Premesse di storia dell’arte contemporanea Cosa stiamo conservando e cosa stiamo irrimediabilmente perdendo nella nostra storia dell’arte recente? Vorrei partire da questa domanda che solo apparentemente può sembrare fuori luogo. Al contrario, credo, infatti, sia un quesito importante soprattutto perché non ci siamo mai trovati di fronte a una situazione simile a quella attuale in cui i problemi, che generalmente derivano dalla mancanza di fonti — questione che assilla molti dei nostri colleghi storici dell’arte che si occupano di periodi temporalmente distanti dal nostro —, sono piuttosto causati dalla sovrabbondanza di informazioni, così come di artisti, mostre, musei, gallerie, riviste, cataloghi. La nostra preoccupazione aumenta se ci fermiamo a pensare che alla profusione di materiali non corrisponde necessariamente una accresciuta autorevolezza dei dati a cui è possibile accedere. Allora cosa dobbiamo trattenere, approfondire, studiare, conservare? Certamente ci troviamo in una situazione caotica che, in Italia ancor più che in altri Paesi, difficilmente riusciamo a dirimere. Nella nostra Penisola, infatti, non abbiamo solidi riferimenti riguardanti quella stretta fascia (in termini temporali) dell'attualità culturale e artistica, perché da tempo siamo privi di istituzioni che se ne occupino. Potere e istituzioni È facile osservare che le informazioni (e la facilità di accesso ad esse) aumentano proporzionalmente con l’economia della mostra/opera/artista e con la centralità di potere dei luoghi in cui si espone. Certamente è possibile leggere quest’ultima condizione come una costante del nostro lavoro: da sempre è più facile trovare materiali di archivio, informazioni precise su luoghi, avvenimenti, artefici e artefatti che si trovano nei centri più importanti, mentre diventa spesso complicato raggiungere un certo grado di informazioni per opere, anche molto significative, ma realizzate lontano dalla Storia che quasi sempre coincide con i poteri economici e politici. Ma quale sono i poteri che si sono interessati all'arte nell'Italia di questi ultimi anni? Altra domanda a cui non è per nulla facile fornire una risposta. La più spontanea potrebbe essere che nessuno dei poteri forti si è mai occupato di arte perché, per usare un eufemismo, conta poco; almeno fino a quando non ne se ne intravedono dei benefici in termini di ritorno economico, tramite il turismo o i biglietti e il merchandising connesso alle mostre (o come modo di riciclare soldi, ma questa è un'altra storia). Ma è difficile fare i conti in questo campo e, soprattutto, i conti non sempre tornano, o almeno non tornano in tempi brevi, soprattutto se pensiamo in modo semplicistico che costruire un museo sia un investimento con un ritorno economico immediato. Certamente la
tentazione di riuscire a raggiungere i 5 milioni di visitatori annualmente ottenuti dalla Tate Modern di Londra, oppure dal Centre Pompidou a Parigi (esempio tanto fortunato da raddoppiare nella versione di Metz), così come l'impulso turistico ricevuto dalla Regione Basca con la realizzazione del Guggenheim progettato da Frank Gehry, sono un miraggio per ogni amministrazione. Ma questi esempi sono di difficile replicabilità non solo perché la situazione economica non favorisce tali investimenti, ma anche perché il senso delle istituzioni in Italia è prossimo allo zero. E tale ragionamento si può, purtroppo, estendere anche a musei o spazi espositivi molto più piccoli e con budget contenuti. In altre parole, per raggiungere dei risultati, anche in termini di biglietti emessi e di popolarità, è necessario credere nelle istituzioni: puntare a un gruppo di lavoro professionale che possa dedicarsi, con le proprie competenze e specificità, a un progetto qualificato. Insomma per progettare delle mostre è necessario scegliere persone che hanno studiato — e continuano a farlo — e affiancarle ad altre persone che hanno studiato — e continuano a farlo — e che siano in grado di costruire una collezione. Inoltre bisogna individuare esperti capaci di costruire una biblioteca specializzata, un archivio di documenti cartacei e uno multimediale... Accanto a loro un ufficio comunicazione... e una sezione commerciale... Insomma serve un gruppo di lavoro preparato. Un'istituzione in cui le persone chiamate a svolgere uno qualsiasi dei ruoli — dal direttore al bibliotecario, dal tecnico degli allestimenti al responsabile dei prestiti — siano selezionate per la loro professionalità. Osservando il panorama espositivo pubblico da questo punto di vista si fa davvero fatica a individuare l'esistenza di istituzioni in Italia. Ci sono musei e tanti