RASSEGNA STAMPA venerdì 30 maggio 2014
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IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE
PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it del 29/05/14 (Bologna)
Disoccupati, il piano dei Comuni: lavori sociali nelle cooperative Dalle mense alle coltivazioni, così saranno reinseriti E se i disoccupati si riunissero in una cooperativa agricola per coltivare i prodotti biologici per le mense scolastiche? Il nome (Ipotesi di accordo sociale per attribuzione di attività ai soggetti disoccupati nel distretto pianura est) non rende per nulla giustizia a un progetto assai innovativo. Quello sottoscritto dai sindacati e i comuni di Galliera, San Pietro in Casale, San Giorgio di Piano, Pieve di Cento e Castello d’Argile. Anche qui la disoccupazione è diventata un fenomeno strutturale. E ora la priorità delle amministrazioni è favorire il reinserimento delle persone rimaste senza lavoro che in futuro potrebbero anche creare un’impresa tutta loro. Così i Comuni hanno individuato insieme ai sindacati alcune risorse nei rispettivi bilanci per un progetto pilota. L’intesa sottoscritta prevede già gli ambiti d’attività dei lavoratori disoccupati che tornano a lavoro. «Potenziamento dei servizi rifiuti porta a porta, manutenzione degli edifici o pertinenze pubbliche, possibile collaborazione e integrazione riguardo il sistema mensa». LE COOPERATIVE - A Castello d’Argile, per esempio, l’idea è quella di utilizzare la nuova manodopera per coltivare alcuni terreni comunali con prodotti biologici che poi finirebbero nelle mense scolastiche del Comune. Tutto grazie alla collaborazione con alcune cooperative che assumerebbero le persone rimaste senza occupazione. Poi, in un secondo tempo, quelli che una volta erano disoccupati potrebbero promuovere una cooperativa per conto loro. Negli altri paesini, invece, i lavoratori che faranno parte del progetto si potrebbero fare carico della manutenzione degli edifici pubblici o dell’allungamento degli orari di apertura delle isole ecologiche. Anche per questo l’accordo individua già alcuni stakeholder: «Cooperative sociali, Lega delle cooperative, Comuni del territorio e imprese». Con loro verrà sottoscritto un accordo per il reinserimento dei lavoratori, con precedenza ai disoccupati di lungo corso, alle donne senza impiego e ai giovani. L’obiettivo di fondo è creare nuova e buona occupazione. La formazione del personale, invece, sarà sviluppata insieme a soggetti qualificati come l’Università, l’Arci e il sistema della cooperazione. FONDI EUROPEI - Ora dopo l’ipotesi d’accordo, il progetto continuerà con l’individuazione dei soggetti interessati e la valutazione dei singoli progetti, vale a dire orari, attività specifica e numero di persone impiegate. Con la speranza di accedere anche ai fondi comunitari. «Noi pensiamo che la politica non si possa limitare all’attività tradizionale — spiega Fausto Nadalini della Cgil — ma soprattutto in un momento di crisi si debba interrogare sui nuovi bisogni delle comunità e verso quale direzione muoversi per dare risposte». http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2014/30-maggio2014/disoccupati-piano-comuni-lavori-sociali-cooperative-223307666491.shtml
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Da Repubblica.it del 30/05/14 (Bari)
Quest'estate lavora per la legalità, via alla campagna di Libera #fattiuncampo Quest'estate lavora per la legalità, via alla campagna di Libera #fattiuncampo Una foto per promuovere i campi antimafia in Puglia e uno slogan #fattiuncampo. A 'metterci la faccia' con lo scatto di selfie sono ragazzi da ogni parte d'Italia che, negli anni, hanno animato i campi sottratti alla mafia. Componenti di associazioni, di cooperative sociali, familiari pugliesi delle vittime innocenti delle mafie e anche tanti cittadini stanno rispondendo all'appello in rete lanciato da qualche giorno dal Coordinamento Libera Puglia, con Arci, Cgil, Flai e Spi in collaborazione con le cooperative sociali 'Pietra di Scarto', 'AlterEco' di Cerignola (Foggia) e con 'Terre di Puglia - Libera Terra Puglia' di Mesagne (Brindisi), che gestiscono alcuni beni e campi sottratti ai mafiosi. La campagna è stata lanciata in rete per incentivare la partecipazione all'esperienza di volontariato sui beni confiscati. Tutte le foto sono raccolte attraverso la pagina facebook ufficiale dei campi: "Campi antimafia e laboratori della legalità in Puglia". "Luoghi che, un tempo simbolo del potere mafioso - evidenziano i promotori dell'iniziativa - vengono restituiti alla collettività. Attraverso la ricostruzione di spazi sociali ed economici, diventano liberi e produttivi. I mesi di luglio e agosto vedranno una pacifica 'occupazione' di questi beni, abitati dalla presenza di centinaia di persone che si spendono con impegno e dedizione per costruire una comunità alternative alle mafie" http://bari.repubblica.it/cronaca/2014/05/29/foto/libera-87586102/1/
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ESTERI del 30/05/14, pag. 6
Per Sisi un plebiscito a metà Giuseppe Acconcia IL CAIRO
Egitto. Vittoria annunciata del golpista: ha il 93% del 47% (ufficiale) che ha votato «Porsaidi,Iskenderani, Ismaili»: è la canzone pop con cui gli egiziani festeggiano l’elezione del nuovo dittatore, l’ex generale Abdel Fattah Sisi. Caroselli e assembramenti hanno accompagnato la chiusura dei seggi con i primi dati della Commissione elettorale che suggellano la vittoria annunciata di Sisi con il 93% dei voti. Il generale in abiti civili avrebbe superato il 90% in tutti i governatorati, tranne a Kafr al Sheikh, città natale di Hamdin Sabbahi, dove il debole rivale ha ottenuto poche centinaia di voti in più del nuovo faraone. Il nasserista, che ha subito ammesso la sconfitta, sarebbe arrivato addirittura terzo, fermo al 3,5%, con un 4% di schede bianche. Il risultato evidenzia quanto la candidatura di Sabbahi sia solo servita all’ex ministro della Difesa per legittimare la sua elezione. Un plebiscito che nasconde molte ombre. Prima di tutto la bassa affluenza. La Commissione elettorale riferisce del 47% degli aventi diritto che si è recato nei seggi, con 25 milioni di votanti su 54. In assenza della capillare rete di supervisione del voto, disposta alle precedenti elezioni dalla Fratellanza, è molto difficile verificare il dato. Addirittura il Centro studi di opinione (Takamol Masr) ha riportato un’affluenza ferma al 7,5%. Secondo la campagna a sostegno di Sabbahi, meno del 25% degli aventi diritto si sarebbe recato a votare. Anche se venisse confermato il dato della Commissione elettorale, si tratterebbe di un numero infinitamente più basso di voti rispetto a quanti l’ex militare si attendeva. In una recente intervista, Sisi aveva assicurato che avrebbe ottenuto oltre 40 milioni di suffragi. Proprio per la bassa affluenza, il voto è stato prolungato per un terzo giorno lo scorso mercoledì. Democracy International, think tank Usa, ha criticato la decisione di estendere le elezioni come «l’ultimo di una serie di passi che ha danneggiato la credibilità del voto». Ha rincarato la dose l’avvocato Adel Ramadan, dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali (Eipr): «Se fossi stato al posto dei giudici nei seggi e mi avessero chiesto di estendere di un giorno le operazioni di voto, avrei chiesto di fermare tutto e procedere allo spoglio delle schede», ci ha detto Ramadan. Alle presidenziali del 2012, le più plurali insieme alle parlamentari dell’anno precedente, si recò nei seggi il 52% degli aventi diritto. Al primo turno, in un paese estremamente frammentato, l’ex presidente Mohammed Morsi ottenne il 24% dei voti. Da quel momento, il discorso politico in Egitto si è polarizzato tra islamisti moderati ed esercito. E così ai due referendum costituzionali del 2012 e del 2014 si sono recati alle urne poco più di un terzo degli elettori, motivati dal sostegno alla Fratellanza, nel primo caso, e a esercito e vecchio regime, nel secondo. È legittimo chiedersi dove siano i milioni che avrebbero invaso piazza Tahrir il 30 giugno 2013, secondo la giunta militare: una massa incontenibile da rendere necessario l’arresto di Morsi. «Sisi è il mio presidente», gridava un bambino di pochi anni alle porte del seggio di Sayeda Zeinab. I padri conducevano i figli alle urne, coperti da teli disposti per proteggere i votanti dal sole. Ma il generale, formatosi nelle scuole nasseriste, spaventa ancora di più dell’ultimo raìs, Hosni Mubarak. Sisi è arrivato al potere con le mani già macchiate di sangue dopo il massacro di Rabaa al Adaweya, costato la vita a quasi mille persone. 4
Si chiude così una delle campagne elettorali più deludenti dalle parlamentari del 2010. Abdel Fattah Sisi ha formalizzato solo a marzo la sua candidatura. I militari hanno bocciato l’altro uomo forte ex capo dello staff dell’esercito, Sami Annan, che non è sceso in campo dopo aver subito minacce, secondo la sua versione. A quel punto il generale Sedki Sobhi, amico di Sisi, duro oppositore dei movimenti operai, ha preso il suo posto al ministero della Difesa. In campagna elettorale Sisi ha puntato sull’esclusione dalla scena politica della Fratellanza. Gli islamisti hanno subìto la repressione più dura dagli anni Novanta, culminata in 700 condanne a morte per gli scontri dopo la strage di Rabaa. «L’Egitto è ora uno stato militare con una facciata civile. Con la nuova Costituzione i militari godono di totale autonomia e nessuno può fermarli», spiega al manifesto il costituzionalista Zaid Al Ali, dell’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale (Idea). «Se la Costituzione dei Fratelli musulmani limitava i processi militari ai civili alle circostanze previste dalla legge, ora i crimini per i quali un civile può essere riferito a una corte militare sono talmente tanti che basta partecipare a uno sciopero o a una manifestazione», continua Zaid. I militari hanno concesso forse qualcosa in più in termini di diritti delle donne? «La Costituzione tunisina è “gender sensitive” per cui uomini e donne sono uguali in termini di diritti, anche se l’interpretazione dei giudici ha ancora un peso considerevole. In Egitto non è così, in merito alle libertà personali viene ancora assicurato un ruolo maggiore alla legge islamica che in Tunisia, per cui per esempio in Egitto è proibito adottare», prosegue Zaid. «Nella costituzione egiziana non è previsto il diritto allo sciopero e il nuovo presidente non ha formato un partito politico prima di candidarsi. Questo spiana la strada ad un nuovo partito unico», conclude.
del 30/05/14, pag. 6
La Camera Usa: sanzioni contro Maduro Geraldina Colotti
Venezuela. Gli oltranzisti attaccano lavoratori del metro. Mosca contro Washington Negli Stati uniti, la Camera dei rappresentanti ha approvato mercoledì sera il progetto di legge che contempla sanzioni contro il Venezuela. Il testo prevede di congelare i beni di alti funzionari venezuelani negli Usa e il divieto di entrare nel paese per coloro che Washington ritiene responsabili di «violazione dei diritti umani». Previsti anche altri sostanziosi aiuti alla «società civile» venezuelana e il blocco commerciale di materiale che potrebbe esser impiegato «per reprimere le manifestazioni». Un progetto analogo è in discussione al Senato, dove i democratici sono in maggioranza, ma dove il testo ha già ricevuto il placet della Commissione esteri. Gran parte dei membri del Congresso che si sono espressi contro Caracas sono di origine ispanica oppure rappresentano distretti elettorali che contano un gran numero di ispanici. Alla Camera il progetto è stato portato avanti soprattutto dalla repubblicana della Florida Ileana Ros-Lehtinen, di origini cubane, che da anni conduce una campagna isterica contro l’Avana. Le sanzioni valgono due anni, ma il presidente Barack Obama — a cui spetterà l’ultima parola qualora il progetto venisse approvato da entrambe le camere — ha facoltà di sospenderle a propria valutazione. Prima del voto, 14 deputati democratici hanno scritto a Obama esprimendo parere contrario alle sanzioni. Washington ha fatto sapere che la porta del dialogo con il governo di Nicolas Maduro rimane perta, ma finora non ha dato risposta all’invito di Caracas di ripristinare gli 5
ambasciatori. Tantomeno ha dato ascolto alla denuncia che il governo venezuelano sta portando avanti in tutti gli organismi internazionali: contro le violenze prodotte dalle guarimbas (barricate di chiodi, detriti e spazzatura data alle fiamme) che hanno provocato molte vittime, alcune delle quali decapitate dal fil di ferro steso di notte tra un lato e l’altro della strada. Dall’inizio di febbraio a oggi, i morti sono 42 (molti dei quali funzionari delle Forze armate), oltre 800 i feriti. Su 174 persone in carcere, solo 17 risultano essere studenti. L’educazione, completamente gratuita, è uno dei punti forti del socialismo chavista. Secondo l’Unesco, Caracas vanta il quinto posto al mondo per numero di matricole universitarie, il secondo in America latina. In questi giorni, Maduro ha aumentato del 50% le borse di studio per gli universitari, e tutti gli studenti, fin dalle elementari, hanno il loro computer gratis (la canaimita). L’abolizione del numero chiuso e l’accesso di categorie tradizionalmente escluse è uno dei motivi che ha scatenato la sorda opposizione del baronato e delle élite abituate a decidere il corso dell’istruzione. Durante le proteste, gli oltranzisti hanno bruciato diverse sedi universitarie popolari, biblioteche pubbliche e altre strutture. Seppure ridotte, le guarimbas continuano. Ieri ci sono stati di nuovo scontri a San Cristobal, bastione dell’opposizione e punto d’avvio delle proteste. E a Caracas gli oltranzisti hanno dato alle fiamme una postazione del metro con i lavoratori dentro. Il governo ha presentato i dettagli di un articolato piano destabilizzante volto all’eliminazione di Maduro, che coinvolge uomini politici di opposizione, banchieri e anche l’ambasciatore Usa in Colombia. Al centro, la deputata (deposta), Maria Corina Machado, grande amica degli Usa: «Mi hanno rubato l’account», ha ribattuto Machado. Ma il cartello di opposizione (la Mesa de la unidad democratica, Mud) è apparso incerto. Maduro ha convocato l’opposizione per mostrare le prove del piano. Dopo aver incassato l’appoggio della Unasur, e del Movimento dei paesi non allineati (Mnoal), Caracas ha ottenuto ieri quello di Mosca, che ha respinto le sanzioni approvate dagli Usa: «Abbiamo ottenuto l’appoggio fermo della Russia di fronte ai tentativi di destabilizzazione, alle minacce e alle aggressioni di paesi terzi», ha dichiarato il ministro degli Esteri venezuelano, Elias Jaua, che si trova in Russia (nella foto Reuters), e ha ringraziato il presidente Vladimir Putin.
