Capitolo 1 Profilo professionale dell’assistente sociale Sommario: 1. Generalità. - 2. La figura dell’assistente sociale. - 3. Dal welfare state al welfare community. - 4. I compiti dell’assistente sociale.
1. Generalità Tra i nuovi profili professionali che negli ultimi tempi hanno assunto una notevole rilevanza, certamente uno dei più importanti è quello dell’assistente sociale. In Italia, fino a una ventina di anni fa, il ruolo dell’assistente sociale era collocato, per espressa previsione legislativa, nelle istituzioni sia pubbliche che private, sanitarie e non, in modo chiaro e pressoché esclusivo, ma, di converso, non veniva formalmente riconosciuto il titolo di assistente sociale, né esistevano norme legislative che ne delineassero la figura professionale, le caratteristiche e le competenze specifiche. A questo stato di cose ha posto fine il D.P.R. 15-1-1987, n. 14, che ha riconosciuto il valore abilitante del diploma di assistente sociale rilasciato dalle scuole dirette a fini speciali universitarie; queste ultime si sono poi trasformate in corsi di diploma universitario (lauree brevi) in Servizio sociale (L. 341/1990). Successivamente, con le riforme che hanno interessato il sistema universitario, il diploma in Servizio sociale si è elevato al rango di laurea a tutti gli effetti. Infatti, già il decreto ministeriale 4-8-2000 (G.U. 19 ottobre 2000, n. 245, S.O. n. 170), nell’istituire le classi delle lauree universitarie, aveva creato una specifica classe di laurea, di durata triennale, in Scienze del servizio sociale. Tale orientamento è stato quindi ripreso e confermato nei decreti ministeriali del 16 marzo 2007, i quali hanno previsto, a decorrere dall’anno accademico 2008-2009, una serie di sostanziali modifiche per il comparto accademico, con l’obiettivo di perseguire, entro il 20102011, la definitiva soppressione e sostituzione delle precedenti classi di laurea con le nuove. In particolare, il D.M. 16-3-2007 con cui si è provveduto alla determinazione delle classi delle lauree universitarie (G.U. 6 luglio 2007, n. 155, S.O. n. 153), di durata triennale, include anche la classe delle lauree in Servizio sociale (L-39), così come il D.M. 16-3-2007 che ha invece ridisegnato il novero delle classi di laurea magistrale (G.U. 9 luglio 2007, n. 157, S.O. n. 155), nuovo titolo accademico destinato a subentrare alla laurea specialistica, comprende pure, a sua volta, la classe delle lauree in Servizio sociale e politiche sociali (LM-87). Per quanto riguarda l’attività dell’assistente sociale, l’art. 2 del D.P.R. 15-1-1987, n. 14, evidenzia i contenuti dell’esercizio professionale, che «consiste nell’operare, in rapporto di lavoro subordinato od autonomo, con i principi, le conoscenze, i metodi specifici del servizio sociale e nell’ambito del sistema organizzato dalle risorse sociali, in favore di persone singole, di gruppi e di comunità, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno». I campi di intervento in cui oggi in Italia operano gli assistenti sociali per espressa previsione di legge sono molteplici: dagli istituti penitenziari al mondo della scuola, ai servizi psichiatrici, ai consultori familiari, ai servizi per il recupero dei tossicodipendenti, agli ospedali etc. Capitolo 1: Profilo professionale dell’assistente sociale
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2. La figura dell’assistente sociale 2.1 Nascita e sviluppo del ruolo professionale La professione dell’assistente sociale è sorta e si è sviluppata, in particolare nei paesi di lingua anglosassone, solo nel Novecento, quando il concetto di «assistenza sociale» ha trovato una più concreta applicazione legislativa, con l’affermazione della concezione dello «Stato sociale». Per «Stato sociale» si intende quel tipo di Stato che ha come fine e garantisce non solo l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, ma anche (entro i limiti in cui le risorse e le energie pubbliche lo consentono) il benessere sociale, sia mediante una serie di attività (tra cui l’assistenza sociale) svolte da esso in prima persona o attraverso enti pubblici (Regioni, Province, Comuni etc.), sia tramite provvidenze che tutelano fasce di cittadini economicamente più deboli o meno protette. Lo Stato contemporaneo, dunque, non si propone soltanto il fine della giustizia, dell’eguaglianza e della libertà dei cittadini, ma per raggiungere il massimo benessere della collettività fornisce, attraverso l’assistenza sociale, la possibilità ad ogni individuo di poter sviluppare pienamente le proprie capacità per progredire ed evolversi nella società in cui vive e si esplica la sua personalità. Per quanto attiene in particolare all’Italia, l’attività di assistenza sociale ebbe un notevole impulso nel secondo dopoguerra; nel 1946 fu infatti istituito un comitato di servizio sociale, che formava e coordinava l’assistenza sociale. Nello stesso periodo cominciarono a sorgere le prime scuole per assistenti sociali. 2.2 La formazione universitaria Come specificato nel D.M. 16-3-2007 con cui si è provveduto alla determinazione delle classi delle lauree universitarie, gli obiettivi formativi qualificanti di coloro i quali conseguono una laurea in Servizio sociale (classe L-39) devono consistere, anzitutto, nel perseguire un’opportuna padronanza delle discipline fondamentali, dei metodi e delle tecniche proprie del servizio sociale, nonché conoscenze disciplinari e metodologiche adeguatamente utili alla programmazione e alla realizzazione di interventi integrati tra vari ambiti operativi, presupponendo, altresì, l’acquisizione di una buona cultura interdisciplinare di base in ambito sociologico, antropologico, etico-filosofico, giuridico-economico, medico, psicologico e storico, atta a comprendere i tratti salienti delle società moderne, in modo da poter contribuire alla costruzione di progetti di intervento individuale e sociale. Inoltre, occorre maturare le dovute competenze sia nel campo della rilevazione e del trattamento di situazioni di disagio sociale (tanto di singoli quanto di famiglie, gruppi e comunità), sia per ciò che riguarda la comunicazione e la gestione di informazioni, con particolare riferimento ai diritti di cittadinanza e all’accompagnamento di soggetti in difficoltà, senza dimenticare l’attitudine a interagire con le varie culture, comprese quelle di genere e delle popolazioni immigrate, nella prospettiva di relazioni sociali multiculturali e multietniche. Ai laureati in Servizio sociale si richiede, altresì, un’adeguata padronanza del metodo della ricerca sociale, l’abilità ad operare con i gruppi e in gruppi di lavoro, la conoscenza efficace (in forma scritta e orale) di almeno una lingua dell’Unione Europea, oltre all’italiano, nonché la capacità di attivare sia azioni preventive del disagio sociale, promozionali del benessere delle persone, delle famiglie, dei gruppi e delle comunità, sia azioni di pronto intervento sociale e di sostegno nell’accesso alle risorse e alle prestazioni. Così come viene richiesta, infine, l’acquisizione di elementi di esperienza mediante attività esterne attraverso tirocini svolti presso enti e amministrazioni pubbliche nazionali o internazionali, organizzazioni non governative e del terzo settore, imprese sociali in cui sia presente il Servizio Sociale Professionale. 8
Parte Prima: L’assistente sociale e l’etica professionale
Una volta concluso l’iter universitario, i neolaureati in Servizio sociale hanno la possibilità di svolgere attività professionali in diversi ambiti, costituiti da: organizzazioni private nazionali e multinazionali; amministrazioni, enti, organizzazioni pubbliche nazionali, sovranazionali e internazionali; organizzazioni non governative, del terzo settore e imprese. Tali attività, a loro volta, si configurano come vero e proprio supporto nei processi di inclusione sociale, oppure possono essere di tipo preventivo-promozionale, organizzativo, didattico-formativo, di ricerca etc. Il curriculum del corso di laurea, a sua volta, è tenuto a garantire la completezza della formazione sia di base sia caratterizzante, proponendo lo studio di materie selezionate da settori scientifico-disciplinari ad hoc e attuando la coerenza complessiva dell’intero percorso formativo. Oltre a rispettare i minimi indicati nella tabella che segue, il curriculum deve anche prevedere non meno di 18 CFU (crediti formativi universitari) per tirocinio e guida al tirocinio, privilegiando la supervisione da parte di assistenti sociali. Attività formative indispensabili Attività formative Di base
Caratterizzanti
Ambiti disciplinari
Settori scientifico-disciplinari
CFU
Tot. CFU 36
Discipline sociologiche
Sociologia generale Sociologia dei processi culturali e comunicativi Sociologia dei processi economici e del lavoro
15
Discipline giuridiche
Istituzioni di diritto pubblico
3
Discipline psicologiche
Psicologia generale Psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione Psicologia sociale
6
Discipline politico-economiche-statistiche
Economia politica Politica economica Statistica sociale Scienza politica
3
Discipline storico-antropologiche-filosofico-pedagogiche
Discipline demoetnoantropologiche Filosofia morale Pedagogia generale e sociale Pedagogia sperimentale Storia contemporanea Filosofia politica Storia delle dottrine politiche
9
Discipline del servizio sociale Sociologia generale
15
Discipline sociologiche
Sociologia dei processi culturali e comunicativi Sociologia dei processi economici e del lavoro Sociologia dell’ambiente e del territorio Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale
9
Discipline giuridiche
Diritto privato Diritto del lavoro Diritto costituzionale Istituzioni di diritto pubblico Diritto amministrativo Diritto dell’Unione Europea Diritto penale
9
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(Segue) Capitolo 1: Profilo professionale dell’assistente sociale
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Discipline psicologiche
Psicologia dello sviluppo e psicologia dell’educazione Psicologia sociale Psicologia del lavoro e delle organizzazioni Psicologia dinamica Psicologia clinica
15
Discipline mediche
Psichiatria Igiene generale e applicata
6
Totale
90
2.3 L’Albo professionale e l’Ordine degli assistenti sociali I laureati in Servizio sociale hanno la possibilità di accedere all’Albo professionale degli assistenti sociali, previo superamento dell’apposito esame di Stato. Per esercitare la professione di assistente sociale sia in qualità di lavoro autonomo, sia in regime di lavoro dipendente, infatti, è necessario aver conseguito l’abilitazione mediante l’esame di Stato ed essere iscritti all’Albo professionale istituito ai sensi dell’art. 3 della L. 23 marzo 1993, n. 84 (Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell’albo professionale). Gli esami di Stato hanno luogo ogni anno in due sessioni, indette per ordinanza del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca scientifica; nella stessa ordinanza vengono indicate anche le sedi di esame scelte tra le città sedi di università o istituti di istruzione universitaria con corsi di laurea in Servizio sociale (ciascun candidato potrà scegliere liberamente da tale elenco la sede nella quale sostenere il proprio esame di Stato). Il D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328, recante Modifiche e integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti, ha anche riguardato, al Capo IV (artt. 20-24), la «Professione di assistente sociale», provvedendo appunto a ripartire l’Albo professionale degli assistenti sociali in due distinte sezioni: — sezione A, alla quale ora si potrà accedere con il titolo di laurea magistrale (ovvero ex laurea specialistica), previo esame di Stato, superato il quale, così da ottenere l’iscrizione, si acquisisce il titolo professionale di «assistente sociale specialista»; — sezione B, alla quale si accede con il titolo di laurea universitaria L-39 (ovvero, per chi l’avesse già conseguito in precedenza, con il diploma universitario triennale in Servizio sociale), previo esame di Stato, superato il quale, così da ottenere l’iscrizione, si acquisisce il titolo professionale di «assistente sociale». Ai sensi dell’art. 21, co. 2, del D.P.R. 328/2001, costituiscono oggetto dell’attività professionale degli iscritti nella sezione B: •
• • • •
le attività svolte, con autonomia tecnico-professionale e di giudizio, in tutte le fasi dell’intervento sociale per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio, anche promuovendo e gestendo la collaborazione con organizzazioni di volontariato e del terzo settore; i compiti di gestione e di collaborazione all’organizzazione e alla programmazione, nonché il coordinamento e la direzione di interventi specifici nell’ambito delle politiche e dei servizi sociali; le attività di informazione e comunicazione nei servizi sociali e sui diritti degli utenti; l’attività didattico-formativa connessa al servizio sociale e la supervisione del tirocinio di studenti dei corsi di laurea universitaria in Servizio sociale; l’attività di raccolta ed elaborazione di dati sociali e psicosociali a fini di ricerca.