spazi espositivi, ma le nomine sono ad esclusivo appannaggio della politica e tale procedura, soprattutto in Italia, non è certamente garanzia di professionalità. Non si può negare che ci siano anche validi professionisti all'interno dei musei, ma penso che si possa affermare con una certa sicurezza che non esistono (quasi) istituzioni. Non molto tempo fa ho sentito l'assessore alla cultura del comune di Milano, Massimiliano Finazzer Flory, affermare che non c'era bisogno di un direttore del Padiglione d'arte Contemporanea perché tanto la programmazione l'avrebbe fatta direttamente lui. Una dichiarazione significativa di quanto la politica tenga in conto della professionalità. Ma tanto, si potrebbe dire, si parla di gusti personali: a me piace il pesce a te la carne; a me piacciono Cattelan e Damien Hirst, a te Richter e Paladino. Insomma ci vuole tanto a scegliere degli artisti? Naturalmente il problema è che si vogliono organizzare eventi, non creare istituzioni che, tra l'altro, pretendono la loro autonomia. Quindi non si vuole costruire cultura, ma offrire al pubblico cose divertenti e popolari. Per tanto Regioni o Comuni non si contendono i validi professionisti, ma i Goldin bravi a vendere neve e impressionismo. E se non si debbono approfondire temi, o creare mostre al termine di uno studio serio e approfondito sull'argomento, ha ragione Finazzer Flory: la
programmazione del PAC la può fare lui, almeno si risparmia una lauta parcella per la consulenza. Però, per favore, non parliamo più di valori né, tanto meno, di meritocrazia. E rassegnamoci pure all'evidenza che, se la protervia della politica è sintetizzata in quella frase (così come la mancanza di una politica culturale seria), essa cela, anche, la mancanza di progettualità e di credibilità della classe intellettuale italiana. (Se poi qualcuno mi può spiegare perché la società civile dovrebbe sostituire i politici e i politici possono fare i direttori di museo gliene sarò grato). Lo spazio lasciato vuoto dalle istituzioni pubbliche in qualche caso è stato occupato dalle Fondazioni. Alcune con l'intento di sopperire ai vuoti nel settore divulgativo/educativo, come la Fondazione Ratti che organizza questo dibattito (oppure la Bevilacqua La Masa, Dena), altre con un obiettivo più mirato a valorizzare le proprie collezioni rendendole fruibili al pubblico (Nomas, Remotti, Giuliani), a volte proponendosi come veri e propri spazi espositivi permanenti (Sandretto Re Rebaudengo). Altre ancora con il fine di autopromuovere un marchio (Prada o Trussardi) attraverso mostre di straordinario profilo; e per finire ci sono anche fondazioni nate direttamente dagli sforzi di un singolo artista (Pistoletto, Merz, Pomodoro). Nonostante la situazione non sia sempre confortante, negli ultimi anni si è assistito a un progressivo aumento dell'attenzione da parte delle istituzioni nei riguardi dell'arte contemporanea. Nuovi musei e nuovo spazi espositivi sono stati aperti, anche se non sono sicuro che tale investimento di risorse e di energie corrisponda a un effettivo miglioramento dello stato delle cose. Indubitabilmente l'offerta espositiva è cresciuta e questo è senz'altro un dato incontrovertibile e positivo. Ma per cambiare veramente la situazione in Italia non dovremmo cambiare il modo di fare le cose e non soltanto farne di più? Curatori Una delle tante conseguenza che tale situazione ha comportato è la formazione di una generazione di curatori che raramente si sono confrontati con un lavoro serio e meticoloso sulle motivazioni e le esigenze sottese alla creazione di una mostra. La "normalità" nella pratica curatoriale consiste nel doversi arrangiare per diventare bravi nelle public relations, soprattutto nella capacità di tessere una rete di conoscenze nella sfera politica, e nella ricerca di sponsor, che spesso, nell'impossibilità di trovarne, si risolve nella formazione di un gruppo di interessi comuni con gallerie e/o collezionisti (che ovviamente perseguono i loro). È ovvio che in queste condizioni vige il convincimento che essere informati equivalga esattamente a essere preparati. Ma dar vita a un evento, mettendo insieme artisti più o meno presenti nelle riviste e nelle gallerie di tendenza, non è esattamente equivalente a condurre uno studio solo al termine del quale si può presentare un progetto espositivo. E se rivolgiamo lo sguardo ai nostri maestri — Bonito Oliva, Celant, Barilli,
