Atti del convegno “Quale organizzazione per quale assistenza”: pratiche agite, pratiche possibili – Torino 13 dicembre 2010 – 1° parte
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ORGANIZZAZIONE SENZA BARRIERE: porte da aprire o percorsi da costruire? Lucia Centillo: Benvenuti a questa sessione. Parlare di barriere, non solo architettoniche, richiede un notevole sforzo, anche di tipo culturale, nell’affrontare diversamente ciò che spesso viene invece subito. Abbiamo un sistema sanitario riconosciuto fra i primi al mondo rispetto alla capacità di trasformare le risorse impegnate in efficacia delle cure. Al contempo, è uno dei sistemi in cui si evidenzia la maggior criticità nell’accessibilità al sistema stesso. Parlerei quindi di organizzazione senza barriere – come
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Rivendicare i diritti vuol dire contrattare in concreto gli spazi della propria libertà. Essere liberi significa essere messi nella condizione di realizzare al meglio le proprie capacità, di dispiegare ciò per cui si è predisposti” (Salvatore Natoli, 2010)
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recita il titolo: “Organizzazione senza barriere: porte da aprire o percorsi da costruire?” – considerandole non soltanto in termini fisici. Il punto nodale sta nel superamento di tutte le barriere: fisiche, culturali, di linguaggio. Il nostro sistema si basa sul principio dell’uguaglianza, fortemente sottolineato dall’art. 3 della Costituzione, non sempre esigibile alla prova dei fatti. Per noi infermieri prendersi cura è connesso al concetto di procedura accessibile orientata all’altro. Dunque, centralità della persona prima ancora della centralità del paziente. Questo deve condurci a mediare tra quello che è il management organizzativo e la presa in carico del paziente. È pertanto fondamentale orientare il servizio – l’organizzazione del servizio e le strutture – ad una presa in carico globale della persona con i suoi bisogni e le sue limitazioni: è implicito nel processo nursing il soddisfacimento dei bisogni e la capacità di intervenire a sostegno di quelli che sono i limiti della persona. Pertanto è necessario agire per progettazione – porte da aprire e/o percorsi da costruire – e la progettazione non la possiamo considerare estranea alla ricerca. Dobbiamo rinforzare il modello della ricerca anche in funzione di un’organizzazione senza barriere, di un modello centrato sulla persona. Spesso ci riferiamo al cittadino che accede al servizio, ma esistono anche delle colleghe e dei colleghi che possono avere gli stessi problemi del cittadino. Quando ho iniziato a lavorare, dopo 19 anni, sei mesi e un giorno si poteva andare in pensione. Oggi non è più così. Nella nostra legislazione il lavoro dell’infermiere non è un lavoro usurante, ma spesso dobbiamo fare i conti anche con situazioni legate alle idoneità condizionate. E non sono sempre questioni legate al mal di schiena o alla difficoltà di sollevare pesi. Possono esserci situazioni ben più gravi. Non vogliamo pensare che possano essere escluse dal mercato del lavoro – dalla piena produttività rispetto alla potenzialità che ciascun individuo possiede, anche dal punto di vista professionale – delle persone a causa dei limiti legati al funzionamento della struttura. La città di Torino, quando in Torino si apre un bar, un ristorante, un servizio pubblico, verifica la
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presenza dei servizi igienici per portatori di handicap nonché l’accessibilità. Siamo certi che nella pubblica amministrazione, nei nostri servizi, si faccia lo stesso? Quando abbiamo di fronte un cittadino che fa fatica a capire il nostro linguaggio, ci siamo mai domandati se la sua difficoltà di comprensione è un percorso da costruire o una porta da aprire? Pensiamo agli stranieri, alle persone che hanno difficoltà a comprendere il linguaggio medico, a quei cittadini che, dal punto di vista culturale, hanno delle barriere da superare. Questo ragionamento affonda le proprie radici anche da un punto di vista deontologico: i limiti di una persona nell’accedere al servizio rappresentano un dovere deontologico. Esaminando il core business professionale, possiamo identificare la tutela della sicurezza e la continuità assistenziale elementi fondamentali. Dobbiamo quindi rilevare i problemi, stabilire le professionalità da coinvolgere, indirizzare l’assistito, verificare l’efficacia delle soluzioni. Questi quattro aspetti – determinanti ai fini del processo nursing – sono applicabili anche al tema dell’organizzazione senza barriere. Il fine ultimo è rappresentato dal bene della persona, applicando il principio della beneficialità, ossia la persona col suo vissuto, il malato con la sua malattia, attraverso un modello che si sviluppa per autonomia relativa. Noi siamo in grado, attraverso il principio della beneficialità, di identificare ciò che facciamo in quanto utile, in quanto produce il massimo del beneficio. Focalizzando il nostro ragionamento sulla continuità assistenziale, quando prendiamo in carico una persona il nostro percorso, ad un certo punto, si ferma nel congedo – la dimissione piuttosto che l’accompagnamento alla morte – o nella continuità assistenziale. In quest’ultimo caso sappiamo che la persona che assistiamo può entrare ed uscire da un percorso dove noi infermieri siamo un nodo della rete. In questo caso la continuità assistenziale – differente a seconda della specialistica o delle condizioni che andiamo ad affrontare – ha una sorta di core per quanto riguarda l’omogeneità delle caratteristiche a livello di tutte le specialistiche. Proviamo a leggerle in funzione di quello che è l’argomento odierno, intimamente connesso all’aspetto
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dell’efficienza e, conseguentemente, al risparmio delle risorse. Questa mattina veniva portato l’esempio della radiografia fatta al letto del paziente. Ebbene, in Piemonte, grazie allo stimolo professionale di alcuni colleghi – tecnici di laboratorio e un Capo Sala della radiologia delle Molinette – si è realizzato un progetto di radiologia a domicilio in quanto la difficoltà di deambulazione può essere limitata nel tempo, ma anche legata, non di rado, al problema della non autosufficienza. Un primo aspetto della nostra tematica può essere quindi identificato nel risparmio di risorse e nell’efficienza. Il secondo aspetto riguarda il miglioramento della qualità, pertanto dell’efficacia, sia in termini fisici che comunicativi. Altro aspetto fondamentale che possiamo rilevare nel core business della continuità assistenziale è quello del modello di lavoro interprofessionale e di rete. Mi riferisco al coinvolgimento della persona e del suo caregiver. Un limite, a mio avviso, sta nel concepire, soprattutto nella non autosufficienza grave, il familiare quale caregiver prevalente. Credo che, attraverso un case manager, il caregiver dovrebbe essere sollevato da alcuni oneri. Spesso le infermiere fanno da ‘interfaccia’ con la moglie anziana di un paziente gravemente malato. È necessario mettere in campo delle azioni di sostegno anche nei confronti del caregiver che può ammalarsi e talvolta morire, a causa della fatica, prima del suo assistito. Questo riguarda soprattutto le donne, le quali, in alcuni casi, lasciano il lavoro per assistere familiari gravemente ammalati. Inoltre ritengo che si debba investire strategicamente nel miglioramento delle condizioni culturali dell’organizzazione attraverso strumenti informativi adeguati, riducendo la burocrazia ed il contenzioso – malasanità vera o presunta – che non di rado ci pone nella condizione di dover recuperare il rapporto col paziente. Dobbiamo invece rassicurare le persone, lavorando per il superamento dei problemi di comunicazione, per l’adeguamento del linguaggio nei confronti di chi abbiamo di fronte. Dobbiamo inoltre uscire dagli schemi. Gli schemi – il concetto di cura e di dimissione – cambiano rispetto a un tempo, possono essere rimessi in discussione attraverso un
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approccio sistematico ai bisogni, correlato anche al superamento delle barriere e all’individuazione di anelli di congiunzione, ovverosia di quei meccanismi che tengono insieme bisogni diversi con potenzialità diverse: l’ospedale, il territorio, i medici di Medicina Generale, ecc. Rispetto ai limiti dei pazienti, è possibile mettere in campo una serie di energie legate alla rete, coinvolgendo i gruppi di interesse delle comunità locali. Mi riferisco al lavoro dei piani di zona, ai PePS, che in Piemonte sono stati realizzati su consiglio dell’OMS. Rispetto a tutto ciò, noi infermieri dovremmo essere attori protagonisti. La sessione plenaria di apertura dei lavori ha evidenziato il bisogno di una maggiore umanizzazione dei servizi e di un maggiore orientamento alle persone al fine di rispondere ai bisogni di una società che invecchia, caratterizzata da cronicità, fragilità e diffusa povertà. Una società che ci chiede di agire sull’accesso, a tutti i livelli, sulla presa in carico e quindi sulla continuità assistenziale, sulla capacità di creare, individuare e costruire prestazioni, presidi ed ausili, nonché percorsi che consentano al cittadino di affrancarsi dai livelli di povertà, dagli handicap e dalla fragilità. Si richiedono quindi delle azioni di supporto da indirizzare – questa è la mia opinione – in alcuni settori come quello dei minori, dell’area della disabilità, della non autosufficienza, degli adulti in difficoltà, attraverso percorsi di integrazione socio‐sanitaria e politiche pubbliche oltre che competenze di tipo professionale che abbiano ben chiaro questo tipo di accordo al fine di utilizzare i servizi quale punto di riferimento. Nei servizi noi infermieri abbiamo un ruolo strategico e in essi possiamo incidere, tutti insieme, su quella che è la continuità assistenziale attraverso percorsi veri, utilizzando il Technology Assessment. Questo ci consentirà di raggiungere tutti. Ma per far ciò è necessario variare alcuni aspetti legati alle nostre conoscenze, competenze e modelli organizzativi. Dobbiamo inoltre considerare che grazie alla crisi economica aumentano i bisogni e diminuiscono le risorse. Noi possiamo e dobbiamo incidere sulle fragilità, producendo salute e non soltanto consumando assistenza. Quando interveniamo, anche nel campo dell’organizzazione senza
barriere, produciamo salute rendendo autonome le persone, facendo in modo che la persona in carrozzina, quella non in grado di accedere alla nostra lingua con facilità, ecc., rappresentino un indicatore di base atto a facilitare l’aiuto e l’accessibilità di tutti. Una donna che ha un bambino in carrozzina è una donna che ha difficoltà a muoversi, quasi come chi ha problemi nella deambulazione. Per noi infermieri questi sono indicatori da tener presente per poter migliorare l’assistenza nel suo insieme. Su questi aspetti nei piani sanitari vi sono degli interessanti riferimenti. Invito anche a far riferimento alla Convenzione ONU relativamente alle persone con disabilità, ratificata dal Parlamento italiano. Ha quindi valore nel nostro Paese. Non riguarda soltanto l’handicap di tipo motorio, bensì tutti i tipi di handicap. Dovremmo conoscerla così da applicare, responsabilmente, i principi previsti dalla stessa Convenzione. Eviteremmo di riempire i cassetti di carte e documenti, facendo le battaglie sulle virgole. Battaglie che non producono effetti positivi. Dopo questo cappello introduttivo fatto di stimoli che mi auguro possano essere ripresi, presento la prima relatrice. Per ragioni di salute non sarà presente Mara Pellizari di Udine. Il tema della sua relazione era: “L’organizzazione dell’assistenza in ambito domiciliare: modelli applicati e risultati”. Cercheremo di compensare la sua assenza attraverso gli altri interventi, incluso quello del pubblico in sala. Ci parleranno Marianne Bengtsson Agostino (esperienze organizzative in Svezia), Tiziana Lavalle di Piacenza (esperienze di organizzazione infermieristica tra ospedale e territorio) e Francisca Anaya, spagnola (esperienze organizzative in Spagna). La parola a Marianne Bengtsson Agostino: “Assistenza infermieristica e ambiente di vita: esperienze organizzative in Svezia”. Grazie.
