A09 68
Gino Pagano
Profilo storico dell’industria chimica
ARACNE
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[email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN
88–548–0677–3
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La consapevolezza di non poter dare risposte sempre soddisfacenti ai tanti quesiti che una storia come quella qui raccontata propone, mi ha indotto a riporre in un cassetto tutto il materiale che nel corso degli anni avevo raccolto ed elaborato. Purtroppo l’improvvida generosità di amici e colleghi ha fatto sì che estraessi da quello stesso cassetto tutto il materiale e lo affidassi alle sapienti cure della dottoressa Emanuela Fraccaroli, che sentitamente ringrazio, augurandomi che anche i lettori vogliano fare lo stesso.
Indice
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Introduzione Capitolo I L’era preindustriale. Dalla preistoria al Settecento
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Capitolo II La nascita dell’industria chimica. Un drammatico esordio
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Capitolo III Da Lavoisier alla metà dell’Ottocento
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Capitolo IV L’industria chimica europea nella seconda metà dell’Ottocento
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Capitolo V La Germania e gli Stati Uniti protagonisti della nuova industria chimica
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Capitolo VI Cultura chimica, biochimica e ingegneristica nell’Ottocento e suo contributo allo sviluppo industriale
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Capitolo VII L’inizio del Novecento
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Capitolo VIII La chimica nella morsa della guerra e del dopoguerra (1914–1926)
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Capitolo IX Chimica – petrolchimica – carbochimica – raffinazione (1926–1940)
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Capitolo X Chimica, petrolchimica e raffinazione
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Indice
Capitolo XI Chimica, petrolchimica e raffinazione negli anni del secondo dopoguerra (1945–1960)
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Capitolo XII Le grandi trasformazioni degli anni Sessanta e Settanta
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Capitolo XIII Ricerca, ingegneria e industrie chimiche negli anni della globalizzazione e delle grandi concentrazioni (1980–1999)
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Considerazioni conclusive
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Indice dei nomi
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Introduzione Scrivere una storia dell’industria chimica implicherebbe la scrittura di una Enciclopedia ed io non ho la pretesa di potermi assumere un compito di questa portata. Ma mi rendo ben conto che anche scrivere un profilo storico di questa industria costituisce un obiettivo ambizioso e, dal punto di vista qualitativo, forse addirittura più impegnativo. È perciò doveroso scusarmi in anticipo con il Lettore per quei peccati di presunzione che Egli dovesse rilevare a carico dell’autore. Ma di ben altro devo ancora scusarmi con Lui. Devo infatti onestamente confessare al Lettore, che si accinge a seguirmi pazientemente nella mia fatica, che questo libro non l’ho scritto per Lui, ma per me stesso. Se così non fosse stato, credo che non avrei osato affidare le bozze alla stampa. Mano a mano che il lavoro procedeva, ho infatti acquisito piena consapevolezza che la tenacia e l’impegno posti per esporre, con ordine e chiarezza, gli eventi che mi sono parsi più significativi nello sviluppo dell’industria chimica non sono sufficienti a produrre un’opera organica. Ma anche un’opera imperfetta e largamente carente arricchisce di conoscenze nuove chi l’ha elaborata e, in qualche misura, anche chi la legge per rilevarne imperfezioni e carenze. Il Lettore avvertito potrà ora decidere più consapevolmente. Se vorrà dedicare un po’ del suo tempo alla lettura di questo profilo storico dell’industria chimica lo faccia con paziente attenzione e con generoso spirito critico. In fondo un profilo storico come introduzione alla storia dell’industria chimica è pur sempre un contributo alla storia dell’Uomo.
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L’era preindustriale Dalla preistoria al Settecento
La miriade di prodotti che l’industria chimica mette continuamente a disposizione ci rende pienamente consapevoli che la sua attività e il suo progredire sono indispensabili per soddisfare gran parte dei bisogni fondamentali di una moderna società avanzata. Sicché facciamo fatica ad immaginare un mondo che per millenni ha fatto ricorso, per le proprie esigenze, a prodotti naturali ottenuti con manipolazioni artigianali. Perciò seguire l’evolversi della capacità umana di corrispondere ai bisogni gradualmente più articolati di una civiltà in cammino verso la modernità, potrà servire a dare qualche risposta alle tante domande che quella legittima curiosità ci suggerisce. Per millenni in questo ambito l’attività delle popolazioni più evolute si è espressa attraverso la capacità manifatturiera di artigiani che, con metodi empirici, hanno ottenuto prodotti ed oggetti avvalendosi di materie prime naturali, organiche ed inorganiche, di origine minerale, vegetale o animale, raggiungendo talvolta, per alcuni manufatti, un livello qualitativo tuttora insuperato. Alcuni rami di quest’attività costituiscono addirittura l’essenza dei capitoli più significativi della Storia dell’Arte. Esigenze di sintesi impongono però di fornire al Lettore, con una rapida carrellata su alcuni millenni di storia, gli aspetti essenziali di questa feconda attività umana. Peraltro la letteratura al riguardo è ricca di testi che illustrano, con dovizia di indagini e documenti, i vari argomenti in cui si articola e si esprime il progresso dell’uomo nella realizzazione delle sue capacità creative. La curiosità, che svaria dalla fumisteria degli alchimisti all’«ansia dell’ignoto» leonardesca, l’esigenza utilitaristica, che sembra presiedere a tutte le azioni dell’«homo sapiens», l’istinto di sopravvivenza, che la paura trasforma in istinto di sopraffazione, il senso naturale delle proporzioni e dell’armonia, che si nobilita in amore dell’Arte (quando non è pura ostentazione di ricchezza cioè di potenza) sono tutti ingredienti di questa vicenda umana: vicenda drammatica e talvolta tragica, in cui schiavi, artigiani, mercanti, guerrieri, sacerdoti, filosofi, ciarlatani, uomini potenti e sudditi si adoperano per produrre, con la forza delle mani, con la capacità dell’ingegno o con l’imperio del potere, cose utili o necessarie alla comunità in cui vivono o anche solo destinate al diletto del po11
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Capitolo I
tente da compiacere. Così l’uomo apprende nei secoli più remoti ad estrarre e lavorare quei metalli come rame, stagno, piombo, oro, argento e ferro, che ancora oggi sono in così larga misura presenti nei manufatti prodotti dalla nostra civiltà. Così impara a procacciarsi sale, salnitro, zolfo, carbone, soda, potassa e allume. Parallelamente apprende a fabbricare, vetro, ceramiche, maiolica, e carta e a preparare terre coloranti per la decorazione dei manufatti e sostanze colorate e coloranti, vegetali ed animali, per i tessuti. Quando, dove e come tutto ciò è avvenuto? Da vari indizi, da testimonianze storiche e dagli innumerevoli reperti archeologici si può assumere che, in varia misura, ogni popolazione ha manifestato la capacità di sopperire alle proprie fondamentali esigenze con modalità riferibili alla propria situazione geografica ed ambientale, culturale e sociale, religiosa e civile. Ma certo il continente eurasiatico è stato sede delle manifestazioni più significative e durature, che si sono verificate con maggiore intensità particolarmente in Cina, nell’Asia Minore, nella penisola arabica e nel bacino del Mediterraneo. Infatti i reperti archeologici ci fanno ritenere che già circa 3000 anni a.C. in Cina, 4000 anni a.C. in Egitto e addirittura 5000 anni a.C. in Assiria e Babilonia, la civiltà avesse raggiunto un grado di maturità e di organizzazione, con consistenti attività agricole ed artigianali, del tutto ignote ai cavernicoli e ai nomadi di altre regioni. I Cinesi già nel quarto secolo a.C. fabbricavano carta con canapa e bambù. Ma solo più tardi fabbricarono quella che oggi chiamiamo carta impiegando lino e canapa o le fibre trovate nella corteccia di alberi particolari come il gelso. L’inventore della carta come precursore della tecnica che fa ricorso alle paste cellulosiche è generalmente considerato l’eunuco1 cinese Ts’ai Lun, che avrebbe diffuso fin dal 105 d.C. un processo di fabbricazione che prevede la sfibratura di stracci di seta e lino. Antichissime sono in Cina la fusione dei minerali e del bronzo, la lavorazione del legno e quella delle pelli e delle vernici; successiva la lavorazione della porcellana, che pure ha preceduto quella europea di circa un millennio. Così la pratica dei pozzi artesiani che in Cina risale ai tempi più remoti. In Egitto invece, già 2000 anni a.C. si sapevano lavorare metalli e leghe e gli Egiziani erano esperti nella tintura, nella fabbricazione del vetro e nella preparazione e nell’impiego di 1. Già allora la ricerca richiedeva l’appoggio dei potenti che risiedevano nei quartieri imperiali. Si ritiene che fosse stato più facile accedervi per chi garantiva di non avere interessi “galanti”.
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prodotti farmaceutici ed antisettici. Ma non si trattava, per quest’ultima attività, di conoscenze diffuse, perché la chimica era ritenuta arte santa, riservata ai sacerdoti e a pochi eletti, che svolgevano il loro lavoro in laboratori annessi ai templi. La tecnica di mummificazione fa ritenere che fosse già nota l’azione putrefacente dell’aria su certe sostanza organiche. E merita una menzione la preparazione del cloruro ammonico, che nell’oasi di Giove Ammone (Ammoniakon) veniva ottenuto mediante distillazione secca dello sterco di cammello. Dipinti fatti in Egitto 1600 anni a.C. rivelano una tecnica che dispone già di quindici differenti colori. In materia di colori, per sottolineare l’importanza attribuita nell’antichità a questo settore merceologico, occorre ricordare che i Fenici conquistarono e detennero a lungo il monopolio della produzione e del commercio della porpora, estratta dal murice (murex brandaris), un mollusco del Mediterraneo. Peraltro gli Egiziani erano in grado di preparare il rosso con ocra e cinabro, il bianco mescolando gesso con chiara d’uovo e miele, il giallo con terra d’ocra o con solfuro d’arsenico naturale (orpimento), il blu con lazulite, minerale costituito da fosfato basico di Al, Fe, e Mg, o con vetriolo azzurro (solfato di rame CuSO45H2 O) e il nero con carbone d’ossa. I colori venivano poi fissati al substrato, stemperandoli in una soluzione acquosa di gomma adragante, una mucillagine ricavata dai fusti e dai rami dell’astragalo. Un cenno meritano anche le sostanza alcaline (una più precisa definizione chimica, riferita a quei tempi, sarebbe impropria) impiegate per la produzione di saponi, vetro, tessuti e per altri usi di varia importanza, incluso quello dell’imbalsamazione dei cadaveri. In Egitto le fonti naturali erano costituite da alcune limitate mineralizzazioni nelle zone desertiche, contenenti natron (Na2CO3) e termonatrite (Na2CO3H2 O) o dalle ceneri della pianta salina, “salsola soda”, mentre la potassa si ricavava lisciviando le ceneri di legna, come ancora facevano le nostre nonne quando c’era da provvedere al bucato in campagna. Anche allora la gente cercava di migliorare il proprio aspetto e, a tal fine, precorrendo i tempi di qualche millennio, impiegava oli, unguenti, polveri, colori e talvolta anche fanghi. Documenti rinvenuti in Egitto ed in Paesi dell’Asia Minore, nonché la stessa Bibbia, menzionano spesso l’uso di oli naturali, pigmenti e sostanze aromatiche. I Greci, e più tardi i Romani, si concedevano bagni elaborati, seguiti da massaggi con oli profumati. A Cleopatra si accredita addirittura l’impiego, per uso cosmetico, di fanghi del Mar Morto. La ceramica (kéramikós da kéramos = argilla, terra da vasaio) fiorisce già nell’Egitto faraonico ed in
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Capitolo I
Mesopotamia, ma raggiungerà poi in Grecia ed in Etruria i più alti livelli di tecnica manifatturiera e di perfezione stilistica. Questa materia merita di essere qui ricordata proprio perché i legami che ha posto in essere tra l’uomo e quelle materie prime, unitamente alle corrispondenti tecniche di lavorazione, sarebbero diventati, a distanza di millenni, di fondamentale importanza nello sviluppo dell’industria chimica. I minerali argillosi in questione (che possiamo definire oggi come silicati idrati di alluminio) rappresentano il primo materiale plastico termoindurente, che la natura ha messo a disposizione dell’uomo. Ma i fabbricanti di vasi, stoviglie, frontoni, statuine, oggetti ornamentali ed altri articoli di vario genere, dovettero poi cimentarsi anche con le operazioni di cottura dei manufatti prodotti e con la vetrificazione e coloritura della superficie. La cottura comportò il passaggio dalle primitive operazioni eseguite bruciando legna all’aria aperta, all’impiego di forni progettati ad hoc ed alimentati dalla combustione di carbone di legna (argomento da riprendere nell’esame delle antiche tecniche metallurgiche). Per la smaltatura, intesa come formazione di uno strato superficiale vetroso trasparente, si ricorreva a materiali fusi che venivano cotti sul supporto di materiale argilloso. I tipi più ricorrenti di smalto erano vetri alcalini, al piombo, feldspatici o un rivestimento salino ottenuto per deposito di vapori di sale comune. La varietà di colori poteva essere ottenuta o mediante differenti tipi di argilla bianca, grigia, crema, marrone, rossa, bruna o mediante smaltatura con vetri colorati contenenti rame o ferro (verde, turchese e giallo dell’antico Egitto e dell’Assiria). La lavorazione dei metalli e l’arte ceramica comportarono dunque la messa a punto di complessi sistemi di lavoro. Per la fabbricazione di utensili, armi e oggetti ornamentali si disponeva di stampi e forni fusori; così come torni da vasaio, carbonaie e forni di cottura erano il corredo indispensabile per questo genere di attività. Le produzioni erano destinate sia al mercato interno sia all’esportazione. Ed il commercio era regolato da un sistema preciso e sufficientemente conosciuto di pesi ed unità monetarie, che, già tra il 2000 e il 1500 a.C. nell’era minoica, era basato su barre di oro e di rame. Quando si accenna all’attività commerciale, veicolo indispensabile per la diffusione del progresso, non si può fare a meno di menzionare i Fenici del Libano e la famosa città di Tiro, che raggiunse un’ineguagliata potenza commerciale e marittima. Ma restando nell’ambito della storia di più immediato interesse occorre ricordare che i Fenici conquistarono, oltre ad un sostanziale monopolio nel trasporto marittimo
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del rame, dell’argento e della porpora (di quest’ultima erano anche produttori), anche il monopolio dello stagno che andavano ad approvvigionare nelle misteriose isole cassiterèe (isole britanniche). I Fenici, assicurandosi il controllo di materie prime molto richieste e l’esclusiva del trasporto, mediante la loro flotta, e della commercializzazione, mediante i loro empori strategicamente ubicati, sono stati i precursori delle moderne grandi compagnie di intermediazione o di “brokeraggio”. Ma forse il popolo che nello sviluppo dell’attività estrattiva più si è avvicinato, in questa protostoria, ad un modello di organizzazione industriale è stato quello etrusco. Qui ci riferiamo alla siderurgia estrattiva etrusca, ritenendola quella che ha maggior titolo per rientrare nella sostanza tra le attività industriali chimiche di nostro interesse. Infatti le prime officine dell’industria pesante dell’Occidente sorsero nel VII secolo a.C., tra l’isola d’Elba e il monte Amiata, a Populonia e Vetulonia, e, in val di Cecina, a Volterra. Si tenga conto che fino a circa 1000 anni a.C. il ferro era considerato metallo più prezioso dell’oro; tant’è che il pugnale di ferro di Tutankamon, risalente al 1360 a.C. è così prezioso che ad esso viene riservato un posto privilegiato nella cassa d’oro più interna della tomba. Il ferro infatti poté essere ottenuto in misura massiccia solo quando la protosiderurgia estrattiva realizzò forni di fusione e riduzione capaci di raggiungere temperature di circa 500°C più elevate di quella di fusione del rame che è di 1083°C. E vero peraltro che il know how di questo processo di fusione apparteneva molto tempo prima agli Ittiti, il cui re Hattusili si lamenta, in una lettera inviata ad un potente vicino, di avere poco ferro nella sua tesoreria. Quando però gli Ittiti furono sconfitti questo loro segreto di fabbricazione divenne preda bellica dei vincitori, inaugurando una consuetudine che si è protratta fino ai nostri giorni. Furono quindi i Filistei, alquanto più tardi, ad installare i primi impianti per la lavorazione del ferro a sud di Gaza, tentando di creare un monopolio, presto contestato da re Davide. Sicché poi anche Israele poté dotarsi di armi di ferro per combattere i suoi nemici. Lo sviluppo della produzione del ferro in tutta l’Asia Minore comportò anche la progressiva sostituzione del bronzo, dando così una dimensione senza confini al mercato del prodotto siderurgico. Non interessa, ai nostri fini, seguire i grandi rivolgimenti politici fino al 650 a.C. circa, quando il mondo del vicino Oriente, dall’Egitto all’Asia Minore, si presentava come un territorio devastato, sotto il dominio dell’impero Assiro. Interessa però rilevare che, interrotta la già fiorente attività commerciale
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Capitolo I
marittima nel Mediterraneo Orientale e precluso l’accesso alle miniere di ferro dell’Anatolia, si apriva la caccia ad altri mercati e a nuove fonti minerarie. Così l’industria metallurgica etrusca fiorì, sviluppando particolarmente il settore siderurgico, per la straordinaria concomitanza di varie circostanze favorevoli: da un lato la richiesta del mercato e la disponibilità di proprie fonti di approvvigionamento, dall’altro le doti di intraprendenza e la vocazione commerciale e marinara di un popolo capace di soggiogare i vicini, in virtù del fascino che emana chi è portatore di civiltà e progresso. I forni fusori etruschi sono stati trovati in qualche caso così ben conservati da consentirci lo studio della loro struttura. Pur rinunciando a descrivere l’interessante architettura dei forni, vale però la pena ricordare la geniale disposizione adottata; fu geniale infatti costruire gli altiforni sulle pendici del monte vicino alla miniera, in modo che i venti ascendenti e discendenti fungessero da mantici naturali. Per provvedere invece alle enormi quantità di legna da fornire alle carbonaie, gli Etruschi adottarono moderne misure di economia forestale. Ricerche effettuate su tronchi carbonizzati hanno infatti evidenziato anelli ventennali, a dimostrazione che quel popolo seguiva un metodo di taglio a rotazione, praticando, già allora, un disboscamento pianificato. È suggestivo collegare il passato remoto a quello prossimo della storia italiana del Novecento, ricordando la vicenda dei terreni rugginosi degli sterri di Populonia. Quando furono analizzati, all’inizio della prima guerra mondiale, si scoprì che contenevano circa un terzo di ferro e perciò si decise di utilizzarli per alimentare la nostra industria siderurgica di guerra. Sicché lo studioso suggerisce che le battaglie dell’Isonzo del 1917 siano state combattute da parte italiana col contributo del ferro etrusco. Naturalmente sulla qualità del prodotto ottenuto dalla siderurgia etrusca influivano la qualità del minerale e del carbone, la forma del forno (grossomodo cilindrico verticale), nonché la già richiamata ventilazione naturale influenzata dall’ubicazione. Il prodotto di quest’attività protosiderurgica non era quindi l’acciaio, ma un ferro spugnoso allo stato pastoso, ricco di inclusioni di ossidi, dolce e ben malleabile. La produzione del ferro, come quella della polvere nera, dei metalli, del vetro, dei coloranti, della carta e degli inchiostri (per citare alcuni prodotti di massa che sono entrati in modo permanente nell’economia dei mercati mondiali), delineano un filo conduttore nelle scelte dell’homo sapiens. Invero talvolta poco sapiens se, al desiderio di comunicare con documenti scritti e raffigurazioni artistiche (carta, inchiostri, colori, marmo, bronzo ecc.), associa poi l’intento di preva-
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lere e quindi di combattere con tutta la varietà di strumenti, offensivi e difensivi, che il progresso tecnico gli ha gradualmente messo a disposizione in ragione delle materie disponibili (rame, bronzo, ferro, fuoco greco, polvere nera, esplosivi, ecc.). Ed in questo quadro, la naturale propensione umana all’arricchimento favorisce, almeno inizialmente, l’inserimento dell’alchimia fra le attività umane di una società, che comincia a subire il fascino degli illusionisti. Infatti, in origine, gli alchimisti si propongono come ideatori di processi capaci di trasformare materie prime comuni e di modesto valore in sostanze pregiate, come oro e argento. Perciò le vicende degli alchimisti dovrebbero interessare più la storia della chimica che quella dell’industria chimica. Sennonché nell’evolversi di quell’artigianato chimico, che ha costituito un’importante premessa dell’attività industriale, la presenza degli alchimisti è stata registrata come fatto di significativo rilievo. Infatti nei confronti degli alchimisti prevalse spesso la convinzione, talvolta fondata, che la loro capacità di “falsificazione” potesse alterare il mercato. Tant’è che già nel 144 a.C. era stato emesso in Cina un editto contro i fabbricanti di “oro falso” e, nel 292 d.C. a Roma, Diocleziano aveva ordinato di bruciare i libri di alchimia, sempre nell’intento di evitare la falsificazione dell’oro. Forse la critica più feroce rivolta all’alchimia è quella espressa intorno all’anno 1000 da Avicenna, allora il medico più famoso dell’Islam. Così suona infatti l’insultante anatema che egli indirizzava agli alchimisti: «Voi volete trasformare una materia che non conoscete in un’altra ugualmente sconosciuta mediante un processo che ignorate». L’alchimia fu peraltro praticata, a partire dal III–IV sec. d.C., sia in Oriente che in Occidente, trovando cultori sia nel mondo islamico che in quello ebraico–cristiano. Nel Medioevo fu addirittura praticata da dotti ed ecclesiastici quali Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e R. Bacone. Il progredire della chimica come disciplina scientifica finì però col rendere sempre più marcato il carattere esoterico dell’alchimia. Va tuttavia riconosciuto agli alchimisti il merito di avere contribuito allo sviluppo e al progresso di un’importante attività artigianale di produzione chimica mediante l’ideazione e la costruzione di importanti apparecchiature chimiche quali forni, storte, alambicchi, distillatori e tante altre ancora. Il pensiero moderno (G. Bachelard, C. G. Jung ed altri) ha giustificato, se non rivalutato, proprio l’esoterismo degli alchimisti, considerando il linguaggio simbolico dell’alchimia frutto delle strutture archetipiche della psiche umana. È però tempo ora di tornare a quei settori merceologici che sono stati coltivati per millenni
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Capitolo I
con metodi artigianali fino a diventare, nell’era moderna, fondamentali comparti dell’industria chimica. In quest’elencazione gli esplosivi meritano un posto d’onore sia per la singolarità della loro storia sia per la genialità degli inventori che ne hanno determinato lo sviluppo. Gli esplosivi blandi, cioè le polveri deflagranti, come la polvere nera, le polveri da lancio e i fuochi d’artificio nascono in Cina circa 2000 anni fa, ma certamente non come strumenti di distruzione. La polvere nera è costituita da una miscela di nitrato (di sodio o di potassio), carbone e zolfo, ingredienti, in senso tecnico, non esplosivi. Essa fu conosciuta nell’Europa Orientale intorno al 700 d.C. con la denominazione di fuoco greco o fuoco marino, e impiegata anche in battaglia. Nell’Europa Occidentale la polvere nera fu introdotta intorno alla metà del XIII secolo da Roger Bacon, ma inizialmente veniva usata solo per sfruttarne gli effetti pirotecnici ed incendiari. Quando però in Germania, nel 1313, fu inventato il cannone, la polvere nera cominciò ad essere impiegata come propellente. Bisognerà aspettare tre secoli per vedere, nel 1613, la polvere nera impiegata per la prima volta in Sassonia come esplosivo da miniera. In Francia invece, a causa della scarsità di nitrato di potassio, fu creato nel Settecento un monopolio autorizzato dallo Stato. Ma per l’inefficienza del monopolio non si ovviò all’insufficiente disponibilità di polvere da sparo (polvere nera). Il controllore generale delle Finanze francesi si rivolse allora a Lavoisier, che suggerì di costituire una Régie des Poudres, di proprietà governativa. Il consiglio si rivelò utilissimo per risolvere il problema, ma concorse, come vedremo nel prossimo capitolo, a determinare il tragico destino del grande scienziato. Merita grande interesse anche la storia degli inchiostri, che, fin dai tempi più remoti, l’uomo avrebbe impiegato per l’insopprimibile bisogno di comunicare. Infatti, secondo alcuni storici, l’inchiostro per scrivere fu preparato per la prima volta da Cinesi ed Egiziani anche prima del 2.600 a.C. Questi inchiostri primitivi erano probabilmente costituiti da materiali carboniosi, come il nero di lampada o la fuliggine, sospesi in grasso animale o olio vegetale. Si ritiene che sia da attribuire ai Cinesi anche l’invenzione dell’inchiostro solido e in granuli, nel periodo che va dal 220 al 419 d.C. La formulazione dell’inchiostro per scrivere si sviluppò con procedimenti sempre più raffinati; tant’è che i Cinesi, impiegando matrici scolpite a mano, furono in grado di impiegarlo per la stampa nel corso dell’XI secolo. Dunque ciò avvenne 400 anni prima che Gutenberg, l’inventore della stampa, introducesse i caratteri mobili in Europa. Lo sviluppo della stampa e delle arti
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grafiche ha dato nell’era moderna, a partire dal Cinquecento, un grande impulso alla produzione degli inchiostri e ad una diversificazione qualitativa così pronunciata da renderne difficile il raggruppamento in un unico settore merceologico. E per sottolineare la capacità di rinnovamento di un comparto più che maturo come questo, basta ricordare l’introduzione nell’era contemporanea degli inchiostri speciali per le penne a sfera e per le stampanti dei PC. In questo breve elenco il vetro può rivendicare più d’un primato perché non solo è uno dei materiali più antichi, ma anche uno dei più versatili e preziosi. L’ossidiana, un vetro naturale di origine vulcanica, era conosciuta già nell’età della pietra e veniva impiegata sia per la fabbricazione di coltelli sia per farne punte di lance o di frecce. I rivestimenti vetrificati di ciondoli di pietra costituiscono i reperti più antichi di vetro artificiale e risalgono al 12000 a.C., mentre i primi oggetti fatti interamente in vetro risalgono a 7000 anni a.C. La tecnica di produzione del vetro è progredita lentamente nell’antichità, com’è naturale, in mancanza delle conoscenze più elementari sulla composizione e sulla natura del materiale. I progressi successivamente realizzati, nel Medioevo e nell’era moderna, sono testimoniati sia dalle splendide vetrate delle chiese gotiche sia dalle lenti di cannocchiali e telescopi, nonché, più recentemente, dai pregiati cristalli di Baccarat e di Boemia. Si ritiene tuttavia che nel cinquantennio centrale del XX secolo, per quanto riguarda processi di produzione e varietà d’impieghi, siano stati realizzati più progressi di quelli registrati nei millenni precedenti. È però il settore minerario e metallurgico quello che, assistito dai progressi della chimica analitica, ha fornito il maggiore contributo alla chimica applicata. È in questo comparto infatti che si riscontra all’inizio del secolo XVI l’adozione sistematica di metodi di lavorazione rigorosi e ripetibili. In verità, già nel secolo XV si erano cominciate a costruire bilance molto più precise di quelle precedenti. E questo aveva già cominciato a rendere più corrette le determinazioni quantitative e meno fantasiose le interpretazioni degli esperimenti, anche da parte di quegli alchimisti che non si facevano del tutto fuorviare dall’esoterismo della categoria. Ma furono due libri pubblicati in Germania intorno al 1510 (Nutzliches Bergbuchlein e Probierbuchlein), in tedesco e senza l’indicazione degli autori, quelli che segnarono l’inizio di una letteratura tecnica di chimica applicata. Intanto l’anonimato e l’adozione del tedesco li fecero ritenere opera di esperti minatori e non di studiosi. Questi ultimi, infatti, li avrebbero pubblicati in latino, rivendicandone la pater-
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nità. Inoltre il contenuto e lo stile adottato segnano un netto distacco dalle analoghe opere dell’epoca. Gli autori illustrano i progressi realizzati in campo metallurgico e mineralogico e danno una descrizione “tecnica” delle operazioni di estrazione, lavorazione e controllo. Inoltre nei due libri si illustra lo stato dell’arte nel campo della geologia e della mineralogia indicando i metodi di analisi dei minerali. Si tratta di un sistema progredito per saggiare il valore dei minerali grezzi, soprattutto quelli d’oro e d’argento; occorre peraltro sottolineare che i metodi di analisi a secco descritti sono tuttora validi. Il progresso rispetto al passato è reso evidente dall’impiego di metodi rigorosamente quantitativi, resi praticabili dalle bilance in commercio. Ad integrazione infine vengono anche fornite precise indicazioni per la fabbricazione e la taratura dei pesi. D’altra parte, cave e miniere costituivano la fonte più abbondante e articolata di materie prime per l’attività produttiva dell’epoca: oro, argento, ferro, rame, stagno, mercurio, zolfo, fosforo si estraggono dalle miniere con processi di lavorazione semplici (lavaggio, levigazione, macinazione, vagliatura, arrostimento ed altri trattamenti elementari), mentre allumi, calcare, gesso, zolfo, ocra, argilla, sabbia ed altri materiali disponibili in superficie dalle cave richiedono trattamenti ancora più elementari. E le carbonaie, che continuarono ad operare anche dopo la coltivazione delle miniere di carbone, vengono disposte ai margini dei boschi cedui. Ma sull’ubicazione degli opifici ci soffermeremo ancora con una carrellata sulla dislocazione dei vari tipi di attività. Ma quali erano i reagenti, i chemicals, e i prodotti più frequentemente impiegati e commercializzati? L’elenco sarebbe certamente più lungo di quanto ci si possa immediatamente immaginare, ma anche limitandosi a quelli più ricorrenti occorre almeno ricordare: alcool etilico, aceto, soda, tartaro (carbonato potassico), mercurio, zolfo, acido solforico, vetriolo verde (solfato di Fe eptaidrato), vetriolo azzurro (solfato di Cu pentaidrato), salnitro, acido cloridrico, acido nitrico, acqua regia e sali ammoniacali. La disponibilità di acidi minerali verificatasi nel XIII secolo diede ai chimici maggiori possibilità di sciogliere le sostanze ed ottenere reazioni in soluzione, consentendo sostanziali progressi nell’uso di acidi organici deboli. Questa fu una svolta epocale; fino ad allora l’attività produttiva e di ricerca si era svolta nei conventi e nei laboratori degli artigiani e degli alchimisti. Progressivamente queste attività si spostarono dal contado nelle farmacie ed in più attrezzati opifici posti in città o nelle immediate adiacenze, rendendo sempre più marginale il contributo dei con-
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venti e delle botteghe artigiane. Tuttavia, quando all’inizio del Cinquecento Lutero faceva il suo apprendistato di monaco a Wittemberg, in quel convento ancora si faceva la raccolta di un fiore giallo per estrarne una sostanza colorante molto ricercata. Elementari considerazioni economiche fecero gradualmente optare per una ubicazione degli opifici sempre più razionale dal punto di vista dei trasporti; così naturalmente non solo fu definita l’ubicazione delle saline ad evaporazione naturale, ma anche quella degli opifici dediti al trattamento di minerali contenenti sali da recuperare, previa frantumazione, separazione della ganga, dissoluzione e rievaporazione. Un’ubicazione “nobile” fu invece riservata ad alcune attività di grosso artigianato, più sofisticate, quali fabbriche di arazzi (con annesse filature e tintorie), vetrerie e manifatture di ceramiche artistiche, che, nascendo per il mecenatismo di un sovrano, trovavano posto nelle adiacenze di una reggia. Esempi ragguardevoli in merito si riscontrano in Francia, Italia e Spagna. Le fabbriche che utilizzavano la segatura per la distillazione secca del legno, per il catrame di legna o per altri processi analoghi trovarono invece conveniente ubicazione nelle immediate adiacenze delle segherie di riferimento. E fu logicamente privilegiato l’insediamento in prossimità di corsi d’acqua per quelle fabbriche, come vetrerie, concerie e tintorie, legate ad un abbondante approvvigionamento idrico e ad un’agevole discarica degli effluenti. Ed infine, nello scegliere la localizzazione dell’opificio, l’imprenditore non poté prescindere dalla convenienza di disporre di un porto vicino per lo sbarco delle merci. Significativa al riguardo l’indicazione dei primi insediamenti industriali, riportati dalla Storia dell’Industria Chimica Americana, nel volume dedicato alla movimentazione delle merci tra Inghilterra e Colonie. Come sia stato organizzato in origine il commercio dei prodotti chimici e come si sia andato evolvendo nel tempo è materia dì grande interesse. Anche in questo caso, per fare un po’ di storia, bisogna ritornare ai Fenici. Questo popolo di marinai mercanti, disponendo dei famosi cedri (del Libano), alberi di dimensioni imponenti, già nel 1300 a.C. era in grado di solcare le acque del Mediterraneo con navi carenate e vogatori che remavano volgendo le spalle alla prua (l’invenzione della chiglia fu, per i marinai, l’equivalente della ruota per il trasporto terrestre). Così attrezzati i Fenici mossero alla conquista dei mercati del Mediterraneo con operazioni che oggi, nel linguaggio del commercio internazionale, si definirebbero in barter equivalente al comune barat-
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to. Ma quali merci scambiavano e come avveniva il baratto in mancanza di intermediari e di interpreti? Alla prima domanda possiamo rispondere con un elenco di prodotti che, limitato ai prodotti chimici e parachimici, include: porpora, profumi, oli, coralli, oro, argento, vetro, cuoio, colori, cordame e minerali vari. Per la risposta alla seconda domanda dobbiamo invece attenerci alla ricostruzione della procedura di scambio descritta da Gerhard Hern nel suo libro L’avventura dei Fenici. L’equipaggio scaricava le merci disponendole sulla spiaggia; quindi risaliva a bordo accendendo un fuoco con una grande fumata. Gli acquirenti allora andavano al mare, lasciando oro accanto alla merce e si allontanavano. I Fenici, a loro volta, ridiscendevano a terra per controllare la quantità del prezioso metallo e se ritenevano il pagamento adeguato lo incameravano; altrimenti tornavano a bordo ad attendere che venisse incrementata la quantità di oro depositata fino a ritenere il pagamento conforme alle aspettative. In modo altrettanto sorprendente i Fenici ci fanno costatare che le scelte market oriented risalgono a circa 1000 anni a.C. Quando infatti, a quell’epoca i Fenici si accorsero che il mercato richiedeva sempre più quel vetro per il quale erano tributari degli Egiziani, anticipando di qualche millennio strategie che i Giapponesi, in tempi moderni, avrebbero fatto proprie, ritennero che dovevano perfezionare il know–how egiziano e creare un’industria del vetro domestica. Così, utilizzando sabbie del Libano, ricche di quarzo, la soda delle ceneri di piante saline, e calcare, marmo o gesso, per l’apporto alcalino–terroso, questi protoindustriali alimentarono le loro fornaci che raggiungevano a fatica gli 800°C. L’innovazione fu però quella di soffiare forte in questo prodotto, viscoso e di rapido indurimento, riuscendo così ad ottenere bottigliette e recipienti trasparenti ben sagomati. Provando e riprovando le vetrerie di Tiro e Sidone riuscirono a produrre oggetti trasparenti, la cui qualità faceva premio sull’analogo prodotto egiziano. Ma, ancora una volta, anticipando i Giapponesi di qualche millennio, i Fenici rinunciarono ad offrire il vetro a caro prezzo, preferendo offrire i loro articoli di vetro fuso, stampato e smerigliato a prezzi alla portata di tutti. In tal modo conquistarono quella grossa fetta di mercato, che, fino ad allora, era stata riservata ai fabbricanti di coppe di metallo e di argilla. Invadendo il mercato del Mediterraneo con la loro produzione di coppe, vasi, bottiglie, perline e tegole di vetro, i Fenici furono gli antesignani delle produzione di massa. Ma non bisogna perciò credere che i Fenici rinunciassero a dominare il mercato dei prodotti pregiati; prova ne sia il monopolio che essi esercitarono per secoli nella produ-
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zione nel commercio della porpora (viene in mente l’analogia con la grande industria chimica che, pur coltivando i prodotti di massa, non rinuncia ad operare nel campo della chimica fine). La porpora era infatti un colorante naturale, contenuto nelle ghiandole delle piccole conchiglie della specie Murex Brandaris e Murex Trunculus, spesso presenti nelle acque dei mari caldi frequentati dai Fenici. I quali, poi, per rendere più consistente il fatturato, preferivano vendere tessuti già colorati con la porpora. Ed anche in questo caso, anticipando la pratica a lungo seguita dai tessili di Prato e di Schio, davano a façon la tintura del panno di lana a piccoli artigiani dislocati lontano dalle zone più frequentate. Lo storico attribuisce questa pratica all’insopportabile puzzo che la porpora emanava, sia inizialmente, quando veniva estratta, come secrezione gialla, dalle conchiglie, sia successivamente, quando virava al rosso per il trattamento con soluzione di acido debole. E questo sembra essere il primo esempio di tutela ambientale, limitata ai centri cittadini più importanti. L’assortimento delle materie coloranti comprendeva allora, probabilmente per una clientela meno esigente anche lo scarlatto, un rosso meno intenso della porpora, che veniva ricavato da particolari insetti della quercia. Ma quando la potenza dei Fenici fu annientata, prima con la conquista del Libano e la distruzione di Tiro, operate da Alessandro Magno, poi con la distruzione di Cartagine operata dai Romani, il Mediterraneo sembrò ritornare al suo ruolo di via marittima, prima per le navi imperiali di Roma, poi per la flotta mercantile di Bisanzio. Bisognerà aspettare l’avvento delle nostre repubbliche marinare ed il finale sopravvento di Venezia per vedere ripristinata la piena corrispondenza tra l’intraprendenza della flotta mercantile di uno stato ed il peso politico di quello stato nel concerto delle nazioni. Questa considerazione si rivelerà più significativa, anche in rapporto agli sviluppi delle attività chimiche, quando, dopo la scoperta di Colombo, le flotte mercantili di Spagna, Francia e Inghilterra cominceranno a fare la spola tra l’Europa e il nuovo continente. Ed in particolare l’Inghilterra poté sviluppare nelle sue Colonie del Nordamerica un’importante attività produttiva, che spesso riuscì ad essere di valido supporto alle attività chimiche domestiche. Ma nelle Colonie, mentre le attività chimiche risultarono di modesta consistenza, proprio le attività di supporto finiranno col rivelarsi provvidenziali per gli sviluppi futuri. Furono infatti i trattamenti elementari di preparazione e purificazione di materie prime come catrame, trementina, sale comune e sali potassici, coloranti naturali e tannino, che diventeranno gli elementi di fondazione per
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quello che sarebbe diventato il prodigioso sviluppo industriale degli Stati Uniti dopo la dichiarazione d’indipendenza. Molto più modesto, fino all’Ottocento, fu il rapporto di scambio tra l’Europa e l’America meridionale, anche se quei territori, tutti da scoprire, cominciarono ad attirare l’attenzione di missioni esplorative, alla ricerca di materie prime. E, proprio guidando una di queste missioni esplorative nella foresta amazzonica il francese C.M. de La Condamine venne per la prima volta a conoscenza di una strana materia prima, la gomma naturale. Egli ritenne, con felice intuizione, di doverne fare menzione nel suo rapporto all’Accademia dì Francia, intorno al 1750, gettando così il seme della sintesi degli elastomeri, che avrebbero costituito, a quasi duecento anni di distanza, uno dei rami più importanti dell’industria chimica dei polimeri. Abbiamo fin qui spostato idealmente la cinepresa, nel tempo e nello spazio, cercando di mettere in rilievo i nessi esistenti tra le necessità elementari che l’uomo contemporaneo soddisfa con i prodotti dell’industria chimica e le attività minerarie, artigianali e protoindustriali, con le quali i popoli, dai tempi più remoti fino al Settecento, hanno provveduto a soddisfare analoghi bisogni. Ma Io scenario risulterebbe troppo sfumato ed incompleto se non si introducessero, in questa panoramica, due elementi fondamentali: la cura che l’uomo ha sempre avuto per la propria salute e l’umana esigenza di comprendere cause e meccanismi delle trasformazioni derivanti dalle manipolazioni impiegate per ottenere prodotti utili, secondo criteri empirici o alchimistici, comunque efficaci alla bisogna. Il primo trova il più significativo riscontro nell’attività del medico Philippus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, (autodenominatosi Paracelso) che, pur considerato storicamente un alchimista, merita una posizione privilegiata, nella storia della chimica, come fondatore della iatrochimica. Egli infatti non si limitò ad indicare la necessità della medicina di preparare i medicamenti che potessero ripristinare l’equilibrio del corpo, turbato dalla malattia, ma si impegnò direttamente in questa attività; sottopose infatti un gran numero di metalli ad una serie programmata di reazioni standard, in modo da ottenere in soluzione i vari metalli da somministrare agli ammalati. È così che la chimica farmaceutica muove i primi passi, anche se è lecito supporre che, in assenza di qualsiasi organo vigilante, non tutti i pazienti abbiano tratto beneficio ingerendo quelle medicine. Su questa falsariga il monaco benedettino Basil Valentine esalta l’uso dell’antimonio e dei suoi sali in medicina.
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Maggiore rigore scientifico, alla luce dei criteri oggi in vigore, emerge dall’opera di Libavius e di Glauber. Libavius (1540–1616) mise a punto e pubblicò i metodi di preparazione dell’acido solforico e dell’acqua regia; Glauber (1604–1670), con la sua imponente opera di chimico industriale, ingegnere chimico e iatrochimico, ancora più del primo, diede un grande impulso alla chimica sperimentale. Si resta peraltro sconcertati nel rilevare che in questi personaggi intuizioni geniali convivono con maniacali tendenze ad interpretare i fatti in chiave alchimistica. Tant’è che questi personaggi, pur vivendo in tempi in cui il conformismo prevaleva sul senso critico, furono spesso considerati dei ciarlatani. Ad essi va comunque riconosciuto il merito di avere abbattuto il dogma aristotelico della materia primigenia, alla quale le quattro qualità (caldo, secco, freddo e umido), combinandosi in vario modo, conferivano le caratteristiche di corpi apparentemente semplici (fuoco, aria, acqua e terra). Lo sforzo di comprendere le cause delle trasformazioni osservate da questi curiosi sperimentatori si rivelerà vano fino al Settecento, quando, nel secolo dei lumi, si registreranno le idee innovative di Stahl (1660–1734). Questo medico era allievo di Becher, che riteneva i metalli un sottoprodotto della Creazione, il cui centro era invece la vita organica. Forse, proprio per la contrapposizione che talvolta si verifica tra allievo e maestro, Stahl rivolse la sua attenzione prevalentemente ai composti inorganici. Nella rielaborazione della teoria atomica elementare dell’epoca egli introdusse il concetto dell’attrazione (di derivazione newtoniana) tra particelle semplici, che portava alla formazione di “combinazioni”. Gli elementi primi, secondo questa teoria, non potevano essere isolati perché potevano lasciare una combinazione solo per entrare in un’altra. Ma Becher ispirò anche una singolare interpretazione del fenomeno di ossidazione di un metallo in un forno di riscaldamento. Il maestro, rispolverando vecchi principi di iatrochimica, aveva ridotto il fenomeno della combustione di materie vegetali o animali alla perdita della terra grassa (terra pinguis), sempre presente in quei corpi, che da essi si allontanava, mentre i corpi bruciavano. Anche per le materie inorganiche si doveva ammettere, secondo Stahl, la presenza, prima della combustione, di una materia infiammabile, il flogisto. Quando il metallo viene scaldato, secondo questa teoria (condivisa per tutto il secolo ed oltre da eminenti scienziati) perde il flogisto e si trasforma in calce — oggi diremmo in ossido — sicché il metallo risulterebbe una sostanza più complessa della calce. Della teoria del flogisto i testi di storiografia chimica sono pieni. Qui viene ricordata non solo per presentare lo scenario scientifico culturale a
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cordata non solo per presentare lo scenario scientifico culturale a metà del Settecento, ma anche per rilevare il divario allora intercorrente tra la fisica, espressa dalle rigorose leggi quantitative di Galileo e di Newton, e la chimica fantasiosa di questi pittoreschi personaggi. Si potrebbe pensare che Becher, Stahl e compagni, soggiogati da una sorta di misticismo animistico, abbiano voluto, per così dire, dare un’anima alla materia. Ma si deve peraltro riconoscere che il postulato del flogisto era nello spirito dei tempi. A fluidi indefiniti e indefinibili anche la fisica faceva allora ricorso, quando chiamava in causa l’etere, per spiegare le azioni a distanza, assecondando Newton che trovava ripugnante e degna di una mente malata l’idea del vuoto assoluto. Oppure quando ricorreva al “calorico” per dare consistenza materiale ai flussi termici, che si verificano tra corpi a differenti temperature (e quest’errore non risparmiò neppure un genio come Lavoisier). Eppure l’interesse di Newton per le scienze occulte e la sua ripugnanza ad accettare l’azione a distanza, disciplinata dalla legge di gravitazione universale, da lui scoperta e quantificata, senza l’intermediazione dell’etere, non ne hanno scalfito la gloria né attenuata l’ammirazione per il suo genio. Pertanto anche il nostro giudizio, nei confronti dei seguaci della flogistica, dovrebbe essere un po’ più generoso, riconoscendogli il contributo propedeutico che anche studi e sperimentazioni della loro scuola hanno dato allo sviluppo della chimica. In questo campo la scienza ha smentito la validità del comune detto «natura non facit saltus». Come infatti ci accingiamo a vedere, grazie all’opera geniale di Lavoisier, la chimica colmò di colpo il divario teorico che la penalizzava nei confronti della fisica e, per prima, abbandonò sostanzialmente il ricorso a fluidi misteriosi per spiegare le trasformazioni che costituivano l’essenza delle sue sperimentazioni.
La nascita dell’industria chimica Un drammatico esordio
Seguendo i canoni del teatro classico, anzi della tragedia greca, alla quale sembrano ispirarsi le vicende della nascita dell’industria chimica, che grondano lacrime e sangue, abbiamo narrato l’antefatto nel capitolo precedente. Veniamo ora agli attori: ne abbiamo scelti solo quattro, sia per non affollare troppo la scena, sia perché si tratta proprio di quelli che sono stati gli autentici protagonisti delle vicende drammatiche che hanno contrassegnato l’esordio della nostra industria. Joseph Priestley, nato a Fieldhead il 13 marzo 1733 e morto il 1804 nel Northumberland (Stati Uniti); Antoine Laurent Lavoisier, nato a Parigi il 26 agosto 1743 e ghigliottinato a Parigi prima del tramonto dell’8 maggio 1794; Nicolas Leblanc, nato a Yvoy–le–Pré il 6 dicembre 1742 e morto suicida nella propria abitazione a Parigi il 16 gennaio 1806; Eleuthère Irénée DuPont de Nemours, nato a Parigi il 1771 e morto d’infarto a Philadelphia nel 1834. Di questi quattro uomini, che hanno contribuito in maniera determinante a far muovere i primi passi alla chimica, come disciplina scientifica e come attività industriale, due perirono tragicamente e due dovettero emigrare e vivere esuli per sottrarsi ad un ambiente ostile, nel quale avevano corso pericoli mortali. Ce n’è abbastanza per parlare di tragedia, che per l’Europa ebbe anche l’amara conseguenza di aprire la strada all’emigrazione di tanti suoi uomini di talento verso il nuovo continente. Presentati i protagonisti veniamo ora alla storia e alla vicenda umana di questi personaggi. Di natura e carattere molto diversi, i tre chimici francesi e il quacchero inglese Priestley sembrano tuttavia accomunati dal convergente interesse per la scienza e per l’attività produttiva, finalizzata a soddisfare concrete esigenze di mercato; verrebbe voglia di dire che il secolo dei lumi ha fatto maturare, nei suoi ultimi decenni, quelle che oggi definiremmo vocazioni imprenditoriali. Ed in questo senso potremmo anche dire che, mentre la chimica si trasforma da attività empirico–alchimistica in disciplina scientifica, l’organizzazione produttiva passa da un livello artigianale ad un livello di tecnica regolamentata e disciplinata. Tant’è che nasce un sistema brevettuale che consente l’impiego di processi che, in forza di legge, vengono attribuiti ad un inventore. Cominciamo ora dal più anziano del quattro, l’inglese Priestley. 27
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Rimasto orfano in tenera età, era stato adottato da una zia. La cagionevole salute aveva ostacolato Priestley nel seguire gli studi convenzionali, ma egli, da autodidatta, aveva appreso francese, latino, algebra e geometria. Spinto dalla zia agli ordini sacri divenne seguace della dottrina radicale dell’Unitarianismo. Sposato a 28 anni con una donna di apprezzate doti intellettuali, cominciò a frequentare, poco dopo il matrimonio, il salotto di Benjamin Franklin a Londra. Quest’incontro segnò il destino di Priestley, perché Franklin, apprezzandone le qualità didattiche, insistette perché lo scrittore di soggetti teologici scrivesse un libro dì divulgazione sull’elettricità. Nacque così The History and Present State of Electricity, che Priestley scrisse in un anno. Questo libro gli valse una tale notorietà da farlo poi eleggere membro della Royal Society. Inoltre la stesura del libro fu l’occasione per stimolare la sua naturale ed innata propensione per la ricerca; tant’è che per primo egli fece rilevare che il carbone è un ottimo conduttore di elettricità. Curiosamente però Priestley ottenne il massimo riconoscimento chimico, la medaglia Copley, per la preparazione dell’anidride carbonica, alla quale fu indirizzato dalla sua erronea convinzione che si trattasse di un componente dell’aria, l’aria fissa, secondo le teorie aristotelico–alchimistiche. L’invenzione dell’acqua di seltz (soda per gli Inglesi) fu da lui realizzata facendo reagire carbonato di calcio con acido solforico ed immettendo il gas prodotto in acqua mediante un tubo flessibile dotato di un filtro di depurazione. Poiché allora si riteneva che lo scorbuto, da cui erano affetti prevalentemente i marinai, sottoposti ai disagi alimentari delle lunghe navigazioni, fosse imputabile a carenza di “aria fissa” nel corpo umano, Lord Sandwich, primo Lord dell’Ammiragliato, apprese con compiacimento le spiegazioni di Priestley sulla preparazione di questo prezioso gas. Tant’è che vennero presto creati due laboratori per rifornire la Marina di acqua di seltz. Tuttavia, e a ragione, il riconoscimento di luminare della scienza fu il giusto premio a quel fondamentale lavoro di ricerca che portò Priestley prima a produrre ed isolare l’ossigeno e successivamente ad isolare ammoniaca, azoto, ossido d’azoto, ossido di carbonio e anidride solforosa. Il metodo d’indagine era di una geniale semplicità. I reagenti venivano immessi in un fiasco con un parziale riempimento di mercurio. Capovolto il fiasco su una bacinella di mercurio (come una canna torricelliana) e riscaldato l’interno, se del caso, mediante una lente per concentrare i raggi solari, il livello del mercurio s’innalzava o si abbassava, a seconda che venisse assorbito o prodotto gas. Quando, pro-
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dotto l’ossigeno per riscaldamento di ossido di mercurio (mercurius calcinatus), ne introdusse un campione in un fiasco chiuso, contenente una candela accesa o un pezzetto di legno incandescente, rilevò l’accelerazione della combustione. Così pure rilevò che i topi, in un certo volume di questo gas, vivevano molto più a lungo che nello stesso volume di aria normale. Ma l’intuizione più geniale fu certamente quella che gli permise di scoprire come la natura reintegra nell’aria l’ossigeno consumato nei processi di combustione e di respirazione animale. Posto, il 17 agosto 1771, un ramoscello di menta entro un certo quantitativo d’aria del solito fiasco, nel quale s’era bruciata una candela, trovò che, dieci giorni dopo, un’altra candela vi bruciava perfettamente. Così quest’uomo, fiero sostenitore, fino alla fine, della teoria del flogisto, scoprì il naturale equilibrio tra la respirazione degli animali e quella delle piante, dimostrando che talvolta nemmeno le più erronee convinzioni sterilizzano la capacità di un genio. Accolto nei circoli culturali e scientifici inglesi come un oracolo egli riuscì per dieci anni ad evitare che il carattere radicale delle sue opinioni teologiche e politiche lo mettessero nei guai. Ma, quando nel 1791, il giorno dell’anniversario della presa della Bastiglia, Priestley, incurante dell’accusa di tradimento, che un gruppo di scalmanati già da qualche giorno gli muoveva, volle celebrare la ricorrenza con un pranzo tra amici, in una saletta privata a mezzogiorno, esplose con violenza la rabbia di una folla isterica. A sera a stento Priestley, rifugiandosi con i familiari in casa di amici, riuscì a sottrarsi al linciaggio. Ma gli scalmanati sfogarono la loro rabbia saccheggiandogli la casa e bruciando quanto avevano a portata di mano. Appena in tempo poi Priestley scappò in carrozza con la famiglia da Birmingham a Londra. Qui visse due anni d’inferno, abbandonato da quasi tutti gli amici e privato del conforto dei figli che, respinti dalla società, partirono per l’America. Ma più di tutto lo amareggiò lo stato di salute della moglie, che non si sarebbe più ripresa dalla traumatica depressione conseguente alla tragica giornata di Birmingham. Così il 9 giugno 1794 un quotidiano di Philadelphia, nel dare il benvenuto all’uomo di cultura, che aveva difeso i diritti delle Nazioni schiave, esprimeva la certezza che l’Inghilterra avrebbe rimpianto l’ingratitudine mostrata verso uno dei suoi figli più geniali. Ma solo un mese prima era stata troncata la testa di Lavoisier e la Francia aveva dunque fatto anche di peggio. Figlio unico di genitori benestanti, Lavoisier perse la madre in tenera età e fu affettuosamente allevato dal padre e da una zia nubile. Per corrispondere alla volontà
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paterna si laureò in legge, pur avendo già dato un saggio della sua vocazione scientifica nel periodo di frequenza del collegio Mazarin, dove studiò astronomia, botanica, chimica e geologia con eccellenti maestri. Tornato alla scienza dopo la laurea, collaborò alla stesura di un atlante geografico della Francia. Poi effettuò ricerche sulla chimica del gesso ed un progetto per migliorare l’illuminazione delle strade di Parigi, ottenendo, ancora venticinquenne, l’ammissione all’Accademia Reale delle Scienze. Per disporre dei mezzi finanziari necessari per una libera attività di ricerca acquistò una quota azionaria della Ferme Génerale che provvedeva all’esazione delle tasse per il Re (ed in Francia gli esattori erano ancora meno amati che in Italia). A 28 anni sposò la quattordicenne Anne Marie Pierrette Paulze, figlia di un dirigente della Ferme Générale. Non si trattava di un matrimonio d’amore, ma l’unione fu felice perché la giovane sposa si mise a studiare latino e inglese, diventando così stretta collaboratrice del marito. Gli tradusse infatti i lavori di chimici stranieri e, tra gli altri, quelli di Priestley e Cavendish. Inoltre, dotata di capacità artistiche, disegnò ed incise le illustrazioni per i libri del marito. Ed ancora si prestò ad assisterlo in laboratorio, prendendo appunti su molti dei suoi esperimenti. Infine a lei si deve la pubblicazione del libro Memorie di chimica redatto sulla base degli appunti scritti da Lavoisier in prigione. Il contributo di Lavoisier alla nascita della chimica come disciplina scientifica è di ineguagliabile genialità: non solo egli diede la corretta interpretazione dei fondamentali processi di ossidazione (calcinazione, combustione, sintesi dell’acqua), ma ideò la metodologia per porre la sperimentazione chimica su base quantitativa. Abbiamo già detto che egli conosceva, grazie alle traduzioni della moglie, i lavori di Priestley e quelli di Cavendish, l’inglese scopritore dell’idrogeno, ottenuto sciogliendo alcuni metalli negli idracidi (ed anche a lui andrebbe dedicato un capitolo a parte). Questo probabilmente concorse a fargli approfondire lo studio della combustione. Osservando che zolfo e fosforo, bruciando, aumentano di peso giunse, dopo molti esperimenti, alla fondamentale conclusione che era proprio “l’aria deflogisticata” di Priestley, cioè l’ossigeno, come egli stesso la ribattezzò, che veniva ad unirsi ai metalli, quando questi formavano “calce”, cioè ossidi. Naturalmente nemmeno Lavoisier poteva allora spiegare la produzione del fuoco e questo lo indusse a commettere l’errore di assimilare il calore ad un élément imponderable chiamato calorico (calorique). Ma evidentemente la capacità del genio di mettere a frutto gli errori non era prerogativa esclusiva di Priestley. Infatti Lavoisier, con la col-
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laborazione di Pierre Simon Laplace, compì studi approfonditi sul calore sviluppato dalla combustione, gettando le basi di una nuova disciplina, la termochimica. Già Cavendish aveva constatato che la combustione di aria infiammabile, come allora veniva chiamato l’idrogeno, produceva acqua, ma furono gli esperimenti di Lavoisier a portare alla conclusione che l’acqua è costituita da idrogeno e ossigeno. A questa nuova chimica si addiceva una nuova nomenclatura; a ciò si provvide con la collaborazione dei maggiori chimici, creando una nomenclatura che, in buona parte, è sopravvissuta fino ai nostri giorni. Lavoisier fu anche il primo a dimostrare, integrando le intuizioni di Priestley, la natura esclusivamente chimica della funzione svolta dall’ossigeno, nei processi di respirazione e di combustione. Il lavoro che egli svolse in questo campo può giustificare la propensione dei suoi ammiratori a considerarlo anche padre della fisiologia e della biochimica. Quando infatti intuì che il calore animale è il prodotto di una lenta combustione, che si svolge all’interno del suo organismo, Lavoisier volle, con Laplace, dimostrare sperimentalmente la validità della sua ipotesi. A tal fine i due scienziati misurarono l’ossigeno inspirato e l’anidride carbonica emessa, nonché il calore prodotto dalla cavia (un porcellino d’India), servendosi di un calorimetro a ghiaccio, inventato alla bisogna. Con Armand Seguin pose mano ad una ricerca innovativa per misurare il fabbisogno energetico del corpo umano. Dall’apparecchio progettato a tal fine discendono quelli oggi in uso per la misura dei metabolismo basale. Ma purtroppo altre attività vennero ad interferire con il suo impegno nella ricerca. In particolare la Régie des Poudres, ente statale creato su suo suggerimento, per razionalizzare ed incrementare la produzione di esplosivi, lo impegnò sia come amministratore sia come sperimentatore. Al punto che, nel corso di una prova di valutazione del potenziale esplosivo del clorato di potassio, alla quale era presente anche la moglie, si verificò un’esplosione, che uccise due dei presenti. Ma incidenti e difficoltà non frenarono l’incremento produttivo dell’arsenale, che consentì il rifornimento dei coloni americani, impegnati nella guerra contro gli inglesi, e contribuì alla risoluzione del conflitto. Lavoisier in economia era un fisiocrate ed un illuminato conservatore. Lo attesta il suo credo sociale, condensato nella formula «La felicità non deve essere limitata ad un ristretto gruppo di uomini; essa appartiene a tutti». Non sembrò inizialmente che la Rivoluzione lo prendesse di mira. Già nell’89 per la sua competenza finanziaria era stato eletto presidente di quella Banca di Sconto, che sarebbe poi divenuta la Banca di
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Francia; il suo trattato di economia La ricchezza agricola del Regno di Francia, iniziato già prima dell’89, fu stampato nel 1791 per disposizione dell’Assemblea Nazionale. Elencare tutte le affermazioni che questo genio poliedrico conseguì nei vari campi ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema. È comunque evidente che i riconoscimenti conseguiti configurano una personalità di grande prestigio, come tale accreditata anche in seno all’Assemblea Nazionale. Ed allora perché cadde improvvisamente in disgrazia? La motivazione è una di quelle ricorrenti nella Storia e che tuttora fa premio nella considerazione dei politici del nostro tempo: l’odio per gli esattori delle tasse. Già nel 1791 l’Assemblea Nazionale aveva soppresso la Ferme che, con la riforma fiscale, non aveva più ragione di funzionare come esattoria del Re. Ma successivamente la stessa Assemblea, ritenendo i membri della Ferme delle sanguisughe che s’erano ingrassate a spese del popolo, decise dì richiedere un rendiconto, mirato ad accertare in quale misura la compagnia esattoriale trattenesse l’aggio di sua competenza. La ritardata consegna dei conti irritò la già sospettosa Assemblea, che il 14 novembre 1793, ordinò l’arresto di tutti i membri della Ferme, Lavoisier incluso. Tempestivamente informato di questo sciagurato ordine, Lavoisier, pur nascondendosi per sottrarsi all’arresto, si adoperò per fare revocare la delibera assembleare; ma ogni sforzo fu vano. Tuttavia i membri della Compagnia, rinchiusi, in stato di arresto, nella sede sociale, riuscirono finalmente nel gennaio del ’94 a produrre il rendiconto che attestava come l’attività di esazione si fosse sempre svolta nel pieno rispetto della legge. Ma ormai la Rivoluzione era entrata nella fase critica del Terrore: gli estremisti formularono nuove accuse incentrate sugli interessi troppo alti, sull’eccessiva umidità dei tabacco e su altre pretestuose insinuazioni, dalle quali, tuttavia, in quel clima, era vano tentare di difendersi efficacemente. Tant’è che gli implacabili accusatori ottennero che gli imputati fossero processati dal Tribunale Rivoluzionario, quantunque allo stesso fosse attribuito potere giurisdizionale solo in ordine ad attività controrivoluzionarie. Ma l’accusa pose rimedio a quest’infame arbitrio chiedendo alla giuria di giudicare i membri della Ferme Generale in base ad una nuova imputazione, mostruosamente introdotta nel corso del processo, secondo la quale gli imputati si sarebbero macchiati del delitto di complotto controrivoluzionario finanziando, con proventi illeciti, i nemici della Rivoluzione. Lo scontato verdetto di colpevolezza fu emesso all’unanimità il mattino dell’8 maggio 1794 e, nello stesso pomeriggio, fu eseguita la sentenza di morte. L’indo-
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mani il grande matematico Lagrange così commentava la decapitazione di Lavoisier: «È bastato un attimo per troncare quella testa, e forse non sarà sufficiente un secolo per produrne una simile». Ma forse, in questo caso, sarebbe ancora più appropriato fare nostra la cinica, ma efficace battuta di Talleyrand, a commento dell’esecuzione del Duca d’Enghien (voluta da Napoleone): «C’est pire qu’un crime, c’est une sottise». E tuttavia la vicenda umana della travagliatissima esistenza di Nicolas Leblanc ci mostra che i comportamenti ingiusti e criminalmente ottusi imputabili al settarismo che la Rivoluzione fece emergere, non si conclusero con la fine del Terrore. Nato nel 1742 in una famiglia povera, Leblanc restò orfano a tre anni e poté essere avviato agli studi per l’interessamento di uno stimato chirurgo, amico del padre. Ma quando, nel 1759, cominciò a frequentare la scuola di chirurgia divenne allievo di Jean Darcet, professore al Collegio di Francia, che lavorava anche ad alcune applicazioni “industriali” della chimica, fabbricando saponi ed estraendo gelatina dalle ossa. Questa tendenza a trovare pratiche applicazioni delle cognizioni scientifiche era già nello spirito dei tempi. Tant’è che nel 1775, per sottrarre il Paese alla sudditanza dell’importazione dì soda, l’Accademia delle Scienze istituì un premio di 2.500 livres, da attribuire all’inventore di un processo per la produzione di soda da sale marino, a costi competitivi con quelli di estrazione della soda da materie importate. E proprio Leblanc, contagiato dalla vocazione di Darcet, si dedica alla soluzione del problema, al quale si richiama il premio dell’Accademia. Con spirito innovatore Leblanc comincia lo studio dei processo, aiutato da Darcet, che controlla esperimenti e risultati nel proprio laboratorio. D’altra parte Leblanc, per far fronte alle spese personali e di ricerca, deve pure utilizzare le proprie capacità professionali. Questa esigenza lo impegna, a partire dal 1780, come medico personale del Duca d’Orléans, in associazione con Berthollet, anch’egli al servizio del Duca. Ma le ricerche per la messa a punto del processo continuano e, dopo anni, finalmente il nostro medico–chimico è convinto che i risultati ottenuti possono dare luogo ad una realizzazione industriale. Conseguentemente, nel marzo del 1790, depositò presso un notaio la memoria che illustrava il processo. Ma per dare concreta attuazione ai suo processo Leblanc illustra al Duca il contenuto e l’importanza della sua invenzione, con il supporto di una nota di Darcet, che ne garantisce la validità, il Duca ne resta vivamente impressionato e traduce il suo concreto interesse in un finanziamento di 200.000 livres per la co-
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struzione della fabbrica di soda. Nei 1791 Leblanc ottiene anche il brevetto e il testo della concessione contiene la raccomandazione di mantenere il segreto sulla sua scoperta. Ma la Rivoluzione incalza: nel 1793 anche il duca d’Orléans, pur divenuto “Philippe Egalité” per le sue simpatie rivoluzionarie1 viene ghigliottinato. L’anno successivo il Comitato di salute pubblica (più appropriatamente di stupidità) annulla il brevetto, rendendo di pubblico dominio tutti i processi per la fabbricazione della soda. E, per completare l’opera, il decreto impone a tutti i cittadini in grado di fabbricare soda di comunicare, nel termine perentorio di 20 giorni, i dati qualitativi e quantitativi in ordine alla capacità produttiva disponibile. Nel termine previsto Leblanc si comporta da cittadino ossequiente. Salva così la testa, ma ripiomba in condizioni di miseria perché la fabbrica viene confiscata. Anzi, nonostante i favorevoli commenti della relazione del Comitato di Salute Pubblica sulla validità del processo e sulla qualità dei prodotti, l’estremismo rivoluzionario manifesta la sua idiozia autolesionistica con l’espulsione dalla fabbrica di Leblanc e con la confisca estesa perfino ai fondi di cassa. Leblanc prega umilmente le autorità per ottenere almeno un parziale risarcimento. Ma tutto sarà vano, perché l’ottusa sordità della burocrazia non si estingue con la fine della Rivoluzione. Infatti, anche col Direttorio, quando sembra che certi soprusi debbano cessare, la situazione praticamente non migliora. Sembrerebbe peraltro, nel 1799, quando il Ministro dell’Interno finalmente gli accorda 3.000 franchi, a titolo di ricompensa nazionale, che l’esigua somma possa dare allo sfortunato inventore qualche momento di respiro. Ma anche questa è un’illusione, perché gli vengono versati in realtà solo 600 franchi; e quando lo sventurato reclama, il Ministro delle Finanze risponde che non c’è denaro. La storia degli ultimi anni di Leblanc si racchiude nella cronistoria di un susseguirsi di lettere, petizioni e memoriali, che il defraudato inventore continua ad inviare all’autorità competente e delle frequenti risposte evasive e delle rare elemosine, con le quali cinicamente l’ottusa e crudele burocrazia si sbarazza del fastidioso postulante. Ma quando infine il Tribunale cede alla richiesta di risarcimento, concedendo però solo un ventesimo dell’importo che Leblanc aveva calcolato con criterio di moderazione, pur di fare uscire la sua famiglia dallo stato di miseria, in cui versava da tempo, la resistenza morale e fisica dell’uomo che lotta da vent’anni crolla definitivamente. Così Ni1. Era deputato giacobino.
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colas Leblanc conclude tragicamente l’esistenza con il suicidio, sparandosi un colpo di pistola alla testa, nel suo studio, la mattina del 16 gennaio 1806. Nello stesso anno la Saint Gobin installa la sua prima sodiera e, a distanza di pochi anni, su consiglio di Gay Lussac, una seconda. Il successo del processo Leblanc è tale che, alla metà dell’Ottocento, la produzione di soda in Europa raggiungerà le 500.000 tonnellate con 130 fabbriche attive nella sola Inghilterra. E quando nei 1865–66 la grande BASF (Badische Anilin und Soda Fabrik) inizia la sua attività produttiva nello stabilimento di Ludwigshaven, il processo adottato nel reparto della soda è ancora quello di Leblanc. Ma perché il processo Leblanc è una delle pietre di fondazione dell’industria chimica? Per spiegarlo è sufficiente indicare le ragioni più significative. 1) Per la prima volta un’autorità statale individua una pressante esigenza di mercato, di interesse nazionale, stimolando l’iniziativa privata e creando premesse per quella ricerca mirata, che, portata a termine con successo dal nostro inventore, darà luogo ad un processo brevettato e ad un’iniziativa industriale che ne dimostra la validità economica. 2) Il processo è di una geniale semplicità, con le sue tre fasi di lavorazione, che utilizzano materie prime che, anche all’epoca, erano di sicura disponibilità. Infatti, nella prima fase, si riscalda il cloruro sodico con acido solforico concentrato, ottenendo acido cloridrico e solfato sodico; poi si riscalda il solfato con carbone e calcare in modo che il carbone riduca il solfato a solfuro, che reagendo a sua volta col carbonato di calcio, in doppio scambio, dà carbonato sodico come prodotto principale, e solfuro di calcio, come sottoprodotto. Nella terza fase, lisciviando con acqua, si scioglie solo il carbonato, che viene poi separato per concentrazione e cristallizzazione. Il solfuro di Ca, insoluto, trattato con CO2 ripristina il carbonato di Ca, liberando H2S, materia prima per la produzione di acido solforico. 3) La mancata tutela dei diritti brevettuali penalizzò tragicamente Leblanc, ma favorì l’immediata straordinaria diffusione del suo processo. E, poiché la storia non fa sconti alla stupidità umana, l’esproprio dei sanculotti, perpetrato ai danni di Leblanc, si tradusse in un modesto vantaggio per l’industria francese ed in un beneficio straordinario per quella inglese. Il metodo Leblanc si rivelò infatti un processo fatto su misura per le esigenze dell’industria cotoniera britannica, che andava sviluppandosi in Inghilterra come naturale conseguenza della produzione cotoniera delle colonie; perché, proprio per quest’industria, non solo è necessaria una grande quantità di soda, ma, per il can-
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deggio, anche di una larga disponibilità di cloro. Ed il processo Leblanc assicura anche questa, liberando, nella prima fase, come sottoprodotto, acido cloridrico, dal quale, anche allora, si sapeva ottenere, per ossidazione, il cloro richiesto. Più favorevole di quella toccata a Leblanc è la costellazione sotto la quale nasce Éleuthère Irénée DuPont de Nemours. Figlio dell’economista fisiocrate Pierre–Samuel, viene avviato agli studi di economia. Ma il padre è buon amico di Lavoisier, come lui fisiocrate e realista. Anzi Pierre–Samuel, dispone di una stamperia, finanziatagli dallo scienziato, che naturalmente affida a lui la pubblicazione delle sue relazioni. Perciò il giovane DuPont, appena ventenne entra, come apprendista contabile, all’Arsenale della Regie des poudres. Possiamo qui ragionevolmente supporre che anche in assenza di una vera e propria contabilità industriale, la contabilità dei costi gli consente un’ampia conoscenza delle formulazioni ricorrenti nella preparazione delle polveri da sparo. Malauguratamente l’apprendistato viene interrotto dalle tragiche vicende del Terrore. DuPont padre e Lavoisier vengono arrestati, ma solo lo scienziato non riesce ad evitare la ghigliottina. Nella famiglia DuPont si vivono momenti di angoscia indelebili, ma Pierre–Samuel riuscirà infine a ritornare uomo libero. Però Irénée, sposato e con tre figli, esce da questa vicenda molto provato. Il suo sguardo è ormai volto verso l’altra sponda dell’Atlantico, dove il contributo francese alla causa dei Coloni è apprezzato con grata simpatia. È così che tutta la famiglia DuPont sbarca a Newport il fatidico 1 gennaio 1800. Ma Éleuthère Irénée è naturalmente, per le sue origini aristocratiche, anche uomo di relazioni pubbliche ed in breve riesce a conquistare o consolidare amicizie influenti e, fra queste, quella del Presidente Jefferson. Può stupire questa cordialità di rapporti perché Jefferson non era in sintonia con quell’ampia maggioranza di americani che, pur avendo accolto con simpatia lo scoppio della Rivoluzione, avevano poi riprovato con indignazione l’esecuzione di Luigi XVI ed il regime di terrore giacobino. Egli infatti, anche di fronte a questi tragici episodi, aveva continuato a simpatizzare con i rivoluzionari sostenendo che «l’albero della libertà deve essere rinvigorito ogni tanto con il sangue dei patrioti e dei tiranni». E la famiglia DuPont non aveva alcun motivo per condividere questa simpatia. Comunque sarà poi proprio Thomas Jefferson ad incoraggiare il giovane DuPont perché raccolga i finanziamenti necessari per costruire una fabbrica di esplosivi con la tecnologia messa a punto da Lavoisier. Disponendo anche di un capitale di 36.000$, fornitogli dal padre, il giovane imprenditore
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realizza la prima unità industriale a Wilmington. All’impresa vorrebbe dare nome di “Lavoisier”, ma le pressioni dei familiari lo costringono ad adottare il nome del proprio casato. All’avvio della nuova attività si sommano difficoltà finanziarie e tecniche. Il capitale promesso dai soci americani viene solo parzialmente versato e, prima che la produzione possa iniziare passano due anni: il nostro imprenditore per ragioni intuitive ha voluto che le apparecchiature principali siano identiche a quelle impiegate nell’Arsenale di Parigi e importarle dalla Francia concorre evidentemente ad allungare i tempi di costruzione della fabbrica. Per vendere poi la polvere, in quell’era pionieristica, occorre concedere alla clientela lunghe dilazioni. Inoltre la scarsa esperienza del personale procura incidenti, anche mortali, ed alcune esplosioni distruggono parti della stessa fabbrica. Per sovrappiù il socio americano che più conta non solo si ritira, ma costruisce nelle vicinanze un impianto analogo, anticipando quegli esempi di concorrenza sleale, che registriamo ancora ai nostri giorni. Anzi, per colmare la misura, gli sottrae anche il personale più esperto. Erano dunque anni di vita stentata quando nel 1812 nuovamente divampò il conflitto con gli Inglesi. Il Paese si trovò drammaticamente diviso e la polvere da sparo della DuPont fu in misura crescente disponibile per difenderlo. Ma per fare fronte agli ordini d’acquisto, che raggiunsero le 500.000 libbre, fu necessario ampliare la fabbrica e l’impresa s’indebitò ancora di più. Né DuPont poteva contare sull’aiuto del Governo, perché le casse della giovane Federazione erano praticamente vuote, anche per effetto del blocco della costa atlantica praticato dagli Inglesi con quella rigorosa determinazione, che la loro schiacciante superiorità navale rendeva molto efficace. Sicché, quando arriva la sospirata pace, la EI DuPont si trova con una giacenza di materie prime e prodotti finiti che ammontano a 125.000$, con un mucchio di debiti che superano i 100.000$ e con soli 10.000$ in cassa. La situazione era quindi disperata, ma proprio nella difficoltà emerge il talento dell’imprenditore. DuPont non si perde d’animo e il suo coraggio è confortato dall’intuizione che anche in tempo di pace il mercato delle polveri acquisterà per la giovane nazione americana una crescente consistenza. I fatti hanno poi effettivamente dimostrato che gli impieghi di esplosivo per spianare il terreno, prima alle strade e poi alle ferrovie, i consumi di polvere per gli scavi in miniera, per la caccia e la difesa personale ed infine le permanenti forniture agli arsenali governativi avrebbero consentito a quell’industria di espandersi ancora a lungo. Altri elementi confermano che il fondatore della grande DuPont aveva la stoffa del vero im-
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prenditore. Nonostante il grattacapo dei debiti, che lo affliggerà fino alla fine, si dedica anche alla fabbrica, con l’impegno del tecnocrate. Egli infatti, adottando criteri che erano allora inconsueti, modificò il layout degli impianti, distanziando le apparecchiature a rischio. E, in un’epoca che riconosceva all’operaio in fabbrica uno status poco migliore di quello riservato agli schiavi nelle piantagioni di cotone, introdusse una sorta di assistenza sociale, assicurando alle famiglie delle vittime di incidenti sui lavoro (leggi: esplosioni) la possibilità di sopravvivere a carico dell’azienda. Tuttavia da galantuomo continuò per decenni a recarsi settimanalmente a cavallo a Philadelphia, a far visita ai banchieri della città, per onorare alla scadenza la firma apposta alle cambiali in loro mani. E in una camera d’albergo di Philadelphia si spense il fondatore dell’impresa che sarebbe poi stata leader dell’industria chimica mondiale, stroncato da un infarto all’età di 62 anni. In conclusione, se facciamo riferimento ai titoli professionalmente attribuibili ai nostri personaggi, si sarebbe tentati di dire che un quacchero, un avvocato, un medico ed un contabile di nobile casato hanno gettato le fondazioni di quell’imponente edificio che sarà la chimica industriale, come disciplina scientifica e come attività imprenditoriale. Ma in questa sintesi finale non possiamo certo trascurare i contributi dati a questo sviluppo sul piano teorico da Cavendish e, prevalentemente su quello pratico, da Scheele. Henry Cavendish (1731–1810) merita di essere ricordato non solo per la scoperta dell’idrogeno e per gli studi sulla composizione dell’acqua, ma anche per i suoi esperimenti sulla gravità e le ricerche in campo elettrico. Il farmacista svedese C.W. Scheele (1742–1786) per la varietà degli studi, degli esperimenti e delle scoperte che gli vengono riconosciute meriterebbe un capitolo a parte. All’inizio degli anni Settanta scoprì l’ossigeno, ancora prima di Priestley, che però riuscì a precederlo nella pubblicazione della notizia. Nel 1774 scoprì il cloro, che però ritenne erroneamente un composto ossigenato. Fu il primo ad isolare la glicerina e anche numerosi acidi (tartarico, lattico, urico, citrico e cianidrico). Per il suo contributo alla scoperta di numerosi elementi metallici (manganese, molibdeno, bario e tungsteno) il suo nome ricorre anche nella denominazione di sali come l’arsenito di rame (verde di Scheele) o di minerali come il tungstato di calcio (scheelite). Sconfinando in campo biologico chiarì che anche i pesci respirano ossigeno, attingendolo da quello disponibile sotto forma di gas disciolto nell’acqua. Non si può non rilevare a questo punto che più di due secoli fa la cultura non specialistica consentiva alla genialità umana di esprimersi,
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in più occasioni, con intuizioni, che si sono più volte rivelate sorprendentemente esatte. E, solo per richiamare il carattere interdisciplinare della scienza, vale la pena ricordare che Goethe è anche l’ammirato autore di molte opere scientifiche. Ma, con specifico riferimento alla chimica, restiamo colpiti dal fatto che una delle sue opere più famose Le affinità elettive sia stata ispirata dalla lettura del Dizionario di fisica di Gehier, in cui si descrive il fenomeno della attractio elettiva duplex. Infatti il titolo e la trama del romanzo rivelano l’impronta di questo fenomeno chimico che si manifesta quando «due elementi associati, sotto l’azione di due altri, dotati di specifiche proprietà, si disgregano, associandosi con questi ultimi, in due nuove coppie, per legge di reciproca attrazione». Il romanzo è del 1810 e farne menzione alla conclusione di questo capitolo è sembrato in linea con la considerazione che un fatto del genere sembra sanzionare l’inserimento di un principio chimico nelle categorie del pensiero umano.