ecc. —, che certamente hanno affrontato molto seriamente problemi storico critici, non possiamo non constatare che l'unico modo per avere successo è creare una propria scuderia di artisti (con annessi galleristi e sostenitori vari). E, guardando con un po' di distacco storico gli avvenimenti, non vi sembrano poco più che pretesti formali le motivazioni che inducevano tali critici ad ascrivere all'interno di un gruppo artisti così diversi tra loro come Alighiero Boetti e Luciano Fabro o Nicola De Maria e Francesco Clemente, o anche Salvo e Luciano Bartolini? Se ci soffermiamo ad analizzare l’impostazione curatoriale di Celant — che forse è stato il curatore italiano che è stato più presente nelle istituzioni internazionali — possiamo facilmente notare che ha escluso ogni artista che avesse scelto nello sviluppo del proprio lavoro aspetti narrativi, o che fosse legato ai media utilizzati, o i cui lavori fossero esplicitamente politici (nonostante, inizialmente parlasse di arte di guerriglia). Addirittura, sono stati estromessi tutti gli artisti esplicitamente realisti, e tali scelte hanno tarpato, per esempio, possibili sviluppi dell’arte Pop o serie riflessioni politiche del lavoro artistico. Quello che Celant aveva costruito era un gruppo solido, formato esclusivamente da uomini, con un linguaggio internazionale efficace di poetiche condivise, negli anni Sessanta, in gran parte dell’occidente. Una perfetta macchina per riuscire a costruire un'identità fittizia con un gruppo di bravi e bravissimi artisti che però forse non avevano bisogno (se non in termini di mercato o di autoaffermazione) che le loro opere fossero lette nell'ambito di quel "formato famiglia" che è stata l'Arte Povera. Formato che sembra non passare mai di moda in Italia. E quando si costruiscono le famiglie, inevitabilmente, non si costruiscono le generazioni successive in nome della professionalità, bensì del clientelismo anche quando si è perfettamente in buona fede nel puntare sulla qualità di un gruppo di artisti. Gallerie e mercato Allora come ha funziona il sistema italiano? Ci sono le gallerie che sono state per molti anni lo snodo più importante ed efficiente del sistema artistico italiano. Le gallerie ci hanno permesso di vedere le mostre degli artisti stranieri più importanti, hanno sostenuto gli artisti italiani, hanno dato da vivere a riviste d'arte (facendo pubblicità sulle loro pagine) e case editrici (stampando cataloghi). E naturalmente ci sono i collezionisti, che hanno continuato a credere nell'arte e negli artisti (oltre che nei galleristi che li rappresentavano), forse vero motore di tutto il sistema di cui facciamo parte. Ci sono buone gallerie e pessime gallerie, ma si deve riconoscere che, nonostante l'inefficenza e la latitanza pubblica, questo segmento del sistema ha lavorato abbastanza bene, fermo restando che non sono le gallerie private a poter assolvere ai compiti che spettano alle istituzioni. Sicuramente le gallerie hanno svolto la loro parte stabilendo, secondo il proprio punto di vista, gerarchie e valori, e poco importa se sempre non coincidono con le mie valutazioni.
Essere supportati dal mercato e dal sistema dell’arte non può essere considerato come un segno assoluto e incontrovertibile di qualità del lavoro, ma, tuttavia, non bisogna rifiutarsi di interessarsi al mainstream adducendo come scusa l'asservimento dell'opera al mercato, come è stato a volte sostenuto (soprattutto nei fatti) nella nostre università. Oltretutto, spostato in chiave storica, tale atteggiamento equivarrebbe a sostenere che è importante e utile occuparsi soltanto dei fenomeni artistici lontani dalle grandi committenze. Più laicamente potremmo affermare che l’interesse da parte del mercato e delle istituzioni museali (che spesso sostengono e fiancheggiano il sistema economico che supporta anche loro) vada considerato un dato. Un dato significativo perché nessuno tra i professionisti dell’arte contemporanea vuole mettere a repentaglio la propria reputazione con scelte che non corrispondono a un criterio di qualità. Allo stesso tempo, solo pochi tra i curatori sono disposti a uscire dal coro per sostenere posizioni poco funzionali e non condivise dal sistema stesso (anche perché chi finanzierebbe le mostre e il proprio lavoro?) che necessita di merce non di idee, di oggetti e non di posizioni critiche. Anche se, l'esperienza recente lo dimostra, tutto — performance, azioni politiche, relazioni intersoggettive — può diventare oggetto e merce. I problemi nascono quando il sistema è monodimensionale. A quel punto l'arte che viene supportata diventa conformista anche se utilizza la novità e la trasgressione come armi a propria disposizione. È pur vero che in teoria, il sistema stesso potrebbe smentire la mia affermazione proponendo artisti e opere che per loro natura sono anticonformisti e poco