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Assistenza infermieristica e ambienti di vita: esperienze organizzative in Svezia Marianne Bengtsson Agostino: Buongiorno. Ringrazio gli organizzatori per avermi invitata a partecipare a questo bellissimo Convegno dal titolo “Organizzazione senza barriere: porte da aprire o percorsi da costruire?”. Il mio intervento riguarda soprattutto la medicina preventiva pediatrica. Vi ho lavorato nel passato e recentemente ho collaborato a pianificare un corso di aggiornamento per infermieri responsabili della pediatria preventiva a Stoccolma. Gli argomenti della mia relazione sono così sintetizzati: • notizie introduttive sulla Svezia; • leadership e formazione; • la pediatria preventiva – un modello infermieristico; • nuove esigenze – apprendimento continuo – apertura – cambiamento. La Svezia è un paese scarsamente popolato su un territorio vasto (ca 450.000 km2). Oltre il 10% della popolazione non ha origini svedesi. Nel 2000 il numero dei medici era in totale 28.000, di cui pediatri 1.230. Oggi i medici sono 30.000 e gli infermieri 140.000, mentre in Italia abbiamo all’incirca 350.000 medici e 350.000 infermieri. Questa è una realtà che incide sensibilmente sull’organizzazione e sul cambiamento.
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La pediatria preventiva – un modello infermieristico. È un modello dove l’infermiere pediatra svolge un ruolo essenziale, promuove la salute dei bambini da zero a sei anni, informa, controlla e educa, fa ricerca o piccole indagini per risponder ai bisogni in continuo sviluppo. Il servizio è rivolto a tutte le famiglie. In Svezia l’età media dei genitori alla nascita del primo figlio è simile ai genitori italiani, intorno ai trent’anni, sia per la madre sia per il padre. Le condizioni economiche di un genitore dopo il parto sono piuttosto favorevoli: è previsto un lungo periodo di maternità pagata. Sempre un numero maggiore di padri si lascia coinvolgere e hanno più tempo per dedicare ai propri figli. La sviluppo della salute dell’infanzia è contraddistinta da una lunghissima esperienza. I primi centri per la salute del bambino aprivano nel 1940. All’inizio del XX secolo anche qui la mortalità infantile era alta. Per questo nacque l’idea della “Goccia di latte”, una organizzazione di volontariato che presto fu sostituita da i primi centri di salute. In Svezia l’infermiere pediatra promuove la crescita sana di tutti i bambini svedesi. Egli gestisce il proprio lavoro di ambulatorio e di visite a domicilio, riceve la famiglia per appuntamento e/o all’ambulatorio giornaliero, pianifica il lavoro con il coordinatore di area. Sono presenti oltre 700 consultori – chiamati “centrali” – ed ogni famiglia ha una figura professionale di appartenenza. Dopo la nascita di un bambino al momento della dimissione, l’ospedale trasmette una comunicazione della nascita all’infermiere della centrale. L’infermiere pianifica le visite mediche seguendo un protocollo nazionale. In genere le visite mediche sono fatte un giorno la settimana. Il 99% di tutti i bambini sono seguiti e controllati nel primo anno di vita, e dai 2 ai 6 anni, la percentuale è di almeno l’80%. I protocolli sono standardizzati e elaborato a livello statale e regionale. Il programma nazionale di protocollo prevede:
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test udito (98% prima degli 11 mesi); valutazione dello sviluppo (18 mesi, prima di 2 anni); test del linguaggio (2‐5 anni, 98% prima dei 3‐5 anni); test oculistico (4 anni, 98% prima dei 5 anni); test uditivo (4 anni, 98% prima dei 5 anni): test del linguaggio (4 anni, 98% prima dei 5 anni).
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un risultato parziale raggiunto è quello della prevenzione delle carie. Il bambino è sottoposto a visita dentistica entro il primo anno di età. Inoltre, il dentista consiglia i genitori in modo semplice ed efficace, p.es. di iniziare prestissimo a lavarsi i denti e limitare i momenti in cui si mangiano i dolci (una volta la settimana). Un altro ambito di prevenzione importante riguarda gli incidenti infantili. Non solo si sono abbassati i morti per incidente, (nel 1950 i morirono 400 bambini per incidente, nel 1990, 80), ma è cresciuta e si è diffusa una consapevolezza nella famiglia e nella società di vegliare ed essere più presenti per evitare l’incidente fatale. Le risorse impegnate per raggiungere questi risultati sono tante e durano da molto tempo. Naturalmente in previsione del futuro si maturano nuove esigenze. La ricerca è una di queste. Recentemente si è presentato una tesi di Dottorato dal titolo: Cultural competence in primary child health care services – interaction between primary child health care nurses, parents of foreign origin and their children, Anita Berlin, Karolinska Institutet, 2010. Gli infermieri, soprattutto quelli che da anni svolgono questo lavoro – avendo consolidato una propria certezza di conoscenze e comportamenti – sono in qualche modo preoccupati, e sembrano essere più insicuri nel loro rapporto con le famiglie straniere. Questo è sicuramente dovuto a una carenza formativa e perché non riescono a stabilire un rapporto utile necessaria p.es. per dare consigli dietetici o per quanto riguarda comportamenti educativi, spesso in forte contrasto con la tradizione scandinava. Un ambito relativamente nuovo (già elencato prima) riguarda l’identificazione precoce dell’ipoacusia grave. In tutti i centri nascita, il test uditivo è oggi di routine, è utile comunque ripetere il test anche nel centro di salute, qualora l’ipoacusia si manifestasse dopo la nascita. I dati italiani della sordità sono: • 1 – 2 nati ogni 1000 (sordi prelinguali); • 5 – 10 nati ogni 100 provenienti dalla terapia intensiva neonatale;
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LLo screeening uditivo o n neonatale e è orm mai uno o s standard universale nei occidenttali. In p paesi n q questo m momento o in Italiaa s si fa lo sc creening a circa il 6 60% dei bambinii nati. Laa s scoperta precocce dellaa s sordità èè necesssaria perr intervenire pre esto ed d e evitare cche il bambino o rimanga per tro oppo teempo seenza stim moli uditivi. E’ oggi esiste unaa soluzione straord dinaria: l’impiantto cocleaare o l’o orecchio bionico! Si sentee con il ceervello, l’orecchio o trasmettte il suo ono e la plasticitàà del cervello perr l’apprendimento o della lin ngua si riiduce no otevolmeente dopo o il terzo o anno di vita. Gli appaarecchi acustici (in atteesa di una u diagnosi acccurata ed e di un n probabile intervvento peer l’impianto co ocleare) devono essere applicati entro i p primi tre mesi di vvita. Lo schem ma sinteetizza qu uello chee è un co omplesso o interveento chirurgico di microchirurgia della d durrata di 3‐4 3 ore. Per approfondiree l’argom mento vi invito a visitaree il sito www.parloio.ne et. L’asso ociazionee Parlo io ha il compito sopratttutto di diffondeere le co onoscenzze positiive dell’impianto o coclearee.
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• 7.0 000/8.000 0 bambini ogni anno a che e richied dono sosstegno scolastico o causa so ordità; • nell 45‐50% % le causee sono geenetiche;; • nell 30% son no legatee ad infezzioni, inttossicazio oni, soffeerenza fe etale; • nell 25% non si è in ggrado di riconosccere causse certe.