Da Lavoisier alla metà dell’Ottocento La difficile infanzia dell’industria chimica
Lo straordinario contributo alla nascita dell’industria chimica di uomini come Cavendish, Priestley, Scheele, Lavoisier, Leblanc e DuPont indurrebbe a ritenere che, in linea con le premesse, anche lo sviluppo iniziale dell’attività imprenditoriale abbia poi registrato un fervore di iniziative altrettanto memorabile. È quindi in qualche modo sorprendente che l’infanzia dell’industria chimica si protragga, almeno per la prima metà dell’Ottocento, in maniera stentata e senza sviluppi particolarmente significativi. È pur vero che l’industria della soda, del cloro, degli esplosivi, dei minerali, dei saponi, delle colle, dei coloranti e di altri prodotti di origine naturale sembrano dare consistenza crescente al suo apparato produttivo. Ma per consentire a quest’attività un significativo sviluppo, in senso “tecnologico”, mancano ancora troppi strumenti di importanza determinante. Basta richiamare, per intenderci, l’indisponibilità di acciai di qualità e di leghe inossidabili, di pompe e compressori, di motori e di tecniche ingegneristiche di progettazione. In pratica i metodi di produzione non hanno ancora superato, in maniera apprezzabile, il livello artigianale. Questa carenza comporta poi la sostanziale impossibilità di prefigurare, già in fase di ricerca, processi che richiedano la movimentazione di fluidi in pressione. D’altro canto il progresso scientifico non rallenta. Gli studi di Carnot sui cicli termici daranno vita ad una nuova disciplina scientifica, la termodinamica. E la nuova scienza non solo libererà il campo dall’ingombrante presenza del “calorico”, ma darà anche un contributo essenziale all’interpretazione chimico–fisica dei fenomeni chimici, in rapporto alle variazioni energetiche che li accompagnano e li caratterizzano. In Italia Alessandro Volta, il geniale autodidatta comasco, dopo oltre un ventennio di studi, esperimenti ed applicazioni, conclude la sua opera straordinaria realizzando l’apparecchio a colonna, successivamente denominato apparecchio a pila, di cui dà comunicazione nel 1800 al presidente della Royal Society. In verità, cronologicamente, la scoperta della pila, quella delle proprietà del metano, allora noto come “gas delle paludi”, e la formulazione della legge di dilatazione dei gas sono i risultati di studi condotti da Volta negli ultimi decenni del Settecento. Ma la sua opera sarà divulgata, al di fuori dei ristretto ambito 41
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accademico, solo nei primi decenni dell’Ottocento. Anzi, gli approfondimenti, che le sue intuizioni stimolano, e l’interpretazione dei meccanismi chimici connessi al funzionamento della pila, si protrarranno fino alla seconda metà dell’Ottocento per concludersi infine con la nascita di quella nuova disciplina scientifica che è l’elettrochimica. Ancora in Italia, il grande chimico e fisico torinese Amedeo Avogadro conclude gli studi condotti nel secondo decennio dell’Ottocento introducendo la distinzione tra molecole ed atomi e formulando l’ipotesi che un determinato volume di gas, a parità di temperatura e pressione, contiene lo stesso numero di molecole, indipendentemente dalla qualità dei gas. Ma la legge di Avogadro, che gli operatori chimici frequentemente utilizzano per calcolare la densità di un gas, fu accettata solo dopo circa quarant’anni. A contrastarne l’accettazione e l’impiego fu proprio il chimico più autorevole dell’epoca, Jacob Berzelius, al quale ripugnava l’idea che nella molecola due o più atomi della stessa specie si accoppiassero, quasi che, in siffatta realtà fisica, si potesse configurare una sorta d’impudicizia omosessuale! Ma a Berzelius questo pregiudizio da alchimista si può perdonare perché, con le sue innumerevoli analisi, contribuì invece a fare accettare la legge delle proporzioni multiple di Dalton, che stentava a farsi strada. Ed inoltre, nella sua brillante attività di chimico analista, tra il 1818 e il 1830, scoprì nuovi elementi come selenio, silicio e titanio ed anche molti minerali sconosciuti. È dunque evidente che, mentre l’attività industriale stentava a decollare, la chimica, come disciplina scientifica, faceva rilevanti progressi. Questo divario sembra imputabile, come abbiamo già ricordato, alla povertà dì macchinario e di materiali. Sono ancora rare le macchine azionate a vapore, mentre l’elenco dei materiali disponibili, pur arricchendosi dei manufatti in ferro e ghisa, migliorati per le esigenze dell’industria bellica, è ancora molto limitato. Tant’è che il ricorso a materiali di origine vulcanica (lava, pietra di Volvic), all’argilla, al legno duro, catramato o rivestito di piombo, rappresenta, nella maggior parte dei casi, una scelta obbligata. E nell’industria del solforico e di alcuni derivati inorganici (superfosfati, solfato di rame ecc.) i materiali citati hanno tenuto banco fino agli anni Quaranta del Novecento. Ma anche l’inadeguatezza degli apporti energetici esterni costituiva un fattore limitante. Pompe, coclee, elevatori, macine, mulini, ecc., erano azionati a mano, salvo il modesto apporto di energia idraulica quando l’opificio era fiancheggiato da un corso di acqua corrente. Ma un altro elemento, che concorre in modo sostanziale a rallenta-
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re il decollo dell’industria chimica, è rappresentato dalla sua monocultura inorganica, nel senso che le produzioni inorganiche del tempo sono ostacolate, ma non impedite dalle richiamate carenze energetiche e tecnologiche. Mentre per lo sviluppo di un parallelo avvio anche delle più elementari produzioni organiche mancano del tutto le fondamentali conoscenze teoriche. Mancano quindi nel comparto organico processi industriali che realizzino in scala amplificata i risultati di una ricerca di laboratorio (come avvenuto per la soda e il solforico). Tuttavia non mancano attività produttive elementari, al livello artigianale di una bottega, di una farmacia o di un monastero, che pongono a disposizione del mercato prodotti organici di grande utilità1. Ma le attività estrattive da erbe e da altri prodotti naturali, la distillazione secca del legno, le fermentazioni e le produzioni artigianali di etanolo, metanolo ed acido acetico sono solo il logico prolungamento di attività praticate già prima dell’Ottocento e che proseguono in quel secolo ancora su base empirica. Ma uno spiraglio si apre quando in questo secolo vede la luce una nuova attività, la distillazione del carbon fossile che, pur concepita come processo per finalità energetiche, ossia per migliorare la qualità del carbone, risulterà oggettivamente, cioè senza che gli operatori se ne rendano conto, l’indispensabile fase propedeutica per la nascita della chimica organica. Per fare emergere i nessi di causalità e di casualità, che non è sempre facile distinguere, vediamo innanzitutto quali sono i tratti salienti del processo. Già nel Settecento si ricorreva alla distillazione del carbon fossile, dopo averlo ricoperto di terra, secondo il metodo di produzione della carbonella da legname di antica memoria. Si riusciva così ad ottenere uno “pseudo–coke” che, comunque, per il minore contenuto di volatili, si prestava meglio del fossile non trattato, all’impiego nelle operazioni metallurgiche. In seguito, usando forni da pane e bruciando per il riscaldamento anche i gas che si sprigionavano nei corso della distillazione, si riuscì a migliorare il bilancio termico e la qualità del coke. Finalmente, all’inizio dell’Ottocento, il metodo fu razionalizzato riunendo in tondo più forni da pane intorno ad un camino centrale ed impiegando la combustione dei volatili anche per il preriscaldamento. Questo accorgimento consentì un innalzamento della temperatura di distillazione modesto, ma sufficiente a ridurre il contenuto di volatili nel coke, in linea quindi proprio con l’obiettivo al quale l’operazione era mirata. Merita di essere ricordato che, in questi forni, per la chiu1. Si rimanda alla fine del capitolo, dove è riprodotta “La lista di spezie e droghe”.
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sura delle aperture di carico e scarico, vennero adottate portine con tenuta ad acqua, per impedire la diffusione nell’ambiente di lavoro dei gas che si sprigionavano nel corso del processo. Evidentemente gli operai avevano imparato a temerli, ammaestrati dagli incidenti che la natura tossica ed esplosiva di quei prodotti volatili provocava in maniera non episodica. Questa nuova industria, mirata alla produzione di un combustibile solido, più adatto all’impiego metallurgico, nasce dunque come processo alternativo a quello tradizionale che, ricorrendo al legname come materia prima, aveva portato, specie in Inghilterra, alla devastazione del patrimonio boschivo. Ma fatto rilevante per gli sviluppi delle attività chimiche è che, nella distillazione del fossile per fare coke, ci si imbatte in due nuovi prodotti: il gas illuminante ed il catrame. Quest’ultimo è ancora un fastidioso sottoprodotto, di cui non si sa proprio cosa fare; per la corrente degli incondensabili si è almeno in grado di ricorrere ad un elementare processo di purificazione, lavandoli con soda e desolforandoli con calce. Se ne ottiene così un gas costituito per 1’85% ca. da idrogeno e metano, con un 5–6% di CO e CO2, e con qualche percento di insaturi (che vennero poi definiti illuminants) con marcata prevalenza di etilene. Sono naturalmente gli insaturi che, per il più elevato indice di carbonio, danno alla fiamma una più intensa luminosità. Fu poi un ingegnere minerario della Cornovaglia, W. Murdoch, il temerario che per primo sperimentò, nella propria abitazione, l’impiego di questo gas come gas illuminante. Il felice esito della sperimentazione tra le pareti domestiche indusse successivamente il temerario ingegnere a sfruttare l’idea. Così poi Murdoch trovò in Watt e Clegg dei soci qualificati e capaci, con i quali riuscì ad applicare questo sistema di illuminazione in alcune officine. Il salto di qualità nella diffusione del processo però si verificò solo nel 1813, quando si poté realizzare la prima applicazione pubblica, illuminando il ponte di Westminster con lampioni a gas, accesi personalmente da Clegg. L’imprenditore infatti non era riuscito a trovare operai disposti a correre con lui il rischio di accendere quella miscela “infernale”. Anche l’esperimento d’illuminazione pubblica dimostrò la piena validità dell’applicazione ed il successo incoraggiò naturalmente Clegg a perfezionare il processo. A Clegg si deve infatti non solo l’industrializzazione del processo di trattamento con calce per la desolforazione del gas illuminante (processo che oggi si applica spesso nelle camere di combustione delle caldaie), ma anche la sua polmonatura con gasometri di capacità sempre crescente. Questi progressi
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hanno poi consentito di diffondere a Londra, più che in qualsiasi altra città d’Europa, la tipica illuminazione con i lampioni a gas. Ed il gradimento si è nel tempo rivelato così esteso e radicato che, anche quando, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’illuminazione elettrica si è affermata come il sistema più pratico ed economico, molte grandi città europee sono state per decenni restie a rinunciare al colore e all’atmosfera che i lunghi filari di lampioni a gas, con la loro luce diffusa, conferivano al paesaggio notturno. Fu dunque l’industria metallurgica, nell’intento di provvedere a coprire con un prodotto più idoneo il proprio fabbisogno di coke, a generare, come effetto indotto, quella del gas illuminante. Ma poi i progressivi miglioramenti nella selezione dei carboni e l’avvento del petrolio resero disponibili materie prime da trattare con processi di cokificazione studiati su misura. Così gradualmente le vecchie officine si vennero strutturando in modo da svolgere il proprio ruolo di officine da gas per erogare “gas di città” per le utenze domestiche. L’Inghilterra manterrà per tutto 1’Ottocento un’incontrastata leadership nell’industria del gas. Le imprese britanniche non intuirono però con immediatezza quanto fosse prezioso il catrame sottoprodotto, come insostituibile fonte di quelle pregiate materie prime che sono gli idrocarburi aromatici. E per questo motivo sarà poi la Germania, emergente potenza industriale, a conquistare il primato nell’industria chimica dei prodotti organici. Ma su questa vicenda torneremo più avanti, perché l’affermazione dei Tedeschi in questo comparto si manifesta concretamente solo nella seconda metà dell’Ottocento. È curioso che, nelle ripetute occasioni in cui gli operatori chimici, ricercatori e imprenditori, proprio nella prima metà dell’Ottocento, si sono imbattuti in temi fondamentali di chimica organica, non sia mai scoccata, nemmeno negli incontri più ravvicinati, la scintilla dell’intuizione risolutiva. Perciò vale forse la pena di soffermarsi su questo punto per tentare di formulare qualche considerazione esplicativa. Si deve intanto rilevare che il ritardo nell’affrontare con rigore scientifico almeno alcuni fondamentali temi di organica è ancora più consistente di quanto appaia a prima vista. Infatti già nel Settecento le osservazioni sperimentali del chimico Geoffrey e del farmacista svedese Scheele avevano offerto qualche interessante spunto in materia. Il primo aveva rilevato, nel 1741, che il sapone si scioglie nell’alcool, nel quale invece non si sciolgono i comuni grassi ed oli, da cui i saponi derivano. Il secondo, nel 1783, facendo bollire olio d’oliva con ossido di piombo, in poca acqua, ottenne oltre al previsto oleato di
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piombo, come sottoprodotto una sostanza liquida dolce, da lui battezzata oelsuss e che noi oggi chiamiamo glicerina. Fu poi il matusalemme dei chimici francesi, M. E. Chevreul (1786–1889) a dedicare dodici anni, tra il 1811 e il 1823, allo studio di oli e grassi per spiegare questi fatti. Pervenne così alla conclusione che le sostanze studiate erano costituite da una miscela di gliceridi ed acidi grassi, che pure identificò. Dedicandosi poi all’idrolisi degli esteri, cioè dei gliceridi, mise a punto un processo commerciale che, utilizzando appropriate materie prime, consentiva di produrre glicerina e stearina. Purtroppo all’epoca il problema dell’illuminazione oscurava (il bisticcio di parole è inevitabile) il valore di questi risultati, che pure avrebbero meritato di costituire il punto di partenza per uno studio dei gruppi funzionali (di acidi ed alcoli) e per un più articolato sviluppo della chimica organica di quel comparto. Fu così che invece si ritenne già un gran successo di Chevreul che i suoi lunghi studi avessero reso disponibile un buon processo per la produzione di candele steariche; per giustificare quest’incredibile restrizione mentale dobbiamo pensare che in quegli anni le steariche, per la lenta combustione e la fiamma senza fumo, erano considerate una valida alternativa alle candele prodotte con olio di spermaceti o di balena, che stava diventando scarso e caro. Conviene a questo punto spostare l’attenzione sull’altra sponda dell’Atlantico per scoprire come mosse i primi passi l’industria chimica della giovane nazione nordamericana. Nei primi decenni dell’Ottocento l’espansione territoriale, con l’acquisizione della Louisiana dalla Francia e della Florida dalla Spagna, non modifica l’assetto economico di questo Paese. Esso può già contare sul grande sviluppo dell’agricoltura al sud (piantagioni di cotone e tabacco) e dell’industria al centro–nord (carbone, imprese metallurgiche e meccaniche) Si tratta ovviamente di una schematizzazione ridotta all’essenziale perché, ai nostri fini, interessa solo cercare di comprendere come s’inserisce nel contesto l’industria chimica. Le iniziative che gli imprenditori dell’Unione assumono in questo settore sono largamente ispirate dai modelli di sviluppo europei e, in maniera prevalente, da quelli inglese e francese. Non è evidentemente una forzatura ritenere l’industria americana delle polveri da sparo e degli esplosivi una filiazione di quella francese e abbiamo già ricordato il ruolo determinante, svolto in quest’ambito, dalla EI DuPont de Nemours. Analogamente gli studi dell’eminente chimico industriale americano Richard A.Tilghman (1824–1899) presentati nel 1847 all’American Philosophical Society ed il processo che ne deriva, per le produzioni as-
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sociate di sapone e candele, sembrano ispirate, almeno stando alla successione temporale, dall’opera di Chevreul. Vero è che comunque, successivamente, Tilghman realizzò originalmente un metodo di scissione diretta dei grassi mediante trattamento con vapore surriscaldato. E poiché il brevetto si dimostrò specificamente applicabile alla produzione di stearina (la storia si ripete) fu poi ceduto, con profitto per l’inventore, ad uno dei maggiori produttori inglesi di candele steariche. Ma per Tilghman la chimica era evidentemente una vocazione di famiglia perché poi anche il fratello Benjamin è passato alla storia per il suo processo di trattamento al solfito della polpa di legno per la produzione di carta. Il modello francese fu dunque importante, ma la giovane industria americana adottò in misura forse ancora più consistente quello inglese. Infatti per la produzione di coke e di gas illuminante, di acido solforico e perfino di soda, le imprese dell’Unione adottarono tecnologie britanniche. E la preferenza si giustifica se si pensa che lo stesso processo Leblanc era stato molto migliorato proprio in Inghilterra. Ma quel che importa rilevare è che questo processo imitativo diede i suoi frutti. Esso portò infatti la giovane industria nordamericana a creare rapidamente alcune aziende chimiche che, espandendosi e consolidandosi nei campi d’attività scelti all’atto della fondazione, diventeranno gradualmente addirittura leaders a livello internazionale nello specifico comparto merceologico. Per limitarci ad una sintetica esemplificazione basterà citare la Colgate e la Procter&Gamble. William Colgate, nato in Inghilterra nel Kent, iniziò la sua attività industriale nel 1806 a New York con la produzione di sapone e candele; diversificò poi la sua attività entrando massicciamente nel settore dell’amido, dopo la guerra del 1812. Ma infine si concentrò nella produzione di saponi da toilette, che l’Unione importava, per la quasi totalità del consumo, da Francia e Inghilterra. Ed in questo settore merceologico la Colgate (poi Colgate–Palmolive) finirà col diventare sinonimo di articoli da toilette. La Procter&Gamble nasce invece dall’incontro dell’immigrato inglese William Procter con l’immigrato irlandese James Gamble. Tanto per cambiare il primo fabbrica candele e il secondo sapone. Ma quando, sposati a due sorelle, furono sollecitati dal comune suocero ad unire le loro forze, aderirono volentieri all’invito, costruendo una nuova grossa fabbrica. Prima adottarono il processo francese di saponificazione con calce; poi passarono al processo Tilghman di idratazione e frazionamento dei grassi, ad alta pressione in autoclave, com-
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binando processi di varia ispirazione con quelli di propria inventiva. Per questo motivo la Procter&Gamble fu accusata di violazione brevettuale. La causa arrivò fino alla Corte Suprema e la Procter&Gamble la spuntò perché lo storico verdetto stabilì che un processo costituito da una sequenza di reazioni chimiche ha titolo per essere brevettato. Potremmo arricchire la casistica con altri esempi, ma sembra più significativo illustrare il contributo che a questo sviluppo diede casualmente un giovane commerciante, reduce da un fallimento subito in associazione col padre. Si tratta di Charles Goodyear che con la sua scoperta del processo di vulcanizzazione del caucciù contribuì in maniera incisiva alla nascita di un nuovo settore dell’industria chimica. In verità primo approccio a quel processo deve essere attribuito a Nathaniel Hayward amico e socio in affari di Goodyear, Infatti Hayward rivendicava la scoperta dei processo di “solarizzazione”, consistente in una prolungata esposizione ai raggi solari della gomma cosparsa di zolfo in polvere. Naturalmente, dopo un certo tempo la gomma perdeva la tendenza a rammollire e a diventare appiccicosa col riscaldamento. Goodyear acquistò dall’amico per 200$ il “solarization process”, ma l’affare si rivelò ben presto un “fiasco”. Ci è oggi facile comprenderne la ragione, perché quel metodo di trattamento della gomma non poteva andare al di là di una sua vulcanizzazione superficiale. Ma, assistito dal “dio dei ciechi”, Goodyear un giorno dimenticò su un forno di cucina ancora ben caldo, una miscela di gomma e zolfo, cosi, il giorno dopo, si ritrovò inventore del processo di vulcanizzazione. La scoperta risale al 1839, ma il brevetto fu rilasciato solo 5 anni dopo. Fiorirono allora rapidamente piccole industrie manifatturiere di oggetti di gomma, spesso ignorando i diritti brevettuali dell’inventore. Sembra però, secondo le cronache del tempo, che Goodyear, caricando sulle licenze royalties troppo elevate, rendesse inevitabili queste violazioni. Comunque il nostro inventore, come è accaduto a tanti altri pionieri, non si arricchì con la sua epocale scoperta. Anzi, quando nel 1860 morì, lasciò un carico di debiti di oltre 200.000$. Gli articoli di gomma all’epoca non riuscirono però a conquistare il favore del pubblico. Risulta invece che una migliore accoglienza sia stata in precedenza riservata dal pubblico ad una iniziativa del chimico, oriundo scozzese, Charles Macintosh, anch’essa fondata su una manipolazione della gomma naturale. Il chimico scozzese riuscì per primo a commercializzare un tessuto impermeabile, ottenuto interponendo a sandwich, tra due teli di cotone, uno strato di gomma, preventivamente sciolta in
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benzene o etere, per consentirne l’impregnazione del cotone. La vicenda di Macintosh costituisce, in questa storia, un fatto marginale, ma si collega ad un altro fatto, apparentemente marginale, che poi si rivelerà un’altra finestra aperta sul capitolo della chimica organica, ancora una volta sfuggita all’osservazione degli operatori chimici. I fatti sono eloquenti: il chimico scozzese, dopo essersi occupato del tessuto impermeabile, sposta la sua attenzione su un colorante rosso, che ottiene mettendo a macero certi licheni naturali in soluzione acquosa d’ammoniaca. Ebbene, per potersi assicurare un conveniente rifornimento di acque ammoniacali, egli deve stipulare un contratto con la locale officina dei gas, che include anche l’acquisto di tutto il catrame grezzo che, anche per i gasisti dell’Unione, costituiva un sottoprodotto, di cui disfarsi ad ogni costo, come in Europa! In pratica poi Macintosh doveva sottoporre il catrame grezzo ad un processo di frazionamento, che gli consentiva di recuperare le acque ammoniacali, la pece e due frazioni idrocarburiche oleose, una leggera ed una pesante. Egli trovò, come i suoi colleghi in Europa, clienti per la pece e per l’olio pesante, ma nessun cliente per la nafta leggera che diventerà, a distanza di qualche decennio, come frazione aromatica, il prodotto di maggior pregio. Ma Macintosh, non in possesso di capacità divinatorie, doveva cercare di trovare, con i suoi mezzi, un utile impiego anche per la nafta leggera. Così, provando e riprovando, finalmente s’avvide che quella frazione liquida e leggera era un buon solvente per la gomma. In conclusione fu proprio questa constatazione sperimentale che poi gli consentì di lanciare sul mercato il suo tessuto impermeabile. Evidentemente, anche nello sviluppo dell’industria chimica, non mancano gli episodi in cui l’intreccio di causalità e casualità rende romanzesco il susseguirsi degli eventi. Ritornando in Europa, dove permane una situazione ancora avara di iniziative e risultati innovativi, nonostante un mercato dei prodotti chimici di dimensioni molto più consistenti, un esame anche sommario delle principali produzioni deve necessariamente soffermarsi sulla fabbricazione dell’acido solforico. Abbiamo volutamente lasciato in coda l’argomento perché la capacità produttiva di questo composto inorganico, conosciuto da secoli, costituirà, almeno per tutto l’Ottocento, l’indice più significativo del livello di sviluppo dell’industria chimica nei vari paesi. La fondamentale importanza del settore è poi confermata dallo straordinario impegno dei chimici per migliorare la tecnologia di produzione dell’acido con un incessante lavoro di ricerca
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nei laboratori, che si protrarrà fino ai primi decenni del Novecento. Senza andare troppo indietro nella storia di questo processo si può ricordare che, verso la fine del Settecento, era già abbastanza diffuso un metodo di sintesi dell’acido che, nella sua concezione elementare, rivela comunque intuizioni efficaci per anticipare le fasi caratteristiche delle tecnologie che saranno via via suggerite da una più approfondita conoscenza teorica dei meccanismi di reazione. La tecnica di produzione consisteva infatti nel bruciare una miscela di zolfo e salnitro (85–90% di S e 15–10% di salnitro), introducendola in vario modo, prevalentemente con carrelli, in camere di piombo della capacità di una decina di mc. La combustione veniva accompagnata da un’insufflazione d’aria e da un’iniezione d’acqua. Questa tecnica fu perfezionata, all’inizio dell’Ottocento, prevalentemente ad opera dei francesi. Questi, per primi, avevano capito che non è il salnitro a fornire l’ossigeno per l’ossidazione dell’anidride solforosa a solforica, ma che sono i gas nitrosi a fare da vettori di ossigeno, con un processo (catalitico) di ossiriduzione. Tant’è che in una fabbrica francese, in coda ad una batteria di camere di piombo, Gay– Lussac volle porre una colonna di recupero dei gas nitrosi, che poi proprio da lui prese il nome; il processo fu col tempo sostanzialmente migliorato. La combustione dello zolfo veniva effettuata in forni separati e l’anidride solforosa così ottenuta veniva convogliata in una batteria di camere di piombo, collegate in serie, irrorata con quantità minime di acido nitrico, miscelandola con i gas nitrosi provenienti dalla torre di Glover (dal nome dell’inglese che per primo la introdusse nell’impianto di Newcastle), a sua volta alimentata con la miscela nitrosa recuperata nella torre di Gay–Lussac. All’epoca l’Italia, grazie allo zolfo siciliano, che veniva prodotto col primitivo metodo dei “calcaroni” — forni, nei quali fungeva da combustibile lo stesso zolfo — era il maggior produttore mondiale di acido solforico. Ed infatti operano in Italia, già prima dei 1850, tre fabbriche di acido a Milano, Torino e Palermo. La ricerca innovativa non trascurò il processo di sintesi dell’acido solforico, indicando un metodo di produzione molto più semplice di quello delle “camere di piombo”. Fu l’inglese Peregrine Phillips che offrì all’industria il primo processo basato sulla “catalisi eterogenea”. Egli infatti dimostrò, tra 1830 e il 1831, che facendo passare anidride solforosa ed ossigeno in un tubo contenente platino e convenientemente riscaldato, si otteneva un effluente contenente anidride solforica. Ad evidenziarne la presenza era sufficiente far passare l’effluente
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in acqua, che naturalmente scioglieva l’anidride solforica trasformandola in acido. Phillips poi provvide a tutelare con un brevetto i risultati della sua ricerca, ma l’industria inglese (e non solo quella) non percepì l’importanza del nuovo metodo di sintesi. Così il lungo elenco delle occasioni mancate dall’industria chimica, nel suo periodo di apprendistato, si arricchì di un nuovo episodio.
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Appendice Lista di spezie e droghe di comune impiego all’inizio dell’Ottocento (Tratta dai manifesti di bordo di navi attraccate al porto di New York nel 1820)1 ACONITO – Pianta delle Ranuncolacee dalle cui radici si estrae l’aconitina, potente veleno che ha varie applicazioni in medicina. ALOE (o aloè) – Droga medicinale ricavata dalle foglie della pianta omonima usata come purgante ed eupeptico (stimolante per l’appetito e la estione) ASSAFETIDA (Ferula asa–fetida) – Si estrae per incisione dal tronco da cui sgorga come gommoresina puzzolente, rapprendendosi in granelli duri e fragili della grandezza di un pisello o in masse più grosse (assafetida amigdaloide); è impiegata per l’azione vermifuga e/o vermicida antielmintica e carminativa (che favorisce l’eliminazione di gas dallo stomaco e dall’intestino) nonché blandamente diuretica. BELLADONNA – Pianta fetida e vischiosa delle Solanacee, dalle cui foglie si estrae la belladonnina, alcaloide che, per idrolisi, dà tropina ed acido atropico BENZOINO – Balsamo naturale estratto da varie piante e costituito da sostanze resinose, acido benzoico e vaniglino impiegato in medicina come anticarrale ed antisettico. CANFORA – Ben nota essenza aromatica bianca, traslucida, solubile in oli, insolubile in acqua estratta da piante Lauracee (Cinnamo1. Questa lista è riportata nel primo volume dell’American Chemical Industry di Haynes. Per consentire al lettore di farsi un’idea dell’impiego terapeutico, alimentare o industriale delle sostanze elencate abbiamo provveduto, nella misura del possibile, alla traduzione delle voci indicate, illustrando l’uso che di quelle materie si farebbe oggi, così come è riportato dal Vocabolario Illustrato della Lingua Italiana di G. Devoto e G.C. Oli (a cura di), Milano, 1979; nonché dall’Enciclopedia Britannica e dalla New Standard Enciclopedia, ad vocem. W. Haynes, American chemical Industry: decade of new Products, Toronto, D. Van Nostrand, 1954, vol. I, p. 218.
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mum e Chrysantenium partheniun) impiegata comunemente come antitarme e in medicina come antisettico e cardiocinetico. CANTARIDE (Lytta vesicatoria) – Nome degli insetti dai cui corpi, essiccati e polverizzati, si ricava la droga omonima nota per le proprietà irritanti e afrodisiache (la polvere era usata anche in medicina). CAPSICO – Pianta delle solanacee con trenta specie conosciute che dà i ben noti frutti a bacca di sapore pungente per la presenza di composti fenolici (peperoncino rosso, pepe di Cajenna, paprika, berberè). CINCONA (etimologicamente più corretto cinchona da pronunciare alla spagnola) – Rubiacee andine, la più nota delle quali è la C. Calisaya — nome volgare china — di cui si impiega la corteccia per estrarne alcaloidi chinolinici (chinino) ad azione antipiretica e tossica protoplasmatica (antimalarica); cinchona deriva dal nome di Aria de Osorio, contessa di Chinchon, che per prima sperimentò e fece conoscere le virtù terapeutiche della china (nome degli alcaloidi contenuti in numero di almeno 20 nella Cinchona Calisaya). COLCHICO – Colchicum autunnale, pianta spontanea dei prati umidi montani, con bulbi e semi velenosi, il cui estratto ha impiego in farmacia perché contiene la colchicina, alcaloide ad azione antinevralgica antireumatica, diuretica, ipertensiva, antiparassitaria ed antiallergica. COLOCINTO (dal greco kolokyntis = cetriolino) COPAIBA (o copaive) – Nome che designa sia la pianta sia il tronco, da cui si estrae un balsamo cioè una oleoresina, usata in passato nelle affezioni delle vie urinarie, specialmente contro la blenorragia; per distillazione siottiene dal balsamo un olio essenziale, costituito da diversi sesquiterpeni, con prevalenza di cariofilne, con proprietà terapeutiche simili a quelle del balsamo, ma molto meno efficaci. LOBELIA – Genere di piante con centinaia di specie erbacee; alcune sono medicinali come la L. laxiflora, le cui radici sono emetiche, e-
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spettoranti antiasmatiche e la L.inflata o tabacco indiano, le cui foglie contengono la lobelina, alcaloide ad energica azione respiratoria. MIRRA – Gommoresina estraibile da alcune piante del genere Commifere, usata soprattutto in profumeria; per distillazione della gommoresina si ottiene l’olio di mirra, miscela di diversi composti terpenici ad azione astringente ed antisettica. NOCI = VOMICA – Designa pianta e semi della Strychnos nux vomica, delle loganiacee, piccolo albero originario delle foreste tropicali asciutte indiane e birmane, con frutti a bacca delle dimensioni di un’arancia con epidermide gialla, a maturazione, e polpa morbida, edule. I semi a disco, di due cm. ca. di diametro, sono velenosi per la presenza degli alcaloidi stricnina e brucina e vengono usati in medicina per la preparazione di medicinali tonici e stimolanti. OPPIO – Succo condensato, parzialmente solubile in acqua ed alcol, ottenuto per incisione delle capsule della pianta erbacea Papaver somniferum. Per l’alto contenuto di alcaloidi esercita, a dosi terapeutiche, azione antispastica analgesica, ipnotica e sedativa sui centri respiratori e della tosse. RABARBARO – Pianta orticola coltivata per il suo rizoma iscritto nelle farmacopee come R.C. per le sue proprietà colagoghe, antibiotiche e, secondo dosaggio, da amaro toniche a purgante; dal rizoma polverizzato del rabarbaro cinese si ottiene il noto liquido amaro e digestivo. OLIO DI RICINO (Castoroil) – Liquido giallognolo, denso e fluido, estratto dai semi della pianta di ricino (Ricinus communis) della famiglia delle Euforbiacee. Dal tradizionale impiego come purgante, l’olio di ricino è usato oggi come lubrificante alle alte temperature, per il trattamento del cuoio e nella produzione di pittura, vernici, coloranti e saponi. SALSAPARIGLIA – Pianta spontanea delle Gigliacee che alligna anche in Italia; dalle radici si estrae la sarsaponina, un glicoside che per idrolisi dà monosaccaridi e sarsapogenina; la salsapariglia ha
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trovato impiego in medicina come sudoripara, depurativa, antireumatica e antisifilitica. SCAMONEA (o scamonnea) – Nome italiano della Convulvulus Scamonia erba perenne con radici a fittone, da cui si estrae una resina usata in terapia come purgante drastico. SCILLA – Detta anche cipolla marina o squilla (Scilla maritima), pianta erbacea alta dai 90 ai 150 cm. È pianta velenosa dotata di un bulbo, le cui squame sono usate in medicina per le loro proprietà cardiotoniche diuretiche e di fluidificante polmonare. TOLÙ – Il tolù o balsamo di tolù (dal nome dell’omonima città colombiana) è un liquido giallognolo prodotto dalla pianta Myloxyron toluiferum, usato nelle affezioni catarrali delle vie respiratorie, nella cura di ulcere e come topico nella psoriasi. TRAGACANTA – Genere di piante molto diffuse in Asia, da cui cola una gomma biancastra, adragante o dragante, oggi prodotta anche sinteticamente impiegata per usi farmaceutici e industriali; in inglese tragacanth designa sia la pianta che la gomma adragante. VALERIANA – Nome che designa sia la pianta delle Valerianacee sia l’estratto medicinale che se ne ricava; il rizoma e le radici dell’erba perenne (valeriana officinalis) hanno proprietà amare, antiacìde, antiepilettiche antispasmodiche, cardiotoniche, diuretiche, ipotensive, simpaticolitiche toniche. VERATRO – Pianta appartenente al genere delle Gigliacee, diffusa anche in Italia; le radici del veratro bianco (in estratto o in polvere) hanno proprietà analgesiche, toniche e parassiticida; le radici del veratro nero hanno azione antispasmodica, cardiotonica, coronariodilatatrice e diuretica. GINGER – Se sta per zenzero designa la pianta delle Zinziberacee zingiber officinale, il cui rizoma, fresco o essiccato, viene usato in cucina come stimolante della digestione, in farmacia come carminativo e nell’industria alimentare come correttivo di altri sapori; commercialmente ginger designa anche la varietà Sofia di un’essenza indiana estratta dalla Cymbopogon martini.
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SAPONE DI CASTIGLIA – Sapone naturale, estratto dal grasso animale, simile al sapone marsigliese, ma di colore bianco, impiegato all’epoca anche per l’igiene personale. CUBEBS – Bacche di cubeb. Frutto acerbo, ma pienamente sviluppato, essiccato al sole. Di una piante rampicante delle Piperacee (Giava, Sumatra, Borneo e Ceylon). Le bacche contengono circa il 15% di un olio volatile di odore aromatico e gradevole, dal quale si estrae un prodotto solido (canfora di cubeb). In Europa olio e canfora sono state impiegate come spezie. In medicina la droga era impiegata come diuretico, mentre le bacche triturate venivano fumate come sigarette per combattere catarro e asma. GAMBOGE – Varietà di gommagutta color arancione: è una gommoresina presente in alcune piante, impiegata come purgante, antielmintico ed anche come colorante. GIALAPPA – Pianta le cui radici sono usate come purgante drastico; ormai è praticamente usato solo dal veterinario per le coliche equine. IOSCIAMO – Genere di piante delle Solanacee; sono erbe annue, bienni o perenni; alcune specie costituiscono importanti medicinali per il loro contenuto in alcaloidi del gruppo dell’atropina nel campo dei sedativi. IPECACUANA – Pianta con radici dotate di proprietà emetiche e catartiche, dalle radici dell’ipecacuana brasiliana si estrae l’emetina, alcaloide specifico contro la dissenteria america. LIQUIRIZIA – Pianta erbacea, le cui radici, a partire dal terzo anno di età, hanno proprietà antispasmodiche, diuretiche, ipotensive e fluidificanti nell’ambito polmonare; l’impiego si estende anche alla preparazione di droghe e dolciumi e, all’epoca, la liquirizia era usata anche per il trattamento del tabacco.
L’industria chimica europea nella seconda metà dell’Ottocento
Nella prima metà dell’Ottocento, pur in presenza di un significativo sviluppo della chimica, come disciplina scientifica, non si registrano, in campo industriale, sviluppi innovativi. Nel pensiero della storiografia chimica prevale l’idea che il divario sia quasi sempre imputabile all’accentramento dei ruoli di ricercatore ed imprenditore nella stessa persona. In altre parole, spesso il ricercatore si sarebbe poi improvvisato imprenditore per sfruttare immediatamente i risultati del proprio lavoro di laboratorio. Si è peraltro ritenuto che nello stesso ambito della ricerca teorica lo sviluppo sia stato in qualche misura penalizzato dalla netta separazione tra quei due rami della scienza, la chimica e la fisica, che si sarebbero poi trovati, sempre più frequentemente, impegnati ad integrarsi per affrontare tematiche di comune interesse. In base a queste considerazioni sarebbe lecito supporre che l’impetuoso sviluppo dell’industria chimica, nella seconda metà dell’Ottocento, sia da attribuire ad imprenditori di nuovo stampo. Ma se lasciamo provvisoriamente da parte gli straordinari sviluppi dell’industria chimica tedesca, che esamineremo insieme a quelli dell’industria nordamericana nel capitolo successivo, constatiamo che la scena dell’industria chimica europea è in questo periodo dominata da due singolari protagonisti di vecchio stampo: Alfred Nobel ed Ernest Solvay. Abbinandoli nella citazione, si deve sottolineare che i due personaggi sono passati alla storia non solo in virtù delle loro singolari capacità imprenditoriali, ma anche per il merito di avere dato una dimensione ed un respiro internazionali all’industria chimica. In questi casi la sovrapposizione dei ruoli di ricercatore e di imprenditore li ha esaltati entrambi perché il successo arride «duce virtute sed comite fortuna», quando cioè, (traducendo liberamente Cicerone) il talento è accompagnato dalla buona sorte. Ma si dovrebbe aggiungere che la fortuna accompagna chi è dotato di talento e di grande tenacia, come le vicende umane dei due grandi industriali stanno a dimostrare. Cominciamo da Alfred Nobel, che è considerato il fondatore della moderna industria degli esplosivi. A. Nobel (1833–1896), figlio di Immanuel, ebbe un’infanzia stentata, senza la guida paterna, perché il padre, dopo essere fallito in Svezia, era andato all’estero, cercando di rifarsi una posizione. La madre per tirare avanti gestiva un negozietto 57
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di latte e verdura, mentre Alfred, bimbo di sette anni, vendeva fiammiferi in strada. Una famiglia che appare segnata dalla malasorte, se si pensa che di otto figli uno morì a 20 anni, per un’esplosione e solo tre superarono i ventun’anni. Finalmente però il padre, nel 1841, richiamò tutta la famiglia a San Pietroburgo, dove aveva raggiunto una certa agiatezza come comproprietario di una società tecnica che forniva materiale bellico al governo russo. Così Alfred e i suoi due fratelli, Robert (1829–1896) e Ludvig (1831–1888), ebbero la possibilità di una buona educazione privata. Alfred, in particolare, acquisì la padronanza di numerose lingue straniere, tedesco, francese, russo e, più d’ogni altra, l’inglese, come risulta da un’autobiografia in versi sciolti, scritti in questa lingua all’età di 18 anni. Egli conseguì inoltre una buona preparazione in materia di scienze naturali. A completamento della sua educazione infine il padre gli consentì di viaggiare per due anni, che Alfred trascorse in Svezia, Germania, Italia, Nordamerica e, più a lungo, in Francia. Fu qui che, a Parigi, approfondì le sue conoscenze di chimica. Rientrato ne1 ’52 a Pietroburgo fu inserito nell’azienda paterna, dove fece il suo apprendistato con qualche interruzione dovuta alla sua cagionevole salute. Gli affari procedevano bene perché la guerra di Crimea (54–56) faceva prosperare le aziende di forniture belliche. Ma quando la guerra si concluse molti contratti furono annullati e la situazione rapidamente volse al peggio. Vani furono i tentativi di Alfred di ottenere dai banchieri parigini e londinesi aiuto e comprensione ed infine, com’era inevitabile, l’azienda paterna fallì. Allora i figli spinsero Immanuel a ritornare in patria per restituirlo ad un regime di vita normale. Ma l’irriducibile Immanuel non rinuncia ai suoi colpi di testa. Con l’incoscienza che gli deriva dall’innato ottimismo e da un’infarinatura di conoscenze tecniche, tra il ’59 e il ’60, apre un piccolo laboratorio per esplorare le possibilità d’impiego della nitroglicerina come esplosivo dirompente, per applicazioni in miniera e nella costruzione di strade ferrate. Si resta allibiti confrontando la temerarietà del vecchio Nobel con la grande prudenza del professore di chimica torinese Ascanio Sobrero. Questi, quando nel 1846 era riuscito a produrre nitroglicerina, trattando a freddo glicerina pura con una miscela concentrata nitrosolforica, aveva respinto l’idea di utilizzare la propria scoperta per quelle finalità commerciali, della cui valenza economica era pienamente consapevole, per la paura dei grandi rischi cui sarebbe andato incontro!!! Sicché per alcuni anni l’unico impiego pratico della nitroglicerina fu quello del suo microdosaggio nella terapia dell’angina pectoris.
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Ritorniamo ora al laboratorio di Heleneborg, attivato da Immanuel. Alfred, non meno spregiudicato del padre, ma con la presunzione, almeno in parte giustificata, di disporre di una più solida base di conoscenze scientifiche, non ha gli scrupoli di Sobrero. Decide quindi di lanciarsi nell’avventura. Qui la storia registra un episodio veramente stupefacente. Alfred si reca a Parigi, per ottenere un primo finanziamento del progetto che ha in mente, proprio da quei banchieri che tre anni prima lo avevano mortificato rimandandolo a casa a mani vuote nonostante le sue suppliche insistenti. Ed è altrettanto sorprendente che due avveduti e prudenti banchieri ebrei del Crédit Mobilier si lascino incantare da questo giovane ventottenne, concedendogli un prestito di 100.000 franchi, solo in base all’affascinante prospettiva di un mercato di dimensioni mondiali, come Alfred aveva loro anticipato, ostentando assoluta sicurezza. Ma la sorpresa si attenua, se si pensa che il Crédit Mobilier era una banca d’affari, avvezza a finanziare lavori ferroviari ed opere pubbliche. Ma ora che ha ottenuto il prestito, Alfred deve pensare alla ripartizione dei compiti nell’ambito familiare. Al fratello maggiore Robert toccherà il compito di affrontare inizialmente il problema più difficile: ricavare dagli esperimenti di laboratorio di Sobrero un know how valido per la produzione industriale di nitroglicerina con un minimo di sicurezza. Alfred, con l’aiuto del padre, si occuperà di tutto il resto. Fu tranquillamente ignorata la difficoltà maggiore: quella del trasporto della nitroglicerina, in condizioni di sicurezza, sui percorsi accidentati che spesso i carrettieri dovevano affrontare. Si riteneva sufficiente l’adozione di elementari accorgimenti per attenuare lo scuotimento dei tini. Eppure il trasporto della nitroglicerina è stato sempre a così alto rischio da ispirare negli anni Cinquanta (del Novecento) il famoso film di Clouzot Il salario della paura. Ma all’epoca la temerarietà era una malattia contagiosa, se dobbiamo dar credito alle cronache del tempo, che riferiscono di minatori capaci di bruciare nitroglicerina nelle loro lampade o di impiegarla come lubrificante per gli assali dei loro carri. E tuttavia della fortuna non si può abusare e anche i Nobel pagarono il loro pesante tributo per un’attività a così alto rischio quando lo stesso fratello minore di Alfred, il ventenne Emil, nel 1864, restò vittima di una esplosione nella fabbrica di Heleneborg. Solo allora le autorità svedesi intervennero per fare spostare la fabbrica a Vinterviken, ritenendo sufficiente, come provvedimento di sicurezza, che una lavorazione tanto pericolosa si svolgesse lontano dall’abitato. Ma, nonostante tutto, i Nobel non sarebbero riusciti a fare apprezzare
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l’enorme capacità dirompente del loro esplosivo, limitandosi ad accettare il rischio di produrre e trasportare la nitroglicerina in condizioni di così precaria sicurezza. Occorreva comunque trovare il modo di fare avvenire l’esplosione, per le finalità previste dall’utilizzatore, in condizioni di sicurezza. Alfred non tardò a rendersi conto che per innescare l’azione esplosiva non bastava l’agente di ignizione, indispensabile per la polvere da sparo, ma occorreva un detonatore con il compito di trasmettere, una volta avviata per ignizione la decomposizione esplosiva dell’agente detonante, una violenta onda d’urto alla nitroglicerina. Ancora una volta la soluzione fu trovata ricorrendo ad una scoperta quasi dimenticata. Trattasi del fulminato di mercurio che Howard aveva preparato all’inizio dell’Ottocento, il quale, per ignizione, esplode con uno shock violento. Il detonatore di Nobel fu quindi realizzato piazzando circa un grammo di fulminato di mercurio in un corto tubo di rame, chiuso ad un estremo da un fondello, a mo’ di bossolo. Fu questa in realtà la scoperta che consentì ad Alfred, a partire dal 1865, di fornire ai clienti una tecnica d’impiego della nitroglicerina finalmente dotata di sufficiente affidabilità. Negli anni successivi Alfred Nobel si dedicò con tutte le proprie energie a realizzare l’internazionalizzazione della sua attività industriale, rendendo nello stesso tempo più sicuro il trasporto della nitroglicerina. Possiamo anzi supporre che questa propensione a trasferire l’attività produttiva nei vari paesi utilizzatori come Finlandia, Norvegia, Germania, Boemia e successivamente Stati Uniti e Gran Bretagna, sia stata determinata proprio da considerazioni di sicurezza. Era infatti evidente che l’eliminazione del trasporto marittimo comportava non solo l’eliminazione della corrispondente voce di costo, ma anche quella dei rischi connessi alle operazioni d’imbarco e di sbarco con il taglio degli oneri assicurativi. D’altra parte le vicissitudini familiari e sue personali lo avevano radicalmente sprovincializzato ed “internazionalizzato” sì da farci ritenere che l’ambizione di essere, anche come imprenditore, cittadino del mondo lo sollecitasse a prestare la dovuta attenzione agli aspetti tecnico–economici della sicurezza e del trasporto. In realtà intanto la pratica aveva posto in evidenza che le prestazioni nettamente superiori della nitroglicerina, come esplosivo dirompente, rispetto alla polvere da sparo, finivano col risultare meno attraenti in ragione di alcuni seri inconvenienti. Infatti la nitroglicerina continuava a presentarsi come un liquido che non solo richiedeva costosi recipienti per il trasporto,
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ma anche imponeva delicate e rischiose operazioni di travaso nei luogo d’impiego. Questi ed altri analoghi inconvenienti avevano alimentato in Alfred l’idea che la nitroglicerina doveva perdere la sua caratteristica di liquido per farsi maneggiare più docilmente. Gli esperimenti condotti tra il 1863 e il 1866 dimostrarono che l’assorbimento in un materiale poroso costituiva sì una risposta positiva all’istanza di sicurezza, ma del tutto insufficiente per il problema industriale. Non era infatti accettabile lo scarso potere assorbente dei vari materiali sperimentati perché poi l’eccessiva quantità di materiale assorbente ed inerte introdotta finiva col ridurre troppo la potenza dirompente dell’esplosivo. Ma provando e riprovando, alla fine Alfred riuscì a far saltare fuori dal suo cilindro la soluzione vincente: quella di una farina fossile nota con la denominazione tedesca di kieselghur. Occorre precisare, solo per orientarsi sulla natura del materiale impiegato, che si tratta di scheletri fossili di alghe diatomee, assai piccole (da pochi micron ad un mm), caratterizzate da una membrana pectica silicizzata. Diffusissime in tutte le acque gli scheletri fossili delle diatomee si ritrovano talvolta accumulati in depositi marini o lacustri a costituire le “terre assorbenti”. Queste terre a loro volta si distinguono in farine fossili o terre di diatomee, se di acque dolci, e in Tripoli, se di acque salse. Il pregio del kieselghur impiegato da Nobel è che esso assorbe, in rapporto di peso, una quantità tripla di nitroglicerina. Sicché Alfred poteva assicurare alla clientela che, a parità di peso consegnato, aveva sì ridotto del 25% la quantità di esplosivo, ma aveva praticamente eliminato il rischio della manipolazione. Ma Nobel non si ferma qui. Poiché il kieselghur imbevuto di glicerina fino a saturazione si presenta come un materiale plastico e pastoso lo estrude in forma di candelotti, che avvolge poi in spessa carta paraffinata, offrendo così alle imprese utilizzatrici cartucce adatte per cavità di qualsiasi dimensione. Alla propria invenzione l’autore diede il nome di dinamite, come denominazione depositata e marchio di fabbrica; denominazione che accoppiata al suo nome generò il binomio Dinamite Nobel, poi adottata per molte società da lui create. Ma a questo punto il genio creativo di Alfred deve anche soddisfare la sua smania di perfezionista ed allora entra in gioco la nitrocellulosa. Lo spunto per l’inventore nasce dalla constatazione che la farina fossile predilige l’acqua, sicché, in presenza dì umidità tende a spiazzare la nitroglicerina. Perciò Nobel in un primo tempo pensa alla protezione delle cartucce mediante una più accurata impermeabilizzazione dell’involucro. Ma gli accorgimenti artigianali non fanno più per
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lui; così decide una soluzione radicale, intervenendo sulla composizione stessa dell’esplosivo. Nasce allora la gelatina esplosiva, costituita da un impasto di nitrocellulosa (fulmicotone), nitroglicerina e canfora. Sarà poi la volta della balistite, in cui il rapporto tra nitroglicerina e nitrocellulosa massimizza il potere propellente dell’esplosivo. Ne approfitteranno i prussiani per una memorabile applicazione bellica, quando l’impiegarono come esplosivo di lancio per il gigantesco cannone, la “grossa Berta” che hanno puntato sulla capitale francese durante il famoso assedio di Parigi del 1871. Ma questa marginale notazione storica non deve far dimenticare l’enorme contributo che la dinamite, nelle sue varie formulazioni, ha dato alla realizzazione di opere gigantesche. Nell’elenco, pur ridotto all’essenziale, figurano i canali di Panama e di Corinto, i trafori alpini, la ferrovia transcontinentale canadese con il complemento dell’esercizio di ricche attività minerarie quali la coltivazione dei campi auriferi australiani e sudafricani. Nel volgere del ventennio successivo alla scoperta della dinamite, Nobel ottiene centinaia di brevetti e il suo impero si estende, diversificandosi mediante investimenti in altri rami della chimica e nel settore dei contatori e dei trasporti. Svolge la sua attività industriale in vari paesi, concentrandola prevalentemente in Germania e Inghilterra, nonostante le controversie legali che caratterizzeranno il suo rapporto col governo inglese. Trova invece deludente l’esperienza industriale compiuta negli Usa. Qui non solo si scontra con la DuPont che tenta di ostacolare l’affermazione sul mercato della dinamite, a difesa della propria posizione di regina degli esplosivi tradizionali, ma si trova a fare i conti con i metodi prevalenti nel mondo degli affari, che trova poco “ortodossi”, non riuscendo a giustificare le disinvolture di comportamento, proprie del regime di concorrenza spietata, che in quell’ambiente è legge. Con l’Italia il rapporto privilegiato nacque quando Nobel decise di cedere al governo Crispi il brevetto della balistite, nonostante l’intransigente opposizione francese. Si consolidò poi, quando decise di concludere la sua esistenza di uomo solitario trasferendosi definitivamente a Sanremo. Ma in Europa sono naturalmente Inghilterra e Germania che dominano la scena industriale. Merita perciò rilevare che solo nel 1873 Nobel riesce ad approdare in Inghilterra, creando la British Dynamite Company, che mette quell’anno sul mercato le prime libbre di dinami-
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te. Né sembra trascurabile il fatto che, nonostante la comparsa sul mercato della balistite, che ha già ricevuto il suo battesimo come esplosivo bellico, impiegato dai Prussiani, in Inghilterra sarà la dinamite tradizionale — quella al kieselghur — ad acquisire una posizione dominante, restando sul mercato fino al 1930. Non fu estranea a quest’indirizzo la normativa inglese che, in materia di produzione, maneggio e trasporto di esplosivi, era la più severa in Europa. Comunque Nobel conquistò rapidamente in Inghilterra una posizione dominante e inattaccabile fino al 1881 ed in questo periodo il monopolio così conquistato gli rese profitti straordinari. In verità non mancavano gli strumenti per aggirare la posizione brevettuale, poiché, per una diversificazione accettabile, era allora sufficiente aggiungere alla nitroglicerina nitrato ammonico, carbone, nitrato potassico, segatura, clorato ed altro ancora. Occorreva però disporre anche di un ampio mercato, di alcuni inventori dotati e di alcuni imprenditori capaci. E queste condizioni ricorrevano allora proprio in Germania, che era nettamente il maggiore mercato esistente per dinamite, balistite ed affini. Così avvenne che il tedesco Krebs, audace non meno che disinvolto, costruisse nei pressi di Colonia una fabbrica per la produzione di un “nuovo” esplosivo, denominato “Lithofracteur” cioè frantumatore di rocce, e che cominciasse ad esportarlo in Inghilterra. Nobel lo attaccò prontamente chiamandolo in giudizio, ma in appello Krebs, riuscì a prevalere. A questo punto La Nobel Explosives Company ricorse agli estremi rimedi e portò Krebs, al giudizio della Camera Alta. In questa sede finalmente lo sconfisse sonoramente, dotandosi di un’arma efficace anche contro gli altri contraffattori. Con la balistite comunque Nobel aveva inconsapevolmente richiamato l’attenzione degli ambienti militari sugli esplosivi di sua invenzione. Le conseguenze che ne deriveranno ci imporranno di ritornare sull’argomento una volta giunti alla vigilia della prima guerra mondiale. Ma per concludere questa vicenda ritorniamo al rifugio sanremese di Nobel. Qui il ricco industriale in pensione è raggiunto dalla triste notizia della morte del fratello. Da lui Alfred eredita i campi petroliferi di Baku nell’Impero zarista. Così diventa ancora più consistente l’immenso patrimonio di cui già dispone e Alfred decide di destinare le sue enormi ricchezze alla creazione della prestigiosa fondazione che porta il suo nome. Trovando ancora oggi tra i premi quelli miliardari, destinati alla chimica e alla fisica, possiamo ben dire ch’egli abbia generosamente ripagato il debito contratto nei confronti della Scienza, il cui dettato di rigore e prudenza era stato sostanzialmente ignorato,
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quando i Nobel si erano temerariamente lanciati nell’avventura della nitroglicerina. In conclusione Alfred Nobel può essere ricordato come l’uomo che diventa imprenditore chimico, ispirato da una ricerca scientifica, ma che coglie il successo, grazie al proprio genio creativo, e lo consolida procedendo per primo alla internazionalizzazione dell’industria chimica. Come abbiamo appena visto, la storia di Nobel dimostra che una ricerca positivamente conclusa, quella di Sobrero, è condizione necessaria, ma largamente insufficiente, per tradurre in un processo industriale i risultati ottenuti in laboratorio. L’esperienza drammaticamente vissuta da Ernest Solvay non solo conferma questa tesi, ma pone in evidenza che l’ingegneria del processo (intesa come progettazione e costruzione dell’impianto) ed il controllo della gestione dell’attività produttiva costituiscono gli autentici fattori dell’affermazione di ogni processo industriale. Proprio per questo motivo apparirebbe riduttivo attribuire il prestigio e la fama riconosciuti al grande imprenditore belga prevalentemente al processo di fabbricazione del carbonato sodico che porta il suo nome. Ma lasciamo che siano la storia stessa e le vicissitudini della sua impresa industriale a definire il profilo del personaggio. Ernest Solvay nasce il 16 aprile 1838 a Rebecq–Rognon nel Brabante vallone. Il padre Alexandre, proprietario di cave e saline, pur appassionato di corse di cavalli, è un severo educatore che impone ai due maschi e alle due figlie più giovani una disciplina rigida. A temperare il rigore paterno c’è però l’affettuosa e incisiva presenza materna, che costituisce il cemento di quella solidarietà familiare, che si rivelerà preziosa nei momenti difficili che il destino ha loro riservato. In questo quadro si evidenzia la grande amicizia che lega i due fratelli, Ernest ed Alfred, la cui intima collaborazione risulterà determinante per la messa a punto del processo chimico. D’altra parte essi hanno una diversa formazione culturale: Alfred, è perito agrimensore, mentre Ernest, proprio quando stava terminando gli studi per accedere all’università, viene colpito da una grave pleurite; sicché poi la sua cagionevole salute lo costringerà a formarsi da autodidatta il suo patrimonio culturale. Così infatti la sua camera, quella che già nel periodo scolastico aveva trasformato in un piccolo laboratorio, diventa la piccola aula, nella quale Ernest apprende gli elementi fondamentali della chimica, rifacendo gli esperimenti più semplici. Ma ad accrescere la sua familiarità con le esigenze pratiche dell’attività industriale contribuisce lo zio Semet, che dirige un’officina del gas e deve trovare un
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rimedio all’accumulo delle acque ammoniacali. Chiamato dallo zio in fabbrica, Alfred impara a manipolare l’ammoniaca e, quando ritorna a casa, cerca di comprendere il comportamento dei sali ammoniacali in soluzione. Così gli capita un giorno di pestare carbonato ammonico in un mortaio e, una volta polverizzatolo, di versarvi acqua salata, osservando che nel liquido che egli ha agitato si forma un precipitato bianco, che è bicarbonato ammonico. A questo punto commette, per sua grande fortuna, l’errore di credere di avere scoperto una nuova reazione, anzi un processo industriale innovativo in grado di soppiantare il processo Leblanc. La convinzione scaturisce dal calcolo, che si affretta ad impostare, con febbrile sollecitudine, il quali indica che, con il nuovo processo, si potrebbe produrre soda ad un costo più che dimezzato rispetto a quello del processo Leblanc. Incoraggiato dallo zio, che spera di trovare così un vantaggioso impiego per le acque ammoniacali della sua officina dei gas, Ernest prosegue nelle ricerche proprio perché il recupero dell’ammoniaca è essenziale nell’economia del processo. Intravedendo una soluzione a questo problema (la mancanza di un impianto pilota non gli consente una sperimentazione probante) decide infine di chiedere la titolarità dell’invenzione. E poiché all’epoca, in Belgio, non si procedeva all’esame preliminare per l’accertamento delle priorità, il 15 aprile 1861 al ventitreenne Ernest Solvay viene rilasciato il primo brevetto dal titolo Fabbricazione del carbonato sodico mediante sale marino ammoniaca e acido carbonico. Chimicamente il processo è molto semplice. Esso consiste in una reazione di doppio scambio tra cloruro sodico e bicarbonato ammonico. Questa reazione è naturalmente preceduta dalla preparazione del bicarbonato ammonico, ottenuto per carbonatazione di acque ammoniacali, e seguita dalla conversione del bicarbonato in carbonato per riscaldamento, con recupero dell’anidride carbonica. Il recupero dell’ammoniaca viene effettuato per trattamento del cloruro ammonico con calce. La sequenza delle quattro reazioni, prescindendo dalle tonalità termiche, è qui di seguito indicata: 1) CO2 + H2 O + NH3
(NH4)HCO3
1) NaCl + (NH4)HCO3
NaHCO3 + NH4Cl
2) 2NaHCO3
Na2CO + H2 O + CO2
3) 2NH4Cl + CaO
2NH3 + H2 O + CaCl2
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Questo processo, a stretto rigore, tenendo cioè conto delle priorità, non può essere attribuito a Solvay. Ma se la titolarità di un processo deve essere rivendicata da chi, sulla base delle conoscenze e delle esperienze e dei risultati di laboratorio, ne ha fatto il motivo ispiratore di una realtà industriale di grande respiro e di enorme durata, allora si può affermare che nell’identificare la produzione di soda col processo Solvay, la storia dell’industria chimica ha operato attenendosi a criteri di merito e competenza. Per contestare la priorità valgono infatti l’elenco e la storia degli innumerevoli tentativi per sfruttare industrialmente la reazione fondamentale utilizzata da Solvay, i quali spaziano nell’arco del cinquantennio che precede la data della concessione del brevetto belga ad Ernest. Basta ricordare che già nel 1811 A. Fresnel, il grande fisico autore della teoria della luce, aveva scoperto la reazione fondamentale di doppio scambio e ne aveva intuito la portata. Seguire i vari tentativi effettuati nel successivo cinquantennio per mettere a punto nuovi metodi e idonee apparecchiature, anche in fabbriche sperimentali che oggi definiremmo impianti pilota o semi–industriali, ci porterebbe fuori strada. Ci limitiamo perciò a citare il tentativo di Schloesing e Rolland, perché con la loro fabbrica di Puteaux sono quelli che più d’ogni altro hanno sfiorato il successo. Essi infatti adottarono, per la reazione tra bicarbonato ammonico e cloruro sodico, un’apparecchiatura più razionale delle precedenti, costituita da una serie di cilindri orizzontali “assorbitori”, disposti in cascata, in modo da prolungare il contatto tra i reagenti ed ottenere, con la tecnica dei flussi in controcorrente, un effetto equivalente a quello provocato da un agitatore. In pratica la salamoia ammoniacale scende dall’alto, l’anidride carbonica viene iniettata, sotto pressione, dal basso e, nelle larghe tubazioni laterali di collegamento tra i cilindri, sono inseriti degli agitatori. In tal modo il tempo di completamento della reazione risultava più che dimezzato. Ma quando i due francesi, nel 1868, pubblicano i risultati ottenuti, negli «Annales de Chimie et de Physique», fanno in realtà una malinconica comunicazione “testamentaria” perché essi hanno già definitivamente rinunciato a proseguire, in questa avventura industriale, nella quale hanno bruciato tutte le loro risorse finanziarie. Sembra che i due ingegneri, pur avendo constatato la validità del processo con alcune centinaia di tonnellate di buon prodotto, siano stati indotti alla fatale rinuncia anche da motivazioni di natura fiscale. Infatti la competente amministrazione fiscale francese, degna erede dei burocrati che avevano crocifisso Leblanc, pretendeva il pagamento
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dell’imposta sul sale per tutta la salamoia prelevata. In tal modo non si teneva conto di quella non utilizzata, perché rigettata con le acque contenenti cloruro di calce, e si penalizzava in maniera decisiva la economicità del processo. Il fisco, con le tragedie di Lavoisier e Leblanc e con il forfait di Schloesing e Rolland, è l’autentico protagonista dì un bel pezzo di storia dell’industria chimica francese. E la rinuncia dei due ingegneri si verificava proprio quando, ironia della sorte, i Solvay ottenevano i primi successi È ora tempo di ritornare ad Ernest Solvay che, inizialmente, commetterà lo stesso errore dei francesi, non rendendosi subito conto del valore determinante, per il successo dell’impresa, di una corretta e razionale ingegneria del processo. Questa fase peraltro segue quella del tentativo di sfruttare il successo, quando i Solvay cercano di vendere il brevetto di Ernest, ma le società interpellate, tra le quali spicca il nome della Saint Gobin non mostrano alcun interesse per il nuovo metodo di produzione della soda. Allora Ernest chiama a collaborare con lui il fratello Alfred, ma prima di lanciarsi nell’avventura industriale chiede il parere dell’avvocato Pirmez, il legale che inizialmente aveva messo in guardia i Solvay di fronte ai rischi riguardanti le priorità brevettuali. Ma ora è proprio Pirmez che incoraggia i Solvay a non desistere, convinto com’è, dopo i suoi approfonditi esami brevettuali, che, se tanti chimici e ingegneri si sono impegnati a studiare tanti processi che ruotano sempre intorno alla stessa idea centrale, quest’idea merita di essere sviluppata fino in fondo. Così matura la decisione finale e nel 1863 Ernest ed Alfred Solvay fondano la società in accomandita Solvay e Compagnie con un capitale di 136.000 franchi. Compito istituzionale è la realizzazione di un impianto dimostrativo, dal quale i fratelli confidano di ottenere non solo la messa a punto di apparecchiature e processo, ma anche qualche profitto che consenta all’impresa di svilupparsi. Ma la strada per arrivare alla colonna di reazione perfezionata, ai filtri rotanti, ai forni a calce con ridotto consumo di coke, e ai tanti accorgimenti che renderanno il processo Solvay molto più economico di quello Leblanc, è tutta in salita. Non c’è quindi da stupirsi che i Solvay debbano pagare il pedaggio fatalmente dovuto da chi non ha tempestivamente valutato il rischio di partire con una progettazione di massima per procedere solo in corso d’opera all’ingegneria esecutiva, arrivando ad una situazione di crisi prossima al fallimento. La successione degli avvenimenti è eloquente. A partire dal ’63 Ernest ed Alfred, dispongono del loro primo impianto industriale e si prodigano per tenere in regime di marcia continua apparecchiature e pom-
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pe. Ma il tentativo fallisce perché una volta è una gelata, un’altra un’avaria alla pompa, un’altra ancora la fessurazione della parete del gorgogliatore ad interrompere la marcia. Insomma c’è sempre qualche riparazione da effettuare ed euforia e scoramento si alternano nell’animo dei due fratelli. Così il tempo passa e, nonostante la buona qualità del poco sale che si riesce a produrre, i ricavi sono insufficienti e i debiti si accumulano. Siamo giunti all’ottobre del 1865 quando si tiene in casa Solvay una riunione di famiglia per esaminare la situazione e le preoccupazioni di Ernest, sono accresciute anche dalla consapevolezza di avere coinvolto Alfred, nella sua temeraria avventura. Esaminando i dati di fatto si prospetta in concreto l’ipotesi di arrivare a dichiarare il fallimento. Ma i genitori, le sorelle e il cognato si oppongono e la sorella maggiore strappa il foglio che formalizza la dichiarazione di fallimento. Seduta stante i genitori versano altri 40.000 franchi e gli altri familiari, che sono anche soci dell’accomandita, integrano il versamento, in ragione delle loro residue disponibilità, perché si possa provvedere agli ultimi indispensabili miglioramenti. Il frenetico lavoro in fabbrica dei tre mesi successivi consente ai Solvay di effettuare le prove in bianco, facendo circolare solo acqua, con una minuziosa verifica di tutte le apparecchiature tra la fine di gennaio e il febbraio del 1866. Finalmente a fine febbraio la fabbrica può ripartire e questa volta tutto procede per il meglio. Sarebbe già il trionfo, ma il Paese è in guerra e bisognerà attendere l’ottobre dello stesso anno perché, con la pace di Praga, la situazione si normalizzi anche in Belgio Ma a questo punto il successo del nuovo metodo apre il capitolo della competizione tra il processo Solvay e il processo Leblanc, che è già utilizzato in tutta l’Europa e massicciamente in Inghilterra. Per i produttori di soda col processo Leblanc, che annovera in Inghilterra 130 fabbriche con una capacità di oltre 500.000 tonnellate–anno, la corsa in difesa è immediata. È soprattutto generalizzata l’adozione di tutti i provvedimenti mirati ad abbattere il costo della ciclo solforico: piriti in sostituzione dello zolfo, acido nitrico al posto del nitrato e volume delle camere di piombo spinto al massimo per ottimizzare la conversione. La conseguente riduzione del prezzo del solforico aprirà all’acido il grande mercato dei fertilizzanti fosfatici, con evidente vantaggio per l’agricoltura, ma non servirà a rendere competitivo il processo Leblanc nei confronti del nuovo. Il declino del processo Leblanc è poi segnato anche dall’orientamento che assume Ludwig Mond, il maggiore imprenditore chimico inglese dell’epoca. Mond infatti non tarda a rendersi conto che il processo vincente è quello Solvay. D’altra
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parte Ernest non si fa ubriacare dal successo; vuole anzi trarre il massimo profitto dalle dolorose esperienze di quei due anni di calvario, che l’avevano portato ad un passo dal fallimento. Così applica alla gestione della fabbrica un rigoroso controllo delle singole fasi di lavorazione. Ai controlli orari dì pressione, temperatura e portata si aggiungono le analisi chimiche di gas e liquidi in circolazione, con trascrizione sulla lavagna di reparto dei dati ottenuti. Siamo quindi arrivati alla compilazione dei “fogli di marcia”, che consentono di interpretare, anche a distanza di tempo, le anomalie di funzionamento. Anzi, quando le fabbriche in marcia col processo Solvay saranno numerose, in Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, ecc., l’adozione dello stesso documento di controllo consentirà di rilevare in modo uniforme consumi e perdite e quindi di confrontare obiettivamente i rendimenti delle varie unità produttive. Così l’adozione di nuove apparecchiature o le modifiche di miglioramento del processo, che l’esperienza continua a suggerire, vengono sottoposte al vaglio dell’amministrazione centrale di Bruxelles, che riceve due volte al mese i fogli di lavorazione per valutazioni tecniche fondate su dati obiettivi. Siamo dunque alla creazione di una direzione tecnica d’impresa, che fornirà, d’ora in poi, ai progettisti di nuovi impianti le basi di un’ingegneria chimica sottratta a criteri e scelte soggettivi. Nell’elenco delle decine d’impianti realizzati nei paesi europei già citati si aggiungono poi quelli costruiti in Austria, Russia e Stati Uniti con le diversificazioni che la creazione di un impero industriale fatalmente comporta. Merita qui rilevare che le maggiori iniziative si concentrarono in Inghilterra, cioè proprio nel paese che aveva già dato il massimo impulso al processo Leblanc. Così la leadership dell’industria chimica mondiale restava appannaggio degli inglesi, anche se già si avvertivano i segni premonitori di quella svolta epocale che, con l’avvento della chimica organica, modificherà priorità consolidate, aprendo nuovi orizzonti all’industria chimica. Sembra, in conclusione, doveroso riconoscere ad Ernest Solvay il grande merito di essere riuscito a dare vita, coniugando geniali intuizioni con una indomabile tenacia, ad un processo chimico candidato al record mondiale di durata, e di avere gettato le basi delle più moderne tecniche di gestione e di progettazione degli impianti chimici. I contributi dati da Nobel e Solvay allo sviluppo dell’industria chimica, nonostante qualche analogia, si differenziano sostanzialmente in termini di innovazione. A Nobel va attribuito il merito dell’innovazione di “prodotto” perché i suoi esplosivi smokeless sono, mer-
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ceologicamente, un articolo prima sconosciuto. A Solvay va invece il merito dell’innovazione di processo, perché un prodotto già ben noto, la soda, viene ottenuto, col suo metodo, da materie prime parzialmente diverse da quelle prima impiegate, e con una sequenza di reazioni nettamente diversa da quella del processo Leblanc, allora universalmente adottato. È storicamente rilevante che il fatale processo di espansione che caratterizzò lo sviluppo degli imperi industriali creati da questi singolari imprenditori, pose fin da allora l’esigenza di provvedere con leggi antitrust a fissare certe regole di comportamento per ristabilire sul mercato quegli equilibri che l’invadenza dei colossi industriali multinazionali tende ad alterare in maniera lesiva dei principi di libera concorrenza. Riportandoci nell’alveo degli argomenti di più immediato interesse è stato messo in evidenza che sia Nobel sia Solvay privilegiarono l’Inghilterra come centro nevralgico della loro attività imprenditoriale. Ma non erano all’epoca i soli ad essere attratti dall’Isola, cuore dell’Impero britannico. Anche scienziati tedeschi lasciarono allora il continente per insegnare a Londra. Così troviamo, fin dal 1845, il brillante ricercatore tedesco, A.W. von Hoffmann, allievo di Liebig, professore al Royal College of Chemistry di Londra. La vicenda di von Hoffmann merita di essere attentamente seguita perché il suo lavoro scientifico e il suo insegnamento a Londra gettano in Inghilterra il seme di un altro fondamentale filone dell’industria chimica: quello dei coloranti. Anche qui all’origine c’è un fatto casuale: von Hoffmann, nel periodo iniziale della sua permanenza nel paese del carbon fossile, comincia, tra l’altro, ad occuparsi di quel “fastidioso” sottoprodotto delle officine del gas illuminante che è il catrame. Così, mettendo un po’ d’ordine nelle scarse e disordinate conoscenze dei composti organici che il catrame contiene, ne individua quelli più importanti come benzene, toluene, naftalina, anilina ed altri, che ottiene per distillazione frazionata. Ma von Hoffmann dedica particolare attenzione alle sostanze organiche azotate derivanti dagli idrocarburi aromatici presenti nel catrame. Ottiene, in questa ricerca, per nitrazione del benzene, nitrobenzene, che poi, per idrogenazione trasforma in anilina. Successivamente, forse incoraggiato da questo successo, progetta di ottenere chinina, alcaloide antimalarico estratto dalla corteccia di china, che l’Impero richiede per le truppe dislocate in zone flagellate dalla malaria. Assistito dal diciottenne Perkin (rampollo di un’agiata famiglia, tanto da disporre di un laboratorio domestico), von Hoffmann imposta la ricerca mirando ad ottenere chinina per ossidazione
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dell’alliltoluidina con bicromato di potassio ed acido solforico. Ma Perkin dà attuazione al programma di ricerca tracciato dal professore tedesco, durante le vacanze pasquali, nel proprio laboratorio. La storia lo assolve per questa “disinvolta” iniziativa perché in effetti, attenendosi alle indicazioni di von Hoffman non ottenne della chinina. Riscontrò invece, al termine della reazione, un prodotto rosso–nerastro, probabilmente perché le condizioni in cui aveva operato avevano favorito la solfonazione. Comunque l’intraprendente giovane ricercatore si convince dell’impraticabilità dell’ossidazione di un composto organico complesso come l’alliltoluidina. S’acconcia perciò ad ossidare con lo stesso metodo il solfato d’anilina. Ma, ancora una volta, in luogo dell’atteso prodotto cristallino, ottiene un prodotto catramoso scuro, che separa dalla massa liquida dei reagenti residuata. Prima di liberarsene tratta il prodotto solido con metanolo e s’accorge che l’alcol si tinge d’un bel rosso porpora. Le piccole quantità di colorante ottenute gli consentono di fare solo qualche prova di tintura su campioni di seta. Ma questo gli è sufficiente per ottenere il gradimento da un’importante tintoria della sua porpora d’anilina ch’egli chiama malveina (colorante violetto che si ritrova nella malva) e per affrettarsi a chiedere il primo brevetto. Così, con questa scoperta casuale, William Henry Perkin (Londra 1838–1907) diventa il fondatore della moderna chimica delle sostanze coloranti artificiali. Infatti, ottenuto il primo brevetto, senza indugi, con l’aiuto finanziario del padre e del fratello, mette in funzione a Greenford Green la prima fabbrica di coloranti organici sintetici. Ne consegue che in pochi anni deposita innumerevoli brevetti (malveina, rosso d’anilina, magenta, ecc.). Lo straordinario e fortunato sviluppo è favorito da due fondamentali circostanze. A monte la materia prima, il catrame, é largamente disponibile perché, fino a quel momento, il suo impiego ha costituito un vero rompicapo per le officine del gas. A valle, sul fronte del mercato, i coloranti artificiali sono apprezzati non solo perché più economici di quelli naturali, ma anche perché si prestano, previa mordenzatura con acido tannico (scoperta dallo stesso Perkin) alla tintura del cotone, che è la fibra di più largo impiego. La fabbrica di coloranti, integrata da un impianto di rettifica e purificazione del benzene, da uno di acido nitrico e da quello di nitrobenzolo, da trasformare in anilina (con un processo di riduzione messo a punto dallo stesso Perkin) diventa una miniera d’oro. Ottenuto il successo «duce virtute, sed comite fortuna» Perkin diventa rapidamente molto ricco, sicché a 35 anni si ritira dagli affari per seguire la sua originaria vocazione di ricer-
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catore nei campo della chimica organica. Nonostante il ritiro di Perkin la fabbricazione di coloranti sintetici continuò a svilupparsi in Inghilterra. Ma in Svizzera prima e soprattutto in Germania poi, come vedremo tra poco, quest’industria fu oggetto di grande attenzione ed un intenso lavoro di laboratorio accompagnò gli studi mirati a dare un adeguato supporto scientifico a questa nuova chimica che si sviluppava con l’ambizione di imitare la natura che, per prima, aveva proposto all’uomo i suoi smaglianti colori. Ma, mentre fioriva così impetuosamente, in questa seconda metà dell’Ottocento, lo spirito imprenditoriale, in virtù di uomini che sapevano accortamente raccogliere e sviluppare spunti di idee innovative, nate nei laboratori di ricerca, anche la chimica teorica viveva la sua stagione d’oro. Basterà qui richiamare i lavori fondamentali di Mendeleev prima e di Arrhenius poi per intuire che la nuova scienza non potrà non riverberare anche sull’attività industriale i riflessi di una più approfondita conoscenza della materia, consentendo sempre meno agli operatori chimici di affidarsi all’empirismo e all’improvvisazione. Attenendoci all’essenziale ricordiamo che Dmitrij Ivanovic Mendeleev 1 (1834–1907) è il chimico russo che, con la pubblicazione di Osnoij himij (Principi di chimica), enunciò scientificamente, quasi in contemporanea con il tedesco Julius Lothar Meyer, la legge che caratterizza le proprietà chimiche e fisiche degli elementi come funzione periodica del loro peso atomico. La storia ha poi lasciato in esclusiva a Mendeleev la paternità della famosa tabella periodica perché il russo, convinto della precisione numerica della legge enunciata, lasciò vuote le caselle che riteneva corrispondenti ad elementi esistenti, ma ancora da scoprire. Così nelle caselle sottostanti a quelle di boro, alluminio e silicio egli indicò tre nuovi elementi come ekaboro, ekaalluminio ed ekasilicio (in sanscrito eka = 1) che furono in seguito identificati rispettivamente negli elementi gallio, scandio e germanio. A conferma della piena validità delle intuizioni di Mendeleev sopravvenne la scoperta della famiglia dei gas inerti, ossia quella degli elementi a “valenza zero”. Erano stati per primi Rayleigh e Ramsay a separare nel 1895 1. Dmitrij Mendeleev viene anche citato dal neurologo Olivier Sacks (L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello) come esempio di mente scientifica propensa ad avvalersi di una visione “iconica” del sistema periodico. Il neurologo ricorda che il grande chimico russo portava in tasca biglietti su cui erano scritti le proprietà numeriche degli elementi, finché non gli divennero perfettamente familiari — così familiari che non pensava più a loro come ad aggregato di proprietà, ma come a volti famigliari. Finiva quindi col vederli “ironicamente” come “volti” — volti imparentati fra di loro, come membri di una famiglia, i quali in toto costituivano, disposti periodicamente l’intero volto formale dell’universo.