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Parte Prima: L’assistente sociale e l’etica professionale
Ai sensi del comma 1 del suddetto art. 21, costituiscono, invece, oggetto dell’attività professionale degli iscritti nella sezione A, in aggiunta alle attività già elencate in riferimento agli iscritti alla sezione B: • • • • • • •
l’elaborazione e la direzione di programmi nel campo delle politiche e dei servizi sociali; la pianificazione, l’organizzazione e la gestione manageriale nel campo delle politiche e dei servizi sociali; la direzione di servizi che gestiscono interventi complessi nel comparto delle politiche e dei servizi sociali; l’analisi e la valutazione della qualità degli interventi nei servizi e nelle politiche del servizio sociale; la supervisione dell’attività di tirocinio degli studenti dei corsi di laurea magistrale (ovvero ex laurea specialistica) in Servizio sociale e politiche sociali; la ricerca sociale e di servizio sociale; l’attività didattico-formativa connessa alla programmazione e alla gestione delle politiche del servizio sociale.
Gli esami di abilitazione alla professione di assistente sociale specialista consistono in due prove scritte ed una orale. Le prove scritte si differenziano in base agli argomenti che l’aspirante assistente sociale deve affrontare: la prima su teoria e metodi di pianificazione, organizzazione e gestione dei servizi sociali, metodologie di ricerca nei servizi e nelle politiche sociali, metodologia di analisi valutativa e di supervisione di servizi e di politiche dell’assistenza sociale; la seconda (di tipo applicativo) verte sull’analisi di un caso di programmazione e gestione dei servizi sociali e sulla formulazione di piani o programmi per il raggiungimento di obiettivi strategici definiti dalla commissione esaminatrice. La prova orale verte, oltre che sull’analisi della prova scritta, anche sulle questioni teoricopratiche affrontate durante il tirocinio e sulla legislazione e la deontologia sociale. Coloro i quali provengono dalla sezione B e vogliono passare nella sezione A dell’albo sono esentati dal dovere affrontare una delle prove scritte. L’esame di Stato per l’iscrizione alla sezione B, invece, è articolato in due prove scritte, una orale ed una pratica. La prima prova scritta verte su aspetti teorici ed applicativi delle discipline dell’area di servizio sociale, sui principi, fondamenti, metodi, tecniche professionali del servizio sociale, del rilevamento e trattamento di situazioni di disagio sociale; la seconda prova scritta verte su principi di politica sociale e principi e metodi di organizzazione e offerta di servizi sociali. La prova pratica consiste nell’analisi, discussione e formulazione di proposte di soluzione di un caso prospettato dalla commissione. Le materie oggetto della prova orale sono eguali per gli aspiranti assistenti sociali di entrambe le sezioni, salvo una maggiore difficoltà contenutistica che il candidato assistente sociale specialista dovrà essere in grado di affrontare. Gli iscritti all’Albo, a loro volta, costituiscono l’Ordine degli assistenti sociali, il quale, anch’esso istituito con la legge 84/1993, ha la natura giuridica di ente pubblico non economico ed è sottoposto alla vigilanza del Ministero della Giustizia, proponendosi come espressione dell’intera comunità professionale: in tal senso, esso agisce sia a tutela dei professionisti iscritti, sia a salvaguardia degli interessi di coloro che, in qualità di utenti dei servizi sociali o di clienti di assistenti sociali professionisti, hanno diritto ad essere garantiti in merito alle prestazioni e alla qualità del servizio erogato. Articolato su base territoriale, l’Ordine è formato da 20 Ordini regionali e dal Consiglio nazionale. Gli Ordini regionali, ognuno dei quali è dotato di un proprio Consiglio, curano la tenuta dell’Albo, provvedendo sia alle iscrizioni e alle cancellazioni dei professionisti, sia ad effettuarne la revisione periodica, senza dimenticare, altresì, l’esercizio della funzione disciplinare. Il Consiglio nazionale, invece, è chiamato a promuovere e coordinare le attività degli Ordini regionali volte a tutelare la dignità e il prestigio della professione, esprimendo anche pareri su questioni di carattere generale che interessino la professione stessa. Sono di sua competenza, inoltre, le decisioni concernenti i ricorsi avverso le deliberazioni dei Consigli degli Ordini regionali in materia elettorale e disciplinare o riguardo l’iscrizione e la cancellazione dall’Albo. Capitolo 1: Profilo professionale dell’assistente sociale
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Le norme che disciplinano il funzionamento degli Ordini regionali e del Consiglio Nazionale, contenute nel D.M. Grazia e Giustizia 11 ottobre 1994, n. 615 (Regolamento recante norme relative all’istituzione delle sedi regionali o interregionali dell’Ordine e del Consiglio nazionale degli assistenti sociali, ai procedimenti elettorali e alla iscrizione e cancellazione dall’Albo professionale), vero e proprio regolamento attuativo della legge 84/1993, sono poi state modificate e integrate dal D.P.R. 8 luglio 2005, n. 169 (Regolamento per il riordino del sistema elettorale e della composizione degli organi di ordini professionali). Il comportamento professionale degli assistenti sociali iscritti all’Albo è regolato dalle norme etiche contenute nel Codice deontologico, il cui aggiornamento più recente, a cura del Consiglio nazionale dell’Ordine, è del 2009 (si rinvia al Cap. 2, Parte I). Ciascun professionista è obbligato all’osservanza di tali norme, per la cui eventuale inosservanza sono previste sanzioni disciplinari. 2.4 La professione dell’assistente sociale nella società moderna La crescente attenzione nei confronti dell’assistenza sociale non deriva solo dalla inclusione di questo tema all’interno della Costituzione. Si può dire, infatti, che, per dimensioni quantitative oltre che per importanza sociale, al settore industriale si stia mano a mano venendo a sostituire il cd. terzo settore, caratterizzato dall’interazione del privato sociale con i soggetti pubblici (ai diversi livelli dislocati: statale, regionale, locale) nella fornitura di servizi del più vario genere. La rivoluzione tecnologica che ha accompagnato gli ultimi decenni ha comportato l’automazione di molti processi lavorativi che in passato erano esclusiva competenza degli operai, ridefinendone i compiti e il ruolo all’interno del tessuto sociale. La globalizzazione economica, inoltre, sembra aver acuito, anche all’interno dei singoli paesi, il divario esistente tra il benessere di una ristretta élite politico-finanziaria e il disagio dei più deboli, generando nuove tensioni e disparità sociali. Questi fattori, insieme alle crescenti difficoltà dello Stato nel recuperare risorse attraverso l’imposizione fiscale, hanno comportato anche un diverso atteggiamento dei pubblici poteri nei confronti del modo in cui gestire l’assistenza: a partire dalla legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (L. 328/2000) si segue la strada del decentramento nella gestione dei servizi sociali e si tenta di concretizzare il principio di sussidiarietà in modo da rendere i soggetti erogatori dei servizi sempre più materialmente vicini ai beneficiari degli stessi. Da quanto detto appare chiara l’importanza sempre crescente della professione di assistente sociale e, soprattutto, la delicatezza degli scopi che essa si prefigge: agli assistenti sociali sono richieste particolari qualità etiche, affinché possano ispirare fiducia in coloro che richiedono il loro aiuto e ricorrono alle loro prestazioni. È indispensabile, dunque, che gli operatori sociali dispongano, oltre che di una solida cultura di base, anche di una particolare predisposizione per l’attività sociale. 3. Dal Welfare State al Welfare community Da diversi anni, ormai, è stata introdotta nel nostro linguaggio l’espressione «welfare state», che può essere variamente tradotta come: Stato assistenziale, Stato di sicurezza sociale, Stato dei servizi sociali, Stato del benessere sociale.