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Come sempre nella medicina preventiva è fondamentale, imparare, diffondere e imparare ancora! Questo concetto è applicabile a tutti i processi di cambiamento. I seminari, gli incontri formativi hanno questa finalità: allargare la conoscenza attraverso le persone. I percorsi efficaci passano per nuovi passaggi. Vi ringrazio per l’attenzione. Lucia Centillo: Ringrazio Marianne Bengtsson Agostino per averci portato un’esperienza utile che ha evidenziato l’assoluta importanza della prevenzione, già in età neonatale. Marianne Bengtsson Agostino è professore a contratto all’Università Campus Biomedico di Roma e all’Università Tor Vergata, sempre a Roma. Dal 1998 al 2005 è stata Senior Lecturer (professore associato) alla The Swedish Red Cross University College of Nursing. È membro del comitato editoriale International Nursing Perspectives al Campus Bio‐Medico, SEU editore, Roma. La sua esperienza ci permette di valutare le prevenzione a 360°. In Italia gli incidenti domestici dei bambini sono più elevati rispetto alla Svezia. La nostra consapevolezza di intervento è sicuramente limitata. Stiamo cominciando adesso ad occuparci del problema, altro che negli anni ’50! Desidero sottolineare un aspetto di genere: in Svezia gli uomini chiedono le quote azzurre, anche in Parlamento, a differenza dell’Italia dove siamo costretti a chiedere le quote rosa in quanto la partecipazione femminile è osteggiata. Lo è anche dal punto di vista professionale: generalmente le donne vengono relegate a livelli meno rilevanti della scala professionale nonché verso determinati ambiti. Questa è la relegazione verticale. Ci sono anche forme di relegazione orizzontale legate a settori specifici: il nostro è uno di quelli, dove sono maggiormente presenti le donne. È una barriera da superare. Dal punto di vista dell’occupazione femminile, in Svezia nascono più bambini. Pensiamo alle nostre realtà di reparto: spesso, quando una collega è in gravidanza, ci viene male. E quando rientra dalla maternità, ci
viene nuovamente male. Ritengo si debbano sviluppare, all’interno dei nostri servizi, delle politiche attive, indirizzate anche all’utilizzo dei congedi parentali per gli uomini. Per il futuro credo che dovremmo procedere in tal senso, sviluppando ricerche e iniziative che vadano al di là della semplice richiesta dell’asilo nido aziendale. Passo la parola a Tiziana Lavalle di Piacenza che ci parlerà di: “Reti di servizio, reti di professionisti: esperienze di organizzazione infermieristica tra ospedale e territorio”. Tiziana Lavalle è direttore dell’Unità Operativa della gestione territoriale della non autosufficienza all’AUSL di Piacenza, consulente organizzativo per l’Ospedale Privato San Giacomo, professore a contratto dell’Università degli Studi Parma, Genova, Pescara‐Chieti, Bologna. Direttore della rivista scientifica NEU di Piacenza, Dottoranda di ricerca di sanità pubblica.
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Tiziana Lavalle: Buongiorno. In questa mia relazione parlerò di reti professionali e di reti di servizio. La prima rete conosciuta dall’uomo è la rete del villaggio neolitico, il che significa che abbiamo qualche esperienza alle spalle su cui riflettere. Quali erano le caratteristiche della rete – di servizi, se la vogliamo leggere in maniera organizzativa – del villaggio neolitico? Chi procacciava il cibo lo faceva radunando gli uomini forti delle famiglie facenti parte del villaggio. Questi si occupavano di passare la cacciagione alle donne. C’erano anche delle persone deputate a seguire i
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Reti di servizio, reti di professionisti: esperienze di organizzazione infermieristica tra ospedale e territorio
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bambini ed altre che si occupavano del ménage quotidiano, definiamolo così, del villaggio. La rete dei cacciatori era costituita dall’insieme delle persone che avevano l’obiettivo comune di procacciare il cibo per il villaggio, non unicamente per se stessi. Nel villaggio neolitico l’armonizzazione tra gli interessi individuali e gli interessi collettivi era stata raggiunta in modo empirico, sicuramente efficace e meno complicato rispetto alle nostre organizzazioni quotidiane. Forse occorrerebbe recuperare la memoria storica di questo tempo ancestrale. Per costruire una rete il primo elemento è un obiettivo comune. Una rete si costruisce perché qualcuno deve pescare. I suoi nodi ed i suoi fili hanno l’obiettivo di intrappolare i pesci. Se c’è uno strappo, il pesce fugge e la rete non è efficace. Se parliamo di reti di servizi, gli obiettivi devono essere comuni o condivisi tra i vari servizi. Ci viene sempre ricordato che il sociale è parte integrante della programmazione territoriale: si faceva cenno ai piani di zona piuttosto che ai PePS (Profili e Piani per la Salute) ecc. Il fondo per la non autosufficienza è un fondo che viene assegnato ai distretti in quanto enti che associano in una organizzazione sia i comuni – gli enti locali – sia l’azienda sanitaria. Gli obiettivi dei piani non sono più gli obiettivi sanitari, ma sono gli obiettivi dei piani socio‐sanitari. La programmazione distrettuale prevede che la Sanità dichiari, in maniera trasparente, la propria programmazione triennale e annuale nei piani attuativi annuali, così che sia integrata con la programmazione condivisa socio‐sanitaria e con la programmazione sociale operata dagli enti locali sulle attività che finanziano con propri fondi. É necessario cominciare ad utilizzare degli strumenti – qualunque strumento voi utilizziate – per porre obiettivi in comune. Abbiamo utilizzato come esperimento la balanced scorecard. Tuttavia, non intendo parlarvi di strumenti di programmazione bensì evidenziare come si possa creare una mappa di obiettivi che riguardano, in questo caso, la mia Unità Operativa. I seguenti obiettivi sono stati condivisi con gli enti locali e con le unità operative ospedaliere che si
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occupano – dal punto di vista delle acuzie – degli utenti che fanno riferimento alla nostra Unità Operativa: • garantire l’accesso alle cure e all’assistenza senza distinzioni, assicurando continuità, efficacia e specifica attenzione agli aspetti di relazione; • garantire un’offerta sanitaria equa ed appropriata, compatibile con le risorse disponibili; • garantire la presa in carico del paziente grave e la continuità terapeutica; • sviluppare competenze sulla valutazione e sulla gestione del rischio clinico; • valorizzare le competenze professionali di ciascuno; • sviluppare una cultura della comunicazione e della collaborazione. Piacenza è una città con un numero di abitanti inferiore a 300.000. Ha quindi degli spazi vivibili e delle dimensioni altrettanto vivibili. L’Unità Operativa che dirigo attraversa tre distretti. È un’unica Unità Operativa su tutto il territorio: spazia dall’assistenza domiciliare alle case protette, dalla gestione del fondo non autosufficienza anziani, disabili, minori in difficoltà (minori malati, patologie croniche rare dell’età infantile) a quella che è la parte di programmazione negli uffici di piano nonché ciò che può essere lo sviluppo delle reti e dei percorsi di continuità ospedale‐territorio. In sostanza, è vicina alle persone che da sole non ce la fanno e che hanno bisogno di un sostegno da parte delle famiglie. Questo significa che per avere utenti e collaborazione gli ospedalieri devono condividere i nostri obiettivi, altrimenti si aprono le guerre. É stato indispensabile individuare uno strumento che ci consentisse di comunicare e di condividere almeno uno, due obiettivi sui quali iniziare dei percorsi di integrazione. Se analizziamo unicamente la parte della popolazione anziana, la provincia di Piacenza è costituita da 48 comuni. Fra questi, un comune montano ha
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600 abitanti ed il più giovane ha 81 anni. Si trova sul versante genovese, dista da Piacenza circa 50 km di strade di montagna. Mediamente, un anno sì e uno no, una frana blocca la strada e così per raggiungere la zona è necessario utilizzare l’elicottero. Poi c’è il lungo Po. Questo per farvi comprendere la conformazione del territorio. Passiamo quindi da una condizione contraddistinta dall’appennino – difficile transitabilità – alle esondazioni del Po, quando esse avvengono. In questa configurazione, il comune di Piacenza, il comune più ampio, ha circa un terzo della popolazione disagiata, il che significa che i due terzi sono distribuiti su 47 comuni. Potete quindi comprendere cosa significhi avere una rete. Dal comune di Ottone, che ha la più alta mortalità per tumore della provincia – non a caso, vista l’età e gli abitanti – l’ospedale più vicino è a circa 27 km (percorso tortuoso e poco agibile, specie quando nevica). Quei 600 abitanti hanno gli stessi diritti di accedere alle strutture ospedaliere rispetto ai 100.000 residenti nella città di Piacenza, il cui tempo medio per raggiungere l’ospedale in autobus, da qualunque punto della città, è mediamente calcolabile in 20 minuti. Vien da sé che se non si creano delle reti territoriali non si può produrre un’assistenza adeguata. La rete territoriale e la rete con l’ospedale passano attraverso i caregiver e i servizi sociali, non solamente attraverso i servizi sanitari, proprio perché la configurazione del territorio – in questo caso la configurazione orografica – è molto importante per determinare chi sarà la persona di riferimento della famiglia e quindi chi sarà il case oppure il care manager, anche se professionalmente potrebbe non essere adeguato. In alcuni casi i nostri sensori intelligenti sono stati i postini: erano gli unici che tutti giorni arrivavano in un determinato luogo. Perciò sono stati formati per valutare se un anziano in difficoltà – che non voleva spostarsi da casa sua, che non voleva utilizzare la protesi e non poteva usare la carrozzina in quanto con entrambe le gambe amputate – fosse in condizioni di mangiare o meno. Si pone quindi il problema di identificare quale genere di integrazione stabilire tra i professionisti dei diversi servizi. Siamo abituati a parlare di
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skill‐mix come del mix di competenze piuttosto che di famiglie professionali – come affermava Barbara Mangiacavalli questa mattina – presenti nelle nostre Unità Operative. Creare una rete di servizi o un’integrazione professionale all’interno di un processo multiprofessionale significa riconoscere a ciascuno la propria competenza e collocare la competenza dell’organizzazione nello svolgimento di un lavoro che prevede più attori e soprattutto più menti che abbiano la possibilità di decidere per una data parte dell’attività e che siano anche in grado di effettuare una porzione del lavoro previsto. Galbraith ci dice: dovete pensare a una responsabilità distribuita. Come possiamo pensare ad una responsabilità distribuita all’interno di una rete? Prendiamo, ad esempio, la rete costituita dal medico di Medicina Generale, dall’assistente sociale, dalle infermiere e dal caregiver, che attualmente è il nucleo minimo di funzionamento di una rete professionale socio‐sanitaria. Che l’infermiera sia dell’ospedale piuttosto che del territorio ci interessa relativamente. È l’infermiera che è deputata ad assistere quella persona in quel momento storico. Questo esempio di rete ci trasmette un concetto: riconoscere a ciascuno una parte di responsabilità e di capacità nel gestire una porzione del processo. Non esiste, nella responsabilità distribuita, un solo titolare del processo. Esistono più titolari di funzioni differenti che esercitano delle competenze diverse, necessarie in un momento storico piuttosto che in una certa particolare forma di adattamento di un processo alla persona e alla condizione in cui vive. Vuol dire, in buona sostanza, che alla mattina, quando mi alzo e mi reco nell’Unità Operativa di neurologia, sono un infermiere di neurologia e svolgo le mansioni previste nel programma di lavoro della mia Unità Operativa per quel turno. Poi esco dall’ospedale perché, ad esempio, svolgo una parte di attività costituita dalla formazione e dall’educazione dei caregiver nell’ambulatorio e nel Day‐hospital per le epilessie. Insegnerò quindi ai caregiver come riconoscere le aure nel paziente epilettico. In quel momento possiedo la titolarità di un processo educativo di cui rispondo rispetto ai risultati di comprensione e adesione