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l’argon dall’aria, confermando un’intuizione che Cavendish aveva avuto un secolo prima. Poi Ramsay, lavorando su un gas liberato da un minerale uranifero, contenente anche terre rare, la cleveite, lo sottopose ad esame spettroscopico. Rilevò così una linea spettrale identica a quella osservata anni prima da alcuni astronomi nello spettro solare, scoprendo che l’elemento che gli astronomi avevano chiamato elio, ritenendolo specifico della materia solare, esisteva anche sulla terra. Quando finalmente i progressi della fisica e della tecnica consentirono la liquefazione dell’aria nel 1898 furono separati ed individuati, per distillazione frazionata dell’aria liquida, anche cripto, neon e xeno. La famiglia dei gas rari fu al completo nel 1900 quando lord Rutherford isolò dal torio il radon, che, inizialmente ed istintivamente, aveva chiamato “emanazione”. Il richiamo a Mendeleev, che a prima vista appare un po’ estraneo alla storia dell’industria chimica sembra poi legittimo se si tiene conto che lo scienziato russo non solo si occupò anche di isomorfismo e di compressione dei gas, ma con la sua opera conferì grande prestigio alla scuola chimica russa, che, per effetto di “trascinamento”, darà una sua impronta anche alle scelte industriali quando, qualche decennio più tardi, verrà il tempo della catalisi e della polimerizzazione, particolarmente nel campo degli elastomeri. Una più diretta influenza sui processi elettrochimici, che l’industria chimica cominciava solo allora ad utilizzare, si può certamente riconoscere al fondamentale lavoro scientifico svolto dal chimico svedese Svante August Arrhenius (1859–1927). Il fondatore della moderna elettrochimica chiarì che la dissociazione delle molecole in ioni è opera del solvente, aumenta con la diluizione e che l’attività d’un composto è correlata al suo grado di dissociazione in ioni. Suo è il metodo per determinare la percentuale di molecole scisse in ioni durante una reazione in soluzione. Il premio Nobel conferitogli nel 1903 fu appunto il riconoscimento dell’importanza della sua teoria elettrolitica sulla dissociazione. Occorre peraltro rilevare che le ricerche di elettrochimica applicata erano approdate in campo industriale, con iniziative di significativo interesse, già quando l’invenzione della dinamo aveva assicurato la disponibilità di correnti continue di illimitata durata e più intense di quelle ottenibili dalle pile. Fra le applicazioni pratiche registrate nella seconda metà dell’Ottocento meritano di essere ricordate quella di affinamento dei lingotti d’oro per elettrolisi del cloruro; l’elettrolisi dell’allumina fusa per la produzione di alluminio metallico ed infine la produzione di cloro, idrossido di sodio e idrogeno da soluzione acquosa di sale comune, in
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celle ad amalgama di mercurio, con elettrodi prima di platino, poi di grafite sintetica. Ma dello straordinario sviluppo dell’industria elettrochimica ci occuperemo più dettagliatamente in seguito nell’esaminare le caratteristiche che questo sviluppo avrà nel Novecento, quando dovrà affrontare le problematiche delle produzioni congiunte, conciliando la rigidità dei rapporti produttivi con l’assillo di adeguare la disponibilità dei prodotti alle esigenze del mercato. Metodo di produzione della dinamite seguito a Glasgow nel 1873 dalla British Dynamite Company Riportiamo la sequenza delle operazioni fondamentali che all’epoca dovevano costituire il nucleo del know–how del processo Nobel. L’acido nitrico veniva preparato facendo reagire nitrato sodico con acido solforico in storte di materiale resistente all’attacco di questi acidi. Quindi l’acido nitrico veniva miscelato con il solforico in ampi serbatoi raffreddati ad acqua e la miscela veniva trasportata alla sommità della “Nitroglycerine Hill”. Nel serbatoio (rivestito di piombo) contenente la miscela di acidi, la glicerina veniva aggiunta molto lentamente mediante un iniettore ad aria (inventato da Aiarik Liedbeck, prezioso tecnico della BDC), che assolveva la delicata funzione di disperdere rapidamente la glicerina, agitando adeguatamente la miscela. Poiché la reazione esotermica è molto rapida il problema principale era l’immediata asportazione del calore in modo da mantenere la temperatura nei limiti di sicurezza. L’apparecchio dì nitrazione in piombo era perciò dotato nella maggior misura possibile di serpentine di raffreddamento in piombo, realizzate adottando una nuova tecnica di lavorazione di questo metallo. Il processo era naturalmente discontinuo e, una volta completata la carica, l’apparecchio di nitrazione veniva scaricato trasferendo il prodotto in un bacino piombato di sedimentazione. Qui, dopo un adeguato riposo per una completa stratificazione, lo strato superiore di nitroglicerina, circa 1500 libbre per carica, veniva schiumato a mano e travasato in serbatoi di lavaggio. L’acido solforico diluito con tracce di nitrico, veniva recuperato e reimpiegato. Il kieselghur, già calcinato e leggermente macinato in mulini a cilindri, veniva trasferito, dopo vagliatura in contenitori calibrati, al reparto lavaggio della nitroglicerina. In questo reparto si completava l’operazione di miscelazione aggiungendo, negli stessi contenitori al kieselghur la nitroglicerina, lavata e filtrata, nel rapporto ponderale di una parte di inerte per tre parti di
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esplosivo. L’operazione di impasto veniva condotta manualmente e quindi completata meccanicamente nelle casematte o microbunker di miscelazione (mixing hut); l’impasto ben amalgamato veniva poi avviato alle casematte di incartucciamento dove le ragazze, 4 per ogni postazione, provvedevano ad estruderlo in forma di lungo salame con una specie di macchina per salsicce. Successivamente le ragazze tagliavano il lungo salame a misura prefissata in candelotti, che poi confezionavano avvolgendoli in carta paraffinata; i candelotti venivano poi impacchettati in confezioni da 5 libbre, che andavano infine a riempire ordinatamente robuste casse di legno. Chiuse ermeticamente e sigillate, le casse erano depositate nel magazzino convenientemente distanziato e protetto.
La Germania e gli Stati Uniti protagonisti della nuova industria chimica
Nella seconda metà dell’Ottocento l’industria chimica si sviluppa in Germania e negli Stati Uniti con un’ampiezza ed una diversificazione tali da far prevedere che il predominio industriale dell’Inghilterra, che proprio in quel periodo è in linea con la supremazia dell’Impero Britannico, non potrà, in questo comparto, essere più a lungo mantenuto. Lo sviluppo tedesco e quello americano si manifestano peraltro con modalità e caratteristiche alquanto differenziate, ma entrambi si verificano in un contesto politico, in cui avvenimenti bellici e riassetti istituzionali influiranno sul ruolo che i due Paesi saranno chiamati ad assumere nel consesso internazionale delle grandi potenze. Nella Germania, ancora divisa in regni e principati, e poi nella Germania imperiale del Cancelliere di ferro Otto von Bismarck, una tradizione di cultura e di metodo si è consolidata nelle scuole, nelle università e nel costume dei ceti dominanti, anche quando questi risultano, come in Prussia, prevalentemente costituiti dalla nobiltà delle campagne e dell’esercito. In quel contesto, naturalmente, cultura e metodo vanno intesi come ricerca e raccordo sistematico ed interdisciplinare tra la scienza, la tecnica e la applicazioni industriali, sì da rendere sempre meno probabili i successi fondati sull’empirismo e l’improvvisazione, anche per iniziative sorrette da felici intuizioni. Negli Stati Uniti invece pragmatismo, spirito imprenditoriale, non disgiunto da spirito d’avventura, e genio creativo sono stimolati dalle innumerevoli opportunità offerte da una società giovane, in crescita impetuosa, per forza endogena e per l’apporto dell’immigrazione, e da un territorio ricco non solo per estensione e fertilità, ma anche per le ingenti risorse minerarie come carbone, ferro, zolfo, oro, argento, rame, manganese, fosforiti e petrolio. Ritornando alla Germania, a sottolineare la preminenza dello sviluppo culturale come fattore fondante del suo sviluppo industriale, giova ricordare che anche in Prussia, lo stato tedesco più fortemente militarizzato, già all’inizio del Settecento Federico III aveva favorito la creazione dell’Accademia delle arti e di quella delle scienze. Ed è ancora più significativo che il nume tutelare della cultura tedesca. Johann Wolfgang Goethe, abbia dedicato alla stesura di opere scienti77
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fiche una parte rilevante della sua attività creativa. Per quanto riguarda la chimica il contributo dato dagli scienziati tedeschi al suo sviluppo è imponente quantitativamente e qualitativamente, ma, per i riflessi registrati poi sull’attività industriale, importa soprattutto sottolineare quello determinante fornito allo sviluppo della chimica organica. Ai nostri fini, con criterio molto riduttivo, basterà ricordare i fondamentali lavori di ricerca analitica e strutturale di von Hoffman (il già ricordato maestro di Perkin), di Kolbe e di Kekulé. In particolare August Kekulé van Stradonitz (1829–1896) è diventato un caposcuola nel campo della chimica organica per avere introdotto la teoria della tetravalenza del carbonio e dei legami multipli, nonché la configurazione esagonale dei benzene. Nella Storia della chimica H.M. Leicester opina che la capacità di Kekulé di visualizzare la struttura degli scheletri di atomi di carbonio dei composti organici si possa in qualche modo, ricondurre alla sua educazione giovanile in architettura; l’ipotesi è seducente perché confermerebbe il carattere interdisciplinare della scienza. Ci siamo soffermati sugli studi, sulle ricerche e sulle scoperte tedesche nel campo della chimica organica perché il primato dei ricercatori delle università e delle industrie in Germania trova ampio riscontro nello sviluppo della chimica organica industriale, nella più ampia accezione del termine. Di qui prende infatti le mosse quello straordinario sviluppo dell’industria dei coloranti, della farmaceutica, dei prodotti ausiliari ed intermedi della chimica fine in genere, che darà, nel volgere di pochi decenni alla Germania l’incontrastato primato, a livello mondiale, negli specifici comparti dell’industria chimica. Anche perché, e a questo punto entra in gioco il metodo, agli approfondimenti della ricerca si accompagnano armonicamente lo sviluppo dell’industria delle apparecchiature chimiche e quello dell’ingegneria chimica. Ricorda Karl Winnacker (a lungo gran capo della Hoechst) nel suo libro autobiografico Nie den Mut verlieren (Non perdersi mai d’animo), che alla vigilia della prima guerra mondiale, cioè al termine del primo decennio del Novecento, le fabbriche tedesche sopperivano alla richiesta mondiale di coloranti sintetici nella misura dell’85% e gli stabilimenti farmaceutici si trovavano in una situazione sostanzialmente equivalente. Ma come si presenta, nel cuore dell’Ottocento, la realtà dell’industria chimica tedesca in quella Germania, ancora frazionata politicamente, con un organo federativo, la Dieta, che si muove prevalentemente secondo gli orientamenti espressi dal rappresentante dell’Impero austro–ungarico? Da un lato si rileva che solo nel 1833 gli stati
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tedeschi hanno raggiunto l’unione doganale e che finalmente le merci possono spostarsi da una sponda all’altra del Reno senza impedimenti daziari; dall’altro che, grazie a Gutenberg prima e a Lutero poi, esiste il cemento di una diffusa cultura comune, che ha a Lipsia la depositaria di una sacralità del mondo classico, universalmente riconosciuta. La diffusione di una cultura universitaria, che promana da una pluralità di centri accademici di grande prestigio, renderà, a tempo debito, più penetrante la lezione che i maestri e i ricercatori delle nuove discipline chimiche s’apprestano ad impartire, per congiungere efficacemente il progresso della scienza con lo sviluppo della tecnica. In Germania la produzione chimica dell’era preindustriale si era sviluppata, come nel resto d’Europa, concentrandosi sul solforico, sulla polvere nera, sul sale e le candele, sui grassi e gli inchiostri, sull’attività mineraria e sull’estrazione di sostanze medicinali di origine vegetale. Basterà ricordare che all’epoca erano da tempo conosciuti (limitatamente alle caratteristiche terapeutiche e tossiche) importanti alcaloidi come chinina, morfina, codeina o metilmorfina, stricnina e veratrina. E che nell’architettura molecolare di queste sostanze spesso i mattoni di costruzione rassomigliano a quelli delle sostanze coloranti! Anche in Germania, nell’Ottocento, queste attività artigianali si ampliano, si consolidano, si razionalizzano e trovano nuovi spazi ora che l’industria chimica procede con massicce produzioni di soda col processo Leblanc e di gas illuminante da carbone con la tecnologia importata dall’Inghilterra. Ed è qui che la cultura ed il metodo si prendono la rivincita sull’improvvisazione e l’intuizione, per geniali che siano. Abbiamo infatti ricordato nei capitoli precedenti che per le officine del gas, in Europa come in Nordamerica, il catrame era un rompicapo e che soprattutto la frazione più volatile, la nafta leggera costituiva il prodotto di più difficile smaltimento. Vediamo ora che cosa avviene, sulle rive del Reno, seguendo la carriera imprenditoriale di Friedrich Engelhom (1821–1902), nato a Mannheim e fondatore della BASF (Badische Anilin & Soda Fabrik AG). Engelhom, dopo avere frequentato nella città natale un istituto tecnico di oreficeria, iniziò la sua attività professionale come artigiano ambulante, prima di mettersi in proprio. Ma evidentemente la giovanile irrequietezza lo fece trovare a disagio anche nella nuova attività, se decise di abbandonare quest’impegno per battere una nuova strada. Lo vediamo così nel 1848 lanciarsi nell’avventura del gas illuminante, associandosi ad esperti del ramo. La scelta fu coronata da successo perché l’officina del gas, realizzata col determinante contributo di Engel-
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hom, fu presto avviata con risultati soddisfacenti. Ma anche la gestione di un’officina da gas non corrisponde alla vocazione imprenditoriale di Engelhom, che cede la fabbrica al municipio di Mannheim, rimanendo però interessato all’utilizzazione del catrame. A questo punto, cosciente dei propri limiti scientifici, si associa con i fratelli Clemm, che avevano fatto il loro apprendistato nel laboratorio di Liebig; e con essi dà vita ad una nuova attività industriale, basata sulla produzione di coloranti da catrame di carbon fossile. Nella compagine azionaria entrano anche un banchiere e, come specialista della produzione di gas illuminante, l’ex sindaco di Mannheim. Infine si uniscono al gruppo alcuni industriali (Knosp, Siegl ed altri) di Stoccarda, proprietari di note fabbriche di coloranti di origine minerale e vegetale, che avevano arricchita la gamma di coloranti disponibili acquistando da Perkin, in esclusiva, i diritti di vendita della “mauveina” in Germania, Prussia, Austria, Francia, Svizzera, Belgio e Olanda. E la mauveina s’aggiunge al violetto d’anilina e alla fucsina, già prodotti da Knosp e Siegl. Senza approfondire ulteriormente i dettagli della vicenda industriale, nel suo iniziale sviluppo, conta qui sottolineare che finalmente, nel 1861, trascinati dall’iniziativa di Engelhom, il gruppo di imprenditori che a lui fanno capo concepiscono un programma industriale di più ampio respiro. Per poterlo realizzare decidono di creare una nuova società che, con riferimento alle due principali produzioni già programmate, sarà denominata Badische Anilin und Soda Fabrik. Però il progetto prevede, anche in vista degli sviluppi futuri, l’acquisto di un’ampia superficie di terreni, che non è disponibile a Mannheim. Si decide perciò di costruire la fabbrica sull’altra sponda del Reno, a Ludwigshaven, dove un sindaco intraprendente ha intuito l’importanza dell’iniziativa ed ha offerto alla BASF tutto il terreno che la società ha richiesto. I lavori di costruzione dei nuovi impianti ebbero inizio nel maggio del 1865, ma già l’anno successivo entravano in marcia le unità di produzione della soda (col processo Leblanc), degli acidi (solforico, nitrico e cloridrico), di cloruro di calcio, verde di cromo e di altre produzioni minori, mentre restava in esercizio a Mannheim il reparto di produzione dei coloranti. Anche il genio civile bavarese intervenne, impegnandosi sia nei lavori di spianamento del terreno sulla riva destra del Reno, sia in quelli di sistemazione dell’alveo del fiume, proprio nella zona di confluenza del Neckar nel Reno. Questi fatti non sono marginali, in un processo di industrializzazione, e vengono citati per sottolineare che il successo è sì frutto di cultura, metodo ed intraprendenza, ma trova la strada spianata quando
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si realizza un “buon gioco di squadra”. Una volta avviato lo stabilimento di Ludwigshaven, Engelhom vuole dare il massimo impulso alla produzione dei coloranti sintetici e, nel 1868, proprio a tal fine si assicura la collaborazione di Heinrich Caro, luminare accademico della chimica dei coloranti, e, l’anno successivo, quella di Heinrich Brunk e di Carl Glaser, stimati allievi di August Kekulé. Questa iniezione di cultura chimica si tradusse naturalmente nell’introduzione di metodi scientifici nella gestione delle attività chimiche e ingegneristiche. Furono così istituiti laboratori di reparto, per il controllo della produzione con metodi analitici, e il numero dei chimici salì da 5 a 61. A testimoniare il valore storico del rapporto tra scienza e industria, il Museo di Monaco conserva le centinaia di lettere scambiate tra Adolf von Bayer, l’eminente caposcuola della chimica teorica tedesca, e Heinrich Caro, che, divenuto il primo direttore delle Ricerche BASF, ebbe anche il merito di fondare e presiedere l’Associazione di Ingegneria prima e l’Associazione Chimica poi. Ed ancora, per sottolineare l’importanza del “gioco di squadra”, giova ricordare che dal lavoro congiunto di Caro, Carl Liebermann (professore dell’università di Berlino), e Carl Graebe scaturì il metodo di sintesi dell’alizarina, basato sull’antracene, anch’esso ricavato dal catrame di carbon fossile. L’alizarina, nome commerciale dei diossiantrachinone, è il primo colorante naturale riprodotto sinteticamente e si rivelerà utile anche come materia prima per medicinali. Per la storia dell’industria chimica merita ricordare che i Tedeschi depositarono il brevetto di fabbricazione dell’alizarina solo ventiquattro ore prima di Perkin. Lo sviluppo della BASF prosegue a ritmo sostenuto per tutto 1’Ottocento e non solo nel settore dei coloranti, che pure registra nel 1880 un nuovo importante successo con la sintesi dell’indaco. Limitandoci alle tappe fondamentali di questo sviluppo si ricorda che nei 1890 la BASF realizza il processo di “contatto” dell’acido solforico e nel 1897 la produzione elettrolitica di cloro e soda, integrata dalla tecnica di liquefazione del cloro. Ma in realtà la tecnologia profondamente innovativa fu quella derivata dal fondamentale lavoro di ricerca svolto a Lipsia da Wilhelm Ostwald, che consentì alla BASF non solo di realizzare il processo di “contatto”, ma anche di avere accesso a questa nuova branca della scienza, la fisicochimica, che si rivelerà la disciplina guida per gli sviluppi della catalisi eterogenea. Ma la caratterizzazione della grande industria chimica tedesca, di cui la BASF costituisce un esempio paradigmatico, sarebbe sostanzialmente carente se si trascurasse di rilevare lo sforzo di integrazione che
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la società fu costretta a compiere, per evitare che le lacune, esistenti nelle industrie ausiliarie e complementari, ne condizionassero lo sviluppo. Fra le tante iniziative in questa direzione due sembrano quelle di maggior rilievo. La prima riguarda l’attività di ingegneria perché, in questo ambito, occorreva tradurre in regole pratiche di calcolo e di progettazione un imponente patrimonio di nozioni teoriche acquisite dalla chimica e dalla fisica. La seconda concerne la costruzione di apparecchiature, indisponibili nel circuito esterno all’azienda, perché spesso i filoni della nuova chimica facevano emergere necessità tecniche, che non trovavano alcun riscontro nelle esperienze costruttive del passato. Non si può naturalmente escludere che col tempo le attività di progettazione e costruzione in proprio, inizialmente preziose e indispensabili, siano diventate comode, ma non indispensabili, e siano sopravvissute perché ormai la tradizione aveva creato negli “addetti ai lavori” una radicata deformazione professionale. Nella conquista tedesca della leadership mondiale dell’industria chimica, alla BASF si affiancano in ruoli di protagonisti primari gli altri due grandi della chimica: la Hoechst e la Bayer. Attenendoci alle indicazioni di Karl Winnacker la Hoechst comincia ad operare nel 1863, come fabbrica di coloranti, con l’organico di una bottega artigiana, costituito da un ragioniere, un chimico e cinque operai. Ma l’anno successivo nella piccola fabbrica, dotata di una macchina a vapore da 5 HP, entra un secondo chimico, Carl Graebe, che, come abbiamo ricordato a proposito della BASF, ebbe una parte decisiva nella sintesi dell’alizarina. In realtà l’alizarina fu, dopo la fucsina, il secondo colorante di successo nel modesto assortimento della Hoechst. E, poiché una nota di colore è perfettamente in carattere con la materia trattata, ricorda Winnacker che l’alizarina, originalmente estratta dalle radici di un vegetale, diventò famosa grazie ai pantaloni rossi indossati dai soldati francesi, durante la guerra franco–tedesca del 1870–71. Ma questa prima sintesi del diossantrachinone, il composto chimico che costituisce l’alizarina, era suscettibile di significativi miglioramenti. Tant’è che pochi anni dopo, nell’aprile del 1869, Ferdinand Riese scopri un diverso metodo di sintesi, che Alfred Bruning, uno dei fondatori della Hoechst, il mese successivo brevettò. Ma la gamma più assortita di coloranti sintetici della Hoechst fu quella del trifenilmetano: fucsina, azzurro rosanilina, verde di metile e violetto di metile. Sulla storia dei coloranti in Germania dovremo comunque ritornare, quando affronteremo le vicende della nascita e del gigantesco sviluppo della IG Farbenindustrie.
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Nello stesso periodo nasceva ad Eberfeld un’altra fabbrica di coloranti, la Farbenfabriken Bayer, che raggiungeva negli anni Ottanta un tale sviluppo da imporre agli azionisti di progettare un nuovo complesso produttivo con criteri innovativi. Prima di affrontare le vicende del progetto e della realizzazione dello stabilimento Bayer di Leverkusen, che costituiscono una pietra miliare nella storia dell’ingegneria chimica e dell’industria chimica, conviene completare il quadro delle società che affolleranno in Germania il campo dei fabbricanti di sostanze coloranti ed affini. Limitando questa elencazione ai soggetti più importanti, troviamo, dopo la BASF, la Hoechst e la Bayer, la AGFA (Aktiengesellschaft fur Anilin Fabrikation), Leopold Cassella&Company, Kalle&Company e Chemische Fabrik GriesheimElektron. Occorre rilevare fin d’ora che i costi della ricerca, in questo settore merceologico, sono elevatissimi, probabilmente secondi solo a quelli della ricerca farmaceutica. Per questo motivo risultava conveniente per i produttori tedeschi, al fine di consolidare la posizione dominante della Germania, fare un gioco di squadra. A questa logica infatti si attenne l’industria chimica tedesca. Così all’inizio del secolo XX le società tedesche costituiranno due gruppi leader, da una lato Bayer, BASF e AGFA, dall’altro Hoechst, Cassella e Kalle, ciascuno con una capacità produttiva più elevata di quella complessiva del resto del mondo. Ritorniamo ora alla Bayer e alla decisione della sua alta direzione di fare a Leverkusen, vicino a Colonia, quello che la BASF aveva fatto a Ludwigshaven. La grande fortuna della Bayer fu quella di disporre di un chimico genialmente “anomalo”: Carl Duisberg. L’anomalia risiede nel fatto che il chimico Duisberg entra giovanissimo, appena ventiduenne, nei ruoli Bayer, nell’83, e viene assegnato al laboratorio, dove si dimostra professionalmente validissimo già nei primi anni della sua attività di ricercatore. Stentiamo quindi a capire quale magica intuizione abbia ispirato l’alta direzione della Bayer quando decide di estrarre dal laboratorio questo giovane, non ancora trentenne, per affidargli la progettazione e la realizzazione del nuovo complesso industriale. Il successo di Duisberg in quell’impresa fece epoca, perché la magistrale concezione dell’immenso complesso industriale di Leverkusen costituì il punto di riferimento per la progettazione di molti altri complessi industriali nati successivamente. In sintesi furono adottati, per la prima volta, criteri di urbanistica industriale ed il chimico Duisberg scoprì in se stesso un’insospettata vocazione di architetto ed ingegnere. La razionalizzazione, per ragioni di economia e sicurezza,
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della circolazione dei solidi, dei fluidi e degli effluenti, le interconnessioni dei reparti e di questi con magazzini e serbatoi, l’ubicazione razionale di laboratori ed officine, le aree di espansione per i decenni a venire, costituirono, dopo l’avvio di Leverkusen, essenziali punti di riferimento per ogni progetto di fabbrica chimica1. Ma anche in una presentazione del contributo Bayer allo sviluppo dell’industria chimica ridotta all’essenziale, deve trovar posto la mitica sintesi dell’acido acetilsalicilico. Quando nel 1899 quest’acido organico fu introdotto in terapia, col nome registrato di “Aspirina”, nemmeno il più ottimista dei propagandisti Bayer avrebbe potuto immaginare che un farmaco, dotato di virtù analgesiche, antipiretiche, antinevralgiche ed antireumatiche, sarebbe diventato per un secolo il leader incontrastato del comparto, raggiungendo livelli di produzione di decine di migliaia di tonn/anno. L’industria chimica tedesca non si esaurisce naturalmente in quella dei coloranti e dei farmaceutici, ma lo sviluppo di questi comparti fu all’epoca quello più strettamente collegato ad una scoperta della ricerca fondamentale: quella di nuove classi di composti organici con un’architettura molecolare articolata in strutture omocicliche ed eterocicliche. Saranno poi gli approfondimenti della chimica analitica a far comprendere le strutture dei composti naturali, dando la guida alla chimica “preparativa”, ossia ad una ricerca chimica “mirata”, che diventerà la “scienza delle costruzioni” della chimica per edificare strutture molecolari secondo modelli preventivamente progettati. La diversificazione dell’industria tedesca si giovò d’altra parte anche degli apporti tecnologici ed imprenditoriali di soggetti stranieri, tra i quali i più rilevanti furono quelli della Dinamite Nobel e della Solvay, ricordati nel capitolo precedente.
1. L’autore può al riguardo portare addirittura una testimonianza di carattere personale. Quando negli anni 1956-57 si costruiva a Ravenna il complesso petrolchimico dell’Anic, l’ing. Fornara, al quale era affidata la supervisione delle progettazioni e delle costruzioni, ebbe più volte occasione di stimolare l’orgoglio professionale del suo staff affermando che bisognava impegnarsi allo spasimo per meritare il privilegio di partecipare ad un’impresa degna di Duisberg. Sicché, quando pochi anni dopo, nel 1960, ebbe luogo la visita di un alto dirigente della Bayer, che intratteneva con Fornara rapporti di viva cordialità, eravamo ansiosi di conoscere i commenti di un ospite ben qualificato. E quando l’alto dirigente Bayer, dopo una visita accurata a tutti i reparti dello stabilimento di Ravenna ci disse che anche noi c’eravamo fatti assistere da Duisberg, memorizzammo il commento, che legittimava il nostro orgoglio dì avere partecipato a quell’impresa.
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Ma è tempo di volgere lo sguardo alla giovane nazione nordamericana che, per una singolare coincidenza di “storie parallele”, nel decennio 1861–1870, mentre in Germania si realizza il processo di unificazione di oltre venti Stati, concluso con l’elevazione del re di Prussia a Kaiser del nuovo impero tedesco, vive la tragedia della guerra civile. Essa deve infatti prima affrontare il sanguinoso e tragico travaglio della guerra di secessione (1861–1865), poi le drammatiche vicende di un dopoguerra, che stenta a far cicatrizzare le lacerazioni di un conflitto con un milione di vittime tra morti e mutilati. La premessa storica vale a rendere più significativo lo sviluppo dell’industria chimica americana nella seconda metà dell’Ottocento. In questo periodo infatti essa, pur non potendo ancora competere con la chimica tedesca per carenze strutturali, si diversifica, si consolida e si organizza, anche in termini di approccio scientifico alle problematiche industriali, in modo da affacciarsi al nuovo secolo con un gap apprezzabilmente ridotto. È peraltro opportuno riconoscere obiettivamente che gli Stati Uniti, nei loro sforzi di sviluppo industriale, furono sostenuti dalla situazione privilegiata di cui godevano in campo minerario. Si è già fatto cenno alla smisurata disponibilità di carbone e di minerali ferrosi, che aveva favorito la concentrazione di officine da gas e di industrie siderurgiche e meccaniche negli stati del centro–nord (e questa situazione fu determinante nell’orientare il corso degli eventi bellici in favore dei nordisti). Ma a questa ricchezza si aggiunse quella delle ricche miniere di oro e argento, scoperte nel ventennio 1860–1880. Com’è noto, la scoperta dell’oro californiano aveva inizialmente provocato una corsa verso l’Eldorado occidentale. Ma quando poi vennero scoperti, nel Colorado e nel Nevada, importanti giacimenti di oro e d’argento, il flusso dei minatori si spostò da ovest verso est. I primi giacimenti importanti vennero scoperti all’inizio degli anni Cinquanta, ma quando nel 1858, sulle Montagne Rocciose del Colorado, si scoprirono i filoni auriferi di Pike’s Peak, nel giro di un anno, affluirono nella zona 50.000 persone. Quando poi, nel volgere di pochi anni, questi giacimenti cessarono d’essere remunerativi, furono individuati, a ovest di Denver, nuovi filoni d’oro. Anche la scoperta, dopo il 1870, dei giacimenti d’argento presso Leadville concorse a mantenere in vita la speranza di arricchirsi col mestiere di minatore. Speranze illusorie perché, mano a mano che la coltivazione mineraria diventava un’attività industriale, cresceva il fabbisogno di capitali, favorendo l’entrata in campo di finanzieri e banchieri. Il più importante ritrovamento di quegli anni si verificò nei distretto di Washington,
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gli anni si verificò nei distretto di Washington, nel Nevada occidentale, dove fu portato alla luce Comstock Lode, il maggiore giacimento di metalli preziosi mai scoperto negli Stati Uniti. L’industria mineraria offrì gradualmente a quella chimica un ampio spazio di intervento proprio in questo particolare settore, perché progressivamente non si trattò più di limitarsi a separare meccanicamente il metallo nobile dalla ganga, ma di procedere ad operazioni di arrostimento, di fusione e di affinamento della purezza del metallo ottenuto ad un titolo inferiore a quello commercialmente richiesto. Nacquero così i primi laboratori governativi, per il controllo statale sulle forniture di metalli nobili dell’impresa privata, affiancando quelli sorti per il controllo delle polveri da sparo. La tendenza alle concentrazioni e alle fusioni si manifesta già in questo periodo proprio in campo minerario. Il più significativo riscontro si trova nelle vicende del rame, la cui produzione raggiunse rapidamente livelli impensati, per la grande diffusione dell’elettricità. Qui in breve il campo fu dominato da due soli produttori: la gigantesca Anaconda Mining Corporation e la famiglia Guggenheim. La prima controllava le miniere di Butte nel Montana, nota come la “collina più ricca del mondo”, mentre i Guggenheim possedevano la maggior parte delle altre miniere di rame del West. Non apparirà incongruo lo spazio riservato alle vicende minerarie in questa storia dell’industria chimica, ricordando l’impulso che i trattamenti chimici dei minerali diedero alla produzione degli acidi inorganici e, in particolare, del solforico. D’altra parte la nascente industria petrolifera, immediata e diretta conseguenza dei ritrovamenti che l’altro ramo dell’industria mineraria aveva con successo effettuato, avrebbe avuto sullo sviluppo dell’industria chimica un impatto di ben maggiore portata. Ma proprio i trattamenti chimici, susseguenti all’attività di estrazione, per la preparazione dei metalli, possono rivendicare la paternità, peraltro del tutto casuale, di quel composto inorganico, il carburo di calcio, che genera per semplice idratazione l’acetilene, mattone fondamentale di innumerevoli sintesi organiche. Fu infatti nel 1892 che i ricercatori americani, nel tentativo di estrarre alluminio dal minerale, per trattamento al forno elettrico, constatarono che la presenza contemporanea di coke e ossido di calcio, a quelle elevate temperature, prossime ai 2000°C, aveva determinato la formazione di carburo di calcio. Il tentativo di produrre alluminio ad alto titolo con una nuova tecnologia in sostanza fallì, lasciando in vita l’oneroso processo di elettrolisi dell’allumina sciolta in criolite fusa, in celle da 500 kW, operanti a temperature di 950–980°C. L’acetilene invece fu a lungo u-
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tilizzato in USA principalmente per il suo contenuto energetico, sia come gas illuminante sia per l’alimentazione del cannello ossiacetilenico. Dovevano ancora passare circa quattro decenni prima che si valorizzasse appieno la straordinaria reattività dell’acetilene per le innumerevoli sintesi organiche che i tedeschi (Reppe in particolare) studiarono e realizzarono industrialmente, dando alla chimica di questo idrocarburo la dignità di un capitolo fondamentale della chimica organica. Mentre l’industria chimica inorganica e quella elettrochimica si sviluppavano, insieme alle lavorazioni conseguenti allo sfruttamento dell’enorme e diffusa ricchezza mineraria del territorio statunitense, faceva il suo drammatico esordio l’industria della salute. Forse questa denominazione appare un beffardo eufemismo perché quest’attività industriale, uscendo dai laboratori delle farmacia, sarà sollecitata ad offrire i suoi prodotti al mercato del “dolore”, quello che aveva avuto il suo boom durante la fratricida guerra di secessione. Ed in effetti sedativi, anestetici, analgesici, disinfettanti e materiale sanitario furono i prodotti farmaceutici che sollecitarono gli operatori del ramo ad organizzarsi e a dare una struttura più razionale, cioè in forma industriale, alle loro attività. Si trattava di prodotti naturali, si pensi agli alcaloidi, prevalentemente di origine vegetale, da confezionare ed esitare lontano dal banco delle farmacie. Il primo a trarre profitto da questa drammatica opportunità fu il dottor Edward Robinson Squibb. La vicenda umana di Squibb merita probabilmente un’attenzione maggiore di quella che si riserverebbe ai suoi pur apprezzabili meriti scientifici e imprenditoriali. Giovanissimo sogna di diventare medico e, per realizzare quest’aspirazione, fa il commesso di farmacia per cinque anni, risparmiando sul magro salario, per frequentare il Jefferson Medical College di New York, laureandosi con lode nel 1845. Allo scoppio della guerra col Messico lo troviamo assistente chirurgo in Marina. In questa veste può raccogliere le istanze degli ufficiali medici, che sollecitano una revisione del sistema farmaceutico mirata ad ottenere specifiche garanzie sulla purezza delle materie prime e sull’accuratezza delle prescrizioni. Sicché, quando il Congresso approvò, nel 1852, un modesto stanziamento per questa finalità, andò a lavorare in una stanzetta dell’ospedale della Marina di Brooklyn, trasformandola in laboratorio, con apparecchiature da lui progettate e costruite. L’impegno nella ricerca non lo distolse dalla sua attività di medico e chirurgo, ma proprio la sua particolare professionalità lo indusse a privilegiare lo studio degli anestetici. Già allora il principale a-
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nestetico era l’etere, la cui efficacia era però condizionata dalla variabilità del titolo e da impurezze talvolta addirittura tossiche. Squibb, attribuendo gli inconvenienti al rozzo metodo di fabbricazione, lavorò al suo perfezionamento per anni con l’impiego di più di 20 distillatori. Non ritenne di trarre profitto dai risultati ottenuti e pubblicò un dettagliato resoconto delle sue ricerche, nel 1856, sull’«American Journal of Pharmacy». L’etere di Squibb divenne lo standard di riferimento a livello mondiale ed il processo oggi impiegato non differisce sostanzialmente da quello messo a punto da Squibb nel 1852. Purificando e definendo con lo stesso rigore le specifiche chimiche e fisiche del cloroformio, Squibb contribuì all’introduzione degli anestetici nella pratica medica americana in modo determinante. Non meno importante fu il lavoro di ricerca dedicato prima al processo di stabilizzazione delle soluzioni di cocaina e successivamente alle tecniche di purificazione degli alcaloidi estratti da materie prime grezze di origine naturale. Il nostro ufficiale medico di marina aveva acquistato una certa familiarità con questi prodotti naturali proprio a seguito di un incarico governativo. Infatti, all’epoca, il governo federale aveva disposto, per bloccare la tratta degli schiavi, l’impiego di personale militare per la sorveglianza dei porti in cui si sospettava che avvenisse lo sbarco clandestino degli schiavi. E i porti indiziati erano spesso proprio nelle zone di raccolta delle materie prime grezze per l’estrazione degli alcaloidi. Colpisce infine l’etica professionale di Squibb che, in un’epoca in cui il diffuso ricorso alla “facile” brevettazione favoriva lo spaccio legale di qualche “placebo”, ritenne, operando in controcorrente, di dover rendere di pubblico dominio i risultati delle sue originali ricerche. Con queste doti caratteriali Squibb non sarebbe certo diventato un imprenditore, se non fosse stato sollecitato ad assumere questo ruolo dalla stessa Marina. Questa infatti, constatato che il Congresso sostanzialmente rifiutava l’assegnazione di fondi per un adeguato sviluppo dei laboratori di ricerca, propose a Squibb di realizzarli in proprio, impegnandosi ad acquistare la produzione che ne sarebbe derivata, nel campo degli anestetici, dei sedativi e degli analgesici. Fu così che il nostro medico, con i finanziamenti che agevolmente si procurò, per l’immenso credito di cui godeva, creò il laboratorio “Edward R. Squibb MD.” in un piccolo fabbricato di mattoni, nelle adiacenze della sua casa di New York. L’impresa sembrava bene avviata quando sfortunatamente un incendio, provocato dall’esplosione di un contenitore di etere, fece naufragare il progetto. A rendere più tragico il bilancio dell’incidente ac-
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cadde che Squibb attardandosi nel mettersi in salvo, per recuperare formule e documentazione che costituivano il suo patrimonio più prezioso, rimanesse seriamente ustionato. Tant’è ch’egli non solo ebbe il volto sfigurato, ma dovette anche subire l’amputazione di una mano. Tuttavia Squibb non si arrese; si procurò nuovi finanziamenti e ricostruì il laboratorio, riprendendo a gestirlo con immutato rigore. Va in conclusione ricordato che fu sua, nel 1879, la proposta di un provvedimento che disciplinasse severamente produzione e commercio di medicinali e cosmetici (Pure Food&Drugs Act), che non solo ispirò la legislazione in materia di vari Stati, ma servì da modello per i provvedimenti federali varati nel 1906. La lunga carrellata sulla storia di Squibb si inserisce nel nutrito elenco delle iniziative registrate nell’ambito della nascente industria della salute. Solo a titolo esemplificativo ne citiamo una di quella più significative, dovuta all’iniziativa di Pfizer ed Earhart. Questi due giovani chimici tedeschi si associarono nel 1849, col proposito di dedicare la loro attività professionale alla produzione di medicinali e di specialità di chimica fine. Iniziata la produzione in un modesto fabbricato in legno, ben presto furono in grado di offrire alla clientela un nutrito elenco di prodotti. Tra i più noti si registrano: iodio bisublimato, ioduro di potassio, iodoformio, sottonitrato o nitrato basico di bismuto (il c.d. magistero impiegato come astringente), il carbonato basico di bismuto, il calomelano (cloruro mercuroso), il sublimato corrosivo (cloruro mercurico) e i precipitati rosso e bianco di mercurio. Con la guerra civile la richiesta di borace e acido borico, di cauterizzanti e materiale sanitario di vario genere darà notevole impulso allo sviluppo della Pfizer&Erhart. A conclusione della rassegna dei prodotti farmaceutici e di chimica fine trattati dalla giovane industria americana, si ricorda che al dott. Franklin Miles, medico neurologo, e ai Laboratori Miles, fondati nel 1880, si deve la messa a punto e la diffusione sul mercato mondiale di un sedativo del sistema nervoso a base di bromuri, che ha tenuto banco fino a circa la metà del Novecento. Per completare il quadro dell’industria chimica statunitense della seconda metà dell’Ottocento, s’impone l’esame dello sviluppo del ramo più consistente del settore, quello della chimica inorganica di base, il solo che, per volume di produzione e di fatturato, risulterà paragonabile a quello corrispondente dell’industria tedesca. Ma anche in questo comparto, sarà determinante per l’espansione del settore il contributo dell’attività mineraria, con specifico riferimento al petrolio e alle
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fosforiti. Cominciando dal petrolio si ricorda che la sua scoperta in USA avvenne gradualmente, perché inizialmente le perforazioni non erano mirate alla ricerca dell’oro nero. Anzi la storia registra il disappunto col quale molti operatori, attivi nel periodo 1840–1850, accoglievano le frequenti manifestazioni petrolifere, che inaspettatamente sopravvenivano, mentre erano in corso i loro sondaggi, prevalentemente mirati alla ricerca di depositi salini. Tuttavia, attenendoci per brevità alla tradizione, si rileva che il 28 agosto 1859 è considerato l’inizio dell’era moderna del petrolio. Questa è infatti la data in cui il colonnello E.L. Drake trovò il petrolio, a una profondità di 211, 6 m, a Oil Creek (Titusville Pennsylvania), registrando un’erogazione di 6 mc/g di grezzo. Drake operava per conto della Pennsylvania Rock Oil Co., fondata nel 1854 da George H.Bissel e Jonathan G. Elvereth, da considerare quindi la più antica azienda petrolifera del mondo. In realtà Bissel ed Elvereth, appena all’inizio della loro attività imprenditoriale, con felice intuizione, avevano inviato un campione di grezzo di Titusville a Benjamin Silliman jr, professore di chimica generale ed applicata all’Università di Yale, perché lo esaminasse ed esprimesse un parere sulle possibilità e modalità d’impiego del prodotto. Il professore ritenne di assolvere il compito affidatogli sottoponendo il campione ad una distillazione frazionata, indicando punti di ebollizione e pesi specifici delle singole frazioni, di cui descriveva le principali caratteristiche. La sua relazione peraltro concludeva affermando che i risultati degli esperimenti compiuti provavano che la quasi totalità del prodotto poteva essere lavorato senza perdite, con uno dei più semplici procedimenti chimici, cioè mediante distillazione. Perciò, incoraggiato da queste affermazioni, Bissel affidò i sondaggi di ricerca, nella stessa zona di provenienza del campione analizzato dal prof. Silliman, al colonnello Drake, con lo storico risultato già ricordato. Il successivo decennio degli anni Sessanta, con i tragici avvenimenti della guerra civile e quelli duri e drammatici del dopoguerra, registrerà una nuova corsa all’oro nero e il disordinato prorompere delle iniziative di nuovi imprenditori, che daranno vita a quella che risulterà la massima espressione del capitalismo industriale americano: l’industria del petrolio e della sua raffinazione. Nell’ambito della storia di nostro più diretto interesse lo sviluppo dell’attività di raffinazione stimolò, com’era già avvenuto con le altre industrie di lavorazione dei prodotti minerari, l’industria chimica a svolgere il suo ruolo ancillare, di grande consistenza economica perché comportava massicce forniture di acido solforico. Con i processi
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allora disponibili occorreva infatti una libbra di solforico per raffinare 8 galloni di kerosene, principale prodotto delle raffinerie dell’epoca, con un consumo medio corrispondente ad un fabbisogno di 3500 tonnellate di acido per milione di barili lavorato. Ma il mercato del solforico si dilatò ulteriormente per la nascita, in seno all’industria chimica, di un nuovo ramo di attività, quello dei fertilizzanti. Si trattava più esattamente dei fertilizzanti fosfatici, da produrre con un processo elementare, importato dall’Europa, consistente nell’attacco acido del minerale contenente fosfato tricalcico. Dunque, ancora una volta, la ricchezza mineraria del Paese afferma il suo ruolo determinante. Infatti, come si è ricordato in premessa, il forziere minerario americano non racchiude solo petrolio, ma anche, e in abbondanza, fosforiti. Un’idea quantitativamente più incisiva si ha ricordando che, circa trent’anni fa gli USA potevano contare su riserve conosciute di rocce fosfatiche di circa 13.5 miliardi di tonnellate, pari al 30% delle riserve mondiali. Ma già tra il 1850 e il 1860, quando l’oriundo irlandese, William Davison, fondatore della Davison Chemical, cominciò a produrre fosfati, mediante attacco acido delle ossa, la disponibilità di fosforiti del territorio era sufficientemente nota. Infatti poi, intorno al 1860, Davison non esitò a sostituire, nella sua fabbrica di Baltimora, la roccia fosfatica alle ossa. Occorre in verità precisare, per i chimici, che il minerale prevalente nei depositi americani è la fluoroapatite, particolarmente indicata per lo scopo perché la sua composizione media corrisponde alla formula Ca5(PO4)3F. Un’altra fortunata circostanza per gli americani fu quella di trovare fosforiti diffuse in molti stati e principalmente in Florida, Tennessee, Montana, Wyoming e North Carolina. E, poiché il fertilizzante fosfatico che ne deriva, il super, è particolarmente efficace nelle piantagioni di cotone e tabacco, ricchezza agricola del Sud, fu necessario spostare gli impianti di solforico dal nordest alle regioni meridionali. Così proliferarono negli stati del Sud, che più stentavano a far cicatrizzare le ferite della guerra fratricida, le fabbriche che accoppiavano l’unità del solforico con quella del superfosfato. Sicché, nei volgere di pochi anni, le unità di solforico distribuite dalla Carolina al Texas superarono numericamente, se non per capacità produttiva, quelle degli stati tradizionalmente industrializzati. Sarà questo il primo tessuto connettivo industriale degli stati del sud, che verranno poi a beneficiare, solo qualche decennio più tardi, del rivoluzionario processo di trasformazione, che si manifesterà quando l’avvento dell’era della motorizzazione valorizzerà ancora di più la ricchezza petrolifera di
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quei territorio. Sembrerebbe a questo punto che petrolio e chimica possano sviluppare i rami d’industria di loro competenza con reciproco vantaggio, grazie alla netta differenziazione delle risorse minerarie da un lato e dei mercati di sbocco dall’altro. Ed invece, prima di trovare una chiara definizione dei ruoli di competenza, gli imprenditori petrolieri e chimici si troveranno ad affrontare drammatiche situazioni di confronto e di scontro, certamente non prevedibili in base all’importante, ma limitato legame, costituito dalle forniture di acido solforico. Probabilmente l’inesperienza industriale di alcuni imprenditori d’assalto non consentì di fare quel gioco di squadra che agli imprenditori tedeschi avrebbe consentito di risolvere situazioni anche più complesse. Ma veniamo ai fatti, che più efficacemente consentono di comprendere come la competizione possa degenerare, se una rozza passionalità si sostituisce alla ragione. Nel dopoguerra Cleveland era diventata il centro degli affari petroliferi e i maggiori imprenditori della raffinazione, tra i quali John D. Rockfeller vi avevano installato il loro quartier generale. La competizione tra i petrolieri era accesa, sia per il numero eccessivo di operatori sia per la crisi del dopoguerra. Presi dall’ansia di risparmiare a tutti i costi, per essere più competitivi, un gruppo di raffinatori locali, con l’appoggio del presidente della Commercial Bank, ebbe l’idea, poco originale, di provvedere al proprio fabbisogno di solforico, dotandosi di un proprio impianto di acido. L’iniziativa aveva però il duplice inconveniente di allarmare gli altri raffinatori e di disgustare i fornitori. Il più intraprendente di questi, Eugene Grasselli, reagì prontamente, con estrema durezza, decidendo di costruire un nuovo impianto di solforico a ridosso della raffineria di Rockefeller, che si era tenuto fuori della mischia. Grasselli stesso progettò il nuovo impianto, incorporandovi tutti i miglioramenti che l’esperienza, acquisita con la gestione delle altre unità a camere di piombo, poteva suggerirgli. Ne affidò la costruzione al genero, che considerava suo braccio destro, dando al giovane figlio il privilegio di fare l’apprendista in cantiere, prima come muratore, poi come tubista. Anche la famiglia Grasselli dovette traslocare da Cincinnati a Cleveland, per assecondare quest’impegno imprenditoriale. Gli sforzi profusi in quest’impresa consentirono però di mettere in marcia l’impianto già nella primavera dei 1867. Ma la crisi del dopoguerra si era purtroppo, drammaticamente, trasformata in panico; il mercato dei prodotti chimici era crollato, praticamente azzerando, all’inizio del ’68, la produzione del nuovo impianto di solforico di Cleveland. Ne nacque una guerra selvaggia tra i raffinatori. Le so-
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cietà più forti colsero l’occasione per attaccare quelle più piccole e deboli, proponendosi, in alternativa, o di buttarle fuori mercato o di assorbirle a prezzi fallimentari. Questa lotta senza quartiere e condotta senza scrupoli, avrebbe almeno potuto ripristinare una situazione di mercato più ordinata. Ma, non appena ci fu qualche segnale di ripresa, i superstiti ripresero i combattimenti. E, per i fabbricanti di acido, la situazione andava da male in peggio, perché i raffinatori, in questa disperata battaglia per la sopravvivenza, si limitavano a comprare l’acido indispensabile, scegliendo il fornitore solo in base al prezzo. Così, anche fra gli industriali chimici, quelli più affamati di ordini, accettarono le condizioni dei raffinatori e i prezzi crollarono. Ma il buon senso suggerì ai chimici di correre ai ripari e alcuni tra i maggiori produttori, la Cleveland Chemical, la Marsh&Harwood e lo stesso Grasselli si accordarono stipulando un gentlemen’s agreement, denominazione poi adottata nel mondo degli affari per questo tipo di pattuizione, per controllare i livelli produttivi, in modo da bloccare la corsa al ribasso. Quest’alleanza comportò anche l’acquisto in comune di qualche società non controllabile e addirittura la costruzione di un nuovo impianto per recuperare l’acido dagli sludges, che le raffinerie ottenevano come sottoprodotto del trattamento con solforico delle varie frazioni petrolifere. Ma, perdurando la battaglia tra raffinerie, il prezzo dell’acido era comunque sceso ad un livello inaccettabile. Finalmente, nel 1872, una dozzina dei principali raffinatori dichiarò una tregua e invitò otto dei maggiori produttori di solforico ad un confronto risolutivo. La conferenza ebbe luogo a New York e la storia registra che non si trattò di un banchetto nuziale. Da un lato sedevano i petrolieri, guidati dal portavoce Charles Pratt, dall’altro i chimici, che avevano affidato il compito di rappresentarli a I.H. Mansfield, già uomo del petrolio con la Hussey&Mc Bride, che aveva avuto l’infelice idea di dotare la raffineria con un proprio impianto di acido, ed ora operatore chimico con la Cleveland Chemical Works. Dai risultati possiamo immaginare lo svolgimento dello scontro. I petrolieri dichiarano esplicitamente che il mercato del solforico non è area di caccia riservata ai chimici e, se questi non ne terranno conto, le raffinerie si doteranno di altri impianti di acido. Replica Mansfield con un contro–ultimatum: se i raffinatori insisteranno a produrre acido i fabbricanti di solforico cominceranno a raffinare petrolio. Altri tempi!! Allora erano gli industriali chimici a disporre di maggiori risorse finanziarie, sicché è la minaccia del controultimatum a risultare efficace e i raffinatori ac-
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cettano di contrattare un fair price (giusto prezzo) per l’acido che da 1,5 risale a 2,53 c/lb. Non staremo più oltre a seguire le vicende di questo mercato, limitandoci a segnalare che, in effetti, chi ne uscì vittorioso fu proprio il Grasselli che, operando dietro le quinte, aveva imbeccato Mansfield, che poi entrerà nella società di Grasselli come direttore delle vendite. In seguito il consumo di acido risultò in costante espansione, perché al fabbisogno delle raffinerie e degli impianti di super si aggiunse quello delle officine del gas per la produzione di solfato ammonico e quello del decapaggio dei prodotti siderurgici, ferro e acciaio, e, a partire dal 1890, delle lamiere di ferro, come trattamento di preparazione per il rivestimento galvanico di stagnatura. La moltiplicazione dei consumi minori contribuì anche a rendere il mercato più stabile. La rapida espansione del mercato portò poi alla costruzione di molti impianti anche ad opera di società chimiche con una presenza già consolidata in altri settori merceologici. Ma col tempo, nel campo del solforico, emersero due grossi gruppi, su base familiare, Grasselli e Kalbfleisch. Il primo, mediante acquisizioni ed assorbimenti, non solo divenne leader del settore per capacità produttiva, ma diversificò l’attività industriale con la produzione di super e di fertilizzanti misti e, successivamente, con quella di acido acetico e ossido di zinco (pigmento bianco). La Kalbfleisch invece, alla morte del fondatore e a seguito della rinuncia all’attività industriale di tre dei quattro fratelli, scomparve come gruppo familiare. Ma il più giovane, Franklin H. Kalbfleisch si rivelò imprenditore di grandi capacità, perché, con varie operazioni di acquisizione e assorbimento, creò un gruppo attivo non solo nel tradizionale campo del solforico, ma anche in quello dei prodotti chimici derivati dalla bauxite. Solo per completare l’esemplificazione si può menzionare il gruppo Nichols, che si sviluppò nel settore derivato del solfato di rame, di crescente ampiezza, per l’impiego di questo sale come elettrolita nelle batterie, come insetticida, in agricoltura, e come funghicida ed alghicida nella depurazione delle acque. Nell’impostazione organizzativa delle società chimiche americane si verifica, in questo periodo, un’importante evoluzione, rappresentata dalla progressiva emarginazione di intermediari e agenti locali, perché le aziende provvedono a dotarsi, in misura crescente, di un autonomo servizio o direzione vendite. Se la produzione di solforico è un indice dell’industrializzazione dei paesi nell’Ottocento è significativo rilevare che dalle 60.000 tonnellate di acido prodotte nel 1865 la produzione di acido in USA sale, a fine secolo, a 1,5 milioni di tonn/a,
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tutte prodotte in impianti a camere di piombo, mentre in Europa faceva il suo esordio il processo catalitico o di contatto. In conclusione, alla fine dell’Ottocento, l’industria chimica americana accusava ancora un netto divario rispetto all’omologa industria tedesca, diventata ormai il costante termine di raffronto. Tuttavia la molteplicità delle invenzioni, che la genialità creativa americana riversava sul mercato, lasciava presagire che, per il fenomeno di osmosi interna, prevalente in campo tecnico, anche l’industria chimica avrebbe finito col beneficiarne. Basta limitarsi ai fatti più noti, che costituiscono pietre miliari nella storia del progresso tecnico. In primo luogo l’invenzione della macchina da scrivere, avvenuta nel 1867 ad opera di C.L. Sholes, tipografo del Milwaukee, e commercializzata 6 anni più tardi, ad opera della Remington, dopo perfezionamento del prototipo. Il fonografo di Edison, comparso nel 1878, si affermò sul mercato solo quando l’oriundo tedesco Berliner riuscì a registrare i suoni su dischi piatti, in sostituzione degli originali cilindri di cera, di difficile conservazione. Anche la lampadina a filamento di carbonio, inventata da Edison nel novembre del 1879, ebbe maggiore diffusione e un netto miglioramento qualitativo quando il brevetto fu acquistato dall’industria tedesca. Fu infatti Rathenau, fondatore della DEA (Deutsche Edison Alegemeine Gesellschaft), che, adottando un filamento di tungsteno, migliorando le condizioni del vuoto e della sua tenuta e cambiando la forma dell’involucro di vetro creò la lampadina elettrica, diffusa in Europa come prodotto dell’industria tedesca. La DEA poi divenne la più famosa AEG, che Rathenau lasciò al figlio Walther, che la storia ricorda come industriale progressista, assassinato nel 1922, per le sue idee politiche, quand’era ministro degli Esteri della Germania del primo dopoguerra. Ma infine, ritornando alla genialità creativa americana, nel 1888, George Eastman inventa la macchina fotografica Kodak; con lo sviluppo industriale che ne seguì la Eastman Kodak, per migliorare la qualità dei films, realizzati inizialmente in nitrocellulosa (materiale estremamente infiammabile), poi in acetato di cellulosa, fu gradualmente portata a qualificarsi come società chimica ad alta tecnologia, diventando leader mondiale nello specifico settore merceologico. Fu proprio Edison, il cui successo era in gran parte dovuto al connubio di una inesauribile curiosità e di geniali intuizioni, sorretto dal pragmatismo tipico di chi non dispone di un consistente patrimonio di conoscenze scientifiche, a fondare a Menlo Park, nel New Jersey, la fabbrica delle invenzioni. Sentendosi forse in debito con quel mondo della
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scienza, nei confronti del quale aveva spesso ostentato una serena noncuranza, egli volle che la fabbrica delle invenzioni fosse basata sui lavoro coordinato di un gruppo di ricercatori, impegnati a tempo pieno nella realizzazione di nuovi prodotti da immettere sul mercato. Forse, per la prima volta, l’attività del ricercatore assume la connotazione di una professione qualificata e riconosciuta.
