversi, di nuovo vivi. Mi viene in mente che ho provato a fare la stessa cosa nelle due settimane precedenti. È stato 19
difficile, ma è stato altrettanto sorprendente. Mi dico di continuare a lasciarmi sorprendere dalla vita, di vivere fino in fondo ogni cosa che l’esperienza mi riserva. Senza paura e senza lasciare niente di intentato. Senza blocchi, cercando di dar linfa vitale alle emozioni che mi attraversano, invece di controllarle. Certo, viverle dentro di me. Fuori da me non è possibile farlo. Fuori da me bisogna essere lucidi. In questa terra prendere rischi non significa lasciarsi andare alla follia, ma saper trovare il modo più furbo e intelligente per fare tutto. E tutto è ciò che voglio fare, specialmente questa volta. Gli occhi ancora persi fuori dal quel vetro che mi separa dagli odori che vorrei cogliere. Le strade sembrano familiari ed è come se mi risvegliassi. Ci siamo, siamo a Betlemme. Guardo Steph e anche lei ipotizza la stessa cosa. Il 21x si ferma e tutti scendono. Sarà questa l’ultima fermata a Betlemme. Scendiamo. Betlemme. La polvere, il caos di macchine che corrono sulle strade senza preoccuparsi di una direzione da seguire. I dossi sulle strade che interrompono la corsa, anche se solo per un attimo. Il chioschetto di mezzo metro cubo che nessuno capisce cosa vende. Forse kebab, forse tè e caffè. La macchina del tipo parcheggiata proprio davanti. E lui, un signore anziano incastrato nel chioschetto non si sa bene come. Dall’altra parte della strada luci al neon e dei negozi più grandi. La banca della Giordania. Chiamo Mahmoud e mi dice che ci stanno venendo a prendere. Hanno avuto qualche problema e sono in ritardo, ma tempo mezz’ora e saranno da noi. Attraversiamo la strada alla ricerca di uno spuntino. Due colonne di shawarma imperano sulla vetrina e provo a capire se hanno anche dei felafel. No. Ok, abbiamo fame, ma non sappiamo se è il caso di mangiare. Forse hanno preparato qualcosa per noi ad Al-Masara. La famosa accoglienza Palestinese. Però uno spuntino lo vogliamo fare tutti e l’attesa sarà, in ogni caso, lunga. Con Fiorenza facciamo un giro a vedere cosa troviamo. Il primo posto è uno di questi mini chicken fast food. Orribile, non si può fare! Camminando ancora lungo il marciapiede troviamo un posto come si deve. Sufficientemente sudicio e piccolo per dire: è lui. Prendiamo 10 felafel, salsa bianca e salsa piccante. Mentre pago 5 shekel penso: “siamo sei, perché non ne ho presi 12?” Una domanda che rimane senza risposta e soprattutto rimane ignorata. Vabbè. Torniamo dagli altri e ci godiamo tutti insieme lo spuntino più buono che potevamo fare. Un’autoaccoglienza davvero dignitosa! Il vento è freddo anche se la temperatura è calda. Richiamo Mahmoud che mi rassicura: “5 minuti e siamo là. Viene Jawad a prendervi.” L’attesa continua e la Palestina 20
comincia a mostrarsi a noi nelle sue piccole cose. Quelle che ti raccontano di una società come le altre. Il macchinone, la macchina sfigata, le comitive di amici, le coppiette, i cellulari. Si ferma un service davanti a noi. È Jawad con Jihad, l’autista. Siamo tutti sorridenti e pronti per proseguire la nostra avventura. Saliamo sul service e si parte. Di nuovo. Ultima destinazione della giornata, la casa che ci ospiterà per i prossimi sette giorni ad Al-Masara. Jawad è un ragazzo di 26 anni, dal fisico asciutto e fino. Alto, viso dai lineamenti netti e naso pronunciato. Gli occhi che subito trasmettono la furbizia, o presunta tale, di un palestinese. Parla inglese anche se non bene. Jihad, ancora più secco di Jawad e, sicuramente meno espansivo, rimane più in silenzio. Lui non parla inglese. Siamo tutti stanchi e cala il silenzio mentre le strade scorrono sotto le ruote rapide del nostro service. Provo ad entrare nel ruolo e comincio a parlare. Chiedo un po’ di informazioni su di loro e poi subito un po’ di relazioni “politiche”. In fondo sono del Comitato Popolare di Al-Masara. Chiedo a Jawad se sa qualcosa di scontri a Gerusalemme Est. Mentre camminavamo verso la Porta di Damasco abbiamo visto una grossa colonna di fumo che ci sembrava venire proprio da quella direzione. Lui dice che