disposti ad andare incontro all'esigenza del mercato di produrre valori (relativamente) duraturi. Ed è vero anche che spesso le stesse gallerie si disputano l’artista più provocatorio perché incarna il condiviso clichè che dell’artista anticonformista, innovativo, trasgressivo (o quanto meno ironico). Difficile quindi sposare in toto uno dei due estremi, ma, entrando più nel dettaglio del “caso Italia” e delle sue anomalie, non si può non sottolineare come la mancanza quasi totale di un’articolazione del sistema — che si appiattisce sul lavoro (spesso mirabile) fatto dalle gallerie italiane — ci obblighi a una riflessione su quanto sia diventata condizionante la monodimensionalità del sistema. In varie occasioni è risultato evidente che alcune sperimentazioni, legate alla performance o alla realizzazione di installazioni deperibili, sono state trascurate dal sistema di gallerie che intendeva proporre ai propri collezionisti opere oggettuali oppure ricorrere esclusivamente al più tradizionalmente media pittorico. E i diversi e ricorrenti ritorni alla pittura che hanno attraversato il corso del Novecento ne sono una chiara prova. Fernando De Filippi, ad esempio, sostiene di aver smesso di fare performance e di aver integralmente e esclusivamente abbracciato la pittura soprattutto per mancanza di committenza e di concrete possibilità di sostenersi economicamente con un lavoro effimero e politico quale era il suo prima dell'addomesticamento del mercato. Le affermazioni di un artista come lui, che ha lungamente ricoperto posizione centrali nel nostro
sistema dell’arte (per esempio come direttore dell’accademia di Brera), anche se possono sembrare un'ottima e intelligente attenuante per i suoi cedimenti al mercato, ci fanno riflettere sulle carenze di fondo di un sistema completamente abbandonato a se stesso. Si può dedurre dalle sue parole quanto fosse condizionante la pressione dell'economia non soltanto nella richiesta da parte di gallerie e collezionisti di un particolare tipo di opere — quadri che potessero essere facilmente immessi nel flusso economico, possibilmente figurativi e decorativi — ma anche nell’imporre, in modo più o meno evidente, scelte tematiche e perfino tecniche. Università e accademie Anche il sistema educativo e di ricerca ha le sue responsabilità. È, infatti, difficile pensare che un sistema sia sano se gli spazi del dibattito intellettuale sul contemporaneo hanno, nella maggior parte dei casi, abdicato al proprio ruolo. È raro che le università si siano occupate di ciò che è successo nel mondo delle mostre dagli anni Sessanta, Settanta in poi. Chi si occupa di quanto è accaduto successivamente a quelle date è spesso considerato con sospetto e ridotto al ruolo di critico militante e non di storico dell'arte. Ovviamente ci sono alcune buone ragioni per sostenere tale posizione, ma bisogna essere consapevoli che rinunciando a quel ruolo le pubblicazioni che sono state editate negli ultimi anni sono state quasi esclusivamente cataloghi, commissionati da musei o da gallerie private, che hanno avuto (nella stragrande maggioranza dei casi) il compito di sottolineare l'importanza degli artisti che si volevano sostenere o di celebrare la qualità delle mostre che si intendeva promuovere senza che venga istillato alcun dubbio o si insinuino posizioni critiche. Negli ultimi anni qualcosa, faticosamente, sta cambiando. Sono stati pubblicati alcuni volumi che, con risultati altalenanti, cercano di affrontare il caos in cui ci troviamo immersi. A questo punto proviamo a porci una semplice domanda: quali libri sulla contemporaneità italiana suggerireste di tradurre e pubblicare a un editore straniero? Ci sono alcuni saggi su singoli artisti di un buon livello critico-teorico, ma sono davvero scarse le letture di situazioni più complesse, anche perché la possibilità di stampare un libro rimane quasi sempre legata a un evento espositivo. A ulteriore conferma di ciò è sufficiente ricordare il numero di October, prestigiosissima rivista dell’MIT, che vede tra le sue firme Rosalind Krauss, Hal Foster, o Benjamin Buchloh (vincitore del leone d’oro per la critica a Venezia) n.124 del 2008, dedicato interamente all’arte in Italia nel dopoguerra, in cui non è stato invitato nessun critico italiano per la stesura dei testi. Forse tale scelta denuncia anche residui di colonialismo misti all'incredulità che coglie ogni studioso straniero quando si trova a contatto con la situazione istituzionale italiana — provate a spiegare a uno straniero le affermazioni di Finazzer Flory... — ma, tutto sommato, tali esclusioni, per quanto per noi dolorose, sono giustificabili.