Cultura chimica, biochimica ed ingegneristica nell’Ottocento e suo contributo allo sviluppo industriale
La cultura chimica, nella sua fase iniziale, si sostanzia nell’attività degli sperimentatori, dediti prevalentemente alla ricerca fondamentale, i quali, con i risultati del loro lavoro, gettano le basi per la trasformazione di un coacervo di conoscenze empiriche in una nuova disciplina scientifica. Questa trasformazione si verifica, naturalmente con gradualità, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, ad opera di un gruppo di ricercatori geniali (basta citare Cavendish, Scheele, Volta, Priestley, Lavoisier), il cui impegno appare costantemente mosso da quella particolare curiosità umana, che la passione dell’intelligenza converte in ansia dell’ignoto. L’aristocratico distacco da ogni movente di immediato interesse materiale, che sembra prevalente nei membri di questa élite, opera una naturale selezione, nel senso che la ricerca sarà, se non costretta, certamente orientata, a reclutare i suoi adepti privilegiando chi può dedicarsi all’attività di laboratorio proprio perché la nobile estrazione o, comunque, un’agiata condizione familiare o professionale gli consente di disporre dei mezzi necessari per svolgere un’attività certamente costosa e spesso non remunerativa. I ricercatori in genere e gli scienziati, in particolare, sono considerati nei primi decenni dell’Ottocento dei personaggi “super partes” e la comunità internazionale ne consente naturalmente la libera circolazione. Tant’è che durante il conflitto tra la Francia di Napoleone e l’Inghilterra, il blocco navale instaurato dai contendenti non impedisce agli scienziati inglesi di incontrarsi a Parigi con i loro colleghi inglesi. Volendo qualificare le caratteristiche della ricerca chimica, con un richiamo alle correnti di pensiero prevalenti nella società dell’epoca, si potrebbe definire romantico l’atteggiamento dei ricercatori nei primi decenni dell’Ottocento e positivista quello che si riscontra nella seconda metà dell’Ottocento. Ed il positivismo, che impone alla filosofia di abbandonare le astrattezze della metafisica per dedicarsi all’organizzazione dei dati delle scienze sperimentali, non può non suggerire alla ricerca chimica di dare sempre più spazio ai progetti mirati a definire processi di immediato interesse per l’industria. All’inizio del secolo il pensiero chimico è dominato dalla Scuola francese, che ha ereditato la lezione di Lavoisier, arricchendola con i 97
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contributi di Berthollet e Gay–Lussac, e consolidandone la preminenza con il prestigio e l’opera di Dumas e Chevreul, il già ricordato matusalemme della chimica, famoso per i suoi prolungati studi sulla scissione e composizione dei grassi. In Francia però la Rivoluzione e poi Napoleone e la Restaurazione hanno mantenuto inalterata la tradizionale centralizzazione della cultura accademica. Infatti, anche se non ci sono i “baroni” delle università, c’è l’Accademia delle Scienze che, con i suoi uomini più rappresentativi, tende ad emarginare scienziati e ricercatori che operano in provincia. Tant’è che, nonostante il consistente vantaggio iniziale, acquisito con l’industria delle polveri da sparo e della soda Leblanc, con quella dell’estrazione dello zucchero dalle barbabietole e della scissione dei grassi — per limitarci a quelle più significative — la chimica francese finirà col cedere il passo a quella tedesca. Questa infatti, in avvio, riceve il forte impulso espresso dalla guida feconda di Berzelius, anche se talvolta la passionalità di questo Maestro penalizzerà l’efficacia della sua lezione. Poi potrà contare sugli straordinari contributi di Liebig, reduce dall’apprendistato parigino, alla scuola di Dumas. Sarà proprio Liebig a creare un nuovo metodo di insegnamento che, attribuendo agli allievi autonomia e responsabilità, nello specifico compito di ricerca ad essi assegnato, diventerà una caratteristica peculiare della chimica tedesca, rendendo così feconda la sua ricerca. Liebig provvederà poi a diffondere il suo pensiero con la pubblicazione degli «Annalen der Pharmacie», iniziata il 1832, che diventeranno, alla sua morte, «Justus Liebigs Annalen der Chemie», una delle più prestigiose riviste di chimica organica del mondo. A questa seguirono, in Germania, altre pubblicazioni come il «Chemisch–Pharmaceutisches Zentralblatt», nel 1850, e il «Chemisches Zentralblatt», nel 1856, destinate ad ospitare riassunti degli innumerevoli articoli che comparivano nella sempre più prolifica letteratura chimica tedesca. Il modello tedesco fu poi seguito dalla letteratura scientifica americana con le pubblicazioni periodiche dell’«American Chemical Society», verso la fine dell’Ottocento, mentre quelle dei «Chemical Abstracts» seguiranno all’inizio del Novecento. Paradossalmente nell’Ottocento la Germania si giovò della propria divisione in molti stati (durata fino al 1871, anno di proclamazione dell’Impero), perché lo spirito di emulazione, proprio della sua cultura, portò ad una moltiplicazione delle università. Fu così che gli allievi di Liebig occuparono molte cattedre chimiche degli atenei tedeschi. Il prestigio da essi acquisito valse a farli chiamare anche all’estero; così
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avvenne nel famoso, e già ricordato, caso di A.W. Hoffmann, invitato a Londra addirittura a presiedere l’università reale di chimica, il Chemical Royal College, poco dopo la sua fondazione. Naturalmente in Europa anche gli altri Paesi si resero conto che lo sviluppo della ricerca e dell’industria chimica imponevano modelli di sviluppo e di divulgazione della cultura chimica, che potessero tradursi in un’efficace attività operativa, mediante associazioni e pubblicazioni specifiche. Così in Inghilterra nel 1847 videro contestualmente la luce la Chemical Society di Londra e il suo Giornale, in Francia, nel 1857–58, la Société Chimique di Parigi e il suo «Bulletin»; in Russia, nel 1868–69 la Società Chimica Russa e il suo Giornale; in Italia, nel 1871, la Società Chimica Italiana e, nel 1873, la sua «Gazzetta». L’elencazione, largamente incompleta, serve comunque a dare un’idea del diffondersi, in maniera più accentuata negli ultimi decenni del secolo, di una cultura chimica, che dovrà poi progressivamente articolarsi nei suoi molteplici rami di specializzazione. L’esempio più significativo in tal senso è quello della chimico–fisica che, come nuova disciplina scientifica, trova il suo fondatore in Wilhelm Ostwald e il suo strumento di diffusione nella rivista specialistica «Zeitschrift fur physikalische Chemie», fondata nel 1887. Sarà quindi la convinta adesione di Van’t Hoff e di Arrhenius a sancire la nascita della nuova scienza. Quel che importa sottolineare è che la diffusione della cultura chimica attenuerà il predominio scientifico e industriale della Germania, della Francia e dell’Inghilterra e che Russia, Olanda, Belgio, Svizzera, Svezia e Stati Uniti, per citare i maggiori dei comprimari, non rassegnati ad un ruolo secondario, occuperanno posizioni di crescente importanza in ragione di fattori culturali, commerciali e politici. Non si riuscirebbe tuttavia a comprendere il carattere rivoluzionario della nuova scienza, se non si desse adeguato rilievo a quel particolare ramo della chimica organica, che chiamiamo biochimica, che, nella seconda metà dell’Ottocento avrà un impatto dirompente su un mondo di idee, cosi radicate e consolidate, da far trovare nel ruolo di oppositori al nuovo verbo anche uomini dotati di intelligenza ed onestà intellettuali non comuni. Ma come mai si dovrà attendere fin quasi alla fine dell’Ottocento per un significativo sviluppo della biochimica, scienza che nasce verso la fine del Settecento? Si sarebbe tentati di rispondere con una nota battuta del professore di biochimica di Cambridge F.G. Hopkins (1861–1947): «Si tratta di superchimica: non è per tutti». Ma non si può, né si vuole affidare ad un aforisma la ricostruzione storica del processo di formazione di questa nuova e fondamen-
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tale disciplina scientifica. Ma è significativo, per altro verso, che saranno i metodi più avanzati della sperimentazione e dell’analisi chimica della seconda metà dell’Ottocento a consentire alla ricerca biochimica i successi che ne accrediteranno il ruolo di superchimica. Stante il nostro interesse a collegare gli sviluppi della biochimica con i processi industriali, limiteremo la nostra ricostruzione ad alcuni fatti essenziali. Come abbiamo prima ricordato la biochimica, come scienza che si occupa dei fenomeni chimici e chimico–fisici, che hanno luogo nella materia vivente, cioè negli organismi animali, vegetali e microbici, muove i primi passi già alla fine del Settecento. Ed infatti su questi fenomeni avevano curiosato, solo qualitativamente, Priestley e Scheele, ma Lavoisier, con metodi di sperimentazione quantitativa, aveva dimostrato la sostanziale identità tra le ossidazioni chimiche e quelle che si verificano nelle cellule viventi, nel corso dei processi respiratori. E, sempre la scuola francese, con il determinante contributo di Jean Senebier (1742–1809) aveva identificato nella fotosintesi il processo che, nelle cellule vegetali, realizza esattamente la sequenza di reazioni, inversa rispetto a quella che la respirazione realizza nelle cellule animali. Ma alla società dell’epoca e anche agli ambienti accademici ripugnava l’idea che l’indagine chimica fosse uno strumento idoneo a spiegare fenomeni riguardanti organismi viventi. Solo quando Friedrich Wöhler (1800–1882) ottenne, per decomposizione termica del cianato ammonico, l’urea, composto chimico presente nell’urina di tutti gli animali, ci si convinse che non occorrevano influssi vitali per ottenere sostanze presenti nel nostro organismo, che, comunque, non potrebbe ricorrere al cianato ammonico, assente nelle cellule animali. Ma per la nostra schematica ricostruzione delle fasi attraverso le quali la biochimica si caratterizza come disciplina indipendente dalla fisiologia, dalla quale ha pur preso l’iniziale abbrivo, per poi contribuire anche allo sviluppo dell’industria chimica, in specifici comparti, dobbiamo passare almeno in rassegna i fondamentali contributi di Liebig, Pasteur e Buchner. Liebig, con le sue due opere fondamentali, Die Tierchemie e Die Chemie in threr Anwendung auf Agrikultur und Physiologie (pubblicate tra il 1840 e il 1842), fece comprendere la connessione tra i due cicli biochimici che presiedono alla vita sul nostro pianeta: il ciclo vegetale e quello animale. Il primo abbisogna di luce, acqua, anidride carbonica e ammoniaca, che attinge dai prodotti di degradazione del ciclo animale. A loro volta gli animali hanno bisogno per la crescita e la ri-
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produzione, degli alimenti vegetali. È appena il caso di sottolineare che l’importanza attribuita all’ammoniaca, nel processo di crescita dei vegetali, stimolò l’interesse dell’industria chimica prima al recupero, poi alla produzione dell’ammoniaca e dei suoi sali, promuovendo quindi lo straordinario sviluppo dell’industria dei fertilizzanti azotati. Louis Pasteur (1822–1895), a sua volta, studiando i processi di fermentazione, dimostrò che sono cellule viventi — lieviti ed alcuni microrganismi — gli agenti della trasformazione del glucosio in alcool etilico. Egli identificò quest’agente in un fermento contenuto nelle cellule, al quale più tardi Kuhne attribuirà il nome di enzima, ricorrendo all’etimo greco perché enzima vale appunto “in fermento”. Permaneva tuttavia l’opinione, forse un residuo delle dottrine vitalistiche, che l’enzima potesse comportarsi da agente attivo, se integrato nelle cellule. Solo quando Buchner (1860–1917) ricavò dal lievito un estratto — quindi separato dalle cellule di provenienza — si provò sperimentalmente che esso manteneva la capacità fermentativa del lievito originario. Così finalmente si ritenne dimostrato che non era il lievito, ma l’enzima in esso contenuto, la zimasi, ad essere responsabile della fermentazione alcolica. Gli straordinari sviluppi, cui diede luogo lo studio degli enzimi, determineranno la nascita di una nuova disciplina, la chimica enzimatica, che rientra, prevalentemente, nell’area scientifica di interesse della medicina. Qui importa solo rilevare che gli enzimi sono sostanze proteiche e che gli amminoacidi sono i precursori delle proteine; sicché anche l’industria chimica troverà spazi d’intervento quando, ad esempio, riuscirà a sintetizzare amminoacidi essenziali, quali la metionina e il triptofano, la cui carenza in dieta può determinare situazioni patologiche, proprio in ragione di un deficit enzimatico. Nel campo dell’industria chimica, negli ultimi decenni dell’Ottocento, i processi di fermentazione, alla luce delle scoperte della biochimica, furono riconsiderati con rinnovato interesse. L’interesse dominante fu naturalmente riservato alla fermentazione dei polisaccaridi e degli zuccheri, in aerobiosi e in anaerobiosi, per azione di lieviti e funghi, con particolare attenzione alle fermentazioni alcolica, acetica e lattica. Proprio sul finire del secolo, nel 1893, C. Wehmer scoprirà una delle più importanti fermentazioni ossidative, quella citrica, il cui meccanismo si rivelerà anche di grande interesse teorico. Ma risulterà soprattutto importante per la produzione industriale di acido citrico, che soppianterà progressivamente quella agrumaria, mentre il citrico, in tempi più recenti, diventerà anche, in misura più accentuata in USA, prodotto di grande interesse non solo in
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campo alimentare, ma anche nel settore della detergenza. Ma in merito agli straordinari sviluppi delle applicazioni della biochimica nel Novecento, in vari settori industriali, avremo modo di intrattenerci ancora nei capitoli successivi. Mentre le discipline chimiche procedono, come abbiamo appena visto, con passo spedito e, ancor più accelerato, negli ultimi decenni dell’Ottocento, anche negli altri campi della scienza e della tecnica si realizzano progressi altrettanto significativi. Conseguentemente la ricerca chimica e l’industria chimica, ciascuna nel proprio ambito, sono sollecitate a trarre profitto dalla disponibilità pratica dì strumenti operativi più adeguati ed efficaci. In alcuni casi sono proprio i nuovi strumenti che permettono di affrontare, in maniera risolutiva, le difficoltà relative al trasferimento su scala industriale dei processi che i ricercatori hanno messo a punto in laboratorio. La progettazione degli impianti chimici emerge da questo travaglio nella sua veste di disciplina tecnica, da sviluppare con l’apporto di specifiche competenze professionali. In qualche caso particolare, come esemplarmente dimostra quello degli impianti di frazionamento dell’aria, per la produzione di ossigeno e azoto, l’industria chimica deve privilegiare l’apporto dell’ingegneria proprio perché esso risulta determinante sia nella fase di progettazione sia in quella di costruzione dell’unità produttiva. Però l’ingegneria degli impianti e degli apparati, come quella dei macchinari, delle apparecchiature, dei reattori, della strumentazione di regolazione e controllo, dei vari materiali complementari ed accessori, nonché l’ingegneria dei servizi, in un ruolo sempre più centrale, entrano in ritardo nella cultura, sia accademica che industriale, del mondo chimico. La ragione più evidente di queste difficoltà risiede probabilmente, per buona parte dell’Ottocento, proprio nella natura onnicomprensiva di quella cultura che, per ipersaturazione, non riesce con immediatezza ad assimilare idee, principi e leggi della nuova scienza. Scienza che chiama in causa termodinamica, elettromagnetismo, chimica–fisica, elettrochimica e le tante altre discipline che, via via, emergeranno, come strumenti indispensabili per la comprensione dei meccanismi, che regolano i processi naturali e quelli industriali. Le difficoltà incontrate nella gestione iniziale dei processi Leblanc, Solvay e “solforico”, a camere di piombo, ed il tempo, più o meno lungo, impiegato per superarle sono da ascrivere non solo all’insufficienza delle conoscenze chimiche di base, ma anche alla carenza di cultura tecnica per la progettazione e la costruzione dell’apparato industriale.
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Possiamo dire che solo nell’ultimo quarto dell’Ottocento si comincia a percepire che l’ingegneria dell’impianto non è il complemento artigianale di un’opera d’ingegno concepita in laboratorio, ma lo strumento indispensabile per tradurre in realtà industriale il lavoro di ricerca del laboratorio. La storia registra che inizialmente la BASF, e poi l’industria tedesca in genere, ritennero di dover reclutare, per il corretto svolgimento delle attività istituzionali, non solo chimici, ma anche, in numero sempre più consistente, ingegneri e tecnici. Giova insistere sull’innovazione rappresentata dall’ingresso dell’ingegneria nell’industria chimica perché anche allora, ed il malinteso talvolta ancora perdura, l’apporto ingegneristico fu visto come una necessità nella fase di costruzione dell’impianto e non come un contributo indispensabile, già in fase di ricerca, quando questa è mirata ad obiettivi di interesse industriale. L’impiego delle alte pressioni o il ricorso a condizioni di vuoto spinto, così come i processi a temperature molto elevate o molto al di sotto dello zero imposero, per risolvere i problemi che si presentavano in fase di ricerca, prima ancora che in fase di progettazione industriale, un crescente ricorso al contributo di fisici e ingegneri. Occorre mettere in conto l’inesistenza, all’epoca, di società d’ingegneria, perché allora si riteneva, anche per ragioni di riservatezza, stante la giustificata diffidenza nell’efficacia della protezione brevettuale, che fossero sufficienti, per le necessità aziendali, i reparti tecnici della stessa società. Come abbiamo in precedenza rilevato la BASF, la Nobel e la Solvay avevano operato con questi criteri, ai quali rimarranno a lungo fedeli; né peraltro era venuta di moda “l’economia di scala” che avrebbe imposto una riprogettazione dell’unità standard perché il processo di espansione e/o di internazionalizzazione si realizzava con la moltiplicazione degli impianti da dislocare nelle aree di consumo. Sarà lo sviluppo dell’industria petrolifera, con le problematiche, anche dimensionali, connesse alla costruzione di raffinerie, depositi, oleodotti e gasdotti, a creare nel secolo successivo metodi e modelli di progettazione e costruzione, che costituiranno ricorrenti termini di riferimento anche per la grande industria chimica. Quest’ultima, già con le sintesi ad alta pressione dell’ammoniaca e del metanolo, dovrà affrontare problemi ingegneristici, alla soluzione dei quali l’esperienza, che l’industria metallurgica e meccanica hanno acquisito con la produzione dei cannoni, potrà prestare solo un modesto contributo. Vedremo successivamente come questo problema sarà affrontato e risolto nei primi decenni del Novecento. Però, già alla fine dell’Ottocento,
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scienza e tecnica coroneranno con successo i tentativi, protrattisi per un cinquantennio, per venire a capo del problema della liquefazione dei gas inclusi quelli ritenuti permanenti cioè incondensabili e quindi del frazionamento dell’aria per la produzione di ossigeno ed azoto. In quest’operazione non entrano in gioco reazioni chimiche, ma si può fondatamente affermare che questo processo è di importanza fondamentale per la nuova chimica delle sintesi organiche ed inorganiche, che tanta parte avrà nello sviluppo dell’industria chimica del Novecento. Una storia esauriente per narrare tutte le vicende di quest’avventurosa industria richiederebbe le pagine di un ponderoso volume. Tuttavia, limitandoci all’essenziale, dobbiamo almeno ripercorrere le tappe che portarono alla nascita delle due società, leader europee in questo settore, la Linde tedesca e l’Air Liquide francese, proprio per registrare l’importanza dell’entrata in scena di quella cultura tecnica che è l’ingegneria. Per illustrare le premesse teoriche occorre ricordare che il grande chimico russo Mendeleev era stato il primo ad indicare l’esistenza, per ogni gas, di una temperatura, al di sopra della quale esso è effettivamente incondensabile; e già questo principio chiariva che, in assoluto, nessun gas è permanente. Quest’indicazione, fornita da Mendeleev, in occasione del suo soggiorno a Heidelberg, in compagnia dell’amico professore di chimica Borodin, che poi, com’è noto, ebbe più successo come musicista, per lavorare nel laboratorio di Bunsen, fu trascurata e praticamente dimenticata. L’interesse dello stesso autore era richiamato da altri obiettivi. Successivamente prima, nel 1869, l’inglese Th. Andrews enunciò la liquefacibilità di tutti i gas, definendo temperature e pressioni critiche, poi l’Académie des Sciences ne confermò la validità, nel 1877, con l’annuncio della liquefazione di alcuni gas permanenti. Sui parametri critici si erano accumulati, prima dell’ultimo decennio dell’Ottocento, un insieme di conoscenze di grande rilievo. Ai dati orientativi, desumibili dalle curve Andrews si aggiungevano ora i valori delle pressioni e delle temperature critiche di alcuni gas, determinati sperimentalmente dai polacchi Olszewski e Wroblewski, nel laboratorio dell’università di Cracovia, inclusi quelli dell’ossigeno, e quelli ricavabili dall’equazione di 3° grado di Van der Waals, in buon accordo con i dati sperimentali noti. Finalmente erano dunque disponibili i dati critici per ossigeno e azoto. Non è rischioso assumere che fossero poco discosti dai valori noti oggi, che risultano: –118°C e 14 atm per l’ossigeno e –147°C e 33,5 atm per l’azoto.
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A questo punto la soluzione del problema appariva ricondotta al compito di liquefare parzialmente l’aria, scegliendo opportunamente temperatura e pressione, perché la maggiore volatilità dell’azoto avrebbe assicurato l’ottenimento di una frazione liquida arricchita in ossigeno e di un incondensato ad alto titolo di azoto. La tecnica della distillazione frazionata avrebbe poi consentito comunque di ottenere azoto ed ossigeno con gradi di purezza accettabili per gli impieghi industriali. Ma la tecnologia del freddo allora muoveva solo i primi passi. L’inadeguatezza dei materiali metallici, dei compressori, degli espansori, degli isolamenti e della lubrificazione — per citare solo le difficoltà di maggior rilievo — consentiranno di realizzare, tra l’ultimo lustro dell’Ottocento e il primo del Novecento, solo la liquefazione dell’aria. Bisognerà attendere ancora qualche anno per la separazione dei suoi elementi costituenti: ossigeno, azoto e gas rari. Precedentemente infatti i tentativi, pur limitati alla sola liquafazione, condotti peraltro da imprenditori qualificati, come quelli di Siemens nel ’57 e quelli di Solvay nell’85, si erano conclusi con un completo insuccesso. Invece i tentativi del fisico francese Cailletet e dello svizzero Pictet, professore di fisica industriale e titolare di una ditta di frigoriferi, basati sull’impiego della refrigerazione in cascata e dell’effetto Joule Thomson — raffreddamento di un gas per espansione adiabatica — ottennero risultati più incoraggianti. Ma il tipo di apparecchiature ed i costi di esercizio di piccoli impianti, con capacità produttive giornaliere di pochi litri, limitarono l’impiego di questi processi nell’ambito dei laboratori. Tenendo realisticamente conto di tutte le difficoltà incontrate dai suoi predecessori il professore del Politecnico di Monaco, C. Linde, giovandosi anche della sua esperienza di fabbricante di macchine per la produzione di ghiaccio, ritenne che il ciclo criogenico dovesse sfruttare solo l’espansione del gas, senza fargli compiere lavoro. Rinunciando infatti al vantaggio di un maggiore raffreddamento, ottenibile quando il gas in espansione funge da fluido motore, si evitavano, tra l’altro, i seri inconvenienti connessi alla lubrificazione di organi in movimento, a così basse temperature. Le condizioni operative scelte da Linde per il suo processo comportavano la compressione di aria, essiccata e decarbonatata, a circa 200 atm e l’espansione a ca. 40 atm, in modo da ottenere a regime un 10% di aria liquida e un 90% di aria residua, da riciclare per la ricompressione a 200 atm. L’aria così compressa veniva però raffreddata, prima dell’espansione, a –50°C, mediante uno scambiatore di calore, inserito in un ciclo frigorifero ad
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ammoniaca evaporante sotto vuoto. Con questi accorgimenti Linde fu in grado di presentare, nel 1895, a Monaco, il suo apparecchio che, con un solo compressore e due scambiatori, realizzati con serpentine di tre tubi concentrici, era capace di produrre alcuni litri/h di aria liquida. E questa fu certamente una valida premessa per il successivo imponente sviluppo industriale di quell’industria bavarese. Esula dai compiti che ci siamo assegnati seguire l’evoluzione del processo e della tecnica impiantistica della Linde. Non possiamo tuttavia astenerci dal segnalare che la necessità tecnico–economica di conciliare l’aumento della superficie di scambio, sempre più vistoso con il progressivo aumento della capacità produttiva degli impianti industriali, con il contenimento dei volumi d’ingombro, portò alla costruzione di scambiatori così sofisticati, da fare apparire quell’intrico di tubi più simile all’avvolgimento di un motore elettrico che ad un comune apparecchio meccanico. Che poi, in questo caso, l’ingegneria sconfinasse in una sorta di artigianato di alta specializzazione è comprovato dal fatto che, ancora nella seconda metà del Novecento, la Linde reclutava gli operai da adibire alla costruzione di questi scambiatori nell’ambito familiare degli operai in età prepensionabile, addetti a quel reparto. Sicché spesso erano i padri ad insegnare ai figli i “segreti del mestiere”, come nelle botteghe artigiane d’altri tempi. In Francia invece il giovane chimico e fisico Georges Claude (Parafi 1870 – Saint Cloud 1960), che incontreremo ancora come protagonista nel processo di sintesi dell’ammoniaca, ritenne correttamente che gli insuccessi dei predecessori fossero imputabili ad inconvenienti di natura meccanica e che si dovesse insistere nel ricorso all’espansione adiabatica, con lavoro esterno, dell’aria per facilitane la liquefazione. Progettato ed assiemato il dispositivo sperimentale, Claude iniziò le prove nel 1899, comprimendo l’aria ad appena 12 atm ed utilizzando, come espansore, un motore, che costituiva il primo stadio di compressione dell’aria riciclata. La lubrificazione delle parti interne del compressore era affidata ad una miscela di idrocarburi leggeri, ricca di pentano, perché lo sperimentatore riteneva che si potesse fare assegnamento, nella fase transitoria di messa a regime del ciclo criogenico, sul progressivo aumento della viscosità del pentano, determinato dalla progressiva diminuzione della temperatura; una volta a regime, sarebbe intervenuto il potere di lubrificazione della stessa aria liquida, che ha capacità di “bagnare” i metalli. Questo primo tentativo di Claude si concluse con un totale insuccesso, perché di aria liquida il ricercatore non vide nemmeno una goccia. Tuttavia la delusione fu
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temperata dall’errata convinzione di avere ottenuto un raffreddamento dell’aria a –150°C, mentre più tardi si scoprì che era solo sfiorata la temperatura di –100°C. Claude ritenne comunque doveroso dar conto dei modesti risultati raggiunti all’Académie des Sciences, tradizionale istituzione scientifica di riferimento, tramite l’amico J. Arsène d’Arsonval, direttore del laboratorio di biofisica e professore di medicina sperimentale al Collége de France. Fortunatamente fu incoraggiato a proseguire e per un paio di anni ancora Claude perseverò nei suoi tentativi, raggiungendo la temperatura di –160°C con una compressione dell’aria ad appena 7 atm e addirittura di –170°C con una compressione a 25 atm. Naturalmente (com’è facile dirlo quando si fa, più di un secolo dopo, la storia delle fatiche altrui!) i suoi sforzi furono vanificati dalla concomitanza del miglioramento energetico, derivante dall’espansione adiabatica, con lavoro esterno, fino alla pressione atmosferica, con il correlativo ulteriore abbassamento del punto di rugiada dell’aria ad una pressione così ridotta. Finalmente Claude, che non voleva rinunciare all’espansione dell’aria fino a pressione atmosferica, ebbe la felice idea di derivare una limitata quantità d’aria, ancora alla pressione di qualche atm, facendola passare in un tubo di rame, posto nella sezione di scarico dell’espansore. Fu così che il fisico francese ebbe la soddisfazione di ottenere un primo flusso di aria liquida, mantenendo la sostanziale integrità del ciclo criogenico, già messo a punto, salvo un limitato innalzamento della pressione dell’aria all’uscita dall’espansore, pressione comunque mantenuta sotto le 5 atm. Veniva così salvaguardata la peculiarità del processo, che continuò ad essere quello energeticamente più conveniente. L’Académie des Sciences potè quindi inviare nel laboratorio di Claude una commissione di controllo, che accertò la capacità dell’impianto pilota di produrre 25 litri l’ora di aria liquida. Nello stesso anno, siamo nel 1902, George Claude fondò con Paul Delorme la Società Air Liquide che, negli anni immediatamente successivi, si sarebbe rapidamente sviluppata, impegnandosi nella produzione di aria arricchita (in ossigeno) per l’alimentazione degli altiforni e dei cannelli a getto concentrico per fiamma ossiacetilenica, ideati dalla stessa Air Liquide. Ci siamo soffermati su questa particolare vicenda dell’industria chimica di fine Ottocento, sconfinando nel primo triennio del Novecento, proprio perché un problema come quello della liquefazione dell’aria, apparentemente semplice, una volta conosciute le temperature critiche, ha stimolato per circa mezzo secolo l’attenzione e l’im-
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pegno di imprenditori e scienziati. Ma ha trovato le soluzioni più valide solo quando l’ingegneria si è affiancata alla fisica, per introdurre quegli accorgimenti operativi che sono spesso indispensabili perché i risultati di una ricerca di laboratorio generino un processo industriale. D’altra parte la cultura ingegneristica, proprio in termini di fisica tecnica, ha tardato a manifestare, nell’Ottocento, l’efficacia del suo intervento, legata com’era, in rapporto ancillare con l’industria mineraria, con la conseguente propensione a richiedere all’industria meccanica gli strumenti più appropriati per il trattamento dei solidi. Avremo modo in seguito di riscontrare quanto sia stato importante il contributo dell’ingegneria chimica nel mettere a punto gli strumenti di calcolo e nel definire i mezzi più idonei per agevolare l’impiego di quelle tecniche fondamentali, le c.d. unit operatíons, ricorrenti nelle varie fasi di ogni processo chimico industriale.
L’inizio del Novecento Elettrochimica e sintesi ad alta pressione nell’industria chimica; carbone e petrolio nell’industria energetica
All’inizio del Novecento, negli anni che precedono la prima guerra mondiale, nell’industria chimica si diffondono, in modo consistente, processi ad elevato consumo energetico. Fino ad allora le più affermate industrie dell’Ottocento, soda, solforico, grassi, esplosivi, coloranti, farmaci e prodotti organici in genere, avevano fatto registrare limitati consumi di vapore, energia elettrica e combustibili. Ora che si sviluppano e sì diffondono processi elettrochimici, in particolare elettrolitici, e processi di sintesi ad alta pressione, come quelli dell’ammoniaca e del metanolo, che si avvalgono dell’efficace impiego della catalisi eterogenea, il consumo energetico aumentò fino a diventare un elemento importante nell’economia del processo. Ed anche questa circostanza contribuirà a dare maggiore spazio d’intervento all’ingegneria chimica, perché la crescita dei consumi energetici solleciterà la tecnica a studiare modifiche ed accorgimenti, per ottenere recuperi energetici, che possano tradursi in significativi: risparmi per l’economia del processo. Ma in quale contesto si verifica questo straordinario sviluppo dell’industria chimica, che vede l’Europa mantenere la sua leadership, proprio mentre il ruolo assunto dal fattore energetico sembra evidenziare una competizione, in cui si attenua il primato delle posizioni scientificamente dominanti? Siamo, in verità, nel pieno di un’autentica rivoluzione scientifica: la scoperta della radioattività e del nuovo modello di struttura dell’atomo, che la scienza di fine Ottocento propone alla ricerca del Novecento, sarebbero già sufficienti a dare ai chimici e fisici impegnati nella ricerca la sensazione di essere, come gli antichi naviganti, esploratori alla ricerca di nuovi misteriosi continenti. Ma quando Max Planck (Kiel 23.4.1858 – Gottinga 4.10.1947) nel 1900, studiando il problema dell’irraggiamento del corpo nero, da un punto di vista termodinamico, giunse ad ipotizzare che l’energia venisse emessa in modo discontinuo, secondo la nota legge E = hv, la logica conseguenza dell’attribuzione anche all’energia; come alla materia, di una struttura discreta e granulare sembrò ripugnare perfino al grande scienziato. Tant’è che egli attribuì alla sua teoria e alla legge che ne esprime il rivoluzio109
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nario significato il valore di un’ipotesi di lavoro da conciliare con la meccanica classica, per non infrangere il concetto di continuità dell’emissione energetica! Saranno la particella elementare introdotta da Einstein, il fotone, e l’elaborazione quantistica ad opera di Bohr, Born, Heisenberg, Schrodinger e Dirac a consentire di valorizzare, in tutte le sue feconde implicazioni, la geniale intuizione di Planck, confermandone appieno la validità. E, a materializzare, in termini di progresso tecnico, i voli pindarici della Scienza, si apprende che Guglielmo Marconi, il 12 dicembre 1901, ha ricevuto a Terranova la prima segnalazione, in telegrafia senza fili, proveniente dalla Cornovaglia. E, quasi inosservata, nel 1906, passa la notizia che il botanico polacco Tswett, lavorando con una soluzione di pigmenti di foglie verdi in etere di petrolio, ha inventato la cromatografia in colonna, una nuova tecnica analitica, particolarmente adatta all’analisi di composti chimici appartenenti alla stessa famiglia. Si tratta, per inciso, di una tecnica che utilizza il principio della ripartizione dei composti tra una fase stazionaria adsorbente (polvere di carbonato di calcio pressata in colonna) e una fase mobile, il solvente organico, in lenta percolazione discendente. Tuttavia la Comunità internazionale, mentre registra, non senza alcune opinioni contrastanti degli stessi circoli accademici, l’impatto dirompente della Nuova Scienza, è sostanzialmente distratta, nella parte più corposa del suo organismo, dalle spensierate frivolezze della Belle époque. E, paradossalmente, la divulgazione delle teorie freudiane trova un mondo impreparato ad accoglierle, perché sembrano scandalosamente osées. Non sorprende perciò che la notizia, giunta dall’Estremo Oriente, dell’affondamento della flotta dello Zar, avvenuta nelle acque di Tsushima, nell’aprile del 1905, ad opera della Marina nipponica, venga registrata dall’opinione pubblica come la conclusione di una guerra geograficamente troppo remota per suscitare inquietudine e allarme. Eppure il successo militare dell’impero del Sol Levante si era tradotto, con la mediazione di Teodoro Roosevelt (che così ottenne il Nobel per la pace), nel controllo giapponese della Corea e della Manciuria meridionale e con l’annessione della parte merodionale dell’isola di Sakhalin. Si sarebbe quindi dovuto immediatamente percepire che l’efficienza dell’apparato bellico giapponese non poteva non essere anche la concreta manifestazione di un già moderno e potente apparato industriale. È appena il caso di rilevare che, nel volgere di pochi decenni, se ne sarebbe avuta ampia conferma, anche nell’ambito dell’industria chimica.
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Del resto la guerra Anglo–Boera (1899–1901), svoltasi poco prima, aveva fatto notizia, ma non aveva coinvolto, più di tanto, l’opinione pubblica. Peraltro l’importanza degli avvenimenti fin qui elencati non riduce la storica portata di quell’autentica rivoluzione industriale che si verifica all’inizio del Novecento, con la nascita dell’industria automobilistica, destinata ad assumere e a mantenere per tutto il secolo il ruolo di asse portante dell’economia mondiale. Quando infatti, nel 1909, nasce a Detroit, ad opera di Henry Ford, la prima produzione in serie di auto, si dà la stura ad una molteplicità di iniziative imprenditoriali, che creeranno alcuni nuovi filoni industriali, dando anche un nuovo assetto ad altri già esistenti. Basterà citare per rendere l’idea, limitandoci alle voci fondamentali, le industrie di carburanti, lubrificanti, pneumatici, accumulatori e vernici. Anche da questo straordinario sviluppo dell’industria meccanica l’industria chimica riceverà, direttamente e indirettamente, un impulso innovatore, sia in rapporto alle nuove esigenze tecniche, sia in ragione di un’economia di scala, cui l’ampiezza dei nuovi mercati conferisce un ruolo che prima era quasi del tutto ignorato. D’altra parte, nei primi tre lustri del Novecento, l’industria chimica, anche autonomamente, si sviluppa, con un elevato tasso di crescita, proprio in quei settori che, come abbiamo ricordato in premessa, sono grandi consumatori di energia. Si comprende quindi come l’energia elettrica venga ad assumere un ruolo primario, nello sviluppo dell’industria chimica, sia per i processi elettrolitici, sia per quelli ad alta temperatura, che vengono prevalentemente realizzati, secondo la pratica del momento, ricorrendo a forni elettrici, alimentati in corrente continua o alternata. E si comprende anche che, stante l’elevato costo di trasporto dell’energia elettrica, diventino luoghi privilegiati per l’insediamento dell’industria chimica quelli dove il carbone bianco, cioè l’energia idraulica, genera quella elettrica a costi minimi. Così in USA l’industria del carburo e delle ferro–leghe si concentra nella zona delle cascate del Niagara. In Italia, «si parva licet componere magnis», nasce nel 1905 a Piano d’Orta, la prima fabbrica di calciocianamide, ad opera della Società Italiana Prodotti Azotati, che adotta il processo Frank– Caro e conta tra i soci fondatori imprese tedesche. L’ubicazione dell’insediamento viene scelta proprio per le economie che si realizzano smaltendo sul posto l’energia elettrica in cui si trasforma quella idraulica, derivante da un salto del fiume Pescara. Per tracciare ora un quadro sintetico dei processi in cui si articola
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quest’industria, talvolta anche impropriamente definita elettrochimica, dobbiamo passare in rassegna le principali produzioni che, all’inizio del secolo, sono state realizzate con l’impiego di forni elettrici. Merita di essere menzionata per prima la produzione di carburo di calcio, perché rappresenta storicamente il primo processo industriale scoperto quasi in contemporanea in USA ed in Europa. Mentre infatti, come abbiamo ricordato nel cap.V, i ricercatori americani si imbatterono casualmente, nel 1892, nella produzione di carburo di Ca, tentando di migliorare con un forno elettrico ad alta temperatura la tecnica di produzione dell’alluminio, il francese Moissan comunicava all’Académie des Sciences d’aver ottenuto, a seguito di una ricerca mirata, carburo di Ca, per sintesi al forno elettrico. Iniziata dunque alla fine dell’Ottocento la produzione del carburo diventa però una massiccia attività industriale solo nei primi lustri del Novecento, quando, in Europa e in Nordamerica, il carburo assume il ruolo di materia prima fondamentale per la produzione di acetilene, per semplice idratazione, e di calcio– cianammide per azotazione diretta. Per quest’ultimo impiego, destinato poi a diventare quello prevalente, solo nei 1901 viene rilasciato alla Cyanidgesellschaft il primo brevetto, in cui si rivendica l’efficacia dell’impiego in agricoltura del prodotto come fertilizzante azotato. È interessante rilevare che, in questo primo decennio del Novecento, sia in USA che in Europa, i forni di azotazione del carburo non si avvalgono ancora dell’azoto ottenibile per distillazione frazionata dell’aria liquida. Curiosamente prevale il ricorso al vecchio processo di preparazione dell’azoto mediante passaggio dell’aria su trucioli di rame, riscaldati ad alte temperature, con una tecnica elementare di disossigenazione. Nel caso del fosforo è l’Inghilterra a compiere, tra il 1886 e il 1888, i primi tentativi di produzione industriale con la tecnica dell’altoforno o del forno elettrico. Ma solo nel 1896 la Oldbury Electrical Co. avvia il primo impianto di fosforo elementare, nella zona del Niagara, con un forno elettrico da 1500 kW. Il fosforo così ottenuto era però tanto caro da prestarsi solo per gli impieghi più remunerativi: fabbricazione di fiammiferi, previa conversione in solfuro, e produzione di coloranti, previa conversione in pentossido ed ossicloruro. All’inizio del Novecento i notevoli progressi tecnici, realizzati nella preparazione di materiali refrattari e di elettrodi, e la crescente disponibilità di energia elettrica a buon mercato spostano la preferenza dell’industria chimica dall’altoforno al forno elettrico. In ogni caso, sia impiegando un altoforno (oggi si usano forni rotativi tipo cemen-
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to), sia impiegando un forno elettrico, partendo da un minerale fosfatico, ad es. da fluoroapatite, occorreva ricorrere alla silice per rimuovere il calcio in forma di loppa o scorie. Si realizzava così un processo chimico schematicamente rappresentabile con la seguente reazione globale: 4 Ca5(PO4)3F + 18 SiO2+30C 18 CaO. SiO2.1/9CaF2 + 30CO + 3P fluoroapatite silice coke scorie L’ossido di carbonio poteva naturalmente essere recuperato per integrare l’apporto di coke ed olio necessario per mantenere la temperatura del reattore tra i 1200° e i 1500°C. La prima produzione di fosforo (destinato all’immediata trasformazione in acido ortofosforico, per evitare la manipolazione del velenosissimo fosforo bianco) da forno elettrico avvenne in USA, nel 1914, ad opera della Southern Electrochemical Company; alla quale fece seguito analoga iniziativa della Southern Manganese Corporation nel 1919. In Germania, negli stessi anni, la prima produzione di fosforo fu realizzata dalla Hoechst a Griesheim, impiegando il forno elettrico col processo ad arco. Lo sviluppo più vistoso quantitativamente fu però quello dell’alluminio. Si deve peraltro tener conto che all’inizio del Novecento la produzione mondiale di questo metallo era ancora poco al di sopra delle 5000 tonnellate/anno. Quindi, anche quando, nel volgere di un decennio, la sua produzione risultò più che decuplicata, gli altri metalli di più comune impiego come rame, piombo e zinco, tralasciando i prodotti siderurgici–ferro, ghisa e acciaio si attestavano su livelli di un altro ordine di grandezza. Le statistiche infatti registrano per il 1900 una produzione mondiale di 499.000 t/a di rame, di 877.000 t/a di piombo e di 479.000 t/a di zinco, (bisognerà attendere il 1960 per registrare una produzione di Al in testa alla classifica rispetto ai tre metalli ora citati). La logica imprenditoriale orientò naturalmente l’insediamento degli impianti elettrolitici di alluminio, sicché risultarono privilegiati paesi e regioni, in cui abbondava la disponibilità della materia prima, la bauxite, e dell’energia elettrica a buon mercato. Un altro metallo pregiato, prodotto elettroliticamente in quegli anni, è il magnesio, che finì col rivelarsi anche elemento di interesse strategico. Quest’elemento bianco–argenteo è infatti, grazie al suo peso specifico di 1,74 kg/dm3, il metallo strutturale più leggero, capace di legarsi, per le più svariate applicazioni ingegneristiche, con uno o
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più elementi di un’ampia gamma, che include alluminio, manganese, terre rare, litio, torio e zirconio, formando così leghe caratterizzate da un rapporto resistenza/peso eccezionalmente elevato. La produzione del magnesio era iniziata in Germania, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con un processo basato sull’elettrolisi del suo cloruro fuso. I Tedeschi svilupparono questo processo e mantennero il monopolio mondiale della produzione fino al 1915. Fu allora che gli Americani, costretti a rinunciare all’importazione di Mg dalla Germania, si trovarono nella necessità di mettere a punto un proprio processo, sulla falsariga di quello tedesco. In dettaglio questo processo era basato sull’elettrolisi del cloruro o, meglio, della carnallite fusa, intorno ai 700°C. L’operazione veniva eseguita in un crogiuolo di ghisa che fungeva anche da catodo, mentre si impiegava come anodo un elettrodo costituito da carbone di storta. Sarà in seguito la IG Farben a perfezionare questo processo. La valenza strategica del magnesio sarà ampiamente confermata dalla stessa Germania che, nel 1910, conquista anche la primogenitura delle leghe con la pionieristica produzione industriale di manufatti in Electron, prima lega al magnesio. Durante la guerra poi, facendo di necessità virtù, l’industria tedesca svilupperà una serie di leghe al Mg, con l’impiego di zinco e alluminio. Il ricorso all’elettrolisi, come fondamentale tecnica di processo, già consistente per le crescenti produzioni di Al e Mg, diventerà imponente, nei primi lustri del Novecento, con lo sviluppo dell’industria chimica che richiede, in misura sempre più accentuata, cloro, soda, potassa, idrogeno e ipoclorito. L’applicazione dell’elettrolisi per realizzare queste produzioni era stata in verità suggerita nell’ultimo decennio dell’Ottocento, ed anche prima, da molti inventori. Ma serie difficoltà tecniche si opponevano ad una pratica industrializzazione dei pro– cessi che questi pionieri proponevano. Per una sintesi storica ci limitiamo ad indicare i due inventori, l’americano H.Y. Castner (1858–99) e l’austriaco Carl Kellner (1850–1905), che, più d’ogni altro, hanno contribuito alla nascita dell’industria elettrolitica del cloro–soda. Questi due inventori, lavorando indipendentemente l’uno dall’altro, si trovarono a rivendicare, tra il 1893 e il 1895, 1a paternità di una cella elettrolitica a catodo mobile di mercurio, che risultava concepita con criteri tecnici e ispirata da principi fisici, del tutto analoghi. Però, già nel 1894, Castner promosse ed ottenne un incontro in Inghilterra con i fratelli Solvay. Era l’occasione per dare una dimostrazione del funzionamento della sua cella, dimostrazione estesa anche all’inventore tedesco dott. Willing, spalleggiato a sua volta da Karl Wessel, che sta-
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va sperimentando in Germania, in scala già significativa, l’elettrolisi cloro–soda, ma con celle a diaframma. Per rendersi conto della diffidenza che ancora suscitava questo nuovo processo basta ricordare che il maggiore imprenditore chimico inglese dell’epoca, quel Mond che con Brunner aveva fondato la Brunner, Mond&Company Ltd (ossatura della futura Imperial Chemical Industries), declinò l’invito dei Solvay. Il rifiuto fu motivato adducendo che lo sviluppo dell’elettrolisi per il cloro–soda avrebbe richiesto ancora molto tempo e grossi investimenti. I fatti poi gli daranno in buona parte ragione. Castner comunque riuscì in Inghilterra, nel 1895, a mettere in marcia un gruppo di celle a Oldbury (Birmingham) con buoni risultati. Ma poco prima Castner aveva tentato vanamente di brevettare la sua cella in Germania, perché era stato preceduto da Kellner che si era assicurato la priorità dell’invenzione, descrivendo una cella fondata sugli stessi principi: e per promuoverne l’impiego aveva costituito il Konsortium fùr elektrochemische Industrie. Per loro fortuna i due inventori, invece di dissipare preziose energie in una lite comunque onerosa, trovarono rapidamente un accordo di collaborazione. Fu così costituita la Castner–Kellner Alkali Company, che sostanzialmente adottò la cella elettrolitica Castner. Ma quali erano le difficoltà che giustificavano il pessimismo di Mond sulla possibilità di fondare, con immediatezza, un’industria chimica, destinata a produzioni di massa, basata sull’impiego di celle elettrolitiche, sia a diaframma che a catodo di mercurio? In pratica sia le difficoltà tecniche che quelle riguardanti l’onerosità degli investimenti erano riconducibili ad una sola causa: la corrente continua, necessaria per alimentare le celle, era generata da dinamo che consentivano una limitata potenza — di qualche centinaia di kW — e correnti la cui intensità raramente superava i 1000 Ampère. Solo quando nel Novecento furono disponibili raddrizzatori a vapore di mercurio, per trasformare la corrente alternata in continua, fu possibile realizzare impianti elettrolitici con potenze di migliaia di kW e correnti di intensità anche superiori ai 10.000 Ampère. L’azienda leader in Europa per la diffusione del processo elettrolitico cloro–soda fu la tedesca Griesheim Elektron AG che, nel volgere di pochi anni, fino al 1910, riuscì ad installare nel nostro continente celle con una potenza assorbita di circa 30.000 kW. Ma quali sono, costruttivamente e operativamente, le differenze di maggiore rilievo tra celle a diaframma e celle a catodo di mercurio? E perché, fin dal primo decennio del Novecento, si sono andate deline-
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ando, consolidandosi poi col tempo, una preferenza statunitense per le celle a diaframma ed una europea per quelle a catodo di mercurio? Le differenze costruttivamente più rilevanti, che si traducono anche in significative differenze operative, possono essere ricondotte a quelle dei dispositivi adottati nei due tipi di celle a confronto, per tenere separato il prodotto anodico, il cloro, dai prodotti catodici, idrossido di sodio e idrogeno. Questa separazione è evidentemente indispensabile non solo per evitare la vanificazione dello stesso processo di elettrolisi, ma anche per impedire la formazione di miscele esplosive, con le conseguenze disastrose che si dovettero ripetutamente lamentare, sia in Europa che in Nordamerica, proprio nel periodo in esame, fino al 1910. Proviamo ora a ridurre all’essenziale la descrizione di queste differenze. Nelle celle a diaframma, realizzate fin dall’inizio a sezione rettangolare o circolare, il dispositivo che le caratterizzava era appunto un diaframma di asbesto, che teneva separato il compartimento anodico, con anodo in grafite, da quello catodico, col catodo costituito da una lamiera forata o da una fitta rete di filo d’acciaio. La salamoia, previo trattamento di depurazione, è introdotta nella zona anodica, dove si forma il cloro, e attraversa il diaframma poroso, che consente il flusso degli ioni verso il catodo, ma riduce la diffusione, in controcorrente, dei prodotti del compartimento catodico, dove si formano idrossido di sodio e idrogeno. La salamoia così si impoverisce in NaCl e si arricchisce in NaOH; deve quindi essere estratta dalla cella e concentrata, in modo da precipitare il sale, che viene filtrato e riciclato, mentre la soluzione di idrossido, con un contenuto minimo, dell’1% circa, di NaCl, o viene impiegata tal quale (come, in pratica, è stato fatto nell’industria del rayon e in qualche altro caso) o viene ancora concentrata e ulteriormente depurata. Queste celle lavoravano a 70°C ca con una caduta di potenziale, tra anodo e catodo, di circa 4 volt. Le celle Castner–Kellner, che per priorità anagrafica giustamente rappresentano quelle a catodo di mercurio del primo Novecento (fino al periodo della prima guerra mondiale) lavoravano pure ad una temperatura di 70°C, ma con una caduta di potenziale del 10–15% più alta. Allora, come oggi, il mercurio fungeva da catodo e il sodio metallico, separato dal passaggio di corrente, si amalgamava col mercurio e, come amalgama, veniva estratto dalla cella e, in un altro comparto, veniva decomposto con acqua, generando idrossido, a concentrazione variabile dal 20–25% fino al 50% ed oltre, e idrogeno di elevata purezza. È utile ricordare che lo stesso Castner aveva inizialmente sperimentato la disamalgamazione addirittura in una cella elettrolitica se-
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parata. Il cloro si forma invece sugli anodi di grafite, come prodotto puro, ma umido. Conviene anche ricordare, quando si pensa agli impianti industriali del primo Novecento, che per questi processi elettrolitici si tratta ancora di un’epoca pionieristica, che faceva registrare valori di amperaggio e densità di corrente inferiori almeno di un ordine di grandezza a quelli oggi comunemente impiegati. Il prevalere delle celle a diaframma in USA e di quelle ad amalgama in Europa non è certo da attribuire a criteri discrezionali, ma ad orientamenti coerenti con motivi tecnico–economici e con differenti situazioni ambientali. Probabilmente, anche alla luce delle caratteristiche dei due processi, le due opzioni vanno riferite alla diversità delle situazioni riscontrabili a monte, per le materie prime, e a valle per i mercati. S’impone poi, come fattore determinante, la differente filosofia che presiede alle scelte degli imprenditori che, in USA, già allora si mostrano molto più sensibili dei colleghi europei alle prospettive di profitto a breve termine. Ritornando alle condizioni a monte è evidente che gli americani, con la miriade di sondaggi effettuati in tutto il territorio, per esigenze di approvvigionamento idrico o di prospezione mineraria, si sono trovati a disposizione numerosi pozzi, da cui attingere salamoie ricche in NaCl, senza le restrizioni e le difficoltà fiscali esistenti nei paesi europei dove il sale era frequentemente oggetto di monopolio statale. In Europa invece era all’epoca prevalente l’impiego del prodotto solido, il salgemma, che rendeva meno onerose le operazioni di depurazione iniziale, proprio quelle che dovevano invece essere più curate impiegando i diaframmi di asbesto, più suscettibili all’intasamento, provocato dalle impurezze solide trascinate dalla salamoia. Ma si trattava di un particolare trascurabile per le imprese chimiche americane, che erano invece riluttanti ad accettare il maggiore investimento richiesto dalle celle ad amalgama, con l’immobilizzo di consistenti capitali per la massa di mercurio di primo riempimento con l’onere aggiuntivo del maggior consumo di energia elettrica. Il maggiore consumo di vapore, circa 10 kg/kg di NaOH, non riequilibrava il divario, stante il basso costo del combustibile in USA. Infine allora, come ora avviene in casi analoghi in altri comparti, la migliore qualità della soda delle celle ad amalgama, più pura e più concentrata, non faceva premio. Il mercato statunitense era pragmaticamente disposta a riconoscere premi di qualità solo quando purezza e titolo fossero immediatamente traducibili in risparmi concretamente verificabili. Il criterio, apparentemente corretto, darà tuttavia torto, sul mercato internazionale, al prodotto america-
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no, almeno nei confronti di quello tedesco. Per completare il quadro delle applicazioni elettrolitiche nell’industria chimica occorre citare gli elettrolizzatori d’acqua, impiegati con un certo successo per la produzione di ossigeno e idrogeno. Tanto che la Schuckert di Norimberga, nel 1910, arriva a produrre nei suoi 3 stabilimenti 7 milioni di mc d’idrogeno, prevalentemente destinato al riempimento dei dirigibili. Ma il primato dell’invenzione, in questo specifico settore, spetta all’italiano P. Garuti, che già nel 1890 aveva brevettato un elettrolizzatore nel quale venivano adottati elettrodi in piombo compatibili con l’acido solforico diluito, impiegato come elettrolita. Garuti aveva iniziato l’attività industriale nella sua officina di Roma, producendo idrogeno, destinato proprio al riempimento di aerostati della nostra aeronautica militare, ancora allo stato embrionale. Ma un successo ancora più significativo, nella produzione elettrolitica di idrogeno e ossigeno, è quello colto da un altro italiano, Giacomo Fauser (Novara 11.1.1892 — ivi 7.12.1971) che, facendo l’apprendistato da studente d’ingegneria, nella paterna officina con fonderia, si dedicherà alla sostituzione della fiamma ossiacetilenica con quella ossidrica e si assicurerà la disponibilità di ossigeno e idrogeno trovando una brillante soluzione con una cella elettrolitica di concezione originale. Ma di questo diremo più avanti. Nella rassegna delle produzioni a più elevato consumo energetico, che caratterizzarono l’industria chimica della belle époque, spiccano quelle derivanti dai processi di sintesi con catalisi eterogenea. Ed il posto d’onore spetta naturalmente alla sintesi dell’ammoniaca dagli elementi, azoto e idrogeno, realizzato dalla BASF, che ne mantenne il monopolio fino al 1920. In verità la BASF aveva iniziato, già sul finire dell’Ottocento, con vari metodi, lavori sperimentali mirati alla fissazione dell’azoto per la produzione di fertilizzanti. Ma solo nel 1908, dopo essersi accordata con Fritz Haber, che aveva dimostrato, in Karlsruhe, la possibilità di una sintesi, catalitica e a pressione elevata, dell’ammoniaca dagli elementi, si dedicò alla realizzazione industriale del processo. I risultati del lavoro sperimentale così acquisiti furono messi nelle mani del giovane chimico Carl Bosch, con il compito di tradurli in un progetto industriale. Bosch, con l’aiuto di validi collaboratori e con l’apporto determinante di Mittasch, per la preparazione del catalizzatore, riuscì a risolvere in pochi anni il cumulo dei tanti problemi che quest’incarico comportava. Tant’è che, nel 1913, un primo impianto di ammoniaca andò in marcia, nel settore nord dello stabilimento di Ludwigshaven, seguito, nel 1917, da un secondo im-
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pianto, costruito a Mersenburg, e quella tecnologia si sarebbe poi, nel primo dopoguerra, diffusa nel mondo come processo Haber–Bosch. Per la preparazione delle materie prime si provvide all’azoto con un impianto Linde di frazionamento dell’aria, mentre per l’idrogeno Bosch provvide mediante una non facile purificazione del gas misto di un gasogeno. La pressione della colonna di sintesi si aggirava sulle 200–250 atm. Sembra interessante ricordare che lo scienziato francese Claude, che per la liquefazione dell’aria aveva adottato con successo una pressione 4 o 5 volte inferiore a quella utilizzata da Linde, quando si tratterà di sintesi dell’ammoniaca riterrà ottimale una pressione di 1000 atm pari dunque a 4 o 5 volte quella utilizzata da Bosch. Dopo la sintesi dell’ammoniaca, che è successiva a quella del solforico col processo di contatto, la BASF completò la terna delle sintesi con catalisi eterogenea con quella del metanolo, realizzata a seguito delle ricerche condotte nello stesso laboratorio dell’ammoniaca. Ancora una volta la priorità degli studi teorici spetta alla scuola francese. Furono infatti Sabatier e Senderens a tentare, fin dal 1905, l’idrogenazione dell’ossido di carbonio. Ma il tentativo si concluse nell’ambito del laboratorio, mentre una sintesi diventa realtà industriale se al lavoro di ricerca, che ha definito catalizzatore e condizioni operative, si affianca quello d’ingegneria per superare tutte le difficoltà tecniche che si frappongono tra l’esercizio dell’unità di laboratorio e quello di un impianto industriale. In realtà nemmeno la BASF, quando nel 1913 rivendicò il brevetto dell’idrogenazione catalitica del CO, poteva ritenersi in grado di produrre industrialmente alcool metilico puro. La sua formulazione sarebbe oggi invalidata. Si rivendicava infatti l’idrogenazione del CO a pressione elevata, 100–120 atm, a temperature nell’intervallo 300–420°C, in presenza di catalizzatori come cerio, cobalto, cromo, manganese, molibdeno, osmio, palladio, titanio, zinco oppure ossidi o altri composti degli stessi, con produzione di idrocarburi liquidi, e alcool, aldeidi, chetoni, acidi ecc., saturi o insaturi, a seconda del catalizzatore impiegato e delle condizioni operative scelte. Quindi, in effetti, con l’interruzione delle ricerche durante la prima guerra mondiale, solo nel 1923 la BASF sarà in grado di formulare rivendicazioni più restrittive e specifiche, incluse quelle riguardanti la produzione del metanolo, cui compete il brevetto ottenuto nel 1924. Ci siamo soffermati in modo particolare sui processi ad elevato consumo energetico, elettrolitici e di sintesi ad alta pressione, perché essi mostrano, in modo evidente, l’importanza, se non addirittura la prevalenza, dell’elaborazione ingegneristica, quando si vogliono tra-
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durre i risultati della ricerca in strumenti di attività industriale. L’esempio più eloquente è quello del cloro–soda, che mostra come una reazione di elementare semplicità, le cui implicazioni teoriche erano state ampiamente approfondite con le lezioni di Volta, Faraday e Arrhenius, riuscirà ad avere fruttuose applicazioni industriali, solo quando la tecnica, cioè ingegneria ed elettrotecnica, avrà messo a disposizione raddrizzatori, elettrodi, diaframmi e apparecchi di misura e controllo, strumenti indispensabili per gestire con continuità un impianto produttivo. Analoghe considerazioni valgono naturalmente per le sintesi ad alta pressione, perché le condizioni operative da realizzare richiedevano, fra l’altro, compressori, reattori e scambiatori non disponibili sul mercato e, quindi, da progettare ad hoc. Un’ultima riflessione riguarda la capacità dell’industria chimica di generare per linee interne altre attività chimiche con un processo di autofertilizzazione. Limitandoci ai processi illustrati si può rilevare che la produzione di coke, a basso tenore di zolfo, è dettata dalla necessità di fornire elettrodi all’industria dell’alluminio, cosi come quella di grafite è imposta dal cloro–soda e da altre produzioni elettrolitiche, mentre la catalisi eterogenea ha generato l’industria dei catalizzatori, che è andata sviluppandosi fino ai nostri giorni. A questo punto, dopo aver trattato le produzioni ad alto consumo energetico, appare in linea di continuità fare una carrellata sulla situazione delle due risorse più abbondanti come fonti energetiche, il carbone e il petrolio. Questi prodotti prima integreranno il carbone bianco, cioè l’energia idroelettrica, ritenuta all’inizio del Novecento, almeno in Europa, la fonte energetica più preziosa, poi la relegheranno, nel corso del secolo, in una posizione sempre più marginale. Tanto più che l’esame che ci accingiamo a fare riguarda due prodotti minerari, il carbone e il petrolio, che, impiegati inizialmente solo per il loro contenuto energetico, si riveleranno col tempo fondamentali materie prime anche per l’industria chimica. L’impiego chimico del carbone in verità risale all’Ottocento. Ma la finalità prevalente, sia nella distillazione del fossile per la produzione di gas illuminante, sia nell’alimentazione dei gasogeni per la produzione di gas d’aria, gas d’acqua e gas misto, si configurava evidentemente in termini di trasformazione di un combustibile solido in uno gassoso. In USA infatti, dove il ritrovamento di petrolio era stato accompagnato da quello di gas naturale, già nel 1873, questo aveva sostituito, nell’illuminazione cittadina di Fairview (Pennsylvania) il gas da carbone dell’officina locale. Possiamo dire però che, quando nel 1912 in Germania, si comincerà a
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produrre gas d’acqua, con un 90% di (CO+H2), per recuperare l’idrogeno come materia prima per l’industria chimica, nasce in modo esplicito un impiego chimico del carbone. Infatti in quell’anno vede poi la luce, grazie ad un’iniziativa di Frank, il processo Linde–FrankCaro, proprio per la separazione dell’idrogeno dagli altri componenti del gas d’acqua. Peraltro la valenza tecnico–economica di questo processo risulterà esaltata dalla possibilità di ottenere idrogeno anche dalla conversione del CO. Già nel 1910 Haber, Bosch e Muller avevano brevettato vari processi per ottenere idrogeno da CO, ma solo quando, nel 1913, la BASF preparò un catalizzatore con un buon rendimento, la reazione di conversione CO + H20 = CO2+H2, è diventata un processo industriale. Con gli appropriati strumenti produttivi la chimica tedesca si trova cosi, alla vigilia della prima guerra mondiale, nella privilegiata condizione di disporre di due mattoni fondamentali, carbonio e idrogeno, che, nel periodo bellico, consentiranno agli Stati Centrali, con i “miracoli” delle sintesi organiche, di alleviare molte difficoltà dovute al blocco delle importazioni. E tuttavia proprio il processo più sostanzioso, in termini tecnico–economici, e più interessante per l’industria chimica, quello dell’idrogenazione diretta del carbone, in questo periodo non farà progressi significativi. Già i lavori iniziati nel 1905 da Ipatieff, sull’idrocracking catalitico del carbone, erano rimasti senza seguito, per la brevissima vita dei catalizzatori al Ni. Più promettenti sembravano i risultati ottenuti nel 1913 da Bergius, idrogenando il carbone a 100–200 atm e 400–500°C: sicché Bergius fu indotto a richiedere, con Billwiller, un brevetto che rivendicava la produzione di composti organici, liquidi o solidi, mediante idrogenzione del carbone, alle condizioni di temperatura e pressione già indicate. Ma anche Bergius fallì, almeno in termini di immediata industrializzazione del processo, nonostante le favorevoli condizioni, che le esigenze belliche determinavano anche per le iniziative più ardite. L’altra fonte energetica, quella del petrolio, o, meglio, quella degli idrocarburi liquidi e gassosi, tardava a manifestare la sua valenza chimica, anche se le difficoltà rilevate nell’impiego tal quale degli idrocarburi, presenti nelle sue frazioni, sembravano suggerire qualche intervento atto a modificare la struttura chimica dei composti, proprio per renderli più adatti all’impiego energetico. Infatti quel reattore a geometria variabile, che è il cilindro motore dell’auto, con i manifesti inconvenienti della detonazione apparsi ai primi incrementi del rapporto di compressione, reclamava appunto una ristrutturazione chimi-
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ca del carburante. Ma i tempi non erano ancora maturi! Basta pensare che, per le gare automobilistiche dell’epoca, la Parigi–Rouen del 1901, e la Parigi–Roubaix del 1902, si ricorreva a carburanti di origine non petrolifera e, prevalentemente all’alcool etilico, per alimentare i motori di quei “bolidi”. E poiché allora la benzina avio era sostanzialmente uguale alla benzina auto, l’accorgimento più praticato era quello di riservare ai motori degli aerei, carburante ricavato dalla distillazione di grezzi più ricchi in composti aromatici. Tuttavia pur se l’industria petrolifera, ad onta dei suoi carburanti scadenti, non faceva ricorso alla chimica, ci pensava quella dell’auto o, meglio, quella ancillare dei pneumatici a stimolare i chimici perché ricercassero prodotti di sintesi in grado di sostituire, magari solo parzialmente, ma efficacemente, la gomma naturale. Sarà, in tal senso, la scuola russa a fare da battistrada. Si deve infatti al russo Kondakow la prima sintesi di una diolefina, il dimetilbutadiene, ottenuta intorno al 1900 dall’acetone via pinacone e la dimostrazione della possibilità di usarla per ottenere un prodotto simile alla gomma naturale. Però solo nel 1909–1910 Lebedev riuscì a polimerizzare l’1,3 butadiene, creando le premesse del successivo straordinario sviluppo della polimerizzazione di questa diolefina. Il primo brevetto industriale che rivendica la polimerizzazione termica dell’isoprene e di altre diolefine coniugate risale appunto al 1909. Ma nel regno della chimica organica non poteva allora mancare il contributo tedesco. Nel 1912 infatti la Bayer brevettò la polimerizzazione del butadiene in presenza di sodio, iniziando subito la produzione dei polimero ad Eberfeld. Lo stesso anno fu addirittura presentato al Congresso di chimica di New York, un pneumatico ottenuto con la nuova gomma sintetica. In conclusione il confronto tra carbone e petrolio fa registrare che anche nel primo Novecento le scelte furono dettate dalla consistenza delle disponibilità di queste due materie prime. Perciò l’Europa, con la Germania in testa, fu logicamente orientata a sfruttare tutte le possibilità offerte dalla chimica del carbone, stante la limitata consistenza delle riserve petrolifere che, con la sola eccezione della Russia, caratterizzava il sottosuolo di tutti i suoi Paesi. Il Nordamerica invece, ricco di idrocarburi liquidi e gassosi, nonché di carbone della migliore qualità, non era condizionato dalle materie prime e la sua industria fu perciò orientata ad operare scelte dettate in genere da considerazioni tecnico–economiche e/o da esigenze di mercato. Ma alla vigilia della Grande Guerra qual è la situazione dell’industria chimica nel comparto degli esplosivi e, in particolare, in quello
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delle polveri propellenti o da lancio, cioè nel comparto che, da sempre, aveva attirato l’attenzione dei signori della guerra? Per rispondere alla domanda bisogna riprendere il filo della vicenda nobeliana, interrotto al cap. IV, al momento della definitiva affermazione dell’inventore in Inghilterra, quand’egli riesce a concludere, con pieno successo, il suo scontro giudiziario con Krebs. Così Nobel, con i proventi delle royalties, portò un altro bel mucchio di sterline nel suo forziere. Tuttavia gli Inglesi non ebbero di che dolersi perché, migliorando ed integrando con le innovazioni e le varianti dello stesso Nobel il processo di base, edificarono, sulle fondamenta di quella elementare, seppur rischiosa, lavorazione descritta in appendice al cap. IV, un autentico impero industriale. L’industria degli esplosivi dell’impero britannico poteva infatti contare su una pluralità di fabbriche disseminate dall’Inghilterra al Sudafrica, dall’India all’Australia, dal Canada al Giappone. Ma anche in Germania, sia per la scadenza dei diritti brevettuali di Nobel, sia per l’aggiramento di quelli dello stesso ancora in essere, ma tecnicamente indifendibili, l’iniziativa di Krebs non era rimasta isolata e la produzione esplosivistica tedesca era cresciuta in misura proporzionale alle dimensioni del mercato domestico, che era sempre quello dotato della maggiore capacità di assorbimento. Sussistevano dunque tutti i presupposti per un’infuocata competizione industriale tra l’Impero britannico e quello appena nato a Versailles di Kaiser Wilhelm. Ma questa volta, non smentendo una nota tesi marxista, le plance di comando dei contrapposti gruppi industriali optarono per il pacifico godimento delle posizioni dominanti già acquisite, anteponendo gli interessi economici delle loro imprese a qualsiasi considerazione politica e strategica. Infatti, nonostante l’antipatia e la diffidenza intercorrenti tra Nobel e i Tedeschi, il sostanziale consenso delle competenti autorità militari (esercito e marina) delle due potenze consentì la formazione e il consolidamento di quel potente trust anglo–germanico, che sfruttò, in perfetta unità d’intenti, la posizione di rendita che si era così assicurata. Giova sottolineare che l’Anglo–German Trust, nato dagli accordi del 1886 tra la Nobel Explosives of Glasgow e la German Union (i Tedeschi in Germania si erano già consociati) evitò l’esplicita formazione di un monopolio. Seguendo parzialmente il consiglio di Nobel furono elegantemente esclusi dall’intesa Svizzera, Italia, Francia e Colonie francesi. Sulla scena mondiale quindi l’industria degli esplosivi era dominata, in primo piano, dal trust anglo–tedesco, in posizione di secondo piano dal c.d. gruppo latino, e, in posizione preminente, ma non troppo influente a livello internazionale, dal trust
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americano della EI DuPont de Nemours. In USA l’industria della dinamite e degli altri nitroderivati si era sviluppata a fine Ottocento con i ritmi sostenuti propri di quel paese. Infatti mentre nel 1880 solo due società producevano dinamite, nel 1890 erano già 32 quelle impegnate nella produzione di esplosivi smokeless. La DuPont, dedita fin dalla fondazione alla produzione di polvere nera, non aveva mostrato grande intuito nel respingere inizialmente l’innovazione rappresentata dalla nuova classe di esplosivi. Per questo errore giunse in ritardo ad occuparsi di dinamite, nitrocellulosa, balistite, et similia. Quando però lo fece, per recuperare il tempo perduto, scese in campo con impianti propri, con altri rilevati da operatori minori, con acquisizione di partecipazioni di controllo in altre imprese e stipulando accordi atti a sedare ogni pericolosa competizione. L’insieme di queste operazioni portò alla formazione di un autentico trust, che operò indisturbato nel primo decennio del Novecento. Ma la severa legislazione antitrust americana colpì la DuPont, come già aveva colpito la Standard Oil. Così, alla vigilia della prima guerra mondiale, il 13 giugno 1912, la Suprema Corte degli Stati Uniti decretò lo scioglimento del DuPont Powder Trust, ripartendone le attività tra la DuPont, la Hercules Powder Co. e la Atlas Powder Co. Nell’esame generale di questo settore merceologico merita di essere ricordato l’esordio, agli albori del Novecento, di un nuovo esplosivo, il trinitrotoluene (più noto, con la sigla TNT, come tritolo), che mostra la sua micidiale efficacia sui campi di battaglia della guerra boera (1899–1901). Scoperto in Germania ed ivi prodotto industrialmente a partire dal 1891, trova un mercato di consistenti dimensioni solo a partire dal 1901, quando comincia a sostituire l’acido picrico, il derivato trinitrico del fenolo, già impiegato nella fabbricazione degli esplosivi, nonché in medicina, anche tal quale, e nell’industria dei coloranti. Il quadro degli esplosivi più noti e diffusi nel primo Novecento è completato dal nitrato ammonico, unico prodotto inorganico in questo comparto merceologico. Ma questa rassegna mette in evidenza che materie prime fondamentali per la produzione della maggior parte degli esplosivi sono diventati, ora che siamo alla vigilia della Grande Guerra, acido nitrico e toluene. Ed il primo è ottenuto dal salnitro cileno, che è sostanzialmente costituito da nitrato sodico, ed è un pro– dotto minerale importato, mentre il secondo è ottenuto dalla lavorazione del catrame di carbon fossile, la cui pur abbondante disponibilità è tuttavia inadeguata alla richiesta, stante la modesta percentuale del prodotto presente nel catrame. Ancora una volta l’industria tedesca,
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che prima degli altri ha sentito il bisogno di incrementare la produzione dì catrame e migliorare la tecnica di frazionamento dei composti aromatici, si troverà in una situazione di minor disagio quando subentrerà l’autarchia di guerra. Ma sarà soprattutto la sintesi dell’ammoniaca, già convenientemente industrializzata, che consentirà alla Germania di disporre dell’immediato precursore dell’acido nitrico, al quale i suoi ricercatori sapranno pervenire con un altro exploit di catalisi eterogenea. Vedremo nel prossimo capitolo quale drammatico ruolo sarà riservato all’industria chimica nel corso delle sanguinose vicende del tragico conflitto ormai alle porte.