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al percorso di sorveglianza domiciliare che sto attuando. In definitiva, quando sono un infermiere indosso i panni dell’infermiere di reparto, faccio parte del team. Invece, quando sono in ambulatorio e svolgo quel dato percorso educativo, rivesto una funzione di leader in quel determinato processo. Parlare di reti significa imparare a giocare più ruoli. E questi ruoli, nella stessa giornata, potremmo doverli interpretare più volte ed in luoghi diversi. Quindi, la flessibilità del lavoro richiesta non è soltanto una flessibilità organizzativa, ma è la capacità dei professionisti di vedere nuove interpretazioni delle proprie competenze nel momento in cui si relazionano con un processo, con un bisogno. È ovvio che questo richiede il superamento delle resistenze. Nella sessione plenaria Barbara Mangiacavalli parlava delle resistenze che derivano dagli stakeholder. Quando si disegnano e si costruiscono delle reti bisogna innanzitutto comprendere quali possono essere gli stakeholder, classificarli e identificarli sulla base di due variabili: l’interesse che hanno per il contenuto o per i risultati del lavoro che stiamo pensando di riorganizzare all’interno di una rete ed il loro potere di influenza ovverosia come possono influenzare l’ambiente, il mondo delle famiglie, dei clienti, della popolazione, degli enti locali, di tutto ciò che è esterno al lavoro che stiamo cercando di realizzare. Dopodiché, una volta classificati, dobbiamo ricordarci che quando siamo in presenza di uno stakeholder portatore di un grosso interesse – associazioni di patologia, di difesa dei pazienti, associazioni dei familiari dei malati, AISLA – Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica ‐ (pensate a quello che sta facendo), AISM (Associazione Italiana sclerosi Multipla) (pensate a quello che ha fatto), Alice, associazione diabetici, ecc. – esso avrà un alto grado di interesse circa il contenuto del nostro lavoro, soprattutto se si costruisce una rete in quanto gli stakeholder comprendono il valore aggiunto della rete, ma, al contempo, hanno un potere di influenza enorme. Nessun assessore alla Sanità evita di ascoltare queste associazioni. Il Tribunale dei diritti del malato è un’associazione con una grande forza in termini di interesse sulla
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qualità dei servizi ed è un’associazione decisamente influente: ha potere di giudizio e può esprimere delle valutazioni sui contenuti. Infatti, all’interno di queste associazioni ci sono valenti professionisti che possono contestare i contenuti del lavoro svolto. Con il comune, l’ente locale ed il responsabile del servizio sociale stiamo organizzando una rete per i pazienti con ictus, per i bambini malati di celiachia e quelli sordi. Pensate quanto è importante l’adesione di questi soggetti al nostro disegno. In termini di governo dell’accesso, averli partner od ostili significa poter erogare un servizio o trovarsi in una condizione disagevole. Nelle regioni i cui i servizi sono carenti, una sola opposizione di questi stakeholder significherebbe mobilità passiva continua sulle prestazioni ospedaliere, mentre invece si sta creando mobilità sulle prestazioni territoriali. Quindi, è necessario comprendere dove si posizionano gli stakeholder. Domandiamoci anche come si collocano, rispetto al nostro disegno, alla nostra volontà di creare una rete, gli appartenenti alle specialità mediche, gli infermieri, i fisioterapisti, le ostetriche, i servizi sociali, i responsabili dei vari servizi sociali, la stampa. Se sono tutti oppositori, la rete non la costruiremo mai. Occorre avere qualche alleato, interno ed esterno. Chi pensa alla costruzione di una rete di servizi – professionale o da erogare alla popolazione – deve avere chiari determinati elementi: • le reti vanno governate, anche prima di realizzarle, affinché si creino le condizioni per il loro sviluppo; • per governarle occorre che qualcuno sia in grado di legare la visione – cioè la prospettiva a lungo termine del funzionamento delle finalità di questa rete – con una capacità di disegno del meccanismo operativo, della struttura organizzativa della rete stessa; • si deve essere in grado di dimostrare chi lavora in questa rete, con quali strumenti, con quali tempi, obiettivi e risultati, avendo una visione strategica, sapendo esattamente a cosa questa rete si lega e si integra;
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• è necessario, nel sistema di governance, che qualcuno eserciti un controllo attento, non di tipo ispettivo o punitivo, ma che serva a comprendere se effettivamente la realizzazione della rete corrisponde ai propositi iniziali, evidenziando se sono insorti dei processi di adattamento di tipo gestaltico, ossia se ognuno l’ha pensata un po’ a modo proprio, dicendo a se stesso: “Sì, questo è il disegno complessivo, però il mio lavoro cerco sempre di adattarlo ai miei criteri, alle mie modalità”. Questo è un percorso, ripeto, di adattamento gestaltico che spesso è la causa del fallimento delle reti in quanto si interrompono dei processi di comunicazione che erano stati previsti in un modo, ma che, negli adattamenti, si sono perduti; • quando si costruisce una rete bisogna pensare al sistema di rendicontazione dei risultati: ogni soggetto della rete deve rendere conto agli altri soggetti di ciò che sta facendo, come lo sta facendo e del valore del suo apporto sul risultato finale. E ancora: tutti insieme devono rendicontare alla popolazione beneficiaria del servizio e a tutti i potenziali attori, i quali devono essere attenti nel valutare se la costruzione dell’insieme dei servizi funziona meglio oppure non è che la giustapposizione di elementi che stanno funzionando senza una particolare integrazione. Il concetto di rete è un concetto di interdipendenza. Cinzia Parolini sostiene che la somma del valore di ogni punto di una rete di servizi non è solamente la sommatoria del valore delle singole parti, ma è la sommatoria moltiplicata per un fattore “K” che è il fattore delle relazioni legate all’interdipendenza. Il primo scrittore americano che si è occupato di valutare il funzionamento delle reti di servizi, Bergson affermava che per valutare il funzionamento di una rete di servizi si devono monitorare le relazioni. Fare quindi quello che oggi si chiama Social network analysis: vedere chi parla con chi e in che modo, quanto queste relazioni siano strutturate e quanto invece casuali, quanto siano
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rich hieste e quanto invece ccodificate e. Questo o è il vallore aggiiunto nel creeare reti di professsionisti o o reti di processi.. • altro elemeento da ttenere in n conside erazionee, quando o si proggetta unaa c azione frranca: no on bisoggna racco ontarsi storie s dai rette, è la comunica con ntenuti improba i bili. La comunica c azione dev’esser d re traspaarente. È È neccessario portare la comu unicazion ne al livello di com mprensio one deglli uteenti o deei fruitorri dei serrvizi e deegli attorri, perchéé questi possono o esssere perrsone co on una formazzione diffferente.. Pensiaamo allaa terrminologgia che normalmeente utilizziamo con i meedici. Pro oviamo aa parrlare lo stesso linguagggio con gli assisstenti so ociali. Il risultato o pottrebbe produrre p e dei miisundersttanding importaanti in quanto q il significato che si attribuiscee a un de eterminato problema sul versantee mpletameente diveerso. Il problema p a socciale e su quello sanitario è com fragilità o ill terminee non auttosufficie enza, ad esempio o. Noi dicciamo: “èè n autosu ufficientee compleeto un pa aziente, una perssona chee ha una a non Barrthel in nferiore a 25”. Loro L dico ono: “no on è auttosufficieente una a perrsona ch he non è in grrado di vivere da d sola in un ambiente a e pro ocacciand dosi il cibo, c faccendo lee norma ali attiviità tipo come il i pag gamento o delle utenze, ecceteera”. So ono con ncetti del tutto o diffferenti. enti, dagli Stati Alcuni suggerim s Uniti. Gli americaani ci dicono che se vogliaamo cosstruire una u rete dobbiam mo averee obiettivvi chiari e valori condivisii. Sono aalla base della cosstruzionee della reete, così come la fleessibilità della a. Sono o tre messaggi m struttura forti, basilari per la costtruzione delle nostre n r reti di servizi. Spesso p partiamo o dal risu ultato, no on dall’id dentificazzione degli obietttivi e dei
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valori che sottendono la flessibilità del disegno organizzativo. Quanto è importante una rete di servizi? É importante nel momento in cui la comorbilità tende ad aumentare e iniziano le prime defaillance rispetto all’autonomia. È importante quando non c’è un’autosufficienza legata allo sviluppo della persona e delle sue capacità (pensiamo all’età pediatrica). Può essere meno importante quando i livelli di probabilità di malattia sono minori e quando la persona ha un grado di autonomia elevato, ma nella parte terminale, quando si invertono le due curve, è necessaria la realizzazione delle reti perché è il momento della non autosufficienza, la quale necessità di interventi compositi. A Piacenza abbiamo percorso alcune tappe: • lo sviluppo di servizi tra comuni e aziende che avessero le stesse finalità: tutto il settore, ad esempio, della non autosufficienza, sia negli anziani che nell’area dei disabili; • sono stati costruiti dei percorsi di accesso comuni, ad esempio l’unità di valutazione multidimensionale, composta, sempre, sia dall’infermiere che dall’assistente sociale per il primo livello di valutazione. Si integrano con il medico di Medicina Generale e accedono alla valutazione specialistica dopo che l’infermiere, l’assistente sociale e il medico di Medicina Generale hanno valutato il paziente, costruendo una proposta di percorso; • ci si sta orientando verso la medicina di iniziativa. Per la dimissione ospedaliera è il personale del territorio che va dai pazienti in ospedale. L’assistente sociale del comune e l’infermiere dell’assistenza domiciliare – quest’ultimo individuato, in ogni distretto, per le dimissioni – vanno in ospedale tre giorni alla settimana, visitano le varie Unità Operative, discutono con l’equipe del paziente per costruire, se possibile, il percorso di dimissione precoce o di dimissione assistita quando è una dimissione difficile. Questa unità di valutazione di primo livello è la stessa che fa la proposta per l’accesso nelle strutture. Sono proposte che fanno
rifeerimento o al fond do della a non au utosufficiienza, quindi prrevedono o ancche l’utilizzo dei sservizi so ociali; • son no stati attivati dei perccorsi di sostegno o alla do omiciliarità con i com muni, ad esem mpio perrcorsi di counselling p piuttosto che di forrmazionee delle famiglie f o ad alcune tem matiche. Una fraa rispetto queste – peraltro anche presentte nel piano p deella prevvenzionee – è queella dellaa preven nzione delle cad dute. Si è quindi nazzionale – pro oceduto all’addesstramentto delle aassistentti familiarri sul govverno del mo ovimento o e sulla gestionee di alcun ne tecnicche di pro otezione e durantee la vita quo otidiana,, oltre che c il laavoro inttegrato con i medici m di mo prep parando, in questo se enso, un n Meedicina Generalee. Stiam opuscolo.