non ne sa molto, ma che ci sono stati scontri come ogni venerdì. Nell’ultimo periodo a Gerusalemme spesso ci sono stati scontri con polizia ed esercito. Quindi è possibile che il fumo venisse da lì, ma niente di “particolare”, se questa è una parola che si può usare in questo contesto. Lungo la strada si riconoscono fin troppo bene gli insediamenti dei coloni israeliani. Tutte quelle luci. Le geometrie così lineari e le strade che si riconoscono da quelle che sembrano lucciole superilluminanti messe in fila perfettamente. Si intravedono i villaggi palestinesi. Poca luce o a volte nessuna luce. Alcuni villaggi hanno la luce solo fino ad una certa ora la sera. Poi gli israeliani tolgono la corrente. Alcuni hanno solo il generatore che spengono la sera. Altri hanno la corrente, ma non i lampioni o ne hanno pochi. Efrat. Una delle più grandi colonie della zona. È enorme. Si estende su tutta la cresta di una collina. Sembra una città. Sui cartelli è indicato l’ingresso di Efrat. Non è indicata la direzione per Al-Masara. Ma la direzione è la stessa e giriamo al semaforo. Uno sguardo veloce al gate di Efrat e sembra l’ingresso ad una caserma militare. Che schifo! Il buio pesto ci avvolge e siamo quasi arrivati. Entriamo nel villaggio dalla zona degli artigiani. I grossi portoni delle officine di un verde “trifoglio”. Le decorazioni ci fanno sorridere e ci sentiamo a casa. Finalmente. Attraversiamo un pezzo del paese, ma dobbiamo tornare indietro e 21
prendere un’altra strada. C’è la festa per un matrimonio. Quasi tutto il villaggio è lì. Jawad mi racconterà più tardi che durante l’ultima guerra a Gaza non si festeggiavano più i matrimoni. Non si festeggiava più niente. Un modo per rispettare il dolore di chi era sotto le bombe. Un modo per ribadire che non si sentono separati, ma sono un unico popolo. Ma adesso, adesso sono tornati a festeggiare. E il volume della musica è altissimo. Non è un caso. Lo fanno per fare più rumore possibile. Per far sentire che sono vivi. Resistenza Sonora. L’anno scorso avevamo organizzato una serata con Radio Torre che si chiamava proprio Resistenza Sonora. Ecco come ci si sente parte di qualcosa di più grande che la propria piccola esistenza. Basta poco e dare a quel poco il valore che merita. Strade contorte, senza una direzione. Strade di collina. Buie e strette. Su e giù. Si gira a sinistra e siamo arrivati. Siamo a casa. Paghiamo Jihad per il passaggio ed entriamo. La casa è spoglia. Nel salone solo un divano un po’ diroccato, un tavolo lungo e qualche sedia. Su un piccolo mobiletto foto e cianfrusaglie messe a caso. Le stanze sono vuote. Un letto, due letti, due letti e un materasso. La cucina è in condizioni disastrate e il bagno non fa differenza. Ci sarà da sistemare un po’. Jawad ci rassicura che Mahmoud ci raggiungerà più tardi. Ottimo, ma noi abbiamo il problema di come mangiare. Leggo negli occhi di Jawad la sorpresa e la completa assenza di una risposta. Non c’è niente di preparato per noi. Non c’è la famosa accoglienza palestinese che ci porterà del riso col pollo, dell’hummus, qualche felafel o una qualsiasi altra cosa. Mentre Jawad prova ad abbozzare qualche parola capisco che qualcosa non va in questo viaggio. Non mi è mai successo che in Palestina non ci sia qualcuno ad accoglierti con almeno un tè o un caffè e qualcosa da mangiare, anche se non ha niente per sé. Ok, certamente Jawad non sa che dire, visto che non è lui il nostro referente. Lo tranquillizzo che ci possiamo arrangiare in qualche modo. Quello che non sapevo è che ad Al-Masara non ci sono ristoranti o minuscoli stanzini dove fanno i felafel più buoni del mondo, intrisi di un odore di fritto che ti rimane addosso per ore. Con gli altri rimpiangiamo le due colonne di shawarma dietro la vetrina e i pochi felafel che, a questo punto, potevano essere molti di più. Cazzo, abbiamo aspettato più di mezz’ora là davanti. Vabbè, ora non è questo il pensiero che deve ossessionarci. Né la delusione per non essere accolti come la Palestina sa fare. Abbiamo bisogno di mettere qualcosa nello stomaco e ci va bene una qualsiasi soluzione. Il pollo alla brace ci sembra una cosa troppo lunga da affrontare e poi tra di noi ci sono dei vegetaria22
ni. Altre soluzioni? C’è ancora un minimarket aperto. Perfetto, andiamo. Camminando lungo strada si sente solo la musica altissima della festa per il matrimonio e siamo incuriositi, ma Jawad non è sicuro che possiamo andare. Magari dopo cena vediamo. Non troppo lontano una fabbrica di pietre. Lavorano 24 ore al giorno, senza sosta. È lì che fanno le pietre con cui poi costruiscono le case che non sono in cemento armato. Le pietre bianche, di quel bianco sporco che dà un colore di altri tempi ai villaggi e alle città di questa terra. Le pietre che in Palestina sono tante. La fabbrica è superilluminata, tanto da farci pensare che fosse qualcosa di israeliano. Invece no. Sulle strade non c’è luce, ma la fabbrica ha una luce accecante. Tutto il mondo è paese! In lontananza delle luci. È la Giordania. Così vicina eppure così irraggiungibile per molti di loro. Jawad non c’è mai stato, i suoi genitori sì. Erano altri tempi. Il minimarket è un piccolo corridoio di due metri per quattro. Ci sono sia prodotti israeliani che arabi. L’immancabile Coca-Cola e la Fanta. Non capiscono perché non vogliamo comprarla. “È fatta in Palestina. Vedi? C’è scritto prodotta in Palestina e ci lavorano palestinesi” Sì certo, ma la proprietà è sempre della Coca-Cola Company di Atlanta, la quale finanzia e supporta l’occupazione. “Dici?” “Eh sì, Jawad!” La normalizzazione dell’occupazione. Ok, non la prendiamo. Da bere solo un po’ di succo di arancia, o qualcosa di simile. Da mangiare prendiamo degli improbabili spaghetti, del pomodoro concentrato e dello sgombro. Pane e qualcosa per la colazione del giorno dopo. Tralascio il costo di queste cose, perché se penso ai 10 felafel a 5 shekel presi a Betlemme mi sale lo sconforto. C’è qualcosa che non va e ancora non riesco a capire cosa, ma ne verrò a capo. Torniamo a casa e qualcuno pulisce, qualcuno cucina. La pentola più grande ha un buco e non possiamo usarla. I piatti non bastano e le posate neanche. Faremo i turni. Il morale rimane alto e questo mi conforta perché in questo momento sarebbe potuto diventare tutto molto difficile. È un bel gruppo e siamo solo all’inizio del viaggio. Salutiamo Jawad e ci diciamo che forse prenderemo un caffè da lui più tardi. Vedremo. La cena ce la godiamo come se fossimo in un ristorante di lusso, come se avessimo davanti il cibo più buono del mondo. La verità è che sembriamo più Totò in uno dei suoi film in cui il cibo a tavola quasi non esiste. Miseria e nobiltà. Ma questo ora non ha alcuna importanza. I rumori sono quelli di una tavola viva che fa godere i palati e le pance. Anche questo fa gruppo. Anche questo unisce se lo spirito è quello di accettare tutto quello che quest’avventura decide di metterci di fronte. Finiamo di 23
mangiare e dalla porta entra Mahmoud. Sempre molto benvestito nel suo completo di giacca e pantaloni grigetti. Camicia bianca e mocassini. È stato ad una cena con dei delegati o parlamentari di non so dove. È anche poco importante, visto che, in realtà, questa ha più il suono di una beffa che di una scusa per essere in ritardo. Ma lui non lo sa o, forse, semplicemente non gli interessa. Partirà per l’Italia entro un paio di giorni quindi non sarà lui a seguirci. Guardiamo il programma e discutiamo dei dettagli, dei pranzi, delle cene, di supportare i comitati e le cooperative di donne. Certo che preferiamo sostenere le cooperative che dare i soldi a dei ristoranti che magari già ne hanno o ne hanno meno bisogno. Poi noi siamo attivisti e tra attivisti ci si sostiene sempre. Chiaro. Bene, “quindi Jawad sarà con noi tutto il tempo?” “No, ho parlato e organizzato tutto con Mundheer. Domani l’autista del vostro service lo va a prendere prima di venire qua da voi. Poi ho parlato con l’autista e vi farà pagare i trasporti come se fosse un trasporto pubblico.” “Ok, mi sembra ottimo.” Nei saluti e gli auguri per i viaggi che stanno cominciando, ci dimentichiamo di chiedere chi è Mundheer. Mundheer è il Presidente del PSCC (Popular Struggle Coordination Committee). Molto bene. Sistemiamo le stanze per la notte. Qualcuno va al bagno. Cazzo! Il bagno è otturato e ora è pieno di merda. Con serafica calma tranquillizzo il gruppo a partire da me stesso. Per stasera trovo una soluzione, poi domani parliamo con Mundheer e gli facciamo risolvere il problema. Dai, è il Presidente del PSCC, vuoi che non conosca un idraulico?! Prendo le chiavi del Centro del Comitato e andiamo a vedere se il bagno funziona, a connetterci ad internet e a fare la prima riunione di gruppo. L’acqua manca, ma lo scarico va. Bisogna solo portarsi delle bottiglie da casa e tutto funziona. L’acqua manca, perché qua ad Al-Masara non c’è acqua corrente. Tutti hanno delle cisterne sopra le case che devono riempire. E riempirle costa. Inoltre non c’è un indicatore che ti dice che l’acqua sta finendo. Quando finisce, finisce. A quel punto chiami e un signore con una grande cisterna trainata da un trattore ti porta l’acqua. Poi te la carica nella cisterna con una pompa alimentata da un motorino che sembra quello di un cinquantino. In casa almeno l’acqua c’è e c’è anche l’acqua calda per la doccia. Di lusso. Finita la riunione qualcuno va a letto e qualcuno rimane un po’ di più. Io mi siedo sui gradini fuori dalla porta di casa e mi fumo una sigaretta. Guardo le stelle e il cielo è così bello e pieno di speranza. Penso alle tante cose vissute nelle due settimane precedenti e vorrei poter raccontare. Ma non posso. Non posso neanche scri24
vere. La sigaretta brucia l’ultima cima di tabacco e la getto via. Devo andare al bagno, ma non mi va di andare al centro. Fulvio mi dice “vai dietro i cespugli” e così mi alzo e cammino verso il retro della casa. C’è un silenzio bellissimo. Una luna che illumina la terra, ma che non da fastidio alle stelle. Nelle case accanto due luci accese, ma nessuno che parla. Cammino tra ulivi e fichi d’India alla ricerca di un posto dove nessuno possa vedermi. Ma soprattutto cammino su questa terra così bella. I colori tenui e così intensi allo stesso tempo. Mi guardo intorno e sfogo le mie viscere con un po’ di vergogna. Ma in fondo è tutto naturale. Alzo lo sguardo e continuo ad ammirare il cielo pieno di speranza. I mille pensieri che attraversano la mia mente si perdono in sensazioni che non osano sperare. Per ora solo ricordi. Gioia e malinconia. Abbasso lo sguardo e vedo la terra. La terra è una cosa preziosa da queste parti. La lasci scorrere tra le dita come l’acqua, quasi a non volerla sprecare. Allora vedi un sasso e lo prendi. Raccogliere un sasso è la cosa più naturale. Un sasso lo puoi lanciare lontano. Lontano quanto ti pare, lontano quanto riesci, lontano quanto la tua forza ti permette di fare. Un sasso arriva là, dove arriva la tua rabbia. Un sasso. Un sasso, qua, è tutto quello che trovi per poter stringere qualcosa in mano e poi lanciarla lontano. Lo fanno anche i bambini in ogni parte del mondo. Per rabbia, per gioco, per sfogo o anche solo per spezzare un po’ il tempo. Lancio. Lanciare un sasso è la cosa più naturale. The only source of knowledge is experience (Albert Einstein)
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BEYOND WALLS, Supporting Human Rights Defenders in the Occupied Palestinian Territories, è un progetto coordinato dal Servizio Civile Internazionale in collaborazione con attiviste ed attivisti per la Palestina (www.beyondwalls.net). L'obiettivo di Beyond Walls è rafforzare il lavoro di difesa dei diritti umani e resistenza popolare nonviolenta portato avanti dai comitati dei villaggi palestinesi, in coordinamento con attivisti israeliani e internazionali. Le azioni del progetto sono: 1. Protezione legale per attivisti arrestati o sotto processo / Sostegno psicologico a comunità colpite dalla violenza 2. Laboratori di audodifesa legale / Laboratori sull'uso dei media, in particolare video e radio, come strumento di difesa e di promozione della propria lotta 3. Corso su Diritti Umani e Risoluzione Nonviolenta dei Conflitti / Laboratori sulla sicurezza per difensori di diritti umani 4. Seminario internazionale sul ruolo dei grassroots media nei processi di cambiamento del Mediterraneo / Promozione del progetto nella West Bank / Solidarity missions di volontari SCI 26