La chimica nella morsa della guerra e del dopoguerra (1914–1926)
La guerra inferse un duro colpo al fideismo liberistico fino ad allora largamente prevalente nella filosofia imprenditoriale del mondo occidentale. Nell’industria chimica la lezione che in tal senso l’esperienza bellica provvide ad impartire fu clamorosa e drammatica. Ma l’ammaestramento valse poi solo ad accelerare quel processo oligopolistico con il quale, negli anni del dopoguerra, il liberismo, contraddicendo se stesso, fece emergere in Germania, Inghilterra e Stati Uniti gruppi chimici di dimensioni colossali. Ma per chiarire con i fatti il senso di questa sintetica premessa partiamo dagli avvenimenti che in Inghilterra segnarono, nell’agosto del 1914, il brusco passaggio dal pacifico godimento della prosperità, assicurata dal dominio imperiale, allo stato di guerra, peraltro non immediatamente percepito in tutte le sue tragiche implicazioni. Anzi quel campione del fideismo liberista che era il quarantenne Winston Churchill (Blenheim 30.11.1874 – Londra 24.1.1965) ritenne che niente doveva cambiare nell’attività del mondo economico (business as usual!), solo perché il 4 agosto del 1914 c’era stata una dichiarazione di guerra. Ed anche nello Stato maggiore inglese non mancavano i rappresentanti di quella scuola di pensiero che ravvisava nell’evento bellico, rapido e breve nel suo ipotizzato svolgimento, una sorta di campagna per qualche verso simile ad una partita di caccia o di polo. Tuttavia non vennero meno in quell’occasione la superiore esperienza e la grande tradizione britannica per assicurare l’immediato allestimento di un Corpo di spedizione; sicché già il 22 agosto del 1914 i tommies andarono in Belgio ad affiancare i poilus per affrontare i boches. E, con felice intuizione, addirittura nel corso della prima settimana di ostilità, gli inglesi tagliarono il cavo transatlantico fra Germania e Stati Uniti. In generale però, come si è detto, non fu acquisita la piena consapevolezza che il laissez faire non si addiceva al tempo di guerra. Comunque David Lloyd George (Manchester 7.1.1863– Llanystumdvvy 26.3.1945) fu tra i primi a rendersi conto che l’industria in genere, e quella chimica in particolare, doveva mettersi al servizio dei superiori interessi del Paese. Ottenne così, nella primavera del 1915, che fosse varata la legge sulle munizioni di guerra (Munition of War Act), che gli conferiva, nella sua qualità di Ministro degli Ar127
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mamenti, ampi poteri per razionalizzare un settore che, nel comparto degli esplosivi era in una situazione, a dir poco, preoccupante. È in tal senso significativo che, solo alla fine del 1915, si scioglie l’imbarazzante connessione tra la Nobel’s Explosive Company di Glasgow ed i fabbricanti tedeschi di armi, munizioni ed esplosivi, creata con l’anglo tedesco Nobel Dynamite Trust. Lo scioglimento fu peraltro favorito dalla gran voglia che anche i Tedeschi avevano di recedere da quell’accordo. Si stenta a credere che sia rimasta in vita, magari solo sulla “carta”, dopo la dichiarazione di guerra, per più di un anno, un’intesa di quel genere fra due paesi nemici!! Nel 1916, con l’impulso dato da Lloyd George, divenuto intanto Ministro della Guerra, fu promossa la fusione delle imprese operanti nell’industria degli esplosivi, fusione che coinvolgeva due dozzine di imprese minori, raggruppate fin dalla primavera del 1917, intorno alla Nobel’s Explosives; peraltro la collaborazione tra le imprese interessate era già operante. Con il controllo del Governo nasceva così in Gran Bretagna la prima impresa a partecipazione statale. Ma la registrazione della nuova società, la Explosives Trades Ltd, avvenne però solo nel novembre del 1918. Analogo problema si presentò nel settore dei coloranti. Fino al 1914 l’industria tessile inglese, lanieri e cotonieri all’unisono, aveva ritenuto la produzione dei coloranti un’attività ancillare e, privilegiando l’interesse aziendale immediato, s’era approvvigionata dall’industria tedesca, relegando l’industria nazionale del settore, quella che in qualche modo aveva raccolto l’eredità di Perkin, in un ruolo suppletivo e secondario. Ancora una volta si trattava di amalgamare una pluralità di imprese, e, nuovamente, si ritenne di risolvere il problema creando un’impresa a partecipazione statale e ripartendone il capitale tra imprese tessili e Governo. Nacque così, nella primavera del 1915, la British Dyes Ltd che, con un capitale di 2 milioni di £, 1,25 milioni di £ in obbligazioni, era sulla carta un colosso. Ma l’iniziativa si rivelò invece fallimentare perché alla insensibilità e alla negligenza degli imprenditori tessili, incapaci di svincolarsi da una mentalità padronale si sommò l’incompetenza dei rappresentanti del Governo in seno al consiglio d’amministrazione. Tuttavia nel settore chimico, la collaborazione tra gli imprenditori, più o meno al servizio dello Stato, e il governo risultò complessivamente buona e soprattutto utile. Si creò l’abitudine della consultazione tra Industria e Ministeri competenti, nonché quella degli imprenditori tra loro. Questa collaborazione contribuì a formare quella mentalità di rispetto reciproco e di valutazione critica dei ruoli di competenza, che
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aveva assicurato ai Tedeschi maggiore efficienza, proprio perché portava gli interessati a sostituire l’emulazione o l’integrazione a competizioni irrazionali e spesso economicamente dannose. Ed anche nel campo della ricerca l’esperienza del periodo bellico insegnò che le spese sostenibili a questo titolo sono così rilevanti da richiedere o, meglio, da imporre una limitazione al frazionamento dell’attività produttiva tra una schiera di imprenditori, nei singoli comparti merceologici. Si dovrà nel prosieguo constatare che ogni drastica correzione non è scevra di pericoli, se l’ago della bilancia si sposta da un estremo all’altro senza dispositivi di smorzamento. Mancherà ancora all’industria inglese, per colmare il gap che la distanzia da quella tedesca, la capacità di coniugare armonicamente il lavoro di ricerca delle istituzioni accademiche con le esigenze innovative dell’industria chimica. Spostandoci sull’altro fronte, in Germania, qui l’alto comando tedesco non pensò certamente che si dovesse affrontare una partita di caccia o di polo. Anzi Guglielmo II aveva autorizzato, già nel periodo prebellico, la formazione di una riserva strategica di nitrato cileno, materia prima fondamentale per la fabbricazione degli esplosivi, in previsione di un blocco navale britannico in caso di conflitto. Tuttavia l’industria tedesca in genere, e quella chimica in particolare, non ebbe immediatamente la sensazione dell’isolamento e dell’accerchiamento. A parte la curiosa situazione del trust anglo–tedesco per gli esplosivi, almeno teoricamente in vita, le esportazioni di coloranti, farmaceutici ed altre specialità in Italia, Svizzera, Spagna, Balcani e Stati Uniti, nel periodo iniziale del conflitto, permanevano attive e consistenti. Ancora nel 1915 la Germania esportava i suoi coloranti in USA e, nel 1916, gli Inglesi pubblicarono una lista nera delle ditte americane sospettate di commerciare con gli Imperi Centrali. Ma saranno poi le difficoltà dei trasporti che, bloccando l’importazione di prodotti strategici come il nitrato, costringeranno l’industria chimica tedesca a prendere atto del valore determinante per l’esito dei conflitto del suo impegno a sostenere lo sforzo bellico. Ed anche in Germania l’Alta dirigenza dell’industria fu chiamata in causa per mettere la sua capacità imprenditoriale al servizio del Paese. Così, per citare un caso significativo, il presidente della AEG, Walter Rathenau fu chiamato ad organizzare un servizio approvvigionamenti che tenesse conto, con criteri di competenza, della sostituzione di materie prime di importazione, diventate indisponibili, con altre disponibili sui mercati non preclusi dall’accerchiamento russo–franco–britannico. L’industria chimica fu quindi costretta ad operare con criteri autarchici e l’industria degli esplosivi fu
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la prima ad avvalersi dei processi messi a punto proprio alla vigilia del conflitto. La produzione dell’acido nitrico fu il banco di prova della capacità innovativa, che emerge quando ricerca, ingegneria e industria lavorano in unità d’intenti. Quando nel 1901 W. Ostwald, nume tutelare della catalisi eterogenea, aveva preparato un catalizzatore di platino per l’ossidazione dell’ammoniaca con rendimento industriale, il brillante risultato era stato apprezzato, ma non aveva dato luogo ad alcuna iniziativa industriale. Quando poi si decise di verificare, in una scala significativa i risultati di laboratorio, ci si limitò a realizzare a Bochum un impianto da 3 tonn/g perché l’ammoniaca era disponibile solo in quantità modeste. Perciò la vera industrializzazione del processo di ossidazione diretta dell’ammoniaca ad acido nitrico, in catalisi eterogenea, ebbe luogo in Germania solo durante la guerra, quando entrò in funzione ad Oppau il primo impianto Haber–Bosch per la produzione di ammoniaca sintetica. L’ossidazione di ammoniaca col processo catalitico di Ostwald non costituiva un’esauriente soluzione del problema perché dava un acido, in soluzione acquosa, al 50–70% in peso. A questo titolo l’acido si poteva impiegare per la produzione di nitrato ammonico, prodotto destinato prevalentemente all’agricoltura, con una quota minore all’industria degli esplosivi. Ma per le nitrazioni organiche, (tritolo ed acido picrico) occorreva un acido più concentrato. L’industria chimica tedesca disponeva però anche di un altro processo di sintesi, quello dell’ossidazione diretta dell’ossido, a sua volta ottenuto, per sintesi diretta, dagli elementi col processo all’arco elettrico a 2600°C. Peraltro nel gas effluente l’NO era presente solo in misura del 2% e il processo stesso, per le sue intrinseche caratteristiche, era suscettibile d’impiego solo dove l’energia fosse disponibile a costi bassissimi. Tant’è che ai primi impianti di Notodden e Ruikanfos, realizzati in Norvegia, seguirono quello americano di Niagara e quello canadese di Shawinigan. Del resto è ragionevole pensare che i Tedeschi, già in possesso del processo di contatto per il solforico, non abbiano avuto difficoltà ad utilizzare anche il nitrico al 50–70%, disidratando la soluzione acquosa con S03, ottenendo una miscela nitrosolforica immediatamente utilizzabile almeno per la nitrazione della glicerina. Comunque con i nitroderivati entrò in gioco, nella composizione delle miscele esplosive, anche il nitrato ammonico che i Tedeschi impiegarono pure in miscela con polvere di alluminio per il c.d. ammonale. Il primato tedesco nel campo della catalisi eterogenea fu ancora rafforzato da una altro significativo risultato ottenuto dalla BASF. I su-
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oi ricercatori avevano ben presente che per aumentare la velocità spaziale bisognava accrescere la superficie attiva di contatto tra il catalizzatore solido e il gas. Si dedicarono perciò con successo a migliorare la tecnica di preparazione delle masse catalitiche. Per l’ammoniaca, ad esempio, (ma analoghi accorgimenti furono adottati per altri catalizzatori) fu introdotta la tecnica della spugna, che consisteva nel ricorso ad un particolare processo di riduzione per ottenere il catalizzatore di ferro in forma di massa porosa. L’efficacia del catalizzatore fu poi migliorata anche con l’aggiunta, come attivatori, di piccole quantità di altri metalli o di ossidi come l’allumina. Sostanzialmente non riuscito risultò invece il tentativo di trovare un Ersatz, cioè un surrogato, per la gomma naturale. In verità i Tedeschi riuscirono, durante la guerra, a produrre 2300 tonnellate di gomma, realizzando la prima produzione industriale di gomma sintetica. Il prodotto era ottenuto per polimerizzazione di dimetilbutadiene, sempre in presenza di sodio, secondo il processo adottato nel 1912 dalla Bayer per la Buna. Ma questa “methyl rubber” costituiva un Ersatz così scadente che, nella stessa Germania, cessate le limitazioni imposte dagli eventi bellici, sia l’industria chimica sia quella manifatturiera ritennero provvisoriamente chiusa la partita con la gomma sintetica. La chimica tedesca, adeguandosi alle esigenze della macchina bellica, conquistò, senza inorgoglirne, un altro primato: quello degli aggressivi chimici. E tra questi viene ricordato, per la grande risonanza che ebbe il suo impiego in Belgio a Ypres, il solfuro di dicloroetile (CH2CH2CI)2S, passato alla storia come iprite o gas mostarda, ma sulla primogenitura tedesca del crudele impiego di gas asfissianti gli storici hanno poi espresso pareri discordi. Tuttavia, nel campo della ricerca fondamentale, l’impegno degli scienziati, nel corso del conflitto, fu solo parzialmente distolto dai temi di maggiore interesse. Ed anzi, proprio in quel periodo, furono approfondite le ricerche teoriche su quelle famiglie di composti, la cui sintesi avrebbe profondamente modificato la fisionomia dell’industria chimica nel prosieguo del secolo. Seguendo infatti la lezione di Ostwald, in Germania Berl, Blitz e Staudinger diedero un grosso contributo allo studio della struttura e delle proprietà dei polimeri naturali e sintetici. In particolare Staudinger, che introdusse in chimica organica il termine e il concetto di macromolecola, darà un contributo fondamentale allo studio della chimica colloidale. Allo stesso scienziato, futuro premio Nobel, è da attribuire la formulazione, per i polimeri in
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soluzione, di una relazione quantitativa tra potere relativo di ispessimento e peso molecolare del singolo polimero. Prima di passare all’esame della situazione americana in quel tragico periodo conviene ritornare all’approvvigionamento del nitrato sodico, problema centrale per tutti gli enti governativi dei paesi belligeranti, proprio perché istituiti al fine di assicurare all’apparato bellico il rifornimento delle materie prime strategiche. Anzi, per comprendere in termini quantitativi il rapporto tra potere di controllo alla fonte e capacità di consumo dei paesi industrializzati, belligeranti e non, conviene spostarsi in Cile, per esaminare la situazione proprietaria delle miniere. Le miniere cilene erano prevalentemente in mani britanniche, mentre i Tedeschi, che consumavano circa 1/3 della produzione, detenevano una quota mineraria inferiore. Quote inferiori erano poi detenute dagli USA e dagli altri paesi, Cile compreso. Nel 1917 ben il 57% della produzione cilena, circa 1.600.000 tonnellate, sarà destinato all’industria americana, ma appare del tutto trascurabile il quantitativo che l’industria chimica USA otterrà dalle proprie miniere cilene con le 42.000 tonnellate della Grace e le 35.000 della DuPont. I Tedeschi riuscirono a mantenere il controllo di qualche miniera cilena, aggirando con prestanome internazionali il veto inglese, imposto in forza di legge e di diritto del più forte. A guerra finita, con la relativa normalizzazione subentrata con la pace, delle 51 miniere cilene 32 furono attribuite agli inglesi e solo tre ai tedeschi. Gli americani invece, nel 1918, importando circa 2 milioni di tonnellate di nitrato, si attribuirono addirittura oltre il 60% della produzione cilena. L’industria chimica americana subì indirettamente le conseguenze del conflitto, ma complessivamente si avvantaggiò della posizione di neutralità del Paese che, solo un paio d’anni dopo l’inizio della guerra, si modificò in un atteggiamento di simpatia e di appoggio alla causa degli Alleati. La conversione fu provocata, com’è noto, dalla recrudescenza dei siluramenti di navi mercantili ad opera di sommergibili tedeschi. Ma per una più chiara visione complessiva è utile seguire cronologicamente gli episodi più significativi proprio in rapporto agli sviluppi dell’industria chimica statunitense. L’annuncio che l’Europa è precipitata nel baratro della guerra sorprende gli Americani, ma, dopo la dichiarazione di neutralità di Woodrow Wilson, il timore che la carestia di prodotti chimici possa sconvolgere l’industria domestica sembra addirittura prevalere su quello dì essere in qualche modo coinvolti nelle vicende belliche della lontana Europa. Ma poi, dopo la sospensione per quattro mesi degli scambi al-
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la Borsa di New York, l’industria chimica americana registra positivamente la consistente crescita del portafoglio ordini, in ragione delle pressanti richieste di prodotti destinati al rifornimento delle macchine belliche dei paesi europei, il transito della prima nave nel canale di Panama, avvenuto proprio in quei mesi (dic. 1914), rafforza naturalmente il ruolo americano negli scambi internazionali. Ed infine la vittoria tedesca, nella battaglia navale in acque cilene, al largo di Coronel, blocca praticamente le spedizioni di nitrato in Europa e fa degli USA il consumatore di gran lunga più importante di questa materia prima strategica. L’anno successivo, 1915, mentre la guerra infuria in Europa, con il contributo della chimica che fa esordire sui campi di battaglia gas asfissianti e lanciafiamme, la disponibilità in Nordamerica di medicinali e coloranti è ridotta ad un livello critico per il blocco totale delle esportazioni tedesche. Tuttavia negli altri settori l’industria chimica prospera ed il comparto trainante è quello dei metalli richiesti per acciai speciali e catalizzatori (cromo, alluminio, manganese, titanio, platino e vanadio). La produzione poi di solforico, indice riconosciuto dell’effettivo livello dell’attività industriale si attesta su livelli record, grazie anche all’aumento delle esportazioni. La pace, in quel 1915, non sembra in pericolo per gli americani e la Corte Federale ordina lo scioglimento del monopolio Eastman Kodak, mentre il Congresso respinge molti progetti di legge mirati a favorire il programma aria– azoto. Ed a conferma che nell’ambito accademico il modello di riferimento è sempre quello tedesco l’Università di Illinois dà inizio alla produzione di reagenti chimici e la Columbia University crea il Dipartimento di Ingegneria chimica, mentre a New York si inaugura la prima esposizione nazionale dell’industria chimica. Ne1 1916 l’incremento di produzione dell’acido solforico, del 50% rispetto all’anno precedente, dà agli USA il primato mondiale in questo comparto merceologico. Nel campo dell’innovazione fanno spicco il brevetto, di prodotto, del biossido di titanio come pigmento, la produzione elettrolitica Dow di magnesio da cloruro, e la prima ossidazione commerciale di ammoniaca della Ammo–Phos Corporation. A Cambridge il Massachusetts Institute of Technology, oggi universalmente noto con la sigla MIT , istituisce la laurea in ingegneria chimica. In quel 1916 due fatti sembrano far virare in direzione opposta la corrente delle simpatie americane, fino ad allora prevalentemente orientate in favore degli Alleati. Da un lato il governo tedesco autorizza il sottomarino Deutchland a sbarcare il 9 luglio 1916 a Baltimora un
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carico di coloranti e medicinali, dall’altro gli inglesi reprimono spietatamente l’insurrezione irlandese. Ma la recrudescenza della guerra sottomarina degli U–Boot, con episodi che fanno registrare tra le vittime anche cittadini americani, fornisce nuovi argomenti alla propaganda antitedesca. Tant’è che il 3 febbraio 1917 gli USA rompono le relazioni diplomatiche con la Germania e decidono di armare i propri mercantili. La Rivoluzione russa del marzo successivo rimuove l’ultimo argomento opposto agli interventisti da neutralisti e democratici, che hanno, fino a quel momento, denunciato la loro ripugnanza ad accettare che il proprio Paese entri in guerra a fianco di un autocrate come lo zar Nicola. Così il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania. Anche gli Americani, come era già avvenuto all’inizio del conflitto per gli altri belligeranti, si troveranno a dover fronteggiare alcune gravi carenze della loro industria chimica, che le pressanti esigenze della macchina bellica mettono subito allo scoperto. Prima si registra la necessità di fare ricorso a consistenti importazioni dal Giappone di prodotti chimici e, in particolare, di clorato di potassio per la produzione di esplosivi. Quando poi si verifica che anche la già matura industria del solforico fa fatica ad assicurare un’adeguata disponibilità del suo prodotto, si decide (luglio 1917) la creazione del Ministero delle industrie di guerra, di cui assume la direzione il noto finanziere Bernhard Mannes Baruch (Carnden 19.8.1870 – New York 20.6.1965). Naturalmente gran parte dell’industria chimica viene disciplinata dal nuovo ministero e non mancano segni di insofferenza da parte di imprenditori abituati da sempre a nutrire qualche timore riverenziale solo nei confronti delle banche creditrici. Per metterli in riga Baruch non esita a procedere alla requisizione di cloro, soda, platino e altre materie prime strategiche, avvalorando il teorema che accredita ai liberisti la migliore capacità di fare il dirigismo sul serio. La carenza di medicinali impone poi all’industria farmaceutica di ignorare il rispetto di diritti brevettuali o di marchio depositato. La Bayer tenta infatti di tutelare il prestigioso marchio dell’Aspirina intentando causa alla United Drug Co. Ma le proprietà straniere vengono passate in custodia ad un ente creato ad hoc (Alien Property Custodian), che naturalmente confisca tutti i brevetti chimici tedeschi che erano stati convalidati, per l’impiego in USA, dalla competente commissione federale (Federal Trade Commission). Nasce quindi la Chemical Foundation, che compra le privative brevettuali dai curatori del “patrimonio dei nemici”, offrendo i frutti della scienza e della tecnologia tedesche a ditte o a
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soggetti privati americani (e, come osserverà qualche anno dopo Winnacken della Hoechst, i clienti di certo non mancavano!). Tuttavia l’industria chimica, pur compressa nella morsa dell’economia di guerra e condizionata dall’ansia di colmare con qualsiasi mezzo le lacune in gran parte imputabili solo alla minore anzianità di servizio, registra proprio nel biennio 1917–18 alcuni significativi successi. Nei settori di base la sostituzione, nella produzione del solforico delle piriti con lo zolfo estratto col metodo Frasch, consolida il primato americano, mentre in campo minerario la disponibilità di nuovi agenti chimici di flottazione consente una migliore separazione del minerale dalla ganga, offrendo alle industrie chimiche destinatarie il beneficio di materie prime più ricche. Ma dal punto di vista scientifico i progressi più importanti sono quelli ottenuti nel settore della chimica organica. Ai nuovi agenti organici di flottazione seguono fondamentali processi innovativi come quello di fermentazione dei carboidrati per l’acido citrico e quello di sintesi della cloropicrina da impiegare, come fumigante, nelle coltivazioni cerealicole (già impiegato dai Russi nel 1916 come gas asfissiante). Ed ancora il processo di ossidazione della naftalina ad anidride ftalica e quello di estrazione dell’antracene grezzo, con tre fabbriche attive, per la produzione di questo composto aromatico fondamentale per l’industria dei coloranti. L’elenco si arricchisce con l’estrazione del piretro, commercializzato in confezione spray, e con la sintesi dell’alcool isopropilico da idrocarburi petroliferi, e dell’acido acetico da acetilene.Per corrispondere alle specifiche esigenze dell’industria di guerra (produzione del TNT) la Standard Oil sperimenta, nella raffineria del New Jersey, il processo Hall per il toluene e Baruch autorizza l’acquisto dal governo cileno di 250.000 t di nitrato di proprietà tedesca. Vale infine la pena di ricordare che, seguendo l’esempio della Francia, che per prima aveva propugnato l’impiego dell’alcool come carburante, la US Industrial Alcohol rende disponibile sul mercato la miscela 10% di etanolo e 90% di benzina. La Francia che con 1.400.000 morti pagherà un tributo di sangue inferiore, in campo alleato, solo a quello russo (1.700.000 morti), si trova alla vigilia del conflitto con un apparato industriale in forte crescita. I consumi di nitrato sodico (cileno), di solfato ammonico, di grassi, di soda e glicerina sono, dopo quelli tedeschi, i più elevati in Europa. Ma la morsa della guerra che, sul fronte occidentale si svolgerà prevalentemente in Belgio e in Francia, farà pagare un duro prezzo anche all’industria chimica. L’embargo sulla glicerina e le difficoltà
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dell’approvvigionamento petrolifero sono solo indici della crisi in cui dovrà dibattersi la Francia che, come si è già ricordato, è stata esclusa, come Italia, dal trust anglo–tedesco degli esplosivi. Naturalmente anche le miniere di carbone della zona renana e del Belgio diventano inagibili, ma la gravità del problema energetico è attenuata dalla disponibilità di etanolo, assicurata dalla fermentazione alcolica dello zucchero e dal primato mondiale della viticultura francese. Quindi si farà ricorso all’alcool, come carburante, non solo durante la guerra, ma, a guerra finita, all’inizio degli anni Venti, si dovranno varare provvedimenti governativi per favorirne l’impiego, in miscela con la benzina, al fine di smaltirne le scorte accumulate nei depositi militari. Anche la Francia disporrà sia pure in ritardo rispetto ai Tedeschi, di un suo processo per la sintesi dell’ammoniaca, quello ad alta pressione di Claude, realizzato nel 1917. Il contributo francese al progresso scientifico non verrà a mancare nemmeno nel tragico periodo della guerra, grazie alle ricerche dell’Istituto Pasteur e a quelle promosse dalla Académie des Sciences, sempre apprezzate dagli studiosi di tutto il mondo. Ma anche in campo tecnico l’alto livello delle industrie francesi dell’aeronautica e degli armamenti è molto apprezzato in campo alleato: sicché gli Americani quando nel 1917 si affiancheranno agli Alleati, spareranno con cannoni francesi e voleranno su aerei francesi. Nel mondo chimico l’Italia non è molto nota per il suo apparato industriale. Maggiore notorietà le viene conferita dallo zolfo siciliano, dalla galena (solfuro di piombo) o dalla blenda (solfuro di zinco) della Sardegna, dall’acido borico dei soffioni di Larderello (da F.J. de Larderel, Vienna 12.11.1789, Firenze 15.6.1858) e dall’acido citrico prodotto da agrumi della Società Chimica Arenella di Palermo. Tant’è che durante la guerra, solo la fabbrica dell’Arenella sarà colpita da una storica “cannonata” sparata da una nave nemica. In realtà il Paese entra in guerra con un’industria chimica che non solo risente del recente processo di unificazione, ma che è anche condizionata da un’economia prevalentemente agricola, soprattutto nel Meridione. Tuttavia i suoi consumi, con le 50.000 t/a di nitrato e le 35.000 di solfato ammonico del 1913, cominciano a crescere. E la Solvay, nello stesso anno, inizia la costruzione di una nuova sodiera a Rosignano, che sarà poi il centro propulsivo di una grande fabbrica chimica con produzioni diversificate. Ma altre industrie, già da tempo attive, nel corso della guerra metteranno le loro capacità produttive al servizio del Paese in misura crescente. Basta ricordare la farmaceutica Carlo Erba, che prende nome dal fondatore (Vigevano 17.11.1811–Milano 6.4.1888) e la mani-
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fatturiera Pirelli, fondata nel 1873 da G.B. Pirelli (Varenna 1848– Milano 1932) che diventerà, nel settore della gomma, uno dei gruppi leader a livello internazionale. E proprio negli anni della guerra la Montecatini, sotto la guida dell’ingegnere minerario G. Donegani (Livorno 23.3.1877–Bordighera 15.4.1947), pur essendo stata fondata per la coltivazione di alcune miniere toscane, acquista una connotazione sempre più marcatamente chimica, seguendo il naturale processo di integrazione verticale. La Montecatini rifornirà infatti con proprie piriti le varie fabbriche di solforico, all’epoca tutte funzionanti col processo a camere di piombo. Resta infine da segnalare il crescente impiego di energia elettrica nelle produzioni chimiche con le prime installazioni, durante la guerra, di celle cloro–soda e con gli impianti di carburo e calciocianamide della Società Chimica Temi a Nera Monitoro. E proprio presso la Terni L. Casale, che ha iniziato nel 1917 le sue ricerche sulla sintesi dell’ammoniaca, realizzerà un impianto da 250 kg/g, avvalendosi dell’esperienza fatta con un impianto pilota da 100 kg/g, installato l’anno precedente nella fabbrica di Villadossola della Rumianca. Per la sintesi dell’ammoniaca a Terni — merita ricordarlo — fu impiegato idrogeno prodotto con le celle elettrolitiche di Fauser. Casale ebbe successo col suo processo, che fu poi impiegato in Spagna, Giappone ed altri paesi, sicché, nei volgere di pochi anni, la “sintesi Casale” risulterà, dopo quella Haber–Bosch, la più diffusa nel mondo. In conclusione però la guerra creò migliori condizioni per lo sviluppo dell’industria chimica nei paesi rimasti fuori del conflitto, come Svizzera e Giappone, e per gli Stati Uniti che, intervenuti solo nel 1917, poterono comunque contare sempre su un mercato interno molto meno degli altri condizionato dalle vicende dei lontani campi di battaglia. Gli ammaestramenti che le industrie chimiche dei paesi più impegnati nel conflitto trassero dalla particolare esperienza della guerra, condizionarono anche negli anni Venti molte scelte e strategie imprenditoriali. In Europa l’industria chimica più colpita fu naturalmente quella tedesca, che si trovò a fronteggiare contemporaneamente la drastica contrazione del mercato interno, causato dal generale impoverimento della popolazione e la maggiore competitività dei paesi vincitori nei comparti — un tempo di marca al 90% tedesca — dei coloranti, farmaceutici e prodotti speciali. Infatti l’implacabile legge del vincitore non si era granché modificata negli ultimi millenni e la tutela dei diritti brevettuali del vinto fu certamente ridimensionata secondo la legge del più forte.
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Erano tempi magri per la repubblica di Weimar del socialdemocratico Philipp Scheidemann. Tanto più che per gli “spartachisti” di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht quella democrazia parlamentare doveva essere soppiantata dalla repubblica dei Soviet. Siamo nel 1919 e per comprendere come il senso dello stato non abbandoni del tutto nemmeno quei rivoluzionari, bisogna far ricorso alle memorie di Max Born (Breslau 11.12.1882 – Gottinga 5.11.1970). Ricorda il grande fisico tedesco (premio Nobel del 1954) che i fanatici “spartachisti” che presidiavano il ponte sulla Sprea (Berlino) non si opponevano al transito degli studenti universitari, che avevano quel percorso obbligato per accedere alla loro facoltà. La divagazione ha il solo scopo di sottolineare quella deferenza per la Kultur, che aveva posto la chimica tedesca all’avanguardia, quando al progresso dell’industria non era stato più possibile sopperire con la genialità del singolo imprenditore. E queste considerazioni (senso dello stato e rispetto della Kultur) contribuiscono a spiegare come nasce la grande IG Farben. Già nel 1916 era nata una piccola IG, quando i Tedeschi divennero consapevoli che gli altri Paesi, privati dei rifornimenti di medicinali e coloranti dalla Germania per il blocco derivante dal conflitto, si stavano attivando in tutti i modi per non essere più succubi del monopolio imperante fino all’anteguerra. Ma l’istinto di sopravvivenza fu, per così dire, ulteriormente stimolato da altri provvedimenti punitivi presi dagli Alleati nel dopoguerra. Prima fu respinto il tentativo tedesco di pagare, almeno in parte, i danni di guerra con prodotti chimici. Poi si provvide in vari paesi ad assicurare, con robuste protezioni doganali, possibilità di sviluppo a quelle nuove industrie domestiche di farmaceutici e coloranti, che altrimenti non avrebbero mai potuto competere con le analoghe industrie chimiche tedesche. Anzi l’Inghilterra, tempio sconsacrato del liberismo, non si accontentò nemmeno della protezione doganale, ma volle addirittura decretare la proibizione di importare qualsiasi colorante che si potesse produrre in casa. In questa situazione l’industria chimica tedesca ritenne suicida tollerare al proprio interno qualsiasi forma di duplicazione e dissipare preziosi mezzi finanziari per ricerche mirate allo stesso obiettivo. Non sorprende quindi che, reiterando Duisberg la proposta già un tempo respinta di realizzare una grande holding, questa volta le plance di comando di tutte le maggiori industrie optarono addirittura per la fusione. Fu così che il 9 dicembre 1925 nacque la IG Farben AG (IG = Interessen Gemeinschaft) per fusione delle società Bayer, Hoechst, BASF, Chemiåsche Fabrik Weilerter–Meer, Griesheim–Elektron e AGFA. Questo co-
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losso controllava inoltre le attività delle società di cui possedeva la maggioranza azionaria, come la Cassella e la Kalle ed era, più o meno, impegnato nel coordinamento dell’attività di varie altre società minerarie e chimiche, di cui deteneva significative partecipazioni di minoranza, come la AG fur Stickstoffdunger, Knapsack, Duisburger Kupferhutte, Ammonìakwerk Merseburg, Aluminiumwerk Bitterfeld e Wacker GmbH di Monaco. Anche la Dynamit AG di Amburgo, la Rheinisch–Westfalische Sprengstoff di Colonia, 3 fabbriche di seta artificiale ed altri complessi minori si unirono poi alla IG. Il sessantaquattrenne Duisberg assunse la presidenza del Consiglio di Sorveglianza, mentre il cinquantunenne Carl Bosch (premio Nobel della chimica nel 1931), già presidente del CdA della BASF, mantenne la stessa carica nel CdA della IG. La genesi del colosso inglese ICI, Imperial Chemical Industries, che nasce nell’autunno dell’anno successivo, pur ispirata da motivazione analoghe, si determina in un clima e con motivazioni molto diverse da quelle indicate per la IG Farben. L’elemento in comune è la consapevolezza che l’economia di scala e l’onerosità della ricerca non consentiranno più duplicazione di iniziative e frammentazione degli sforzi per le imprese che insistono sullo stesso mercato. Ma in Inghilterra si vive ancora nell’euforia della recente vittoria e nell’illusione della lunga pace che dovrebbe essere assicurata dall’istituzione della Società delle Nazioni. Sono inoltre ancora brucianti le ferite inferte dalle fallimentari esperienze fatte durante la guerra, quando molti tentativi di coordinamento e razionalizzazione dell’attività delle industrie chimiche erano stati vanificati dall’incapacità degli imprenditori di far prevalere le necessità della Nazione sull’interesse privato. Un ulteriore elemento di diversificazione rispetto alla IG Farben è naturalmente costituito dalla consistenza dell’apparato industriale e dalla varietà delle produzioni chimiche e minerarie controllate. Anche in Inghilterra l’Imperial Chemical Industries nasce con un’operazione di fusione; le quattro società che confluiscono nell’ICI sono: Nobel Industries Ltd, Brunner Mond&Company Ltd, British Dyestuff Corporation Ltd e The United Alkali Company Ltd. Ma, pur rappresentando le prime due società gli elementi costitutivi del gruppo di gran lunga più importante, fu curiosamente la British Dyestuff Corporation Ltd ad essere utilizzata come nucleo di cristallizzazione. In effetti però questa IG inglese, come apparve inizialmente concepita, fu messa nelle mani dell’Alta direzione delle due società più importanti. Infatti Mc Gowan che, come presidente della Nobel, era stato il principale artefice della
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fusione lasciò con magnanimità la carica di presidente della ICI; a Mac Gowan furono in compenso attribuite le cariche di vicepresidente della ICI, e di presidente del consiglio di amministrazione. Si sono per brevità tralasciati i contatti, più o meno segreti, tra gli uomini di spicco dell’industria inglese e quelli della IG in Germania e quelli della Allied Chemical Company e della Du Pont negli Stati Uniti, incontri che avevano preceduto la nascita dell’ICI e che già configurano in questi colossi dell’industria chimica, prossimi protagonisti, come multinazionali, nel mondo dell’economia e della finanza, la propensione a darsi una strategia di respiro internazionale. Le vicende riguardanti la formazione dei grandi gruppi chimici americani precedono di qualche anno la fondazione della IG Farben e dell’ICI. Il 1920 è un anno memorabile nella storia dell’industria chimica americana: per fusione di cinque società nasce il colosso Allied Chemical and Dye Corporation e la Standard Oil Co del New Jersey avvia la produzione di alcool isopropilico da petrolio (cui seguirà la produzione di alcool amilico da pentano nel ’23) con un processo petrolchimico che segna la data di nascita di questo nuovo ramo della chimica, destinato a rivoluzionare i metodi di ricerca e le tecniche di progettazione e costruzione degli impianti industriali. La Allied Chemical and Dye Corporation (ACD) nasce nel dicembre del 1920 per consolidare mediante controllo azionario, le attività delle seguenti cinque industrie chimiche americane: Barrett Co. (derivati del catrame), General Chemical Co. (oleum, miscela solfonitrica per esplosivi, acido ossalico, metasilicato sodico, iposolfito e industria cinematografica), National Aniline&Chemical Co. Inc. (coloranti), Semet Solvay Co. (coke e sottoprodotti derivati) e Solvay Process Co. (prodotti alcalini e azotati). Con un patrimonio di poco meno di 300 milioni di dollari la ACD costituisce un autentico colosso, che però nasce seguendo un modello di Wall Street, che ha poco da spartire con la logica industriale alla quale si ispireranno poi tedeschi ed inglesi. È però interessante rilevare che la Solvay di Bruxelles e Brunner, Mond&Co.Ltd, avendo tramutato le azioni della Solvay Process Co. in loro possesso in azioni Allied, finirono col diventare i maggiori azionisti della ACD con un pacchetto del 20% circa. L’altro gruppo dominante in USA è la EI DuPont de Nemours, che prima ha tratto grossi profitti dalla sua attività industriale, che la guerra ha provveduto a tonificare, poi ha anche arricchito a buon prezzo il suo patrimonio tecnologico, grazie ai brevetti tedeschi sui coloranti, che gli Americani hanno praticamente considerato preda bellica. Per
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sottolineare che siamo di fronte ad una strategia industriale ispirata da un’aggressività e da un dinamismo imprenditoriali, allora forse ancora sconosciuti in Europa basta ricordare che già nel 1918 la DuPont s’impadronisce del 25% circa delle azioni della General Motors. E l’interesse della DuPont al colosso dell’industria meccanica è dovuto alla consistente presenza della stessa DuPont nella produzione di vernici alla cellulosa e di ausiliari chimici per la lavorazione di cuoio e pellami, che rappresentano comparti merceologici in straordinario sviluppo per il boom dell’industria automobilistica. Su questo boom, a guerra ormai conclusa, gli analisti di Wall Street non hanno alcun dubbio; tant’è che all’inizio degli anni Venti il patrimonio della GM sarà valutato intorno ai 470 milioni di dollari!! Le vicende narrate in questo capitolo ci hanno fatto idealmente assistere alla nascita di quei grandi complessi come la IG Farben, la Imperial Chemical e la Solvay&C. in Europa e come la DuPont e la Allied in USA, multinazionali in pectore, che assumeranno in qualche circostanza, più o meno consapevolmente, il ruolo di piccoli stati negli stati. Ma scienza e tecnica stanno intanto congiurando alla preparazione di altri avvenimenti straordinari: l’ingresso della Chimica nelle raffinerie petrolifere (è del 1923 la prima prova su strada di benzina etilata con piombo tetraetile) e l’ingresso del petrolio negli stabilimenti chimici. Ma di questo diremo nel prossimo capitolo.
Chimica – petrolchimica – carbochimica – raffinazione (1926–1940)
L’industria chimica nei primi lustri del secolo viene assumendo, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, una configurazione sempre più articolata e complessa. Le produzioni elettrochimiche, biochimiche e farmaceutiche, affiancandosi, con le sintesi ad alta pressione, alle tradizionali produzioni inorganiche ed organiche sembrano costituire un campo troppo ampio di attività per la singola impresa. Ma abbiamo appena visto che le vicende del dopoguerra hanno portato alla formazione di quei colossi dell’industria chimica che invece non mostrano di temere né lo sconfinamento in settori contigui, come il minerario e il tessile, né quello in altri comparti primari come l’automobilistico. E diventa legittimo chiedersi se i luoghi deputati alla conquista di un primato industriale siano i laboratori di ricerca o le Borse di Francoforte, Londra, New York e Parigi. Ed il quesito si traduce, per le grandi società, nel dilemma di scegliere, per la guida dell’impresa, un tecnocrate o un finanziere, sempre che non siano già imperativi i diritti di una monarchia ereditaria. Comincia peraltro a profilarsi la necessità che l’imprenditore sappia destreggiarsi anche nell’agone politico. Se si prende tuttavia atto della situazione che in concreto si è determinata ne scaturisce, con sufficiente chiarezza, il delinearsi di una complessiva prevalenza dell’industria chimica americana su quella europea. Tant’è che le statistiche del 1926 registrano che gli Stati Uniti hanno conquistato il primato mondiale delle produzioni di ferro, rame, petrolio, carbone, zolfo, fluorite, gesso, magnesite, piombo, zinco, talco, saponaria, barite, concentrati di tungsteno, alluminio metallico e manganese. È perciò evidente che l’ampiezza del mercato interno, la ricchezza mineraria e la disponibilità di risorse naturali consentono all’industria americana di svilupparsi senza l’ansia del reperimento delle materie prime, a monte, e senza quella del reperimento di lontani mercati di sbocco a valle. Ma nelle complesse vicende delle attività economiche entrano in gioco altri fattori e quando scoppierà la crisi del 1929 molte preesistenti certezze saranno revocate in dubbio. Conviene a questo punto spostarsi in Europa per seguire io sviluppo iniziale delle attività dei due grandi gruppi di recente costituzione. La IG Farben tedesca e la Imperial Chemical Industries inglese. Tenendo conto che le nascita dei due colossi aveva trovato una solida 143
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motivazione nella comune esigenza di far fronte alle sfide dell’innovazione, in un’economia di scala molto rafforzata, è istruttivo seguire i criteri applicati nei due casi alla politica della ricerca. Attingendo ai dati pubblicati dalla stessa ICI risulta che nel laboratori della IG il numero dei chimici, tra il 1926 e il 1938, non scese mai sotto le 1000 unità. Quando in Germania la crisi del 1929 aggravò la situazione economica di un Paese che non s’era ancora ripreso dalla depressione del dopoguerra, si adottò il drastico provvedimento della riduzione di stipendi e salari senza ridurre le forze della ricerca. Sicché, anche al culmine della depressione, le spese di ricerca della IG non calarono mai sotto il livello di 2.750.000 sterline, mentre nello stesso periodo, tra il 1926 e il 1938, le spese di ricerca inglesi non superarono mai il milione di sterline, portandosi nel ’32 addirittura sotto il livello di 600.000 £. Questo sforzo gigantesco della IG, sotto la guida di Bosch, si tradusse in risultati commerciali molto significativi. Infatti tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta il prodotto esportato si attestò tra il 60 e il 66% del fatturato globale. Ma anche quando nel ’38 le esportazione si ridussero al 34% si mantennero comunque su un livello soddisfacente, perché intanto il fatturato era raddoppiato rispetto a quello del 1932. Nel trading mondiale dei prodotti chimici la quota della IG Farben salì dall’11% del 1926 al 14% del 1938 Ma sarebbe riduttivo valutare il ruolo della IG Farben sulla scena dell’economia mondiale in funzione di una monocultura chimica. La strategia di internazionalizzazione del Gruppo ebbe infatti modo di manifestarsi con operazioni significative, quando esso stabilì forti legami finanziari prima con la Ford Motor Co. e successivamente con la Standard Oil del New Jersey. Ma mentre nel caso della Ford l’ispirazione potrebbe essere derivata dall’esempio dell’operazione Du Pont–General Motors, nel caso della Standard la IG Farben acquisì il 2% delle azioni del colosso petrolifero in contropartita per la cessione di brevetti e know–how riguardanti il butadiene, la sua polimerizzazione e l’idrogenazione del carbone. E questa transazione avvenne sorprendentemente in pieno regime hitleriano, anzi addirittura alla vigilia della seconda guerra mondiale. Non si fa fatica a comprendere le preoccupazioni destate nello stato maggiore della Imperial Chemical dalla riassunzione tedesca del primato nell’industria chimica evidenziato dai successi internazionali della IG. D’altra parte la ICI era nata con l’assorbimento da parte dei due maggiori gruppi chimici inglesi di due società minori, la British Dyestuff e la United Alkali, che nella IG avrebbero fatto fatica a posi-
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zionarsi tra quelle di secondo rango. Perciò la ICI, consapevole di non poter competere ad armi pari con il colosso tedesco, legittimamente si preoccupò di accrescere il proprio potere contrattuale con forti alleanze strategiche. Già forte dei legami della Brunner, Mond&Co. con la grande Solvay, che dell’internazionalizzazione dell’industria chimica aveva fatto il suo caposaldo strategico, la Imperial rivolse la sua attenzione ai grandi che operavano sull’altra sponda dell’Atlantico. Come abbiamo già indicato il legame con la Allied (ACD), nata nel 1920 da un’operazione di fusione, era costituito da un solido pacchetto del 20% che gli inglesi e Solvay complessivamente possedevano, risultando così gli azionisti di maggioranza relativa. Ma la ICI non riuscì a far pesare questa sua preminente posizione perché il presidente dell’Allied, Orlando Weber, godeva dell’appoggio degli altri azionisti e col supporto dell’80% era ben deciso ad andare per la sua strada. Sembra poi che a determinare quest’atteggiamento di Weber non fosse estranea la sua personale antipatia nei confronti di Mond. Con la DuPont invece i rapporti della Imperial mantennero quel livello di cordiale intesa che la Nobel Industries intratteneva prima della fusione del 1926, fin dal 1920, con il colosso americano. L’accordo Nobel DuPont del ’20 prevedeva infatti non solo lo scambio di informazioni tecniche e licenze incrociate sui diritti brevettuali, ma anche un accordo mantello che disciplinava, a livello mondiale, le attività dei due partners, limitatamente — s’intende — al comparto degli esplosivi ed affini. Inoltre il territorio dell’Impero britannico restava riservato dominio della Nobel, mentre quello statunitense era riservato alla DuPont. Ma nel destino incrociato di questi grandi protagonisti dell’industria chimica si riscontra un’altra curiosità. Proprio prima della nascita dell’ICI Nobel e DuPont avevano investito, in quote uguali, circa 750.000£ in due società esplosivistiche tedesche, entrate poi a far parte della IG Farben. Quando poi i titoli delle due piccole società tedesche furono commutati in azioni IG, Ia DuPont e la ICI scoprirono di essere diventate, sia pure con una partecipazione minima, azioniste della IG. A rafforzare i rapporti tra inglesi e americani contribuì certamente la partecipazione che ICI acquisì nella General Motors, su suggerimento della DuPont. Questa partecipazione, pur consentendo l’ingresso di Sir Harry Mc Gowan nel consiglio d’amministrazione della GM, non diede però alcun contributo all’allargamento della collaborazione tra i due partners in altri comparti dell’industria chimica. D’altra parte nella strategia dell’ICI maturata con l’esperienza della guerra, era diventato settore primario, affiancandosi a quelli tradizionali
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dell’azoto e dei coloranti, quello dei carburanti liquidi da carbone (oil from coal). La DuPont era invece interessata solo al comparto dei coloranti, anche perché il patrimonio brevettuale dei tedeschi in questo settore non era stato saccheggiato esclusivamente dal colosso americano. Era pertanto giocoforza per la Imperial prendere atto che il suo programma innovativo dell’oil from coal l’avrebbe messa in competizione con una IG ormai in buona salute, dopo la débacle industriale dell’immediato dopoguerra. Consapevole del divario accusato dalla chimica inglese nei confronti di quella tedesca e informata dei successi che la ricerca IG stava ottenendo anche nell’oil from coal, in ragione dei massicci investimenti che Bosch aveva riservato all’innovazione, la direzione dell’ICI prese in seria considerazione l’idea di raggiungere un’intesa con la IG Farben. Il compito si presentava difficile per evidenti ragioni. Già negli azotati la capacità produttiva annua dello stabilimento di Billingham, cuore dell’attività industriale britannica, ammontava a 170.000 tonn di azoto e doveva confrontarsi con quella tedesca di 700.000 tonn. Ma a rendere il divario più netto stava il consumo globale di azoto dell’Impero britannico, che si collocava al di sotto di quello interno della sola Germania. Però in tema di azoto gli Inglesi erano in possesso di una tecnologia competitiva con quella di haber–Bosch e quindi in grado di far temere ai tedeschi una guerra commerciale, con un ribasso dei prezzi. Passando poi al comparto dei coloranti e al processo di conversione del carbone in carburanti e combustibili liquidi il divario scientifico e tecnologico diventava addirittura mortificante per la ICI. Rileviamo per inciso che questa nuova carbochimica, centrata sull’idrogenazione catalitica del carbone ad alta pressione, cadeva in un momento di crisi della produzione petrolifera. Infatti il processo oil from coal aveva attirato l’attenzione anche di grandi compagnie petrolifere come la Standard Oil e la Royal Dutch Shell, perché in USA una serie di perforazioni aveva dato risultati negativi provocando un’ondata di pessimismo sulle riserve di petrolio del pianeta. Con queste premesse appariva chimerico raggiungere un accordo che conciliasse le esigenze delle due parti. Ma la IG Farben aveva mire napoleoniche sulla chimica europea. Il suo stato maggiore intendeva introdurre in Europa regole e comportameti che evitassero duplicazioni, sovrapproduzioni e guerra dei prezzi, con una disciplina garantita da un organo di controllo nel quale, sia pure con qualche accorgimento diplomatico, la IG l’avrebbe fatta da dominus. Per realizzare quest’obiettivo non solo era necessaria la presenza degli inglesi, ma
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occorreva inserire nella compagine anche Francia, Svizzera, Norvegia ed eventualmente il Belgio cioè Solvay. I tentativi di conciliare strategie così divergenti si susseguirono per tutto il 1927 a partire dall’incontro del gennaio a Parigi, dove la delegazione tedesca guidata dallo stesso Bosch si incontrò con quella inglese guidata da Mond e Mc Gowan. Per ragioni di sintesi non possiamo seguire nel dettaglio il contenuto dei colloqui degli incontri londinesi di aprile e maggio, ma apparve chiaro ai rappresentanti delle due delegazioni che i disegni strategici di ICI e IG erano inconciliabili. L’incontro dell’Aia in ottobre segnò praticamente la fine del tentativo di trovare un accordo e Mond, commentando in una lettera ad Alfred Solvay l’arroganza dei Tedeschi, li accusava di non avere capito che non esiste possibilità di trattativa sulla base di una unilaterale affermazione dì supremazia. Tra l’estate e l’autunno del 1927 anche la DuPont tentò di stipulare un accordo di collaborazione con la IG. Gli Americani mostrarono interesse ad un contributo tecnico tedesco al proprio sviluppo, ma in realtà miravano ad entrare nel settore azoto partendo da nuovi impianti ammoniaca da realizzare col processo Haber–Bosch. Quando però si accorsero che la IG invece puntava a controllare la produzione di ammoniaca anche in USA, piuttosto che a promuovere la costruzione di nuovi impianti, ritennero anch’essi conclusa la vicenda. Ed anche la DuPont espresse poi un giudizio critico sull’arroganza dei Tedeschi. In realtà la IG era rimasta semplicemente fedele alla propria impostazione strategica; solo che avendo in sostanza deluso tanto gli Inglesi quanto gli Americani, fu inconsapevolmente l’artefice del loro riavvicinamento. Infatti i gruppi dirigenti della DuPont e dell’ICI, pur non vedendo di buon occhio la formazione di stretti legami di collaborazione tra le loro società, furono spinti a riesaminare le proprie posizioni dal comune risentimento nei confronti dei Tedeschi e dal comune timoroso rispetto nei confronti della IG come concorrente, in possesso di un patrimonio tecnico scientifico atto ad assicurare una maggiore capacità innovativa. Non era tuttavia facile formulare un accordo di collaborazione significativo nell’ambito dei settori merceologici di comune interesse. Infatti solo nei comparti dei coloranti e degli esplosivi si poteva progettare un’intesa articolata su temi concreti. Per il resto la DuPont era molto più diversificata dell’ICI, ma viscosa, cellophane, tele cerate, pitture vernici, pellicole ed altre produzioni oggetto dell’attività industriale del colosso americano non rientravano nella strategia inglese. Ed anche i comparti della gomma sintetica, delle materie plastiche e degli insetticidi, nei quali DuPont cercava di inserirsi
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mediante lavoro di ricerca e acquisizioni, risultavano estranei ai programmi di investimento della ICI. Nemmeno l’impianto ammoniaca del West Virginia poteva costituire lo spunto per una comune riflessione sugli azotati, perché la DuPont lo considerava solo fonte di urea o, quando marciava a metanolo, fonte di formaldeide, e dunque, al servizio della produzione di resine urea–formaldeide. C’è da pensare che forse gli uomini duri della DuPont avrebbero impedito la conclusione di quell’accordo, che pure richiese due anni di elaborazione, se quel grande gruppo non fosse stato ancora retto dal tradizionale regime monarchico familiare. Infatti all’epoca delle trattative, la carica di presidente della società era detenuta da Irénée DuPont (1876–1963), mentre il fratello maggiore Pierre S. DuPont, che in quella carica l’aveva preceduto, ora presiedeva il consiglio d’amministrazione, e il fratello minore Lammont era uno dei vicepresidenti. A fornire il calore di attivazione a questo complicato processo fu probabilmente la prima mossa di Mc Gowan, che fin dal marzo del 1927 propose all’amico Pierre S. DuPont di cominciare a fare un po’ di strada assieme, commutando 100.000 azioni ordinarie GM del portafoglio ICI in 45.000 della DuPont. La proposta fu accolta favorevolmente, ma poi, per l’intervento di Lammont, ci furono obiezioni formali che apparentemente vanificarono il tentativo di Mc Gowan. Ma il dado era tratto e alla fine del 1927 ci fu un primo incontro a Londra fra le delegazioni delle due parti. Fu esaminata per prima l’ipotesi di estendere l’accordo in materia di brevetti e processi, stipulato a suo tempo tra DuPont e Nobel Explosives ad altri settori merceologici. In realtà, fin dalle prime battute, le due parti miravano a definire i territori in cui esercitare un diritto di esclusiva o un potere di influenza dominante, per valutare le implicazioni strategiche di un accordo a livello mondiale. Non importa seguire le varie fasi della complessa trattativa per coglierne l’essenza. I nodi da sciogliere riguardavano sostanzialmente l’ICI, sia come azionista della Allied, sia come alleata, in una entente cordiale con Solvay. Gli Inglesi sciolsero radicalmente il primo vendendo più del 90% delle loro azioni Allied alla Solvay che, con le azioni Allied già in portafoglio finì col detenere un pacchetto del 21% circa del colosso americano. (La Solvay ne affidò poi la gestione alla Solvay American Investment Corporation creata ad hoc.) Il secondo nodo fu facilmente dipanato, eliminando dai comparti merceologici in esame i prodotti derivanti dal cloro–soda, che DuPont considerava di interesse marginale. Così, intorno alla metà del 1929, fu raggiunto un accordo esteso a tutta la gamma dei prodotti chimici,
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organici ed inorganici (con poche eccezioni) che prevedeva, tra l’altro, il diritto di first refusal su brevetti e processi dei contraenti, scambio di informazioni sulle ricerche in corso o programmate e una ripartizione delle aree di esclusiva o di interessi associati. La DuPont però, ammaestrata dai precedenti interventi della Corte Federale, chiese ed ottenne che la materializzazione scritta degli accordi fosse affidata ai suoi legali. Importa qui rilevare che nella stesura degli accordi furono previste altre due eccezioni, oltre a quelle già acquisite. Furono infatti esclusi gli esplosivi militari, perché soggetti a regolamentazione governativa, e il piombo tetraetile perché l’ICI riteneva questo antidetonante metallorganico connesso in qualche modo al suo grande progetto di carburanti da carbone, il c.d. “oil from coal”. Le vicende riguardanti strategie e politiche industriali dei grandi gruppi chimici, IG, ICI e Solvay in Europa, e Allied Chemical&Dye Corporation e EI DuPont de Nemours in USA mostrano che la strada della internazionalizzazione indicata dai grandi pionieri, Nobel e Solvay, viene ormai percorsa come terreno di competizione. Ma si delinea, sempre più marcatamente, il pericolo che accordi ed alleanze portino alla formazione di oligopoli mirati a creare divari tecnologici incolmabili per chi non ha avuto il privilegio di inserirsi tempestivamente in quest’élite. Saranno poi l’ingresso dei grandi del petrolio e, purtroppo, il tragico evento della guerra che, sconvolgendo l’ordine costituito, creeranno le premesse di un nuovo assetto dell’industria chimica mondiale. L’affinità tra petrolio e chimica ha radici remote. È infatti l’attività di raffinazione quella che, fin dall’Ottocento, crea nel mondo degli operatori dell’industria petrolifera interesse ed attenzione per i processi e le tecnologie dell’industria chimica. Come si è già ricordato il ricorso al trattamento della nafta con acido solforico, negli anni Settanta dell’Ottocento, fu la prima occasione che stimolò i raffinatori ad integrare l’attività primaria con la produzione di quella fondamentale materia prima. Ma un ruolo più importante nell’evoluzione dell’iniziale tecnica elementare di lavorazione del grezzo con il solo processo di distillazione fu quello assunto poi dalla casuale scoperta del cracking. È noto infatti che in un impianto del New Jersey, nel 1861, accadde che il riscaldamento di una storta fortuitamente si prolungasse, facendo evaporare molto più della metà del grezzo trattato, mentre normalmente la regola empirica seguita era quella di fermare l’operazione quando il volume del liquido si dimezzava. Dalla constatazione che il riscaldamento prolungato aveva prodotto un distillato più chiaro e
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leggero di quello normalmente ottenuto, si dedusse che il cracking termico dell’olio era il processo da sviluppare e perfezionare per rendere più remunerativa la lavorazione del grezzo. Così lo storico constata che anche nelle vicende industriali è ricorrente la trasformazione vichiana dell’accidente in occasione. Saranno poi i metodi analitici della chimica a consentire l’approfondimento dei meccanismi della piroscissione, suggerendo i necessari accorgimenti per la preparazione dei tagli da trattare e dei tempi di permanenza delle cariche nei forni, per rendere compatibile l’efficacia della piroscissione con la formazione di carbone sulle pareti interne dei tubi del forno. I progressi che la tecnica costruttiva degli impianti chimici aveva messo a segno per corrispondere alle esigenze dei processi ad alta pressione furono preziosi anche per gli impianti di raffinazione. Sarà infine la catalisi eterogenea, mutuata dall’industria chimica, a dare alla tecnica di raffinazione una gamma di possibilità altrimenti impensabile. Ma intanto, già nella seconda metà degli anni Venti lo sviluppo del cracking termico in fase vapore conferisce a questo processo maggiore continuità e migliore rendimento. Lo straordinario sviluppo dell’industria automobilistica, misurato dai circa 5 milioni e mezzo di nuove auto del ’29, affiancato da un già significativo sviluppo dell’industria aeronautica, impone alle raffinerie di produrre benzine con migliori caratteristiche antidetonanti. È l’occasione attesa dall’industria chimica che, partita in sordina nel ’22, con la produzione di piombo tetraetile, ottenuta con un processo ancora da laboratorio, lo sviluppa industrialmente con capacità produttive adeguate alla straordinaria crescita del mercato. Ma già anche le benzine non etilate dispongono di migliori caratteristiche ottaniche, perché la selezione di grezzi naftenici consente pure al cracking termico in fase vapore di arricchire l’effluente di benzene e toluene. Naturalmente la possibilità di estrarre questi composti aromatici da prodotti petroliferi crea un nuovo legame tra raffinerie e impianti chimici. Parallelamente, mentre all’inizio degli anni Venti erano state le raffinerie ad esordire con la produzione degli alcoli isopropilico ed amilico ottenuti per idratazione delle olefine recuperate dalla frazione gassosa del cracking, ora sono le società chimiche che si dedicano alla trasformazione delle olefine leggere in chemicals più pregiati. Così nel ’29 anche la Carbide and Carbon Chemicals esordisce nella petrolchimica con il suo processo di ossidazione del propilene ad acetone. Ed in contemporanea offre nuovi prodotti come diossano, ossido di etilene, etere dicloretilico e cloruro
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di vinile. A dare man forte allo sviluppo della petrolchimica contribuisce il Prohibition Bureau, che autorizza la produzione industriale di etanolo da etilene. Infine la Standard Oil (NJ) nello stesso anno allestisce un impianto pilota per cimentarsi nell’idrogenazione catalitica del carbone ad alta pressione. A tal fine la Standard aveva acquisito dalla IG Farben, fin dal 1927, il pacchetto di informazioni del processo Bergius e il diritto ad accedere a tutti i miglioramenti che potevano derivare dall’ininterrotto impegno che la ricerca IG ancora riservava a questo processo. Ma quali ripercussioni subisce l’industria chimica quando si abbatte sull’economia mondiale il ciclone della crisi del ’29, quella che iniziata il 24 ottobre, il famoso giovedì nero di Wall Street, dilagherà anche sull’altra sponda dell’Atlantico, risparmiando in Europa solo l’Unione Sovietica? Non rientra certo nell’economia di questa carrellata storica fornire le più accreditate motivazioni per spiegare quella drammatica vicenda, anche perché le opinioni e i giudizi degli esperti non sono concordanti. Ci interessa invece ricordare che, negli anni immediatamente precedenti, si erano già verificati avvenimenti, direttamente o indirettamente collegati alle attività dell’industria chimica, che avrebbero dovuto attenuare lo sfrenato ottimismo di tutti gli operatori economici, inclusi i più modesti risparmiatori. L’agricoltura e le industrie in declino, come quella del carbone e del tessile, non partecipavano in USA alla generale prosperità e delle oltre 30.000 banche censite all’inizio degli anni Venti circa 5000 avevano in quegli anni dovuto dichiarare fallimento, e gli istituti in crisi si contavano prevalentemente fra quelli operanti nelle zone rurali. Ma anche la struttura dei grandi gruppi industriali era sostanzialmente debole. Imprenditori di primo livello, con la disinvoltura consentita dalla proliferazione di trust e holding finanziarie, avevano potuto stornare una parte consistente dei profitti dell’industria a loro piacimento. Purtroppo gli stessi fattori psicologici, che prima avevano stimolato uno sconsiderato ottimismo, fecero poi radicare un pessimismo prolungato e paralizzante. Tant’è che l’indice industriale della borsa, che nel settembre ’29 era a 452, in novembre era sceso a 229 e nel luglio 1932 toccò il minimo di 58. Ma con le elezioni presidenziali del ’32 a Hoover subentrò Franklin Delano Roosevelt, già governatore dello stato di New York, che, assicurandosi la collaborazione di un trust di cervelli, riuscì a varare, nel volgere di un paio d’anni, una serie di importanti provvedimenti, passati alla storia come primo New Deal. Ancora una volta bisognava
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Capitolo IX
porre rimedio all’incapacità del liberismo di autocorreggersi quando il laissez faire porta al disastro. Il National Industrial Recovery Act del 1933, con un deciso cambiamento di rotta, mirava a conciliare i punti programmatici fondamentali della pianificazione governativa con le iniziative dell’industria privata. Il carattere dirigistico del provvedimento emergeva dal conclamato intento di ottenere la stabilizzazione dei prezzi con l’attenuazione della concorrenza, l’espansione del potere d’acquisto e il rientro al lavoro dei disoccupati. Ma l’elaborazione di alcune norme per regolare la concorrenza, fu demandata agli stessi industriali e il provvedimento non ebbe grande successo. Quando poi la Corte Federale nel 1935 lo ritenne incostituzionale non ci fu nessun rimpianto. Fu invece coronata da pieno successo la creazione dell’Ente per l’industrializzazione della vallata del Tennessee (TVA = Tennessee Valley Authority). Il programma iniziale prevedeva la costruzione di centrali idroelettriche ed impianti di fertilizzanti, da aggiungere alle preesistenti due fabbriche di munizioni. Il progetto assunse invece un’articolazione di più ampio respiro, interessando addirittura sette stati. La TVA infatti non si limitò a costruire dighe e centrali idroelettriche, ma, garantendo la disponibilità di energia a basso prezzo, favorì l’insediamento di varie industrie e di quella elettrochimica in particolare. Perciò la TVA, creata il 7 giugno del 1933, pur avendo iniziato proprio con la gestione delle due fabbriche di munizioni di Muscle Shoals (Alabama) sul fiume Tennessee, con il progressivo allargamento del suo campo d’azione e per l’efficacia della sua strategia, fu ritenuta una delle iniziative più spettacolari e meglio riuscite del New Deal. Fra le tante iniziative chimiche che la TVA riuscì a richiamare negli stati riservati al suo intervento, grazie al suo programma e agli incentivi di promozione industriale, primeggiano quelle mirate alla produzione del fosforo e dei suoi derivati. Si registrarono infatti, dopo i primi impianti costruiti e gestiti dalla stessa TVA, gli insediamenti industriali della Monsanto, della Hooker Chemical e della Stauffer Chemical. Sotto l’egida della TVA si venne così a creare una concentrazione di industrie chimiche omogenee per la produzione di fosforo, acido fosforico, superfosfato, fosfato biammonico ed altri derivati. Ma la TVA non ebbe vita facile perché, non appena ebbe terminato la costruzione dei primi due impianti di acido fosforico, fu oggetto di una perentoria ingiunzione della Corte Federale, che le intimava di non venderne la produzione in concorrenza con l’industria privata. Ed occorre anche ricordare che non mancarono i critici, che considerarono la TVA
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una sorta di esperimento sociale, il cui costo avrebbe aumentato il deficit pubblico. Può sorprendere che questa ostilità abbia trovato addirittura un portavoce in una lega, la American Liberty League, fondata nell’agosto 1934. Sorprende meno che questa lega sia stata finanziata dalla famiglia DuPont e da altri ricchi affaristi nell’intento di dotarsi di uno strumento capace di presentare il New Deal e la TVA come minacce alla libera iniziativa dell’imprenditoria americana. Purtroppo anche l’Europa tardò a riprendersi dalla crisi del ’29 e la disoccupazione investì il Vecchio Continente con punte drammatiche nella repubblica di Weimar. Fu così che l’ascesa di Hitler al potere nel 1933, fu registrata come un evento negativo e preoccupante, ma certamente non inatteso. La discriminazione razziale, subito praticata dal regime nazista privò la IG di alcuni uomini di grande valore: tra questi Berl, maestro di Winnacker, che aveva lavorato con Staudinger allo studio delle macromolecole. Tuttavia la strategia industriale della IG, anche a livello internazionale, non fu apprezzabilmente condizionata dalla dittatura appena instaurata. Tra gli eventi più significativi di questo periodo spicca, per l’apporto determinante della ricerca e per la molteplicità degli interessi coinvolti, la nascita dell’industria delle gomme sintetiche. Già nel 1923 il mercato della gomma naturale aveva avuto un’impennata tale da far intravedere nuovamente la possibilità della gomma sintetica di competere con quella naturale. Così, dopo qualche anno, i laboratori della grande industria chimica cominciano a cogliere i primi importanti risultati che proseguiranno, in serie positiva, anche nel corso degli anni Trenta. Nell’elenco dei risultati più significativi si registrano la polimerizzazione in emulsione del butadiene della IG, la sintesi di polisolfuri elastomerici, le c.d. tiogomme, dell’americana Thiokol, il processo Lebedev di sintesi catalitica del butadiene da etanolo, la polimerizzazione dell’isobutilene della IG e quella del cloroprene, frutto della ricerca congiunta della DuPont e dell’università americana di Notre Dame. Ma in questo elenco il risultato di maggior rilievo è la copolimerizzazione in emulsione di butadiene e stirene, vanto della ricerca IG. La valenza strategica di questo processo fu peraltro percepita, fuori della Germania, solo dagli Americani. Ma vale la pena ricordare che l’interesse e l’attenzione dell’industria statunitense per questa nuova gomma sintetica, la Buna S, che sembrava finalmente in grado di competere con la gomma naturale, furono suscitati da un accordo che mirava ad un obiettivo affatto diverso. Infatti la Standard Oil era stata
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Capitolo IX
tentata nel 1927 dall’idea di impiegare il processo Bergius per incrementare la propria produzione di carburanti, mossa dalla preoccupazione di non potere adeguare la sua produzione petrolifera alle esigenze della crescente motorizzazione. Ma l’anno successivo importanti ritrovamenti petroliferi capovolsero la situazione che da deficitaria divenne eccedentaria. L’accordo tra la Standard e la IG venne allora riformulato, includendovi prima i processi tedeschi di sintesi di prodotti chimici da frazioni petrolifere e, successivamente, la gomma sintetica, derivante da quel monomero, il butadiene, che la Standard, in virtù dell’accordo, avrebbe potuto produrre da petrolio o da gas naturale. La scelta della Standard Oil si rivelò di eccezionale importanza strategica per gli Stati Uniti quando i Tedeschi, nella seconda metà degli anni Trenta, svilupparono due nuovi copolimeri: la Buna S, che si rivelò un elastomero con largo campo d’impiego, e la Buna N, copolimero butadiene–acrilonitrile, che risultò particolarmente qualificato per la fabbricazione di manufatti olio–resistenti. Il citato accordo consentì alla Standard non solo di disporre dei know–how di competenza, ma anche di importare nel 1939 quantitativi di Buna S tedesca (copolimero butadiene–stirene), quando già in Europa spiravano venti di guerra. Occorre peraltro ricordare che quando fu varata la joint– venture Standard Oil – IG Company, la IG apportò il suo patrimonio di brevetti sull’idrogenazione del petrolio, del carbone e del catrame in contropartita del 2% circa del capitale azionario della Standard Oil, valutato intorno ai 35 milioni di dollari. Per completare il quadro degli sviluppi innovativi derivanti dal citato accordo si deve infine ricordare come si pervenne alla sintesi della gomma butile. I laboratori della IG erano riusciti fin dal 1929 a preparare un copolimero dell’isobutilene, che risultava sì un prodotto gommoso, ma non mostrandosi suscettibile di vulcanizzazione era praticamente inutilizzabile. La Standard Oil Development Co. (che poi divenne la Esso Research&Engineering Co.) intuì che esisteva la possibilità di trovare una soluzione al problema e continuò le ricerche. Prima tentò la copolimerizzazione dell’isobutilene con piccole quantità di butadiene, poi sostituì il butadiene con isoprene. Fu così che Sparks e Thomas riuscirono ad ottenere nel 1940 il copolimero noto come gomma butile. La vicenda di questi elastomeri pone anche in evidenza il primo massiccio e ben mirato intervento di una società petrolifera in comparti strategici dell’industria chimica. Assisteremo poi all’ingresso continuo e diffuso della chimica nei processi di raffinazione, per modificare in termini più o meno accentuati l’assortimento originario degli idrocarburi contenuti nel grezzo, sicché
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gli ambiti di competenza di chimica e raffinazione diventano sempre più sfumati. Sarà poi la petrolchimica, allora ancora allo stato embrionale, che, esplicando gradualmente tutto il suo enorme potenziale innovativo di processi e prodotti, renderà sempre più manifestamente convenzionali le distinzioni tra processi chimici, petroliferi e petrolchimici. Appare singolare che uno degli esempi più significativi di massiccio impiego di tecnologie chimiche nei processi di raffinazione sia riscontrabile nel metodo di lavorazione adottato dall’ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili), quando nel 1935 in Italia le autorità governative decisero di rimediare alla critica carenza di carburanti di produzione nazionale. Il Paese infatti disponeva all’epoca di una delle più modeste capacità di raffinazione in Europa e, per sovrappiù, poteva contare, in caso d’emergenza, solo sugli scarsi ritrovamenti petroliferi della vicina Albania. Ma si trattava di un grezzo pesante, ricco di zolfo ed asfalteni, talvolta perfino inquinato di sabbia: dunque il meno adatto per produrre benzina. Per affrontare la bisogna il Ministero competente, seguendo il consiglio della UOP (Universal Oil Products) americana impostò un progetto che comportava l’adozione di un processo catalitico di idrogenazione ad alta pressione, già affermatosi in Germania. Si trattava in sostanza del processo Bergius per l’idrogenazione del carbone e dei residui liquidi pesanti. Il Ministero, che si era già attivato per ottenere dalla IG Farben un’opzione sul Bergius, perfezionò prontamente l’accordo. La parte essenziale del processo di lavorazione adottato dall’ANIC, trascurando i dettagli del tradizionale ciclo di lavorazione di raffineria, si concentra sulla sequenza delle distillazioni atmosferica e sotto vuoto. Gli impianti inseriti per esaltare la produzione di benzina sono quindi: a) l’impianto di idrogenazione catalitica in fase vapore sul distillato medio proveniente dalla distillazione atmosferica e dall’impianto di piroscissione b) l’impianto di idrogenazione catalitica in fase liquida, che lavora sui residui della distillazione atmosferica e del vacuum e dà luogo a due correnti: una di prodotti liquidi, rinviata alla distillazione primaria, ed una gassosa (metano e altri idrocarburi leggeri), che unita all’analoga corrente generata dall’idrogenazione in fase vapore, va ad alimentare l’impianto di reforming catalitico per la produzione di idrogeno.
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c) l’impianto di produzione del c.d. isottano, costituito in realtà da una miscela di C8 ramificati, ottenuti per idrogenazione della miscela di dimeri e codimeri derivanti dalla oligomerizzazione della miscela olefinica dei C4. Il massiccio inserimento, nel ciclo di raffinazione di tecnologie di impiego ricorrente nell’industria chimica, concorse a far prevalere nelle autorità di governo un atteggiamento favorevole alla partecipazione della Montecatini all’iniziativa. La Montecatini non poté naturalmente contribuire alle specifiche tecnologie di idrogenazione, che l’ANIC aveva acquistato dalla IG Farben, ma Fauser diede un significativo contributo orientando l’ANIC a costituire un centro di ricerca a Novara, dotato non solo di impianti pilota, ma anche di un reparto per la produzione di catalizzatori. Il ciclo di raffinazione scelto dall’ANIC fu all’epoca uno dei più sofisticati tra quelli adottati industrialmente e, probabilmente, quello a più alto rendimento in benzina. Ma anche con questi processi i carburanti avevano allora caratteristiche molto inferiori a quelle attuali. Basta pensare che, nella seconda metà degli anni Trenta, i due supercarburanti in vendita in Italia avevano come componente base la benzina “avio” a 70 ottani, ma l’uno era miscelato col 12% (vol) di alcool etilico e l’altro col 20% (vol) di benzene. Saranno poi le necessità degli apparati bellici a stimolare le ricerche per mettere a punto processi in grado di migliorare le caratteristiche della benzina “avio”. Il cracking catalitico, l’alchilazione, l’isomerizzazione e la polimerizzazione saranno le risposte che i laboratori di ricerca daranno, rendendo la scienza della raffinazione una disciplina chimica. Ma il differente approccio ingegneristico all’industrializzazione dei processi di raffinazione varrà a mantenere viva la tradizionale distinzione tra il comparto petrolifero e quello chimico. Per completare il quadro dell’impiego dei processi chimici nel settore petrolifero bisogna tornare alle vicende dell’ICI, dopo la rottura delle sue trattative con la IG. Gli Inglesi non si diedero per vinti e, incoraggiati dal prevalente atteggiamento politico, favorevole al coal oil, attivarono un nuovo laboratorio, specificamente destinato allo studio delle macromolecole del carbone e al processo di hydrocracking catalitico. Ma, man mano che le ricerche e le prove condotte sull’impianto pilota evidenziarono le difficoltà dei trattamenti preliminari del carbone, della preparazione di un catalizzatore efficiente e resistente all’avvelenamento da zolfo e del processo di cracking ed idrogenazione ad alta pressione, ci si rese conto che l’iniziativa era economica-
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mente fallimentare Ed anche il movente politico apparve sempre più inconsistente perché il timore che le riserve petrolifere fossero in via di esaurimento si era rivelato frutto di previsioni affrettate e tecnicamente infondate. Ma la massiccia disoccupazione innescata dalla crisi del 29 e le difficoltà di rapporti della Anglo–Persian Oil Company (APOC) con lo scià suggerirono probabilmente allo stato maggiore dell’ICI di far riconsiderare al governo conservatore di Neville Chamberlain il progetto industriale del coal oil in chiave strategica. L’Alta Direzione della Imperial Chemical, rappresentata da sir Harry McGowan e da Lord Reading (già Viceré delle Indie), riuscì così a strappare ai conservatori dei provvvedimenti protettivi, che si sarebbero tradotti nella libertà del Governo di applicare dazi doganali adeguati alle esigenze di ripianamento del conto industriale. Chamberlain annunciò la decisione alla Camera dei Comuni il 17 luglio 1933 ed il relatore, Ramsay McDonald, in difficoltà nel fornire una plausibile spiegazione del metodo adottato, assicurò i presenti che non avrebbero avuto difficoltà ad interpretare il testo scritto. All’inizio del 1934 più di 10.000 persone erano impegnate nella costruzione dell’impianto di idrogenazione del carbone di Billingham. Circa due anni dopo, il 15 ottobre del 1935, un treno speciale portò il premier inglese Baldwin a Billingham per l’inaugurazione della fabbrica ICI del coal oil ed il mondo industriale prese atto che le iniziative autarchiche non erano prerogativa esclusiva dei regimi dittatoriali. Il quadro delle iniziative industriali e degli obiettivi perseguiti dalla ricerca, negli anni che precedono la seconda guerra mondiale, pur sommario ed incompleto, delinea tuttavia una caratterizzazione dell’industria chimica, corrispondente ad una strategia dei grandi gruppi in competizione, più dettata da considerazioni economiche e di mercato che dalla previsione di un conflitto imminente. Vedremo, nel capitolo successivo, come le vicende della tragedia bellica opereranno una selezione tra i tanti processi allo studio nei laboratori dei paesi belligeranti, per accelerare naturalmente l’industrializzazione di quelli necessari per l’alimentazione del dispositivo militare. Prima di concludere la storia di questo periodo rileviamo che intanto in Italia l’industria chimica si sviluppa assecondando la vocazione agricola del paese e i suoi massicci investimenti in opere pubbliche. Infatti le produzioni di ammoniaca e fertilizzanti, come quella del cemento, registreranno incrementi notevolI. Nel 1933 l’Italia risulta addirittura il maggiore produttore mondiale di solfato di rame. Ed in Estremo Oriente la Mitsui costruisce a Tokio la più grossa unità mon-
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diale di solforico col processo catalitico di contatto al vanadio della Monsanto. Ma l’Italia, come il Giappone, è ancora in posizione marginale nei settori ad alto valore aggiunto della chimica organica, della farmaceutica, dei coloranti, degli ausiliari e delle specialties. E che proprio in questi comparti i “grandi” dell’industria chimica cerchino di conquistare posizioni dominanti è chiaramente dimostrato dalla costituzione del c.d cartello dei quattro nel settore dei coloranti. In breve la storia: i colossi della chimica svizzera, Ciba, Sandoz e Geigy, avevano costituito, seguendo il modello tedesco, la Swiss IG per i coloranti. La IG Farben ritenne coerente al suo disegno consolidare il primato che deteneva in questo settore con una strategia di alleanze, e costituì un primo cartello con la Swiss IG e con la Compagnie Francaise des Matières Colorantes (più nota come Kuhlmann). La ICI, ad onta degli insuccessi dei precedenti tentativi di accordo con la IG, non accettò passivamente la situazione. Prima combatté un’intelligente battaglia legale contro i Tedeschi, dimostrando come molti brevetti sui coloranti, già scaduti, erano stati tenuti in vita con artifici tecnicamente inconsistenti. Poi, solo dopo aver ottenuto una sentenza favorevole, ripropose alla IG un accordo che faceva entrare in gioco anche le quote di mercato nelle varie aree dell’Impero Britannico. La trattativa fu lunga e complessa, ma alla fine, si pervenne, il 26 febbraio del 1932, ad un accordo la cui scadenza era prevista per la fine del 1968! La direzione del Cartello, domiciliato ad Amsterdam, era affidata a 10 direttori, 3 nominati dalla IG Farben, 3 dalla Swiss IG, 2 dalla ICI e 2 dalla Kuhlmann. Così un altro cartello si aggiunse a quelli che i “grandi” dell’industria chimica avevano ideato, senza tenere in gran conto i latenti contrasti già esistenti in sede politica, contrasti che si sarebbero presto rivelati di natura insanabilmente conflittuale.