Del 30/05/2014, pag. 1-32 L’ANALISI
Perché va studiata la destra europea NADIA URBINATI L’IDEOLOGIA nazionalista ha convinto molti a votare per partiti anti-europeisti. È stata la vincitrice, effettiva o simbolica, di queste elezioni. In Italia, il M5S, che non aveva pilotato le critiche alla Ue verso il nazionalismo, dopo l’esito deludente ha deciso di sterzare a destra. TRADENDO molti elettori di sinistra che si erano affidati a (e fidati di) Grillo. La vittoria delle destre anti-europeiste anche in paesi importanti come la Francia e l’Inghilterra non è senza ragioni. È stata progressivamente alimentata nel corso di questi anni di crisi dalla caparbia politica dell’austerità che mentre non ha risollevato l’economia ha arrecato grande sofferenza a molti cittadini europei, favorendo la crescita non dei posti di lavoro ma della diseguaglianza, tradendo i principi dell’equità e della giustizia sociale. La campagna 6
elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo ha fatto da miccia e i partiti nazionalisti hanno innescato il detonatore retorico, attingendo al repertorio più trito della destra estrema, a partire dall’ideologia razzista contro gli immigrati fino all’identificazione dell’oligarchia finanziaria con il complotto ebraico contro l’Europa cristiana. Vecchia retorica delle destre populiste in un nuovo contesto, quello sovranazionale. Il partito del “No Europe” ha un peso che non può essere ignorato e rappresenta un pericolo che non deve essere sottovalutato. Demonizzarlo, però, non serve. Ciò di cui c’è invece bisogno è una coraggiosa ricognizione critica dell’ideologia delle destre e delle responsabilità che pesano su un’Unione Europea che ha delegato a poteri non politici la propria politica comunitaria. Le destre nazionaliste non dismettono il linguaggio dei diritti, ma lo reinterpretano in modi che sono, purtroppo, accattivanti soprattutto per chi più subisce gli effetti della crisi: i diritti degli eguali, dei connazionali, contro gli altri. Dove gli altri sono, di volta in volta, i cittadini degli altri paesi europei o gli immigrati extra-comunitari, ma anche le minoranze interne ai rispettivi paesi, come i musulmani o gli ebrei. Diritti come possesso privilegiato degli uguali: è questa filosofia identitaria che mette a rischio il progetto europeo, nato per consentire alla politica di oltrepassare gli steccati degli statinazione e diventare progetto continentale di giustizia nel rispetto delle differenze. Sul piano della rappresentazione di sé ai suoi cittadini e al mondo, l’Europa si è proposta come un faro per i “diritti umani inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello Stato di diritto”, come recita il Preambolo del Trattato di Lisbona. Questa è l’Europa contro la quale le destre si mobilitano. Oggi la frontiera della politica è dunque rappresentata dall’Europa stessa. Europeismo e anti-europeismo sono i due grandi schieramenti usciti dalle elezioni del 25 maggio, una dicotomia tra un progetto liberal- democratico da un lato e un progetto nazional-populista dall’altro, con due modi di intendere la giustizia sociale: per mezzo dei diritti ovvero con attenzione all’universalità di chi contribuisce al bene generale in un caso, come privilegio che spetta solo a chi fa parte della stessa famiglia nazionale in un altro. Politica dei diritti e politica identitaria sono la rappresentazione di due modelli di Europa che si scontrano oggi, dentro i confini degli stati-membri e a livello comunitario. L’Europa che esce dalle urne assomiglia a un campo di battaglia tra due visioni di cittadinanza e di giustizia a dimostrazione di quanto arduo sia tenere insieme sul nostro continente democrazia e declino del benessere. Soprattutto quando e se, come nell’Europa di oggi, il comando della decisione a livello dell’Unione è affidato per metà a una burocrazia invisibile e per l’altra metà alla pratica dei trattati intergovernativi tra governi nazionali. La politica comunitaria è la vera sconfitta. Su queste basi si sono costruiti i successi dei partiti antieuropeisti. Certo, la burocrazia ha avuto una funzione stabilizzatrice nel corso degli anni di costruzione dell’Unione, contribuendo a migliorare la vita di persone e comunità regionali, introducendo inoltre criteri di monitoraggio e di controllo che si sono rivelati capaci di estendere la pratica dei diritti civili. Ma questa ossatura di regole da sola non basta; anzi è diventata parte del problema perché non ha argomenti per rispondere alla giusta critica di deficit democratico. Spetta agli europeisti la responsabilità di non lasciare che siano gli anti-europeisti a prendere in mano la bandiera della legittimità democratica del governo dell’Unione. Non è di meno Europa che c’è bisogno, ma di un’Europa politica più coraggiosa, più convinta della necessità di mantenere fede alle promesse sottoscritte a partire dal Trattato di Roma del 1957.
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del 30/05/14, pag. 12
Gli spari sopra Donetsk Lorenzo Gottardo DONETSK
Reportage. Dopo gli attacchi indiscriminati dell’esercito ucraino che hanno ucciso anche i civili, la città è deserta. Chi può fugge, chi rimane costruisce barricate Esplosioni, coprifuoco, spari nel cuore della notte. Dopo che le elezioni presidenziali hanno sancito la vittoria del potente oligarca Petro Poroshenko, Donetsk è diventata terribilmente simile a Sloviansk: una città bombardata, assediata, preda della paura. L’esercito ucraino preme con tutti i suoi mezzi per riconquistare la capitale del Donbass e sembra essere disposto a sacrificarne l’intera popolazione civile se ciò dovesse essere necessario. L’offensiva, cominciata dall’aeroporto, che è già costata cinquanta morti tra i soldati separatisti ha coinvolto anche altre zone della città causando le prime vittime anche tra i civili (almeno cinquanta vittime secondo fonti filorusse). La situazione è così tesa che la maggior parte dei negozi rimane chiusa fin dalle prime ore del mattino consegnando alle strade un aspetto spettrale. Gli unici ad essere affollati sono i pochi supermercati aperti che accolgono centinaia di clienti in cerca di scorte e provviste per i giorni difficili che verranno. Una donna accompagnata dal marito che carica in macchina numerose borse della spesa e boccioni d’acqua minerale, si dice molto preoccupata: «Non sappiamo quanto durerà questa situazione, ma speriamo tutti quanti che finisca il più presto possibile. Non si può vivere così. Mio marito da quasi due settimane non può andare al lavoro e poco per volta i nostri soldi stanno finendo. Alcuni dicono che per molto tempo non si potrà uscire di casa, che gli aerei ci bombarderanno, che si sparerà nelle strade. È terribile». Molti, piuttosto che rimanere e sopportare una simile condizione d’incertezza, preferiscono lasciare la città, almeno per il momento, e così nella sala d’attesa della stazione dei treni si forma una lunga fila di persone che aspettano di ritirare il proprio biglietto. Non importa la destinazione, l’unica cosa è che possa condurre lontano da Donetsk, lontano dal pericolo dei bombardamenti e lontano dallo spettro della guerra civile. Uomini e donne di tutte le età, anche se per la maggior parte sono giovani e famiglie con bambini, si affannano con ingombranti bagagli su per le scalinate che conducono ai binari. Alina bada al piccolo Misha che dorme nella sua carrozzina mentre alcuni passeggeri del suo stesso treno caricano per lei una pesante valigia: «Noi ce ne andiamo, ce andiamo via da Donetsk. Stare qui è diventato troppo pericoloso. Andiamo a Dnipropetrovsk finché tutto non sarà tornato come era prima. L’unica per cui sono un po’ preoccupata è mia madre: lei non vuole venire con noi. Dice che questa è la sua città, che qui c’è tutto ciò che ha e che, se Dio vuole, lei morirà qui ma non fuggirà mai davanti alla violenza e alla brutalità dei suoi stessi connazionali». Intanto nei sobborghi vicino alla stazione chi non può partire si è unito alla milizia separatista nella costruzione di barricate sempre più imponenti, con lo scopo anche di proteggersi dagli attacchi indiscriminati dell’esercito ucraino. «Il mondo intero è rimasto sconvolto quando Grozny è stata distrutta dai russi, la stampa europea parlava della città rasa al suolo dalle cannonate come di un crimine contro l’umanità mentre per Donetsk tutti tacciono…Che differenza c’è tra il Donbass e la Cecenia? Non viviamo anche noi nella paura di morire ogni giorno? Questi sparano sulla 8
loro stessa gente, sulla loro stessa città», dice un signore spingendo avanti una cariola carica con due pesanti sacchi di sabbia. All’improvviso il suono di un caccia che sorvola la zona interrompe il vociare delle persone tra le barricate. Per un momento tutti si fermano e guardano verso l’alto preoccupati, alcuni si riparano dietro i blocchi in cemento mentre i miliziani impotenti puntano al cielo i loro kalashnikov. Ma non succede nulla. Era solo un falso allarme, un volo di ricognizione, e la gente torna a lavoro con più lena di prima perché la prossima volta l’attacco potrebbe colpire davvero.
Del 30/05/2014, pag. 19
LA GIORNATA Tra le vittime anche un generale ex sovietico. Kiev minaccia ritorsioni
I ribelli colpiscono un elicottero: 14 morti DONETSK . La guerra del Donbass ha avuto ieri un altro picco di spettacolarità. I ribelli filo russi hanno abbattuto con un razzo un elicottero dell’esercito ucraino che stava portando rinforzi e rifornimenti alle truppe d’assalto che assediano la città di Sloviansk. Morti 14 militari compreso un generale che, come molto suoi colleghi, aveva cominciato la sua carriera nell’esercito sovietico. L’episodio, finito in video su tutti i siti di informazione è però solo un dettaglio di una situazione sempre più pesante. Sloviansk e le altre cittadine intorno a Donetsk sono da quattro giorni sotto il tiro dei mortai ucraini e le vittime tra i civili che non hanno vie di fuga sarebbero diverse decine. Per la prima volta il ministero degli Esteri russo ha chiesto con forza all’Ucraina di sospendere l’offensiva e fermare lo sterminio, invocando anche l’intervento «dei nostri partner occidentali». Kiev risponde: «Cacceremo i terroristi in poche ore». Intanto a Donetsk si preparano i rifugi antiaerei e si affiggono le prime rudimentali cartine sui muri della città. Un gruppo di volontari caucasici del battaglione Vostok è intanto arrivato alla sede della repubblica autoproclamata per migliorare le difese, affiancare i meno esperti ribelli locali. Il “Vostok” è solo omonimo del battaglione ceceno dell’esercito russo anche se è facile pensare che ci sia qualche collegamento almeno di “intelligence”. Ma questa è una guerra civile fatta anche di strani personaggi. Secondo Mosca, a combattere a fianco di Kiev ci sarebbero paramilitari di estrema destra che hanno combattuto già in funzione filo occidentale, al fianco dei ribelli siriani.
Del 30/05/2014, pag. 19
Putin battezza l’Unione Euroasiatica un nuovo “impero” contro Bruxelles NICOLA LOMBARDOZZI DAL NOSTRO INVIATO DONETSK IL SAPORE dell’Unione Sovietica è dappertutto, nei luoghi, nei personaggi, nei discorsi. Per molti c’è uno struggente effetto nostalgia. Per altri, un senso di sollievo, come di scampato pericolo. In diretta televisiva da Astana, moderna capitale del lontano 9
Kazakhstan, i cittadini di Donetsk assediata hanno potuto assistere alla nascita della Unione Euroasiatica, ufficializzata solennemente dai presidenti di Russia, Bielorussia e appunto Kazakhstan. L’Ucraina non c’è, nonostante fosse inserita nel programma fino alla metà del novembre scorso. La Rivoluzione della Majdan, la fuga del Presidente Yanukovich, la degenerazione del conflitto tra minoranze russe ed esercito regolare, hanno spazzato via il sogno di molti fautori dell’accordo. Ma ieri ad Astana Vladimir Putin parlava ugualmente di «giornata storica» pregustando gli imminenti arrivi dell’Armenia (già a fine giugno) e del Kirghizistan (entro l’autunno prossimo). L’Unione Euroasiatica è di fatto una risposta all’Unione Europea. Un’intesa di cooperazione economica e di incentivazioni reciproche agli investimenti che viaggia su grandi numeri e potenzialità se si pensa soprattutto alle risorse energetiche immense di cui i membri possono disporre. Un piccolo colosso che interessa già da ieri 170 milioni di persone con un Pil complessivo di quasi 3 trilioni di dollari. Soddisfatto, forse perfino un tantino commosso, Vladimir Putin continua a smentire le «malignità occidentali» riguardo il suo sogno di ricostituire l’Impero sovietico. Ma certo riusciva difficile non pensarci vedendo le scenografie fantaimperialiste del palazzo dell’Indipendenza di Astana e ascoltando il lungo biascicato intervento di Nursultan Nazarbaev, 73 anni portati male a causa di un brutto tumore. Buon amico anche dell’Italia che ha a che fare con il petrolio, Nazarbaev è il padrone del Kazakhstan sin dai tempi dell’Unione Sovietica quando era già primo segretario del Partito comunista locale. Linguaggio e stile sono rimasti identici anche in questi lunghi anni di potere assoluto e di scambi commerciali con il resto del mondo. Così come è in perfetto stile sovietico il terzo partecipante al tavolo di Astana, Aleksandr Lukashenko, presidente a vita della Bielorussia che si vanta di essere stato nel 1991, l’unico membro del Pc locale a votare contro la dissoluzione dell’Urss. Definito da Condoleezza Rice «l’ultimo dittatore d’Europa » per la ossessiva attività antidissenso della sua polizia segreta e per lo sfruttamento da servi della gleba dei lavoratori, Lukashenko è anche l’unico capo di Stato del continente a essere colpito personalmente da sanzioni occidentali. Ieri sorrideva soddisfatto del suo rinnovato prestigio internazionale e mandava perfino un segnale tra il minaccioso e il bonario al governo ucraino: «Prima o poi capiranno che è questa la parte giusta dove stare». Più sobrio Putin che ha evitato ogni accenno all’alleato perduto e ha preferito concentrarsi sul futuro della sua creatura. Molti maligni dicono che fosse un suo preciso obiettivo sin dall’inizio della sua carriera politica: rimettere insieme il più possibile delle repubbliche che un tempo formavano l’Impero. Comunque sia il progetto parte monco rispetto alle aspettative iniziali. Al di là della dolorosa perdita dell’Ucraina, Putin ha dovuto rinunciare via via ad altri pilastri della perduta Urss come il Tagikistan, l’Uzbekistan e l’Azerbajan. Regimi non meno presentabili sul piano del rispetto dei diritti umani e della repressione sanguinaria di ogni contestazione ma che, avendo scelto di vendere petrolio e gas all’Occidente, sono spesso graziati o prudentemente trascurati dai media internazionali. E perfino mettere insieme questa specie di Unione Sovietica a tre, non è stato facilissimo. Né Nazarbaev né Lukashenko hanno letto come un buon segno la annessione della Crimea. E hanno chiesto a lungo garanzie sulla loro integrità territoriale. Il Kazakhstan in particolare, con una grande fetta del paese abitata da russi, teme di dover sottostare a richieste e pressioni da parte di Mosca. Ma nel pieno della crisi ucraina, Putin aveva fretta di chiudere con un risultato. Ha concesso, blandito, minacciato e ce l’ha fatta: una firma solenne e la “anti Ue” è pronta ad entrare in azione.