Se poi rivolgiamo lo sguardo alle Accademie il giudizio si fa ancora più impietoso. Il livello dell'insegnamento (con alcune lodevoli eccezioni) è penosamente basso. Il sistema di reclutamento oscuro e antimeritocratico. Le accademie, pertanto, sono affollate da insegnanti/artisti che riversano le frustrazioni del proprio mancato riconoscimento su studenti che rimarranno ignari di processi e ricerche attuali (almeno finché non decidono di cercare possibili fonti alternative da soli) e che verranno indotti a rifugiarsi nel mito romantico dell'artista incompreso. Non è del resto tanto meglio imbattersi in professionisti che cercano di formare artisti manager, pronti a combattere nelle maglie del mercato per raggiungere il loro posto al sole, senza fornire loro gli strumenti per interrogarsi sulle posizione che vogliono assumere, sui tei di cui vogliono occuparsi con le loro ricerche, senza, insomma stimolare una sana riflessione teorica sul ruolo di artista. profit e no-profit Un altro tassello di un sistema sano è costituito dagli spazi autonomi di progettazione. Siano essi artists run space, associazione culturali, project room, o, come si è usi scrivere, spazi no profit. Questo genere di luoghi costituisce una rete di conoscenze e di sperimentazione molto utile alla crescita sia quantitativa sia qualitativa di un sistema. A parte il pionieristico lavoro fatto a Milano da Careof e Viafarini (che da qualche anno hanno unito gli sforzi oltre che i loro preziosi archivi) e, in parte, dalla galleria Neon di Bologna (che ha sempre agito da associazione culturale più che da galleria), non abbiamo avuto in Italia una grande tradizione di spazi no profit, ma — la nostra discussione non è che una conseguenza di ciò — negli ultimi anni sono proprio loro la vera risorsa inaspettata di quel sistema monodimensionale i cui limiti lamentavo prima. Non cercherò di entrare nelle questioni specifiche del reperimento delle risorse (se ne sta occupando con grande professionalità Marina Sorbello), e mi limiterò a sollecitare delle riflessioni da parte dei nostri interlocutori Emanuela De Cecco e Stefano Chiodi entrambi alle prese con l'insegnamento in università e con la scrittura critica. Insomma le lamentazioni, che giustamente caratterizzano e monopolizzano ogni incontro sulla situazione italiana, le ho anticipate già io (anche se mi sono limitato a elencarle senza pretesa di esaustività), e l'intento di questa giornata è capire come proprio dalla bizzarra e anarchica conformazione del sistema Italia siano emerse sacche di resistenza e di sperimentazione e come tali esperienze possono diventare le basi su cui imbastire i nostri ragionamenti. Il sistema non profit (e non solo) è stato, quindi, messo al centro del nostro dibattito per capire come i difetti si possano trasformare, se non in pregi, almeno (parzialmente) in spunti di riflessione e ipotesi per un miglioramento della situazione.
Una serie di domande per iniziare il dibattito Le istituzioni, da me tanto invocate, sono anche un sistema coercitivo di condizionamento dei processi artistici. Quali spazi di ricerca, che in situazioni più strutturate non esistono, sono rimasti aperti o sono nati proprio a causa delle deficienze italiane? Che ruolo possono avere gli spazi non profit nel creare le premesse per un sistema maggiormente indipendente rispetto al mercato e alla mercificazione che viene richiesta all'artista? Che aspettativa di vita hanno tali esperienze? Sono solo il risultato di esigenze contingenti o si può ipotizzare la crescita o la stabile presenza di tale modello? C'è una specificità delle esperienze legate alla programmazione, alle modalità espositive e progettuali promosse da queste realtà o hanno solo cercato di supplire alle carenze del sistema? Ci sono artisti, esperienze, modalità di approccio all'arte che potrebbero nascere e svilupparsi proprio grazie a tali condizioni? La struttura complessa e contraddittoria dello sviluppo degli spazi non profit può essere rappresentativo di un sistema, per dirla con le parole di Bauman, liquido? E in questo caso corrisponde anche un'evoluzione auspicabile, più feconda di sviluppi che possiamo convenire come positivi?