Chimica – petrolchimica – carbochimica – raffinazione (1926–1940) 159 Tabella 1 – Impianti di idrogenazione tedeschi
Potenzialità Materia prima Atm (1943–1944) t/a 1927 Leuna Germania Lignite, ca250 650.000 trame di lignite Germania Catrame di li- 300 1936 Böhlen 250.000 gnite Germania Catrame di li- 300 1936 Magdeburg 220.000 gnite 1936 Scholven Germania Carbon fossile 300 220.000 Germania 1937 Welheim Pece 700 130.000 Germania 1939 Gelsenberg Carbon fossile 700 400.000 Germania 1939 Zeit Catrame di li- 300 280.000 gnite Germania 1940 Lützkendorf Catrame, pe- 500 50.000 trolio 1940 Pölitz Polonia Carbon fossi- 700 700.000 le, petrolio 1941 Wesseling Germania Lignite 700 250.000 1942 Brüx Repubblica Catrame di li- 300 600.000 Ceca gnite 1943 Blechhammer Polonia Carbon fossi- 700 420.000 le, catrame Fonte: elaborazione da Eni, Enciclopedia del petrolio e del gas naturale. Anno Stabilimento avvio
Ubicazione
Tabella 2 – Potenzialità di raffinazione degli impianti di idrogenazione della Germania occidentale (1963)
Località
Gelsenberg Wesseling Scholven TOTALE Fonte: Ivi.
Idrogenazione ad alta pressione t/a 720.0000 450.000 450.000 1.620.000
Distillazione t/a
Cracking t/a
Reforming t/a
6.500.000 3.000.000 2.600.000 12.100.000
450.000 1.000.000 240.000 1.690.000
1.250.000 600.000 430.000 2.280.000
Chimica, petrolchimica e raffinazione La ricerca e l’industria durante il conflitto (1940–1945)
Sul finire degli anni Trenta si verificarono nel mondo chimico fatti significativi sia in campo industriale sia nell’ambito tecnico–scientifico. Nel settore organico la sintesi della canfora metteva fine al monopolio giapponese del prodotto naturale, ottenuto per estrazione in fase vapore da foglie, ramoscelli e picciuoli dell’albero della canfora (cinnamomum camphora). Si affermava su vasta scala il cracking catalitico della Houdry, utilizzato sia in impianti chimici che in raffineria. Il mondo scientifico registra l’importante conquista della scissione dell’atomo d’uranio, senza percepire che siamo all’inizio dell’era atomica. In quello stesso anno, siamo nel 1939, una successione di avvenimenti politici cattura l’attenzione dell’opinione pubblica, che ne avverte l’impatto con crescente trepidazione. La questione dei Sudeti si conclude con la dissoluzione della repubblica cecoslovacca ed il passaggio della Boemia e della Moravia sotto il protettorato tedesco. Mentre in Spagna termina la guerra civile la Germania annette Memel e l’Italia l’Albania. Gli USA abrogano il trattato commerciale con il Giappone e la Germania sottoscrive con l’Unione sovietica staliniana un trattato di non aggressione. Mentre inizia la guerra lampo (1 settembre 1939) dei carri armati tedeschi contro la cavalleria polacca, anche l’URSS si accinge a scendere in campo. I Russi infatti invadono la Polonia il 17 settembre e la Finlandia il 30 novembre del ’39. Immediatamente Inghilterra e, subito dopo, Francia, Canada, Australia e Nuova Zelanda dichiarano guerra alla Germania, mentre Roosevelt proclama la neutralità degli Stati Uniti. L’illusione americana di potere, come nella prima guerra mondiale, praticare l’isolazionismo e il neutralismo era peraltro corriva non solo con le predominanti correnti pacifiste, ma anche con i sentimenti antibritannici dei gruppi etnici italiani, tedeschi, irlandesi ed antisemiti, che la propaganda nazista aveva sapientemente orchestrato. Ma l’illusione, almeno nell’ambito della Casa Bianca, fu di breve durata. Quando, nella primavera del 1940, i nazisti occuparono Danimarca e Norvegia, invadendo Olanda, Belgio e Lussemburgo, e ricacciando in mare a Dunkerque il corpo di spedizione inglese, le apprensioni in USA crebbero. Il trionfale ingresso delle truppe tedesche a Parigi, 161
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con la capitolazione francese, rese poi consapevole Roosevelt che ormai la Gran Bretagna era l’ultimo bastione della democrazia in Europa. L’entrata in guerra dell’Italia fece balenare lo spettro della schiacciante superiorità della Marina dell’Asse nei confronti di quella americana, che si sarebbe determinata se, con il crollo dell’Inghilterra, le flotte francese e britannica si fossero unite a quelle italo–tedesche. Roosevelt si convinse quindi che gli Stati Uniti dovessero diventare almeno l’arsenale della democrazia. Ma liberarsi dalle pastoie di una legislazione concepita per impedire comunque al Presidente di diventare un autocrate non era facile. Le astuzie, gli accorgimenti e gli éscamotages ai quali Roosevelt dovette ricorrere per passare dal pay and carry (paga e porta via) al Lend–Lease Act (legge affitti e prestiti) fanno parte di quella storia che scuole di pensiero autoritarie considerano esemplare per illustrare i difetti della democrazia. Per le vicende che più interessano la storia dell’industria chimica qui ci si offre lo spunto per qualche considerazione sul cinismo della mentalità mercantile. La Gran Bretagna, nella tragica situazione bellica in cui era precipitata, era anche finanziariamente sull’orlo del fallimento. Ma Roosevelt aveva bisogno di darne una dimostrazione inequivocabile ad un’opinione pubblica poco sensibile e certamente informata in modo contraddittorio. Perciò chiese a Churchill di far vendere agli Inglesi tutte le attività private che detenevano negli Stati Uniti. Churchill dovette fare di necessità virtù e mise in vendita a condizioni di favore (per il compratore) la maggiore industria chimica americana controllata dagli inglesi, la American Viscose Corporation. Questa società, leader americana del rayon, si era affermata anche come produttrice di Vinyon, una fibra tessile derivata da resine viniliche (cloruro e acetato di vinile). Ma fu proprio il rayon a rivelarsi materia prima strategica, in tempo di guerra, grazie ai suoi impieghi nella fabbricazione di tele per pneumatici, di serbatoi di benzina autosigillanti, di paracadute e per varie altre applicazioni. D’altra parte gli Inglesi trovarono ampio compenso allo sconto praticato nella vendita dell’American Viscose perché l’approvazione della legge “affitti e prestiti” finì col comportare aiuti per 7 miliardi di dollari. Ma, in termini più generali, quale ruolo svolse l’industria chimica in questa guerra globale? Il problema dell’alimentazione della macchina bellica si era profondamente modificato dall’epoca della prima guerra mondiale, quando il ruolo centrale di esplosivi, nitrato cileno, ammoniaca, acido nitrico, benzene e toluene aveva monopolizzato l’impegno di ricercatori e industrie. Ora i problemi da risolvere riguar-
Chimica, petrolchimica e raffinazione (1940–1945)
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dano soprattutto combustibili liquidi e carburanti, gomma sintetica e lubrificanti, grassi (per alimentazione), e prodotti farmaceutici. Solo nella seconda parte del conflitto verrà alla ribalta la nuova chimica di guerra con la produzione di acqua pesante, di propellenti per razzi a lunga gittata e di uranio per la bomba atomica. In Germania si consolidò, durante la guerra, lo sviluppo dei due processi fondamentali della ricerca IG, Bergius e Fischer–Tropsch. La potenzialità degli impianti tedeschi utilizzanti il Bergius per l’idrogenazione di carbone, ligniti, peci e catrami, che già prima del ’39 s’era attestata intorno al 1.400.000 t/a, supererà i 4 milioni di t/a con gli impianti messi in marcia tra il ’39 e il ’43. Meno consistente quantitativamente lo sviluppo dei processi di idrogenazione dell’ossido di carbonio (Fischer– Tropsch), destinati però a durare anche quando non prevarrà più la logica dell’autarchia di guerra, responsabile dell’accantonamento dei normali criteri tecnico–economici. Per un confronto complessivo ed esteso, dall’anteguerra fino al dopoguerra, dei due processi di idrogenazione del carbone e del CO i dati delle due Tabelle riportate alla fine del capitolo precedente consentono di valutare il diverso peso che gli stessi ebbero nell’economia di guerra. Con l’idrogenazione del carbone la Germania, nel periodo del suo massimo sforzo bellico, riuscì a convertire 4 milioni di t/a di materie prime (principalmente fossile e catrame) in 100.000 barili/g di idrocarburi liquidi, costituiti prevalentemente da benzine avio e auto. Invece l’idrogenazione catalitica del CO, quando non impiegata selettivamente per produrre metano o metanolo, dava luogo ad un’ampia gamma di prodotti. Già allora, variando catalizzatore e condizioni operative, era possibile limitare in più ristretti intervalli la variazione della grandezza molecolare e favorire la formazione di una certa classe di composti organici. La Tabella 1, riportata al termine di questo capitolo, elenca gli impianti industriali costruiti nel mondo, tra i quali fanno spicco quelli che l’Impero del Sol Levante costruì in Giappone e Manciuria. In Germania, tra il 1936 e il 1939, si costruirono 9 impianti, con una capacità complessiva di 740.000 t/a, 5 a pressione atmosferica, 2 a media pressione (6–10 atm) e due con convertitori adatti a marciare a bassa e media pressione. La IG impiegò esclusivamente il catalizzatore al cobalto. Nel 1943 si raggiunse la produzione massima di 585.000t comprendente il 46% di benzina, il 23% di gasolio, il 3% di lubrificanti e il 28% di una gamma di composti costituiti da paraffine raffinate, detergenti e oli e grassi sintetici. Ma il comparto della chimica organica che, per effetto delle vicen-
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de belliche, fu stimolato più d’ogni altro sul piano della ricerca e dell’innovazione, è quello degli elastomeri e, più specificamente, quello della gomma sintetica. Si deve anzi rilevare che, almeno nella prima fase del conflitto, la ricerca fu costretta ad impegnarsi prevalentemente nella sintesi del butadiene, la diolefina coniugata che costituisce il monomero essenziale per il processo di polimerizzazione e che la petrolchimica del tempo non era ancora in grado di rendere disponibile. Fu la IG Farben per prima a battere la strada della sintesi del butadiene da acetilene, secondo due processi che i chimici denominarono “a 4 stadi” e “Reppe a 3 stadi”. Nel primo processo l’acetilene viene idratato ad acetaldeide che, con un catalizzatore basico, dimerizza formando aldolo, il quale viene idrogenato ad alta pressione, con un catalizzatore rame–cromo (Cu–Cr2O2), a 1,3 butandiolo e questo infine viene disidratato a butadiene a 400°C su pirofosfato sodico; nel secondo processo l’acetilene addiziona due molecole di formaldeide formando butindiolo, che viene idrogenato a 1,4 butandiolo che per disidratazione dà infine butadiene. Il secondo processo è peraltro uno dei tanti che la chimica di Reppe aveva suggerito, ma dopo la guerra, quando la petrolchimica consentì di ottenere butadiene a costi sensibilmente più bassi, esso fu ancora utilizzato dalla BASF, modificando l’ultimo stadio, per produrre tetraidrofurano. Ritornando alla gomma sintetica si registra già nel 1936, ad opera dei ricercatori della IG, la sintesi della Buna S, copolimero butadiene– stirene, mediante polimerizzazione in emulsione. Le prestazioni dell’elastomero apparvero così promettenti da indurre la IG ad esporre nello stesso anno, al Salone dell’automobile di Berlino, vetture gommate con pneumatici ottenuti con l’impiego della Buna S. Per una massiccia produzione industriale i Tedeschi dovettero però attendere la produzione industriale del butadiene ottenuto sia a Schkopau, col processo a 4 stadi, sia a Ludwigshaven, con quello a 3 stadi. È difficile esprimere un giudizio sulle motivazioni che indussero la IG ad adottare quel processo di polimerizzazione. Si ritiene che il ricorso all’emulsione sia stato inizialmente suggerito dal modello delle condizioni fisiologiche di formazione del lattice negli alberi di Hevea Brasiliensis. L’introduzione dello stirene sarebbe invece attribuita dai chimici del ramo (in base peraltro a conoscenze ed esperienze acquisite successivamente) all’intento di conferire all’elastomero un rinforzo di tipo viscoelastico. Si sarebbe cioè mirato a ridurre la tendenza delle catene polibutadieniche ad aggrovigliarsi, evitando una indesiderabile elasticità prima della vulcanizzazione. In termini economici la pos-
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sibilità di copolimerizzare butadiene con stirene costituì un concreto vantaggio perché la molecola dello stirene, idrocarburo con 8 atomi di C, richiedeva solo una molecola d’acetilene, mentre quella del butadiene, idrocarburo con 4 atomi di C soltanto, ne richiedeva una o due. Così la produzione tedesca di gomma sintetica nel 1942 sfiorò le 70.000t per raggiungere le 80.000 nel 1944. Ma un ruolo di primo piano nell’affrancare l’industria manifatturiera, e particolarmente quella dei pneumatici, dalla sudditanza imposta dalla gomma naturale fu quello assunto dall’URSS. Infatti i Sovietici, concentrando i loro sforzi di ricerca nella produzione di polibutadiene al sodio (SKB), erano passati, fin dal 1933, alla fase industriale con una capacità produttiva di qualche migliaio di t/a. Con un progressivo potenziamento dell’apparato produttivo l’URSS raggiunse nel 1939 una capacità effettiva di 78.500t di SKB divenendo, alla vigilia del conflitto, il maggiore produttore mondiale di gomma sintetica. Giova ricordare che i Russi avevano già risolto il problema della produzione di butadiene grazie al processo Lebedev, basato sull’alimentazione di etanolo ad un convertitore contenente ossidi metallici, capace di procedere simultaneamente alla disidratazione e alla deidrogenazione. I Sovietici poi, nel dopoguerra, pur con un graduale disimpegno, hanno continuato a produrre in misura consistente polibutadiene al sodio fino all’inizio degli anni Sessanta. Ma per valutare appieno il ruolo che la gomma sintetica ebbe come materia prima strategica nel corso del conflitto, occorre riportare l’attenzione sulla situazione statunitense. In USA l’opinione pubblica seguiva con apprensione lo svolgimento delle operazioni belliche in Estremo Oriente e il dilagare delle truppe nipponiche verso l’Asia meridionale. Il Giappone, dopo aver costretto gli Inglesi a chiudere la strada della Birmania, chiese perentoriamente al governo francese di Vichy la concessione di basi militari nell’Indocina settentrionale. Quando infine, nel settembre del 1940, il Giappone annunciò la stipulazione del patto tripartito con Germania e Italia, Roosevelt si convinse che occorreva reagire per non consentire al Giappone di acquisire impunemente la disponibilità delle materie prime necessarie ad alimentare il suo esercito in campagna per la conquista della Cina. Conseguentemente al divieto già in vigore di esportare petrolio in Giappone, si aggiunse l’embargo su merci strategiche, quali i prodotti siderurgici e chimici. Ma intanto Hitler attaccava l’Unione Sovietica e Vichy concedeva le basi in Indocina. Così nel Governo giapponese prevalse la tesi dei fautori di un espansionismo, che giustificava gli obiettivi im-
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perialistici con la necessità di assicurare all’Impero del Sol Levante la disponibilità di materie prime strategiche come il petrolio e la gomma naturale. Com’è ben noto il conflitto diplomatico e commerciale, nel volgere di pochi mesi, fece precipitare i due Paesi nel baratro della guerra, quando il 7 dicembre 1941 una nutrita squadra aerea giapponese attaccò, senza preavviso, la base navale americana di Pearl Harbour, distruggendo in novanta minuti una parte cospicua della flotta USA. Così 1’8 dicembre gli Stati Uniti dichiararono guerra al Giappone e l’11 dicembre Italia e Germania la dichiararono agli Stati Uniti. La reazione americana questa volta fu immediata ed unanime. La mobilitazione, con l’estensione del servizio militare obbligatorio dai 18 ai 45 anni, consentì di reclutare 10 milioni di uomini, cui si aggiunsero 5 milioni di volontari. Ma la mobilitazione industriale non fu da meno. In breve la produzione di ferro, acciaio, magnesio, alluminio e rame raddoppiò o triplicò. Quella di macchinario, in alcuni settori strategici, aumentò di sette volte. La costruzione di aerei passò dai 2000 del ’39 ai 96.000 del ’44, sicché durante la guerra gli Stati Uniti produssero 300.000 aerei, di cui 275.000 per uso militare. La cantieristica, con la standardizzazione innovativa della nave mercantile, in acciaio e di linea semplice, la liberty, varò una flotta di 55 milioni di tonnellate, oltre naturalmente alle innumerevoli navi da guerra. L’industria motoristica relegò in secondo piano la produzione automobilistica civile per dedicarsi ai mezzi militari, carri armati, camion e al nuovo veicolo da campagna, la jeep, che risulterà ineguagliabile per versatilità anche sui campi di battaglia. Ma fu l’apporto dell’industria chimica a rivelarsi determinante, quando si trattò di far fronte alla drammatica crisi derivante dall’improvvisa indisponibilità della gomma naturale. Si doveva infatti sopperire alla carenza di caucciù conseguente all’invasione giapponese della Malacca e delle Indie Olandesi. Il compito di provvedere all’emergenza fu affidato ad un ente governativo creato ad hoc, la Rubber Reserve Company. A metà del ’43, a circa 18 mesi da Pearl Harbour, la nuova industria della gomma sintetica produceva già un 30–35% in più rispetto ai livelli dell’anteguerra. Quello che però sembra più significativo, agli effetti dell’alimentaione della macchina bellica, è che la produzione globale di gomma ammontava in USA nel ’42 a circa 18.000t quando i Tedeschi sfioravano le 70.000 t; due anni dopo, nel ’44, la produzione americana di GRS, la gomma sintetica governativa (government rubber styrene) si attestò sulle 570.000 mentre in Germania si erano a malapena superate le
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80.000t. Nasce spontanea la domanda: come riuscì l’industria chimica americana ad ottenere questo risultato storico? La spiegazione si riassume in una terna di fattori: la semplificazione dei processi dettata dall’urgenza della realizzazione, la larga disponibilità di materie prime alternative e l’alto grado di efficienza delle industrie ancillari, meccanica, termotecnica, ingegneristica, elettrotecnica ecc. Occorreva in primo luogo provvedere alle materie prime fondamentali, butadiene e stirene. Per il butadiene ci si ispirò al modello russo della deidrogenazione e deidratazione dell’alcol etilico. Le risorse agricole e la grande industria della fermentazione non ponevano limiti alla disponibilità di etanolo. Per migliorare però i rendimenti di trasformazione dell’alcol in butadiene rispetto agli standard sovietici, si preferì adottare il processo Ostromislensky che opera in due tempi: prima l’alcol passa in un reattore a letto fisso, su un catalizzatore al rame, in modo da ottenere all’uscita una miscela alcolaldeide; poi questa miscela passa in un secondo reattore a letto fisso, che impiega come catalizzatore gel di silice con un minimo contenuto di ossido di tantalio. Con impianti di questo tipo l’industria statale produsse nel 1944 circa 400.000 t di butadiene. Altrettanto impegnativa fu la produzione di stirene, idrocarburo che, nell’anteguerra, era una rarità di mercato rappresentata dai 2 milioni di libbre prodotte dalla Dow nel 1940. Ma nel 1944 la produzione di stirene già si attestava sui 350 milioni di libbre. Per la produzione di etilbenzene, che è l’immediato precursore dello stirene, non facevano difetto le materie prime, benzene e etilene, anch’esso ottenuto, come il butadiene, da etanolo. Contribuì allo straordinario sviluppo della produzione di etilbenzene l’innovativo processo di alchilazione in fase vapore (310°C) ad alta pressione (60–65 atm) con catalizzatore costituito da allumina depositata su gel di silice in reattori a letto fisso. Ma la Rubber Reserve Company conquistò il titolo di merito più significativo proprio nella produzione della gomma sintetica, che fece registrare un grande successo sia quantitativo che qualitativo. La collaborazione, in seno all’ente governativo, della Standard Oil (New Jersey) con le maggiori società pneumaticiste consentì di realizzare importanti progressi non solo nei processi di polimerizzazione e vulcanizzazione, ma anche nella progettazione di carcassa e pneumatico, stante la varietà di mezzi militari gommati. La storia registra lo sviluppo delle tecnologie in questo settore e la prontezza delle loro applicazioni tra i contributi dell’industria chimica più determinanti per il successo dello sforzo bellico degli Alleati.
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Anche in Italia l’attività di ricerca applicata per la gomma sintetica si manifestò, in regime di autarchia, prima che gli eventi bellici imponessero l’affrettata costruzione di impianti per la produzione di questo materiale strategico. L’attività di ricerca ebbe infatti inizio già nel 1937, quando venne fondato l’Istituto per lo studio della gomma sintetica, finanziato dallo stato attraverso l’IRI e con il supporto anche di società private. L’attività dell’Istituto si concentrò nel laboratorio di ricerca, inserito nella fabbrica Pirelli di Milano–Bicocca, sotto la direzione del dott. Maximoff, ma fu attribuito alla Pirelli il compito di qualificare la rispondenza dei prodotti alle esigenze della Divisione Pneumatici. La ricerca spaziò sui temi che al momento apparivano più interessanti, dalla sintesi del butadiene a quella dello stirene, dalla polimerizzazione del butadiene con sodio alla copolimerizzazione radicalica di butadiene e stirene. In effetti però il solo processo concretamente messo a punto fu quello della produzione diretta di butadiene da etanolo. Nel 1939, per lo svolgimento dell’attività industriale, fu costituita la SAIGS (Società Anonima Industria Gomma Sintetica), il cui capitale sociale fu sottoscritto in parti uguali dall’IRI e dalla Pirelli. Ne fu nominato presidente il prof. Francesco Giordani, vicepresidente il dott. Alberto Pirelli e direttore generale il dott. Franco Grottanelli, un dirigente chimico proveniente dalla Dinamite Nobel. La SAIGS reclutò una schiera di giovani tecnici, che poi, nel dopoguerra, si sarebbero affermati tra i più qualificati dirigenti dell’industria chimica italiana. Venne subito decisa la costruzione di due stabilimenti a Ferrara e a Mantova. Lo stabilimento di Ferrara, progettato per una capacità effettiva di 8.000t/a di gomma, fu costruito dal 1940 al 1942 e la sua localizzazione, in zona prevalentemente dedita alla bieticultura, fu scelta con il criterio di facilitare il convogliamento in fabbrica dell’etanolo ottenuto per fermentazione alcolica degli zuccheri. Dall’aprile del 1942 all’agosto del 1944 lo stabilimento, diretto dall’ing. M. Natta, produsse complessivamente 13.000 t di gomma sintetica. Il butadiene veniva prodotto da alcool con una resa di 1 kg di butadiene (e vari sottoprodotti) per ca 5 kg di etanolo; lo stirene per alchilazione di benzene con etilene, anch’esso ottenuto dall’alcool. Butadiene e stirene venivano copolimerizzati a caldo secondo il processo della IG Farben e la gomma veniva prodotta in fogli, sempre secondo la tecnologia tedesca. Vale la pena di ricordare che in casa Pirelli le caratteristiche di questa gomma apparvero insoddisfacenti, come del resto erano risultate anche in Germania. I Tedeschi però avevano avuto maggiore dispo-
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nibilità di tempo perché la loro industria manifatturiera potesse attrezzarsi per affrontare e risolvere i problemi posti soprattutto dall’eccessiva durezza del prodotto e dalle difficoltà di vulcanizzazione. La produzione di Ferrara cessò, quando la situazione bellica per l’Italia divenne tanto critica da portare all’esaurimento delle scorte di etanolo. Nel 1941 fu iniziata in Italia anche la costruzione di un secondo stabilimento a Terni, previsto per la produzione di 18.000t/a di gomma sintetica. L’ubicazione venne prescelta in considerazione della vicinanza della grande fabbrica di carburo di calcio di Papigno dell’IRI e della soddisfacente disponibilità in zona di energia, di carbone (lignite del Bastardo) e di mano d’opera. Per la produzione di butadiene a Terni era previsto l’impiego del processo a 4 stadi della IG Farben (utilizzato a Schkopau), mentre il restante ciclo ripeteva quello adottato a Ferrara. Non si riuscì però nemmeno a terminare la costruzione dello stabilimento perché le autorità tedesche di occupazione dopo 1’8 settembre del ’43 asportarono ed inviarono in Germania materiale, macchinario ed apparecchiature non ancora montate. Vedremo successivamente come nel dopoguerra il progetto di dotare il Paese di una grande industria per la produzione di gomme sintetiche sopravviverà alla scomparsa dell’autarchia di guerra. Sull’altro fronte il ruolo dell’industria chimica in Inghilterra si rivela determinante quando i frenetici attacchi dell’aviazione tedesca, per smantellare l’ultimo bastione delle democrazie occidentali, potranno essere contrastati da quegli aerei della RAF che, grazie alla chimica, possono almeno contare sulla migliore benzina avio disponibile in campo alleato. Ma per spiegare in modo organico il contributo dato dall’industria chimica inglese nel corso del conflitto, si deve in primo luogo rilevare che l’attività di maggior rilievo fu quella svolta dall’ICI nel suo duplice ruolo di industria privata e di agenzia governativa al servizio del Ministero della guerra. In verità anche allora l’industria chimica non godeva di buona stampa. Tant’è che quando Hitler salì al potere l’«Evening Standard» pubblicò una vignetta con un gruppo di brutti figuri etichettati con i nomi eccellenti nell’industria degli armamenti: “Krupps”, “Vickers”, “Schneider”, “Skoda”e sullo sfondo un figuro tronfio e soddisfatto, etichettato “Imperial Poison Gas Industries Limited”. Ciò nonostante quando il governo decise, a partire dal 1938, che occorreva disporre di un’industria chimica la cui produzione fosse mirata al rifornimento della macchina bellica, investì l’ICI del compito di costruire gli impianti necessari e di gestirli secondo le direttive e nell’in-
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teresse del Ministero competente. Così l’ICI, nei 7 anni del periodo dal 1938 al 1944, investì come soggetto privato circa 20 milioni di sterline e come agenzia governativa più di 58 milioni. Lo stato riconobbe all’ICI, per questo servizio, una commissione pari all’1% dell’investimento, ma questo compenso durante la guerra fu ridotto allo 0, 5%. Un grosso contributo alle costruzioni aeronautiche della Vickers fu dato dalla Divisione Metalli con la produzione di leghe leggere in forma di nastri stampati, lastre, barre e tubi. Si preferì però concentrare già nel 1938 questa produzione strategica in un nuovo stabilimento, scegliendo un’ubicazione più riparata e l’industria chimica dovette accollarsi anche un’attività manifatturiera provvedendo a rifornire la Vickers di radiatori e serbatoi di carburante per i bombardieri. Un’altra Divisione fortemente impegnata dal programma bellico fu quella dei gas tossici, proprio quella che aveva stimolato l’estro dell’autore della vignetta prima ricordata. Si pensava, secondo la logica militare, di dover disporre di un deterrente che dissuadesse il nemico dall’impiego dei gas asfissianti. Ma non era più tempo di cloro o fosgene prodotti al tempo della Grande Guerra e nemmeno dei lacrimogeni prodotti nel dopoguerra. Solo l’iprite o gas mostarda fu ritenuto dotato di quei requisiti di alta tossicità richiesti per essere accreditato dal nemico come efficace deterrente. Quando però il Ministero ritenne che fosse necessario disporre di una specifica unità dedicata a ricerca, sviluppo, ingegneria e gestione, sia pure nell’ambito di Gruppi già operanti, si decise di farne un reparto inserito nella Divisione coloranti. I delicati processi di chimica organica, ricorrenti nelle produzioni di quel tipo, giustificavano pienamente questa scelta. Così il Ministero della guerra potè disporre, fin dall’inizio del conflitto, non solo del tradizionale lacrimogeno KSK, ma anche di BBC (cianuro di bromobenzile), di DA (difenilcloroarsina) e di DC (difenilcianoarsina). La riluttanza del governo a prevedere effettivamente l’impiego di gas afissianti sembra avvalorata dal fatto che per il DA e il DC ci si limitò a produrre ed immagazzinare solo il loro precursore, l’acido fenilarsinico, così come per l’iprite ci si limitò alla produzione di tioglicole. La versatilità della chimica organica impiegata nell’industria dei coloranti trovò poi ulteriore conferma nella produzione di dimetilanilina, intermedio per alcuni colori all’anilina, destinata alla produzione di Tetryl, miscela di nitroderivati impiegata sia per carica di detonatori sia come esplosivo da lancio. Così pure la Carbamite (dietilfenilurea) fu impiegata come agente stabilizzante per quel potente esplosivo che era la cordite.
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Il settore in cui l’industria chimica ebbe però modo di far meglio valere la sua polivalenza fu quello dei carburanti. E paradossalmente il contributo più importante derivò dall’esperienza acquisita con la gestione di quegli impianti di idrogenazione del carbone, che erano il frutto di un’iniziativa sostanzialmente fallimentare sotto il profilo tecnico–economico. Ma, alla fine degli anni Trenta, pur rilevando che la benzina ottenuta col processo oil from coal era troppo costosa per essere impiegata nell’autotrazione civile, si era dovuto riconoscere che essa era la sola disponibile per dare un’accettabile benzina avio, previo trattamento con piombotetraetile e isottano. Ma gli ingegneri aeronautici avevano bisogno di aumentare ulteriormente il rapporto di compressione dei motori di cui dotare gli apparecchi della RAF, per migliorare il rapporto potenza/peso. E poiché l’aumento del rapporto di compressione è compatibile solo con caratteristiche antidetonanti della benzina ancora più elevate, nel ’39 non si accontentarono più del carburante avio a 87 ottani e pretesero i 100 ottani. Le autorità militari e, naturalmente, il Ministro dell’Aeronautica sollecitarono i ricercatori a soddisfare al più presto l’esigenza dei progettisti, ben conoscendo l’enorme sviluppo che i Tedeschi avevano dato agli impianti di sintesi dei carburanti, con i processi di idrogenazione catalitica della IG. Ma l’Imperial Chemical, a metà del ’39, non poteva più ricorrere al supporto tecnico della IG, nonostante gli accordi preesistenti, perché il clima politico lasciava già presagire il peggio. Né, d’altra parte, si reputava agevole acquisire la collaborazione dei laboratori di ricerca delle grandi compagnie petrolifere, perché queste avevano considerato un’indebita intromissione, nell’area di loro pertinenza, l’iniziativa dell’ICI dell’oil from Coal. E i grossi supporti finanziari statali erano stati interpreti, secondo la logica liberista, come un intervento scorretto, volto ad alterare i delicati equilibri stabiliti dal “club dei potenti”. Fu perciò favorevolmente accolta dall’ICI la proposta di collaborazione dell’amministratore della Shell, Frederick Godber, per risolvere congiuntamente il problema posto dalle necessità tecniche degli ingegneri aeronautici. La Shell però esigeva, con ragione, che il nuovo impianto di idrogenazione catalitica da gestire in comune non fosse ubicato a Billingham, ma in località meno esposta agli attacchi aerei. Per il nuovo insediamento industriale fu perciò scelta Heysham–Lancashire, località costiera, con abbondante disponibilità d’acqua e di energia elettrica, ma soprattutto favorita dagli alti fondali del suo mare. Il progetto prevedeva infatti che per la produzione di 200.000t/a di benzina avio il creosoto, la miscela di fenoli impiegata
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dall’ICI a Billingham, fosse sostituito da gasolio leggero, da importare con navi cisterna. L’impianto di Heysham richiese un investimento di oltre 6 milioni di sterline, ma già nel 1941 comunque si riuscì a disporre di UF6 ottenuto con proprie tecnologie. È appena il caso di rilevare che la piccola differenza di 3 unità tra i pesi atomici dei due isotopi, U238 e U235, si attenua ancor più, in termini di differenziale relativo, quando si confrontano i pesi molecolari dei corrispondenti esafluoruri, 352 e 349 rispettivamente. Tuttavia l’Imperial Chemical, quando nel luglio del ’41 presentò alla commissione presieduta da Thomson un campione di 3 kg di UF6, ritenne di potersi impegnare a costruire un impianto della capacità di 450 kg/g in 18 mesi, con un investimento aggirantesi sulle 100.000 £. Ma c’erano ancora due formidabili ostacoli da superare. Il primo era costituito dalla necessità di produrre una membrana metallica con 25.000 fori per cm2 e con una tolleranza del 10% sulla dimensione media dei fori; il secondo dal problema di alta ingegneria chimica costituito dal pompaggio di un gas altamente corrosivo, nella sequenza di un migliaio di stadi richiesti per raggiungere il necessario livello di arricchimento (all’epoca 3–4% di U235) con un dispendio energetico inconcepibile. Fu affrontato per primo il problema delle membrane e, dopo qualche tentativo fallito, la geniale soluzione fu trovata da M. Chapman direttore del Metals Group’s Kynoch Press, che ottenne un prototipo di “barriera di diffusione” (diffusion barrier) mediante un processo di elettrodeposizione, originariamente concepito per la riproduzione litografica in offset. Ma l’intervento di due scienziati francesi, H. von Halban e L. Kowarski, scappati dalla Francia nel 1940, distolse l’attenzione dell’ICI dalla bomba atomica. In verità i ricercatori dell’ICI non erano mai stati sedotti dall’idea della “bomba” e l’Alta direzione della società non ravvisava in quel progetto alcuna prospettiva di futuro sviluppo industriale, ma l’impegno della società di interpretare correttamente anche il ruolo di agenzia governativa non era venuto mai meno. Quando però i fisici francesi notificarono che, al momento della loro fuga dalla Francia, stavano sviluppando un reattore nucleare, moderato ad acqua pesante, di cui erano riusciti a trafugare l’intera dotazione di 185 kg, gli Inglesi videro dischiudersi un nuovo ed affascinante panorama industriale. Tanto più che gli Americani avevano snobbato le istanze dell’Inghilterra di essere associata a quel progetto USA, che passerà poi alla storia come progetto Manhattan. La tesi, che l’ICI fece propria, affermava la possibilità di contribuire, con l’auspicato successo del progetto Halban, ad una produzione industria-
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le di energia elettrica, economicamente conveniente, utile sia in pace che in guerra. Il Governo e la commissione MAUD trovarono meritevole della massima attenzione la proposta ICI, ma anche la naturale propensione liberale al “privato” non riuscì in questo caso a prevalere sull’istintiva riluttanza dei responsabili ad affidare, in tempo di guerra, ad una società privata lo sviluppo di un progetto strategico, quale ormai appariva, con grande evidenza, la produzione energetica con reattori nucleari. Il compito fu infatti successivamente affidato alla UKAEA (United Kingdom Atomic Energy Authority) al quale, nel dopoguerra, anche l’ENI di Mattei ricorse per le sue iniziative in campo nucleare. È curioso rilevare che proprio nel Paese che, per primo, si era cimentato col problema dell’arricchimento dell’uranio la UKAEA abbia esordito in campo nucleare con reattori ad uranio naturale. Con altri mezzi e ben altra aggressività fu affrontato negli Stati Uniti la realizzazione delle iniziative miranti a rendere disponibile l’UF6 per il processo di arricchimento. Affrontando lo sviluppo delle tecnologie per la produzione del fluoro e dei composti fluorurati, la ricerca e l’industria chimica americana hanno posto una pietra miliare nella storia della chimica inorganica ed organica. La straordinaria reattività di fluoro e fluoruri imponeva la ricerca di nuovi materiali per guarnizioni, sedi di valvole, elementi di pompe, refrigeranti ecc, in grado di resistere all’aggressività delle sostanze da trattare. Il successo della ricerca chimica ed ingegneristica in questo campo ha portato alla produzione industriale del fluoro e dei fluorocarburi. Già prima, in verità, i ricercatori americani avevano cominciato a familiarizzare con i composti organici del fluoro. È infatti del 1930 l’annuncio al congresso dell’American Chemical Society della scoperta di un nuovo fluido refrigerante, il diclorodifluorometano (Freon 12), ad opera di Midgley e Henne della General Motors. Si trattava di un risultato particolarmente brillante perché il Freon 12 eliminava il pericolo dei fluidi allora più frequentemente impiegati negli impianti frigoriferi, cioè la tossicità dell’SO2 e l’infiammabilità dell’etilene. Proprio a questi fini la sua composizione era stata preventivamente studiata “a tavolino”, passando in rassegna le caratteristiche di infiammabilità, tossicità e volatilità degli elementi del sistema periodico. La ricerca era peraltro mirata anche a trovare una soluzione corrispondente alle esigenze della Marina militare che, proprio per ragioni di sicurezza, ammetteva per gli impianti frigoriferi di bordo solo l’impiego di anidride carbonica. In seguito a questa scoperta si ritenne conveniente costituire una società ad hoc, una joint–
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venture GM–DuPont, per la produzione industriale del Freon 12 e dell’acido fluoridrico anidro, all’epoca non ancora disponibile come prodotto industriale di massa. In pochi anni la nuova società mise sul mercato cinque nuovi fluorocarburi, di cui tre derivati dal metano e due dall’etano. Con punti di ebollizione compresi nell’intervallo –41°C +48°C, questi prodotti erano in grado di soddisfare tutte le esigenze degli impianti di refrigerazione e condizionamento; sicché, ancora negli anni Settanta, il loro consumo ammontava ad oltre il 95% della produzione mondiale di fluidi refrigeranti. Nel 1940 tuttavia, nonostante la consistente esperienza acquisita con le iniziative industriali appena richiamate, non solo mancava l’apparato produttivo del fluoro, ma si riteneva anche che le reazioni di quest’alogeno con altri elementi o composti fossero virtualmente incontrollabili. Non facciamo quindi fatica a comprendere come fosse fatale per il governo, nell’intento di disporre pienamente del processo di arricchimento dell’U235 via esafloruro; affidare il compito dello sviluppo alle più qualificate industrie chimiche private. Con una serie di commesse governative furono quindi investite del delicato compito Harshow Chemical, Hooker Electrochemical, DuPont e Union Carbide. Furono così costruiti tre impianti di arricchimento per diffusione gassosa, ciascuno dotato del suo impianto di fluoro. Le celle elettrolitiche per la produzione dell’alogeno venivano alimentate con un elettrolita costituito da sale fuso di cloruro di potassio e acido fluoridrico. Nello sviluppo del processo di diffusione i chimici ebbero poi modo di constatare che gli idrocarburi completamente fluorurati, cioè i fluorocarburi, sono così stabili da sopportare, senza essere attaccati, anche il contatto con quel composto molto aggressivo che è l’UF6 . Questa acquisizione sperimentale avrebbe contribuito nel dopoguerra allo straordinario sviluppo dei polimeri perfluoroplastici. Dal punto di vista ingegneristico è stupefacente la tecnica impiegata per realizzare i setti delle migliaia di membrane in serie, ottenuti per deposizione di gel di politetrafluoroetilene, con fori di diametri dell’ordine dei 100 A°. Saranno naturalmente gli sviluppi innovativi del dopoguerra a valorizzare pienamente il potenziale applicativo dei polimeri derivanti dai fluorocarburi. Ma la prospettiva di potere utilizzare le reazioni di fissione per finalità belliche, aveva già richiamato l’attenzione del mondo scientifico ed imprenditoriale sull’impiego dell’acqua pesante, come si è già ricordato a proposito del reattore nucleare moderato ideato in Francia (von Halban e Kowarski). L’ossido di deuterio (denominazione scien-
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tificamente corretta dell’acqua pesante) era stato scoperto e preparato in laboratorio dagli americani fin dall’inizio degli anni Trenta. Le difficoltà di separazione dell’acqua pesante da quella naturale, derivano dal fatto che in questa il contenuto di deuterio ammonta solo a circa 150 parti per milione. Tuttavia in Norvegia, grazie all’abbondante disponibilità di energia a buon mercato, era stato costruito dalla Norsk Hydro a Vermork, presso Rjukan, già nel 1934 un grosso impianto per la produzione elettrolitica di idrogeno. Con un collegamento delle celle in cascata e con congruenti modifiche impiantistiche fu possibile sfruttare il progressivo arricchimento del bagno elettrolitico in D2O, conseguente all’impoverimento in H2O, causato dalla maggiore velocità verso il catodo degli idrogenioni rispetto ai deuterioni. Attribuendo all’idrogeno il normale consumo della produzione elettrolitica si calcola che per la produzione di 1 grammo di acqua pesante occorressero circa 150 kWh. Sicché quando von Halban e Kowarski trasportarono la dotazione francese di 185 kg di D2 O il valore di quel prodotto ammontava, solo in termini energetici, a circa 28 milioni di kWh. Naturalmente le installazioni della Norsk Hydro, dopo l’invasione tedesca della Norvegia, passarono sotto il controllo della Wehrmacht. Tuttavia la disponibilità di acqua pesante non apportò alcun sostanziale vantaggio alla macchina bellica della Germania. Certamente, per i laboratori fisici di ricerca tedeschi, la ricca dotazione di D2O e quindi anche di deuterio fu una grossa conquista. Ma potenziava un patrimonio scientifico che, nello specifico settore, aveva già una posizione dominante. Dove invece la chimica e l’industria chimica diedero un contributo, che sarebbe potuto diventare decisivo, all’apparato bellico tedesco fu il campo dei propellenti. I Tedeschi, che non avevano inventato i moderni esplosivi da lancio, ma che avevano più d’ogni altro messo a frutto la lezione di Nobel, accarezzavano l’idea di poter sostituire alle bombe lanciate da aerei o da bocche da fuoco a lunga gittata grossi vettori di potenti cariche esplosive, capaci di autopropulsione. Alla progettazione di quest’arma, passata alla storia come V2, diede un grosso contributo il fisico tedesco Wernher von Braun (Wirsitz 23.3.1912 – Alexandria 16.6.1977), che nel dopoguerra avrebbe organizzato il programma spaziale americano. Il problema che i chimici dovevano quindi risolvere era quello dei propellenti. Occorreva perciò individuare miscele di composti chimici capaci di dar luogo ad una reazione chimica esotermica, con sviluppo di gas ad alta velocità, che, convogliati al dispositivo di uscita, assicurassero per un periodo sufficientemente lungo una spinta adeguata al razzo, nel quale era sta-
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ta ricavata la camera di combustione. Lo studio di propellenti solidi, liquidi o ibridi non comportò all’epoca la scoperta di nuovi combustibili o di nuovi ossidanti. Ma tra i fattori che influenzano la propulsione il problema chimico fu approfondito, forse per la prima volta, in tutta la sua complessità. Mentre infatti la portata in peso G (kg/sec di fluido eiettato) non è correlata alla natura chimica dei reagenti, l’impulso specifico, cioè la spinta dovuta ad una portata di valore unitario, è un fattore che evidentemente dipende dalla reazione di combustione. Esso dipende infatti dalla velocità di eiezione dei gas scaricati dall’ugello, velocità che è, a sua volta, funzione dell’energia sviluppata durante il processo chimico della combustione. Ci siamo soffermati sul tema dei propellenti perché, nel dopoguerra, la ricerca di combustibili, comburenti, moderatori e additivi necessari per una loro corretta formulazione diventerà un elemento fondamentale nella conquista dello spazio per finalità scientifiche ed industriali. Per quanto riguarda gli ordigni bellici impiegati dai Tedeschi nella seconda parte del conflitto solo due tipi, contraddistinti dalle sigle V1 e V2, furono effettivamente impiegati. La V1 era in realtà un aereo senza pilota, spinto da un pulsoreattore, con una capacità massima di 1000 kg di esplosivo ed un’autonomia di 200–300 km. La quota di navigazione di 1500 m e la velocità massima di 650 km/h l’esponevano all’intercettazione sia dei caccia che della contraerea. Ne furono comunque lanciati circa seimila sull’Inghilterra. La V2 era invece un missile con testata esplosiva e motore a razzo, con propellente liquido, progettato a Peenemunde dal gruppo di von Braun, già prima della guerra. Velocità e quota di crociera lo sottraevano all’intercettazione, ma per la sua imprecisione i danni provocati dai circa 1.000 esemplari lanciati contro Anversa e Londra furono, almeno in parte, attenuati. Von Braun ne fece poi largo impiego, come razzo vettore, nella prima fase del programma spaziale americano, affidato alla sua regia, quando acquisì la cittadinanza USA. Il combustibile era una miscela di etanolo e metanolo e fu esso a fare purtroppo numerose vittime. Accadde che a Hoechst (Francoforte sul Meno), già occupata dagli Americani, un gruppo di profughi scovasse nella stazione ferroviaria una cisterna abbandonata. Era il 30 aprile del ’45 e i profughi festeggiarono la vigilia della Festa del Lavoro con abbondanti libagioni della micidiale miscela alcolica contenuta nella cisterna (si trattava appunto del propellente liquido della V2), addolcita con lo zucchero scovato in qualche deposito ormai incustodito. Fu una vera strage perché l’indomani più di cento disgraziati morirono tra atroci sofferenze.
Chimica, petrolchimica e raffinazione (1940–1945)
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Tabella 1– Commercial Plants for the Production of Synthetic Liquid Fuels Design Medium-pressure capacity, Catalyst synthesis 1000 ton/yr
Company Country Germany Brabag Gewerkschaft Germany Viktor Germany Ruhrbenzin A.G. Gewerkschaft Rheinpreussen KruppGermany Treibstoffwerke Germany
Germany Wintershall A.G. Germany
Essener Steinkohle Chemischewerke
Harnes Société Kuhlmann HoeschGermany Treibstoffwerke SchaffgotschGermany Werke Japan Mike Japan Takikawa Japan Rumoi Japan Amagasaki France
Manchuria Fushin U.S. South Africa South Africa
Hydrocol Co. Sasol Sasol
Startup, year 1936 1936 1936 1936 1936
Normalpressure Double Fixed Fluid Starting synthesis tube bed bed material Co Fe lignite x x coke, coke gas x x coke x x x coke, colse gas x x
1936 1939 coke 1936 1952 1936 1939 lignite coke, 1936 1938 coke gas 1936 coke 1936 1936 1936 1936 1936 1943 1936 1936 1936
x x
x x x
x x
x x
x
x
coke coke, coke gas coal
1936
coal natural gas
1936
coal
1936
coal
x
x
210 50 30 42 75 47 13 80
50 30 2
x
x
60
x x x x x
x x x x x
60 40 100 50 70
x
x
50
x
x
x
360
x
x
185
x
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Fonte: Kirck–Othmer, Enciclopedia of Chemical Technology, 2d edition, IV, p. 448.
Chimica, petrolchimica e raffinazione negli anni del secondo dopoguerra (1945–1960)
Stupisce, a distanza di mezzo secolo, la rapidità con la quale, dopo la guerra, già all’inizio degli anni Cinquanta, le attività industriali dei paesi vinti, ed in particolare l’industria chimica, abbiano ripreso slancio e vigore, rientrando in competizione con le industrie dei vincitori. Si sarebbe indotti a pensare che la strategia di Francia, Inghilterra, Stati Uniti ed URSS nell’edificare la pace non sia stata quella passionale e punitiva che aveva ispirato i trattati di pace della prima guerra mondiale. Ma questo non è vero, perché la conclusione del conflitto sui vari fronti avvenne sempre a seguito di una resa incondizionata e con le truppe che, subito dopo, smantellavano o disattivavano le industrie che avevano in qualche modo avuto a che fare con la macchina bellica dei paesi vinti. E naturalmente le industrie chimiche tedesca e giapponese erano sfavorevolmente indiziate, mentre a quella italiana avevano già pensato i tedeschi prima che la guerra terminasse. Seguendo gli avvenimenti, nella loro drammatica sequenza, non trova riscontro una presunta magnanimità dei vincitori. Lo sbarco in Sicilia di americani ed inglesi, il 9 luglio 1943, e la caduta di Mussolini il 25 dello stesso mese, portò l’Italia a firmare l’armistizio dell’8 settembre successivo e ad unirsi agli Alleati nella guerra contro Hitler. L’industria chimica italiana non trasse alcun beneficio da questa situazione perché, quando terminò la guerra nel resto dell’Europa, le truppe angloamericane stavano ancora combattendo in Italia. Per la Germania le condizioni finali dell’apparato industriale risultarono ancora più tragiche. Dopo lo sbarco alleato in Normandia del 6 giugno 1944 e la liberazione di Parigi il successivo 15 agosto la guerra si sarebbe protratta ancora per parecchi mesi. Solo il 24 aprile 1945 le truppe russe raggiungono i sobborghi di Berlino, anticipando di poco l’arrivo delle truppe alleate, e iniziano la sistematica conquista della città. Con il suicidio di Hitler nel suo bunker il 30 aprile e la resa senza condizioni della Germania il 7 maggio la guerra in Europa è finalmente conclusa. Il processo di Norimberga, la divisione in due della Germania, il saccheggio del patrimonio tecnico e scientifico, l’estromissione dalle industrie e dagli uffici pubblici di tutti i tecnici, dirigenti e funzionari, in possesso di una tessera del partito nazista ri179
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lasciata prima del 1933, videro impegnati alleati e sovietici con pari inflessibilità. Sul fronte del Pacifico l’iter di avvicinamento della marina e dell’esercito americani, con i 20.000 marines morti a Iwo Jima e altri 50.000 a Okinawa, fu più sanguinoso del previsto. Così Truman, divenuto presidente, dopo la repentina morte di Roosevelt, fu indotto a consentire ai disumani metodi della “guerra totale”. Il 9 marzo del 45 furono devastati con bombe incendiarie 40 kmq del distretto di Tokio e uccisi 83.000 cittadini inermi. Il 6 agosto successivo fu sganciata la prima bomba atomica su Hiroshima, causando la morte immediata di 80.000 abitanti e destinandone innumerevoli altri alle tragiche conseguenze dell’irradiazione. Tre giorni dopo una seconda bomba atomica su Nagasaki provocò altri 35.000 morti, completando l’ecatombe. Alla fine anche il Giappone il 2 settembre del ’45 firmò, sulla nave americana Missouri, nella baia di Tokio, la resa che lo metteva alla mercé del vincitore, salvaguardando solo il trono del Mikado. Ma provvidero Russi e Cinesi a far cambiare rapidamente atteggiamento agli Americani: l’URSS insediando governi subalterni nei Paesi per i quali Stalin a Yalta s’era impegnato a consentire lo svolgimento di elezioni democratiche, Mao Tse Tung sconfiggendo l’esercito nazionalista sul quale Truman aveva puntato, quando aveva fatto concedere alla Cina lo status di grande potenza (e uno dei cinque seggi del Consiglio di sicurezza dell’ONU) e costringendo il generale Chiang Kaishek a riparare nell’isola di Formosa con i resti del suo esercito, non più in grado di opporre resistenza sulla terraferma. In Europa già nel ’46 i contrasti tra l’Unione Sovietica e gli Alleati occidentali avevano provocato la ripresa di molte attività industriali tedesche ed in particolare di quelle chimiche. Lo spunto era stato fornito dai dissidi sorti in relazione all’applicazione degli accordi di Potsdam per l’amministrazione delle zone occupate. Si era convenuto che la Germania, pur divisa in quattro zone, dovesse essere amministrata come un’unica entità economica. Ma, poiché i Russi in contrasto con l’accordo, trattenevano le derrate alimentari raccolte nella loro zona, gli americani si rifecero, bloccando lo smantellamento degli impianti industriali delle zone di occupazione anglo–franco–americana. Veniva così vanificata una delle clausole previste come forma di riparazione a favore dell’Unione Sovietica. Anzi gli impianti che favorivano l’autosufficienza del settore occidentale furono addirittura rimessi in funzione. Anche il nostro Paese costituì un pomo di discordia. A fronte delle pressioni occidentali per riservare all’Italia un trattamento generoso si
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registrò l’insistenza sovietica per una pace punitiva. Infine l’Italia rientrò nel sistema occidentale, ma le nazioni confinanti con la Russia, che avevano combattuto per l’Asse, furono abbandonate all’egemonia sovietica. Le sorti dell’industria europea ed il suo sorprendente rifiorire dopo tante devastazioni, furono in quella fase largamente favorite dal piano Marshall. Il generale Gorge C. Marshall (Uniontown 31.12.1880– Washington 16.10.1959, premio Nobel per la pace nel 1953) era subentrato a Byrnes come segretario di stato del presidente Truman. Fu nel giugno del ’47 che Marshall annunciò la disponibilità degli USA a sostenere un programma unitario di ripresa dell’Europa. La storia registra che l’offerta di Marshall fu accolta con prontezza dall’Europa occidentale e respinta dall’URSS e dai satelliti come una manifestazione di imperialismo. In verità il piano Marshall era osteggiato anche in USA da vari settori del congresso. Ma l’opposizione durò poco. Il colpo di stato comunista del 1948 in Cecoslovacchia e il timore che anche in Italia le elezioni potessero portare i comunisti al potere, diedero il colpo di grazia. Così il 3 aprile 1948 il Congresso americano approvò l’Economic Cooperation Act, che con uno stanziamento iniziale di 5,3 miliardi di dollari consentiva di avviare l’attuazione del piano Marshall. Con ulteriori finanziamenti lo stanziamento totale fu portato a 13,2 miliardi di dollari. Senza questa lunga premessa storica si farebbe fatica a comprendere la sequenza degli avvenimenti che contrassegnarono il tormentato iter di rinascita dell’industria chimica in Europa, a cominciare da quella tedesca. Il cuore della chimica tedesca era stato in quegli anni la IG Farben, fondata nel 1926. Già nel novembre del ’45 le potenze occupanti ne avevano requisito gli stabilimenti, decretando la confisca e il controllo patrimoniale del Gruppo chimico. Il dispositivo di attuazione prevedeva la distruzione degli impianti già utilizzati per scopi bellici e la destinazione degli altri a riparazione dei danni di guerra. Si imponeva infine il controllo alleato sulle ricerche e sulla programmazione industriale IG. I servizi segreti britannico ed americano si attivarono, più e meglio degli altri, per redigere rapporti molto dettagliati sui processi impiegati nei vari settori dall’industria chimica tedesca. I BIOS (redatti a cura dell’Intelligence britannica) e i FIAT redatti a cura dell’FBI) divennero negli anni successivi normali documenti di consultazione per gli operatori chimici europei impegnati in problemi di progettazione. Ma questa situazione di vincoli vessatori era destinata a cambiare
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in pochi anni, in parallelo con la normalizzazione della situazione tedesca. Nel giugno del ’48 si realizzava in Germania la sospirata riforma monetaria, con il ritiro della deprezzata moneta in circolazione e la sua sostituzione con le 500 tonnellate di carta moneta stampata in America e Inghilterra. Tutti i cittadini furono parificati con una compensazione di 60 marchi, corrisposta in due rate di 40 e 20 marchi (salvo i libretti di risparmio compensati con un controvalore pari al 6,5% della somma depositata). L’amarezza della penalizzazione fu prontamente ripagata dalla ritrovata fiducia nel risparmio e dall’immediato affluire delle merci nei negozi. La normalizzazione tedesca fu perfezionata nel 1949, quando l’Europa prese atto della nascita della Repubblica Federale Tedesca e della democratica elezione del primo Parlamento Federale. Per l’industria chimica, il processo di normalizzazione iniziò nel 1950, quando la Commissione alleata decise che la IG fosse smembrata e le sue attività riassemblate in tre nuove aziende: BASF, gruppo Bayer e gruppo del Meno. Se la decisione fu ispirata dal timore che una rinata IG potesse riassumere il ruolo di gruppo dominante sulla scena dell’industria chimica mondiale, gli sviluppi degli anni successivi costrinsero tutti a prendere atto che con la cancellazione della IG la chimica tedesca non aveva dissipato nulla del proprio patrimonio genetico. Tra la fine del ’51 e l’inizio del ’52 furono chiaramente definite le personalità giuridiche dei tre gruppi come società per azioni, con il limitato capitale sociale di 100.000 marchi ciascuna. Nell’ordine il 7 dicembre 1951 fu fondata la Farbwerke Hoechst AG, il 19 dicembre 1951 la Farbenfabriken Bayer AG ed infine il 30 gennaio 1952 la Badische Anilin&Soda Fabrik AG. Così poi il mondo economico si sarebbe familiarizzato con queste sigle trovandole costantemente inserite nei top five dell’industria chimica mondiale. Qualcosa di analogo a quanto si era verificato in Germania avvenne in Estremo Oriente, quando il fallimento della politica statunitense in Cina determinò un capovolgimento dei sentimenti americani verso il Giappone. Su quel fronte l’esercito americano, guidato dal generale MacArthur, aveva imposto al Giappone il rango di potenza di secondo piano. La nuova costituzione democratica dell’ex Impero del Sol Levante, con la rinuncia formale alla guerra, sottrasse la politica all’imperio dei generali e trasformò il Mikado in monarca costituzionale. Ma quando i timori derivanti dalla politica della Cina rossa di Mao si tradussero nella drammatica necessità di far fronte, in un nuovo conflitto, all’invasione nordcoreana del 1950, si corse prontamente ai ripari. Quindi nel 1951 gli USA firmarono finalmente il trattato di pace
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con il Giappone, ottenendo la concessione di basi militari, senza tener conto delle aspre obiezioni sovietiche. Così, dopo soli sei anni dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti trasformarono anche il Giappone, come avevano fatto con la Germania, da nemico conquistato in alleato di rango. Il mutato atteggiamento americano fu determinante per la rinascita dell’industria chimica giapponese. Durante i primi anni dell’occupazione militare le autorità statunitensi non solo avevano imposto che l’ordinamento giapponese recepisse i principi fondamentali della legislazione antitrust, ma avevano anche provveduto a smantellare gli zaibatsu o zaikai, cioè quelle potenti concentrazioni finanziarie che, facendo capo alle grandi famiglie (Mitsubishi, Mitsui, Sumitomo ed altre), dominavano fin dall’Ottocento la vita politica, economica e industriale del Giappone. Furono proprio questi grandi gruppi che, riaccorpati e riorganizzati, provvederanno allo sviluppo di un’industria chimica moderna e molto diversificata. E se oggi il Giappone partecipa con un’aliquota del 10% al prodotto lordo mondiale, un contributo significativo a questo straordinario risultato va attribuito all’industria chimica. Nella riorganizzazione dei grandi gruppi, verificatasi tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, non furono rispettate le gerarchie preesistenti. Così Sumitomo, pur rimanendo in una posizione di grande prestigio, si vide sopravanzare dalla Mitsubishi, che occupa tuttora la posizione di leader nipponico in campo finanziario ed industriale. Vale la pena rilevare, in una rapida carrellata, i fatti essenziali del nuovo corso postbellico di Mitsubishi, Mitsui e Sumitomo. La Mitsubishi (traduzione del nome: tre diamanti, dallo stemma araldico di famiglia) trae origine dalla Tsukumo–Shokai, fondata da Yataro Iwasaki nel 1870. Quando rinasce dalle proprie ceneri, nel dopoguerra, si ripropone nella tradizionale articolazione di gruppo bancario, commerciale, industriale e di servizi. Nel settore industriale una posizione di rilievo è riservata alla chimica (Mitsui Kasei, M. Petrochemical, M. Gas Chemical, M. Plastics Industries, Dai Nippon Toryo), ma nel nuovo corso diventano comparti fondamentali quelli della petrolchimica, delle materie plastiche e della chimica fine. Anche il gruppo Sumitomo, che nell’anteguerra era in posizione dominante nell’industria chimica e mineraria, dopo la parentesi dell’occupazione militare riprese la sua fisionomia di conglomerato, impegnato nei più vari settori. In quello chimico la Sumitomo acquisì una posizione di leadership sia con la S. Chemicals e la S. Bakelite,
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controllate direttamente, sia con la Asahi Chemical Industry, controllata indirettamente, grazie alle connessioni finanziarie della Asahi con la Sumitomo Bank. Fin dall’impostazione iniziale la strategia d’intervento nel settore chimico privilegiò i comparti dell’agricoltura (fertilizzanti e fitofarmaci), della nutrizione (additivi e specialties) e della farmaceutica. Il gruppo Mitsui è forse quello di origini più antiche, perché la storia giapponese registra la fondazione di una Casa commerciale Mitsui nel 1683 e quella di una banca Mitsui nel 1876. Anche questo gruppo, azzerato dopo le vicende belliche, fu ricostituito a cavallo del 1950. Il settore chimico, che fa capo alla Mitsui Chemicals, ha gradualmente assunto il controllo e il coordinamento di un imponente gruppo di industrie chimiche: Toatsu Chemicals, Petrochemical Industries, Toagosei Chemical Industry, Denki Kagaku Kogyo, Daicel Chemical Industries, Mitsui Pharmaceuticals, Mitsui Toatsu Fertilizers e Mitsui Toatsu Dyes. Negli anni Cinquanta però l’impegno della Mitsui era ancora prevalentemente rivolto allo sviluppo dell’industria dei fertilizzanti, della petrolchimica e delle fibre sintetiche. Le attività di Mitsubishi, Sumitomo e Mitsui, nel settore di nostro interesse, non esauriscono la grande varietà di produzioni chimiche presenti in Giappone, ma forniscono un quadro sufficientemente rappresentativo dell’articolazione di quell’industria chimica nei vari settori merceologici. Nei prossimi capitoli si avrà modo di mettere a confronto, in modo più analitico, lo sviluppo dell’industria chimica giapponese con quelle europea e nordamericana. Ma anche in questa fase iniziale dello straordinario sviluppo dell’industria chimica giapponese, occorre sottolineare il contributo dato alla sua attuazione dall’innovativa politica industriale ideata ed interpretata dal competente Ministero dell’Industria e del Commercio, internazionalmente noto come MITI (Ministry of International Trade and lndustry). Per comprendere la ratio di questa politica è utile richiamare la sequenza dei fatti. Prima, in Giappone, nell’immediato dopoguerra, con la legge antitrust del 1947, si volle promuovere la concorrenza, prevenendo la formazione di cartelli e la pratica di accordi anticompetitivi. Poi, con la legge del ’49 sul Controllo dei Cambi e del Commercio estero, si subordinò l’importazione di tecnologie straniere all’approvazione governativa. Fu questo provvedimento, dettato dalla penuria di risorse finanziarie, a determinare una crescente attenzione ai problemi dell’innovazione e della ricerca. Il MITI fu interprete esemplare delle esigenze che il nuovo corso faceva emergere in campo industriale e
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nel settore chimico in particolare. In un quadro rappresentativo della struttura del MITI abbastanza recente nell’organico del Ministero figurano 3.000 ricercatori, ma per approfondire l’argomento è fondamentale lo studio che la Bocconi ha dedicato allo sviluppo economico del Giappone e al ruolo del MITI. Anche in Italia, nel dopoguerra, la ripresa dell’attività industriale fu sollecita e consistente. Nei settori chimico e petrolifero entrarono in scena nuovi protagonisti, che si affiancarono con successo a quelli tradizionali. Così, nel comparto chimico, alla ripresa dell’attività della Montecatini fecero riscontro le iniziative della SISAS a Pioltello (Milano), della Sicedison a Marghera e dell’ANIC a Ravenna. In campo petrolifero si registrarono la ripresa dell’attività delle raffineria di Bari e Livorno, prima dell’ANIC e poi gestite dalla STANIC (joint–venture 50/50 dell’ANIC e della ESSO), e quella della raffineria di Napoli della Mobil. Ma anche gli imprenditori nazionali intuirono che il settore energetico era quello che presentava le maggiori capacità di sviluppo. Così sorsero molte nuove raffinerie: quella di Moratti in Sicilia, quella dell’API (Peretti) a Falconara (Ancona), quella della SAROM (Monti) a Ravenna e quella di Garrone a Genova. Ma gli avvenimenti dì gran lunga più importanti, in questa rivoluzione industriale del dopoguerra italiano, sono l’entrata in scena di Enrico Mattei e la nascita dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). Le vicende di Mattei sono ben note e la documentazione cinematografica e giornalistica sulla sua storia è molto ricca. Basta perciò ricordare che egli era un piccolo imprenditore chimico nel settore degli ausiliari per conceria quando, imprigionato nel ’44 a Milano per errore (a causa dell’omonimia con un noto giornalista antifascista), riuscì avventurosamente ad evadere dal carcere di San Vittore, diventando, con Cadorna, Longo e Parri, uno dei mitici Comandanti della nostra Resistenza. Deputato democristiano (1948–1953) fu nominato Commissario straordinario dell’Agip per procedere alla liquidazione dell’azienda. Interpretando con felice intuizione le informazioni ricevute si convinse invece che occorreva proseguire con maggiore impegno la ricerca di idrocarburi nella valle padana. Utilizzando sapientemente tutto il suo prestigio e il suo acume imprenditoriale, riuscì a convincere il Governo, presieduto da Alcide De Gasperi, che per risolvere il problema energetico nazionale, occorreva creare un ente ad hoc. Fu così decisa, nel 1953, la costituzione dell’Ente Nazionale Idrocarburi, nel quale confluirono le attività dell’ANIC e dell’AGIP, conferendo naturalmente a Mattei il compito di presiederlo. Nonostante la limitata
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disponibilità di idrocarburi liquidi e gassosi, Mattei ritenne coerente con i suoi obiettivi strategici praticare una politica di prezzi bassi, a cominciare da quello del metano che, aggirandosi sulle 5–6 L/mc, risultava all’epoca solo un po’ più elevato di quello texano. Nacquero così gli impianti di acetilene di Pioltello della SISAS, di Porto Marghera della Edison e di Ravenna dell’ANIC e l’Italia divenne leader mondiale della produzione di acetilene da metano. Ma fu innovativo anche l’impiego di metano per la produzione di energia termoelettrica, adottato per la centrale STEI di Tavazzano (Lodi) e per quella dello stabilimento chimico di Ravenna. L’innovazione era, in questo caso, riferita ai criteri conservatori prevalenti in USA, dove l’alimentazione a metano delle grosse caldaie era considerata con preoccupata riluttanza. Facciamo peraltro fatica a comprendere quest’eccesso di prudenza in un mondo imprenditoriale capace di adottare con disinvoltura l’impiego del nucleare nelle grosse centrali per la produzione energetica. Ma del resto Mattei non esitò nemmeno a cimentarsi col nucleare, decidendo di costruire a Latina una centrale ad uranio naturale, secondo il processo dell’ente atomico inglese (UKAEA). Fu tuttavia proprio nel settore petrolchimico che l’istinto imprenditoriale di Mattei ebbe modo di farsi valere, quando percepì le implicazioni strategiche dell’ingresso dell’ANIC nella produzione industriale delle gomme sintetiche. Questa scelta comportava infatti il privilegio e il rischio di inserirsi in una élite di produttori al servizio di una élite di industrie manifatturiere. Così nacque in Italia, con tecnologia USA, il primo impianto europeo di copolimerizzazione “a freddo” del butadiene con lo stirene. Ma il Presidente dell’ENI avvertiva la debolezza di un’industria chimica che doveva prevalentemente fare ricorso a tecnologie importate dall’estero, soprattutto quando il detentore dei brevetti permaneva nella sua posizione di produttore concorrente. Volle perciò che l’ENI si dotasse di un centro di ricerche, al quale potessero fare riferimento, per arricchire il proprio patrimonio tecnologico, società come l’ANIC e l’AGIP , più delle altre premute da esigenze di innovazione di processo e di prodotto. Naturalmente la politica dei prezzi bassi, inevitabile per un newcomer alla conquista del mercato, praticata sia per i fertilizzanti che per la benzina, fu vista come elemento di rottura e procurò a Mattei nemici in Italia e all’estero. Ma in realtà Mattei aveva, come pochi altri, una straordinaria sensibilità per il mercato e, in maniera accentuata, per i mercati internazionali. Prova ne sia la “rivoluzione”, tale almeno sembrò all’epoca rappresentata dall’aper-
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tura nei confronti dell’URSS e della Cina di Mao, con la vendita di massicci quantitativi di gomme sintetiche e fertilizzanti a quei Paesi che, fino a quel momento, erano stati esclusi dai circuito del commercio internazionale dei paesi industrializzati. Che poi i critici più severi siano diventati anche gli imitatori più diligenti del sistema commerciale “rivoluzionario”, vale solo a confermare la superficialità dì quelle strumentali censure. Le numerose raffinerie che Mattei realizzò all’estero, in Africa e in Europa, (Svizzera e Baviera), affidando all’ANIC la responsabilità esecutiva, testimoniano la sua vocazione all’internazionalizzazione espressa in un’articolata presenza industriale all’estero dell’ENI. Ma mentre l’opera di Mattei richiamava l’attenzione dei grandi operatori dei mondo petrolifero sui mutamenti in atto nel nostro Paese, l’interesse del mondo scientifico e industriale si appuntava sugli straordinari risultati ottenuti nella polimerizzazione stereospecifica degli alti polimeri dal prof. Giulio Natta (Imperia 26.2.1903–Bergamo 2.5.1979). In realtà già nel 1954 in Germania Karl Ziegler era riuscito a produrre, con un processo di polimerizzazione a bassa pressione, un polietilene prevalentemente lineare, ad alto punto di fusione ed elevata cristallinità, ma non era riuscito a valorizzare industrialmente la scoperta. Natta invece, con geniale intuizione, modificando il catalizzatore Ziegler, ampliò in maniera straordinaria la valenza del processo di polimerizzazione, conferendo al nuovo sistema catalitico la capacità di determinare la polimerizzazione stereo–specifica di propilene, stirene ed alfa–olefine in polimeri lineari, ad alto peso molecolare, elevata cristallinità ed ottima resistenza meccanica. Il premio Nobel per la chimica, attribuito qualche anno dopo, nel 1963, alla coppia Ziegler– Natta, fu il riconoscimento della straordinaria valenza del nuovo sistema catalitico nel “disciplinare” la concatenazione molecolare in un ordine spaziale, che conferiva ai nuovi polimeri caratteristiche imprevedibili all’epoca dei polimeri ramificati o non regolati. Tant’è che soprattutto a Natta va riconosciuto il merito di avere poi consentito la progettazione di polimeri da impiegare in campi diversi da quelli tradizionali delle materie plastiche, come si è effettivamente verificato con le fibre polipropileniche e con le gomme etilene propilene. Ma la straordinaria ripresa dell’economia e dell’industria nel nostro Paese, che farà poi parlare del miracolo italiano, non si esaurisce nel pur rilevante contributo ricevuto dall’opera di Mattei e Natta. Si deve almeno ricordare l’opera di Oscar Sinigaglia (Roma 31.10.1877– ivi 30.6.1953) artefice della ricostruzione e del rinnovamento dell’in-
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dustria siderurgica nazionale e, nell’ambito più direttamente correlato alla chimica, i processi innovativi di Fauser per la produzione di acetilene e per quella di ammoniaca e metanolo a bassa pressione ed ancora la memorabile affermazione di Oronzo De Nora che con le sue celle cloro–soda farà conoscere la capacità della tecnologia elettrochimica italiana in tutto il mondo. Negli anni Sessanta cominciano finalmente ad affermarsi, anche a livello internazionale, le nostre società di ingegneria, che diventano indispensabile strumento di competizione per conquistare una fetta del colossale mercato costituito dagli impianti chimici, petrolchimici e petroliferi, dove più accanita è la lotta con i colossi americani, tedeschi e giapponesi. Purtroppo la vivacità delle iniziative imprenditoriali e la laboriosità e l’impegno di gran parte degli operatori del settore saranno in buona parte frustrati dalla mancanza di una visione strategica di sviluppo. Lo sviluppo quantitativo prevale su quello qualitativo, privilegiando produzioni a basso valore aggiunto, la cultura accademica non si fonde e nemmeno si salda con quella industriale. La ricerca deve i suoi sporadici successi alla capacità dei singoli e non a metodi o politiche industriali che considerino l’innovazione — e quindi la ricerca — fattori trainanti di uno sviluppo industriale mirato alle produzioni di più alta tecnologia e non a quelle destinate ad occupare spazi di mercato trascurati dagli operatori più avveduti perché poco remunerativi. È tempo ora di spostare la nostra attenzione dall’Italia ad una scoperta degli anni Sessanta, che la biochimica ha registrato come una svolta storica della sua capacità di interpretare le strutture organiche dei mattoni costitutivi della materia vivente, cioè delle cellule. Risale al 1953 la scoperta ad opera di F. H. C. Crick, J. D. Watson e M. H. F. Wilkins della struttura a doppia elica del DNA e del sistema di replicazione del materiale ereditario negli organismi viventi. Questa scoperta valse ai tre scienziati l’aggiudicazione del premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1962. L’avvenimento merita una citazione anche in una storia dedicata alle attività industriali perché l’ingegneria genetica, di cui quella scoperta è il fondamento, diventerà essenziale elemento di sviluppo nelle industrie della salute, dell’alimentazione, delle produzioni agroalimentari e delle attività di tutela ambientale, per limitarci agli esempi più ricorrenti. Ma questa scoperta fondamentale è da attribuire non solo alla genialità dei tre scienziati, ma, in misura significativa, anche ai grandi progressi che la ricerca fondamentale e quella applicata registrano nel periodo in esame, forse perché, secondo alcuni studiosi, le
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eccezionali esigenze del periodo bellico hanno costretto, e poi abituato, chimici e fisici a lavorare a stretto contatto di gomiti. Per dare un’idea della “nuova chimica” basterà accennare a reazioni e metodi che arricchiscono la dotazione di strumenti a disposizione dei laboratori della grande industria. La chimica degli atomi caldi e quella delle alte velocità, delle alte temperature e dei radicali liberi, danno al capitolo delle nuove reazioni una gamma di scelte che saranno messe a frutto anche in processi industriali. A loro volta i nuovi metodi come l’ultramicrochimica, l’analisi chimica con l’infrarosso, la chelazione e lo scambio ionico costituiscono non solo innovativi mezzi di indagine, ma anche processi suscettibili di originali applicazioni pratiche. In particolare la chelazione, è la proprietà di alcune molecole di catturare o, meglio, di sequestrare ioni metallici, grazie alle caratteristiche chimiche della loro struttura, dotata di corte braccia, che bloccano, all’interno della molecola, come le cheli d’un ragno, ioni di calcio, ferro, magnesio e simili. In natura così funzionano l’emoglobina del sangue e la clorofilla delle piante. Nell’industria all’epoca ebbe grande successo l’EDTA (acido etilendiamminotetracetico) con applicazioni sia nel settore della detergenza sia in campo alimentare, dove spesso la presenza di ioni metallici, anche in tracce, deve essere disattivata per inibirne l’azione catalitica nei processi di irrancidimento e in quelli di deperimento dei vegetali verdi o di attacco delle vitamine. Agenti chelanti naturali e/o sintetici molto noti sono gli acidi citrico, lattico, malico e tartarico e gli acidi umici. Un’altra rivoluzionaria scoperta di quegli anni fu lo scambio ionico o meglio quella delle resine scambiatrici di ioni. Ci si limita qui a ricordare che, oltre all’imponente applicazione nell’addolcimento delle acque, queste resine hanno mostrato la loro versatilità prestandosi anche a fungere da catalizzatori in alcune sintesi organiche. All’epoca esse ebbero anche il merito di consentire la separazione di alcune terre rare, di cui però solo successivamente si sarebbero valorizzate le possibilità d’impiego in campo industriale. Nella nuova chimica di quegli anni i prodotti, cui furono attribuite le caratteristiche più innovative, sono probabilmente i siliconi e gli idrocarburi fluorurati. Per i primi la versatilità del prodotto trova riscontro nel fatto che, concepiti come legante per le fibre di vetro o come sostituto della mica in applicazioni elettrotecniche, hanno poi trovato impiego perfino nella chirurgia estetica per rimodellare le curve delle pazienti invidiose della Venere di Milo. Per il fluoro e i composti fluorurati il capitolo precedente ha già
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provveduto ad illustrare come l’economia di guerra, con le pressanti esigenze imposte dalla tecnologia di arricchimento dell’U235 via esafluoruro, abbia contribuito concretamente allo sviluppo del settore industriale ad esse collegato. Ma nel dopoguerra l’interesse dell’industria chimica si concentra sugli idrocarburi fluorurati, di cui vengono progressivamente alla luce, in maniera forse inattesa, le straordinarie qualità di inerzia chimica. Il fluoro è infatti l’elemento più elettro– negativo che si conosca e, insieme, il gas più reattivo, capace di bruciare legno, carta, tessuti et similia a temperatura ambiente e di reagire perfino con vetro e porcellana. Sostituendo negli idrocarburi l’idrogeno col fluoro non si ottengono però composti molto reattivi, come un tempo erroneamente si supponeva, ma, al contrario, composti dotati di grande inerzia chimica, grazie ai solidissimi legami che si formano tra il carbonio elettropositivo e il fluoro estremamente elettronegativo. Poiché gli idrocarburi fluorurati non bruciano, non si corrodono e non si decompongono, è naturale che negli Stati Uniti, dove in tempo di guerra si era consolidata e articolata una produzione di derivati fluorurati come filiazione dei Freon DuPont d’anteguerra, se ne sia intuita la polivalenza in un mercato sempre alla ricerca di nuovi prodotti. L’industria si affrettò infatti a progettarne impieghi innovativi per preparare vernici, lubrificanti, resine, elastomeri, oli, solventi e altri ausiliari capaci di sfidare il fuoco e l’attacco dei microrganismi. Tuttavia all’epoca i progressi della tecnica di polimerizzazione realizzati con tanti monomeri non si erano ancora estesi ai fluorocarburi. Bisognerà perciò attendere ancora qualche tempo per sfruttare le proprietà elettriche dei polifluorocarburi, capaci di straordinarie prestazioni nel campo dell’isolamento. Basta ricordare che, oltre alla grande resistenza al passaggio della corrente, essi mostrano il pregio di sopportare megavoltaggi senza perforarsi e denotano minime perdite dielettriche alle alte frequenze, assorbendo quindi poca energia dai campi elettrici oscillanti. Fu certamente questo il motivo che indusse l’industria americana, già negli anni Sessanta, ad estenderne l’uso come isolanti solidi per i cavi TV e per gli avvolgimenti di motori e generatori, come isolanti liquidi nei trasformatori e condensatori, e come dielettrici gassosi nei tubi ad alta tensione. Sarà comunque lo sviluppo delle tecnologie per la produzione di acido fluoridrico e fluoro, indotto dalla crescente richiesta dell’industria energetica per l’arricchimento dell’uranio (U235) col metodo della diffusione dell’esafluoruro, a rendere disponibile un’adeguata e conveniente produzione di queste materie
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prime strategiche. Così anche il Teflon, il polifluorocarburo che la DuPont studiava da anni, si renderà familiare ai consumatori, facendo la sua massiccia comparsa in un mercato che lo introdurrà nelle nostre case come rivestimento dei tegami di impiego quotidiano. Ma non sarà questo il solo comparto dell’industria chimica ad essere fortemente attivato dalle iniziative precedentemente promosse dalle esigenze della macchina bellica. Nel caso degli elastomeri, in particolare per le gomme sintetiche destinate alla confezione di pneumatici, la derivazione della nuova attività industriale dalle iniziative sorte nel periodo bellico è ancora più diretta. In USA infatti, col passaggio dall’economia di guerra a quella di mercato, si verificò addirittura la cessione degli impianti governativi (pubblici) all’industria privata. L’operazione avvenne nel decennio tra il 1946 e il 1955, con la vendita degli impianti a varie grosse società quali Esso, Phillips, Union Carbide, Goodyear, Monsanto, Dow, Koppers ed altre. Il Disposal Act, cioè il provvedimento legislativo, non mancò tuttavia di prevedere che il Department of Justice esercitasse il suo controllo per dieci anni sulle attività delle società acquirenti, per assicurare il principio della libera concorrenza e la tutela delle società minori. Sarà interessante seguire successivamente gli straordinari sviluppi, di cui l’industria della gomma sintetica sarà protagonista, negli anni Sessanta e Settanta in tutto il mondo occidentale. Nel corso degli anni Cinquanta lo sviluppo dell’industria nucleare e quello della produzione automobilistica eserciteranno una crescente influenza anche sulla raffinazione petrolifera. Nella scelta dei processi di lavorazione del grezzo si deve infatti tener conto che, in termini relativi, diminuisce il consumo di olio combustibile, destinato alle centrali termoelettriche, ed aumenta quello di benzina destinata all’autotrazione. Il fenomeno è più accentuato nel Nordamerica dove anche i motori dei mezzi pesanti sono alimentati a benzina. I processi di lavorazione del grezzo devono adeguarsi al nuovo corso e negli Stati Uniti, facendo ricorso ai processi di cracking e di reforming, termici e catalitici, ed a quelli di isomerizzazione ed alchilazione, si progettano e si realizzano nuove raffinerie per alleggerire il barile e in qualche caso si adottano schemi di lavorazione che comportano addirittura l’eliminazione totale della produzione di olio combustibile e gasolio. Così la frazione petrolifera più leggera, la c.d. virgin naphta, diventa materia prima di interesse strategico non solo per l’alimentazione degli impianti di cracking degli stabilimenti petrolchimici, per la produzione di olefine ed aromatici, ma anche per la produzione di carburanti.