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Del 30/05/2014, pag. 13
Necrologi a Mosca per i militari russi caduti aDonetsk Il 25 maggio, alle elezioni anticipate, è stato eletto presidente dell’Ucraina Petro Poroshenko, figura nota nel mondo della politica e degli affari. Poroshenko è un centrista che, negli ultimi 15 anni, si è barcamenato con sicurezza fra gruppi politicamente contrapposti, è stato ministro in governi diversi, di coalizione, non ha un suo partito politico, ma ha, invece, un grosso, anzi - per i parametri ucraini - molto grosso business. La sfera degli interessi del miliardario Poroshenko è l’industria alimentare, lo chiamano «il re del cioccolato» anche se, ironia della sorte, il diabete e i medici gli proibiscono di mangiare dolci. Poroshenko è uno dei motori più potenti dell’integrazione dell’Ucraina all’Europa. Un anno fa, in una conferenza a Jalta, il rappresentante del presidente Putin, Sergej Glaz’ev, assicurò che il trattato di associazione all’Europa sarebbe stato disastroso per l’economia ucraina. Poroshenko obiettò. «Ma lei ha letto questo documento?», ribatté Glaz’ev, indicando con gesto teatrale il volume di 900 pagine, non del tutto tradotto in ucraino, pieno di richiami a norme e istruzioni europee, roba da specialisti che i politici non avevano nemmeno aperto. «L’ho scritto», è stata la risposta di Poroshenko. Il neo presidente era fra i deputati che sostenevano il Majdan, ma sempre invitando alla moderazione. Durante la rivolta il suo nome è apparso meno di altri, ma certamente associato all’idea dell’Europa come vettore di sviluppo per l’Ucraina. Con la preparazione delle presidenziali, alcuni candidati molto popolari, come l’ex boxer Vitalyj Klichko, hanno rinunciato alle proprie ambizioni per sostenerlo. Il loro appello è stato ascoltato e Poroshenko ha vinto al primo turno, balzando in pochi mesi dalle seconde file al ruolo di leader. TRACOLLO DI YULIA La ragione principale del successo è la fiducia degli elettori nelle sue qualità pragmatiche. Una persona che è riuscita a costruire un impero industriale non sul gas o sul petrolio, non attraverso i canali della corruzione con il clan di Yanukovich (anzi, in contrapposizione, sia pure astuta, con quei clan), sarà anche in grado di rimettere in piedi l’economia del Paese. Adesso gli toccherà barcamenarsi non più fra opposizione e potere in Ucraina, ma fra Russia e Occidente nello scenario mondiale, con l’obiettivo dell’inclusione dell’Ucraina nella struttura europea, garantendo una graduale uscita dalla zona d’influenza russa. È stato più o meno questo il ragionamento di più della metà degli elettori che ha votato per Poroshenko. Yulia Timoshenko non è riuscita a capire fino in fondo il Majdan che, liberandola dalla prigione, ha anche cambiato l’Ucraina. E ha ottenuto solo il 13% dei consensi. È una cocente disfatta. Dopo oltre cento morti nella resistenza del Majdan e le perdite che continuano nell’Est, l’Ucraina non è più disposta a votare in base a carisma e a promesse populiste. Secondo molti questa sconfitta significherà, anche, l’uscita di Yulia Timoshenko dalla grande politica. Non è così. Al rinnovo del Parlamento, Timoshenko e il suo partito cercheranno di riconquistare il potere. Invece, le presidenziali hanno mostrato, con notevole grado di precisione, il peso reale della destra e dell’ultra-destra, Oleg Tjagnybok e Dmitrij Jarosh hanno ottenuto l’1% o poco di più, significativamente meno del 2% conquistato dal leader dei comunisti ucraini. Il Partito comunista ha pagato la compromissione con Yanukovich e, soprattutto, il sostegno alle leggi «dittatoriali» del gennaio 2014. Alle presidenziali quasi non ha partecipato la Crimea annessa alla Russia. Inoltre, la maggioranza degli abitanti delle regioni di Donetsk e Lugansk, non è riuscita a votare. Nell’Est è in corso una vera guerra, solo il 10% degli elettori ha potuto riempire la scheda. La gran parte dei seggi in queste regioni o non ha 11
aperto o è stata occupata da uomini armati e con il viso travisato. Capire chi fossero gli occupanti, se criminali locali o combattenti della Cecenia russa (sempre più presenti nelle città del bacino del Don), è molto complicato. Prima e durante le votazioni l’esercito ucraino ha rallentato le azioni militari, ma già lunedì scorso la temperatura si è alzata di nuovo, con l’operazione antiterrorismo all'aeroporto di Donetsk, che ha provocato alcune decine di vittime. Martedì i siti ucraini hanno pubblicato le fotografie negli obitori ucraini pieni di corpi in mimetica. Il giorno dopo, sui siti russi, sono comparsi i nomi dei cittadini russi uccisi nell’operazione dell’aeroporto. Uno di loro era Sergej Zhdanovic, definito «istruttore del Centro con compiti speciali dello Fbs». Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, mercoledì, ha condannato l’azione dei combattenti russi in Ucraina. Ristabilire la pace nell’Est è il compito più importante che Poroshenko si trova di fronte ma, per ora, non si capisce se abbia un piano chiaro e realistico. I problemi nell’Est hanno influenzato, manon inmodo determinante, il risultato elettorale: ha votato il 60% dell'intero corpo elettorale e, per altro, nei pochi seggi dell'Est, Poroshenko era in testa. Gli elettori hanno indicato senza tentennamenti che si aspettano dal nuovo presidente una azione efficace e improntata alla collaborazione, non alla contrapposizione. Traduzione a cura di Jolanda Bufalini
Del 30/05/2014, pag. 12
Orrore in India, stuprate e impiccate Due ragazzine di 14 e 15 anni aggredite dal branco e uccise: arrestati quattro uomini, due sono poliziotti La rabbia delle famiglie: la polizia aveva ignorato la denuncia, sospeso il capo locale Le hanno stuprate, picchiate, forse anche strangolate e uccise, appendendole a un albero. È questo l’ultimo orrore contro due ragazze giovanissime in India, Paese all’ultimo posto tra quelli più industrializzati per la condizione femminile secondo Nazioni Unite, Lancet e Trustlaw. Sono quattro gli uomini arrestati per lo stupro e l’omicidio, due sono poliziotti. Le autorità cercano anche altri tre sospetti. Le ragazzine, due sorelle di 14 e 15 anni, erano scomparse da casa martedì sera a Katra Shahadatganj, un villaggio nello Stato settentrionale dell’Uttar Pradesh. Dall’autopsia effettuata sui loro corpi è emerso che al momento dell’impiccagione erano già morte: l’impiccagione è stato uno scempio ulteriore. Le ragazze appartenevano a una famiglia della comunità Dalit, i cosiddetti «intoccabili », la più bassa nell’antico sistema delle caste indiane. Gli abitanti del villaggio hanno trovato mercoledì mattina i due corpi senza vita appesi a un albero di mango, ore dopo che erano scomparse dai campi vicini alla loro casa, ha riferito il sovrintendente della polizia, Atul Saxena. Le sorelle erano andate nei campi perché nella loro abitazione, comein moltissime case indiane, non ci sono servizi igienici. «Studieremo tutti gli aspetti del caso, prima di tirare le conclusioni », ha spiegato il capo della polizia di Budaun. I familiari sostengono che le ragazzine siano state violentate da cinque uomini del villaggio. La polizia si è rifiutata di registrare una prima denuncia. Gli abitanti del villaggio si sono dovuti sedere sotto l’albero a cui erano appesi i cadaveri, rifiutando di andarsene e restando fermi in silenzio in segno di protesta contro l’inazione della polizia. La tv indiana ha trasmesso le immagini, in cui si vedevano uomini e donne ai piedi dell’albero, da cui pendevano i cadaveri mossi dal vento, impedendo alle autorità di rimuoverli. Per alcune 12
ore è rimasta bloccata anche la strada Ushait-Lilawan che passa nei pressi del villaggio. La polizia non aveva neanche contribuito alle ricerche finché, grazie alle proteste, sono intervenute le autorità del governo dello Stato, che hanno ordinato gli arresti. Il capo della polizia locale è stato sospeso e due poliziotti arrestati per aver coperto il fatto. Il principale sospettato, un uomo chiamato Pappu, è stato arrestato ad Awdhesh e Brijesh, tutti membri della stessa famiglia e residenti del villaggi, secondo quanto scrive il Times of India, mentre prosegue la ricerca di altre due persone sospettate. LA PROTESTA DELLE DONNE La Commissione nazionale delle donne in India ha definito il caso «raccapricciante» e ha chiesto un’azione dura nei confronti dei responsabili e l’invio di un commissione entro due giorni per indagare sulla vicenda. La violenza selvaggia contro le due ragazzine ha messo nuovamente in luce le difficoltà del Paese nell’affrontare l’emergenza delle aggressioni sessuali, ancora numerosissime malgrado la legge sia stata inasprita dopo il brutale stupro di gruppo su un autobus di New Delhi, costato la vita a una studentessa di medicina 23enne a fine 2012. Il caso scatenò l’indignazione di tutto il mondo. Eppure, la sensibilità al tema non sembra essere cresciuta. Lo scorso mese, il capo del partito al governo nello Stato dell’Uttar Pradesh, Mulayam Singh Yadav, ha detto in un comizio elettorale che il movimento è contrario alla legge che prevede la pena di morte per lo stupro di gruppo. «I ragazzi sono ragazzi, fanno errori», ha detto.
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INTERNI del 30/05/14, pag. 9
Dopo il boom la minoranza si svuota Il nuovo Pd si organizza in cinque aree Matteo Renzi ha trovato «allucinanti» le polemiche su quella foto di gruppo al Nazareno, che immortala la notte della vittoria. Eppure anche da quell’immagine si può partire per provare a capire come sta cambiando il Partito democratico sull’onda del successo elettorale. Al momento dello scatto il segretario non c’era, eppure c’erano tutti gli altri. I renziani della primissima e dell’ultima ora, i bersaniani come D’Attorre e Stumpo, i dalemiani come Gualtieri, i «turchi» come Orfini… E c’era Roberto Speranza, punto di riferimento della nuova area riformista nata prima del 25 maggio, con l’idea — secondo i critici — di rottamare il concetto di minoranza, per ritrovarsi «diversamente renziani ». Il risultato clamoroso delle Europee ha accelerato il processo e reso inevitabile il modello della «gestione unitaria ». In minoranza non vuole starci più nessuno, tranne forse Pippo Civati. Il quale però cerca la formula di una opposizione soft, per non sembrare l’unico marziano che ostacola il cambiamento del Paese: «Io freno le riforme? No, non sono renziano e non sono antirenziano». Il mezzo miracolo della pacificazione improvvisa sta anche nelle parole, con il leader che ieri — spazzando via anni di contorcimenti e risse verbali — ha descritto il Pd come un partito ideale, un partito che discute «con serenità» di come consolidare il bottino e mostrare al mondo che il 40 tondo tondo non è stato «un colpo di fortuna». Una mission che mette d’accordo tutti. E non certo, come si potrebbe malignare, perché l’ipotesi di un rimpasto di governo fa sognare tanti democratici, anche della ex-minoranza. In segreteria saranno rappresentate tutte le anime, tranne Civati. E Gianni Cuperlo? Sta ragionando sulle prossime mosse, dopo aver lasciato la presidenza ed essersi visto sottrarre gran parte dei parlamentari dal giovane Speranza. Raccontano, sottovoce, che l’ex presidente del Pd stia pensando di fare una sua area, proprio ora che Renzi ha disegnato il profilo di un partito senza correnti, che marcia unito per cambiare il volto all’Italia e all’Europa. «La minoranza faceva parte di una dinamica che era quella del congresso» volta pagina Cuperlo e a Renzi chiede pluralismo, altrimenti «non c’è più il Partito democratico». Se la fronda cuperliana dovesse nascere, il nuovo Pd sarà idealmente organizzato in cinque aree. La più grande e compatta sono i renziani doc, categoria che include tra gli altri veltroniani, franceschiniani e fassiniani e che, a breve, potrebbe incorporare un gruppo centrista al quale Beppe Fioroni sta lavorando con Gasbarra, Bocci e Grassi. Il secondo gruppo, numericamente parlando, è l’area riformista, dove albergano bersaniani, dalemiani e qualche lettiano e che dovrebbe esprimere il prossimo presidente: sarà una donna e la favorita resta Paola De Micheli. E qui è lecito domandarsi fino a dove si spingeranno i «riformisti» ex diesse, che prima del 25 maggio ancora sognavano di riprendersi un giorno il partito e che il 20 e 21 giugno terranno il loro conclave a Massa Marittima. «Non siamo renziani — spiega Nico Stumpo —. Siamo un’area politica leale e autonoma che sente la responsabilità di lavorare per consolidare lo straordinario risultato che ha trasformato il Pd nel partito degli italiani». Tutti in maggioranza, è il leitmotiv. E i turchi di Matteo Orfini, terza colonna del nuovo Pd, lo hanno intonato prima degli altri: anche loro entreranno in segreteria e non hanno rinunciato a prendersi la presidenza. Se si escludono personalità indipendenti come Rosy Bindi, restano da conteggiare l’area di Cuperlo e quella di Civati: ed ecco il Pd a cinque punte, 14
dove non si muove foglia che Renzi non voglia. Per adesso son solo rose e fiori, ma se vuole dormire (e governare) tranquillo il leader dovrà trovare la formula magica che tenga insieme unità e pluralismo, scongiurando così la rinascita di una opposizione interna. Stefano Fassina, fino a qualche settimana addietro fiero oppositore del premier da sinistra, ha reso onore a colui che lo portò alle dimissioni per la celebre uscita «Fassina, chi?». Ha detto a Repubblica di aver sottovalutato Matteo e lo ha definito «l’uomo giusto al posto giusto». Ma domani? Chissà. Come ama dire Pier Luigi Bersani, che pure non ha rinunciato all’idea di correggere l’Italicum, quel che conta è «la ditta»… Monica Guerzoni
del 30/05/14, pag. 1/7
Non è la Dc, il Pd è il partito americano Luciana Castellina
Dentro il voto. Non più di sinistra, né di centrosinistra. Neanche una reincarnazione della vecchia Dc Il risultato italiano del voto del 25 maggio non è di quelli che possono essere frettolosamente giudicati. Mi limito a qualche considerazione provvisoria. Mentre gli spostamenti dell’elettorato negli altri paesi europei appaiono abbastanza leggibili, i nostri sono più complicati. Per molte ragioni: innanzitutto perché sono entrate in scena forze che prima non c’erano, e non solo che si sono ingrandite o rimpicciolite. Fra queste metterei anche il Pd, che non è più la continuazione dei partiti che l’hanno preceduto. E’ un’altra cosa, nuova: non più un partito di sinistra, e nemmeno di centrosinistra. Non direi neppure una reincarnazione della vecchia Dc: anche in quel partito coesistevano interessi e rappresentanze sociali molto diverse, ma ciascuna era fortemente connotata ideologicamente, aveva proprie specifiche culture e leader di storico peso. Anche il partito renziano è un arcobaleno sociale, ma le sue correnti sono assai meno chiare, hanno un peso assai minore, scarsi riferimenti nella tradizione di tutte le formazioni che l’hanno preceduto in questi quasi 25 anni. Se si dovesse trovare una similitudine direi piuttosto che si tratta del Partito democratico americano. Che certo non oserebbe mai prendersela a faccia aperta con i sindacati cui è sempre stato legato, ma certo include nelle sue file – basti guardare ai finanziamenti che riceve – ceti diversissimi per censo, potere reale, cultura. Se dico Partito democratico americano è perché il nuovo partito renziano segna soprattutto un passaggio deciso all’americanizzazione della vita politica: forte astensione perché una fetta larga della popolazione è tagliata fuori dal processo politico inteso come partecipazione attiva e dunque è disinteressata al voto; assenza di partiti che non siano comitati elettorali; personalizzazione dettata dalla struttura presidenziale. Il fatto che in Italia ci si stia avvicinando a quel modello è il risultato del lungo declino dei partiti di massa, che ha colpito anche la sinistra, e della riduzione della competizione agli show televisivi dei leaders che tutt’al più i cittadini possono scegliere con una sorta di twitter: “i piace” o “non mi piace”. E’ un mutamento credo assai grave: immiserisce la democrazia la cui forza sta innanzitutto nella politicizzazione della gente, nel protagonismo dei cittadini, nella costruzione della loro soggettività che è il contrario della delega in bianco. Inutile tuttavia piangere di nostalgia, una democrazia forte fondata su grandi partiti popolari non mi pare possa tornare ad esistere, o almeno non nelle forme che abbiamo conosciuto. Prima ancora di pensare a come ricostruire la sinistra dobbiamo ripensare il 15
modello di democrazia, non abbandonando il campo a chi si è ormai rassegnato al povero scenario attuale: quello che Renzi ci ha offerto, accentuando al massimo il personalismo, il pragmatismo di corto respiro, la rinuncia alla costruzione di un blocco sociale adeguato alle trasformazioni profonde subite dalla società (che è mediazione in nome di un progetto strategico fra interessi diversi ma specificamente rappresentati e non un’indistinta accozzaglia unita da scelte falsamente neutrali.) Detto questo credo sia necessario evitare ogni demonizzazione di quel 40 e più per cento che ha votato Pd: non sono tutti berlusconiani o populisti, e io sono contenta che dalle tradizionali zone di forza della vecchia sinistra storica siano stati recuperati al Pd voti che erano finiti a Forza Italia o a Grillo. Perché il voto al Pd per molti è stato un voto per respingere il peggio, in un momento di grande sofferenza e confusione della società italiana. Non vorrei li identificassimo tutti con Renzi, sono anche figli della storia della sinistra. Tocca a noi adesso convincere che ci sono altri modi per respingere il peggio: assai più difficili, nei tempi più lunghi, ma ben altrimenti efficaci per avviare la ricerca di una reale alternativa. E qui veniamo al che fare nostro, di noi sinistra diffusa o organizzata in precari partiti nati dalle ceneri di altri partiti. A me l’esperienza della lista Tsipras, nonostante i tanti errori che l’hanno accompagnata, è parsa positiva. Lo dimostrano anche i dati elettorali: il risultato è stato ovunque superiore alla somma dei voti di Rifondazione e di Sel, segno che ci sono forze disponibili che non vanno sprecate e che i partiti esistenti dovrebbero essere in grado di associare al processo di ricostruzione della sinistra italiana evitando di chiudere la ricerca nei rispettivi recinti. Teniamo conto che queste forze sono molto più numerose dei dati elettori: laddove l’esistenza della lista di Tsipras era conosciuta (le grandi città) le nostre percentuali sono state il doppio di quelle raggiunte in periferia dove non è arrivata alcuna comunicazione. Fra le forze aggregate alla lista Tsipras ci sono come sappiamo molti di quei micromovimenti quasi sempre locali, che si autorganizzano ma restano frammentati. Sono una delle ricchezze specifiche del nostro paese, dove c’è per fortuna ancora una buona dose di iniziativa sociale. Questa presenza sul territorio è la base da cui ripartire, intrecciando l’iniziativa dei gruppi con quella dei partiti e coinvolgendo nella lotta per specifici obiettivi e nella costruzione di organismi più stabili in grado di gestire le eventuali vittorie (penso all’acqua, per esempio) anche chi ha votato Pd. Un partito in cui sono tanti ad essere con noi su molti obiettivi:il reddito garantito; i diritti civili; la salvaguardia dell’ambiente; la rappresentanza sindacale,… . Accompagnando questo lavoro sul territorio con un’analisi, una riflessione comune per combattere il primitivismo di tanta protesta, il miope basismo spesso anche teorizzato: la sinistra ha bisogno di rappresentare i bisogni ma, diovolesse, anche di Carlo Marx per aiutare a capire come soddisfarli. So, per lunga esperienza, quanto sia difficile, ma penso non si debba stancarsi di riprovare. Voglio dire che la cosa più grave che potrebbe avvenire è di limitarsi ad una opposizione declamatoria, o peggio a rifugiarsi nel calderone del Pd pensando di potervi giocare un qualsiasi ruolo. Il Pci – consentitemi questo amarcord – è stato per decenni un grande partito di opposizione, ma ha cambiato in concreto l’Italia ben più di quanto hanno fatto i socialdemocratici italiani da sempre nel governo. E però perché, pur stando all’opposizione, ha avuto un’ottica di governo: vale a dire si è impegnato a costruire alternative, non limitandosi a proteste e denunce. Ma soprattutto perché non ha ritenuto che le elezioni fossero il solo appuntamento, e che far politica coincidesse con fare i deputati o i consiglieri comunali. E’ possibile, tanto per cominciare, consolidare la rete dei comitati Tsipras? E’ possibile che Rifondazione e Sel – cui nessuno chiede nell’immediato di sciogliersi nel movimento – si 16
impegnino però a lavorare assieme a loro per un più ambizioso progetto di sinistra? E’ possibile cominciare a creare nuove forme di democrazia che ricostruiscano il rapporto cittadino-istituzioni? Vogliamo almeno provarci?
del 30/05/14, pag. 7
Stefano Rodotà Il professore e la Costituzione
“La Carta esiste, Renzi non è un Principe” di Silvia Truzzi L’anno scorso incombeva la minaccia di scardinare l’articolo architrave, il 138 della Costituzione. Oggi il pericolo arriva dal combinato disposto di Italicum più riforma del Senato: Libertà e Giustizia organizza anche quest’anno una manifestazione in difesa della Carta, il 2 giugno a Modena. Tra i “professoroni” che parteciperanno c’è anche Stefano Rodotà: “L’anno scorso, dopo la festa della Repubblica, prese avvio un lavoro sfociato nella manifestazione del 12 ottobre, La via maestra. In quei mesi si era diffuso un orientamento, largamente condiviso, contro la modifica del 138. Quell’ipotesi poi cadde: dunque non è stato un lavoro inutile”. E oggi? L’attacco ai ‘professoroni’ ha prodotto una discussione ricca, sfociata in audizioni parlamentari, che ha prodotto proposte puntuali. I progetti del governo sono stati sottoposti a valutazioni che dovrebbero essere considerate contributi da cui non si può prescindere. Approvare un testo di riforma del Senato senza tener conto di modalità di elezione e competenze della Camera è un modo improprio e pericoloso di affrontare il problema. L’Italicum va verso una democrazia d’investitura – “la sera delle elezioni deve essere chiaro chi governerà” – e una democrazia di ratifica, in cui il Parlamento semplicemente prende atto delle volontà del governo. Il combinarsi di questi due elementi, democrazia d’investitura e di ratifica, cambia radicalmente il nostro sistema: si esce dalla logica della democrazia rappresentativa, su cui si basa la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato illegittimo il Porcellum. L’Italicum riprende la logica del Porcellum: ed è una logica conservatrice che tende a concentrare nelle mani del governo un potere assoluto, con una Camera non più in grado di controllare. La democrazia rappresentativa va salvaguardata, garantendo equilibri costituzionali adeguati. Il successo elettorale sembra esser diventato una legittimazione universale. L’idea, berlusconiana, del voto- lavacro ... Certamente. Berlusconi diceva: se i cittadini mi hanno votato pur sapendo che sono indagato, significa che a loro non importa. Dire “i cittadini conoscevano la linea del governo quindi l’hanno legittimata con il voto” è un’assoluta forzatura. In ballo c’è la legalità costituzionale da due punti di vista, il rispetto della democrazia rappresentativa e degli equilibri costituzionali. Che non sono materia disponibile e non dipendono da alcun eventuale plebiscito. Pensare che il vincitore delle elezioni abbia carta bianca su tutto è poco rispettoso di un sistema che si basa anche sulla tutela delle minoranze e quindi sul pluralismo. Non sono tra quelli che sottovalutano il risultato delle urne, e nemmeno tra quelli che lo interpretano attraverso improbabili confronti con il passato. Il risultato è stato importante, ma non significa che ora Renzi sia un Principe sciolto da ogni vincolo rispetto alle regole costituzionali! 17
Anche ieri il premier ha ribadito: riforme subito, entro l’estate. Le riforme della Pa e della giustizia, che ora il governo intende affrontare, possono anche essere accompagnate da accelerazioni politiche. Ma una riforma costituzionale è cosa diversa perché riscrive il patto con i cittadini. Il patto con i cittadini non può uscire dalla logica della democrazia parlamentare rappresentativa. Non è accettabile sentire il premier dire “dopo di me il diluvio” a proposito delle riforme costituzionali. Si sa assai poco del patto del Nazareno. Quando Renzi annunciò la volontà di levare il segreto di Stato, dissi che il primo segreto che doveva togliere era sul patto con Berlusconi, di cui non conosciamo i contenuti. Adesso il voto europeo è usato per esaltare il premier, ma si fa finta di non vedere la sconfitta dell’altro contraente di quel patto. O si dice che il risultato è indifferente per tutti, ma se è un voto pesante si deve ridimensionare il ruolo di Berlusconi. Sono possibili maggioranze diverse se si è disponibili a vedere nel Senato non una camera irrilevante, ma un’istituzione fondamentale negli equilibri democratici. Che pensa della mediazione maturata nel Pd sul “Senato alla francese”, cioè eletto indirettamente? Il problema, sulla Camera alta, non è solo quale legge elettorale, ma anche quali funzioni. Avrà competenza su materie costituzionali, diritti fondamentali, commissioni parlamentari? Si possono anche considerare modalità di elezione diverse da un sistema diretto e proporzionale che a mio avviso sarebbe il migliore, ma a patto di garantire gli equilibri costituzionali complessivi.
Del 30/05/2014, pag. 4
LA GIORNATA
Renzi: “Partito nazione” E dentro Scelta civica e Sel scatta il progetto fusione Il premier: “No a campagne acquisti ,riflettiamo per il 2018” Si complicano le riforme. FI boccia l’abolizione del Senato ROMA . Molto c’è da festeggiare per il Pd. Ma Matteo Renzi, scusandosi con “la volontaria dei tortellini di Modena” - che ha tutto il diritto di voler far festa per una vittoria storica del partito alle europee - elenca subito le sfide da vincere e non c’è tempo da perdere. L’obiettivo è «cambiare l’Italia, cambiare la Ue: l’Europa o cambia o non si salva». Il primo passo però è affrontare «la madre di tutte le battaglie», cioè quella sul lavoro. Partire anche con una politica industriale di rilancio. Elenca poi il timing delle riforme: il 13 quella della Pubblica amministrazione, il 20 sulla competitività, quindi la delega fiscale. Giugno sarà un mese cruciale per la riforma del Senato, per quella della giustizia e entro l’estate la nuova legge elettorale dovrà essere stata incassata. Colpo di acceleratore su tutto anche sul partito che avrà il 14 giugno, data dell’Assemblea nazionale, una nuova segreteria unitaria e il nuovo presidente. Se qualcuno aveva pensato a una direzione di pacche sulle spalle, complimenti e rinvii, aveva sbagliato. Il premier-segretario striglia: «Chiediamoci se il 40% è un accidente della storia, un colpo di fortuna o un obiettivo stabile». Per Renzi deve essere «casa nostra, dobbiamo metterci la residenza». Mostrare di essere a tutti gli effetti ciò che il voto delle europee ha indicato, cioè un «partito della nazione, dell’Italia, della speranza». 18
Per questo partito hanno votato oltre 11 milioni di italiani e bisogna esserne all’altezza. Quindi le stoccate a Grillo. Innanzitutto sul punto più basso raggiunto in campagna elettorale: la canzone contro Napolitano sul palco grillino. Rincara: «Si fa lo streaming quando si fanno i dibattiti, ma quando si vanno a trovare i populisti inglesi ci si va di nascosto. M5Stelle sapevano da prima con chi sarebbero stati in Europa». Comunque il Pd di Renzi è il partito della “volontaria dei tortellini di Modena” e dell’artigiano del Nord est. E qui Renzi racconta un retroscena su Bonaccini e Guerini che nella notte del trionfo elettorale hanno evocato Berlinguer e De Gasperi, la storia dell’orgoglio dem. RENZI è pronto ad accogliere i naufraghi. In direzione è stato chiaro: «Non facciamo campagna acquisti ma dobbiamo essere disponibili a riflettere immaginando che l’orizzonte della legislatura sia quello del 2018». D’altra parte se l’obiettivo è quello di «fissare la residenza» allo straordinario risultato del 40,8% delle europee, il Pd deve allargarsi ad altri mondi e consolidarsi come il vero «partito della nazione». Un processo di cui l’incorporazione di Scelta civica, e degli altri centristi che ci staranno, costituisce solo uno dei passaggi. Lo stesso Mario Monti, dando implicitamente luce verde all’operazione, ha ammesso che «se Renzi avesse vinto contro Bersani, Scelta civica non sarebbe nata». E ora «l’agenda Renzi è l’agenda Monti». Fosse solo per l’ex premier sarebbe cosa fatta. Ma nelle stanze dei montiani l’opzione di una resa incondizionata crea divisioni. Per questo è stato affidato a un comitato di quattro saggi il compito di trovare una via d’uscita, coinvolgendo anche le assemblee locali del movimento. I più determinati nel percorso di avvicinamento al Nazareno sono Andrea Romano, Irene Tinagli, Linda Lanzillotta e Pietro Ichino. Proprio dalla Lanzillotta, ex dem, vice presidente del Senato, arriva l’endorsement più netto: «Il Pd di Renzi è quello che avrei voluto quando l’ho lasciato nel 2009». Sul fronte opposto invece stanno l’ex presidente del partito Alberto Bombassei, Andrea Causin, Gianfranco Librandi, che veleggerebbero verso il Nuovo centrodestra di Alfano. Quanto al ministro Stefania Giannini, segretario dimissionario, fa premio il rapporto personale con Renzi. Non si diluiranno subito nel gruppo democratico ma il primo passo sarà un nuovo nome che richiami l’obiettivo della “unità democratica”. Un modo che consentirebbe ai parlamentari mantenere gli uffici che hanno attualmente. Il Pd allargato a cui pensa Renzi non può guardare solo ai centristi. La sinistra dem pretende uguale capacità attrattiva anche nei confronti di Sel e dei fuoriusciti 5Stelle. Quella che Pippo Civati definisce «l’area del nuovo centrosinistra». E molti civatiani stanno insistendo con il vice segretario Lorenzo Guerini perché lo stesso Civati entri nella segreteria unitaria che partirà a metà giugno. La pax renziana si estende anche alle riforme. E proprio per trovare un compromesso la presidente Anna Finocchiaro ieri ha spostato alla prossima settimana il termine per la presentazione degli emendamenti al nuovo bicameralismo. Il «terreno d’atterraggio» studiato da Finocchiaro — anche per venire incontro alle richieste di Ncd, Lega e Forza Italia, che insistono per un Senato elettivo — è quello di un’elezione alla francese, di secondo grado, da parte di una vasta platea di amministratori locali: consiglieri comunali, regionali e deputati del territorio. Sarebbero loro a scegliere i futuri senatori. Una proposta identica a quelle presentate ieri dal renziano Andrea Marcucci, dal rappresentante dei senatori franceschiniani Franco Mirabelli e dal bersaniano Miguel Gotor. Ma se il “lodo francese”, benedetto anche dal ministro Boschi, riunifica le varie anime del Pd, Forza Italia sembra andare in direzione opposta. Del resto l’avvicinamento di Berlusconi alla Lega e Fratelli d’Italia è sotto gli occhi: la carta su cui è stato scritto il patto del Nazareno appare sempre più ingiallita. «Per noi — ragiona il capogruppo forzista Paolo Romani — un Senato alla francese è inaccettabile. Parliamo di 140-150 mila amministratori, in gran parte di sinistra. Allora tanto vale far votare tutti gli italiani». Quanto al patto del Nazareno, che pure prevedeva un Senato non elettivo, per Romani «rischia di essere ormai una gabbia. Queste elezioni 19
hanno dimostrato che è difficile far capire alla nostra gente che siamo all’opposizione di Renzi ma collaboriamo sulle riforme. Nei prossimi giorni andrà fatta una riflessione».
Del 30/05/2014, pag. 1-2
Dossier segreto accusa l’ex comico, polemica su Farage Il premier attacca la Ue: le risposte sono insufficienti
“Così abbiamo perso” i 5Stelle contro Grillo Renzi: cambierò il Pd TOMMASO CIRIACO ILVIRUS della disgregazione si è impossessato del Movimento cinque stelle. Non è più un duello tra falchi e colombe, ormai è una guerra tra bande. Un dossier molto critico con i vertici dei Cinquestelle travolge lo staff della comunicazione della Camera, mentre gli ortodossi si spaccano in assemblea. E la furia di Gianroberto Casaleggio è incontenibile: «Ora basta con i sabotatori. Ora basta con queste follie». E così tutto torna in discussione, dall’unità dei gruppi all’intesa con l’Ukip. MANCA soprattutto un timoniere. Rinchiuso nella villa di Marina di Bibbona, Beppe Grillo prova a metabolizzare la sconfitta elettorale. Il guru, invece, si barrica sconvolto nel suo studio della Casaleggio associati. Quando lo informano che lo staff della comunicazione ha presentato ai deputati un documento che sconfessa tutte le scelte degli ultmi mesi, Casaleggio sbotta. In quel testo — al paragrafo “Non siamo da governo” — si offre una fotografia imbarazzante dei parlamentari del Movimento: «Non sono ancora percepiti come affidabili. Si ritengono poco concreti e la battaglia sul 138 l’hanno capita ben poche persone. Mancano di umiltà e a volte sono percepiti come saccenti. Se non si ha una soluzione a un problema, non lo si può denunciare». Desolante, appunto. Non è tutto. Nel report si critica apertamente anche la linea del guru, convinto di dover limitare le presenze pentastellate sul piccolo schermo: «Se si decide di voler raggiungere il 51% — scrive invece lo staff della Camera — allora bisogna adeguare il messaggio e far ricorso a strumenti appropriati (tv in prima istanza)». Per disintegrare definitivamente la linea dei due cofondatori, la comunicazione di Montecitorio giudica «paradossale» lo sbandierato «vinciamo noi» di Grillo: «Una vittoria percepita come sicura potrebbe aver demotivato qualcuno dei nostri che non è andato a votare». Ciliegina sulla torta, un parallelo da brivido: «Gli italiani hanno dimostrato di aver bisogno di affidarsi a un uomo forte, fattore che ciclicamente torna nella storia, da Mussolini a Berlusconi. Renzi ha saputo trasmettere serenità ». «Sono pazzi», urla Casaleggio. A caldo, insieme a Grillo, valuta addirittura un reset degli assetti della comunicazione della Camera. E in un baleno finisce sul banco degli imputati il capo della comunicazione Nicola Biondo che, già in passato, si è scontrato con lo staff del Senato. Non a caso, da Palazzo Madama Claudio Messora fa sapere: «Noi della comunicazione del Senato apprendiamo con stupore dell’esistenza di questo documento, che non abbiamo visionato, getta ombre irragionevoli sulle figure di Grillo e Casaleggio e ci sembra molto lontano dalla realtà». Tutti contro tutti, insomma. Grillo, basito, osserva l’harakiri del Movimento. Su Facebook si fa sentire solo per replicare a chi, come Tommaso Currò, aveva sollecitato un suo passo indietro: «C’è chi ha chiesto le mie “dimissioni” (non si sa da cosa). Il tempo è dalla nostra parte». Eppure, il comico è costretto a fare i conti con un’altra mina che rischia di esplodergli tra le mani: la collocazione dei grillini tra i banchi dell’Europarlamento. 20
Tanti, tantissimi penta stellati rabbrividiscono pensando a un’intesa con la destra euroscettica britannica di Nigel Farage. A pianificare la trattativa continentale è proprio Messora, mentre a Montecitorio molti deputati contestano l’alleanza con l’Ukip. Ecco allora che i veleni si sprigionano veloci, fino a immaginare addirittura uno sgambetto studiato dallo staff della comunicazione di Montecitorio. Di certo c’è che Casaleggio è preoccupato: «Non possiamo far saltare l’intesa, perderemmo la faccia». Non a caso, il guru ha convocato gli eurodeputati a cinquestelle. Si vedranno già oggi a Milano e il cofondatore cercherà di superare le resistenze dei neoeletti. Non è affatto detto che riesca nell’impresa, però, perché i Verdi europei — al di là delle dichiarazioni pubbliche — hanno avviato una mediazione sotterranea con i grillini approdati a Bruxelles. Come se non bastasse, tutti i rancori del Movimento trovano sfogo a sera in un infinito summit tra deputati. Tutti, o quasi, si scagliano contro la comunicazione, contestano le strategie parlamentari. Finisce nel tritacarne anche la “tv coach” Silvia Virgulti. La colpa? Aver sottolineato l’effetto boomerang del cappellino indossato da Casaleggio a “In mezz’ora”, bollando il fotogramma come «inquietante e non rassicurante ». Una sortita «villana», la boccia Walter Rizzetto. In un attimo, parte il processo. L’incontro si trasforma in uno sfogatoio. Luigi Di Maio, tra gli “ortodossi” messi sotto accusa, dà uno sguardo alla riunione e subito se ne va dopo aver fiutato l’aria. Alessandro Di Battista ammette «alcuni errori», mentre un moderato come Massimo Artini non risparmia i decibel: «Dobbiamo cambiare la comunicazione e abbassare i toni». «Vogliamo continuare a far finta di nulla o diciamo che qualcosa non funziona? — domanda Mimmo Pisano — Signori, siamo calati di quattro punti. Dovevamo crescere, abbiamo perso». L’ira contro il cerchio magico si salda ai dubbi sul futuro. «Non abbiamo realizzato le nostre promesse — si accende Rizzetto — non abbiamo portato a casa nulla. Ma siamo stati bravissimi ad arrampicarci sui tetti... ». Per ordine del capogruppo — così giura lo staff — i cronisti vengono tenuti a un paio di rampe di scale di distanza. Eppure, gli spettri continuano a circondare i falchi. L’effetto è paradossale. Un deputato chiede a un dipendente del gruppo di avvicinarsi a uno scantinato buio a due passi dalla sala. Dentro c’è solo il quadro elettrico, nessun giornalista. Ma una voce ribadisce: «Eppure ho sentito un rumore...». «Il problema - gli risponde un altro - non sono i rumori che arrivano da fuori, ma che qui non c’è più una guida».
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Senato, la rivincita dell’Anci Con il finto modello francese Andrea Fabozzi Mentre Matteo Renzi informava la direzione del Pd che non ci sarà «nessun rinvio» sulle riforme, e che il mese di giugno sarà «cruciale» per approvare il disegno di legge costituzionale sul bicameralismo e a ruota — «comunque entro l’estate» — la seconda lettura della legge elettorale, la commissione affari costituzionali del senato decideva, appunto, un rinvio. Breve: il termine per la presentazione degli emendamenti al testo del governo doveva scadere ieri pomeriggio, e invece scadrà martedì prossimo. Si comincerà allora a votare e, se andrà bene, si potrebbe concludere in commissione per quella data, il 10 giugno, sulla quale era già ripiegato Renzi come scadenza ultima per il via libera dell’aula del senato. Nella sua sfida con i senatori adesso Renzi ha l’energia in più del successo alle europee, ma il senato è Rodi ed è qui che deve saltare. 21
La contraddizione è quella lasciata irrisolta prima delle elezioni. La maggioranza dei senatori, ben rappresentata dai commissari della affari costituzionali, è per una forma di elezione dei nuovi componenti della camera alta. Con una preferenza per l’elezione diretta. Il governo pensa l’opposto: di principio voleva quasi solo sindaci nel senato, poi metà sindaci e metà consiglieri regionali. La situazione schizofrenica ha portato all’approvazione di un ordine del giorno Calderoli che raccomanda l’elezione diretta, e del testo base Renzi-Boschi che prevede l’opposto. La parola dunque agli emendamenti (ma sul pasticcio procedurale dovrà prima o poi pronunciarsi la giunta per il regolamento). A ottenere lo slittamento di cinque giorni del termine è stato il senatore Calderoli, correlatore, con la minaccia di presentare altrimenti oltre tremila emendamenti leghisti. Restano un centinaio di emendamenti dei 5 stelle, una quarantina di Forza Italia, tredici del Nuovo centrodestra, una ventina della (ex) minoranza Pd, quelli di Sel firmati anche dagli ex grillini… Ci sono gli emendamenti del senatore Russo del Pd, che si è assegnato il ruolo di «facilitatore» delle riforme, e che recepisce le intenzioni del governo sulla riduzione dei senatori di nomina presidenziale (da 21 a 5) e sul rapporto proporzionale tra senatori e popolazione della regione. In più c’è la proposta di alzare il quorum per le modifiche costituzionali, da 2/3 a 3/5, una necessità che deriva dall’opzione per il maggioritario. Lo schieramento favorevole all’elezione diretta è sempre ampio, va da Sel ai grillini ed ex grillini, abbraccia il Nuovo centrodestra e una parte dei senatori Pd che avevano condiviso la proposta alternativa di cui era primo firmatario Vannino Chiti. C’è anche il senatore di Forza Italia Minzolini (che parimenti insiste con il presidenzialismo). Il richiamo all’ordine della maggioranza arriverà entro martedì sotto forma degli emendamenti della relatrice Finocchiaro. La via d’uscita la indica l’emendamento dei senatori iper renziani Marcucci e Mirabelli che propone una forma originale di elezione indiretta. L’elettorato attivo del nuovo senato viene riservato, in ogni regione, ai consiglieri regionali, ai consiglieri comunali di tutti i comuni grandi e piccoli e ai deputati eletti nella regione. L’elettorato passivo quasi coincide: consiglieri comunali o regionali. I comunali sono naturalmente la grande maggioranza, tanto che si prevede che almeno un terzo degli eletti debbano essere consiglieri regionali. La proposta viene offerta come mediazione ma somiglia tanto al ritorno in forze del senato dei sindaci e alla rivincita dell’Anci, l’associazione dei comuni così ascoltata dal premier Renzi e dal sottosegretario Delrio. Viene presentata anche come «modello francese», e in questa chiava piace anche al senatore bersaniano Gotor. Ma di francese ha poco, posto che Oltralpe l’elettorato passivo è di tutti i cittadini sopra i 24 anni. A Parigi i senatori sono rappresentanti dei partiti a tutti gli effetti, vengono scelti con legge proporzionale (in maggioranza), vengono pagati qualcosa più di 11mila euro al mese e, molto presto, non potranno essere sindaci.
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LEGALITA’DEMOCRATICA Del 30/05/2014, pag. 1-20 IL REPORTAGE/ BERNESCHI FINISCE IN CARCERE
La cupola dei banchieri che ricattava Genova GAD LERNER GENOVA FINGIAMO di prenderlo per buono, l’argomento che ti senti ripetere dai potenti della Superba che ora si ritrova con le pezze sul didietro, dato che la sua Fondazione Carige s’è mangiata quasi per intero il patrimonio: dicono che questo Giovanni Berneschi, senza il cui beneplacito a chiedere un prestito in banca perdevi tempo, era troppo genovese perché i genovesi si accorgessero che rubava. «ERA un gran tirchio, se andavi a prendere un caffè non pagava mai. Severo anche con se stesso, arrogante ma sobrio, gergo da scaricatore di porto e non certo da salotto buono, induceva a considerarlo serio e onesto», racconta Remo Checconi, 82 anni, tessera comunista dal 1949, da oltre mezzo secolo in Coop Liguria e dal 2007 consigliere d’amministrazione della Carige. Ora il compagno Checconi si dichiara amareggiato — «da vecchio bolscevico posso sopportare gli incapaci ma non i ladri» — però è un fatto che mugugnarono anche loro, gli uomini delle Coop rosse, quando nell’agosto 2013 Berneschi fu defenestrato dopo decenni di strapotere. «Noi eravamo fautori di un ricambio, ma ordinato», si giustifica Francesco Berardini, presidente di Coop Liguria. «Avevamo investito nella Carige per difendere l’idea di una banca vicina al territorio». Insieme a loro avevano comprato una quota azionaria pure gli emiliani di Coopsette, divenuta l’impresa di costruzioni più forte nell’area genovese. Facevano parte dei cosiddetti “pattisti” che sostenevano Berneschi e il suo vice Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro arrestato, insieme a Gavio e Bonsignore. Ce n’è abbastanza per parlare di cupola degli affari, garantita da un tacito patto territoriale fra Claudio Scajola, plenipotenziario del Ponente ligure anche attraverso la rete delle Camere di Commercio, e il presidente di sinistra della Regione, Claudio Burlando, senza dimenticare le necessità dell’arcivescovo in carica, Bertone o Bagnasco che fosse? Troppo facile. Ora che è emerso il meccanismo delle ruberie mascherate con le perdite del ramo assicurativo, e il doppio schermo per riportare a Genova dalla Svizzera centinaia di milioni in nero, fra cui il bottino personale di Berneschi, si capisce che la fetta più grossa della torta se la spartivano imprenditori amici di quell’”uomo del popolo”, venuto su dal quartiere di San Fruttuoso dove in gioventù aveva fatto amicizia con Beppe Grillo. Un tipo, il Berneschi, che nel fine settimana si graffiava la faccia e le mani lavorando la sua campagna a Ortonovo, nello spezzino, lontano dalla Genova bene. Genovesissimo, appunto, come mi spiega il vecchio avvocato Alfredo Biondi, nel cumulare il denaro attraverso cui misurava il suo ego, ma senza mai ostentarlo. Chi dal dicembre scorso ha dovuto mettere il naso nelle erogazioni (e ahimè nei debiti) della Fondazione Carige, quando ormai la frittata era fatta, è l’avvocato Paolo Momigliano, nominato in fretta e furia presidente al posto dell’imprenditore dolciario Flavio Repetto, quello che insieme al territorio finanziava pure la romana Lux di Ettore Bernabei. Operazione a cui si oppose perfino il suo vicepresidente Pierluigi Vinai, uomo di Scajola e dell’Opus Dei, candidato sindaco della destra sconfitto alle elezioni da Marco Doria. Fatto sta che il povero Momigliano — non vorremmo essere al suo posto — proprio ieri ha dovuto svalutare di 934 milioni il bilancio della Fondazione, nel mentre fatica a vendere azioni Carige ormai crollate nel valore per salvare ciò che resta del patrimonio: sceso da 23
oltre un miliardo a 90 milioni. Uno spaventoso falò di ricchezza: la Carige che tre anni fa valeva 2,6 miliardi ne ha bruciati nel frattempo due terzi. Una pessima notizia per l’economia ligure. Si potranno anche intentare chissà quante azioni di responsabilità, ma quel miliardo e 600 milioni dissipati non si recupereranno più. È frugando nei criteri di erogazione dei finanziamenti e dei prestiti che Paolo Momigliano ha dovuto constatare che la teoria della cupola, per quanto suggestiva, non regge alla prova dei fatti: diciamo che seppure tutti quelli che contano avessero un motivo per stare con benevolenza nel sistema Berneschi, all’area del Pd, e in particolare degli ex Ds, nella spartizione toccavano solo le briciole. Con il senno di poi, a mezza bocca, i dirigenti genovesi del Pd riconoscono che la vocazione consociativa ha impedito che si intervenisse per tempo a impedire le ruberie. Me lo conferma, sia pure con qualche eufemismo, anche un altro vecchio comunista, Roberto Speciale, che dopo due mandati al Parlamento europeo divenne consigliere della Fondazione Carige: «La strategia del coinvolgimento di tutti, ha portato a una distribuzione assai diseguale delle risorse. Così oggi rischiamo di confondere gli episodi più gravi con quelli secondari. Noi protestavamo con Berneschi e il suo complice Menconi per le centinaia di milioni di perdite che ogni anno ci imponevano mantenendo il ramo assicurazioni. Ma certo non immaginavamo che servissero per operazioni non limpide». Vado a Palazzo Tursi per incontrare il sindaco Marco Doria, come Momigliano anch’egli un outsider, un marziano nel sistema di potere. Lui che di mestiere prima faceva lo storico dell’economia genovese, smentisce che il sistema venuto giù fosse governato da una cupola: «Qui il potere si è disarticolato, frantumato. Mezzo secolo fa ruotava intorno a tre figure centrali come il ministro democristiano Taviani, il capo della Confindustria, Angelo Costa, e il cardinale Siri. Ai quali si contrapponevano la sinistra e il movimento operaio. Diciamo che banca Carige è divenuta poi un luogo di convivenza, senza bisogno di pensare alla cupola». E le Coop rosse? «Il movimento cooperativo si è trasformato in soggetto economico rilevante, non diverso dagli altri se non nella sua base sociale. Certo che se avesse usufruito di una copertura politica, sarebbe un errore. La lezione di questo scandalo è che i soggetti istituzionali devono imparare a agire con trasparenza senza invadere campi altrui. Certe contiguità danneggiano l’efficienza del sistema, oltre che risultare giustamente inaccettabili ai cittadini ». A Genova in questi giorni ci si chiede se non siano stati tardivi gli interventi di vigilanza di Bankitalia, avviati nel 2009, ma per quattro anni rimasti invisibili. E qui entra in gioco la solita economia di relazione, di cui Giovanni Berneschi era divenuto uno snodo cruciale non certo solo localmente, come dimostra il fatto che fino a una settimana fa restava vicepresidente dell’Abi, l’associazione dei banchieri italiani. Nell’epoca delle grandi operazioni di fusione degli istituti di credito, personalità genovesi come l’ex sindaco Giuseppe Pericu e l’imprenditore Titti Oliva avevano sollecitato che anche l’allora florida Carige si integrasse nel nuovo sistema creditizio. Gli rispondevano col solito ritornello: Genova ha bisogno della “sua” banca di territorio. Ora si capisce il perché. E nel frattempo Berneschi estendeva il suo sistema di alleanze. Rapporti privilegiati con lo Ior, per il tramite dell’ex arcivescovo Tarcisio Bertone, divenuto segretario di Stato vaticano. Ma pure rapporti con i salotti buoni della finanza, dall’associazione delle Casse di Risparmio guidata da Giuseppe Guzzetti, fino a Mediobanca. Vorrà dire qualcosa se Gabriele Galateri di Genola si è dimesso dal cda Carige per evidente inopportunità solo nel 2011, quando è diventato presidente delle Generali. Poco più di un anno dopo fu chiamata nello stesso cda sua moglie, Evelina Christillin, la quale peraltro avrebbe votato per la rimozione di Berneschi. I tempi cambiano. Ora la città aspetta di conoscere la lista dei cento “fortunati” che insieme a Berneschi avrebbero goduto di conti schermati dal Centro Fiduciario Carige. Peccato che nel frattempo la Fondazione difficilmente potrà corrispondere le erogazioni ai soggetti 24
deboli e alle istituzioni culturali, che poi sarebbe la sua vera finalità. Si annunciano tempi duri, la finanza rapace qui non ha il volto cosmopolita dei milanesi fratelli Magnoni, ma ha fatto danni ben peggiori. La beffa è che a proteggerla, involontariamente, è stato proprio quel buon senso praticone di una classe dirigente che pensava di garantirsi l’eternità con la pacifica convivenza trasversale. Ciascuno proteggendo i suoi, fino a che da distribuire non sono rimaste neanche le briciole.
Del 30/05/2014, pag. 7
Giorni decisivi per l’Ilva In arrivo Arcelor Mittal L’azienda da quattro mesi non paga i fornitori e sono in ritardo anche gli stipendi Il colosso franco-indiano dell’acciaio potrebbe rilevare Taranto. Una cordata italiana per Novi e Genova Sulla questione Ilva serve un «cambio di passo e la affronteremo nel giro di qualche giorno» ha dichiarato ieri Matteo Renzi nel suo intervento alla direzione del Partito democratico. E certo suonano rassicuranti le parole di un premier reduce da un successo elettorale senza precedenti. Tanto più seguite, nel giro di poche ore, da un incontro tra il fidatissimo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, e il commissario governativo che attualmente dirige l’azienda, Enrico Bondi. Ma la verità è che il destino della più grande acciaieria d’Italia, nonchè d’Europa, resta appeso ad un filo tanto sottile da rendere insufficiente alla sua salvezza una precisa volontà politica. Servirà anche una determinata azione imprenditoriale, al momento tutta da dimostrare, visto che le ultime esternazioni a mezzo stampa di Claudio Riva, che insieme al cugino Cesare guida il gruppo di famiglia dalla recente scomparsa del padre Emilio, hanno sollevato più dubbi di quanti ne abbiano sciolti. ILPIANODIBONDI Dallo scoppio due anni fa del caso giudiziario sulla sostenibilità ambientale dell’impianto siderurgico di Taranto, gli interrogativi su come assicurare la sopravvivenza dell’industria dell’acciaio in un contesto accettabile per il territorio in cui si inserisce restano ancora aperti. Ma le consistenti perdite finanziarie che l’Ilva sta affrontando in questi mesi, con relative ripercussioni su migliaia di dipendenti e centinaia di fornitori che vantano stipendi e pagamenti arretrati, richiedono una decisione in tempi rapidissimi. Di sicuro entro la prossima settimana, visto che Bondi è in scadenza il prossimo 4 giugno e il governo, rinnovandogli omenol’incarico, prenderà implicitamente posizione sul futuro produttivo del gruppo. Il piano industriale presentato dall’attuale commissario si basa infatti sulla progressiva conversione dell’impianto pugliese a preridotto di ferro e a gas metano come alternativa all’agglomerato di minerali e al carbon coke per far funzionare gli altiforni, in modo da consentire un taglio netto delle emissioni inquinanti. Altri produttori europei stanno sperimentando questa tecnologia, e per il periodo 2017-2020 Bondi ha prefigurato anche la possibilità che il preridotto, oggi acquistato all’estero, sia prodotto a Taranto con un investimento di 300 milioni di euro. Ma sul punto è arrivato il no deciso di Claudio Riva, che in un’intervista al Sole24Oreha parlato di «ipotesi e proiezioni assai ottimistiche». Non solo: «Prima del commissariamento, l’Ilva pagava tranquillamente i lavoratori e i fornitori. Non credo proprio che l’azienda commissariata abbia la stessa solidità finanziaria» ha accusato, ricordando che «l’Ilva perde 80 milioni di euro al mese, mentre con noi guadagnava». LEPROMESSEDIRIVA Il futuro immaginato 25
dall’imprenditore, a nome del gruppo di famiglia, azionista di maggioranza dell’Ilva, prevede piuttosto una governance condivisa tra la proprietà e la gestione commissariale, soprattutto in funzione dell’aumento di capitale da 1,8 miliardi di euro necessario quest’anno: «Diamo tutta la nostra disponibilità per collaborare al salvataggio dell’Ilva. Non siamo però in grado di farlo da soli» ha precisato Riva, disponibile ad investire nell’azienda in cordata con altri attori del settore. Come Arcelor Mittal, il gigante franco-indiano che già da mesi si è fatto avanti per rilevare quote azionarie dell’Ilva - e i cui vertici ieri hanno incontrato il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, insieme ai rappresentanti del gruppo Riva e di Federacciai - che potrebbe rilevareTaranto. Mentre una cordata italiana formata da Riva, Marcegaglia e Arvedi si potrebbe aggiudicare il controllo degli stabilimenti liguri di Novi e Genova. Ma sono in molti a sollevare dubbi sulle intenzioni della proprietà. Se l’azienda precisa che nei primi tre mesi del 2014 l’Ilva ha perso complessivamente 110 milioni di euro e «la situazione registra segnali di miglioramento», i sindacati e le associazioni ambientaliste come Legambiente sostengono il piano di conversione a preridotto, e bocciano le riserve di Riva come una semplice «valutazione di costi». Più esplicito il senatore Pd Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria di Palazzo Madama, secondo cui «sull’Ilva si sta giocando una partita opaca nel momento in cui Enrico Bondi sta per ultimare il suo mandato annuale», visto che «i concorrenti privati dell’Ilva» non ne vogliono il rinnovo, «ma soldi sul tavolo non ne mettono ». Il rischio che si profila all’orizzonte è quello di «uno spezzatino con l’Ilva di Novi e quella di Genova a disposizione dei privati, e Taranto a Mittal che ne ridurrebbe la produzione a 5 milioni di tonnellate tagliando l’occupazione».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 30/05/14, pag. 5
CALAIS
I profughi restano per strada. Parigi li scarica ai volontari Anna Maria Merlo I migranti che hanno dovuto allontanarsi dai campi di fortuna smantellati nel centro di Calais, uno su un canale e l’altro al porto, fino ad oggi possono restare nel luogo di distribuzione del pasto serale, su un parking all’aperto delimitato da barriere, dove si erano rifugiati la vigilia. Poi, si vedrà. La Prefettura, che aveva ordinato l’espulsione di mercoledì per ragioni «sanitarie» – c’è un’epidemia di scabbia che minaccia di contagiare anche la popolazione di Calais – non ha soluzioni. Ieri, il prefetto Denis Robin ha scaricato il «fardello» sui volontari locali: «abbiamo fiducia nelle associazioni per occuparsi dei migranti» ha detto il prefetto. E’ allo studio una vaga ipotesi di permettere un insediamento «lontano da centro» di Calais, ma non sarà facile convincere i migranti, che stanno a ridosso del porto da dove partono i ferries per la Gran Bretagna, nella speranza di poter attraversare la Manica clandestinamente, prendendo sempre più rischi. Ma le associazioni non ci stanno a fare da paravento al governo. Per Amnesty International, «l’espulsione non è una soluzione, questa situazione ha bisogno di un piano sanitario ben concepito e adatto al caso – afferma Jezerca Tigani, vice-direttrice del programma Europa-Asia centrale – non c’è nulla di nuovo, le autorità francesi sono note per procedere a espulsioni forzate in massa senza proporre soluzioni alternative soddisfacenti alle persone coinvolte ». Più di 500 migranti si trovano ora nella zona del porto di Calais, in attesa di trovare una nuova sistemazione precaria. Su 550 persone schedate dalla polizia nel corso dell’operazione di mercoledì, 226 hanno accettato di prendere le compresse contro la scabbia e soltanto una cinquantina sono salite sui pullman che le hanno portato in due diversi locali dove hanno potuto fare una doccia. Per due minorenni e 25 persone che avevano presentato una domanda di asilo è stato trovato un luogo di accoglienza decente. Per Médecins du Monde, c’è «incoerenza e contraddizione» da parte delle autorità a fare confusione «tra sanità pubblica e la reazione securitaria », tra la cura della scabbia e l’evacuazione dei campi di fortuna pieni di fango, dove si è accumulata l’immondizia e ci sono rischi di epidemie. «La situazione è molto complicata – spiega Jean-François Corty, capo-missione di Médecins du Monde a Calais – i rappresentanti delle associazioni sono troppo poco numerosi per far fronte: ci sono più di 500 migranti, tra cui donne, bambini, minorenni isolati, candidati all’asilo politico. Voler abbinare la cura con l’espulsione è una colpa morale, l’azione viene usata come vetrina per mostrare il vigore della politica migratoria francese». L’associazione Salam sostiene che ci vorrebbe un programma di aiuto organizzato in Europa, per distribuire nelle varie regioni francesi e negli altri stati questi migranti, per dare loro il tempo di riflettere alla loro situazione e scegliere cosa fare nel futuro. Ma nessuno vuole condividere il «fardello» e, del resto, i migranti, che vengono in maggioranza da paesi in guerra (Siria, Sudan, Afghanistan, Eritrea) hanno attraversato mari e paesi con l’obiettivo di arrivare in Gran Bretagna. Da Londra stanno a guardare. Non c’è stata nessuna proposta di collaborazione con Parigi. In materia di immigrazione, in Europa c’è solo uno scaricabarile reciproco del «fardello«.
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SOCIETA’ del 30/05/14, pag. 5
Piccolo spaccio, «pene da ridurre» Eleonora Martini
Droghe. Viene dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, l’ultimo colpo all’incostituzionale legge Fini-Giovanardi. Da scarcerare almeno 4 mila detenuti ma senza amnistia i tribunali si intaseranno «Affermativa». È questa la risposta delle Sezioni unite della Cassazione alla domanda se fosse diritto delle persone condannate per piccolo spaccio in via definitiva, anche se recidivanti, chiedere uno sconto della pena in esecuzione dopo la recente sentenza della Consulta che dichiara incostituzionale la legge Fini-Giovanardi e che va ad aggiungersi all’altro pronunciamento emesso dalla Corte costituzionale nel 2012 contro una norma contenuta nella cosiddetta ex Cirielli, la legge ad personam nata per salvare Previti e Berlusconi. Per avere informazioni più precise sulla modalità del ricalcolo bisognerà attendere il dispositivo completo, ma nell’«informazione provvisoria» diramata ieri dal primo presidente Giorgio Santacroce i giudici supremi hanno risposto chiaramente, accogliendo il ricorso presentato dalla procura di Napoli contro una sentenza che aveva negato ad un condannato per spaccio di poche dosi di cocaina e di cannabis l’attenuante della lieve entità sull’aggravante della recidiva. Al momento, stima l’amministrazione penitenziaria, sono circa 3 o 4 mila i detenuti che potrebbero beneficiare degli effetti di questa sentenza, tra i 14 mila in carcere per la sola violazione dell’articolo 73 della legge sulle droghe («23 mila, di cui il 40% stranieri, quelli per violazione dell’intera normativa», secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe) presentendo però al giudice dell’esecuzione la richiesta di revisione della pena. «Il giudice dell’esecuzione, ove ritenga prevalente sulla recidiva la circostanza attenuante», scrive la Cassazione a Sezioni unite, ai fini della rideterminazione della pena dovrà prendere in considerazione il testo di legge precedente alla Fini-Giovanardi, cancellata nel febbraio scorso, «senza tenere conto di successive modifiche di legge». Ossia, senza considerare il “decreto Lorenzin” che trasforma la circostanza attenuante dello spaccio di lieve entità in fattispecie autonoma di reato, innalzando però le pene edittali per le droghe leggere. In questo modo, i giudici supremi di Piazza Cavour smentiscono l’orientamento giurisprudenziale che vorrebbe le sentenze passate in giudicato intangibili. Il verdetto della Cassazione «inciderà significativamente» sul sovraffollamento carcerario, ha detto ieri il ministro di Giustizia, Andrea Orlando. «Non sappiamo dire esattamente con quali numeri», ha aggiunto il Guardasigilli, ma «questo ci fa dire che l’uscita dall’emergenza sarà probabilmente più rapida». In realtà, senza un intervento politico si dilatano a dismisura i tempi per la liberazione di chi ingiustamente sta scontando una condanna per effetto di una norma penale dichiarata incostituzionale anche se, come spiega l’informativa della Cassazione, «diversa dalla norma incriminatrice ma che incide sul trattamento sanzionatorio». «Aumenteranno a dismisura i carichi dei giudici ordinari che dovranno affrontare i procedimenti camerali attraverso i quali si dovrà ricalcolare al ribasso la pena di migliaia di detenuti», avverte Rita Bernardini. La segretaria dei Radicali italiani invita le istituzioni ad «attivarsi immediatamente per un provvedimento di amnistia e di indulto che, liberando le scrivanie dei magistrati, consentirebbe di indirizzare maggiori forze per perseguire i reati gravi e farebbe uscire dal carcere chi deve scontare gli ultimi 28
due o tre anni di detenzione fra i quali le migliaia di reclusi vittime della Fini-Giovanardi». Anche l’Unione delle camere penali parla di «sovraccarico sul sistema giudiziario» e sottolinea la disparità di trattamento che si potrebbe creare a causa della discrezionalità dei giudizi. Per i penalisti «l’applicazione di questa sentenza non risolve» il problema del sovraffollamento carcerario e «non sposta nulla rispetto alla necessità di un provvedimento di clemenza generalizzato». Una sentenza, questa, che «mette l’Italia al passo con la giurisprudenza di Strasburgo –ha spiegato Giuseppe Maria Berruti, direttore dell’Ufficio del Massimario della Cassazione – e, insieme alle due sentenze della Consulta, ci mette più in regola con la Carta di diritti dell’uomo. Il diritto non è immobile – ha aggiunto – cambia a seconda del quadro storico di riferimento e questa vicenda dimostra che il quadro storico è mutato rispetto a quando la legge Fini-Giovanardi venne emanata». Otto anni, migliaia di condannati e perfino qualche morte fa.
Del 30/05/2014, pag. 1-14 LA SENTENZA
Droghe leggere migliaia in libertà dopo il verdetto della Cassazione LIANA MILELLA Decisione “storica” della Cassazione sui condannati definitivi per droghe leggere. Potranno chiedere ai giudici di ricalcolare la pena e rispettare così, evitando disuguaglianze incostituzionali, la sentenza della Consulta del 12 febbraio che ha fatto rivivere la legge Jervolino-Vassalli contro la ben più severa Bossi-Fini (da 2 a 6 anni la prima, da 6 a 20 la seconda). Sezioni unite, alla guida il primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, relatore il segretario generale Franco Ippolito, una sentenza destinata a cambiare anche il prossimo futuro delle nostre carceri, perché la possibilità di ricalcolare la pena potrebbe far uscire di cella tra i 3 e i 4mila detenuti. Una stima prudente rispetto a quella di chi, come il coordinatore dei garanti dei detenuti Franco Corleone, ipotizza che si possa arrivare fino a 10mila. Il primo “graziato” comunque è il Guardasigilli Andrea Orlando, alle prese proprio in questi giorni con la Corte europea di Strasburgo e la prossima risoluzione sul sovraffollamento carcerario.Il ministro della Giustizia già vede una sentenza che «inciderà in modo significativo» e soprattutto che consentirà «un’uscita dall’emergenza anche più rapida di quello che prevedevamo». Sarebbe sbagliato leggere il passo della Cassazione solo in chiave strumentale rispetto all’annoso problema delle carceri e alle multe milionarie contro cui, peraltro, l’Italia si sta già attrezzando con un piano che ha già ridotto il limite dei 3 metri quadri per detenuto, all’origine del ricorso in Europa. È fondamentale invece analizzare il passo dei supremi giudici dal punto di vista strettamente giuridico. Non a caso, il direttore del Massimario della Corte Giuseppe Maria Berruti parla di una decisione che «mette l’Italia al passo con la giurisprudenza di Strasburgo e con la Carta dei diritti dell’uomo». La Cassazione da “vivere” l’altrettanto storica sentenza della Consulta che ormai quattro mesi fa ha sbarrato la strada alla legge Bossi-Fini nella parte in cui equipara droghe leggere e pesanti in un’unica e gravosa pena, quella da 6 a 20 anni. Da quel momento, la questione dei condannati e dei detenuti per una legge che, di fatto, non esisteva più, è diventato pressante per tutti i giudici italiani. Come dice Luigi Manconi, presidente Pd della commissione Diritti umani del Senato, «ancora una volta la magistratura provvede là dove 29
la politica non fa, o tarda a fare». Perché è fin troppo evidente che, dopo il passo della Consulta, sarebbe stato necessario adeguare la legge con un intervento rapidissimo che non c’è stato. Adesso arrivano le sezioni unite della Cassazione con una sentenza che vale molto più di una legge. Passo giuridicamente storico perché, d’ora in avanti, le condanne definitive non dovranno più essere considerate del tutto intoccabili. All’opposto, come in questo caso, se interviene una novità giuridicamente determinante, esse potranno, anzi dovranno, essere rivisitate. Un diritto inalienabile per il condannato che potrà sfruttare non solo la regola del favor rei (si applica sempre la legge più favorevole all’imputato), ma anche quella della parità di trattamento, rispetto a un fatto identico o simile, tra chi è stato condannato prima della sentenza della Consulta sulla Bossi-Fini e chi anche solo un giorno dopo.
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BENI COMUNI/AMBIENTE del 30/05/14, pag. 15
Gas serra, Obama per un taglio netto Un taglio consistente, in molti casi anche del 20 per cento, delle emissioni di CO2 che i gestori delle centrali elettriche a carbone degli Stati Uniti dovranno realizzare entro il 2020. Impossibilitato a varare leggi efficaci contro l’effetto serra a causa del conflitto tra democratici e repubblicani che paralizza da tempo il Congresso, Barack Obama ha deciso di intervenire utilizzando, per quanto possibile, i poteri esecutivi del presidente. La direttiva all’Epa, l’Ente per la protezione dell’ambiente, che verrà annunciata lunedì, poco prima della partenza del leader americano per un viaggio in Europa, non è certo un piano articolato, ma farà comunque storia: nessun presidente Usa ha mai adottato una misura così incisiva contro i mutamenti climatici. Le centrali elettriche, infatti, sono responsabili del 40 per cento delle emissioni di anidride carbonica degli Stati Uniti. E quelle a carbone, ovviamente, sono le maggiori responsabili dell’inquinamento e del riscaldamento dell’atmosfera. Le compagnie elettriche stanno già da tempo cercando di spostare la generazione d’energia verso fonti meno inquinanti: l’anno scorso le loro centrali hanno bruciato 825 milioni di tonnellate di carbone, parecchie meno delle 1.045 consumate nel 2007. Ora Obama ha deciso di imprimere un’accelerazione a questo processo contando anche sulla elevata disponibilità di gas naturale, quello prodotto grazie alla rivoluzione dello shale gas, che nel processo di combustione delle centrali emette meno della metà del CO2 rispetto al carbone. Tutto apparentemente abbastanza logico, ragionevole. Il piano del governo cerca anche di lasciare un certo margine di flessibilità ai singoli Stati dell’Unione che potranno raggiungere i loro obiettivi sostituendo elettricità da carbone con quella prodotta con le fonti rinnovabili (solare ed eolico), convertendo gli impianti carboniferi a gas, provando a sviluppare le tecnologie del «carbone pulito» o facendo pagare una sorta di penale ai produttori che eccedono i limiti. Nonostante questi margini di adattamento e la disponibilità di alcune grandi «utility» come la Dynergy favorevoli al sistema delle penali, l’intervento di Obama in campo ambientale sta già provocando reazioni assai dure da parte della lobby del carbone e, soprattutto, dei conservatori che considerano quella del presidente una mossa ideologica, a sfondo elettorale. Era probabilmente inevitabile che accadesse in un Paese nel quale negli Stati con un’economia fortemente basata sul carbone non vogliono sentir parlare di regole e taglio dei consumi inquinanti. In Wyoming, lo Stato che produce il 40 per cento del carbone bruciato negli Usa, il ministero dell’Istruzione dello Stato ha addirittura respinto i nuovi standard educativi federali — i programmi scolastici che contemplano anche l’illustrazione dei danni provocati dai mutamenti climatici — sostenendo che non hanno un adeguato fondamento scientifico. Un atteggiamento integralista di rifiuto preconcetto che ricorda l’atteggiamento degli Stati nei quali la destra religiosa ha imposto l’insegnamento del creazionismo al posto dell’evoluzionismo darwiniano. Altri Stati come l’Oklahoma e il South Carolina si stanno muovendo nella stessa direzione mentre nel Kentucky il governatore ha preso il coraggio a due mani e ha posto il veto a una misura di questo tipo votata dal parlamento locale e da lui bollata come oscurantista e contraria alla verità scientifica. Ma le resistenze si sentono anche in campo democratico e vengono non solo dagli Stati che producono più carbone ma anche da quelli, come Illinois e Michigan, che ne bruciano molto perché l’energia così prodotta è meno cara e rende più competitive le industrie locali. Così a volte destra integralista e sindacati si ritrovano nella stessa trincea, preoccupati più di sostenere l’economia e l’occupazione nell’immediato che di bloccare il 31
processo di degenerazione dell’atmosfera. Obama è consapevole delle difficoltà e, infatti, per cinque anni ha tenuto chiuse in un cassetto le sue promesse elettorali sull’ambiente. Ora, grazie allo shale gas a buon mercato, pensa che sia possibile provare a imprimere una svolta, tornando al suo originario spirito ambientalista. Massimo Gaggi
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INFORMAZIONE del 30/05/14, pag. 3
RAI, GUBITOSI: COSTRETTI A TAGLIARE Il piano industriale Rai è da rifare, perché senza i 150 milioni che il decreto Irpef sottrae al canone per finanziare il bonus fiscale non è più «sostenibile». Lo dice il direttore generale Luigi Gubitosi, ascoltato ieri in commissione di vigilanza. «Il cda mi ha dato mandato di rivedere il piano e di avviare le attività propedeutiche alla cessione di una quota di minoranza di Raiway», la società del gruppo che si occupa delle torri di trasmissione. L’operazione sarà indispensabile per far quadrare in conti. Sostiene Gubitosi che sarà necessaria una «revisione in termini di offerta» e anche «gli obblighi di servizio pubblico andranno commisurati all’effettivo canone percepito. Non solo: «occorrerà ridefinire i livelli occupazionali compatibili». Per quanto riguarda Raiway, Gubitosi nega che sarà una svendita: sostenerlo senza conoscere prima il prezzo è «un atteggiamento figlio di una pregiudiziale ideologica» e «trattandosi della cessione di una quota di minoranza la società continuerebbe ad essere sottoposta al controllo della Rai e non ci sarà da pagare alcun affitto per l’uso delle infrastrutture».
Del 30/05/2014, pag. 4
Rai, «torri» in Borsa e tagli in vista Sarà ceduto un pacchetto di minoranza delle quote di RaiWay, l’unico modo per fare fronte al taglio dei 150 milioni di euro che il governo con il decreto Irpef ha imposto alla Rai, ma dovrà essere ridimensionato il «perimetro» del gruppo Rai e saranno rivisti «i livelli occupazionali». Una soluzione «fattibile entro l’anno», ha spiegato ieri il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, in commissione di Vigilanza. E per la «cessione in Borsa delle quote di minoranza» delle torri, gli impianti di trasmissione, il dg ha avuto mandato nel Cda di mercoledì a maggioranza, con l’astensione dei consiglieri del centrodestra, Rositani e Verro, e del centrista De Laurentiis, mentre è stata rinviata la decisione sul ricorso contro il decreto.Molti infatti temono la svendita di una fetta di patrimonio pubblico, tra questi il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, e l’Usigrai. Senza entrare in polemica diretta con il governo (rassegnato al taglio) Gubitosi non ha nascosto la necessità di dover rivedere il piano industriale 2013-2015, impostato su un rilancio dell’offerta, della tecnologia e dell’equilibrio economico-finanziario ». Perché, tra i 150 milioni in meno, i mondiali di calcio e gli altri 50 milioni di mancate entrate del canone «la Rai prevede una perdita di esercizio nel 2014 di 162 milioni», comunica il dg. Aviale Mazzini il salasso di 150 milioni ha scosso l’azienda; l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti, ha presentato un parere di incostituzionalità (di Alessandro Pace) per il prelievo sul canone imposto dal decreto e ha annunciato di sottoporlo alla Corte dei Conti. Ma anche ieri Renzi ha messo il capitolo tv pubblica fra le urgenze: «Le polemiche sulla Rai che ho ascoltato in questi giorni dicevano che noi volevamo distruggere la Rai del Maestro Manzi. Noi vogliamo lanciare invece una scommessa culturale», quanto al contratto di servizio, il premier si chiede: «È un documento burocratico che dobbiamo impostare o c’è dietro una proposta educativa?». Proprio sugli obblighi del servizio pubblico Gubitosi interverrà per «commisurarli al canone percepito»; le riduzioni di investimenti, per evitare «conflittualità» (leggi, tagli interni), toccheranno il settore Fiction e cinema nella «filiera» esterna, quindi a ricasco sull’indotto 33
dell’audiovisivo; e, riguardo alle sedi regionali, l’intervento è sugli immobili e su un centro di produzione. Dalla Vigilanza il capogruppo Pd, Vinicio Peluffo, è positivo: «Sono stati fatti passi avanti sia su Raiway che sul processo di razionalizzazione della spesa», perché il dg ha parlato di «quote di minoranza » cedute in Borsa quindi il controllo delle «torri» resta pubblico e, una volta assorbita la perdita, la Rai potrà «procedere nella revisione della spesa evitando la logica dei tagli lineari» ma valorizzando «gli asset aziendali grazie agli investimenti». Più calda invece la polemica tra Usigrai e Michele Anzaldi, Pd. Il sindacato accusa il premier di voler ridimensionare il servizio pubblico, e rilancia la proposta di un confronto, così «in 60 giorni facciamo la riforma della Rai». Secondo Anzaldi invece l’Usigrai è stata «silenziosa» sugli sprechi, sull’assunzione di manager esterni, sulla radio ridotta «ai minimi termini».
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CULTURA E SCUOLA del 30/05/14, pag. 5
Pochi, resistenti, giovani, precarissimi: il ritratto dei laureati negli anni di crisi Roberto Ciccarelli
Università. Choosy a chi? Laureati a 25 anni, tirocini, stage, master, ma il futuro è precario. Ci vuole stabilità, indipendenza e autonomia. I risultati dell'indagine Almalaurea condotta su 230 mila neo-dottori Laureati a meno di 23 anni prendono il titolo di studio terziario nel tempo previsto e sono impegnati in tirocini per acquisire competenze, contatti, relazioni. Quelli che hanno alle spalle una famiglia da ceto medio riescono più di altri a studiare all’estero, anche se nell’università riformata il numero di coloro che portano la laurea in famiglia per la prima volta resta alto. È il profilo dei laureati italiani descritto dal Consorzio Almalaurea nel XVI profilo presentato ieri all’Università di Scienze Gastronomiche di Bra. Calibrato in questo modo il profilo dei laureati sembrerebbe essere ricalcato sulla base del laureato modello sognato dai riformatori dell’istruzione di centro-sinistra e di centro-destra che da Ruberti nel 1989, passando per Berlinguer-Zecchino, è arrivata a Gelmini nel 2008: giovane, efficiente, pronto a sgomitare nella competizione quotidiana. Il sosia del soggetto neoliberale che si trova a proprio agio nell’economia della conoscenza. Basta leggere con attenzione il rapporto per scoprire come l’aurora di questo novello Prometeo non è mai nata e, anzi, conteneva i presupposti del suo fallimento. Almalaurea registra come la precarietà di massa, e la disoccupazione giovanile al 42,7% tra i 15–24 anni, abbiano modificato le scelte degli studenti e il loro atteggiamento rispetto al futuro. Tanto più a lungo il laureato sarà precario, cambiando lavori che non c’entrano nulla con il suo titolo di studio, tanto più sentirà il bisogno di equilibrare l’incertezza del futuro rafforzando le sue competenze. Agisce in questo modo il 76% dei 230 mila laureati in 64 atenei interpellati nell’indagine 2013. Per molti sarà una sorpresa, abituati come siamo al dogma «flessibili è bello», ma tra i laureati è forte l’esigenza della stabilità del posto del lavoro (66%), l’aspirazione ad una carriera (61%), al reddito (55%). Una sequenza tipica del lavoro professionale e del ceto medio, che sembra ormai perduto. Ciò non toglie che i laureati rivendichino nell’indagine autonomia sul lavoro e indipendenza nella vita. Elementi controcorrente nella società della dipendenza in cui viviamo. C’è anche un altro fattore da considerare: su cento laureati terminano l’università in corso 41 ragazzi nella triennale, 34 del ciclo unico e 52 magistrali. La precarietà inizia dunque prima che in passato, spingendo le nuove generazioni ad intensificare il numero delle esperienze di stage o tirocini, periodi di prova. Quello dell’iper-specializzazione è un fenomeno consolidato che oggi trova conferma nei comportamenti delle nuove generazioni. I tirocini sono centrali in tutti i corsi di laurea, coinvolgono il 61% dei laureati di primo livello, il 41% dei magistrali a ciclo unico, il 56% dei magistrali. Nel 2004 solo il 20% dei laureati aveva fatto questa esperienza. Anche questo dato conferma un’attitudine opposta dello stigma inflitto da ex ministri dell’università o del lavoro secondo i quali i laureati italiani sarebbero un popolo di lazzaroni «schizzinosi. Avere anticipato il tempo di laurea (in media 25,5 anni per il triennio, 26,8 per il ciclo unico, 27,8 per i magistrali biennali) non ha moltiplicato il numero dei laureati. L’Italia resta in fondo alle classifiche Ocse, un dato che rivela il fallimento della strategia «riformista», di 35
stampo produttivistico, adottata vent’anni fa. Nella fascia di età 25–34 anni solo il 21% ha la laurea rispetto alla media Ocse del 39%. Come in Romania. Una realtà che rende impossibile il raggiungimento del 40% di laureati, l’obiettivo della riforma «BerlinguerZecchino». Per raggiungerlo gli atenei hanno trasformato i loro corsi in spezzatini pronti all’uso, ma utilità sul mercato. Una volta sgonfiata la bolla formativa sono diminuite le immatricolazioni: nel 2003 erano 338 mila, 270 mila nel 2012 (-20%). Oggi solo 3 diplomati su 10 si iscrivono all’università, una realtà che rivela la crisi dell’università e ha prodotto fughe in avanti. Visto che un mercato per il lavoro cognitivo non esiste, meglio scegliere formazioni più «pratiche». Questa è la tentazione di chi vuole trasformare l’istruzione in una scuola professionale sul «modello tedesco». Almalaurea ha dimostrato, invece, che la laurea garantisce un tasso di occupazione di 13 punti maggiore rispetto ai diplomati (75,7% contro il 62,6%). Anche questo sembra un modo per difendersi contro la precarietà e la marea del lavoro gratuito.
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ECONOMIA E LAVORO
del 30/05/14, pag. 10
“Offro lavoro”, ma vogliono vendere soltanto master di Alessio Schiesari Sembra di stare al mercato delle vacche. Qui però sono le vacche a cercarsi un compratore, e fanno pure la fila”. Roberto, 29 anni, ingegnere meccanico, aspetta da mezz’ora di lasciare il curriculum allo stand di Trenitalia, una delle aziende che ha aderito al Job Meeting di Roma, al Salone delle Fontane dell’Eur. Il serpentone di ragazzi in doppiopetto o tailleur che ha davanti però sembra non smaltirsi mai. Magie della crisi: se i consumi e dati sull’occupazione crollano, chi procaccia o promette lavoro fa affari d’oro. Per capirlo basta il colpo d’occhio: alle 9 di mattina la fila per gli accrediti riempie il salone d’ingresso e arriva fino in strada. Nonostante l’evento sia rivolto ai giovani laureati, si trova di tutto: signore 50enni con un passato da segretarie ed ex quadri aziendali che hanno esaurito la cassa integrazione. L’unico tratto comune è l’obiettivo: la ricerca di lavoro. I più fortunati dovranno accontentarsi di uno stage. Dentro sembra una fiera commerciale: c’è chi regala matite, chi portachiavi, tutti con il logo aziendale. Indesit ne approfitta per esporre sul banchetto il nuovo modello di macchina da caffè. Camicia viola, pantaloni bianchi e cartellina con i curriculum in mano, Mirko D’Amore aspetta davanti a uno stand durante la pausa pranzo, “così salto la coda”. Ha 35 anni, di cui quindici di esperienza come tecnico informatico. Sul curriculum ha appuntato una mezza dozzina di certificazioni, eppure di lavoro neanche l’ombra. Non conta gli stand a cui ha lasciato il curriculum, ma quelli che gli mancano: “Ancora quattro”. su un totale di 44. Risposte positive? “Neomobile e Altran mi hanno proposto uno stage. Nessuno però guarda il curriculum: lo prendono e lo aggiungono alla pila. In cinque ore non mi hanno fatto nemmeno una domanda tecnica”. EFFETTIVAMENTE i colloqui con i ragazzi e le ragazzi degli espositori sono piuttosto brevi. Allo stand Telecom, dopo mezz’ora di fila, arriva è il turno di Giampiero. “Volevo lasciare il curriculum”, esordisce. “Non li prendiamo, puoi inviarlo tramite il nostro sito. Che laurea hai?”. “Umanistica”. “Niente, non abbiamo posizioni disponibili”, risponde il recruiter. “La mia ragazza è ingegnere. Che figura state cercando?”, insiste Giampiero. “Sono aperte le iscrizioni per il nostro master sulle smart city, dille di mandare il curriculum”. Formazione di secondo livello: questa è l’unica cosa che al job meeting non manca. In totale le università che hanno allestito uno spazio espositivo sono più di dieci, più un’altra decina di master proposti direttamente dalle aziende. “Il migliore è quello di Eni, ma costa 25 mila euro” – spiega Roberto, l’ingegnere meccanico incontrato prima –. Purtroppo però non me lo posso permettere. A settembre ne faccio uno a Modena, costa poco. È un modo per non stare con le mani in mano”. Questi sono i chiari di luna, con l’occupazione giovanile al 40 per cento. Chi non vuole fare il disoccupato, o emigra, come hanno fatto in 100 mila negli ultimi cinque anni, o continua a studiare. All’in - finito. Fuori c’è un gruppo di giovani ingegneri gestionali. Giulia si lamenta dell’organizzazione: “Dovrebbero scrivere quali aziende cercano cosa, altrimenti uno fa 40 minuti di fila per sentirsi dire ‘non stiamo cercando il tuo profilo”. Uno dei ragazzi che le sta accanto, un habituè del meeting, interviene: “Due anni fa c’era un libretto con tutte le posizioni aperte, non so perché non lo facciano più”. La risposta è scritta sulla prima pagina della guida di quest’anno: “Non 37
saremmo onesti se non riconocessimo che dopo 5 anni di crisi le opportunità di ingresso al lavoro per i laureati si sono molto abbassate”. “Trovare un lavoro è quasi impossibile – prosegue Giulia –. A uno stand mi hanno spiegato che assumono il 2% dei curriculum che selezionano. Non di quelli che ricevono, ma di quelli scelti”. “Io ci credo, secondo me questi eventi servono. Mi hanno fatto i complimenti per il voto di laurea”, la interrompe Michele. È pieno di entusiasmo, forse perché ha discusso la tesi due giorni fa. Adriano, laureato in psicologia, invece non ne può più: “Sto facendo la scuola di specializzazione di secondo livello, ho già l’abilitazione e 1200 ore di lavoro sul campo. L’unico impiego per cui ho ricevuto uno stipendio però è stato il call center”. Si sfoga, va a ruota libera: “Sono venuto stamattina perché nel volantino c’era scritto che le materie umanistiche erano tra le più ricercate, invece il mio curriculum qui non interessa nessuno”. E se non trovi lavoro a breve che fai? Ci pensa un po’, prima di rispondere: “Un altro master. Ce n’è uno in risorse umane a Roma che costa 10 mila euro. Magari con quello un lavoro lo trovo”.
del 30/05/14, pag. 3
Squinzi “rottama” il Jobs Act Antonio Sciotto
Assemblea di Confindustria. No al contratto a tutele crescenti, ma per il resto a tutto Renzi: «Non ci deludere». Imprese allineate al governo: «Ma ora le riforme». Guidi: «I profitti non sono da criminalizzare» E se c’era voluta una fatica bestiale per avere due ministri al congresso della Cgil (Poletti e Orlando), ieri invece il governo era in grande quantità e spolvero nelle prime file dell’Assemblea di Confindustria: Alfano, Guidi, Lupi, Pinotti, Orlando, Poletti, Galletti. Non c’era il premier Matteo Renzi, ma lo aveva ampiamente anticipato. C’erano ovviamente i past president (Abete, Marcegaglia, Cordero di Montezemolo), come il gotha delle banche (il governatore di Bankitalia Ignazio Visco in testa). Era difficile non aspettarsi un peana per i risultati delle europee – gli industriali si allineano in toto al vincente Renzi – ma forse la notizia più interessante è la “rottamazione” del contratto unico a tutele crescenti, che le imprese respingono ufficialmente. Quella che doveva essere la seconda parte del Jobs Act, dopo i “dolori” del decreto Poletti, e che in parte avrebbe dovuto risarcire i lavoratori della imponente dose di precarietà ricevuta, adesso insomma vacilla. Il presidente Giorgio Squinzi, nella sua relazione, promuove la legge sui contratti a termine e apprendistato: «efficace», «un segnale importante». Ma poi, subito dopo, aggiunge: «Non abbiamo bisogno di un nuovo contratto, neppure a tutele crescenti». Piuttosto – continua – «abbiamo bisogno di semplificare e migliorare la disciplina di quello a tempo indeterminato, rendendolo più conveniente e attrattivo per le imprese, lasciandole più libere di organizzare in maniera flessibile i processi di produzione e rimuovendo gli ostacoli che scoraggiano le assunzioni». Non è un attacco esplicito all’articolo 18, ma ci va molto vicino: è indicativo intanto che si respinga l’idea di introdurre un nuovo contratto, perché può voler dire che non si devono toccare le tante tipologie atipiche (una delle condizioni, almeno enunciata all’inizio da Renzi, era quella di affiancare al contratto «unico» a tutele crescenti, un «disboscamento» degli altri contratti). Ma, soprattutto, si invita il governo a rendere «attrattivo» l’attuale tempo indeterminato: il che può voler dire incentivi o un costo più basso (idea di per sé non negativa, sostenuta di recente anche dallo stesso ministro Poletti), ma anche una 38
maggiore flessibilità in uscita (e qui c’è un’inevitabile minaccia all’articolo 18: sostituendo magari l’obbligo di reintegro con un risarcimento?). Più esplicita la richiesta di decentrare i contratti, indebolendo sempre di più il livello nazionale a favore di quello aziendale, e legando i salari alla produttività: «Dobbiamo andare avanti nel decentramento della contrattazione collettiva – dice Squinzi – Favorendo la contrattazione aziendale virtuosa, che lega i salari ai risultati aziendali. Sarebbe di grande utilità una legislazione contributiva e fiscale, che premi, in modo significativo e strutturale, il decentramento». Ancora: «Occorre decontribuire e detassare il salario di produttività, anche se nasce dall’autonoma decisione dell’imprenditore». Insomma, anche se non ci sono accordi con i sindacati, l’impresa può erogare premi, e il governo deve sostenerla. Immediato lo stop della Cisl, che in generale ama la contrattazione decentrata: «Premiamo la contrattazione aziendale, ma appunto attraverso gli accordi: altrimenti si rischia il paternalismo dell’imprenditore», dice infastidito Raffaele Bonanni. Mentre la leader Cgil Susanna Camusso boccia senza appello la posizione sul Jobs Act: «Nel descrivere il mercato del lavoro, Squinzi ha omesso di citare la precarietà: trovo sbagliata la chiusura di Confindustria sul contratto unico». Per Squinzi il quadro uscito dalle elezioni europee è positivo. Innanzitutto «l’Europa deve avviare un ciclo macroeconomico espansivo, abbandonando il rigore fine a se stesso». E il premier italiano può guidare questo processo: «Il mandato popolare dato al principale partito di governo e al suo leader Matteo Renzi, testimonia la voglia di cambiamento che c’è nel Paese. Questa voglia attende fatti e riforme per la crescita». «La nostra disponibilità è immutata e completa – continua Squinzi – Sulla scheda uscita dall’urna c’è scritto: fate le riforme, ne abbiamo bisogno. Non deludeteci». Dopo le aspre critiche rivolte all’esecutivo Letta, e gli iniziali dubbi per l’avvio dell’esperienza Renzi, insomma, adesso è scoppiato l’amore imprese-governo. Con una speranza, che ora anche il Paese ami gli industriali, perché secondo Squinzi sopravvive in Italia «una visione pregiudiziale: qui chi fa impresa è spesso trattato come un nemico della legge o un soggetto che tenta di aggirarla», mentre «l’articolo 41 della Costituzione dice: l’iniziativa economica privata è libera». Niente paura, «un po’ emozionata» (lo ammette lei stessa) sale sul palco una imprenditrice, ex vicepresidente di Confindustria, oggi ministra: Federica Guidi. Tra gli applausi, elenca le passate e future iniziative del governo a favore dei suoi (ex) colleghi, e conclude: «Dobbiamo dire basta alla dilagante cultura anti-imprenditoriale. Basta alla criminalizzazione del profitto», perché «solo un imprenditore che fa profitti può investire, crescere e dare occupazione». E basta ai dibattiti «italioti» e «surreali» sul lavoro, perché «nessun imprenditore licenzierà mai un dipendente per capriccio». Il sorriso ironico di Camusso, inquadrata dalle telecamere dell’Auditorium, è l’unico contraltare agli applausi.
Del 30/05/2014, pag. 10
LA GIORNATA
Sconti fiscali, incentivi e risparmi sull’energia ecco gli aiuti alle aziende Pronte le misure del governo. Squinzi rilancia “Nel 2014 niente crescita. Stop a burocrazia e corruzione” 39
VALENTINA CONTE ROMA . Uno sconto fiscale consistente per le imprese che investono in attrezzature, macchinari, impianti, software. L’estensione dell’Ace, l’incentivo alla capitalizzazione, anche alle aziende che non sono in utile ma vogliono crescere. Una riduzione del 10% della bolletta elettrica per le piccole e medie imprese. Questi i tre capisaldi del “decreto competitività” che arriverà in Consiglio dei ministri il prossimo 20 giugno, come annunciato ieri dal premier Matteo Renzi alla direzione nazionale del Pd e illustrato dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi all’assemblea generale di Confindustria. A cui si affiancherà «nelle prossime settimane un piano straordinario per il made in Italy», anticipa Guidi, con l’obiettivo di aumentare «le imprese stabilmente esportatrici di almeno 20 mila unità entro il 2015». «Dobbiamo spingere le nostre imprese a internazionalizzarsi, a fare ricerca, a innovare», incalza il ministro. Ma «chi corrompe non può stare in Confindustria», minaccia il presidente degli industriali Giorgio Squinzi, perché «fa male alla comunità e al mercato». E «qualsiasi macchia si faccia all’Expo non è grave, è imperdonabile». È questo «il momento di costruire un’Italia nuova», continua Squinzi. Un’Italia che «lega i salari ai risultati aziendali». Che ha bisogno di un contratto a tempo indeterminato conveniente e semplificato, ma non a tutele crescenti. E di «decidere rapidamente». «Il tempo delle eterne liturgie è trascorso», dice ai sindacati. Al governo Squinzi chiede di passare ai fatti: «La nostra disponibilità è immutata e completa, fate le riforme, ne abbiamo bisogno per ricreare lavoro, reddito, coesione sociale. Non deludeteci». Anche perché, dice ancora Squinzi, «la crescita nel 2014 non ci sarà». Renzi risponde per ora con il decreto competitività. Provvedimento in gestazione, probabilmente un decreto legge, frutto della triangolazione tra Palazzo Chigi, Economia e Sviluppo economico. Al suo interno troverà posto una «significativa agevolazione fiscale» sul 50% di investimenti extra che l’impresa deciderà di fare - «in beni strumentali e asset intangibili» - lungo una finestra di tempo prefissata, si pensa ad un anno. In pratica, se incremento gli investimenti di 20 milioni, su 10 milioni avrò un bonus fiscale, ancora da quantificare. La misura sarebbe dunque una tantum, a cavallo del 2014 e 2015. Una sorta di Tremonti bis da affiancare alla nuova Sabatini e al credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo, entrambe misure già avviate dal ministro Guidi. Nel decreto ci sarà poi il pacchetto per «rafforzare il patrimonio delle imprese» e favorire «la loro quotazione in Borsa», visto che «sono molto indebitate e le banche avranno maggiori difficoltà a sostenere questi livelli di indebitamento». L’incentivo si sostanzia nell’estendere l’Ace l’Aiuto alla crescita economica ideato dal governo Monti - anche alle aziende che non fanno margini e vogliono rilanciarsi. In pratica la deduzione fiscale per le imprese che ricapitalizzano varrà non solo ai fini Ires (imprese in utile), ma anche ai fini Irap, a partire dal 2015 sui redditi di quest’anno. Infine il piano di riduzione della bolletta energetica per un miliardo e mezzo dal 2015, il 10% in meno. «È mia intenzione compiere per la prima volta un’ampia opera di equità tariffaria, limando tutte le forme di sovra-remunerazione», ha spiegato ieri Guidi. Si punta ad eliminare extra costi e voci improprie, oltre che a comprimere alcune voci, come gli incentivi alle rinnovabili. In totale circa 15 interventi sulle componenti in bolletta.
Del 30/05/2014, pag. 6
Camusso: da noi il festival della precarietà Sarebbe utile che la Confindustria si accorgesse che descrive un mercato del lavoro che non c'è, non affronta il tema della precarietà ». Parole come pietre quelle di Susanna 40
Camusso sull’intervento del presidente Giorgio Squinzi in assemblea. Il tema dell’occupazione torna al centro dell’agenda politica, dopo il lungo intervallo di campagna elettorale. Lo stesso premier lo ricorda parlando alla direzione del Pd. Il lavoro «è la madre di tutte le battaglie- dice Matteo Renzi - Faremo un passo avanti sul ddl delega. Su questo tema saremo giudicati più che dai mercati internazionali, da potenziali investitori. Mai come ora c'è uno sguardo di attenzione verso l'Italia». Tutti ne parlano,ma sulla strada da adottare non c’è uniformità di vedute. Nemmeno tra due leader, Camusso e Squinzi, che finora si sono ritrovati alleati su diversi fronti. Sul tavolo ci sono i diritti dei lavoratori, che in questi giorni hanno subito parecchie revisioni prima con il decreto Poletti, poi con il disegno di legge oggi ancora all’esame del Parlamento. «Non si può immaginare un sistema competitivo se non si torna ad avere un ruolo di certezza nel mercato del lavoro - aggiunge Camusso - È sbagliata la chiusura che Confindustria fa alla costituzione di un contratto unico perché vuol dire far finta che non ci sia il tema della precarietà». IL CONTRATTO Squinzi aveva da poco bocciato l’ipotesi di un contratto unico a tutele crescenti contenuta nel disegno di legge. Per «abbiamo bisogno di semplificare e migliorare la disciplina di quello a tempo indeterminato, rendendolo più conveniente e attrattivo per le imprese, lasciandole più libere di organizzare in maniera flessibile i processi di produzione e rimuovendo gli ostacoli che scoraggiano le assunzioni». Ancora ostacoli, anche dopo aver ridimensionato l’articolo 18 con la riforma Fornero, e dopo aver consentito alle imprese di assumere a termine senza causale con contratti fino a 3 anni. Cosa sarebbe d’ostacolo non si comprende proprio. Quanto alla flessibilità oraria, basta chiedere a qualsiasi lavoratore dipendente per scoprire che in sostanza tutti i «paletti » sono ormai saltati. Altro che cultura anti-impresa, come declama Federica Guidi dallo stesso palco di Confindustria. E la Cgil va all’affondo. «Sollecitiamo soprattutto un salto di qualità sulla partecipazione, invece ho letto nella relazione di Squinzi un orgoglio di autosufficienza delle imprese - così il segretario Camusso L'omissione di partenza è che si pensa che il mercato del lavoro sia quello regolato dalle leggi e non quello che è diventato un vero e proprio festival della precarietà e delle mille forme contrattuali. Questo continua ad essere un elemento di dumping sul lavoro, abbiamo invece bisogno di costruire un sistema di certezze che è quello che permette di investire sui lavoratori». Squinzi avanza poi le sue richieste di nuove tutele del lavoro. «Un’azione forte sulle politiche attive», con un cambiamento radicale dei i meccanismi che si occupano di far incontrare domanda e offerta. «Non bastano le politiche di sostegno al reddito dei lavoratori - spiega - le uniche su cui l’Italia ha finora messo risorse. Perché il mercato sia dinamico bisogna assicurare azioni efficaci per la formazione e il ricollocamento dei lavoratori». Ma subito dopo il presidente mantiene il punto su uno strumento tradizionale del sistema italiano. «Abbiamo bisogno di due strumenti - spiega - la cassa integrazione per rispondere alle crisi in cui si possa prevedere un recupero di attività, e l’assicurazione sociale per l’impiego per chi cerca in modo realmente attivo una nuova occupazione».
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