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Parte Prima: L’assistente sociale e l’etica professionale
Le politiche del welfare tendono a garantire i bisogni sociali fondamentali dei cittadini, quali: 1. la sicurezza sociale, che comprende il settore previdenziale, atto a mettere gli individui in condizione di far fronte a contingenze sociali come la vecchiaia, l’invalidità, la povertà o la menomazione fisica; 2. l’istruzione; 3. l’abitazione; 4. l’inclusione sociale, che rientra nella politica integrata dei paesi dell’Ue di lotta alla povertà e all’emarginazione delle fasce deboli, come anziani, minori, immigrati etc. L’intervento diretto dello Stato nella protezione sociale doveva assumere un ruolo riparatore delle ingiustizie sociali provocate dal libero mercato, che strutturalmente favorisce le categorie sociali più forti perpetuando un sistema di disuguaglianza. In realtà, con il tempo si è perso il vero concetto di Stato sociale e tutto ciò che era legato al significato di Welfare State, in quanto il ruolo dello Stato si è modificato passando da promotore e garante degli interessi di tutti i cittadini ad elemento di ostacolo delle libertà e individualità. Ad oggi si assiste, quindi ad un passaggio dall’espressione «Welfare State» a quella di «Welfare community», con la quale lo Stato non è più solo nella risoluzione dei problemi della Comunità, ma essa stessa diventa responsabile del proprio benessere e, quindi, all’impegno dello Stato si aggiunge quello dei cittadini. Si crea in questo modo un modello collaborativo in cui i cittadini si sentono protagonisti dei propri bisogni e, quindi, del proprio benessere e partecipano con responsabilità al processo di soddisfazione dei bisogni. Con il D.M. 28-3-2011 è stato istituito il cd. Polo integrato del welfare, che prevede un sistema flessibile di sinergie e cooperazioni tra il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e gli enti previdenziali e assistenziali. Esso prevede sedi logistiche uniche dove gli utenti possono fruire dei servizi pubblici inerenti alle politiche sul lavoro e sociali, alla tutela delle condizioni di lavoro, alla sicurezza nei luoghi di lavoro e alla previdenza e assistenza. Si tratta di un sistema, che per la sua struttura, deve garantire un aumento del livello di accessibilità di tutti i servizi erogati dalle amministrazioni coinvolte, una riduzione delle spese relative sia alla sistemazione logistica, dovuta ad un maggiore utilizzo degli immobili strumentali a disposizione, che alla gestione, ed infine una riorganizzazione delle risorse umane, mediante un’ottimizzazione del loro utilizzo sfruttando le professionalità a disposizione, spesso ignorate dalle diverse amministrazioni. I Poli logistici integrati del Welfare sono costituiti a livello provinciale e comprendono gli uffici territoriali del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e le sedi territoriali degli enti previdenziali e assicurativi. Le amministrazioni stipulano un accordo per ciascun Polo logistico integrato, previo coordinamento dell’Agenzia del demanio, nell’ambito dei piani di razionalizzazione. Tale accordo di sede individua l’Amministrazione capofila, la ripartizione degli oneri locativi e delle spese di funzionamento in relazione alla superficie occupata, il regime delle responsabilità sulla sicurezza delle sedi in conformità con la normativa vigente e l’integrazione delle attività e dei servizi.
4. I compiti dell’assistente sociale Per quanto riguarda i compiti connessi alla professione dell’assistente sociale, il testo dell’art. 1 della già citata legge 23 marzo 1993, n. 84, recita quanto segue: «L’assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative. L’assistente sociale svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione e può esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali. Capitolo 1: Profilo professionale dell’assistente sociale
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La professione di assistente sociale può essere esercitata in forma autonoma o di rapporto di lavoro subordinato. Nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale». L’assistente sociale è chiamato a prestare la sua opera in determinati contesti sociali, per cui egli utilizzerà mezzi, strumenti, tecniche e metodi specifici affinché, oltre al sostegno psicologico, possa offrire all’utenza quell’aiuto materiale predisposto dalla società, sempre finalizzato a prevenire o eliminare lo stato di bisogno. Per raggiungere tale obiettivo l’assistente sociale collaborerà con l’utente in difficoltà, aiutandolo a risolvere i problemi sia con i propri mezzi che facendo appello alle risorse della collettività. Lo convincerà che egli è innanzitutto una persona non diversa dalle altre e che ha potenzialità tali da consentirgli di affrontare e risolvere i problemi nel rispetto delle norme sociali. A tal fine l’assistente sociale informerà l’utente sulle strutture esistenti nel territorio, sul loro funzionamento e su come utilizzarle, aiutandolo così ad aiutarsi, spronandolo a collaborare, per migliorare la società. Gli operatori del servizio sociale: assistenti sociali I servizi sociali, come anche esplicitato dal citato art. 128 del D.Lgs. 112/1998, coprono una congeria di servizi concreti. Loro collante è l’orientamento «sociale», un orientamento che spesso passa tramite gli operatori, in particolare quelli che non sono portatori di specifiche e differenziate professionalità tecniche (di tipo medico o magari tecnologico o generiche ma di stampo amministrativo). È per questo che l’evoluzione dei servizi sociali è strettamente legata alle vicende del gruppo professionale degli assistenti sociali. La professione in Italia nasce al termine degli anni ’20 del secolo scorso, con la nascita di una scuola di specializzazione per assistenti destinati ad operare in fabbrica (a supporto dell’introduzione e diffusione dei modelli tayloristici). È quindi nel secondo dopoguerra che si sviluppa un sistema di scuole per assistenti sociali al di fuori dei luoghi di lavoro, assistenti sociali che, soprattutto dopo la costituzione delle Regioni negli anni ’70, divengono sempre più un profilo professionale pubblico, venendo a giocare un ruolo di attore principale e riconosciuto nel settore dei servizi sociali — rappresentando l’anello di congiunzione, creativo, progettuale e di intermediazione, tra il bisogno dell’individuo, la comunità nella quale vive e le istituzioni pubbliche deputate a proteggerlo — ma anche pagando lo scotto d’un certo appiattimento burocratico. Le riforme recenti hanno cercato di valorizzare questa funzione di cerniera tra individuo e amministrazioni, da parte dell’assistente sociale, immaginandone anche l’assunzione di ruoli e funzioni che sconfinano nella gestione manageriale del sistema di offerta di servizi su un territorio ampio. La L. 328/2000 e gli interventi collegati di livello regionale immaginano infatti figure nuove, come quella del coordinatore di ambito o del responsabile di zona, ai quali viene richiesto di sviluppare, in primo luogo, attività di programmazione, gestione e monitoraggio di servizi in rete, ed in secondo luogo, anche di concepire questo impegno all’interno di una visione macro del sistema di protezione sociale, dove si opera tenendo conto delle dinamiche di ciascun livello istituzionale dentro una cornice di governance multilivello. Nell’attuazione pratica, non sempre le specificità dei nuovi ruoli sono emerse con precisione, anche perché è spesso assente la formazione finalizzata al loro espletamento. Sul piano numerico l’ordine degli assistenti sociali, istituito con L. 84/1993, denunciava, al 31 dicembre 2010, 37.972 iscritti. Un’elaborazione Censis (riferita ad un numero totale di operatori di poco inferiore a quello attuale) ne indicava prevalentemente la presenza nelle istituzioni pubbliche, in particolare Comuni e SSN (circa un terzo in ciascuno dei due ambiti). Fonte: Ordine nazionale degli assistenti sociali
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Parte Prima: L’assistente sociale e l’etica professionale
Capitolo 3 I diritti e le libertà fondamentali Sommario: 1. I diritti inviolabili della persona. - 2. I doveri inderogabili. - 3. Il principio di uguaglianza. - 4. I rapporti civili. - 5. I rapporti etico-sociali. - 6. I rapporti economici. - 7. I rapporti politici.
1. I diritti inviolabili della persona L’articolo 2 della Costituzione stabilisce, nella prima parte, che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Per diritti inviolabili si intendono quei diritti e quelle libertà essenziali che costituiscono la base e il fondamento del nostro regime politico. Tali diritti sono indisponibili ed intrasmissibili (non possono cioè essere oggetto di rinunzia o transazione) da parte dei loro titolari e sono imprescrittibili (non si estinguono nonostante il mancato esercizio da parte del titolare) Questi diritti sono riconosciuti all’uomo sia come singolo (diritto al nome, alla libera manifestazione del proprio pensiero), sia come membro di formazioni sociali (diritto di associazione e di riunione). L’articolo 2 garantisce tali diritti anche alle formazioni sociali (famiglia, partiti politici, società) che costituiscono il collegamento tra le istituzioni e il cittadino e che rendono possibile lo sviluppo della persona e la sua partecipazione alla vita sociale, politica ed economica del Paese. 2. I doveri inderogabili L’articolo 2 della Costituzione, accanto ai diritti inviolabili, richiede l’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Sono quei doveri dal cui adempimento nessun soggetto può essere esentato in quanto, attraverso la solidarietà, si adempiono i compiti propri dello Stato sociale, nel quale l’agire del singolo deve sempre essere orientato al bene comune. I suddetti doveri sono contenuti nell’articolo 52 che definisce sacro il dovere di difendere la Patria; nell’articolo 53 che obbliga i cittadini e gli stranieri (che hanno interessi economici in Italia) a concorrere alle spese dello Stato pagando le tasse in ragione della capacità contributiva di ognuno di essi; nell’articolo 54 che impone il dovere di fedeltà secondo cui tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. Attraverso la previsione di tali doveri, lo Stato persegue il suo obiettivo primario, che è quello di realizzare condizioni effettive di eguaglianza per tutti i cittadini, risolvendo i conflitti sociali e permettendo a ciascun individuo l’esercizio concreto dei diritti civili e politici astrattamente previsti dalla Costituzione. 3. Il principio di uguaglianza L’articolo 3 della Costituzione, al primo comma, stabilisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, Capitolo 3: I diritti e le libertà fondamentali
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di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali. Così disponendo, il primo comma dell’articolo 3 pone il principio di uguaglianza formale, che costituisce la regola fondamentale dello Stato di diritto. Il principio dell’uguaglianza formale comporta due fondamentali conseguenze: 1. tutti sono uguali davanti alla legge, a prescindere dalla condizione sociale o dal ruolo svolto. Il tutto è riassunto dalla tipica espressione delle aule di tribunale: la legge è uguale per tutti; 2. il legislatore non può approvare leggi che contengano discriminazioni fondate sul sesso, sulla razza, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche, sulle condizioni personali e sociali. Nel caso lo facesse, le leggi sarebbero annullate dalla Corte costituzionale. Il divieto di discriminazioni non deve essere inteso, però, in senso assoluto, dal momento che la stessa Costituzione prevede misure a favore di particolari categorie. Esempi ne sono l’articolo 6, che impone alla Repubblica di tutelare con apposite norme le minoranze linguistiche, e l’articolo 51, che prevede l’adozione di provvedimenti per promuovere le pari opportunità tra donne e uomini. Il principio di uguaglianza non vieta, quindi, qualsiasi forma di discriminazione, ma solo le discriminazioni irragionevoli. In questo senso si dice che il principio di uguaglianza si evolve in principio di ragionevolezza. Il principio di uguaglianza formale resterebbe, così, una pura enunciazione teorica se non fosse integrato dall’impegno pratico dello Stato nel creare le condizioni di uguaglianza sostanziale. Non ha alcun valore stabilire e garantire il principio di uguaglianza giuridica tra i cittadini, quando differenze di carattere economico-sociale li pongono in condizione di originaria disuguaglianza. Il nostro ordinamento, costituendo un esempio di Stato sociale, non poteva non accogliere anche il principio di uguaglianza sostanziale. Per questa ragione il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di intervenire per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, affinché tutti i cittadini siano posti inizialmente su un piano di sostanziale parità e godano di determinate utilità sociali (quali l’istruzione, la salute, il lavoro), della possibilità di dare pieno sviluppo alla propria persona e di partecipare alla gestione del paese. 4. I rapporti civili 4.1 La libertà personale La libertà personale costituisce il presupposto logico e giuridico di tutte le libertà riconosciute all’individuo dalla Costituzione. La libertà personale non è solo da intendersi come libertà fisica, ma anche come libertà morale, e quindi libertà non solo dalla coercizione fisica, ma anche da ogni forma di coazione della volontà, del pensiero e della psiche dell’individuo. Il fondamento costituzionale della libertà personale dell’individuo, sia in senso fisico sia in senso morale, deve ravvisarsi nell’articolo 13 della Costituzione, il quale stabilisce, nel co. 1, che «la libertà personale è inviolabile» e nell’articolo 23 della Costituzione secondo il quale «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Il diritto alla libertà personale è un diritto inviolabile e, in quanto diritto della personalità, presenta i seguenti caratteri: è indisponibile da parte del titolare; è intrasferibile (sono 282
Parte Terza: Nozioni di diritto costituzionale
nulle le convenzioni con cui un soggetto trasferisca ad altri il diritto alla sua libertà personale); è irrinunciabile (sono annullabili gli atti che costituiscono rinuncia a tale diritto); è imprescrittibile (il diritto non si estingue nonostante il mancato esercizio protratto per un determinato tempo); è tutelato nei confronti di tutti e quindi ha carattere assoluto. L’articolo 13 della Costituzione, dopo aver dichiarato l’inviolabilità della libertà personale, afferma che «non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». In tale disposizione si possono individuare tre garanzie fondamentali: 1. la riserva di legge: al solo Parlamento è riservata la possibilità di adottare provvedimenti che limitano la libertà personale degli individui; 2. la riserva di giurisdizione: soltanto i giudici possono emanare in concreto provvedimenti restrittivi della libertà personale. Ogni atto limitativo della libertà personale, quindi, non solo deve essere previsto dalla legge, ma deve essere autorizzato dal giudice competente; 3. l’obbligo della motivazione: ogni provvedimento restrittivo della libertà preso dai giudici deve essere motivato. Ciò significa che nessuno può essere limitato nelle proprie libertà senza conoscerne il motivo.
4.2 La libertà di domicilio L’articolo 14 della Costituzione sancisce l’inviolabilità del domicilio. Nel sistema delle libertà fondamentali, la libertà di domicilio rappresenta una forma di espressione della libertà personale. Il concetto di domicilio va inteso in un’accezione molto ampia e ricomprende non solo l’abitazione, ma anche il luogo dove il soggetto svolge la propria attività lavorativa, la sua dimora occasionale o anche una camera d’albergo, ovvero ogni luogo dal quale si ha intenzione di escludere la presenza dei terzi.
La libertà di domicilio implica che non possono essere eseguite perquisizioni, ispezioni, sequestri se non nei modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte. 4.3 La libertà e la segretezza della corrispondenza L’articolo 15 della Costituzione sancisce l’inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, a garanzia della riservatezza contro abusive interferenze. Tale corrispondenza deve ormai intendersi nel senso più ampio, ricomprendendo anche la moderna posta elettronica. In materia, la Costituzione ha previsto la riserva di giurisdizione, in quanto la sua limitazione può avvenire solo con un atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge. 4.4 La libertà di circolazione e di soggiorno Il diritto alla libertà di circolazione e di soggiorno (la prima è presupposto della seconda) è sancito dall’articolo 16 della Costituzione, che afferma: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sicurezza o sanità». Subito dopo la norma precisa che «nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche». Dal contenuto di tale disposizione si evince la vigenza del principio della riserva di legge in materia di limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno: tale principio impedisce restrizioni stabilite sulla base di atti aventi natura diversa dalla legge statale (anche l’articolo 120 della Costituzione vieta alle Regioni l’adozione di provvedimenti che possano ostacolare la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni). Capitolo 3: I diritti e le libertà fondamentali
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Tuttavia, si tratta di riserva di legge relativa (la legge si limita a fissare i principi, potendo gli atti amministrativi, nei limiti da essa posti, disciplinare i dettagli), in quanto limitazioni al diritto di libera circolazione e soggiorno possono essere poste anche da un’autorità amministrativa (Prefetto, Sindaco) solo, però, per motivi di sanità e di sicurezza (si pensi ad esempio ai provvedimenti che limitano parzialmente la circolazione degli autoveicoli nei centri abitati per motivi di sicurezza del traffico cittadino).
Il diritto garantito dall’articolo 16 della Costituzione si estrinseca in tre facoltà: libera circolazione sul territorio dello Stato; libertà di fissare ovunque la propria residenza (soggiorno); facoltà di uscire temporaneamente o definitivamente dallo Stato e di rientrarvi. 4.5 La condizione giuridica dello straniero La condizione giuridica dello straniero è regolata, anzitutto, dall’articolo 10 della Costituzione che prevede: — la conformità della legge italiana alle norme e ai trattati internazionali; — il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica per lo straniero cui sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana; — il divieto di estradizione dello straniero per reati politici. Oltre al dettato costituzionale, sono previste disposizioni legislative specifiche per: — i cittadini non appartenenti all’Unione europea, la cui normativa specifica è prevista dal decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (cd. Testo Unico sull’immigrazione) che prevede l’ingresso per motivi di turismo, studio, lavoro, cura, familiari, culto. Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana. Per lo straniero regolarmente soggiornante, invece, sono attribuiti anche i diritti in materia civile previsti per il cittadino italiano. Possono soggiornare nel territorio dello Stato gli stranieri entrati regolarmente che siano muniti di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno in corso di validità. Contestualmente alla presentazione della domanda di rilascio del permesso di soggiorno, deve essere presentato un Accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno (D.P.R. 14 settembre 2011, n. 179). La stipulazione dell’Accordo di integrazione rappresenta condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno e le perdita integrale dei crediti determina l’espulsione dal territorio dello Stato (nuovo art. 4bis del D.Lgs. 286/1998, introdotto dalla L. 94/2009). In mancanza dei requisiti richiesti dal Testo Unico la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano per l’ingresso ai valichi di frontiera (art. 10, comma 1, D.Lgs. 286/1998). Il permesso di soggiorno deve essere richiesto al Questore della Provincia in cui lo straniero si trova entro otto giorni lavorativi dal suo ingresso. Lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno che dimostra la disponibilità di un reddito sufficiente al sostentamento proprio e dei familiari nonché di un alloggio fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’ASL, può chiedere al Questore il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, o qualora non presenti i requisiti previsti, lo straniero è sottoposto a espulsione, così come stabilito dagli articoli 13-16 del Testo Unico; 284
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— i cittadini dell’Unione europea, la cui normativa di riferimento è costituita dal decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, modificato dal decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 32, che prevede le modalità di esercizio del diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. La condizione giuridica dello straniero ha subito un’importante modifica a seguito dell’emanazione della L. 15 luglio 2009, n. 94 (cd. nuovo Pacchetto sicurezza) che prevede un inasprimento della lotta contro l’immigrazione irregolare. In particolare, il nuovo articolo 10bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (inserito dall’articolo 1, co. 16, L. 94/2009), prevede che lo straniero che illegalmente entra o si trattiene nel territorio dello Stato, è punito con un’ammenda che varia da 5.000 a 10.000 euro.
Se in precedenza lo straniero che arrivava in Italia senza permesso di soggiorno poteva essere trattenuto nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) fino a un massimo di 60 giorni, con tale riforma la permanenza può essere prolungata fino a 180 giorni. Qualora non sia stato possibile procedere all’allontanamento, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi, il questore può chiedere al giudice di pace la proroga del trattenimento, di volta in volta, per periodi non superiori a sessanta giorni, fino ad un termine massimo di ulteriori dodici mesi. Il questore, in ogni caso, può eseguire l’espulsione e il respingimento anche prima della scadenza del termine prorogato, dandone comunicazione senza ritardo al giudice di pace (art. 14, comma 5, D.Lgs. 286/98, da ultimo sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. d, n. 3, D.L. 23 giugno 2011, n. 89, conv. con modif. dalla L. 2 agosto 2011, n. 129). 4.6 La libertà di riunione La libertà di riunione, garantita ai cittadini dall’articolo 17 della Costituzione, consiste nella facoltà di darsi convegno, temporaneamente e volontariamente, in un luogo determinato ed in seguito a preventivo accordo, indipendentemente dalle ragioni per cui ci si riunisce (politiche, ricreative, religiose). Le riunioni possono assumere la forma di assembramenti (riunioni occasionali causate da una circostanza improvvisa ed imprevista), di dimostrazioni (riunioni che danno luogo a manifestazioni per scopi civili o politici) o di cortei (riunioni in movimento). Le riunioni, inoltre, a seconda del luogo in cui si svolgono, si distinguono in private (sono quelle che si svolgono in luoghi privati), aperte al pubblico (sono quelle che si svolgono in luoghi privati, ma nei quali l’accesso può essere consentito in base a determinate condizioni, come ad esempio l’acquisto del biglietto per l’ingresso in un cinema) e pubbliche (sono quelle che si svolgono in luoghi pubblici ai quali tutti possono liberamente accedere). 4.7 La libertà di associazione La libertà di associazione si specifica nella libertà di costituire una associazione, nella libertà di aderire o non aderire ad essa, nella libertà di uscire da un’associazione. L’associazione si differenzia dalla riunione in quanto è caratterizzata: — da una stabile e duratura organizzazione; — dalla esistenza di un vincolo permanente tra gli associati; — dalla esistenza di uno scopo comune da perseguire (che può essere politico, religioso, culturale, ricreativo).
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La libertà di associazione è, come la libertà di riunione, una libertà strumentale. La Costituzione, infatti, garantisce la libertà di associazione poiché considera quest’ultima come una libertà indispensabile per favorire lo sviluppo della persona e la sua partecipazione alla vita economica, politica e sociale del Paese. A norma dell’articolo 18, sono vietate le associazioni che la legge penale indica espressamente (ad esempio, le associazioni a delinquere); le associazioni segrete; le associazioni a carattere militare che perseguono, anche se indirettamente, scopi politici, in quanto, in un regime democratico, i fini politici vanno perseguiti attraverso il pacifico e civile dibattito, senza ricorrere alle armi, alla violenza e a gerarchie di tipo militare. 4.8 La libertà religiosa L’Italia è uno Stato laico e riconosce la libertà religiosa di tutti, senza alcuna discriminazione. Ciò spiega perché, oltre all’eguaglianza in materia (articolo 8 della Costituzione) è garantita anche la libertà di fede religiosa (articolo 19 della Costituzione), che consiste nel diritto di tutti i cittadini di «professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». In concreto tale libertà consiste nella possibilità di scegliere il proprio credo religioso, divulgandolo con opere di proselitismo ed esercitandone il culto; nella libertà di non essere costretti a professare una particolare fede religiosa; nella libertà di non avere un proprio credo religioso (parliamo, in tal caso, di libertà di ateismo). Unico limite in materia è costituito dal fatto che gli atti di culto non devono essere contrari al buon costume, cioè non devono concretarsi in manifestazioni contrarie alla morale corrente. Quanto ai rapporti fra lo Stato italiano e le confessioni religiose, per le confessioni acattoliche la disciplina è dettata dalla legge ordinaria sulla base di intese con le relative rappresentanze; per quanto riguarda invece i rapporti con la Chiesa cattolica l’articolo 7 della Costituzione fa riferimento ai Patti Lateranensi del 1929 (poi modificati nel 1984), le cui modifiche devono essere accettate dalle due parti. Il diverso rilievo è giustificato dallo storico radicamento del cattolicesimo in Italia, oltre che dalla presenza dello Stato Vaticano nella città di Roma. 4.9 La libertà di manifestazione del pensiero La libertà di manifestazione del pensiero è prevista nell’articolo 21 della Costituzione che garantisce ad ogni soggetto la facoltà di esternare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. Uno dei più importanti ed incisivi mezzi di manifestazione del pensiero è la stampa. L’articolo 21 della Costituzione sancisce in materia i seguenti principi: — esclusione di ogni forma di autorizzazione preventiva. Infatti chi intende pubblicare un libro o uno stampato non deve chiedere alcun consenso preventivo per poterlo diffondere; — esclusione di ogni forma di censura; — disciplina legislativa delle ipotesi di sequestro dello stampato; — possibilità di stabilire con legge dei controlli sui mezzi di finanziamento della stampa periodica; — facoltà del legislatore di adottare controlli preventivi e mezzi repressivi contro la stampa che offenda il buon costume.
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5. I rapporti etico-sociali 5.1 La tutela della famiglia La Carta costituzionale garantisce ampiamente le formazioni sociali nel cui ambito la personalità individuale può trovare piena esplicazione. Tali formazioni sociali costituiscono un importante raccordo tra lo Stato ed il singolo cittadino e rappresentano una presenza imprescindibile per un ordinamento autenticamente democratico. La principale formazione sociale intermedia è senza dubbio la famiglia. I diritti della famiglia, come quelli dell’individuo, sono intangibili e di essi la Costituzione tratta negli articoli 29-31, al fine di assicurare il riconoscimento della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e quello dei diritti della famiglia come tale, a prescindere dai diritti (e doveri) dei suoi membri. I principi generali in materia di famiglia sono: l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi; la tutela e la garanzia dell’unità familiare; il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio; la formazione, l’istruzione ed il mantenimento dei figli in assenza dei genitori, perché ignoti o incapaci o defunti. Con la legge 151/1975, il legislatore, tenendo conto del principio della uguaglianza giuridica dei coniugi affermato dalla Costituzione, ha radicalmente modificato la disciplina dei rapporti familiari prevista dal codice civile. È caduta, nell’ambito della famiglia, ogni discriminazione tra marito e moglie, per garantire la completa uguaglianza giuridica e morale dei coniugi, pur con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare, con riferimento sia ai rapporti morali e patrimoniali fra i coniugi stessi, sia ai rapporti tra genitori e figli. 5.2 La cultura e la scuola Per l’articolo 9 della Costituzione, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione». La Costituzione quindi prevede per lo Stato (perciò definito «Stato di cultura») l’impegno di intervenire per promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e, attraverso di esse, la crescita dell’individuo, nella consapevolezza che non si può assistere a nessun progresso sociale ed umano senza crescita culturale. Una specifica applicazione della promozione della cultura è rappresentata dagli articoli 33-34 della Costituzione, che disciplinano la materia dell’istruzione scolastica secondo i seguenti principi: — il principio della libertà di insegnamento; il principio della presenza di scuole statali per tutti i tipi, ordini e gradi dell’istruzione, per corrispondere al diritto dei cittadini allo studio; — il principio del libero accesso all’istruzione scolastica (scuola aperta a tutti), senza alcuna discriminazione tra cittadini e stranieri; — il principio della obbligatorietà e gratuità della istruzione dell’obbligo; — il riconoscimento del diritto allo studio anche a coloro che sono privi di mezzi, purché capaci e meritevoli mediante borse di studio, assegni familiari ed altre provvidenze; — il principio dell’ammissione per esami ai vari gradi dell’istruzione scolastica e dell’abilitazione professionale per esami (articolo 33, co. 5); il principio della libera istituzione di scuole da parte di enti o privati sia laici sia religiosi; — il principio della possibilità di parificazione delle scuole private a quelle pubbliche, quanto agli effetti legali e al riconoscimento professionale del titolo di studio, ma nel rispetto di certe condizioni che la Costituzione riserva al legislatore ordinario (ad esempio, previsione di un contenuto minimo dei programmi o di un numero minimo di anni di studio) e senza oneri per lo Stato.
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5.3 La tutela della salute L’articolo 32 della Costituzione sancisce e tutela il diritto alla salute, fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, riconducibile ai diritti inviolabili. Tale diritto presenta una triplice valenza; nel suo contenuto tradizionale si identifica nel diritto al rispetto dell’integrità fisica, che può essere fatto valere nei confronti di chiunque (Stato, enti pubblici e privati); nella concezione solidaristica della Costituzione si pone anche come diritto all’assistenza sanitaria, che però può essere vantato solo nei confronti dello Stato; nella prospettiva di una più efficace tutela della persona, si ritiene oggi che il diritto alla salute comprenda anche il diritto alla salubrità dell’ambiente. 5.4 La tutela dell’ambiente La disciplina in materia ambientale è dettata dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il cui obiettivo primario è la promozione dei livelli di qualità della vita umana, da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Quando fu adottata la nostra Costituzione, il problema dell’inquinamento ambientale non aveva ancora assunto la drammaticità che ha oggi; ciò spiega perché il testo costituzionale non contiene alcuna norma specifica per la protezione dell’ambiente. 6. I rapporti economici 6.1 Il lavoro La Costituzione considera il lavoro come il più importante fenomeno della vita sociale, affermando, all’articolo 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». L’articolo esprime dunque il principio lavoristico, che fa del lavoro il fondamento stesso della Repubblica, che si estende ad ogni forma di attività economica produttiva e che non può essere modificato neppure tramite il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 della Costituzione Il comma 1 dell’articolo 4 della Costituzione afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Tale norma attribuisce ad ogni cittadino la libertà di scegliere quale attività lavorativa svolgere, imponendo nel contempo allo Stato di promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro. 6.2 L’articolo 38 della Costituzione La Costituzione italiana nel promuovere e tutelare il lavoro e il lavoratore stabilisce all’art. 36 che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Tuttavia, coerentemente con i fini dello Stato sociale, viene delineato un complesso sistema di programmi e interventi pubblici che garantisca a tutti i cittadini un’esistenza libera e dignitosa anche nel caso in cui non siano in grado di lavorare o possano farlo solo in misura ridotta. In questo senso, si prevede all’art. 38 che: «ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi per sopravvivere, ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli 288
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inabilii ed i minorati hanno diritto alla educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera». Tale disposizione, pertanto, prevede l’assistenza sociale indica il complesso delle attività, sia pubbliche che private, finalizzate a prevenire o eliminare, tramite aiuti materiali e spirituali, tutti gli stati di carenza o di bisogno che affliggono la vita materiale, intellettuale e morale sia di singoli individui che di comunità. 6.3 L’assistenza sociale Con l’espressione «assistenza sociale» sono comunemente indicate la parte della legislazione sociale e le attività predisposte alla tutela di interessi attuali dei cittadini, indipendentemente dal verificarsi di eventi dannosi. Talune situazioni di bisogno, infatti, specie quelle attinenti alla personalità morale dell’individuo, non sono valutabili aprioristicamente né tantomeno coperte attraverso i normali sistemi previdenziali. In questi casi si ricorre, quindi, a forme assistenziali di natura sanitaria, economica, morale, sociale e riabilitativa sia da parte di istituti pubblici finanziati dalla intera collettività sia da parte dell’iniziativa privata. L’assistenza, inoltre, integra la previdenza sociale in quei settori e per quelle persone che, non coperte dall’assicurazione sociale, rimarrebbero esposte a uno stato di bisogno completamente prive di tutela. Di regola l’attività di assistenza, sia pubblica che privata, si avvale dei cd. servizi sociali, che costituiscono delle vere e proprie strutture di supporto e propulsione assistenziale, nelle quali opera il «professionista dell’assistenza», cioè l’assistente sociale. In particolare l’attività di assistenza sociale può essere: — facoltativa, se legata esclusivamente alla libera volontà di enti pubblici e privati (ad es. le iniziative di beneficenza); — obbligatoria, se è la stessa legge a prevederla e imporne l’esecuzione, al verificarsi di determinate circostanze (ad es. gli interventi di servizio sociale presso il Tribunale per i minorenni e negli istituti carcerari). Rispetto al fine da conseguire, tale attività può avere carattere: — preventivo, se rivolta essenzialmente ad evitare l’insorgenza di uno stato di carenza o di bisogno; — riparativo (o risarcitorio), se, di fronte ad uno stato di bisogno o di carenza già verificatosi, tende a rimuoverne le conseguenze dannose e cerca possibili forme di rimedio. Le attività e gli interventi assistenziali, a seconda della natura giuridica dei soggetti da cui promanano, formano le due grandi categorie dell’assistenza pubblica e dell’assistenza privata. 6.4 L’assistenza pubblica Con questo termine si indica l’opera di assistenza svolta, sotto forma di attività amministrativa, dallo Stato e dagli altri Enti pubblici. Con il D.P.R. 616/1977 il concetto di «beneficenza pubblica» si trasforma nel concetto di «assistenza sociale» intesa come il complesso di attività che attengono, nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione di servizi e prestazioni a favore dei singoli o di gruppi qualunque sia il titolo in base al quale sono individuati i destinatari, ad esclusione soltanto delle funzioni riguardanti le prestazioni economiche di natura previdenziale (art. 22). L’opera di assistenza sociale viene esercitata, per la maggior parte, dagli enti territoriali (Regioni, Province, Comuni, Comunità montane) ai quali, per effetto del D.P.R. 24-7-1977, Capitolo 3: I diritti e le libertà fondamentali
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n. 616 sono state trasferite o delegate le funzioni amministrative, già esercitate dallo Stato o da enti pubblici nazionali ed interregionali, nelle materie previste dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, in particolare quelle afferenti il settore dei servizi sociali. Gli interventi dello Stato, nel campo dell’assistenza sociale, riguardano sostanzialmente la programmazione generale degli interventi di politica sociale e alcune attività amministrative (ad es. l’erogazione delle pensioni sociali, degli assegni continuativi ad invalidi civili etc.). Alle Regioni ed ai Comuni sono assegnati compiti di maggior rilievo, mentre alle Province vengono confermate le competenze in relazione ai minori illegittimi e abbandonati, agli infermi di mente, ai ciechi e ai sordomuti rieducabili, nonché il potere di approvare la localizzazione dei presidi sanitari e il parere sulle delimitazioni territoriali delle Aziende sanitarie locali. L’assistenza sociale è stata oggetto di numerosi interventi di riforma, sotto il profilo sia dell’assetto istituzionale e dell’organizzazione degli interventi e dei servizi sociali (L. 328/2000), sia dei soggetti competenti all’erogazione (L. cost. 3/2001, di modifica del Titolo V della Costituzione). 6.5 L’assistenza privata L’assistenza privata è quella svolta da singole persone fisiche o da persone giuridiche di diritto privato. Ai sensi del comma 5 dell’art. 38 Cost., «l’assistenza privata è libera». Tale attività è svolta principalmente da associazioni, fondazioni, comitati, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), organizzazioni non governative (ONG) ed associazioni di promozione sociale: un insieme di soggetti senza fini di lucro che si suole definire terzo settore e che concorre con il sistema pubblico, dando vita a una collaborazione che costituisce uno dei pilastri del nostro sistema di welfare. Il mondo del non profit svolge un ruolo importantissimo nell’erogazione di servizi socioassistenziali, al punto tale che si è passati da un welfare esclusivamente pubblico ad un welfare mix. In considerazione di questa evoluzione, da tempo il Governo adotta provvedimenti per sostenere il terzo settore, con l’obiettivo di favorirne la crescita e la promozione. 6.6 La sicurezza sociale Secondo la dottrina prevalente (Cannella), per sicurezza sociale deve intendersi la «tutela della dignità umana nelle situazioni di bisogno» attuato da parte delle autorità statali attraverso un sistema, normativo e organizzativo, teso a: — garantire a tutti i cittadini i mezzi per l’esistenza in vita; — tutelare la salute attraverso servizi di prevenzione, diagnosi e cura delle malattie; — rimuovere tutti gli ostacoli, economici, sociali e di qualunque altro tipo che, limitando di fatto la libertà o l’uguaglianza dei cittadini, impediscano lo sviluppo della persona e la sua effettiva partecipazione alla vita del Paese (art. 3 Cost.). Nell’ambito della sicurezza sociale vanno, quindi, ricomprese la tutela della salute, la previdenza, la tutela dei lavoratori, l’assistenza vera e propria, la beneficenza, ogni altra attività tesa alla elevazione intellettuale e morale delle persone.
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6.7 Previdenza sociale Con l’espressione «previdenza sociale», invece, viene comunemente indicata, in dottrina, quel complesso di norme e di attività che hanno come fine la tutela del lavoratore (e dei familiari a suo carico) dai rischi della menomazione o della perdita della sua capacità lavorativa in conseguenza di eventi predeterminati (naturali o connessi al lavoro prestato). Tale fine viene attuato, in particolare, mediante un sistema di tipo assicurativo-mutualistico (le cd. assicurazioni sociali) ove ai vari tipi di tutela concorrono gli stessi soggetti potenzialmente esposti agli eventi che provocano lo stato di bisogno. La previdenza sociale, così definita, si differenzia sostanzialmente sia dall’assistenza sociale e sia dalla sicurezza sociale: in particolare quest’ultima, avendo come fine la realizzazione della tutela della dignità umana nelle situazioni di bisogno e per oggetto una più ampia gamma di eventi protetti e di beneficiari (tutti i cittadini e non solo i lavoratori), abbraccia un campo più vasto di quello della previdenza sociale. 6.8 I sindacati Il sindacato è un’associazione libera e spontanea di lavoratori o anche di datori di lavoro, costituita al fine di tutelare gli interessi professionali dei propri appartenenti. L’articolo 39 della Costituzione sancisce, al comma 1, il principio della libertà di organizzazione sindacale; nei commi successivi la posizione giuridica dei sindacati di fronte all’ordinamento positivo statuale. La libertà sindacale sancita dall’articolo 39 della Costituzione comprende: la libertà di costituire anche più sindacati per una medesima categoria, salvo alcuni divieti stabiliti per categorie particolari (magistrati, forze armate); la libertà per i singoli di scegliere fra i vari sindacati esistenti, oppure di non aderire ad alcuno di essi; la libertà di esercitare i diritti sindacali e di fare propaganda sindacale anche all’interno dei luoghi di lavoro (purché non si arrechi danno al datore di lavoro). L’articolo 39 dispone, inoltre, che ai sindacati non può essere imposto altro obbligo oltre a quello della registrazione e che, a seguito di tale registrazione, ad essi è attribuita personalità giuridica e capacità di stipulare, attraverso rappresentanze unitarie, contratti collettivi con efficacia su tutti i lavoratori appartenenti a quel settore. Tuttavia, poiché il legislatore ordinario non ha mai provveduto ad attuare la norma costituzionale, il sistema previsto dall’articolo 39 non ha sino ad oggi trovato applicazione. Attualmente, quindi, i sindacati non sono registrati e non hanno personalità giuridica; conseguentemente al pari dei partiti politici essi agiscono come associazioni non riconosciute (o enti di fatto), secondo le norme previste al riguardo dal codice civile. Il principale strumento di lotta sindacale volto al soddisfacimento delle rivendicazioni dei lavoratori è costituito dallo sciopero. Lo sciopero consiste nell’astensione concertata dal lavoro per la tutela di un interesse professionale collettivo e rappresenta una forma di autotutela, riconosciuta e garantita dalla Costituzione. Tale riconoscimento non implica, però, che il suo esercizio sia illimitato. Infatti, la stessa Costituzione stabilisce che «lo sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».
6.9 La libertà di iniziativa economica L’articolo 41 della Costituzione consacra la libertà di iniziativa economica privata e pubblica, la quale tuttavia non è illimitata. Il co. 2 dell’articolo 41 dispone infatti che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla libertà, sicurezza e dignità umana, mentre il terzo comma, a sua volta, dispone che Capitolo 3: I diritti e le libertà fondamentali
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il legislatore debba fissare i programmi ed i controlli opportuni affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere utilizzata a fini sociali. 6.10 La proprietà Secondo l’articolo 42 della Costituzione la proprietà è pubblica o privata e titolari del diritto di proprietà possono essere lo Stato, gli enti o i privati. La disposizione sottintende, dunque, una pluralità di situazioni di proprietà ed una conseguente varietà di discipline di applicazione. L’articolo 42, al co. 2, afferma che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi d’acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà può essere sottoposta a limiti ed espropriata. 7. I rapporti politici 7.1 I partiti politici I partiti politici costituiscono l’anello di congiunzione fra le istituzioni rappresentative e la volontà popolare. Essi sono associazioni di persone con comunanza di ideologia e di interessi che, attraverso una stabile organizzazione, mirano ad influenzare la determinazione dell’indirizzo politico del paese (articolo 49 della Costituzione). La presenza dei partiti politici nel sistema è, dunque, essenziale affinché il popolo possa esercitare concretamente la sovranità attribuitagli dalla Costituzione. I partiti, quindi, raccolgono le generiche richieste dei cittadini, trasformandole in proposte concrete in Parlamento. Nessun limite di natura ideologica è previsto per la costituzione di un partito politico: unico requisito imposto dalla Costituzione è che, a prescindere dai fini perseguiti, l’attività del partito sia rispettosa del «metodo democratico», ossia di quelle regole che disciplinano il funzionamento di qualsiasi formazione a base democratica. L’unica eccezione alla libertà d’associazione politica è quella rappresentata dal divieto di ricostituire, sotto qualsiasi forma, il partito fascista. Ciò non toglie che, ai fini di un lecito svolgimento della loro azione istituzionale, i partiti siano tenuti a osservare particolari divieti. Essi, infatti, non possono assumere la forma di associazione segreta, né presentare carattere di organizzazione militare (per l’espresso divieto dell’articolo 18 della Costituzione), né assumere simboli o contrassegni suscettibili di confondersi con simboli altrui o che riproducano immagini religiose. I partiti, inoltre, non possono annoverare tra i loro iscritti particolari categorie di cittadini, come i militari di carriera in servizio permanente effettivo, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, i magistrati, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. 7.2 Il corpo elettorale Il popolo è l’elemento personale costitutivo dello Stato e il titolare della sovranità. Il corpo elettorale è la parte attiva del popolo, l’insieme dei cittadini che godono dell’elettorato attivo, vale a dire del diritto di costituire, attraverso il voto, i collegi politicamente rappresentativi dello Stato-ordinamento (non solo, quindi, il Parlamento, ma anche i Consigli regionali, provinciali e comunali). La capacità di votare, vale a dire di esprimere la propria volontà politica attraverso il voto, si definisce elettorato attivo. 292
Parte Terza: Nozioni di diritto costituzionale
Due sono i requisiti richiesti: la cittadinanza italiana e la maggiore età, vale a dire il 18º anno di età (per il Senato tale requisito è elevato a 25 anni). Il diritto di voto può essere limitato solo per incapacità civile, per effetto di sentenza penale irrevocabile (cioè quando non è più possibile esercitare nei confronti di essa alcun mezzo di impugnazione) o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge (ad esempio non sono elettori coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza detentiva, alla libertà vigilata etc.). Ricorrendo tali circostanze il soggetto è escluso dall’elettorato. Le caratteristiche del voto sono: 1. suffragio universale, per cui l’ammissione al voto non può essere subordinata a condizioni di carattere economico o culturale (come si verificava, invece, fino alla riforma elettorale del 1912), ne possono sussistere discriminazioni di sesso; 2. personalità, per cui l’unico modo per votare nel nostro ordinamento è quello di recarsi personalmente alla sezione elettorale e di segnare di proprio pugno la scheda; 3. eguaglianza, per cui sono esclusi i voti plurimi riservati a determinate categorie di persone o i voti multipli, cioè quelli che consentono ad un elettore di votare in più circoscrizioni; 4. libertà, ad ogni elettore deve essere garantita la facoltà di attribuire il proprio voto a chi ritenga più opportuno, senza coazioni di alcun tipo; 5. segretezza, stabilita a tutela della libertà del voto, per garantire l’elettore da possibili pressioni esterne; 6. non obbligatorietà, in quanto l’articolo 48 della Costituzione stabilisce che l’esercizio del diritto di voto costituisce solo un dovere civico. L’espressione dovere civico è il frutto di un compromesso tra coloro che volevano il voto obbligatorio e coloro che consideravano il voto come un diritto o al massimo un obbligo morale. Nel tempo ha prevalso questa seconda tesi poiché nel 1993 sono state abrogate le norme che prevedevano sanzioni per il mancato esercizio del voto.
L’elettorato passivo consiste nella capacità di ricoprire cariche elettive. Per il principio di coincidenza tra elettorato attivo e passivo, di regola chiunque sia elettore è, a sua volta, anche eleggibile. Per l’appartenenza alla Camera dei deputati, tuttavia, l’età non può essere inferiore a 25 anni, per il Senato a 40. 7.3 Il voto degli italiani all’estero L’articolo 48 della Costituzione è stato modificato dalla legge costituzionale 17 gennaio 2000, n. 1. È stato inserito un nuovo comma, il quale stabilisce requisiti e modalità per rendere effettivo l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero senza che siano costretti a rientrare in Italia per recarsi alle urne nei loro collegi elettorali. A tal fine è stata istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere. Con la legge costituzionale 23 gennaio 2001, n. 1, sono stati riservati 18 seggi per gli italiani all’estero, i quali eleggono 12 deputati e 6 senatori. Tali membri delle Assemblee sono ricompresi nel numero dei componenti delle Camere (630 e 315). La legge 27 dicembre 2001, n. 459 (modif. dal D.L. 15 febbraio 2008, n. 24, conv. con modif. dalla L. 27 febbraio 2008, n. 30), ha stabilito le modalità di attuazione del voto per gli italiani all’estero. Tale legge, applicata alle elezioni del 2006, prevede la divisione della circoscrizione estero in 4 ripartizioni: — — — —
Europa; America meridionale; America settentrionale e centrale; Africa, Asia, Oceania e Antartide.
Per quanto riguarda le modalità, si vota per posta: gli italiani all’estero inviano le schede al consolato più vicino e quest’ultimo le invia all’Ufficio centrale per la Circoscrizione estero presso la Corte d’Appello di Roma, dove sono scrutinate.
7.4 Ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità La capacità di essere eletti può subire delle limitazioni per il sopravvenire di alcune cause, non connesse a requisiti personali del soggetto, che impediscono di fatto una sua possibile elezione. In genere l’ineleggibilità è dovuta alla particolare carica ricoperta dal soggetto, che potrebbe porlo in una posizione di vantaggio rispetto ad altri candidati o potrebbe Capitolo 3: I diritti e le libertà fondamentali
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determinare una pressione sulle scelte degli elettori. Nell’ipotesi in cui, pur in presenza di una causa di ineleggibilità, un soggetto venga comunque eletto (per errore, ad esempio, degli organi di controllo), la sua elezione viene dichiarata nulla dall’organo competente. L’incompatibilità, invece, designa quella situazione per cui una medesima persona non può ricoprire contemporaneamente due cariche. Chi si trova in tale condizione deve optare per l’una o l’altra, altrimenti è lo stesso ordinamento che lo fa automaticamente decadere da una delle due cariche. Pertanto l’incompatibilità, a differenza della ineleggibilità, non impedisce la regolare elezione ad una carica: impone solo una scelta fra la nuova carica e quella già ricoperta. Così, ad esempio, la Costituzione stabilisce che sono incompatibili la carica di deputato e quella di senatore (art. 65).
L’incandidabilità costituisce, infine, il divieto posto a carico di determinati soggetti di presentare la propria candidatura per le elezioni al Parlamento italiano, al Parlamento europeo, all’assunzione e allo svolgimento di incarichi di Governo, nonché per le elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali. Questa riguarda coloro che siano stati condannati con sentenza passata in giudicato per alcuni gravi delitti (associazione mafiosa, traffico di stupefacenti o di armi, abuso di poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione etc.), coloro che siano stati condannati per uno stesso reato non colposo a pena non inferiore a due anni, o che siano stati sottoposti a misure definitive di prevenzione per reati di stampo mafioso. L’incandidabilità, al pari dell’ineleggibilità, comporta la nullità dell’elezione del soggetto non candidabile. Tale forma di garantismo tutela il candidato o l’eletto che svolga attività rappresentativa dei cittadini mettendolo al riparo dall’instaurazione di processi intentati al solo fine di impedirgli il corretto svolgimento delle attività di rappresentanza del popolo. Nei paesi di democrazia avanzata, però, un’eventuale azione penale a carico del candidato mette lo stesso nella condizione etica di dimettersi fino a quando la sua responsabilità non venga accertata.
Un’importante novità è stata l’introduzione del Testo Unico sull’incandidabilità (D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235) che ha riorganizzato in modo compiuto la materia ampliando le cause ostative alla candidabilità alle cariche politiche nazionali e sopranazionali. Se infatti in passato le cause di incandidabilità erano previste solo a livello locale, con il D.Lgs. 235/2012 è stata contemplata anche l’incandidabilità alle cariche di Deputato, Senatore e Membro del Parlamento Europeo, nonché le cause ostative all’assuzione e allo svolgimento di incarichi di Governo o Parlamento. 7.5 I sistemi elettorali Per sistemi elettorali si intende quel complesso di norme che regola e definisce l’assegnazione dei seggi ai fini della rappresentanza di un determinato corpo elettorale. In genere i sistemi si distinguono in «maggioritari» e in «non maggioritari»: nel primo caso si tiene conto esclusivamente della maggioranza dei votanti, nel secondo anche dei votanti riuniti in minoranza. In questo secondo caso il sistema più in uso è il sistema «proporzionale» che può essere puro, nel senso che vengono assegnati esclusivamente in proporzione alle percentuali di voto raggiunte dai singoli partiti o misto, nel senso che i seggi vengono ripartiti per una percentuale con sistema proporzionale e per la rimanente percentuale con sistema maggioritario.
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Parte Terza: Nozioni di diritto costituzionale
Capitolo 14 Organi della Provincia: struttura e competenze Sommario: 1. Gli organi della Provincia. - 2. Il Consiglio provinciale. - 3. La Giunta: caratteri generali e attività. - 4. Il Presidente della Provincia: natura e competenze.
1. Gli organi della Provincia Alla luce del novellato art. 117 Cost. è rimesso in via esclusiva alla legislazione statale il compito di disciplinare gli organi di governo della Provincia. L’art. 36, comma 2, del T.U. prevede quali organi di governo della Provincia: il Consiglio, la Giunta e il Presidente. Bisogna tuttavia tener presente che la cd. Manovra Monti, ovvero il D.L. 201/2011, conv. con modif. in L. 214/2011, perseguendo l’obiettivo della riduzione dei costi di funzionamento delle Province, ha ridisegnato il sistema degli organi provinciali, prevedendone soltanto due (art. 23, comma 15): il Consiglio e il Presidente che durano in carica 5 anni. Viene meno, dunque, la Giunta. Gli altri organi, invece, pur sopravvivendo, perdono la loro natura di organi eletti direttamente dal popolo (si veda infra). Tale disposto è stato poi espressamente confermato dallo stesso Governo nell’ambito del provvedimento sulla spending review, ovvero il D.L. 95/2012, conv. con modif. in L. 135/2012 (art. 17, comma 12). Ciò detto è anche da evidenziare che, la legge di stabilità 2013 (L. 228/2012) ha prorogato al 31 dicembre 2013 la data ultima entro la quale dovrà essere emanata la legge statale disciplinante le modalità di elezione dei nuovi organi provinciali, congelando di fatto per un altro anno (la scadenza originaria era il 31 dicembre 2012) l’avvio di questa riforma (anche sul punto v. infra). 2. Il Consiglio provinciale 2.1 Definizione e composizione Il Consiglio provinciale è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo della Provincia (art. 42, T.U.). Esso svolge le medesime competenze, relative agli atti fondamentali per la vita ed il funzionamento dell’ente, del Consiglio comunale ma in un ambito circoscrizionale più ampio: quello provinciale. Ai sensi dell’art. 37, comma 2 del T.U. la composizione del Consiglio provinciale è rapportata proporzionalmente alla popolazione residente. Pertanto il Consiglio è composto dal Presidente della Provincia e da: — — — —
45 36 30 24
membri membri membri membri
nelle nelle nelle nelle
Province con popolazione residente superiore a 1.400.000 abitanti; Province con popolazione residente superiore a 700.000 abitanti; Province con popolazione residente superiore a 300.000 abitanti; restanti Province.
In riferimento al numero dei consiglieri provinciali si ricordi che la L. 191/2009 (Finanziaria 2010), come modificata dal D.L. 2/2010, conv. con modif. in L. 42/2010, ne aveva disposto la riduzione del 20% come conseguenza della riduzione del contributo base spettante agli enti locali in base al D.Lgs. 504/1992 (sul punto si rinvia a quanto già detto nel §2.2 del Cap. 13). Capitolo 14: Organi della Provincia: struttura e competenze
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Su tale riduzione è poi intervenuto il D.L. 138/2011, conv. con modif. in L. 148/2011 che (all’art. 15, comma 5) prevede il dimezzamento del numero dei consiglieri provinciali a decorrere dal primo rinnovo degli organi di governo delle Province successivo alla data di entrata in vigore del decreto stesso. Quest’ulteriore riduzione, pertanto, doveva operare sul numero dei consiglieri previsto dalla legislazione vigente in detta data (ovvero sul numero dei consiglieri risultante dall’applicazione della L. 191/2009, art. 2, co. 184). Fermo restando quanto appena illustrato, bisogna infine aggiungere che il D.L. 201/2011, conv. con modif. in L. 214/2011, all’art. 23, comma 16, ha stabilito che il Consiglio provinciale è composto da non più di 10 componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia.
2.2 Funzionamento e durata in carica L’art. 38 del D.Lgs. 267/2000 detta una disciplina comune per quanto concerne il Consiglio comunale e quello provinciale. Pertanto, stando alle disposizioni del TUEL, analoghe sono le funzioni dell’organo consiliare sia a livello comunale che a livello provinciale, così come analoga è la durata in carica (5 anni), analoghe sono le cause che comportano lo scioglimento anticipato ed anche per il Consiglio provinciale vale il disposto secondo cui il funzionamento interno dello stesso è demandato ad un apposito regolamento. Le norme del TUEL riguardanti gli organi provinciali, tuttavia, necessitano di essere riviste alla luce delle novità recate dal D.L. 201/2011, conv. con modif. in L. 214/2011. La Manovra Monti, infatti, (all’art. 23, comma 16) ha introdotto una distinzione sostanziale tra il Consiglio provinciale e l’omologo organo comunale, consistente nel fatto che i consiglieri provinciali non sono più eletti direttamente dall’elettorato, ma sono eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalità di elezione devono essere stabilite con una legge dello Stato per la quale era prevista in origine la scadenza del 31 dicembre 2012. Attualmente, invece, stanti le modifiche recate al comma 16 dell’art. 23 in commento da parte della L. 228/2012 (legge di stabilità 2013) detta scadenza è stata prorogata al 31 dicembre 2013. In proposito, la stessa legge di stabilità aggiunge (art. 1, comma 115) che nei casi in cui in una data compresa tra il 5 novembre 2012 e il 31 dicembre 2013 si verifichino la scadenza naturale del mandato degli organi delle Province, oppure la scadenza dell’incarico di commissario straordinario, o in altri casi di cessazione anticipata del mandato degli organi provinciali, è nominato un commissario straordinario (ai sensi dell’art. 141 del TUEL) per la provvisoria gestione dell’ente fino al 31 dicembre 2013. 3. La Giunta: caratteri generali e attività Come abbiamo già avuto modo di accennare, il D.L. 201/2011, conv. con modif. in L. 214/2011 prevede quali organi delle Province esclusivamente il Consiglio e il Presidente. Le Giunte sono dunque destinate alla soppressione nel rispetto delle disposizioni dettate dalla Manovra Monti (per quanto riguarda i termini precisi per l’attuazione di detta riforma si veda quanto detto in precedenza nel §2.2). Riteniamo comunque opportuno, in questa sede, riportare la disciplina della Giunta provinciale prevista dal D.Lgs. 267/2000, in quanto trattasi di disposizioni non espressamente abrogate. Secondo l’impianto normativo del TUEL, la Giunta è l’organo esecutivo che, nell’ambito provinciale, svolge le medesime funzioni svolte all’interno del Comune dall’omologo organo comunale. Le norme che disciplinano le competenze della Giunta provinciale (ex art. 47 e 48 T.U.) sono pertanto le medesime che concernono la Giunta comunale. In riferimento specifico alla composizione, l’art. 47, comma 1, del T.U. prevede che la Giunta provinciale è composta dal Presidente, che la presiede, e da un numero di assessori, stabilito dallo Statuto, che non deve essere superiore ad un terzo, arrotondato aritmeticamente, 422
Parte Quarta: Nozioni di diritto amministrativo, ordinamento degli enti locali e pubblico impiego
del numero dei consiglieri provinciali, computando a tal fine il Presidente della Provincia, e comunque non superiore a dodici unità (numero così ridotto ex L. 244/2007). L’art. 47, comma 5, del T.U. dispone che, fino all’adozione delle nuove norme statutarie di cui al comma 1 dell’articolo citato, le Giunte provinciali sono composte da un numero di assessori stabilito nelle seguenti misure: — — — —
non non non non
superiore superiore superiore superiore
a a a a
6 per le Province a cui sono assegnati 24 consiglieri; 8 per le Province a cui sono assegnati 30 consiglieri; 10 per le Province a cui sono assegnati 36 consiglieri; 12 per le Province a cui sono assegnati 45 consiglieri.
Bisogna, però, ricordare che la L. 191/2009 (Finanziaria 2010), all’art. 2, comma 185, modificato dal D.L. 2/2010 (conv. con modif. in L. 42/2010), aveva stabilito che il numero degli assessori provinciali dovesse essere, presso ciascuna Provincia, in misura pari ad un quarto del numero dei consiglieri, computando anche il Presidente, con arrotondamento all’unità superiore. Si veda in proposito quanto detto nel Cap. 16, §6.2. Successivamente, ad opera del D.L. 138/2011, conv. con modif. in L. 148/2011, il suddetto numero era stato ulteriormente ridotto alla metà, con arrotondamento all’unità superiore, a decorrere dal primo rinnovo degli organi di governo delle Province successivo alla data di entrata in vigore dello stesso D.L. 138/2011.
Gli assessori provinciali (così come gli assessori presso i Comuni con più di 15.000 abitanti) possono essere nominati dal Presidente della Provincia, anche al di fuori dei componenti del Consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di compatibilità, candidabilità ed eleggibilità alla carica di consigliere. Il Presidente sceglie tra gli assessori un vicepresidente. Anche il rapporto tra il Presidente e i suoi assessori è di tipo fiduciario. Il Presidente, infatti, non ha limiti, fermo restando il rispetto delle ipotesi di ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità, nello scegliere gli assessori, proprio come il Sindaco, e analogamente ha il potere di revoca degli assessori; la revoca deve essere motivata e comunicata al Consiglio. 4. Il Presidente della Provincia: natura e competenze Il Presidente della Provincia ha un ruolo di preminenza tra gli organi della Provincia. Trattasi infatti dell’organo responsabile dell’amministrazione dell’ente le cui competenze sono indicate nell’art. 50 del T.U. che disciplina anche le competenze del Sindaco. Identica è, dunque, la posizione giuridica delle due figure di vertice dell’organizzazione di governo e, perciò, analoghe sono le competenze ad eccezione di quelle oggetto di previsione nei commi 4 e 7 dell’art. 50 del T.U. di stretta pertinenza sindacale e di quelle che il Sindaco esercita come ufficiale di Governo. Analogamente al Sindaco il Presidente della Provincia, entro il termine fissato dallo Statuto, sentita la Giunta, presenta al Consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato (art. 46, comma 3, T.U.). Tutto ciò premesso, è necessario infine aggiungere che a seguito dell’intervento del D.L. 201/2011, conv. con modif. in L. 214/2011, il quale ha gettato le basi per un nuovo assetto degli organi provinciali, le disposizioni del D.Lgs. 267/2000 riguardanti il Presidente della Provincia necessitano di essere reinterpretate. A seguito della Manovra Monti, infatti, il Presidente della Provincia sopravvive, assieme al Consiglio, quale organo di governo dell’ente, ma gli viene attribuita una diversa natura. Non è più un organo eletto direttamente dai cittadini (come prevede l’art. 46 del T.U.), ma è eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti secondo le modalità stabilite con legge statale da emanarsi entro il 31 dicembre 2013 (art. 23, comma 17). Per quanto concerne i tempi entro cui si dovrà procedere al rinnovo degli organi provinciali nel rispetto dei nuovi criteri imposti dalla suddetta Manovra Monti si rinvia al quanto detto nel §2.2. Capitolo 14: Organi della Provincia: struttura e competenze
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