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Quest’orientamento si ripercuote naturalmente anche sul mercato dei grezzi, che deve privilegiare con quotazioni più elevate il prodotto più leggero, cioè il grezzo di densità relativa sotto i 30 gradi API. Il tumultuoso sviluppo industriale del mondo occidentale negli anni Cinquanta, ed in misura più accentuata quello delle produzioni chimiche ed energetiche, suscitano, almeno in una parte consistente dell’opinione pubblica e del mondo politico, una reazione critica. Matura infatti la convinzione che il consumismo imperante sia da attribuire ad un mercato drogato dalla legge dell’usa e getta senza alcun riguardo per l’impatto ambientale. Da una severa posizione critica prendono così le mosse scuole di pensiero che ritengono di dovere assumere come prioritari gli obiettivi di una strategia mirata a privilegiare la salvaguardia ecologica ed a fissare, anche in termini di politica industriale, i “limiti dello sviluppo”. Questa critica non riesce peraltro a frenare lo sviluppo, con tassi di crescita molto elevati, delle produzioni e dei consumi delle principali materie plastiche (polistirene, polietilene e cloruro di polivinile), ma trova maggiore sensibilità, anche in sede industriale, per quanto concerne la tossicità dei monomeri (benzene, stirene ed aromatici in genere, cloruro di vinile), e dei sottoprodotti della combustione (piombo, particolato, anidride solforosa e ossidi d’azoto) nonché la non biodegradabilità dei più comuni prodotti della detergenza (alchilbenzeni con catene alchiliche non lineari). Tuttavia per qualche lustro nel dopoguerra si registra la grande diffusione del DDT, altro prodotto organico (di limitata tossicità per l’uomo) derivato dalle esperienze e dalle esigenze del periodo bellico. In verità il DDT (diclorodifeniltricloroetano C Cl3CH(C6H4Cl)2 era stato sintetizzato già nel 1939 dal chimico svizzero P. H. Muller (premio Nobel nel 1948), ma solo nel corso della guerra assunse grande importanza per l’uso massiccio che ne fecero le truppe anglo–americane per difendersi dagli insetti tropicali. Terminato il conflitto l’impiego del DDT si estese a molti paesi e anche in Italia l’anofele fu debellata nelle zone malariche. Si ritenne più tardi, all’inizio degli anni Sessanta, che l’efficacia di questo insetticida si fosse molto attenuata per l’assuefazione dì mosche e zanzare alla sua azione tossica, sicché il suo impiego venne confinato in zone marginali. Più recentemente si è stati indotti a ritenere troppo anticipata la sospensione dell’impiego del DDT, perché la malaria è vistosamente riemersa in zone dove si credeva l’anofele definitivamente debellata. Si deve comunque rilevare che negli anni Cinquanta si accentua la tendenza della farmaceutica a diventare l’industria della salute e le grandi indu-
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strie, con spiccate capacità di ricerca nella sintesi di prodotti terapeutici, mantengono posizioni dominanti anche nella produzione di fitofarmaci (insetticidi, fungicidi, erbicidi ecc.) e di prodotti veterinari. D’altra parte giustamente la chimica fine richiama l’impegno degli operatori industriali più avveduti che ne apprezzano appieno la capacità di esplicare, nel senso più nobile, una proficua attività ancillare. Essa infatti consente, anche ad operatori di media grandezza, purché dotati di adeguata capacità di ricerca, di penetrare nei settori della gomma e del tessile con vari prodotti ausiliari, nel settore alimentare con antiossidanti, sapidanti, coloranti e antifermentativi, e nel comparto della cosmesi con creme profumi, essenze, lacche, belletti e una miriade di altri prodotti. Quelli citati sono solo alcuni dei comparti tradizionali, in cui la chimica fine è stata più attiva negli anni Cinquanta; ma in seguito essa sarà anche capace di scovare, con grande capacità innovativa altre consistenti nicchie in comparti meno tradizionali. Un singolare aspetto del revival,di cui fu protagonista negli anni Cinquanta la tecnologia chimica del tempo di guerra, è costituita dalla particolare attenzione riservata al processo Fischer–Tropsch e dalle importanti iniziative industriali che ne conseguirono. Mentre in Germania l’industria tedesca metteva gradualmente in disarmo gli impianti Fischer–Tropsch attivati nell’anteguerra e durante la guerra, negli Stati Uniti e in Sudafrica, nel primo decennio del dopoguerra, si procedeva alla costruzione di grossi impianti industriali, adottando sostanzialmente lo stesso processo. Nel Texas, a Brownsville, la Hydrocarbon Research Inc., in associazione con società petrolifere, costruì un impianto di sintesi di composti ossigenati, alimentato da gas naturale. La conversione del gas in miscela di sintesi (CO+H2) veniva effettuata in reattori a letto fisso, a media pressione, con catalizzatore a base di ferro. L’iniziativa si tradusse in un clamoroso insuccesso tecnico e commerciale, e dopo vari tentativi di rianimazione, protrattisi per un decennio, fu praticamente abbandonata. In Sudafrica invece, nel 1955 a Sasolburg, la Sasol (South African Coal, Oil and Gas Corp. Ltd) avviò un analogo grosso impianto di sintesi, alimentato però a carbone e mirato prevalentemente alla produzione di carburanti. Anche qui fu adottato il processo a media pressione, con catalizzatore a base di Fe, ma l’impianto fu dotato di nuovi reattori a letto fisso, progettati dalla Lurgi–Ruhrchemie, in combinazione con reattori a letto fluido trascinato della Kellog, in questo caso l’iniziativa risultò tecnicamente soddisfacente e, in quella particolare economia, anche commercialmente valida. Tant’è che la Sasol ha più volte aumentato la ca-
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pacità produttiva dei suoi impianti, arricchendo la gamma dei prodotti (olefine, ossigenati ed altri). La società, inizialmente statale, è stata privatizzata, integrando con gas naturale l’alimentazione Nello stesso filone della chimica del gas di sintesi (CO+H2) rientra la ossosintesi, processo scoperto dal tedesco O. Roelen nel 1938, che però ha ottenuto un consistente sviluppo industriale proprio nel corso degli anni Cinquanta. Ma mentre il Fischer–Tropsch dà prevalentemente idrocarburi, l’ossosintesi, trattando un’olefina con la miscela CO+H2, ne consente la conversione in un’aldeide con un atomo di carbonio in più. La diffusione del processo in Nordamerica, Europa e Giappone fu determinata dall’importanza attribuita agli alcoli derivanti dall’idrogenazione delle aldeidi da ossosintesi, isottilico e decilico in particolare, per la produzione di agenti tensioattivi, plastificanti e lubrificanti; sicché alla fine degli anni Cinquanta la produzione già si aggirava sulle 500.00 t/a. Ma non si può concludere questa sintesi delle vicende chimiche degli anni Cinquanta senza ricordare che la scoperta del 53 di Crick e Watson della struttura a doppia elica delle macromolecole del DNA non rappresenta il solo fruttuoso incontro di scienza e tecnologia. Un’altra pietra miliare di questo straordinario incontro è rappresentato dai semiconduttori. Ai sostenitori della drastica separazione della teoria dalla pratica, merita in questo caso far rilevare che le fondamentali teorie, elaborate nei laboratori di ricerca, per un’organica interpretazione di aspetti essenziali della biochimica e della fisica dello stato solido, hanno finito col proiettare le conoscenze acquisite nell’ambito delle attività industriali, con una carica innovativa tuttora viva. È ben noto che gli imponenti lavori di ricerca degli AT&T Bell Laboratories, per i quali J. Bardeen, W.H. Bratten e W. Shockley ottennero il premio Nobel nel ’56, hanno dato ai semiconduttori un ruolo che è andato ben oltre la capacità di raddrizzare la corrente o di spiegare la fotoconduttività del selenio. L’illustrazione degli sviluppi della tecnologia di produzione e di quella applicativa, riservata al capitolo che precede le conclusioni finali, varrà a chiarire i singolari aspetti di un’attività industriale che chiama in causa la semplicità (apparente) dei cristalli di silicio o di germanio. Anche sulla scienza tecnologica che è derivata dalla scoperta del DNA, l’ingegneria genetica, avremo modo di ritornare successivamente, proprio per illustrare le applicazioni innovative che l’industria chimica ha saputo farne in alcuni comparti merceologici di grande importanza.
Le grandi trasformazioni degli anni Sessanta e Settanta I nuovi paesi protagonisti della diffusione dell’industria chimica nel mondo Nuovi fattori e nuovi protagonisti caratterizzano lo sviluppo dell’industria chimica e petrolchimica nel periodo in esame. L’econoia di scala, con il contributo dei progressi tecnologici dell’industria meccanica, capace di assicurare, tra l’altro, la disponibilità di gigantesche colonne, anche per alte pressioni, e compressori centrifughi, per elevate pressioni e portate, inconcepibili solo pochi anni prima, diventa un criterio guida per l’alta direzione dei grandi gruppi, dando un deciso impulso alla costruzione di nuovi impianti di enorme capacità. Il criterio è dominare soprattutto nel comparto petrolchimico, con gli impianti per la produzione di olefine e poliolefine, ma le capacità adottate per gli impianti di ammoniaca, metanolo, aromatici, solforico e frazionamento dell’aria non sono da meno. Le statistiche industriali registrano sempre più frequentemente i nuovi primati stabiliti dalle maxicapacità delle singole unità per la produzione di ammoniaca e metanolo. E nei primi anni Sessanta si raggiunge, a livello mondiale, la capacità di 40 milioni di t/a di fertilizzanti. Contemporaneamente entrano nel circuito mondiale dell’industria chimica altri protagonisti. In alcuni casi, come per la Cina e l’India, l’ingresso è favorito dalle dimensioni del mercato potenziale di paesi tanto estesi e popolosi. In altri casi, come per i paesi del Nordafrica, la disponibilità di materie prime diventa fattore determinante. Gas e petrolio favoriscono l’ingresso di Algeria, Egitto e Libia e la grande disponibilità di fosforiti quello del Marocco e, in minore misura, quello della Tunisia. Nel Medio Oriente è invece l’Arabia Saudita a diventare protagonista con la costruzione di un imponente complesso petrolchimico, la cui competitività è affidata all’economia di scala e all’illimitata disponibilità di gas e petrolio del paese che è il leader mondiale per la consistenza delle sue riserve petrolifere. Ma in Medio Oriente, in termini qualitativi, lo sviluppo più significativo è quello di Israele. A questo naturalmente concorrono tanto un’identità culturale, che si riannoda all’eredità lasciata da Chaim Weizmann, primo presidente della repubblica e biochimico noto per il processo di fermentazione butilica dei carboidrati, quanto la disponibilità di materie prime, costituita dalle salamoie del Mar Morto (bromo, iodio ed altri) e dalle rocce fosfatiche della zona adiacente. 195
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In Europa, ad ovest la Spagna e ad est i Paesi d’oltre cortina, contribuiscono ad accentuare la dinamica di sviluppo dell’industria chimica. La Spagna si avvale in larga misura di insediamenti industriali tedeschi e americani, realizzando peraltro anche numerose joint– ventures con le multinazionali della Germania e degli USA. Sull’altro fronte le società chimiche dei Paesi ad economia di stato, acquistando processi dall’Europa occidentale, spesso ripagati “in natura” con quote di produzione dei nuovi impianti, sviluppano un’attività industriale imitativa che, col tempo, finirà col pesare in termini di competizione commerciale. Nel continente americano lo sviluppo dell’industria chimica dei Paesi latino–americani segue impostazioni notevolmente diversificate: Messico e Venezuela possono contare su consistenti riserve petrolifere ed il Messico anche su grossi giacimenti di zolfo e le iniziative vengono realizzate adottando prevalentemente tecnologie USA . In Sudamerica Argentina, Cile e Perù, l’industria chimica è più orientata a dotarsi di impianti di fertilizzanti, anche di modeste dimensioni, e ad operare nel settore farmaceutico, come industria di trasformazione di principi attivi, forniti prevalentemente dalla grande industria tedesca e svizzera. Un caso sui generis è rappresentato dal Brasile. Questo Paese compie infatti, nel settore agro–chimico, una scelta strategica destinata a pesare in maniera significativa sull’economia nazionale. Si tratta della colossale produzione di etanolo, ottenuta per fermentazione alcolica degli idrati di carbonio della canna da zucchero, massicciamente coltivata nelle zone depresse del Nord. Questo etanolo è sostanzialmente destinato a sostituire la benzina con una capacità produttiva che raggiungerà il livello dei 10 milioni di t/a, condizionando in pratica anche l’assetto motoristico del parco macchine. È stata evidentemente una scelta non giustificabile in un’economia di mercato, ma che tuttavia viene, di tanto in tanto, riproposta da chi ne sostiene la validità ecologica in ragione della necessità di disporre di carburanti alto–ottanici indispensabili per chi vuole adeguarsi all’indifferibile esigenza di eliminare dalle benzine piombo e idrocarburi aromatici. In quegli anni Messico e Brasile, pur non aderendo ad un’impostazione dell’economia basata sul libero mercato, potendo disporre di larghi prestiti accordatigli dalla finanza internazionale, fecero comunque ingresso nella ristretta cerchia dei paesi di nuova industrializzazione (NICS). Ed in Asia anche la Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong conquistarono posizioni non marginali nell’industria chimica,
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integrando spesso la vera e propria attività produttiva con un intenso sviluppo dell’attività manifatturiera. In questo ventennio il comparto dei polimeri registra l’ingresso, a fianco delle materie plastiche tradizionali, dei tecnopolimeri che conquistano rapidamente una posizione di rilievo. Poliformaldeide, polimetilmetacrilato e ABS, già presenti nel mercato, trovano ruoli ben definiti nei vari comparti del settore manifatturiero, nei quali nuovi prodotti, come il policarbonato e il polietilentereftalato, mostrano la versatilità della tecnologia chimica nell’offerta di prodotti ottenuti con una ricerca mirata. La strategia delle plance di comando dei grossi gruppi internazionali non segue in questo periodo una strategia uniforme. Inizialmente l’economia di scala sembra prevalere sull’analisi delle dimensioni del mercato e dei tassi di sviluppo. Si vagheggia perfino di complessi industriali dotati di centrali nucleari. Questa strategia è peraltro coltivata soprattutto con riferimento alla petrolchimica e alla chimica di base. Ma quando scoppia la guerra del Kippur e ne conseguono effetti dirompenti sull’assetto dei mercati petroliferi, anche l’industria chimica rivede le sue ottimistiche impostazioni. La seconda metà di questo ventennio, cioè gran parte degli anni Settanta, registrerà sviluppi e scelte determinati da considerazioni politiche più che da fattori strettamente tecnici. L’economicità dei processi, in termini di consumo d’energia e di materie prime, riprende il suo ruolo primario nella definizione delle scelte strategiche della grande impresa. La caratterizzazione della politica industriale chimica, prima e dopo la guerra del Kippur, richiederà comunque qualche successiva precisazione integrativa. È rilevante che proprio nell’industria chimica italiana si verifichino negli anni Sessanta le più importanti modifiche degli assetti proprietari, registrate dalle grandi imprese europee con interesse non disgiunto da qualche preoccupazione. È la nazionalizzazione dell’industria elettrica che, nel nostro Paese, convoglia l’interesse della Edison verso il settore chimico, dov’è peraltro già presente in modo incisivo. La fusione della Montecatini con la Edison, con la creazione della Montedison, crea legittime aspettative di rilancio della chimica italiana in termini di ricerca e innovazione. Purtroppo gran parte di queste aspettative andranno deluse sia per le oggettive difficoltà di una così impegnativa operazione di fusione, sia per l’eterogenea cultura industriale dei due gruppi, sia infine per la scelta strategica dell’alta direzione di Montedison di allargare il ventaglio delle attività industriali piuttosto
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che concentrarlo nel settore chimico. Anzi la grossa consistenza delle produzioni petrolchimiche non suggerisce di conformarsi alle scelte dei grandi gruppi chimici tedeschi, che hanno optato per una gestione dei grossi impianti di cracking di Ludwigshaven e di Dormagen in joint–venture con gruppi petroliferi leader. Si preferisce invece orientare prevalentemente i nuovi investimenti al potenziamento degli impianti di raffinazione. È probabile che quest’orientamento derivi dalla matrice culturale energetica della componente Edison. In Italia anche l’ANIC viene marginalmente interessata dal processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica, perché le autorità di governo ritengono appropriato che gli impianti chimici di Larderello, che l’Enel ha trovato già inseriti nel complesso industriale che utilizza i soffioni (un tempo boraciferi), siano trasferiti all’azienda chimica a prevalente partecipazione statale. Ma l’ANIC deve purtroppo prestarsi ad altre operazioni non rispondenti a criteri di scelta imprenditoriali. Per il ritiro della Gulf Oil da Ragusa (Sicilia) diventa precaria la posizione della ABCD (Asfalti, Bitumi, Cementi e Derivati) del gruppo BPD (Bomprini, Parodi, Delfino) che ivi opera da tempo. Ma la strategia della sua alta direzione, sotto la presidenza del duca Serra di Cassano e la direzione finanziaria e amministrativa di Cesare Romiti, è orientata a uno sganciamento dalle attività dell’industria chimica. L’interesse dell’ENI ad evitare situazioni conflittuali in Sicilia suggerisce che sia l’ANIC a rilevare quelle attività costituite da un piccolo cracking di etilene da grezzo, un impianto di polietilene in esercizio ed uno in costruzione con processo originale della stessa società, ed infine unità di produzione di cemento e bitumi. E tuttavia proprio in quegli anni l’attività industriale dell’ANIC ha acquisito un respiro internazionale, a seguito della costruzione di numerose raffinerie in Africa, Svizzera e Baviera, che si aggiungono a quelle realizzate in Italia. Sicché, quando alla fine del ’68, diventa di pubblico dominio la notizia che l’ENI ha acquistato, con l’appoggio di Mediobanca, una quota del capitale Montedison, del 20% circa, sembra legittimo supporre che l’intervento sia stato concepito non per accrescere la statalizzazione delle imprese industriali, ma per tentare un’iniezione di spirito imprenditoriale in un organismo che sembrava averlo dissipato. E più che mai si riteneva indispensabile un nuovo spirito imprenditoriale come fonte di quella carica di ispirazione innovativa, che è il fondamentale fattore di successo per l’industria chimica. Tant’è che, subentrato a Valerio, nella carica di presidente della Montedison, Cesare Merzagora, già Presidente del Senato e Capo provvisorio dello Stato,
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nella inevitabile competizione, derivante dalla presenza di Montedison, ANIC, Snia ed altri negli stessi comparti chimici, si operò perché gli interessi della Montedison fossero considerati prioritari anche in rapporto alle iniziative in corso di definizione. Quando poi lo stesso Cefis lasciò la presidenza dell’ENI per succedere a Merzagora in quella di Montedison, fu del tutto ovvio constatare che il new deal era orientato a privilegiare quell’impresa con una surrettizia privatizzazione del pubblico. Molti alti dirigenti dell’ENI si affiancarono a Cefis in quel difficile tentativo di terapia industriale, che l’emergenza della situazione avrebbe anche potuto giustificare. Purtroppo, usciti di scena Fauser, Giustiniani e Natta, non si poteva sopperire, nella nuova Montedison, alla latitanza di un’autentica cultura chimica, con la pura capacità imprenditoriale espressa solo dalla modernizzazione della gestione finanziaria, commerciale e organizzativa. Fu sostanzialmente ignorata la legge fondamentale, secondo la quale l’industria chimica si nutre dei frutti di quell’investimento a redditività differita che è la ricerca. E per una società indebitata qual era Montedison, l’accentuazione degli sforzi, almeno limitatamente alla ricerca mirata, avrebbe richiesto il duplice miracolo di un’illuminata strategia industriale e dell’acquisizione dei fondamentali di cultura industriale chimica da parte del sistema bancario. Ma nella crisi dell’industria chimica italiana, con le difficoltà della Montedison in maggiore evidenza, ebbero in quel periodo un ruolo determinante anche altri fattori. In primo luogo nell’alta direzione dell’ENI predominava una strategia ispirata dalla sua originaria cultura energetica, che relegava l’attività chimica, cioè l’ANIC, al ruolo di comprimaria, pur riservandole l’importante compito di svolgere un’efficace funzione ancillare nella politica di industrializzazione del Mezzogiorno. Questa politica, in conseguenza di una normativa di incentivazione carente in termini di rigore disciplinare, aveva provocato un’accesa competizione industriale, che registrava la presenza, in posizioni di primo piano, della SIR di Rovelli in Sardegna, e della Liquichimica di Ursini in Calabria e Sicilia. Ma senza dubbio, in questo quadro, s’inserisce poi la responsabilità primaria del potere politico, non tanto per il carattere clientelare del suo intervento, che non è certamente una singolarità del nostro sistema, quanto per l’assoluta ignoranza delle leggi di mercato e delle diseconomie esterne, fatali per gli insediamenti industriali in località prive delle più elementari infrastrutture. Sicché a distanza di decenni, le c.d. cattedrali nel deserto meritano qualche riconsiderazione proprio perché la loro costruzione è
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stata determinante per dotare le località di insediamento di infrastrutture di interesse primario anche per la comunità civile. All’inizio degli anni Settanta, pur permanendo una situazione dell’industria chimica italiana qualitativamente insoddisfacente, non mancano iniziative da registrare in positivo. La Snia Viscosa, rilevando tutte le attività chimiche della BPD (impianti di Colleferro–Roma), si diversifica, abbandonando il suo status di industria a monocultura, tessile. Anzi, con l’ANIC, che sta realizzando a Manfredonia (Puglia) un grosso impianto ammoniaca–urea, si unisce in joint–venture per costruire e gestire, con partecipazione paritetica, un impianto di caprolattame della capacità di 80.000 t/a, basato sulla propria tecnologia (processo Notarbartolo). Gli interessi degli associati sono convergenti, in quanto il caprolattame è il monomero fondamentale per la produzione del nylon 6, in un settore in cui la Snia ha da tempo una posizione dominante, mentre le materie prime (toluolo, ossido d’azoto, oleum) sono appannaggio dell’ANIC, cui compete anche l’onere della commercializzazione del solfato ammonico, sottoprodotto nel processo Snia in misura di oltre 4 kg per kg di caprolattame. Negli anni ’71– 72 l’ANIC costruisce a Ravenna un impianto per la produzione di 100.000 t/a di un etere, il metilterbutiletere, destinato a diventare, nel volgere di pochi anni, il composto ossigenato alto–ottanico più diffuso nel mondo. Si tratta del primo impianto costruito nel mondo con un processo messo a punto nei laboratori di ricerca di San Donato Milanese. L’interesse dei raffinatori per questo composto è naturalmente stimolato dalle pressioni dei cultori della tutela ambientale, mirate alla riduzione e poi all’eliminazione del piombo tetraetile dalla benzina, nella quale si vuole anche drasticamente ridurre il contenuto di idrocarburi aromatici. Ma, subito dopo, il mondo della chimica, della petrolchimica e della raffinazione viene sconvolto dagli effetti dirompenti della quarta guerra arabo–israeliana dell’autunno del ’73, 1a cosiddetta guerra del Kippur (ricorrenza religiosa ebraica, dedicata al pentimento e all’espiazione, che cade all’inizio dell’autunno). Com’è noto la guerra si concluse col successo di Israele, ma i Paesi arabi, produttori di petrolio, si resero conto di disporre col grezzo di uno strumento di tutto rispetto per conquistare posizioni economicamente vantaggiose. In realtà lo strumento per imporre ai paesi consumatori la dittatura commerciale dei paesi produttori era già disponibile ed era noto come OPEC. Questa sigla si esplicita nella denominazione inglese di Organization of the Petroleum Exporting Countries, organizzazione
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con sede a Vienna, fondata a Baghdad nel 1960 da Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Venezuela, e potenziata dalla successiva adesione di Algeria, Ecuador, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Indonesia, Libia, Nigeria e Qatar. Così, sul finire del ’73, questi Paesi, sotto l’autorevole guida dell’Arabia Saudita, coordinando le politiche di estrazione e commercializzazione, riuscirono ad imprimere un’impennata ai prezzi del barile di grezzo, che, nel volgere di poche settimane, risultarono raddoppiati o triplicati. Il conseguente accumulo di grandi ricchezze da parte di alcuni Paesi produttori, con l’Arabia Saudita a far la parte del leone, stimolarono poi l’interesse degli stessi paesi a promuovere, in casa propria, iniziative industriali mirate soprattutto a produzioni petrolchimiche. L’impatto sull’economia in genere, e sull’industria chimica in particolare fu violento. Molti paesi, ad economia di mercato, furono in pratica costretti a rivedere precipitosamente strategie concepite nell’ottica della materia prima energetica a buon mercato. I paesi industrializzati ebbero però il merito di reagire con immediatezza e l’industria chimica fu pronta ad adottare accorgimenti tecnici o addirittura processi innovativi che, proprio nella petrolchimica, consentirono i risparmi più significativi. Processi di cracking più severi, con reattori di rendimento più elevato, hanno fatto quindi mantenere alle produzioni petrolchimiche di etilene, propilene, isobutilene, butadiene e aromatici in Europa, Nordamerica e Giappone la necessaria competitività. Così anche i tanti prodotti derivati sono riusciti a non perdere quote di mercato, nonostante l’irrompere delle produzioni delle industrie neo–petrolchimiche dei paesi esportatori di petrolio. È anche vero che i Paesi dell’OPEC, dopo lo straordinario successo iniziale delle loro azioni di rottura, non sono più riusciti a coordinare con l’originario rigore le politiche di produzione e di commercializzazione, anche per l’arrivo sul mercato di nuovi produttori. I conflitti interni, con la caduta dello Scià e l’avvento di Khomeini in Iran, nel 1978 hanno reso sempre meno governabile per l’OPEC una situazione che diventerà addirittura caotica, quando il conflitto Iran–Iraq comporterà l’impiego del petrolio come strumento per finanziare la guerra. Purtroppo questa crisi petrolifera non fu invece scevra di gravi conseguenze per la causa della tutela ambientale. L’industria energetica considerò con rinnovato interesse la combustione dei carbone e la risorsa nucleare. In campo chimico e petrolchimico, il ricorso delle raffinerie all’impiego di grezzi più pesanti, ad alto contenuto di zolfo e asfalteni, comportò la necessità di massicce produzioni di idrogeno.
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Emerse allora la convenienza di utilizzare la relativamente nuova tecnologia dei seitacci molecolari anche in raffineria, per l’arricchimento delle correnti gassose, derivanti da operazioni di cracking e contenenti idrogeno in misura insufficiente per un impiego tal quale. In alcuni casi anche il ricorso ai processi di coking apparve un ripiego utile e necessario per valorizzare grezzi pesanti, reperibili sui mercato a prezzi più convenienti. Ma anche nei confronti dei grezzi più pregiati si verificò una tendenza a trattarli con criteri innovativi. È significativa al riguardo la vicenda del grezzo libico, sostanzialmente privo di zolfo e di idrocarburi aromatici, ma ricco di normalparaffíne, composti che, riducendone la scorrevolezza, creano problemi di maneggio e trasporto già a temperatura ambiente. Ma proprio in Italia si ritenne, all’inizio degli anni Settanta, che l’abbondanza di normalparaffine non costituisse un problema, ma che fosse invece una risorsa da sfruttare. Le n– paraffine, con catene lineari di almeno 6–7 atomi di carbonio (fino a 15–16 atomi di C ed oltre) costituiscono infatti una pregiata materia prima per la produzione di oleifine lineari. E queste, a loro volta, sono preziose per la sintesi degli alchilbenzeni lineari (i c.d. LAB), già ricordati come composti basilari per la produzione di detergenti biodegradabili. In Europa, in questo specifico settore, le iniziative industriali più importanti furono quelle dell’ANIC, in associazione con la SARAS di Moratti (Saras Chimica) a Sarroch in Sardegna e della Liquichimica ad Augusta in Sicilia. Le stesse società, ANIC e Liquichimica, si cimentarono anche nella produzione industriale di bioproteine mediante due differenti processi di fermentazione di n–paraffine. L’iniziativa dell’ANIC, concepita e realizzata in joint–venture con la British Petroleum, fu poi abbandonata, ad impianto già finito ed avviato, perché le autorità ministeriali vigilanti, Partecipazioni Statali e Sanità, revocarono le autorizzazioni già concesse, sulla base di controindicazioni sanitarie, che sembrarono ispirate più da ipotesi maliziosamente avversative che da una normale e doverosa cautela. D’altra parte, all’epoca, il prodotto ad alto contenuto proteico, previsto come alimento ad uso zootecnico, in competizione con la farina di pesce, non avrebbe retto più il confronto sul piano economico, per l’impennata del prezzo del barile, conseguente alla guerra del Kippur. L’utilizzazione delle n–paraffine ha chiamato in causa i processi di fermentazione impiegati per la produzione di bioproteine, ma nel ventennio in esame l’evoluzione e i progressi delle biotecnologie e delle bioindustrie ebbero tale portata da relegare tra gli episodi marginali la vicenda delle bioproteine.
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La produzione alimentare ha fatto ampio uso, da tempo immemorabile, con metodi empirico–artigianali, di lieviti ed enzimi. Anzi, nonostante la lezione di Pasteur ed i preziosi contributi dei grandi biochimici che ne hanno continuato l’opera, la produzione alimentare (dal pane ai biscotti, dal vino alla birra, dai liquori all’aceto, e via dicendo) è rimasta ancora a lungo fedele ai propri metodi artigianali. Del resto, mentre in campo farmaceutico le biotecnologie hanno presto ricevuto la dovuta attenzione, nel settore industriale chimico, nella prima metà del Novecento, i processi biochimici più significativi effettivamente impiegati si riducono alle fermentazioni citrica e butilica degli zuccheri. Ma in realtà sono stati proprio i progressi realizzati dall’industria farmaceutica degli antibiotici che hanno poi consentito a tutta l’industria della fermentazione di assimilare metodi ed accorgimenti per controllare più efficacemente variabili fondamentali quali temperature, pH, agitazione, concentrazione di gas respiratori come O2 e CO2 e così via. Per gli sviluppi dell’industria biochimica si è puntato anche sull’innovazione tecnologica. Si può ricordare, tra l’altro, che negli anni Settanta si è sperimentata con successo la tecnica dell’ancoraggio di enzimi su fibra. Con reattori forniti di fasci di fibre enzimatiche si possono realizzare processi continui e/o discontinui, ma con il vantaggio di potere restituire all’enzima, mediante lavaggio, l’efficienza iniziale dei siti attivi. Il campo applicativo di questa tecnologia è rimasto però confinato a qualche processo semisintetico di interesse farmaceutico. Dove invece l’applicazione di processi biochimici, aerobici ed anaerobici, si è diffusa a macchia d’olio è stato nel trattamento dei liquami urbani e industriali. In molti casi si è potuto associare all’attività di depurazione quella del recupero energetico mediante la produzione di metano. Ma anche nell’ampio settore delle bioindustrie non sono mancate naturalmente le delusioni. Oltre al già citato caso delle bioproteine da n–paraffine, vale la pena ricordare quello del processo di saccarificazione della carte, ovvero della cellulosa. Si è trattato di un processo messo a punto nei laboratori della US Army, basato sull’azione depolimerizzante di un enzima prodotto da un fungo, in grado quindi di ridurre la macromolecola del polisaccaride cellulosico alla piccola molecola di uno zucchero, suscettibile a sua volta di subire poi un processo di fermentazione alcolica. Negli Stati Uniti i “rifiuti cartacei” costituiti da giornali, riviste, libri, cartoni, imballaggi ecc. ammontano a milioni di tonnellate, sicché perfino il Congresso si occupò del finanziamento ad una ricerca che appariva di enorme interesse per
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le sue finalità di tutela ambientale. Ma anche in questo caso il processo si rivelò impraticabile per ragioni economiche. Risultò infatti, in una fase già avanzata delle ricerche, che per rendere efficace l’attacco depolimerizzante dell’enzima alle macromolecole cellulosiche, il materiale doveva essere “sfibrato” in tal misura da imporre un consumo energetico incompatibile, anche per un processo economicamente assistito, con le esigenze primarie di economicità di un’applicazione di enormi proporzioni potenziali. Un profilo storico dell’industria chimica, disegnato nei suoi tratti essenziali da un ingegnere chimico, non può, a questo punto, tralasciare di porre in evidenza il ruolo di crescente importanza che, proprio in quegli anni, va assumendo l’ingegneria. L’ingegnere chimico non è più il progettista che scompone il processo nelle sue operazioni elementari (le c.d. unit operations) per definire, per ogni fase, qualitativamente e dimensionalmente, le corrispondenti specifiche di macchinario, apparecchiature e quant’altro necessario per la realizzazione impiantistica. Egli è anche, e in misura predominante, l’operatore che traduce il dettato scientifico con il risultato della ricerca in strumento di produzione intervenendo creativamente in questo lavoro di traduzione. Proprio la biochimica ci offre l’opportunità di illustrare, con alcuni esempi significativi, questa metamorfosi. È noto che per controllare il fattore emorragico molti pazienti (affetti da emofilia, leucemia, traumi) necessitano di trasfusioni di un concentrato piastrinico estratto dal sangue. A lungo non si è potuto garantire la corretta conservazione di questo concentrato per più di tre giorni, perché le piastrine, come molte cellule, consumano glucosio producendo anidride carbonica. Questa, a sua volta, abbassando il pH, promuove il metabolismo anaerobico, con produzione di acido lattico ed ulteriore caduta del pH, che porta alla necrosi delle piastrine. L’ingegnere chimico ha risolto il problema sostituendo la vecchia plastica del sacchetto con un nuovo materiale, che funziona da setaccio molecolare. Sicché la CO2 prodotta esce e l’ossigeno può entrare, rallentando sostanzialmente la caduta del pH e consentendo di mantenere in vita le piastrine per almeno dieci giorni. Forse ancora più significativo è stato il contributo che l’ingegneria chimica ha dato allo sviluppo della produzione di interferone. Com’è ben noto ai biochimici (l’interferone è una sostanza proteica capace di interferire con lo sviluppo dei virus, inibendone lo sviluppo all’interno della cellula). La sua presenza in misura quasi impercettibile nel nostro organismo è essenziale per l’efficienza del nostro sistema immu-
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nitario; esso costituisce anche la base per una promettente terapia di alcuni tipi di tumore. Ma fino alla fine degli anni Settanta la produzione di interferone, mediante cultura di alcune cellule dei globuli bianchi, (linfoblastidi) era un’attività da laboratorio, nella scala di qualche centinaio di cc e con una resa minima, perché la stessa cultura ha come sottoprodotto un enzima proteolitico (la proteasi), che opera da bisturi su specifici legami della molecola di interferone. L’ingegneria chimica ha provveduto, in primo luogo, a realizzare reattori asettici con un’amplificazione volumetrica di 100.000 volte rispetto alla scala di laboratorio. Ha poi introdotto inibitori della proteasi e trasformato la fase di cultura dei linfoblastidi in un processo continuo e “veloce”, in modo da ridurre al minimo l’esposizione dell’interferone prodotto all’azione demolitrice della proteasi. L’adozione di un sistema di separazione cromatografico, rapido ed efficiente, ha in conclusione consentito di quadruplicare la resa delle culture di laboratorio e di rendere disponibili quantitativi di interferone così consistenti da consentire poi il passaggio ad una massiccia sperimentazione clinica. Infine, nel tracciare la frontiera tra biotecnologia e biomedicina, appare suggestivo il ruolo che la ricerca, condotta con i criteri dell’ingegneria chimica, ha assunto per una migliore comprensione della funzione renale. È noto che i reni svolgono un ruolo fondamentale nel regolare il volume del sangue e di altri fluidi del nostro organismo, concorrendo ad assicurare condizioni ambientali interne a livello ottimale. La prima fase del processo è la formazione di urina mediante filtrazione del sangue attraverso le pareti esterne di microscopici capillari dei reni. In tal modo nel filtrato passa l’acqua con le sostanze a basso peso molecolare disciolte nel plasma sanguigno, mentre il sangue depurato, con tutte le sue cellule e con un contenuto di proteine sostanzialmente inalterato, rientra in circolazione. Questi microscopici vasi sanguigni dalla parete filtrante, detti capillari glomerulari, sono raggruppati in ciuffetti sferici, i glomeruli, che hanno un diametro di frazioni di mm e ammontano a milioni in ciascun rene. Quando un consistente numero di glomeruli entra in avaria, per lesione delle pareti o altro danneggiamento, insorgono disturbi renali. All’inizio degli anni Settanta i fisiologi, con raffinate innovazioni tecniche, furono per la prima volta in grado di procedere alla misurazione diretta della pressione che il sangue da filtrare esercita sulle pareti dei capillari glomerulari, scoprendo che la loro permeabilità idraulica è il doppio di quella riscontrata nelle pareti dì altri organi presenti nei mammiferi. Fu a questo punto che si palesò la necessità di affrontare i meccanismi
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della delicata funzione renale con l’approccio dell’ingegneria chimica, perché la singolarità riscontrata poneva in evidenza che la funzione renale non è limitata, come si era sempre creduto, dalla permeabilità idraulica, ma prevalentemente dalla portata del plasma che affluisce al rene. Ma è ancora più sorprendente riscontrare quanto sia stata geniale la progettazione dei glomeruli, che riescono ad evitare l’accumulo, sulle pareti filtranti, delle sostanze, cui è vietato il passaggio per impedimento dimensionale, accumulo normalmente ricorrente nei filtri artificiali. In condizioni di normale funzionamento dei reni le grosse molecole delle proteine del plasma non si accumulano sulle pareti filtranti e la loro perdita nell’urina è di trascurabile entità. Poiché il plasma filtrato giornalmente ammonta volumetricamente a cinquanta volte il volume totale del plasma presente nel nostro organismo, l’efficacia della barriera costituita dai glomeruli contro la migrazione delle proteine del plasma nell’urina è di vitale importanza. Anche perché il nostro organismo sarebbe del tutto incapace di ricostituire rapidamente il patrimonio di proteine che fosse andato perduto nelle urine. Orbene, prima dell’approccio ingegneristico, si riteneva che la perdita di proteine non avesse luogo semplicemente perché i pori nella membrana dei glomeruli sono sufficientemente piccoli rispetto alle dimensioni delle molecole proteiche maggiori, sicché le pareti dei capillari funzionano da setacci. Studi e ricerche, condotti in collaborazione da fisiologi e ingegneri chimici, hanno invece rivelato che il potere discriminante del glomerulo nei confronti delle proteine non è affidato solo alla selezione dimensionale delle molecole proteiche, ma anche all’intervento di forze repulsive che le pareti del capillare, incorporando componenti carichi negativamente, esercitano sulle molecole proteiche, anch’esse portatrici di cariche negative. Alla proteinuria concorrono quindi sia la dilatazione dei submicroscopici pori delle pareti dei capillari, sia la perdita o la neutralizzazione dei componenti elettronegativi dei capillari stessi. Queste nuove conoscenze hanno orientato le ricerche sulla sindrome nefritica, caratterizzata proprio da una massiccia proteinuria, nella direzione della correlata biochimica molecolare. Ci siamo soffermati su questi particolari contributi che l’ingegneria chimica ha potuto dare, nella soluzione di problemi che certamente non rientrano nei filoni tradizionali della sua attività, per rilevare incisivamente quanto sia diventato, anche culturalmente, più impegnativo dare risposte adeguate ai quesiti che la scienza pone alla tecnica. Ma la necessità di far fronte alla crescente articolazione delle problematiche che l’innovazione fa-
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talmente impone alla tecnica, trova riscontro in un riassetto strutturale delle stesse società di ingegneria, delineatosi e maturato proprio negli anni Sessanta e Settanta. Non ci sono, è vero, nette linee di demarcazione territoriale, ma l’industria petrolifera, che affida progettazione e costruzione di gasdotti, oleodotti e raffinerie interamente a società di ingegneria, fa scuola anche per le società chimiche. Molte di queste, fin dalla nascita dell’industria chimica, avevano inserito nel proprio organismo corpose divisioni tecniche, dedicate alla progettazione e alla costruzione degli impianti aziendali. Avevano poi finito coll’istituzionalizzare un assetto organizzativo inizialmente imposto dalla necessità. Ma ora, mentre le società chimiche preferiscono privilegiare la gestione delle attività produttive, quelle di ingegneria avvertono la necessità di dotarsi di strumenti di ricerca, al fine di mirare all’innovazione di processo. Così, per gran parte dell’innovazione di prodotto (farmaceutica, chimica fine, prodotti ausiliari, bioindustria, fibre, tecnopolimeri, elastomeri, intermedi et similia), la ricerca rimane appannaggio dei laboratori delle grandi società chimiche e spesso anche di quelle di media grandezza o di laboratori specializzati. Invece l’innovazione di processo (solforico, ammoniaca, cloro– soda, cracking, processi criogenici e frazionamento aria in particolare, con i tanti comparti similari) si sviluppa prevalentemente nei laboratori delle società d’ingegneria, che spesso possono usufruire del riscontro pratico di una pluralità di esperienze, derivante dai vari impianti progettati, costruiti e avviati. Non si tratta ovviamente di esclusive attribuite per esplicita pattuizione, ma l’interesse strategico delle parti serve a ridurre drasticamente i casi di competizione conflittuale. Anzi, anche nell’ambito delle società d’ingegneria, si consolida una sorta di specializzazione, peraltro imposta da evidenti esigenze di cultura tecnica. Così, a fianco delle grandi società d’ingegneria impegnate in campo chimico, petrolchimico e petrolifero, acquistano rilievo quelle dedicate alla farmaceutica, all’ecologia, all’alimentare, alla lavorazione delle materie plastiche e ad altri comparti industriali, con specifiche esigenze tecniche estranee alla cultura delle grandi. Senza pretendere di fornire un elenco esauriente dei fattori che più incisivamente hanno concorso a caratterizzare questo periodo, sembrano comunque meritevoli di citazione i contributi rilevabili dalle vicende contemporanee della catalisi e dell’energia. Gli sviluppi della catalisi eterogenea erano risultati di fondamentale importanza già alla fine dell’Ottocento per l’industrializzazione dei processi di sintesi dei prodotti inorganici di base, quali acido solforico, ammoniaca, metanolo e
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acido nitrico. Negli anni Sessanta e Settanta i ricercatori, lavorando su alcune classi di zeoliti, ne valorizzeranno le capacità catalitiche anche nell’ambito della petrolchimica. Le zeoliti costituiscono una famiglia di minerali di circa 40 unità, ma quelle più note sono degli allumosilicati (simili ai feldspati) contenenti sodio, calcio e potassio. L’architettura dei cristalli è determinata da tetraedri Si02, completamente concatenati gli uni agli altri in impalcature tridimensionali, nelle quali alcuni atomi di Si sono sostituiti da atomi di Al. Ne conseguirebbe un eccesso di cariche negative, che è però compensato dall’introduzione nella struttura di Ca, Na e K. L’interesse dei ricercatori per queste zeoliti è stato stimolato dalla loro struttura aperta, cioè dalla presenza nella struttura, indipendentemente dall’assetto cristallografico, di canaletti che consentono la penetrazione e la fuoruscita di acqua o di altre molecole di dimensioni compatibili con l’ampiezza dei canaletti. La constatazione che la struttura aperta permane anche dopo riscaldamento, mirato alla disidratazione, ha suggerito di valorizzare questo esemplare prodotto di architettura naturale come setaccio molecolare e come modello di struttura per camera di catalisi. Le zeoliti che per la loro struttura hanno la possibilità di scambiare basi o cationi, erano peraltro già note come prodotti di comune impiego per l’addolcimento delle acque. Negli anni Sessanta e Settanta si è però sviluppato ampiamente il loro impiego nei processi basati su reazioni a catalisi acida, soppiantando l’impiego dei catalizzatori a base di silice e allumina. In raffineria l’introduzione delle zeoliti nei processi di cracking catalitico si è tradotta, già negli anni Sessanta, in sostanziali miglioramenti delle rese, con riduzione dell’inquinamento e dei consumi energetici. Negli anni Settanta, nei laboratori di ricerca, sono stati messi a punto metodi di sintesi di zeoliti artificiali e, con la scoperta della ZSM–5 e di altre zeoliti pentasilicee, si sono rese disponibili strutture in forma protonica, dotate di pori di media grandezza e di elevata stabilità termica. Questo successo ha incoraggiato i tentativi dei ricercatori di modificare l’impalcatura silicea delle zeoliti. Si è così progettata la sostituzione isomorfa, cioè senza modificare l’architettura strutturale, di atomi di Si con atomi di titanio. Occorre qui sottolineare per i non addetti ai lavori che quest’idea della titanio–silicalite costituiva un progetto veramente ambizioso. Infatti in tal modo s’intendeva predisporre delle cellette di catalisi, dotate di canalette di accesso operanti come setacci molecolari, per farvi entrare le molecole selezionate da porre in stretto contatto con l’atomo dell’elemento catalizzante. Vedremo in
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seguito i brillanti risultati che sono scaturiti da questa ricerca, mirata ad un obiettivo che è sempre stato al centro delle problematiche proprie della catalisi eterogenea. Peraltro anche la catalisi omogenea ha raggiunto, sul finire degli anni Settanta, risultati sorprendenti in altri comparti. Basta ricordare la polimerizzazione delle olefine in fase gassosa e con catalisi stereospecifica. Ne sono derivati processi più semplici ed economici, con grande risparmio energetico e massicce produzioni di polietilene lineare. Esaurita questa carrellata sul contributo che biochimica, ingegneria e catalisi hanno dato allo sviluppo dell’industria chimica, prevalentemente negli anni Settanta, non si può trascurare la crescente interdipendenza tra la stessa e la produzione energetica. In realtà l’industria chimica era già in debito con l’industria nucleare per l’enorme incremento produttivo di fluoro e di acido fluoridrico, determinato dal fabbisogno degli impianti di arricchimento di uranio. Ma, dopo la guerra del Kippur, le combinate esigenze del risparmio energetico e di una più attenta tutela ambientale suggeriscono alle grandi imprese chimiche di riguardare la produzione di energia elettrica e vapore non più come un servizio ausiliario, ma come un’attività primaria. Riferendoci a quanto è avvenuto in Italia si rileva che, dopo la fase d’insediamento, protrattasi fino all’inizio degli anni Sessanta, si verifica una fase di crescita delle attività produttive dell’industria chimica, solo in parte accompagnata da quella delle centrali di autoproduzione. Lo sviluppo dell’autoproduzione è infatti frenato non solo dai vincoli imposti dalla legge di nazionalizzazione delle imprese elettriche, ma anche e soprattutto dallo sviluppo della produzione elettrica e della rete nazionale di distribuzione, in grado ora di sopperire alle nuove richieste. Ma l’incremento dei prezzi dell’energia, causato dalle due crisi petrolifere del ’73 e del ’79, frena la crescita dell’economia in generale e induce, come è stato già ricordato, ad un profondo ripensamento dei processi petrolchimici sotto il profilo dell’efficienza energetica. Ne consegue una significativa riduzione dell’intensità energetica, che rende disponibili quote crescenti di capacità produttiva nelle centrali degli autoproduttori, che cominciano così, con le eccedenze, ad alimentare la rete elettrica nazionale. Potremo verificare, nel capitolo successivo, come questa tendenza prima si consolida in una fase di razionalizzazione, fino alla metà degli anni Ottanta, per dare luogo poi ad una fase di sviluppo, ammodernamento ed autonomizzazione. Le travagliate vicende di questo ventennio sono peraltro contrassegnate da una marcata tendenza delle grandi imprese chimiche
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all’internazionalizzazione. L’industria giapponese e quella tedesca, affiancandosi nella crescita impetuosa a quella statunitense, operano, seguendo una strategia intercontinentale, con unità produttive anche di grandi capacità, insediate nei paesi di ampio mercato, spesso realizzando joint–ventures con le maggiori industrie locali. Nell’impossibilità di ragguagliare il lettore analiticamente sugli sviluppi dell’industria chimica nei vari comparti, nel corso dei ventennio in esame, è tuttavia utile rilevare i dati essenziali della sua crescita e della sua articolazione nel settore più massiccio e diversificato delle sue produzioni di base, cioè nell’industria petrolchimica. Ancora nel ’56, quando i paesi occidentali, usciti stremati dal conflitto, già cominciavano a riprendersi anche in termini di capacità competitiva, la produzione petrolchimica USA costituiva 1’87,5% di quella mondiale. Da allora, e per tutti gli anni Sessanta e Settanta, la consistente crescita delle capacità produttive dei paesi industrializzati ha drasticamente ridimensionato il predominio statunitense. In USA, in questo periodo, circa i 3/4 dell’industria petrolchimica erano concentrati nell’area del Golfo e, limitatamente ai prodotti di base, le società petrolifere occupavano una posizione dominante, espressa da una quota del 70% della produzione nazionale, raggiunta nei 1974. Le società chimiche però mantenevano posizioni più competitive sia nel comparto degli intermedi che in quelli delle poliolefine degli elastomeri e degli altri polimeri; sicché la quota dell’industria petrolifera scende al 24% per gli intermedi e addirittura al 13% nella chimica dei polimeri. Lo sviluppo della petrolchimica in Europa ha caratteristiche non dissimili da quelle americane. Nel gruppo di testa si trovano la Germania occidentale, l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, ma il Belgio, con il polo di Anversa, e l’Olanda, con quello di Rotterdam, ospiteranno numerosi impianti, operanti anche per conto di società statunitensi. Le società europee più impegnate nella petrolchimica sono Bayer, Hoechst, Basf e Veba per la Germania, ICI per l’Inghilterra, Montecatini e Edison (dal ’65 Montedison) e ANIC per l’Italia, St. Gobain e Pechiney per la Francia, Solvay per il Belgio e DSM per l’Olanda. Ma a partire dagli anni Settanta, il Giappone si attesta in una posizione dominante facendosi precedere solo dagli Stati Uniti, come produttore di etilene, con una capacità produttiva che, nel ’76, sfiora i 6 milioni di t/a. Anche in Giappone, come nell’Europa occidentale, rileviamo la presenza delle maggiori compagnie petrolifere mondiali, operanti prevalentemente in joint–ventures con società giapponesi. Lo sforzo di crescita
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dell’industria petrolchimica giapponese risulta concentrato nella seconda metà degli anni Settanta, quando in un quinquennio ha più che quadruplicato la sua capacità produttiva. È interessante rilevare che, mentre l’industria chimica e petrolifera statunitense è già sbarcata in Europa e in Giappone, sul finire degli anni Settanta anche l’industria tedesca approda in USA e quella giapponese comincia a penetrare in Europa e in USA. Gli sviluppi di questa crescente internazionalizzazione, con i nuovi scenari che vengono così a configurarsi, si manifesteranno in maniera ancora più rilevante nei successivi decenni del Novecento.
Ricerca, ingegneria e industrie chimiche negli anni della globalizzazione e delle grandi concentrazioni (1980–1999)
Le crisi petrolifere del ’73 e del ’79 indussero gran parte dei maggiori gruppi chimici e petrolchimici a riconsiderare le strategie di sviluppo in precedenza adottate. Sicché, all’inizio degli anni Ottanta, nel mondo chimico prevalgono una propensione alla diversificazione e un orientamento della ricerca mirato a quelle innovazioni di processo in grado di far risparmiare energia. D’altra parte le concomitanti istanze di tutela ambientale, con una particolare attenzione rivolta all’effetto serra, contribuiscono al rafforzamento dì queste tendenze. Ma sono contemporaneamente in gestazione modifiche degli assetti politici di tale entità, da influire sulle strategie aziendali in misura paragonabile solo a quella riscontrata nel corso delle due guerre mondiali. La caduta del muro di Berlino, i conflitti del Medio Oriente, la disgregazione dell’Impero sovietico, la riunificazione delle due Germanie, il reinserimento dei Paesi d’oltre cortina nel contesto dell’Europa democratica, il nuovo corso instaurato in Cina, con graduali aperture all’economia di mercato, in concomitanza con altri avvenimenti non meno rilevanti, prospettano uno scenario di difficile messa a fuoco. Per molte industrie, e per quella chimica in particolare, il preteso emergere di una mondializzazione dell’economia, in presenza di un villaggio globale, sembra in contrasto con i tanti villaggi tribali, che nazionalismi, regionalismi e localismi non si stancano di invocare, come affermazione della necessità di disaggregare sistemi diventati inefficienti proprio per la pesantezza del vincolo dimensionale. Questa premessa vale solo a sottolineare che gli ultimi lustri del secolo si presentano come un periodo di transizione, che impone all’industria la capacità di adattarsi con sufficiente flessibilità ad orientamenti e tendenze ancora in via di definizione. È perciò importante seguire come l’industria chimica abbia potuto mantenere, negli anni Ottanta e Novanta, una dinamica di sviluppo da un lato coerente con i contributi dell’innovazione di processo e di prodotto, dall’altro compatibile con i crescenti vincoli imposti dalle esigenze di sicurezza, tutela ambientale e diseconomie esterne. Merita il primo posto in questa rassegna la biotecnica. Ci sono alcune ottime ragioni per questa preferenza. Intanto si tratta di biotecno213
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Capitolo XIII
logie e bioindustrie ispirate da una disciplina scientifica, la biochimica, il cui capitolo fondamentale la biochimica molecolare, ha come base di appoggio la teoria del DNA. Ed il modello delle due catene avvolte l’una sull’altra, con andamento antiparallelo, è stato, dopo venti cinque anni, definitivamente accettato solo all’inizio degli anni Ottanta. Ma la biotecnica è anche une delle tecnologie chiave della c.d. seconda rivoluzione industriale, con un ruolo fondamentale nell’industria della salute, nella scienza agraria, nelle manipolazione genetica di microrganismi, nella tutela ambientale e nei tanti campi che la cronaca quotidiana continua a segnalare. Ed ancora la biotecnica ha mostrato negli anni Ottanta e Novanta una dinamica di sviluppo singolarmente espressa da un’attività industriale, il cui successo poggia sullo stretto connubio di scienza, tecnica ed imprenditorialità. In questo comparto risultano largamente dominanti le posizioni degli USA e del Giappone, rispetto ad una Europa che pure ha dato con i suoi eminenti scienziati (Crick, Monod, Levi Montalcini, Dulbecco) un contributo fondamentale all’impianto della biochimica. Forse l’Europa non ha ancora sufficientemente avvertito il pericolo di trasformarsi in una colonia tecnologica delle imprese globali extracomunitarie. D’altra parte ricorre ancora una volta l’occasione per sottolineare che in USA e Giappone, alfieri del liberismo più avanzato, paradossalmente il sostegno statale alla ricerca e alla sperimentazione nei comparti più innovativi è molto più consistente di quello che si registra in Europa in condizioni analoghe. Per dare un’idea dell’articolazione, che esprime la varietà di applicazioni delle biotecnologie, proviamo a scorrerne i principali capitoli. L’industria diagnostica fornisce prodotti utilizzabili sia per i test che rientrano nella comune pratica di controllo della nostra salute, sia nella diagnostica agro–alimentare, ambientale e veterinaria. In questo comparto la produzione americana è sufficientemente contrastata da quelle inglese e francese. Le biotecnologie entrano naturalmente ormai quasi come parte integrante nell’industria farmaceutica. Rientrano nell’ampia gamma di applicazioni i nuovi metodi di produzione di vaccini, i prodotti del sangue, gli enzimi per uso terapeutico, i farmaci antinfettivi ed antitumorali, gli antibiotici ed i biomateriali. Hanno inoltre ampio mercato anche i prodotti ad uso zootecnico e quelli dell’industria biocosmetica. Nell’industria chimica i progressi delle biotecnologie hanno apportato sostanziali miglioramenti anche ai tradizionali processi di fermentazione alcolica, citrica e aceton–butilica, ma è nella chimica fine che essi hanno svolto un ruolo innovativo con
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la produzione di amminoacidi ed enzimi industriali, massicciamente impiegati anche nell’industria alimentare. Il caso dello sciroppo ad alto contenuto di fruttosio merita una particolare menzione, perché costituisce un’applicazione che vale un fatturato di alcune migliaia di miliardi di lire/anno. Infatti lo sciroppo dolcificante ad alto contenuto di fruttosio, highfructose core syrup (HFCS) secondo la denominazione americana, è largamente consumato in USA, come testimonia il suo impiego nella preparazione della Coca Cola e della Pepsi, e solo su quel mercato già nel 1988 si aggiudicò un fatturato di oltre 1,5 miliardi di dollari. Il processo era già noto nel ’67, ma per illustrare il ruolo che l’ingegneria chimica ha avuto nella trasformazione di un processo biologico in una tecnologia industriale mirata ad un mercato di dimensioni mondiali, ci atteniamo al rapporto della Commissione sulle frontiere dell’ingegneria chimica (Committee on chemical engineering frontier) pubblicato a cura della National Academy Press di Washington nel 1988. Per una massiccia produzione di HFCS si sono dovute sviluppare su scala industriale due distinte biotecnologie. Il primo processo è quello di fermentazione per ottenere l’enzima specifico; il secondo è quello che lo utilizza per convertire il glucosio in HFCS (al 42% o al 55% di fruttosio). Gli sforzi profusi in quest’impresa sono andati a buon fine perché il coinvolgimento degli ingegneri chimici fu tempestivo. La fermentazione per produrre l’isomerasi — l’enzima che isomerizza il glucosio in fruttosio — è relativamente veloce. Il processo può svolgersi con possibili varianti di lavorazione, purché siano assicurati la sterilità, un efficace scambio termico e di materia, un adeguato controllo delle concentrazioni di O2 e di CO2, regolando temperatura, pressione e livello del glucosio. L’agitazione costituiva un delicato problema per la fermentazione, perché il maltrattamento delle cellule può determinare la morte del microrganismo che produce l’enzima o rendere estremamente complicato il recupero dell’enzima dal brodo di fermentazione; ma gli ingegneri chimici non ebbero difficoltà a risolverlo appropriatamente. La conversione degli sciroppi di glucosio in HFCS richiede però due ulteriori operazioni di ingegneria chimica. La prima è la rigorosa purificazione del glucosio per rimuovere qualsiasi contaminante che possa inattivare l’isomerasi. Perciò lo sciroppo di glucosio viene rigorosamente demineralizzato, filtrato e raffinato su carbone, trattato con un cocatalizzatore al magnesio e portato ai voluti livelli di temperatura e acidità. A questo punto il glucosio è pronto per la seconda operazione e va ad alimentare una colonna che opera da reattore a letto fisso con un letto di enzima granu-
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lare immobilizzato. Non è raro che ci si avvalga di concentrazioni enzimatiche di oltre 10 milioni di unità di enzima attivo per piede cubico. In funzione delle condizioni di mercato il processo di isomerizzazione viene gestito con due impostazioni alternative. Nel periodo estivo, quando la domanda è alta, prevale la tecnica di un passaggio più veloce del glucosio sul letto enzimatico, tenendo più elevata la temperatura ed accettando una più rapida inattivazione dell’enzima. Ciò comporta una più frequente rotazione delle colonne, ma evita l’onere dell’investimento per una capacità eccedente. D’inverno, quando la domanda è al minimo, gli operatori dell’impianto riducono la portata per massimizzare la vita dell’enzima e ridurre corrispondentemente i costi. La durata del periodo di attività dell’enzima, infatti, può essere negativamente influenzata da un insufficiente controllo della temperatura e dell’acidità. I risultati economici della produzione di HFCS dipendono dunque dalla capacità di gestirla con una raffinata tecnica di controllo. I tempi record impiegati per sviluppare e portare l’HFCS ai livelli dì produzione e vendita qui richiamati, testimoniano in modo esemplare la versatilità e l’efficacia delle tecniche ingegneristiche. Non c’erano da scoprire nuovi principi di ingegneria chimica per fare dell’HFCS una realtà commerciale; quelli già acquisiti erano solo in attesa di essere applicati ad un sistema biologico. Gli enzimi industriali costituiscono una classe importante di prodotti che si arricchisce con continuità di nuovi esemplari per applicazioni innovative, e la glucosio–isomerasi è uno degli esempi più significativi. Questi enzimi vengono immessi sul mercato prevalentemente come polvere amorfa o microcristallina o in soluzione o in forma immobilizzata. La letteratura tecnica al riguardo consente di approfondire una tematica, della cui ampiezza abbiamo voluto fornire solo un cenno informativo. Ci limitiamo perciò ad aggiungere che nel corso degli ultimi anni si è arricchita la gamma dei prodotti della chimica fine ottenuti dai microrganismi o dai loro enzimi. Vitamine, antibiotici, coloranti, e ormoni steroidei costituiscono le classi più importanti e di maggior rilievo commerciale. Ma la versatilità dell’industria chimica emerge anche in altri comparti, come quello delle poliolefine, in cui l’ingegneria chimica, applicata alla scienza dei polimeri, realizza una nuova sintesi catalitica, che coniuga l’innovazione di processo con quella di prodotto. Alla metà degli anni Ottanta, quando la produzione di polietilene in USA si aggirava sui 7 milioni di ton/a, si era portati a ritenere che non valesse la pena im-
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pegnarsi in una ricerca innovativa per un prodotto maturo e in presenza dei massicci investimenti profusi nell’apparato produttivo. Ma gli ingegneri chimici della Union Carbide, andando controcorrente, progettarono un nuovo catalizzatore che avrebbe consentito la produzione di polietilene in un reattore a letto fluido, operante in fase gassosa a bassa temperatura e a bassa pressione (a meno di 100°C e a 21 Bar). Questo processo non solo dà luogo ad un polimero di eccezionale uniformità, ma è anche in grado di controllarne con precisione preso molecolare e densità. È evidente anche il guadagno ottenuto in termini di sicurezza per le blande condizioni di esercizio ed in termini di tutela ambientale per la soppressione di effluenti liquidi, mentre il gas non reagito viene ricircolato. Questo processo, denominato UNIPOL, ha incontrato il pieno gradimento dei produttori, sicché alla fine degli anni Ottanta la produzione di polietilene UNIPOL si aggirava intorno al 30% di quella mondiale. La versatilità del processo è stata poi ulteriormente confermata quando Union Carbide e Shell Chemical sono riusciti ad estenderne la validità alla produzione di polipropilene. Tant’è che le prime due licenze per la produzione di polipropilene UNIPOL sono state date ad una società chimica giapponese e ad una società petrolifera coreana. Ma anche nell’ambito dei processi di ossidazione la messa a punto di nuovi sistemi catalitici, ottenuti riconsiderando le potenzialità di catalizzatori tradizionali come le zeoliti, ha consentito di realizzare significative innovazioni di processo. Intendiamo qui riferirci ai processi di ossidazioni organiche che impiegano acqua ossigenata. È noto che nei processi industriali, per evidenti ragioni di economicità, i donatori di ossigeno preferiti sono l’aria o lo stesso ossigeno. Ma talvolta la limitata reattività di questi ossidanti o ragioni di tutela ambientale hanno dirottato gli operatori sull’acqua ossigenata, che non solo è il più efficiente donatore di ossigeno, ma dà anche la garanzia di trasformarsi, una volta assolta la sua funzione, nel più innocuo dei sottoprodotti di reazione cioè in acqua. Ma purtroppo la decomposizione di H2 O2 in H2 O e O2 avviene in modo inappropriato anche ad opera di impurezze presenti nei reagenti, che pure in tracce, funzionano intempestivamente da catalizzatori. Non sorprende perciò che nei processi per massicce produzioni industriali, come quello dell’ossido di propilene, si sia ricorso ad altri donatori quali il terbutilidroperossido (TBHP) o l’etilbenzeneidroperossido (EBHP). Di qui l’importanza della titanio–silicalite che ha conferito alle ossidazioni con acqua ossigenata uno specifico spazio applicativo. Ma i vari tipi di titanio–silicalite de-
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rivano dalle comuni e ben note zeoliti perché la loro sintesi è basata su una parziale sostituzione nelle zeoliti del silicio con il titanio, nei limiti dell’isomorfismo, lasciando cioè inalterata la preesistente architettura cristallina. Un importante contributo a queste sintesi è quello dato dai laboratori di ricerca dell’ENI di San Donato (Milano). Tra l’altro con la messa a punto della silicalite TS–1 si è reso disponibile un catalizzatore industrialmente valido sia per l’ossidazione del fenolo a catecolo, sia per la produzione di cicloesanonossima da cicloesanone e ammoniaca, sempre impiegando come donatore di ossigeno l’acqua ossigenata. La sostituzione isomorfa nelle zeoliti del silicio con titanio o zirconio ha suscitato grande interesse negli ambienti scientifici, e molti laboratori di ricerca hanno continuato a mettere a punto catalizzatori validi per specifici processi ossidativi con H2O2. La menzione riservata ad un tema, che solo in parte è riferibile alla storia dell’industria, è mirata ad evidenziare le possibilità innovative che scaturiscono da un’intelligente riconsiderazione di sistemi tradizionali. Ma in questa pur veloce rassegna sembra appropriata una rapida carrellata proprio su quelle innovazioni tecnologiche nella ricerca e nei processi che hanno aperto la strada alla produzione dei materiali più innovativi. L’elenco è ricco di esempi significativi, ma sarà sufficiente limitarsi ad illustrare alcuni casi, che hanno fatto spicco negli anni Ottanta e successivi. Nel campo delle macro–molecole la capacità del processo chimico di controllare la struttura del materiale nella fase di aggregazione delle sue microscopiche fibridi elementari ha portato alla produzione di fibre ultraresistenti, con valori del rapporto resistenza/peso perfino di un ordine di grandezza superiori all’acciaio. Il caso più noto è quello del Kevlar, una fibra aramidica filata con una tecnica di alta scuola ingegneristica. Si opera infatti, in primo luogo, conducendo la polimerizzazione sì da ottenere un polimero lineare di elevata rigidità, scegliendo nel contempo le condizioni per la formazione e la permanenza della fase liquida in regime di anisotropia, cioè con le grosse molecole che spontaneamente si orientano in modo uniforme. Così, durante la filatura, gli strati preorientati della fase liquida anisotropa si allineano con l’asse della fibra determinando le eccezionali caratteristiche di resistenza e rigidità, proprie di questo prodotto. L’adozione del metodo di filatura di polimeri fusi in fase anisotropica, è stata poi estesa sia ai polimeri dell’ultima generazione, come il polibenzotiazolo, sia a polimeri tradizionali come il polietilene. Sono state infatti ottenute fibre ultraresistenti di polietilene filando il polimero alimentato in fase di gel.