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Cosa ha prodottto l’integgrazione tra i serrvizi sociali e i m medici ospedalieri attraversso un peercorso di d dimisssione con ndivisa con il pazziente, valutando o insieme la decisio one del p post‐dim missione, condivid dendola ccon l’equ uipe degli one dei livelli di non n specialissti? Ha prodottto una rapida riduzio autosuffficienza di d una serie di pazienti p con pato ologie crritiche ADI, A 4650 0 casi, ann no 2010)
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L’immagine mostra l’area azzurra, che rappresenta il momento della presa in carico, e l’area verde, ossia il momento in cui il paziente è uscito dall’assistenza domiciliare. In alcune particolari attività – che erano legate all’assistenza presso il domicilio – le funzioni di collegamento o le funzioni di integrazione della rete venivano talvolta svolte da un soggetto che dal territorio andava in ospedale: il case manager, ad esempio, il quale si occupa di lesioni difficili e ferite difficili e che dal territorio aveva già seguito gli utenti direttamente in ospedale nel momento della segnalazione. Analogo discorso per gli specialisti del territorio che partecipavano alla progettazione del PVC, del piano di vita e di cure post‐ dimissione all’interno dell’ospedale e che l’avrebbero seguito anche nel territorio. Pensiamo al paziente oncologico, così come al case manager del team nutrizionale che segue i problemi dei pazienti con malnutrizione o con PEG anche nell’assistenza domiciliare. Inoltre, il team di cura è quello che definisce il percorso di comunicazione con gli utenti, la diagnosi difficile. La comunicazioni delle bad news è decisa in team che periodicamente incontra la famiglia per fare il punto della situazione circa l’evoluzione dell’utente. L’esperimento è in corso da 18 mesi, pertanto possiamo classificarla come un’esperienza piuttosto recente. Abbiamo iniziato nel luglio del 2009. Mi auguro che possa risultare un’esperienza utile per tutti. Dal punto di vista della valutazione, da luglio abbiamo preso in carico 1.143 utenti, i quali hanno tutti un percorso che è iniziato e che sta concludendosi nella rete socio‐sanitaria e per sanitaria intendo sia l’ospedale che il territorio. Vi ringrazio.
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Lucia Centillo: Grazie. La sua relazione ha, in una certa qual misura, integrato l’assenza della collega Pellizari di Udine che avrebbe dovuto parlare di assistenza domiciliare integrata. Riporto alcuni dati che potranno risultare di stimolo al dibattito. Nel 1950 la popolazione italiana aveva circa un terzo di persone di età superiore ai 40 anni: Nel 2050, cent’anni dopo, ipotizziamo che un terzo della popolazione avrà meno di quarant’anni. E ancora: fino al 2040 si ipotizza una crescita delle persone con fragilità. In seguito questa curva dovrebbe scendere. Venerdì è stato presentato il rapporto sulla non autosufficienza: attualmente, nella distribuzione dei servizi, il 5,1% della popolazione è in assistenza domiciliare e il 3% è invece in struttura residenziale contro una media europea del 5,1%. Assistiamo ad un aumento della copertura e ad una diminuzione dell’intensità di copertura: la domanda è talmente alta che si cerca di offrire una risposta, ma a macchia di leopardo per via dello squilibrio delle realtà (Centro‐Nord e Sud Italia). Cedo la parola a Francisca Anaya: “Assistenza infermieristica e ambienti di vita: esperienze organizzative in Spagna”. È un’infermiera di comunità e insegnante nella Laurea di Scienze Infermieristiche nelle materie che riguardano l’Infermieristica di Comunità, l’Educazione alla salute e l’Igiene pubblica all’Universidad Europea de Madrid. Specialista nella Salute di Comunità e la Promozione ed Educazione alla salute. È Presidente dell’associazione nazionale spagnola “Asociación de Enfermería Comunitaria”, direttrice della rivista “Boletin de Enfermería Comunitaria” e subdirettrice della rivista liberoamericana d’Infermieristica di Comunità. Autrice di parecchi articoli scientifici e conferenze, sta svolgendo il Dottorato nella linea di ricerca sull’Infermieristica di Comunità all’Università di Alicante.
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Assistenza infermieristica e ambienti di vita: esperienze organizzative in Spagna Francisca Anaya: Buona giornata. Ringrazio della presentazione, ma sottolineo come, innanzitutto, sono e mi sento un’infermiera di comunità. Ringrazio l’organizzazione per avermi invitata a condividere con voi l’esperienza della Spagna nel campo delle infermiere di comunità. Vorrei iniziare questa mia relazione ricordando Florence Nightingale con un suo pensiero scritto nella Pasqua del 1889: “Secondo me la missione delle cure infermieristiche, alla fine, è quella di curare il malato a casa sua [...] intravedo la sparizione di tutti gli ospedali e di tutti gli ospizi. [...] ma a che cosa serve parlare ora dell’anno 2000?” Il duemila è arrivato e quindi parliamo della realtà attuale, nello specifico del Sistema Sanitario Nazionale spagnolo. È un sistema in qualche modo simile a quello italiano. La differenza sta nel fatto che è un Complesso coordinato dei Servizi di Salute dell’Amministrazione dello Stato e dei Servizi di Salute di tutte le Regioni, da noi chiamate “Comunidades Autónomas”, che integra tutte le funzioni e prestazioni sanitarie che, secondo la legge, sono responsabilità dei poteri pubblici. Abbiamo 17 servizi di salute tutti coordinati dal Consiglio interterritoriale. Ogni Regione gestisce la sua Sanità. La ristrutturazione dell’assistenza sanitaria di base in Spagna fonda le sue origini su quattro passaggi: • la Costituzione spagnola del 1978 (art. 43) grazie all’avvento della democrazia. Prima dell’instaurarsi del regime dittatoriale, già nel 1923, esistevano le infermiere di comunità, figura abolita durante la dittatura; • la ristrutturazione dell’assistenza primaria: Decreto Estructuras Básicas de Salud del 1984 sulla scia dei lavori dellO.M.S. Questo
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La Legge Generale di Sanità si concentra principalmente sui seguenti punti: • promozione alla salute; • promozione dell’interesse individuale, della famiglia e della società per la salute attraverso l’educazione alla salute stessa; • le attività sono rivolte non solo a guarire, ma a prevenire le malattie; • garantire sempre l’assistenza sanitaria, ponendo il punto sull’aspetto sociale della salute. La Spagna – dati aggiornati al 1 gennaio 2008 – ha 46 milioni di abitanti, il 10% di stranieri, il 16% con un’età maggiore di 65 anni. La popolazione, come in Italia, sta invecchiando. L’assistenza, secondo la Legge di Sanità, è rivolta a: • tutti gli spagnoli e stranieri sul territorio nazionale secondo l’articolo 1.2 Legge Organica 4/2002; qualche settimana fa l’OMS che ha voluto verificare lo stato di accesso ai servizi di salute, che sono
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decreto‐legge abbozzava già una figura di infermiera sul territorio con competenze nuove; • la Legge Generale di Sanità del 1986 che, all’art. 6 descrive la gestione della Sanità e individua, quale obiettivo prioritario la promozione della salute e la prevenzione delle malattie. I tratti fondamentali della Legge sono i seguenti: finanziamento pubblico, universalità e gratuità dei servizi; diritti, doveri e poteri del cittadino ; decentramento politico della Sanità; assistenza integrale con livelli di qualità controllati e valutati; integrazione di strutture e servizi pubblici nel Sistema Sanitario Nazionale; • Nwl 2010, infine, è stata emanata una nuova riforma, la Legge di Salute Pubblica.
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I servizi di salute sono, come già detto, 17, coordinati da un consiglio interterritoriale. Presenti dal 2001 su tutto il territorio nazionale. I 17 servizi di salute seppur simili, in quanto il consiglio interterritoriale consente di definire e coordinare le attività. Presentano alcune differenze in base alle politiche regionali talune più concentrate su obiettivi di , salute altre più sulla gestione della malattia. L’Assistenza Primaria, della quale vi parlerò, è caratterizzata da: • decentralizzazione amministrativa della gestione; • riorganizzazione geografica dell’assistenza; • organizzazione dei centri: lavoro in équipe nei “Centri di Salute” con condivisione degli obiettivi nel rispetto delle singole competenze dei professionisti coinvolti; ; • orientamento dell’assistenza verso: promozione e prevenzione, assistenza integrale e pianificazione di attività. Personalmente provengo dalla regione chiamata Valencia. La comunità valenciana è divisa in dipartimenti di salute, come prescrive la Legge Generale di Sanità diviso a sua volta in quelle che chiamiamo zone di salute, cioè in piccoli distretti. Tutti i dipartimenti – chiamati, secondo la Legge di Sanità, aree sanitarie di base – hanno una capacità di 200‐ 250.000 abitanti. Ogni dipartimento è diviso in “zone base per la salute” (queste zone sono costituite da una popolazione compresa tra i 5.000 e i 45.000 abitanti). Abbiamo due livelli di assistenza sanitaria, presenti in ogni dipartimento:
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gratuiti per tutti, ha rilevato che 200.000 persone non vi accedono ancora. • A cittadini dell’’Unione Europea . risultato delle convenzioni sottoscritte e anche, in ragione di quest’ultime, alle persone che non appartengono all’Unione Europea,
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• un primo livello inerente l’assistenza sanitaria di base: in esso vi sono uno o più centri di salute (dipende dalla popolazione) o piccoli ambulatori locali (con la presenza di infermieri , personale amministrativo, ausiliario infermieristico, ausiliario amministrativo, medici di famiglia, pediatri, ostetriche, fisioterapisti, odontoiatri, centri di igiene mentale); • un secondo livello inerente l’assistenza specialistica: in essa vi sono uno o più centri di specialità (medici presenti negli ambulatori, come avviene anche in Italia) nonché ospedali; è anche prevista l’ospedalizzazione domiciliare e l’assistenza domiciliare. Ogni area sanitaria di base prevede la presenza di Centri d’Igiene Pubblica, dove lavorano anche infermieri di comunità. Inizialmente, pur cercando di lavorare in equipe, l’organizzazione, come si diceva durante la Lettura Magistrale, era per compiti. Ogni infermiera si occupava di una determinata attività. Non era quindi prevista un’infermiera di riferimento per gruppo di popolazione o ambito . Inoltre, l’obiettivo prioritario era la gestione della malattia e non lo sviluppo di programma di promozione della salute. A seguito di una riforma legislativa oggi sono stati inseriti numerosi programmi di salute, come quello per il diabete, per l’obesità, per l’ipertensione arteriosa, per i bambini, per la donna, ecc. Infine, un’ulteriore riforma, ha introdotto quella che possiamo chiamare l’organizzazione geografica: il modello assistenziale che viene adottato è il modello biopsicosociale. Ad oggi però siamo ancora allo stadio biopsico. Per raggiungere il sociale – non soltanto rappresentato dal centro di salute, ma anche dalla comunità e dal domicilio – abbiamo ancora molta strada da percorrere. Sintetizzando quanto sopra, l’equipe dell’Assistenza Sanitaria si è snodata attraverso tre generazioni: • 1ª Generazione: organizzazione per attività; modello biologico (individuo); ubicazione nel centro di salute; priorità dell’istituzione: espansione della struttura. Obiettivo: la malattia;
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Con quest’ultima configurazione – 3ª Generazione – il ruolo dell’infermiera di comunità è più nitido ed è anche supportato , da da settembre 2010, da una formazione ad hoc nel campo. Dopo vent’anni è un sogno che si avvera. Secondo l’Associazione alla quale appartengo – Asociación de Enfermería Comunitaria – è possibile definire l’infermiere di comunità secondo questi criteri: • applicazione in modo integrale delle cure (caring); • continuum salute‐malattia (prevenzione e promozione alla salute); • si rivolge alla persona, alla famiglia e alla comunità; • opera nell’ambito dell’Igiene Pubblica; • favorisce le autocure. Come infermiera di comunità mi sono sentita particolarmente vicina alle parole della Bengtsson: assisto i bambini da quanto nascono ai 14 anni. Questa è la differenza rispetto alla Svezia, ma per il resto il modello è lo stesso. Come voi, anche noi abbiamo seguito la dichiarazione di Bologna. Del 2000. Quindi, a livello formativo abbiamo operato dei cambiamenti. Non usiamo il nome laurea ma grado e post grado. Il grado prevede quattro anni e il post grado è invece un master di 240 o 120 crediti formativi. È previsto anche il dottorato. Non abbiamo le specialità all’interno dei master. Il nostro è un percorso differente. Per la specialistica, conseguito il
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• 2ª Generazione: organizzazione per programmi; modello biopsicologico (individuo); ubicazione nel centro di salute e domicilio; priorità dell’istituzione: metodologia del lavoro. Obiettivo: la malattia. • 3ª Generazione: organizzazione geografica; modello biopsicosociale (la famiglia); ubicazione nel centro di salute e domicilio. Obiettivo: la salute.
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grado si segue un altro percorso formativo. Il percorso per conseguire la specialità è in vigore dal settembre 2010. I ruoli. Questa mattina si è detto che i ruoli sono da archiviare. È vero. Tuttavia, è altrettanto vero che l’infermiere di comunità ha determinate caratteristiche. Svolge delle attività specifiche, tenendo sempre conto che quello che si fa per gli altri, senza gli altri, si fa contro gli altri. Queste attività, a titolo di esempio sono • provvede all’assistenza diretta; • è di supporto, di aiuto, di ascolto; • difende i diritti degli utenti; • promuove, è leader e animatore; • serve da link, è coordinatore dei diversi livelli e servizi; • è insegnante, counselling. I suoi doveri: • conoscere l’ambiente fisico, psicologico, sociale, culturale della comunità dove lavora; • conoscere la comunità: leaders, composizione; • conoscere i problemi e le risorse della comunità; • promuovere abitudini salutarie; • promuovere la partecipazione della comunità; • aiutare a raggiungere maggiori livelli di salute. L’educazione e la promozione della salute si sviluppano: • nelle associazioni municipali; • nelle scuole; • nei luoghi di lavoro; • a domicilio; • nei luoghi di svago; • nei centri di salute.
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Porto un esempio: lavorando presso il centro di salute con i bambini appena nati, nel momento in cui l’ostetrica sa che è nato un bambino lo affida al centro di salute attraverso la mia persona ed io ricevo i genitori. Inoltre, vado anche nelle scuole a fare educazione alla salute. Questo è uno dei miei compiti. Le funzioni di assistenza diretta che svolgiamo nel centro di salute sono le seguenti: • consulenza infermieristica; • attività di aiuto e sostegno alla diagnosi medica; • lavoro nella comunità; • docenza e ricerca; • amministrazione o gestione dei servizi. La cartella infermieristica. Ogni regione ha la sua cartella infermieristica. Tutte hanno deciso di informatizzarla, ma con un programma informatico non condiviso. Questo è un problema. Vi riporto in queste due immagini, a tittolo di esempio, due esempi di cartella Nella mia realtà lavoriamo con il modello Gordon mentre in altre realtà della Spagna, dipende dalle regioni, si utilizza sia il modello Gordon sia il
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modello Henderson. . Inoltre, ogni ospedale ha un suo programma informatico, con tutti i problemi che ne derivano. Oggi si sta cercando di uniformare il tutto. E’ previsto infatti per gennaio 2011 l’adozione su tutto il territorio nazionale di una cartella unica. Questo permetterà, nel casi di mobilità da una regione all’altra di avere un documento comune, la scheda sanitaria unificata, che potrà essere più facilmente e agevolmente consultata dai medici ed infermieri che prenderanno in carico le persone. Anche negli ospedali si sta cercando di mettere ordine, dal punto di vista della condivisione degli strumenti informativi, tra la documentazione medica e la documentazione infermieristica, almeno per quanto riguarda i dati essenziali del paziente, in modo tale da facilitare il coordinamento dell’azioni e la continuità assistenziale. Come viene organizzato il nostro lavoro? Dipende dalle regioni. Esistono due modelli: • per Distretti geografici. Parametri per valutare il numero necessari sono i seguenti: calcolo della distanza del luogo più distante dal municipio , il numero di persone minori di 14 anni; il numero di persone con età superiore ai 65 anni; le donne ancora in periodo di fertilità. Con tali parametri si stabilisce il numero di infermieri da assegnare e, successivamente, gli stessi possono essere organizzati in sotto gruppi per distretto; • condividendo lo stesso gruppo di popolazione di un medico (pediatra, medico di famiglia). In Spa gna i pediatri vogliono avere un’infermiera al proprio fianco. Di seguito elenco gli aspetti positivi del modello dei Distretti geografici, sviluppato nella regione di Valencia negli anni ’90 e oggi adottato anche da altre regioni:
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Altro aspetto importante: come siamo coordinati tra il primo e il secondo livello. Recentemente si è sviluppata la figura del case manager. Inizialmente nella regione delle Isole Canarie, poi in Andalusia ed ora a Valencia. Nella regione di Valencia i case manager sono due: uno proviene dall’assistenza sanitaria di base, l’altro dall’ospedale. Ognuno di essi si occupa di una popolazione diversa nella stessa area base di salute. Questi i compiti del case manager che proviene dall’ospedale:
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• più economico (è praticamente impossibile avere un’infermiera per ogni medico; c’è infatti un’infermiera ogni due medici; abbiamo circa 2.500 abitanti per ogni infermiera); • più visite domiciliari, ma tempi ridotti nello spostamento e costi inferiori (valutato con studi); • maggiore partecipazione della comunità; • diminuisce la pressione assistenziale; • maggiore conoscenza della popolazione (si conosce la famiglia, il complesso sociale che circonda la famiglia stessa); • più autonomia; • più persone assistite ma sempre con la stessa persona di riferimento (c’è un’infermiera per tutta la famiglia).
I compiti del case manager che proviene dall’assistenza sanitaria di base sono: • valutazione del paziente che verrà dimesso. E’ il case manager a comunicare ad ogni figura professionale dell’equipe dell’assistenza sanitaria di base quali azioni adottare nei confronti del paziente; • link con l’altra infermiera case manager; • link con l’equipe dell’assistenza sanitaria di base; • supporto dei caregiver; • registrazioni e valutazioni del programma di assistenza domiciliare, ecc. I primi risultati circa l’operato di queste due figure di case manager evidenziano – anche in una comunità dalla popolazione dispersa come quella delle Isole Canarie – un miglioramento del coordinamento tra i livelli assistenziali mai raggiunto prima. Si registra anche un miglioramento Atti del convegno “Quale organizzazione per quale assistenza”: pratiche agite, pratiche possibili – Torino 13 dicembre 2010 – 1° parte
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valutazione del paziente che verrà dimesso; link con l’infermiera case manager dell’assistenza sanitaria di base, consulenza telefonica programmata; referente ospedaliero nel caso di altri ricoveri; coordinamento con l’altro case manager che dipende dalla comunità della zona o area base di salute. del dipartimento.
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del coordinamento della propria equipe dell’assistenza sanitaria di base. Anche’essi devono coordinarsi e lo fanno attraverso il case manager dell’assistenza sanitaria di base. Questo modello garantisce inoltre la continuità terapeutica, migliora la qualità dell’assistenza delle persone non autosufficienti e consente di aumentare il numero delle persone assistite a domicilio. Mi avvio alla conclusione presentandovi la situazione generale, non soltanto spagnola: • globalizzazione; • assistenza sanitaria internazionale per via dell’immigrazione; • problemi di salute mentale; • violenza di genere; • cambiamento del modello di famiglia; • disumanizzazione del sistema di salute, a dire il vero un po’ mercificato; • invecchiamento della popolazione; • crescita dei disabili e dei non autosufficienti. Quest’anno andranno in pensione circa 60.000 infermieri in Spagna. E’ possibile prevedere che, in ragione delle modificazioni avvenute nei piani di studio, per 2‐3 anni non avremo nuovi infermieri sul mercato del lavoro. Inoltre, la crisi mondiale non aiuta. Infatti, sono molti gli infermieri spagnoli presenti in Italia, nel Regno Unito, in Francia e non solo. Può sembrare strano, essendo un paese che ‘esporta’ infermieri all’estero, ma siamo al IV° posto in Europa come numero di infermieri per abitanti, anche per quanto riguarda l’infermiere di comunità. Gli infermieri sono 240.000, ma solo 22.000 deputati all’assistenza sanitaria di base e fra questi non tutti lavorano: per via della crisi non si assume. Altro problema: l’assistenza sanitaria di base non viene usufruita da tutti gli utenti; vi
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accede una piccola percentuale e il nostro obiettivo è quello di raggiungere tutta la comunità. Dunque, quale futuro? Il futuro si costruisce anche con le proposte. Eccone alcune: • dobbiamo analizzare le caratteristiche e il numero di infermieri di cui necessitiamo, in base ‐ all’organizzazione; o modelli organizzativi, anche in ragione dell’ intensità delle cure; o dalla dispersione geografica; - Alla preparazione del personale; - alla delimitazione competenze; • dobbiamo ipotizzare nuove servizi e progettare nuovi modelli organizzativi, sviluppando modalità di erogazione che: o definiscono orari stabiliti in base alle necessità e ai bisogni gli utenti e non degli altri professionisti, come attualmente accade. L’organizzazione del lavoro non deve dipendere dagli altri professionisti, ma da noi; o garantisca no il numero di infermieri secondo la comunità con la quale si lavora (e sulla base degli altri profession isti);
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Parlando di porte aperte, fino a qualche anno fa la porta d’ingresso al Servizio Sanitario spagnolo era il medico. Da qualche anno noi infermieri abbiamo la possibilità di aprire la porta all’utente. Vi mostro un depliant che spiega alla popolazione quali sono i servizi che un’infermiere, in modo autonomo, può offrire alla comunità. Non si parla di malattia, ma dei bisogni e delle cure infermieristiche. Necessitiamo quindi di una continua ricerca e della condivisione del pensiero scientifico. Ricordiamoci inoltre che senza autonomia non c’è base per lo sviluppo professionale. Vi saluto condividendo alcuni pensieri: • “Il lavoro degli infermieri non è rivolto solo alle cure dei malati ma anche alla ricerca e al ritrovamento delle origini essenziali della miseria e della malattia” (L. Wald). • “Se i principali determinanti della salute sono sociali, è proprio lì che devono cercarsi le soluzioni” (M. Marmot). • “Nello stesso modo che la persona che viene a trovarmi ha bisogno del mio aiuto, io ho bisogno di lei, ma sopratutto della comunità completa per esprimere la mia capacità di aiuto e dare senso alla nostra professione” (J. Hillman). • “In ogni tappa storica passata, presente o futura, fummo, siamo e saremo quello che storicamente siamo capaci di dimostrare” (J. Siles). Grazie a tutti.
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• dobbiamo sviluppare le competenze in coerenza al nostro corpo di conoscenza scientifica e si dovranno sviluppare i processi di valutazione • dobbiamo iniziare a costruire il portfolio dei servizi infermieristici.
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Lucia Centillo: Grazie a lei. La frase di Salvatore Nicoli,, che sottende il nostro incontro, recita: “Rivendicare i diritti vuol dire contrattare in concreto gli spazi della propria libertà. Essere liberi significa essere messi nella condizione di realizzare al meglio le proprie capacità, di dispiegare ciò per cui si è predisposti”. Essere dunque predisposti come accade in Spagna – un infermiere ogni 2.500 abitanti – oppure esserlo come accade in Italia, combattendo spesso perché – al di là della crisi, che certo incide – da anni siamo in una condizione di disomogeneità delle cartelle e non solo? Addirittura nello stesso reparto possono esserci situazioni diverse, Unità Operative dove la pediatria ha una sua cartella, la neonatologia un’altra e l’ostetricia pure! Le tre relazioni ci offrono importanti e utili spunti, anche rispetto all’integrazione e al superamento di tutte le forme di barriere. Quando si costruire il Piano di Assistenza Individuale, l’infermiere deve sapere di cosa si sta parlando, perché la sua consapevolezza è utile al paziente che dovrebbe poter trovare le barriere abbattute. I consultori e i gruppi di cure primarie li abbiamo, se non altro a livello sperimentale. Vi chiedo quindi di diffondere queste esperienze. Spesso mi trovo a parlare di Salute 21, gli obiettivi della Salute previsti dall’OMS per il XXI secolo. Mi accorgo che stimati colleghi e colleghe non lo considerano uno strumento di lavoro. Se invece lo diventa, è possibile addirittura stabilire il criterio di calcolo del numero utile degli infermieri. La parola a voi per domande e contributi
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CONTRIBUTO DEL PUBBLICO Domanda I: Mi chiamo Cinzia Tortora e sono coordinatrice di un corso di laurea infermieristica della TO2. Complimenti ai relatori. L’ultima relazione mi ha particolarmente colpita. In Italia il corso di laurea è e sarà sempre, come diceva la collega questa mattina, di tre anni con grossi problemi di formazione dei futuri colleghi, i quali dovrebbero sostenere anche dei momenti di riflessione critica che in questi luoghi condividiamo ormai da anni. Mi ha colpita il calcolo della dotazione organica: l’ho trovato stimolante ed intrigante, a fronte anche dell’intervento della Mangiacavalli: prima di ragionare sui numeri, ragioniamo sui modelli. È un approccio del tutto differente. Riflettere sui modelli e sulle parole ci ha portato a non poter più valutare neppure quanta dotazione organica hai in servizio, a fronte delle scelte politiche nazionali, regionali e aziendali, con ricadute negative nei percorsi formativi degli studenti. Grazie ai tagli nei luoghi di cura diminuisce la possibilità dei colleghi professionisti di seguire i futuri colleghi. È un circolo vizioso che sembra non avere sbocco. La situazione sembra peggiorata rispetto a 20‐25 anni fa: si lavora male, rapidamente, si ha poco tempo per formare i futuri professionisti i quali arrivano alla laurea con l’acqua alla gola, già quasi in burn out. E devono ancora entrare, se entreranno, nel mondo del lavoro. Tornando al modello spagnolo, quali le sue origini? Com’è stato possibile implementarlo e farlo diventare un modello operativo di definizione del numero degli infermieri, condividendo tutti gli obiettivi che questo modello ha permesso di condividere? Grazie. Domanda II:
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Claudia Contratto, infermiera. Mi pare di capire che in Spagna i medici di Medicina Generale, quelli che noi chiamiamo medici di famiglia, siano dipendenti del Servizio Sanitario. Vorrei sapere, da lei e dalla collega Bengtsson, quali problemi possono insorgere nei rapporti con gli altri professionisti, in primis con il medico di famiglia, ma anche con le altre figure sanitarie e sociali. Lucia Centillo: Questa domanda sottolinea il problema dei diversi contratti di lavoro poiché esiste questa anomalia tutta italiana rispetto ad un rapporto di lavoro privato inserito in un sistema pubblico. Non ci sono le risorse. Lo dicono anche i medici di famiglia più favorevoli all’ipotesi di inserirsi nel Sistema Sanitario Nazionale con un contratto di dipendenza. Ad oggi non ci sarebbero le risorse per una simile scelta. Domanda III: Nugara, coordiantore. Riconosco in questo modello spunti e analogie con la nostra storia recente. Penso all’assistente sanitario. Penso anche al grande contributo dato dalle scuole di infermieristica in questi anni. Ritrovo nella cultura italiana uno scollamento tra quello che è un sapere condiviso – anche con le colleghe spagnole in quanto, da un punto di vista teorico, vengono utilizzati linguaggi e similitudini condivise – e l’applicazione dello stesso, attraverso un qualsiasi tipo di ipotesi operativa, ritrovandoci, come giustamente affermava la collega, a lavorare con l’affanno perché mancano le risorse e perché, a mio parere, ci confrontiamo eccessivamente con dei modelli clinici che lasciano poco spazio all’innovazione. Volevo chiedere qual è – per le colleghe spagnole che lavorano sul campo come infermiere di comunità – l’indice di motivazione nel loro lavoro quotidiano. Prima si accennava al fatto che anche le infermiere spagnole fanno la valigia e vanno a lavorare all’estero.
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Questo può rappresentare una difficoltà nel trovare una motivazione professionale? Grazie. Domanda IV: De Pieri. La prima domanda è per Lavalle. La mia impressione è che nel territorio italiano, negli ultimi anni, si assista ad una ipertrofia organizzativa che significa aumento dei livelli gerarchici delle diverse funzioni, ossia il giusto contrario ad una diffusione della responsabilità delle competenze. La domanda è un po’ provocatoria: non sarebbe forse utile passare ad una sana anarchia organizzativa? Seconda domanda, per la collega spagnola: la documentazione clinica informatizzata che ci hai mostrato riguarda l’assistenza territoriale oppure, più in generale, è utilizzata dagli ospedali e dal territorio? Nell’elenco delle funzioni riferite all’infermiere di famiglia ho letto delle funzioni che ritengo non siano, di fatto, patrimonio della formazione. Cosa ne pensi? Quale la direzione della formazione dell’infermiere, se deve assolvere alle funzioni elencate? RISPOSTE DEI RELATORI Francisca Anaya: I due modelli che vi ho presentato hanno alle spalle una loro filosofia. Se ci si focalizza sulla salute, si punterà, sul modello dell’infermiere di comunità (Distretti geografici). L’altro modello – un’infermiera/un medico – è un modello costosissimo e la logica di azione è nell’ambito medico. Inizialmente, in certe regioni della Spagna, i medici di famiglia hanno esercitato notevoli pressioni perché non ammettevano che gli infermieri rivestissero più ruoli. Ritenevano che determinate competenze dovessero appartenere unicamente ai medici. In Spagna la ristrutturazione dell’assistenza sanitaria è iniziata nel 1984. Da allora molte cose sono cambiate, inclusi i rapporti inizialmente difficili. Tuttavia, alcuni medici,
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specie i pediatri, vorrebbero un’infermiera al proprio fianco. Per il resto, si lavora in equipe e non ci sono problemi. Rispondo relativamente alla motivazione. Per quanto riguarda l’infermiere di comunità, poco tempo fa è stato fatto un concorso nazionale, non suddiviso per regioni. A chi lo ha superato è stata comunicata l’assegnazione: livello assistenziale dell’assistenza sanitaria di base oppure ospedale. Questo ha generato parecchia confusione a livello organizzativo. Attualmente sono arrivate numerose persone dagli ospedali, prive di formazione, le quali, ovviamente, non vogliono andare sul territorio. Se sei un’infermiera di comunità, ciò che desideri è andare incontro alla comunità, fare le visite a domicilio, andare nelle scuole e nelle associazioni, partecipare alla vita della comunità in cui operi. Per quanto riguarda la cartella che ho mostrato, è una cartella territoriale. È stata realizzata assieme agli infermieri presso il Dipartimento della Regione di Salute. C’è una cartella per ogni paziente, chiaramente seguono il paziente nel suo percorso (territorio/ospedale). La cartella territoriale che ho mostrato è una cartella dell’utente è quindi utilizzata da tutti i professionisti che con lui lavorano. La formazione. Siamo molto felici in questo senso. Siamo formati in Università dal 1977, nel 1987 sono state definite le specialità e di conseguenza la formazione specialistica e, nel settembre 2010 è stata definita la specialità in infermieristica di comunità. La formazione ci permetterà di cambiare e procedere ad un’ulteriore riorganizzazione. Si dovrà definire chi sarà l’infermiere di comunità e quale sarà la sua collocazione: case manager o coordinatore infermiere? Tiziana Lavalle: Anarchia… beh, non sarebbe male. Sono abbastanza favorevole all’anarchia organizzativa, se questa ha un senso. Il territorio necessita di alcune condizioni organizzative. Innanzitutto che le persone inserite nel territorio abbiano dei partner riconosciuti. Si inserisce il meccanismo della mutua regolazione. Noi abbiamo effettuato una divisione territoriale come
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in Spagna: abbiamo diviso gli infermieri per comuni o per quartieri. Il criterio adottato è stato quello di affiancarli agli assistenti sociali affinché ogni assistente sociale avesse un infermiere di riferimento. Non abbiamo pensato ai medici di Medicina Generale perché da noi i medici possono avere i pazienti anche in distretti diversi, quindi, da questo punto di vista, diventerebbe estremamente difficoltoso, mentre l’assistente sociale ha un target di popolazione ben definito sul quale agisce. Abbiamo attuato qualche aggiustamento: non c’è un infermiere ogni assistente sociale, ma sono più di uno, cercando di attribuire una possibilità di mutua regolazione alle attività. Abbiamo anche definito che gli infermieri hanno degli ambiti di autonomia. Gli spazi di autonomia li negoziano con l’assistente sociale e il medico di Medicina Generale rispetto al piano di cura della persona. Ciò che conta è la capacità di coordinare il proprio lavoro quotidiano con gli altri attori, tutti facenti parte dello stesso progetto su quella determinata persona. Per questo non serve né un coordinatore e neppure un dirigente. La mia funzione non è quella di supervisionare i piani che fanno gli infermieri in quanto esiste già una supervisione dell’equipe. La mia è un’attività di tipo gestionale: essere presente nei luoghi politici in cui si fanno le scelte all’interno delle quali gli infermieri dovranno poi trovare la collocazione per il proprio lavoro. È un’attività completamente diversa da quella che storicamente facevo prima. Esiste un coordinatore che si occupa della parte amministrativa della gestione: firmare le ferie, ecc. Queste figure di tipo organizzativo sono ineliminabili. Ma tutto il resto è spalmato su attività di tipo clinico – parlo di clinica infermieristica – come le valutazioni, utilizzando strumenti codificati e validati, l’assistenza alle persone in maniera integrata, l’equipe di specialisti per le patologie come lo stroke piuttosto che la SLA o la sclerosi multipla od il percorso dei pazienti con gravi cerebrolesioni. Vi sono quindi equipe di presa in carico ed è tutto autoregolato. Il coordinamento clinico di queste equipe è in capo a clinici che sono ospedalieri, non c’è un medico territoriale. Sono i meccanismi sociali che portano all’autoregolazione. L’anarchia si riduce in
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questo modo, gestendosi gli spazi di negoziazione professionale da caso a caso, da persona a persona, perché non puoi avere un ente regolatore che soprassiede o supervisiona questo tipo di relazioni così decentrate. Il problema vero è che non abbiamo una formazione specifica su queste figure territoriali. I master sono per il case manager geriatrico. A parte Torino – che ha una storia di infermieristica di famiglia, a Orbassano – il resto d’Italia è povero sotto questo aspetto. Anche l’infermiere di famiglia è visto spesso come un prestatore di una serie di prestazioni: egli stesso ha una limitata visione della rete dei servizi, così come ha una scarsa consapevolezza d’esser realmente la porta di accesso, il gate keeper dell’assistenza all’interno del territorio. Dovremmo quindi riformulare una serie di percorsi formativi con le Università, in vista delle evoluzioni che hanno avuto gli altri Paesi europei in questo senso, rispondendo pienamente almeno a cinque degli obiettivi di salute per tutti nel XXI secolo, così come indica l’OMS, semplicemente formulando diversamente il percorso di formazione degli infermieri che accedono al territorio. Lucia Centillo: Credo che questa esperienza sulla governance ci inviti a riflettere sulla nostra capacità di credere, e credere sempre più, nella capacità di conciliare governo clinico e alleanze per la salute. In estrema sintesi è il messaggio veicolato da Tiziana Lavalle. Ultima, ma non ultima, Marianne Bengtsson Agostino, la quale ha condiviso con noi questa esperienza storica oltre che professionale. Marianne Bengtsson Agostino: Rispondo brevemente alla domanda: sono dipendenti dal Servizio Sanitario Nazionale sia gli infermieri che i medici. Esiste una burocrazia di tipo amministrativo e burocratico. Per quanto riguarda la relazione che si instaura fra l’infermiere e la famiglia, si lavora in un clima di ampio
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confronto fra colleghi. Gli infermieri che svolgono questo lavoro si sentono abbastanza realizzati. Non conosco la cartella clinica nei suoi dettagli. Per quanto riguarda gli infermieri italiani, penso che bisognerebbe fare di più per stimolare gli infermieri che non vogliono cambiare. Sicuramente è un problema. A mio avviso sarebbe opportuno studiare nuovi approcci nelle realtà cliniche: tutti stanno meglio se sono stimolati intellettualmente. Farli pensare, farli leggere, aiutarli a promuovere un aggiornamento più semplice, meno costoso ma efficace. Lucia Centillo: Insomma, investire sulla qualità del lavoro e anche sull’idea della felicità nel lavoro, cosa che fanno molte aziende private. Alla catena di montaggio della Fiat il livello ergonomico applicato a chi deve muovere la schiena è diverso dal nostro. Chi lavora in ospedale o a domicilio spesso deve movimentare dei carichi e nel giro di poco tempo si trova in grosse difficoltà con problemi di idoneità condizionata. Quando facciamo ricerca e quando vogliamo abbattere barriere, aprire porte e costruire percorsi di salute, dobbiamo partire anche da noi stessi. Proviamo quindi a lavorare sulla nostra percezione di qualità del lavoro, di benessere organizzativo e anche di soddisfazione e felicità nel lavoro. Arriveremo anche, chissà, a fare delle gite premio, ma intanto iniziamo a star meglio nelle ore pesanti che dobbiamo passare al lavoro. Vi ringrazio per l’attenzione.
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