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Anche i prodotti ceramici avanzati e compositi hanno finito col richiamare un impegno crescente dei laboratori di ricerca e dell’ingegneria chimica, per lo spettro sempre più ampio delle applicazioni che spaziano dal termico al nucleare, dall’ottico al biologico/chimico e al meccanico. Così come i liquidi compositi, che danno sì vita ad una classe di prodotti impiegati in comparti ben noti, ma che sono privilegiati quando i prodotti tradizionali, per le severe condizioni di esercizio, non sono in grado di assolvere la propria funzione. Casi che si verificano per i lubrificanti chiamati ad operare tra i –40°C e i 200°C, per gli adesivi avanzati per aviogetti o per i fanghi di perforazione impiegati nelle situazioni reologicamente più critiche. Si insiste nell’elencare, ma l’elenco è solo parziale, le direttrici d’impegno dell’ingegneria chimica nel campo delle ricerche più avanzate, proprio perché in questo ambito il compito dei ricercatori non si esaurisce certo con la definizione della sequenza di reazioni che costituisce la parte chimica del processo. L’esperienza ha ormai reso l’industria chimica sempre più avvertita della necessità di far procedere di pari passo la ricerca chimica, la progettazione ingegneristica e la sperimentazione merceologica e tecnologica del prodotto. Ma in molti dei casi citati il contributo dell’ingegneria chimica non solo è stato importante per il successo della ricerca, ma è risultato indispensabile perché il processo incorporasse anche il know–how mirato a risolvere preventivamente quei problemi sicurezza e di tutela ambientale, che troppo spesso in passato sono stati affrontati e risolti nel corso della gestione di esercizio cioè ad impianto ultimato. E peraltro non mancano esempi comprovanti che tuttora persiste il criterio di far procedere ricerca e progettazione in serie anziché in parallelo, col pericolo di rilevare tardivamente punti critici del processo. A prima vista è sorprendente che a fronte di questa travagliata, ma dinamica storia dell’industria chimica e al tumultuoso susseguirsi di scoperte scientifiche ed innovazioni tecnologiche, la classifica delle aziende leader a livello mondiale sia rimasta, per quasi un secolo, sostanzialmente inalterata. All’inizio del Novecento, ma con più sicuro riferimento all’inizio degli anni Venti, la scena mondiale era dominata dalla EI DuPont de Nemours, dalla chimica inglese, poi in gran parte confluita nella Imperial Chemical Industries, e dalle tre grandi tedesche BASF, Bayer e Hoechst prima confluite nella IG Farben, poi ripristinate nella identità iniziale. Si rileva che l’inserimento della Dow Chemical e della Rhône Poulenc non altera comunque l’ordine del gruppo di testa, mentre la posi-
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zione della chimica giapponese è ragguardevole proprio per l’articolazione della sua presenza con fatturati di rilievo anche in comparti specialistici. La dinamica delle operazioni di fusioni societarie in campo farmaceutico ha portato ad un gigantismo, sul quale ritorneremo in questo capitolo riprendendo il tema della ricerca. Ma nei campi più innovativi, come quello dei semiconduttori, dei sensori e delle fibre ottiche, lo straordinario sviluppo delle attività produttive e commerciali in questi ultimi vent’anni, si è verificato, in buona parte, anche al di fuori del circuito delle aziende leader della grande chimica. Si tratta peraltro di comparti in cui la chimica, in termini di ricerca e di ingegneria, svolge sì un ruolo ancillare, ma da serva padrona, e sembra quindi naturale che le industrie beneficiarie abbiano in molti casi preferito assumere la gestione diretta dei processi innovativi e produttivi. Si prenda il caso dei semiconduttori che, come è stato indicato nel capitolo XI, sono venuti alla ribalta nel secondo dopoguerra. Ci sono voluti anni di ricerca tenace, intelligente, talvolta geniale, per mettere insieme la sequenza di reazioni, reagenti chimici, processi di separazione e purificazione, progettazione e gestione di sofisticati sistemi di controllo per padroneggiare la produzione dei microcircuiti, a base di semiconduttori, con la flessibilità indispensabile per adattarli alle più svariate esigenze. È così che la microelettronica si è progressivamente estesa dagli articoli di consumo quali calcolatori, PC, orologi digitali, forni a microonde et similia alle unità di elaborazione dati impiegate nelle comunicazioni, nella difesa, nell’istruzione, nell’esplorazione dello spazio e in medicina. Per dare un’idea del contributo che la chimica ha dato a questo sviluppo, basta ricordare com’è cresciuta la densità dei componenti contenuti in un singolo chip. Finché si è impiegato silicio puro la densità è cresciuta di mille volte nel decennio 62/72 e di cento volte nel decennio 72/82; ma quando si è passati all’arseniuro di gallio la densità dei componenti nel singolo chip è cresciuta, nel decennio 75/85, di 40.000 volte. Comunque all’inizio degli anni Novanta la densità dei componenti si attestava intorno al milione sia per il chip al silicio che per quello all’arseniuro di gallio (GaAs). Non possiamo addentrarci nelle tecniche di fabbricazione dei circuiti integrati, ma poiché si tratta di una produzione che richiede la capacità di coniugare esperienza nella progettazione elettronica con quella occorrente per lo sviluppo di delicati processi chimici, è conveniente dare almeno un’idea delle fasi fondamentali della lavorazione. In realtà le tecniche di lavorazione utilizzate costituiscono l’industrializzazione di processi che, solo pochi anni addietro, sarebbe stato già difficile re-
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alizzare in microscala in un laboratorio chimico ben attrezzato per la ricerca fondamentale. Occorre infatti produrre, come materia prima di base per i circuiti integrati, silicio policristallino di straordinaria purezza (con impurezze inferiori alle 150 parti per trilione) da silicio al 98% ottenuto per via metallurgica. La prima fase è quella d’attacco del silicio grezzo con HCl ad alta temperatura per ottenere una miscela complessa contenente triclorosilano. Segue la fase di separazione e purificazione del triclorosilano mediante assorbimento e distillazione. Si procede quindi alla riduzione del triclorosilano ultrapuro a silicio policristallino, facendolo reagire con idrogeno a 1100–1200°C. Per produrre i lingotti di monocristallo di Si, richiesti per la preparazione dei semiconduttori, occorre infine fondere il silicio policristallino a 1400–1500°C in crogiuolo mantenuto in atmosfera d’argon. Nel bagno di fusione si aggiungono quantità minime di droganti in forma di composti di fosforo, arsenico o boro, per impartire le volute caratteristiche elettriche al prodotto finale costituito da wafers di monocristallo. Ma prima un minuscolo seme di cristallo di Si, con l’appropriato orientamento cristallino, viene inserito nel bagno di fusione; quindi con un delicato processo di lenta rotazione ed estrazione, in misure rigorosamente controllate, s’ottiene la formazione di un grosso cilindro di monocristallo di 14 cm di diametro e 180 cm d’altezza. I lingotti che via via si formano vengono affettati in forma di wafer, lucidati ad un grado di levigatezza compreso tra 1 e 10 µm. Le fasi successive rientrano nella vera e propria fabbricazione del dispositivo elettronico con deposito e stratificazione alternati di film dielettrico e film conduttore con tecnologie molto sofisticate. Basta pensare che il levigato wafer di silicio deve essere ossidato in un forno a 1000–1100°C per ottenere un film uniforme dello spessore di qualche centinaio di nanometri. Non meno sofisticate sono ora le tecnologie impiegate per la fabbricazione delle fibre ottiche. Poiché si tratta di fili di vetro non si intuiscono immediatamente le difficoltà connesse alla loro produzione. Ma il problema si chiarisce precisando che questi sottili fili di vetro devono lasciare scorrere la luce, non consentendole di attraversare le pareti e funzionando quindi sostanzialmente da guide d’onda. Gli impieghi più noti delle fibre ottiche sono nell’endoscopia (illuminazione e osservazione di punti in pratica non altrimenti accessibili) e nella trasmissione di informazioni, codificate in forma di segnali luminosi, come avviene nelle reti telefoniche e in quelle televisive via cavo. Si tratta di un mercato che ha già raggiunto le dimensioni di miliardi di dollari. Pur costituite essenzialmente da un’anima di ve-
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tro inguainata in un involucro di plastica le fibre ottiche si distinguono in monomodali, se trasmettono la luce ad un angolo prefissato rispetto all’asse della fibra, e in multimodali, se la luce viene trasmessa incidendo ad angoli diversi (i c.d. angoli di accettazione). Peraltro anche le fibre ottiche sono il risultato di processi chimici ovviamente molto più complessi e dispendiosi anche di quelli impiegati per i cristalli più pregiati. Il principio utilizzato per ottenere la propagazione della luce lungo il filamento che costituisce la fibra ottica è sostanzialmente quello di realizzare l’accoppiamento tra un’anima ad alto indice di rifrazione ed un involucro di rivestimento a basso indice di rifrazione. Per il materiale a indice più elevato si ricorre a silice drogata con ossidi di fosforo, germanio e/o alluminio, per quello ad indice inferiore, cioè per il rivestimento, si impiega silice pura o drogata con fluoruri o ossido di boro. Alla fine degli anni Ottanta i processi affermatisi nella pratica industriale per “fabbricare” il corpo di vetro della fibra ottica erano sostanzialmente quattro, due per via “esterna” e due per via “interna”. I primi, mediante ossidazione del silicio in fase vapore e deposizione del prodotto lungo un asse verticale, generano depositi stratificati di silice drogata, variando la concentrazione dei tetracloruro di Si e dei droganti, che passano attraverso una torcia. La risultante “fuliggine” di silice drogata è depositata e parzialmente sinterizzata in modo da formare uno stoppino di silice porosa, che poi viene ulteriormente sinterizzato nella verga finale senza pori e di eccezionali purezza e trasparenza. I processi per via interna si distinguono a loro volta in quello a deposizione modificata di vapore chimico (MCVD) e in quello a deposizione dì plasma di vapore chimico (PCVD), ma l’illustrazione di queste tecniche specialistiche è riservata ai testi mirati al tema specifico. Ritornando al filone più tradizionalmente chimico, è l’industria farmaceutica il comparto in cui la ricerca continua a tener banco. Mentre negli altri comparti chimici la ricerca è un valido strumento per l’innovazione di processo e di prodotto, per il farmaceutico la ricerca è diventato lo strumento fondamentale per la stessa sopravvivenza dell’azienda. Basta pensare che per un nuovo medicinale il tempo intercorrente tra l’inizio della ricerca e la sua comparsa sul banco della farmacia, si aggira tra i cinque e i dieci nni, con costi che, per i prodotti terapeuticamente più significativi, sono sempre dell’ordine di centinaia di miliardi, superando talvolta i mille miliardi di lire. Forse questa peculiarità dell’industria farmaceutica contribuisce a spiegare la
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tendenza delle aziende leader a raggrupparsi in entità industriali di dimensioni e potenza finanziaria sempre più rilevanti, con un’aggressività che sembrava estranea agli operatori di un settore certo non avaro di dividendi. Alla sequenza di megafusioni, che è la manifestazione tipica di questa tendenza, avevano dato inizio nell’89 la Beecham e la Smithkline con un’operazione da 4.800 miliardi di lire. Nel ’94 è l’American Home che si unisce con la Cyanamid creando un complesso da 15.000 miliardi di fatturato. Nel ’95 si sono poi registrate la fusione della Glaxo con la Wellcarne, che ha creato un soggetto da 27.000 miliardi, e quella della Pharmacia con Upjohn, con un fatturato globale di 23.000 miliardi. Con la nascita della Novartis, originata dalla fusione della Ciba e della Sandoz, entra in scena nel ’97 un gruppo da 40.000 miliardi di fatturato. Nel ’98 si è addirittura tentato la fusione della Smithkline–Beecham con la American Home per creare un gruppo da 48.000 miliardi, ma l’unione si è dissolta prima di diventare operativa. E nei giorni immediatamente successivi all’annuncio del fallimento di questa operazione, gli azionisti hanno visto diminuire in Borsa il valore delle loro azioni per un ammontare di oltre 40.000 miliardi. È questa un’elencazione destinata ad arricchirsi di altri episodi, mentre la tendenza al gigantismo troverà riscontro anche nel settore petrolifero (e petrolchimico) con la fusione di Exxon con Mobil. Ma mentre l’onerosità della ricerca sembra costituire, almeno nell’ambito dell’industria farmaceutica, uno stimolo ad attenuarne l’impatto mediante un sovradimensionamento aziendale, si riscontra la crescente necessità di far procedere la ricerca stessa con una verifica a tutto campo della compatibilità delle attività industriali che ne conseguono, con le primarie esigenze di tutela ambientale e/o sanitaria o addirittura di sicurezza, in termini di difesa in caso di conflitto. È noto, ad esempio, il conflitto tra gli antivivisezionisti e l’industria farmaceutica, che è spesso costretta a ricorrere alla sperimentazione su cavie. È questo tuttavia un conflitto che si è manifestato soprattutto in termini di contrapposizione ideologica. Ma quando nel ’98 la Novartis si è impegnata in una campagna pubblicitaria mirata a favorire la penetrazione in Europa di prodotti agricoli biotecnologici, sui quali ha investito centinaia di miliardi, si è subito formato uno schieramento di Verdi che si oppone duramente all’accettazione di questi prodotti. Ed i cultori europei dell’agricoltura tradizionale sono naturalmente orientati ad affiancarsi ai Verdi, anche per contrastare l’importazione di prodotti agricoli americani. Ma di ben altra portata è il rischio che nasce dal traffico di bacilli
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per la preparazione di vaccini. Secondo il noto giornale francese “Le Figaro” quando, tra l’85 e l’87, biologi irakeni chiesero bacilli di antrace a vari laboratori, gli inglesi risposero negativamente e l’Istituto Pasteur fornì un bacillo “attenuato”, cioè suscettibile di utilizzazione solo per la produzione di vaccino, mentre un laboratorio del Maryland avrebbe aderito alla richiesta così com’era stata formulata. Mancano però dettagli che consentano di valutare l’episodio in modo attendibile. Resta comunque il fatto che l’antrace è un’arma letale, perché uccide l’uomo per congestione polmonare e che il timore che l’Iraq avesse una larga disponibilità di “armi letali” di questo tipo ha determinato nel ’98 una seria possibilità di conflitto. La digressione vale solo ad evidenziare la difficoltà, in tempi di grande evoluzione tecnologica, di contenere qualsiasi attività industriale nell’alveo dei suoi scopi istituzionali. Sembra proprio la chimica delle produzioni di massa quella che anche nella storia più recente continua a svilupparsi nel filone tradizionale, senza accusare le tipiche regressioni delle produzioni più mature. In particolare la petrolchimica, dopo avere caratterizzato con il suo sviluppo la dinamica di espansione dell’industria chimica nella seconda metà del Novecento, continua ad essere, negli ultimi lustri, il comparto di riferimento per la chimica di base e per gli intermedi. Ed il centro motore della sua dinamica è il cracking per la produzione di olefine, diolefine e aromatici. Ed è proprio in questo settore, certamente maturo in termini anagrafici, che si registrano modificazioni degli assetti tradizionali e nuove tendenze, che meritano un’attenta considerazione. Occorre in primo luogo rilevare che il baricentro delle produzioni, tradizionalmente gravitante tra il Nordamerica e l’Europa, tende a spostarsi ad Oriente. Concorrono a questa dinamica i Paesi del Medio Oriente, quelli del Sudest asiatico e la Cina, con il cospicuo contributo dei grandi operatori americani ed europei, che subiscono l’attrazione dell’apertura dei grandi mercati dei paesi di nuova o recente industrializzazione. A questa tendenza in molti casi si accoppia una più ampia scelta di materie prime e di modalità operative del cracking, in relazione alle particolari disponibilità di idrocarburi ed alle specifiche esigenze di carburanti e di energia. È appena il caso di rilevare che questo scenario ha offerto motivi di grande interesse alle società italiane di ingegneria e servizi che, nel biennio 95/96, con un fatturato di 13.000 miliardi/anno hanno operato proprio in quei paesi prevalentemente nei settori petrolchimico, petrolifero ed energetico (condotte e centrali).
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Nella chimica di base la razionalizzazione ha avuto il suo concreto avvio fin dalla prima metà degli anni Ottanta, quando la prima crisi di crescita del mercato delle poliolefine aveva determinato la chiusura degli impianti di cracking afflitti da diseconomie di scala o di ubicazione. Particolarmente in Europa la vetustà e/o l’obsolescenza tecnica degli impianti oberati da trenta e più anni di esercizio, hanno facilitato la terapia dello sfoltimento. Nella ricostituzione e, successivamente, nel potenziamento delle capacità produttive si è dovuto tener conto della differente dinamica di crescita del polietilene e del polipropilene. Infatti il mercato di quest’ultimo ha fatto registrare tassi di crescita più elevati determinando una minore convenienza ad impiegare etano come materia prima per il cracking. Si è ritenuto che così si ristabilisse una maggiore competitività tra i produttori petrolchimici europei, giapponesi e sudorientali con i loro cracking alimentati a virgin–naphta e quelli mediorientali e statunitensi in grado di alimentare gli impianti di olefine con miscele di idrocarburi leggeri ricche di etano. Nella seconda metà degli anni Novanta sembra prevalere, come materia prima più conveniente per la produzione olefinica, un taglio leggero paraffinico e gli operatori del settore privilegiano naturalmente il distillato esente da zolfo e ricco di normalparaffine. Ma il fenomeno più vistoso è quello dello spostamento del baricentro delle capacità produttive verso l’Estremo Oriente. Nella sola Cina gli impianti in costruzione e quelli progettati per andare in marcia nei primi anni del duemila dovrebbero dare a quell’enorme mercato la disponibilità di alcuni milioni di t/a di olefine e poliolefine. Tralasciando l’elencazione di quella molteplicità di iniziative che da tempo alimentano la cronaca, basterà accennare alla nascita in fieri, sotto l’egida di Sinopec, organo ufficiale di China Petroleum, di un colosso petrolchimico, con un organico che si aggira sulle 100.000 unità e un turnover annuale di circa 4 miliardi di dollari. Questo gigante dell’industria chimica cinese nasce, con un capitale finanziario di circa 6 miliardi di dollari, dalla fusione di Yizheng Chemical Fibre, Jinling Petrochemical, Yangzi Petrochemical e Nanjing Chemical. L’ampio programma di nuove iniziative ha previsto una joint–venture della Yangzi con Basf, basata su un cracker da 600.000 t/a di etilene ed un investimento di 3,5 miliardi di dollari, un’altra joint–venture della stessa Yangzi con Dow Chemical per realizzare un impianto di PET (polietìlentereftalato) da 140.000 t/a ed una joint–venture con Eastman Chemical basata sulla costruzione di un grosso impianto di poliolefine. Che la petrolchimica sia al centro degli interessi cinesi è poi confermato dal progetto di joint–venture
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della Shangai Petrochemical Company (SPC) con la BP Chemicals, per un investimento di circa 2,5 miliardi di dollari, destinati alla costruzione di un complesso industriale basato su un cracker da 650.000 t/a di etilene. La Sinopec che controlla la SPC, ha concluso, nell’interesse di altre sue affiliate, importanti accordi con la BP Chemicals per iniziative di rilievo, che renderanno disponibili nei prossimi anni per l’industria chimica cinese grosse unità produttive di acido acetico ed acrilonitrile. La dinamica dell’industria chimica cinese di questi anni rende attendibile la previsione di alcuni economisti che vedrebbero la Cina, entro il 2010, maggior produttore mondiale di olefine e poliolefine (sempre che non venga a mancare il supporto finanziario dello stato e degli investitori stranieri). Senza un consistente mercato locale, ma nella posizione di maggior produttore mondiale di idrocarburi (petrolio e gas), il Medio Oriente è anch’esso protagonista, in campo petrolchimico, per la dimensione delle iniziative industriali che hanno poi un significativo riflesso sull’equilibrio mondiale del rapporto domanda–offerta. In quest’ambito è l’Arabia Saudita, e per essa la SABIC (Saudi Basic Industries Corporation), che domina la scena. Si registra in primo luogo la programmazione di un nuovo impianto etilene da 800.000 t/a, la cui costruzione e gestione sono affidate alla Petrokemya (Arabian Petrochemical Company), società interamente controllata dalla SABIC, che ne prevede la messa in marcia a breve termine. Ma per comprendere la strategia industriale di questo colosso petrolchimico occorre ricordare le iniziative a valle che si collegano all’accresciuta disponibilità di etilene. Prioritariamente si procede ad un incremento produttivo di polietilene, mediante interventi sugli impianti esistenti, per ottenere un aumento di capacità di 300.000 t/a destinato alla produzione di HAO (alta alfa olefine) e HDPE (polietilene ad alta densità). Si prevede inoltre di dotare lo stabilimento di Al–Jubail di un nuovo impianto di glicole etilenico della capacità di 500.000 t/a, portando la capacità totale della SABIC, in termini di glicole mono, di e trietilenico a poco meno di 1, 5 milioni di t/a. Si rafforza così la leadership dell’Arabia Saudita come fornitore di glicole etilenico sul mercato petrolchimico mondiale. Restando in tema di record occorre registrare l’iniziativa della BASF, che ha programmato la costruzione negli USA, in joint–venture con la Fina, di un impianto di olefine, la cui capacità, solo in termini di etilene, ammonterebbe a 820.000 t/a. Quest’iniziativa confermerebbe che le grandi società chimiche europee stanno sempre più spostando i propri investimenti oltre i confini della stessa Europa.
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La petrolchimica resta quindi, anche negli anni di transizione tra i due millenni, il comparto nel quale continuano a concentrarsi enormi investimenti per il concomitante impegno delle industrie chimiche e petrolifere. Ma la convergenza di queste due grandi industrie non è confinata alla sola petrolchimica. La raffinazione infatti dispone ormai di una molteplicità di processi chimici, prevalentemente catalitici, che le consentono di manipolare i grezzi, selezionati secondo criteri di convenienza economica, per ricavarne prodotti sempre meglio rispondenti alle esigenze di mercato ed a quella di una sempre più vigile tutela ambientale. Ma la crescente richiesta di benzina e gasolio per autotrazione, di jet–fuel per turboreattori e di virgin–naphta per la petrochimica impone un sostanziale “alleggerimento del barile”, pur in presenza di un grosso mercato di prodotti pesanti (olio combustibile, bitume, coke e una gamma di altri prodotti di maggior pregio, tra i quali primeggiano i lubrificanti e le normalparaffine pesanti, solide e liquide). Questi processi di “alleggerimento“, in particolare quelli catalitici, hanno però l’inconveniente di portare all’accumulo in raffineria di residui molto pesanti, di difficile smaltimento anche per l’alta concentrazione di sostanze inquinanti. Provvidenzialmente, a questo punto, è intervenuta l’industria energetica che, con il suo fabbisogno di gas combustibile, ha creato un’altra occasione d’incontro tra la chimica e la raffinazione. Infatti i progressi realizzati nella tecnica di gassificazione dei residui pesanti con ossigeno ha orientato gli imprenditori petroliferi ad integrare l’attività di raffinazione con quelle di produzione termica e/o termoelettrica. All’estero, e particolarmente nel Nordamerica, sembra prevalente il ricorso alla gassificazione e alla produzione termica. In Italia, grazie anche alla liberalizzazione della produzione di energia elettrica, prevale il ciclo integrato appunto con produzione di energia elettrica. Si registrano così, nell’Italia insulare e in quella continentale, varie iniziative che vedono l’industria chimica gestire la produzione di ossigeno e la gassificazione, con appropriate tecniche di purificazione dei residui pesanti, e quella petrolifera nella nuova veste di impresa termoelettrica. La chimica organica appare ormai depositaria dei processi fondamentali per le attività della petrolchimica e della raffinazione; ed anche per quelli delle materie plastiche, degli elastomeri, delle fibre sintetiche, della detergenza, degli ausiliari e di tanti altri comparti industriali. Con il contributo determinante della biochimica essa ha, proprio in virtù dell’ingegneria genetica, l’assoluto predominio in campo
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Capitolo XIII
farmaceutico, alimentare ed agroalimentare. Questa leadership sembrerebbe sottintendere che i contributi della chimica inorganica allo sviluppo della grande industria chimica sono ormai marginali o sostanzialmente confinati al miglioramento dei processi impiegati nelle produzioni tradizionali dei comparti più maturi. Ma se facciamo riferimento alle molteplici innovazioni tecnologiche che, pur concentrate negli ultimi venti–trent’anni del Novecento, hanno contrassegnato lo sviluppo della ricerca più avanzata, dobbiamo prendere atto che anche la chimica inorganica ha avuto un ruolo primario, non solo al servizio della stessa industria chimica, ma anche, e forse in misura prevalente, al servizio delle attività industriali più innovative. Senza entrare in un’approfondita analisi, con dettagli di carattere specialistico, basterà ricordare quale impatto ha avuto lo studio sistematico delle strutture di minerali quali, ad esempio, le zeoliti e gli spinelli. Lavorando sulle prime la ricerca è approdata ad una nuova classe di catalizzatori, la titanio–silicalite. Ma è appena il caso di ricordare che, in termini più generali, tutta la catalisi eterogenea si fonda sullo studio di specifiche proprietà di minerali e metalli. Lavorando invece sugli spinelli la ricerca è approdata alle ferriti, materiali quasi ceramici, spesso magnetici, contenenti ossido di ferro. Qui ci riferiamo alle ferriti commerciali che hanno trovato impiego nei trasformatori ad alta frequenza, nei filtri, nelle memorie magnetiche, nei magneti permanenti e nei nuclei d’antenna dei radioricevitori. Notevole è poi stata l’applicazione delle ferriti nelle memorie e nei circuiti logici dei calcolatori numerici. Con la catalisi eterogenea metallurgia, mineralogia e cristallografia sono diventate discipline determinanti in specifici comparti dell’industria chimica. Ora poi, con la diffusione delle marmitte catalitiche, milioni di utenti vorrebbero capire di quali magici poteri sia dotato il platino che, con l’ausilio di una precisa regolazione elettronica, riesce a completare la reazione di combustione del carburante, eliminando gli incombusti inquinanti dai gas di scarico. Di silicio, silice, fluoro, acido fluoridrico, uranio e di altri elementi e composti inorganici abbiamo avuto modo di richiamare il fondamentale ruolo svolto nello sviluppo delle più svariate attività industriali, in questo capitolo e nei precedenti. Ma nel proporre una riflessione più unitaria sulla chimica, organica o inorganica che sia, ci si avvede che ormai la stessa ricerca può operare in ambito specialistico solo quando si occupa di manutenzione di processi o di miglioramento qualitativo di prodotti. Non appena però la ricerca deve affrontare temi sostanzialmente innovativi,
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già sfumano i confini tra la ricerca di base e quella mirata ed emerge sempre più frequentemente la necessità di un lavoro di gruppo in cui il chimico, il fisico, l’ingegnere, il biologo, l’analista ed altri specialisti possono di volta in volta avere un ruolo preminente. Sempre più di rado invece si verifica il caso di temi innovativi che si possano affrontare con il lavoro del ricercatore solitario. Il presente sembra quindi proporci per il prossimo futuro un modello di sviluppo dell’industria chimica sempre più affidato alla capacità di operare efficacemente con criteri interdisciplinari.
Considerazioni conclusive
Un profilo storico, come quello fin qui delineato, non si presta a fornire indicazioni determinanti sugli sviluppi futuri dell’industria chimica. È tuttavia legittima un’analisi probabilistica dei fattori che potranno nel prossimo futuro influire significativamente sugli sviluppi qualitativi del settore in termini di innovazione correlata alla ricerca, al mercato e ad orientamenti politici volti ad indirizzare lo sviluppo stesso nella direzione di obiettivi preselezionati mediante finanziamenti alla ricerca mirata. Occorre tuttavia, in questa esercitazione, pur sempre rischiosa, fare preliminarmente una netta distinzione tra i problemi che assillano i paesi industrialmente maturi e quelli che incombono sulle economie dei paesi di più recente industrializzazione. Nel caso dei paesi ad economia industriale avanzata le opzioni che si presentano includono in primo piano la tutela ambientale e quella della salute umana con la sicurezza dei singoli e quella collettiva (territoriale e militare). Di pari rilievo le tecnologie connesse ai rami più innovativi e moderni delle industrie informatica, genetica e telefonica per i contributi che la chimica è in grado di fornire, nel suo ruolo ancillare, inteso nella sua più qualificata accezione. È quanto mai opportuno per illustrare questi concetti ricorrere a fatti concreti. Riferendoci alle istanze di tutela ambientale prevalenti nei paesi più industrializzati e quindi più sensibili ai problemi dell’inquinamento, gli orientamenti statunitensi sono esemplarmente significativi. Da decenni in Usa abbondanti finanziamenti statali assistono l’agricoltura e l’industria dell’etanolo per favorire l’impiego di una benzina “verde” contenente un 10% di alcool. Ancora alla fine del 97 il presidente Clinton ha previsto agevolazioni fiscali annuali pari a 5 miliardi di dollari per incoraggiare l’uso di questo carburante alternativo. E la stampa americana, nel commentare favorevolmente la risoluzione perché contribuisce a ridurre le emissioni di anidride carbonica (in verità in misura molto modesta!) non si è peritata di considerarlo un fatto rivoluzionario come l’impiego del silicio nei circuiti integrati. Alla luce di questi fatti appaiono meno singolari, e comunque meritevoli di una critica meno severa, sia l’impostazione agro–industriale del Brasile per la produzione di alcool per fermentazione dello zucchero di canna, sia la tentazione ricorrente in Francia e in Italia, finora fortunatamente senza conseguenze, di avvalersi per lo stesso scopo delle eccedenze vitivini231
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Capitolo XIV
cole. Ma negli Stati Uniti si avverte il peso crescente che l’indirizzo politico può esercitare sugli orienta menti industriali dall’evidenza dei sempre più ampi spazi di potere acquisiti dall’Ente governativo per la tutela ambientale EPA (Enviromental Protection Agency). In questo caso, secondo la stampa americana, può addirittura accadere di dovere prendere atto di interventi non previsti dalla legge istitutiva perché l’EPA commina multe, emana disposizioni cogenti e può perfino mandare gente in prigione. Si può forse percepire il potere dirigistico di questo ente, creato da Nixon negli anni Settanta; rilevando che, con un organico di circa 19.000 persone l’EPA ha presentato per il 1998 un budget di 7 miliardi di $. In Europa è finora prevalso l’orientamento di demandare direttamente al potere politico il compito di sovrintendere alla gestione della tutela ambientale. Ne deriva una gestione forse meno qualificata in termini tecnico–scientifici, ma più accettabile sotto il profilo garantistico. Ad esempio in Italia è il Ministro dell’ambiente che provvede a varare il decreto che esplicita le norme per la disciplina dei trattamento dei rifiuti generici, pericolosi e da imballaggio, per recepire le corrispondenti tre direttive comunitarie, dettando le procedure per la realizzazione di nuovi impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti stessi. Certamente in Europa il dibattito sui grandi temi della tutela ambientale si caratterizza con una dialettica che consente una più equilibrata contrapposizione di tutori ed operatori. È indicativa al riguardo la vicenda del PVC, originata dalla relazione della Commissione svedese sulle sostanze chimiche, nella quale si raccomanda di cessare la produzione e l’uso del PVC entro il 2007. Questo orientamento nasce dalla convinzione che mancano sufficienti conoscenze e quindi rassicuranti conclusioni sugli effetti a lungo termine del persistente impiego del PVC in danno dell’ambiente e della nostra salute. Il Consiglio Europeo dei produttori di vinile naturalmente reagisce impegnandosi a sostegno dell’industria svedese con argomentazioni sorrette da studi approfonditi a dimostrazione dell’affidabilità del PVC in fase di produzione, uso e smaltimento. Il Consiglio Europeo (ECVM) fa addirittura addebito alla Commissione svedese sulle sostanze chimiche di aver volutamente ignorato sia le raccomandazioni dell’Ente svedese per la tutela ambientale sia il parere espresso dall’Ispettorato svedese per i prodotti chimici nazionali. E poiché il punto più debole della replica è la tecnica di smaltimento l’ECVM rileva che proprio in Svezia si stanno introducendo programmi di riciclaggio per tubature e pavimenti. Non si manca naturalmente dì far pesare
Considerazioni conclusive
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politicamente il pericolo di mettere a repentaglio posti di lavoro. Ma questo dibattito all’interno della Comunità europea appare forse marginale rispetto a quello in corso tra la Comunità internazionale e gli Stati Uniti. Si fa infatti rilevare che gli USA, con il 4% della popolazione mondiale, sono responsabili del 25% delle emissioni di anidride carbonica. Si teme, non senza fondamento, che i punti di vista delle parti interessate siano inconciliabili, visto che anche le conclusioni della conferenza di Tokio sul clima (dicembre 1997 con 168 paesi partecipanti) hanno finito col ricalcare, in termini di efficacia delle azioni risultanti, la deludente storia della conferenza di Rio (1992). Forse più che sulla task force dei 2000 scienziati dell’ONU si può far conto sul crescente peso che, specie negli Stati Uniti, la lobby delle industrie ad alta innovazione tecnologica sta acquisendo nel bilanciare l’influenza, esercitata finora con successo, dalla lobby dei colossi del petrolio. Per comprendere appieno l’importanza che il dibattito sui temi della tutela ambientale potrà avere per lo sviluppo di importanti settori dell’industria chimica basta riflettere sull’influenza che esso ha già esercitato nei confronti di quei grossi comparti che, per mantenersi attivi, hanno dovuto modificare l’assetto produttivo riducendo o annullando la produzione o ricorrendo ad innovazioni di processo e/o di prodotto. In evidenza in primo luogo i processi implicanti la formazione di diossina per i suoi devastanti effetti tossici, poi i processi che impiegano mercurio come quello di sintesi dell’acetaldeide da acetilene (caduto in disuso da decenni) o quelli elettrolitici degli impianti cloro–soda; ed ancora quelli che impiegano arsenico per gli effetti cancerogeni. Allo stesso titolo sì ascrive la messa al bando dell’amianto. Un discorso a parte meritano i processi di sintesi dei clorofluorocarburi (CFC) per l’insidia che la loro diffusione nell’atmosfera costituirebbe, secondo l’opinione prevalente, per la consistenza della sottile fascia d’ozono di alta quota. In questo caso le industrie europee hanno sostituito i CFC con i fluoroclorocarburi, che a loro volta sono poi stati imputati di concorrere ad incrementare l’effetto serra. In altri casi l’industria chimica ha potuto effettuare interventi correttivi che non hanno ostacolato lo sviluppo del comparto chimico interessato. Tale è il caso della detergenza che alla richiesta di biodegradabilità per i suoi prodotti ha risposto con gli alchilbenzeni lineari. Ed analogamente, quando ai plastificanti delle materie plastiche impiegate nel settore alimentare è stata mossa l’imputazione di tossicità o anche solo di sapidanti impropri il comparto ha reagito mettendo a punto plastificanti atossici e meglio ancorati al supporto polimerico.
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Capitolo XIV
Nel caso dei carburanti infine le richieste di eliminazione dell’antidetonante classico, il piombo tetraetile, e di riduzione del contenuto di idrocarburi aromatici ha determinato lo straordinario sviluppo di nuovi composti ossigenati quali il metilterbutiletere (MTBE) con interessanti prospettive per altri eteri e per i carbonati alchilici. Si deve peraltro rilevare che talvolta le imputazioni mosse all’industria chimica si sono poi rivelate infondate. Un caso clamoroso è stato quello del mare di Barents, che, nella seconda metà degli anni Ottanta, fece registrare il tragico crollo delle sue riserve ittiche. Gli ecologisti, rifacendosi all’inquinamento del mar Baltico, dove le diossine avevano riconfermato il proprio ruolo di inquinante principe, ritennero precipitosamente che anche il disastro di quel mare artico fosse imputabile ad inquinamento chimico. In un secondo tempo si è potuto invece accertare che l’eccezionale impoverimento della fauna ittica (e del plancton) era imputabile all’effetto combinato della devastazione operata da flotte pescherecce, esercenti la loro attività “a rapina”, e dall’inquinamento provocato dall’immissione in quelle acque di scorie radioattive prodotte dall’industria nucleare sovietica. Quest’erronea valutazione non può essere certo invocata per considerare le istanze di tutela ambientale una sorta di “caccia alle streghe”. L’episodio però suggerisce di privilegiare in questo dibattito, destinato ad un ruolo di primo piano anche nei prossimi confronti politici, i criteri garantisti, prevalenti nella comunità europea, su quelli autoritari e dirigisti, adottati attualmente dagli enti governativi statunitensi. Intanto l’industria, indipendentemente dalle conclusioni di portata limitata, espresse dalla Conferenza di Kyoto, è orientata in modo autonomo a ritenere inevitabili drastici provvedimenti per assicurare più efficacemente un’azione di tutela ambientale mirata ad una significativa riduzione dell’effetto serra. Per l’industria chimica i segnali più importanti sono quelli provenienti dall’industria automobilistica. Qui si annunciano contemporaneamente due fatti molto significativi: auto di massimo risparmio energetico, con un consumo di tre litri di carburante ogni 100 km e auto elettriche con tecniche avanzate per generare in modo “pulito” l’energia di alimentazione del motore elettrico. Non si fatica a comprendere che il grado di compressione sempre più elevato della miscela nei cilindri dell’auto supereconomica imporrà l’impiego di benzine alto–ottaniche non inquinanti e quindi un contributo sempre più significativo dell’industria chimica per la sintesi dei componenti di miscele sempre più sofisticate. Questa constatazione dà un preciso significato al crescente interes-
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samento dell’industria automobilistica per quella chimica. In effetti in Italia si è verificata una situazione in linea con questa considerazione quando la FIAT è diventata l’azionista di riferimento per la SNIA. Ma in passato, negli anni venti del Novecento, fu la DuPont a detenere una posizione dominante nell’azionariato della General Motors e, alla vigilia dell’ultima guerra mondiale, la IG della Germania nazista acquisì una quota significativa della Standard NJ. È perciò legittima l’ipotesi che le grandi potenze dell’industria (motoristica, informatica e telecomunicazioni) non trascureranno di avvalersi dei grandi mezzi finanziari a loro disposizione per fare irruzione anche nel settore chimico. Nella competizione per la conquista di posizioni dominanti questo scenario rende ancora più delicato e complesso il compito dell’alta direzione dei grandi gruppi chimici nella definizione di scelte strategiche, valide sia per una politica di sviluppo sia per quella fondamentale di difesa della propria identità industriale. Oggi si coglie infatti, negli orientamenti prevalenti nelle plance di comando delle grandi imprese chimiche, la preoccupazione di definire strategie mirate al potenziamento dei settori merceologici di eccellenza, con lo sfoltimento dei comparti di attività produttiva. Sicché mentre un tempo si insisteva sulla diversificazione oggi si tende alla specializzazione, privilegiando quei rami di attività nei quali, anche mediante operazioni di fusione o joint–venture, si possono conquistare posizioni dominanti. Quest’orientamento accresce l’esigenza di disporre di una struttura di ricerca robusta, efficiente e ben motivata, capace di cogliere tempestivamente le esigenze che nascono dalla dinamica dei mercati e delle innovazioni tecnologiche: in altre parole una ricerca industriale sempre mirata all’innovazione di processo e di prodotto. In Italia le geremiadi sull’insufficiente attenzione prestata ai problemi della ricerca si accompagnano alle ”prediche inutili” per ovviare alle carenze denunciate in coro dagli operatori, dai fruitori ed anche dai semplici osservatori. In realtà molte critiche sono fondate per quanto riguarda l’insufficienza dei mezzi dedicati alla ricerca (in Italia pubblico e privato competono per la maglia nera) ed altrettanto giustificata sembrerebbe la riluttanza dell’imprenditore ad incrementare l’investimento in una ricerca che, in molti casi, gli fa correre il rischio di dissipare i limitati mezzi di cui può disporre a questo fine. Tuttavia tra le cose raramente dette o del tutto trascurate in Italia vale la pena richiamarne alcune di sostanziale importanza. In primo luogo, ad onta della sua specificità, la ricerca chimica industriale non costituisce ancora una organica disciplina d’insegnamento. In secondo
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luogo si commette frequentemente l’errore di attribuire arbitrariamente al ricercatore una vocazione professionale di teorico della chimica, condannandolo all’esclusione dalle posizioni di comando per carenza di capacità imprenditoriale. Sicché alla nostra ricerca chimica è venuta costantemente a mancare sia l’incentivazione che deriva dal successo sia l’effettiva assunzione di un ruolo strategico, che può esserle efficacemente conferito da un ricercatore che detenga il potere e lo eserciti occupando una posizione preminente nell’alta direzione dell’impresa. Ed infine perché non ricordare che la ricerca chimica, come tante reazioni chimiche, si sviluppa solo se le viene fornito il necessario calore di attivazione? Soprattutto quando i mezzi finanziari sono limitati distribuirli a pioggia, come spesso avviene, su una molteplicità di temi, invece di concentrarli su temi specifici, di interesse strategico per l’impresa, costituisce un errore tecnico che quasi sempre si traduce in un deprecabile spreco di denaro. Dalla fine del Settecento fino alla metà del Novecento sono stati i protagonisti della ricerca come Leblanc, duPont, Nobel, Solvay, Squibb, Perkins, Linde, Claude, Duisberg, Haber, Bosch e via dicendo che hanno gettato le basi dell’impresa chimica nel mondo occidentale. Oggi certamente la realtà è più complessa, ma proprio la cultura della ricerca dovrebbe essere privilegiata per conferire all’impresa, anche a livello culturale, quell’adattabilità e quell’elasticità di indirizzo imprenditoriale e di gestione che le straordinarie e massicce modificazioni del mercato talvolta impongono con una celerità sconosciuta nel primo secolo dell’era industriale. Un eloquente riscontro alla capacità della ricerca di assumere un ruolo determinante nella conquista della leadership settoriale è fornito dalle imprese chimiche che alla ricerca destinano massicci investimenti, valutandone appieno la valenza strategica. Intendiamo qui fare riferimento alle radicali modifiche intervenute nelle posizioni di vertice dell’industria farmaceutica. Abbiamo più volte richiamato, nel corso di questa storia, la posizione dominante dell’industria farmaceutica tedesca, che esercitò un’autentica dittatura tecnico commerciale, a livello mondiale, fino agli anni trenta del Novecento, mantenendo comunque ancora per due decenni la leadership del settore. Oggi, con gli imponenti investimenti nella ricerca chimica e biochimica che l’industria farmaceutica statunitense ha effettuato negli ultimi decenni, la leadership è saldamente in mani americane. Forse esagera la Tv americana quando afferma che il 90% dei nuovi farmaci è opera dei laboratori statunitensi, attribuendo al resto del mondo, Europa compresa, il residuo 10%. Ma se si
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guarda alla sensibilità e alle aspettative del mercato si scopre che l’impegno ad inventare nuovi farmaci viene ampiamente ripagato non appena questi prodotti fanno la loro apparizione sui banchi delle farmacie. Cosi, mentre la Pfizer con il Viagra (pillole anti–impotenza) conquista il mercato e fa raggiungere valori record alle sue azioni a Wall Street, la Eli Lilly si esibisce con il Prozac, la pillola della felicità, ed ancora con la Zyprexa, contro la schizofrenia, e con la Evista, presentato come prodotto ottimo contro il tumore del seno, mentre la Bristol–Mysers–Squibb si limita a tesaurizzare, a suon di miliardi, il successo ottenuto con la pillola anticolesterolo Pravachol. Questi successi non sembrano però sufficienti a neutralizzare le preoccupazioni di chi rileva che, in generale, le ricerche dell’industria chimica sempre più raramente approdano a risultati che possano poi tradursi in processi e prodotti innovativi. Questa rarefazione di processi e prodotti innovativi nell’ultimo ventennio rispetto al lungo elenco di innovazioni rilevabili nel ventennio precedente sembrerebbe indicare per l’industria chimica il raggiungimento di uno stadio di piena maturità. In effetti l’ingegno umano ha potuto a lungo studiare e utilizzare i modelli e le risorse che la natura ha messo generosamente e gratuitamente a disposizione. E la seconda fase, quella di una ricerca protesa non più ad imitare, ma a modificare e perfezionare processi naturali, presenta difficoltà di ordine superiore o, meglio, non rientra più nel riservato dominio della chimica, ma richiede, come è stato già ricordato, un lavoro di squadra interdisciplinare. A conferma di questa nuova caratterizzazione della ricerca è significativo che, nell’industria farmaceutica, abbia fatto il suo esordio la chimica combinatoriale (combinatorial chemistry), che ripropone, in versione aggiornata la ricerca “a tentoni” sperimentata da Ehrlich (che era un patologo), all’inizio del Novecento, per individuare in una moltitudine di prodotti arsenicali il suo proiettile antispirocheta, il Salvarsan, primo preparato antiluetico. Oggi, col supporto, fra l’altro, dell’informatica, dell’automazione, dell’analisi strumentale e della micromeccanica, il chimico farmaceutico può utilizzare un dispositivo robotizzato ed automatizzato in grado di produrre 1000–2000 molecole organiche al giorno. Con uno spettro così ampio si potrebbe scherzosamente osservare che pescare la molecola buona è un po’ tentare la buona sorte ad una lotteria, ma in fondo usando un’immagine ardita si può supporre che è proprio con la chimica combinatoriale che ha lavorato l’ufficio tecnico di madre natura.
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Non c’è motivo per ritenere che questo nuovo strumento di ricerca non possa essere impiegato in altri comparti della chimica industriale. Ma i costi e l’aleatorietà dei risultati ne limiteranno certamente l’impiego, fino a quando, l’esperienza, confortata da qualche successo, non indurrà gli operatori ad avvalersi anche di questa metodologia innovativa. Non è peraltro del tutto infondato il timore che, per il principio di casualità, la chimica combinatoriale possa offrire al ricercatore un composto non previsto dal programma di ricerca, ma che, nelle mani di operatori pirata, potrebbe consentire allarmanti applicazioni. La rarefazione di risultati di grande risonanza della chimica europea nei comparti più innovativi, in rapporto a quella statunitense, viene spesso attribuita al divario dimensionale dei due mercati, nell’assunto che quello europeo sia penalizzato dalla disomogeneità, imputabile non solo alle frontiere, ma anche alle peculiarità legislative, fiscali e normative dei singoli stati. È legittimo prevedere che la nascita dell’Unione Europea riesca, nel volgere di pochi anni, a rendere più omogeneo un mercato di trecento milioni di consumatori, attenuando il divario che attualmente si registra nei confronti degli USA. È pur vero che i comparti più maturi, inclusi quelli con una ventennale o trentennale anzianità di servizio generalmente assicurano ancora risultati economicamente soddisfacenti. Ma, in una prospettiva strategica, si deve prendere atto che, nel lungo termine, le posizioni dominanti delle tecnologie e delle produzioni europee, per gran parte dei settori più maturi, saranno gradualmente ridimensionate. Tralasciando i prodotti di massa quali ammoniaca, metanolo, soda, cloro e solforico i comparti merceologici più consistenti quali plastiche, fibre, elastomeri, aromatici, intermedi, ausiliari ecc. si troveranno a competere con le produzioni del medio e dell’estremo Oriente. E ad un mercato di 300 milioni di consumatori basteranno Cina e India per contrapporne un altro di oltre due miliardi, imponente anche con modesti consumi pro–capite. Abbiamo appunto ricordato nel precedente capitolo che questo scenario è ben presente ai vertici dei grandi gruppi chimici europei, statunitense e giapponesi, che si sono affrettati a prenderne atto, adoperandosi per acquisire privilegiate posizioni di presenza sui mercati di consumo, con cospicue unità produttive in tutti i settori più significativi della chimica, della petrolchimica e della raffinazione. In una equilibrata valutazione delle difficoltà da affrontare, a bilanciare le considerazioni critiche riferite ai problemi della ricerca, dell’innovazione e del mercato emergono anche rassicuranti elementi di forza.
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A vantaggio dell’industria chimica europea infatti si registrano ancora alcuni favorevoli fattori di carattere tecnico–economico, destinati a persistere ancora per qualche decennio. Si possono citare tra i più significativi la razionale gestione dell’apparato produttivo, la maggiore esperienza dei personale tecnico e la forza del settore ingegneristico. Ma i più incisivi sono la dinamica dell’aggiornamento nel migliorare processi e prodotti, e la contiguità con quel complesso dì industrie meccanica, tessile, automobilistica, elettrica ed elettronica che assicurano anche il progresso derivante dagli stimoli reciproci. Le difficoltà imputabili al maggior costo del lavoro sono rilevanti solo per i prodotti più poveri, con maggiore incidenza di manodopera, ma è l’onere del trasporto che, in questo ambito, continua attualmente a limitare la circolazione dei prodotti solidi. Più consistente sembra la penalizzazione che l’industria chimica europea dovrà sopportare, nella competizione con quella asiatica, in tema di tutela ambientale. Ma i maggiori vincoli di rilevanza ecologica, già ora prevalenti a livello comunitario in realtà rappresentano talvolta un onere supplementare anche nei confronti degli USA, che, pur enfatizzando alcuni provvedimenti adottati in qualche suo stato, risultano, per l’emissione di anidride carbonica, il paese che dà il maggiore contributo all’inquinamento atmosferico e al conseguente effetto serra. Nel formulare congetture sulle probabili linee dì sviluppo del settore si è finito col relegare nel novero delle possibilità remote la comparsa di processi e prodotti originalmente innovativi. Nel consolidare invece posizioni di forza acquisite da tempo in settori tradizionali l’industria chimica europea si sta dedicando con impegno crescente alla ricerca nel comparto dei materiali e dei prodotti compositi. Qui certamente la ricerca delle maggiori industrie chimiche comunitarie sta lavorando con impegno e successo da decenni e in quest’ambito la competizione tra Europa e America può svolgersi ad armi pari. Sono infatti da tempo presenti sul mercato prodotti quali il polistirolo antiurto, l’ABS, materie plastiche rinforzate e/o caricate, gomme all’olio e caricate con nerofumo et similia. Ma la ricerca dei materiali compositi è diventata oggi una nuova disciplina scientifica. Lo attestano i prodotti che si sono affermati sul mercato: materie plastiche progettate e realizzate con proprietà sempre meglio rispondenti alle esigenze dell’utenza, detersivi con sbiancanti, sequestranti, battericidi e altri additivi con specifiche funzioni tecniche, lubrificanti concepiti come cocktails di formulazioni sempre più sofisticate e tanti altri prodotti
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che privilegiano i compartì industriali che, a contatto col mercato, sono in grado di intuirne in anticipo le esigenze in corso di maturazione. Del resto le straordinarie fibre ottiche, combinando pregiate materie elementari a diverso indice di rifrazione, non sono da considerare anch’esse materiale composito? Certo qui è stato usato il concetto di materiale composito in senso estensivo, ma si è voluto sottolineare, con l’esemplificazione richiamata, che esiste ampio spazio per l’industria chimica europea, nel campo della ricerca, per mirare a risultati originali, per attenuare il distacco ormai maturato in tema di ricerca innovativa. D’altra parte questo divario non sembra destinato a ridursi, nel prossimo futuro, perché la ricerca che, in qualità di investimento a redditività differita, già non gode i favori degli amministratori pro tempore, finisce col diventare ancora meno attraente quando mira a risultati innovativi, perché assume intrinsecamente il carattere di investimento a redditività ancor più differita. Ad una scuola di pensiero che auspica l’inserimento del ricercatore inventore nelle posizioni di vertice dell’azienda si contrappone quella che sostiene che il trasferimento dei ricercatori più validi in plancia di comando finirebbe alla lunga col penalizzare proprio la ricerca. Ma i ricercatori più dotati hanno già dimostrato di possedere capacità imprenditoriali e una sufficiente autonomia di giudizio. Così non è rimasto isolato in USA il caso del famoso Bill Gates. Anche i ricercatori e i tecnici di alto livello che sono stati i protagonisti del boom dell’elettronica della Silicon Valley hanno dimostrato che preparazione teorica, capacità analitiche ed inventiva nella ricerca sono poi stimoli di grande efficacia per attivare quelle attitudini imprenditoriali, che si rivelano determinanti anche per il successo delle iniziative industriali. Uno dei casi più significativi in tal senso è rappresentato dall’americana Genetech, costituita inizialmente proprio da un gruppo di ricercatori. Vale la pena di sottolineare il successo imprenditoriale e commerciale di questa società perché il suo patrimonio culturale iniziale era concentrato nella biochimica molecolare e nell’ingegneria genetica. Questo vizio d’origine, secondo i “non addetti ai lavori” — inclusi probabilmente molti dirigenti di alte direzioni industriali — sembrava vietare pronostici improntati ad un responsabile ottimismo. Sicché quando nel 1998 le azioni Genetech volano per l’ennesima volta a Wall Street, si scopre che questa volta il gol è opera di un nuovo farmaco denominato Herceptin che, operando a livello genetico, riesce a ritardare, senza effetti collaterali, la metastasi di un particolare tipo di cancro del seno. L’importante novità sembrerebbe costituita dal fatto che con Herceptin sa-
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rebbe stata aperta la strada ad una manipolazione genetica a livello farmacologico anziché a livello biologico di laboratorio. Questa lunga carrellata sugli aspetti più rilevanti dell’innovazione e del ruolo che essa assume nello sviluppo industriale dei paesi ad economia avanzata rende più evidente la diversa caratterizzazione della strategia di sviluppo prevalente nei paesi di più recente industrializzazione. Generalmente in Africa, in Asia e in Medio Oriente le istanze di tutela ambientale vengono recepite con minore sensibilità e talvolta con evidenti manifestazioni di fastidio nei confronti degli attuali tutori della salute del pianeta che sono gli stessi che per almeno un secolo lo hanno inquinato senza vincoli e senza regole. Ma quando ci si propone di indicare i presumibili orientamenti della chimica dei paesi di più recente industrializzazione ci si trova di fronte ad una eterogeneità di situazioni tale da non consentire la formulazione di attendibili congetture. È infatti evidente che i paesi africani, asiatici, mediorientali, centro e sudamericani, che si sono dotati di un’industria chimica nella seconda metà del Novecento hanno vincoli e prospettive con marcate differenze. Le connotazioni politiche e sociali, le disponibilità di mezzi finanziari e di materie prime, la consistenza dei mercati domestici, le situazioni geografiche e climatiche e ben radicati fattori di tradizione storica rendono ancora più marcate quelle peculiarità che sono peraltro rilevabili anche nel consesso dei paesi ad economia sviluppata. Sulla scorta delle esperienze acquisite negli ultimi decenni risulta evidente una maggiore dinamica nel ridurre il divario tecnico–industriale a favore dei paesi dotati di mezzi finanziari e di materie prime o di quelli (Arabia Saudita e Paesi nordafricani) che sono relativamente vicini al grande mercato europeo. Ma gradualmente saranno i paesi come la Cina, l’India, la Corea e l’Indonesia che per la consistenza dei mercati domestici e per la naturale selezione degli ingegni potranno meglio competere sul piano industriale e su quello scientifico con i Grandi dell’industria chimica. Può risultare improvvido ritenere che l’interesse dei grandi Paesi di più recente industrializzazione resti a lungo confinato nell’ambito della petrolchimica, della chimica di base e delle commodities. Per ragioni intuitive i ritrovati delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica sembrano presentare particolari motivi di attrazione proprio per i paesi penalizzati da un’economia povera e da necessità elementari che sovrastano quelle coperte da una chimica più sofisticata di quella solitamente riservata alle esigenze della prima industrializzazione. Basta citare le piante transgeniche, quelle capaci di attecchire su ter-
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reni poveri o in climi estremi, per rendere evidente il potenziale interesse dei Paesi, nei quali l’esigenza di un’agricoltura potenziata si scontra con l’indisponibilità di terreni fertili e/o con particolari difficoltà climatiche. L’impatto delle biotecnologie sull’industria chimica potrebbe rivelarsi duplice. Da un lato si prospetta la progressiva riduzione dell’impiego di erbicidi di anticrittogamici e di agrochemicals in genere. Dall’altro si prevede che alcune piante possano essere utilizzate dall’industria come fabbriche chimiche attive nella decontaminazione dei terreni, nella produzione di amidi, proteine e materie plastiche. Ma la politica in questi ultimi anni sta intervenendo in maniera sempre più accentuata con azioni di conservazione dello status quo, che potrebbero anche risultare oggettivamente corrette, ma che sono palesemente determinate da valutazioni passionali e preconcette. In molti casi il dibattito scientifico sulla sicurezza degli alimenti e delle culture geneticamente modificate è a priori accantonato. Sembra lecito affermarlo di fronte ai roghi di cotone transgenico appiccati in India, in difesa delle culture tradizionali e al grido “cremate Monsanto” o di fronte allo sventolio della bandiera del Roquefort, agitata dagli ultras francesi contro la minaccia dell’agribusiness globalizzato. Ma l’episodio più clamoroso si è verificato in Brasile e riguarda la soia, che quel grande paese sudamericano produce in misura di 25 milioni di tonn/anno. Anche qui è coinvolta la Monsanto, ma l’intreccio si presta ad una lettura più articolata. La Monsanto ha appena iniziato la costruzione di un grosso impianto di erbicidi in un centro petrolchimico, nello stato di Bahia, con un investimento di circa 1000 miliardi di lire. Ma la Monsanto è anche produttrice delle sementi transgeniche, resistenti all’erbicida. ll governo federale brasiliano, in base all’autorizzazione del Comitato nazionale per la biosicurezza, si è impegnato a contribuire in misura del 15–20% all’investimento della Monsanto. Però poi la Corte federale, su richiesta dell’Ente federale per la protezione dell’ambiente, appoggiato da Greenpeace e dall’Istituto per la difesa dei consumatori, ha bloccato l’iniziativa. E il Brasile restituisce al mittente tutta la soia che arriva senza la certificazione di essere ottenuta da sementi non modificate geneticamente. Così anche una nave con un carico di 30.000 tonnellate di mais è stata rispedita negli Stati Uniti in mancanza del certificato di illibatezza. Ma anche in Europa la politica ha avuto un ruolo importante nello sviluppo dell’industria chimica. È stato infatti rivelato che l’iniziativa della ELF francese di rilevare la fabbrica tedesca di Leuna (ex Germania Orientale) per restituirle una prospettiva di
Considerazioni conclusive
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grande sviluppo industriale è derivata da un preventivo accordo tra Mitterrand e Kohl, mirato, tra l’altro, anche a finanziare la politica. Ma è nel campo energetico che la politica esplica appieno il suo ruolo di fattore determinante per lo sviluppo delle industrie che hanno un elevato consumo di materie prime che, direttamente o indirettamente, dipendono dal petrolio. Abbiamo accennato nei capitoli precedenti agli shock petroliferi degli anni ’73 e ’79 quando prima il prezzo del barile triplica da 4 a 12 $ e poi arriva a spuntare sul mercato libero (cosiddetto spot) una quotazione superiore ai 40$. Si ritenne allora che l’OPEC non fosse in grado di mantenere tra gli stati membri la stretta intesa necessaria per disciplinare rigorosamente la produzione in modo che l’offerta fosse sempre carente rispetto alla domanda. Ed infatti l’accordo non tenne anche perché fu potenziata la produzione nucleare e l’alta quotazione del barile stimolò la ricerca e l’estrazione in zone come il mare del Nord, il Golfo del Messico e l’Alaska che erano state fino ad allora, almeno parzialmente, trascurate. Ma nel ’99 l’OPEC è riuscita a ricompattarsi al proprio interno ed il prezzo del greggio dall’inizio del 99 al marzo del 2000 è nuovamente triplicato aumentando dai 10–11 $/bl a 30/31 $/bl. È evidente che per la petrolchimica dei paesi non produttori (di petrolio) il risparmio energetico ritorna ad essere un fattore preminente rispetto all’innovazione tecnologica. Forse, come in passato, anche questo shock potrà ridimensionarsi e figurare come un rialzo congiunturale di proporzioni anomale. Ma certamente i guru della “nuova economia” avranno difficoltà a far rientrare nello scenario del mercato globale la precarietà di un sistema governato e dominato da un oligopolio che può riproporre periodicamente i suoi “blitz” devastanti. In ogni caso le strategie dei grandi gruppi chimici ne restano condizionate perché il risparmio energetico ridiventa fattore di gran peso economico. E, sempre in tema di influenza di fattori politici sulle vicende industriali, come non ricordare il crollo a Wall Street delle quotazioni delle società di ricerca biochimica! Causa del crollo le dichiarazioni dei Presidente americano Clinton e dei Premier britannico Blair sulla totale disponibilità dei risultati delle ricerche sul genoma umano ottenuti dalle strutture pubbliche dei due Paesi, accompagnate dall’invito rivolto a tutti, privati inclusi, di adeguarsi al loro esempio. Ma poi crollano a Wall Street anche i titoli di una società chimica ultracentenaria come la Procter&Gamble perché, anche se i suoi utili sono consistenti ed in crescita, una consistente fetta del suo azionariato si sente più attratta dalle Internet Companies: I vari fattori condizionanti fin qui elencati non sembrano tuttavia in
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Capitolo XIV
grado di far perdere all’industria chimica il suo ruolo di fattore trainante dell’economia anche in questo periodo di grande innovazione delle attività industriali che fanno capo all’elettronica e all’informatica. Vero è che attività industriali di carattere prevalentemente chimico, come quelle mirate alla produzione di silicio, fibre ottiche, cablaggi et similia vengono sostanzialmente inserite nei comparti merceologici in cui svolgono un ruolo ancillare. Ma questo è già avvenuto in passato per il ferro e gli acciai con la siderurgia, per i leganti da costruzione con i cementifici, per le leghe e i rivestimenti metallici con la metallurgia e la galvanotecnica. D’altra parte la petrolchimica si coniuga con il petrolio e la raffinazione, la farmaceutica con la biochimica e, più in generale la chimica con la fisica. In conclusione appare in larga misura prevedibile che l’influenza che le tecniche innovative stanno già esercitando nella gestione della ricerca, dell’ingegneria, dei processi e delle attività produttive imporranno una riscrittura della storia dell’industria chimica, almeno di quest’ultimo ventennio, per cogliere quelle modificazioni che radicandosi e consolidandosi si riveleranno indipendenti da suggestioni temporanee e superficiali.
Indice dei nomi
Alberto Magno, 17 Alessandro Magno, 23 Andrews Th., 104 Arrhenius Svante August, 72-73, 99, 120 Arsonval Jacques-Arsène d’, 107 Avicenna, 17 Avogadro Amedeo, 42 Bachelard Gaston, 17 Bacon Roger, 17-18 Baldwin Stanley, 157 Bardeen John, 194 Baruch Bernhard Mannes, 134 Bayer Adolf von, 81 Becher Johann Joachim, 25-26 Bergius Friederich, 121 Berl Ernst, 131, 153 Berliner Émile, 95 Berthollet Claude-Louis, 33, 99 Berzelius Jacob, 42, 98 Billwiller John, 121 Bissel H. George, 90 Blair Tony, 243 Blitz Wilhelm, 131 Bohr Niels, 110 Born Max, 138 Borodin Alexander, 104 Bosch Carl, 118-119, 121, 130, 137, 139, 144, 147 Bratten Walter Houser, 194 Braun Wernher von, 175-176 Bruning Alfred, 82 Brunk Heinrik, 81 Brunner John Tomlinson, 115 Buchner Eduard, 100-101 Cadorna Luigi, 185 Cailletet Louis Paul, 105
Carnot Sadi, 41 Caro Heinrich, 81 Castner Hamilton Young, 114-116 Cavendish Henry, 30-31, 38, 41, 97 Cefis Eugenio, 199 Chamberlain Neville, 157 Chapman Micheal, 172 Chevreul Michel Eugène, 46-47, 98 Chiang Kaishek, 180 Churchill Winston, 127, 162 Claude Georges, 106-107, 119 Clegg Samuel, 44 Clemm fratelli, 80 Cleopatra, 13 Clinton Bill, 243 Clouzot Henry-George, 59 Colgate William, 47 Colombo Cristoforo, 23 Crick Francis Harry Compton, 188, 194, 214 d’Aquino Tommaso, 17 d’Arsonval Jacques-Arsène (vedi Arsonval) Dalton John, 42 Darcet Jean, 33 Davide, re d’Israele, 15 Davison William, 91 De Gasperi Alcide, 185 de La Condamine Charles-Marie, 24 De Nora Oronzo, 188 de Osorio Aria, 53 Delorme Paul, 107 Devoto Giovanni, 52 Diocleziano, 17 Donegani Guido, 137 Drake Edwin L., 90 Du Pont Eleuthère Irénée, 36
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Indice dei nomi
Duisberg Carl, 83-84, 138-139 Dulbecco Renato, 214 Dumas Jean-Baptiste, 98 DuPont de Nemours Eleuthère Irénée, 27, 36-37, 41 DuPont famiglia, 36, 153 DuPont Lammont, 148 DuPont Pierre Samuel, 36, 148 Eastman George, 95 Edison Thomas, 95 Einstein Albert, 110 Elvereth G. Jonathan, 90 Engelhom Friedrich, 79-81 Erba Carlo, 136 Erhart Charles, 89 Faraday Micheal, 120 Fauser Giacomo, 118, 137, 156, 188, 199 Filippo d’Orléans, 34 Ford Henry, 111 Fornara Angelo, 84 Franklin Benjamin, 28 Fresnel Augustin, 66 Gamble James, 47 Gates Bill, 240 Gehier, 39 Geoffrey Etienne-François, 45 Giordani Francesco, 168 Giustiniani Piero, 199 Glaser Carl, 81 Glauber Johann Rudolf, 25 Godber Frederick, 171 Goethe Wolfgang, 39,77 Goodyear Charles, 48 Graebe Carl, 81-82 Grasselli Eugene, 92-94 Grasselli famiglia, 92 Grottanelli Franco, 168 Guggenheim famiglia, 86 Guglielmo II, 129 Gutenberg (carta), 79
Gutenberg Johannes, 18 Haber Fritz, 118, 121 Halban von Hans, 172 Hattusili, 15 Haynes William, 52 Hayward Nathaniel, 48 Hern Gerhard, 22 Hitler Adolf, 153, 165, 169, 179 Hoff Van’t, 99 Hoover Herbert, 151 Hopkins Frederick Gowland, 99 Howard William, 60 Ipatieff Vladimir Nikolaevicˇ , 121 Iwasaki Yataro, 183 Jefferson Thomas, 36 Jung Carl Gustav, 17 Kalbfleisch Franklin H., 94 Kekulé August van Stradonitz, 78, 81 Kellner Carl, 114-115 Knosp Joseph, 80 Kohl Helmut, 243 Kolbe Adolf Wilhelm, 78 Khomeini Ruhollah, 201 Kondakow, 122 Kowarski Lew, 172, 174 Krebs Friederich, 63, 123 Kuhne W. Rainer, 101 Lagrange Joseph Luois, 33 Laplace Pierre Simon de, 31 Larderel François-Jacques de, 136 Lavoisier Antoine Laurent, 18, 26, 27, 29, 30-33, 36-37, 41, 67, 97, 100 Lebedev Pëtr Nikolaevicˇ , 122 Leblanc Nicolas, 27, 33-36, 41, 6668 Leicester Henry Marshall, 78 Levi Montalcini Rita, 214 Libavius Andreas, 25
Indice dei nomi Liebermann Carl, 81 Liebig Carl, 70, 98, 100 Liebknecht Karl, 138 Liedbeck Aiarik, 74 Linde Carl, 104-106, 119 Lloyd George David, 127-128 Longo Luigi, 185 Louis-Antoine-Henri de Condé, duca di Enghien, 33 Luigi XVI, re di Francia, 36 Lussac Gay, 35, 50, 98 Lutero Martin, 21, 79 Luxemburg Rosa, 138 MacArthur Douglas, 182 Macintosh Charles, 48-49 Mansfield I.H., 93-94 Mao Tse Tung, 180, 182 Marconi Guglielmo, 110 Marshall George C., 181 Mattei Enrico, 185-187 Mc Gowan Harry, 139, 145, 147-148, 157 McDonald Ramsay, 157 Mendeleev Ivanovic Dmitri, 72-73, 104 Merzagora Cesare, 198-199 Miles Franklin, 89 Mitsubishi famiglia, 183 Mitsui famiglia, 183 Mittasch P. Alwin, 118 Mitterrand François, 243 Moissan Henri, 112 Mond Ludwig, 68, 115, 145, 147 Monod Jacques, 214 Moratti Angelo, 185, 202 Muller Paul H., 121, 192 Murdoch William, 44 Mussolini Benito, 179 Napoleone Bonaparte, 33, 97-98 Natta Giulio, 187, 199 Natta M., 168
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Newton Isaac, 26 Nixon Richard, 232 Nobel Alfred, 57-64, 69-70, 110, 123 Nobel Emil, 59 Nobel famiglia, 59, 64 Nobel Immanuel, 57-59 Nobel Ludvig, 58 Nobel Robert, 58-59 Oli Gian Carlo, 52 Olszewski Karol, 104 Ostwald Wilhelm, 99, 130-131 Parri Ferruccio, 185 Pasteur Louis, 100-101 Paulze Anne Marie Pierrette, 30 Perkin William H., 70-72, 78, 80-81, 128 Pfizer Charles, 89 Phillips Peregrine, 50-51 Pictet Raoul Pierre, 105 Pirelli Alberto, 168 Pirelli Gian Battista, 137 Pirmez Eudore, 67 Planck Max, 109-110 Pratt Charles, 93 Priestley Joseph, 27-31, 38, 41, 97, 100 Procter William, 47 Ramsay William, 72-73 Rathenau Walther, 95 Rathenau Walther, 95, 129 Rayleigh Lord John William Strutt, 72, 157 Reppe Walter, 87 Riese Ferdinand, 82 Rockfeller John D., 92 Roelen Otto, 194 Rolland E., 66-67 Roosevelt Franklin Delano, 151, 161162, 165, 180 Roosevelt Theodor, 110
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Indice dei nomi
Rutherford Ernest, 73 Sabatier Paul, 119 Sacks Oliver, 72 Sandwich Edward Montagu Lord, 28 Scheele Carl Wilhelm, 38, 41, 45, 97, 100 Scheidemann Philipp, 138 Schloesing J.J.T., 66-67 Seguin Armand, 31 Semet, zio di Ernest Solvay, 64 Senderens Jean-Baptiste, 119 Senebier Jean, 100 Shockley William Bradford, 194 Sholes Christopher Latham, 95 Siegl Joseph, 80 Siemens Werner Von, 105 Silliman Benjamin, 90 Sinigaglia Oscar, 187 Sobrero Ascanio, 58-59, 64 Solvay Alexandre, 64 Solvay Alfred, 64-68, 147 Solvay Ernest, 57, 64-70, 105 Solvay famiglia, 68 Solvay fratelli, 67-68, 114, 115 Sparks M., 154 Squibb Edward Robinson, 87-89 Stahl Georg Ernst, 25-26 Stalin Joseph, 180 Staudinger Hermann, 131, 153 Sumitomo famiglia, 183 Talleyrand Perigord, 33 Thomas, 154 Tilghman Benjamin, 47
Tilghman Richard A., 46-47 Truman Harry S., 180-181 Ts’ai Lun, 12 Tswett Mikhail, 110 Tutankamon, 15 Ursini Raffaele, 199 Valentine Basil, 24 Valerio Giorgio, 198 Van der Waals, 104 Volta Alessandro, 41, 97, 120 von Bismarck Otto, 77 von Halban Hans, 174 von Hoffmann August Wilhelm, 7071, 78, 99 von Hohenheim Philippus Theophrastus Bombastus (detto Paracelso), 24 Watson James Devery, 188, 194 Watt James, 44 Weber Orlando, 145 Wehmer Carl F.W., 101 Weizmann Chaim, 195 Wessel Karl, 114 Wilkins M.H.F., 188 Willing, 114 Wilson Woodrow, 132 Winnacker Karl, 78, 82, 135, 153 Wöhler Friederich, 100 Wroblewski Zygmunt, 104 Ziegler Karl, 187
AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali
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Finito di stampare nel mese di luglio del 2006 dalla tipografia « Nuova Eurografica S.r.l. » di Roma per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma