fondato e diretto da Carmine Zaccaria
Anno XVII
n° 12 - Dicembre 2010
NAPOLI - MILANO - MINSK - MOSCA
UN PAESE MIGLIORE di Carmine Zaccaria Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano resta il solo punto fermo nello scenario politico e istituzionale italiano. La costituzione di un nuovo soggetto politico, FLI, ha contribuito a complicare le cose immettendo nella scena politica italiana un ulteriore elemento di confusione. Fini doveva pensarci prima a prendere le distanze da Berlusconi, non dopo il voto e il varo di un governo legittimamente eletto dal popolo italiano. Dobbiamo ammettere che è molto imbarazzante vederlo seduto sullo scranno di Presidente della Camera, terza carica dello Stato. Se si indossa la maglia di gara nell’agone politico, bisogna dismettere la giacca e la cravatta delle cariche istituzionali. E tutto questo ci dispiace, Fini era una risorsa importante per il Paese. Queste sono solo analisi oggettive dello scenario di questa Italia in cerca d’identità. Prima o poi il Popolo italiano giudicherà chi ha fatto bene e chi male. Il Presidente Berlusconi ha fatto bene in politica estera e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Siamo ricchi di contratti petroliferi con la Russia che ci garantiscono le risorse energetiche per decenni, e non è poco. Merito anche di Berlusconi. Il Presidente dovrebbe solo guardarsi intorno e liberarsi di alcuni soggetti inadeguati che gli alienano la possibilità di crescita ulteriore, e di scenari più ampi, in quanto schiavi di logiche localistiche. Molte volte l’apparato pescato nelle periferie è inadeguato. Ne riparleremo prossimamente con nomi e cognomi. Poi c’è la sinistra. Quale sinistra? Quella di Di Pietro? Il Partito del Paladino della Legalità che ogni tanto scopre mele marce al suo interno. Di Pietro è un problema minore. Il problema maggiore è quello dei partiti inventati, ne è piena la storia di questo paese. Prendiamo il caso della Lista Dini. Lamberto Dini, Direttore Generale della Banca d’Italia, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro degli Affari Esteri, membro per molto tempo del famigerato Fondo Monetario Internazionale (del termine famigerato ognuno può dare la lettura che vuole) e via a proseguire. Sulle capacità professionali tanto di cap-
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“Mascalzone Latino” sarà il primo sfidante di “Oracle” nella prossima Coppa America
VINCENZO ONORATO “Il mare rappresenta per me una grossa fonte di ricarica e di vita”
di Paolo Montefusco incenzo Onorato è prima di tutto un uomo di mare, di vecchio stampo anche, ovvero di poche parole. Ma di molti fatti. E’ un imprenditore di successo, come da lunga tradizione di famiglia, ma la sfida, la parte sportiva pura, fatta di fatica e determinazione alla vittoria, è ciò che lo appassiona e diverte di più. Anche tutto il resto di quel che ruota intorno all’evento sportivo, sponsorizzazioni, rapporto coi media, è in secondo piano. Il Presidente di Mascalzone Latino, team velico da lui fondato nel 1993, deve alla sua preparazione, alla sua passione e al suo spirito marinaresco i numerosi successi che hanno portato il suo team a diventare uno dei top della vela mondiale. Socio del Reale Yacht Club Canottieri Savoia, ha condotto la città di Napoli e l’Italia intera in due sfide di Coppa America
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(2003-2007) e attualmente è Challenger of Record per la 34ma edizione, ovvero colui che scrive insieme ai detentori le regole della prossima fida. 53 anni, napoletano, Vincenzo Onorato vanta un palmares velico che conta diversi successi tra cui sei vittorie ai Campionati del mondo, altre in diverse classi di competizione, la Sardinia Cup ISAF Offshore Team World Championship (2006) e tanto altro.
All’interno Il libro di Elvira Santacroce Media e sonno della realtà South Stream contro Nabucco Napoli rende omaggio a Schumann Parla Giulio Baffi Il Teatro di Geppy Gleijeses Napoli nei fumetti di De Chiara Il Flamenco di Dominga Andrias
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Nel 2007, a seguito dei numerosi successi ottenuti, è stato nominato Velista dell’anno. Laureato in Economia marittima, Onorato è Presidente di Moby SpA, società leader nei trasporti marittimi. Insieme ad Aponte e a Grimaldi Napoli sta cercando di acquisire la Tirrenia per dare non solo sopravvivenza, ma nuova linfa alla prestigiosa Compagnia di Navigazione nazionale. Sempre con Mascalzone Latino ha fondato, nel 2007, una Scuola di Vela (di cui scriviamo a parte) che ha lo scopo di offrire ai ragazzi di Napoli, soprattutto a quelli più disagiati, una diversa opportunità di vita. A proposito della sua passione velica e dell’avventura di Mascalzone Latino, Onorato ha avuto modo di spiegare che “Quella di Mascalzone Latino è la storia di una passione che mi porto dietro fin da bambino, dai primi bordi nel Golfo di Napoli. Allora non pensavo che avrei condiviso il sogno di navigare su tutti i mari del mondo con migliaia di fans e appassionati. Forse, più dei successi ottenuti, è il cuore, che io e tutti gli uomini e le donne di Mascalzone Latino abbiamo profuso negli anni per lo sport della vela, a renderci popolari e a suscitare tanto affetto e simpatia in tutto il mondo”. Presidente, lei è armatore e skipper. Quale passione è nata prima? L’attività di armatore è un fatto di famiglia. Ma siccome il mare è un elemento di famiglia, sia la vela che la parte imprenditoriale sono nate contemporaneamente. Ha però affermato che il lavoro di armatore di oggi è diverso da quello di suo padre e suo nonno e che si svolge molto da dietro a una scrivania. Il suo libro, “Quando saremo vento sulle onde del mare”, le ha permesso dunque di navigare stando fermo? Direi di no perché poi l’attività sportiva mi riporta puntualmente al mare che è per me una grossa fonte di ricarica e di vita. Ho voluto lasciare ai miei figli la testimonianza di un’epoca, di com’era un tempo l’armamento. Segue a pag. 6
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pello, a livello politico sorge qualche dubbio. Di certo, è stato un Rambo della politica. Ha fatto di tutto senza mai attaccare un manifesto o partecipare a una riunione di partito. Molto comodo, troppo comodo. La Banca d’Italia sforna leader politici a ripetizione, forse è anche una buona scuola quadri di partito? Su questo argomento penso l’Italia abbia passato il segno: a posti di tale responsabilità dovrebbero sedere solo uomini eletti dal popolo sovrano. Diciamo sovrano. Forse le Elezioni Politiche in Italia sono scongiurate, ma siamo certi che, in caso di crisi, ipotesi assurde, come un incarico al Presidente della Banca d’Italia Draghi, non saranno percorribili e il Presidente Giorgio Napolitano di certo non incorrerà in un tale grave errore, in considerazione dell’alto senso dello Stato che lo contraddistingue. Da sempre, ancor prima di ricoprire la più alta carica dello Stato. L’incarico di Presidente del Consiglio dato a banchieri, come avvenuto in passato, è una scelta di supplenza che il popolo italiano non potrebbe tollerare, in particolare nel momento attuale e in considerazione del fatto che deputati eletti nella maggioranza sono passati all’opposizione senza che ci sia stata la verifica del voto democraticamente espresso. A complicare tutto, si aggiunge il fatto che il manipolo di parlamentari è guidato da Gianfranco Fini, Presidente della Camera. Questa Italia, così ridotta, a noi non piace. Non sembra serio tutto quanto sta avvenendo. ***** La Bielorussia ha votato. Il Presidente Aleksandr Lukashenko è stato confermato a pieni voti e la Bielorussia si avvia verso un periodo importante per il suo futuro. Il Paese è in via di costante sviluppo e in un articolo interno riportiamo i dati significativi degli obiettivi raggiunti. I tentativi di destabilizzare il Paese ci sono stati ma ormai le “rivoluzioni colorate” sono solo un ricordo e sotto gli occhi di tutti ci sono i gravi danni provocati da queste false rivoluzioni in Ucraina. Grave è stato il tentativo, da parte di non ben identificate realtà, di assaltare la sede del Parlamento. Un tentativo prontamente respinto dalle forze dell’ordine. Di questo la stampa occi-
dentale ha detto poco, così hanno fatto importanti ministri del nostro paese che, in modo superficiale, hanno trattato l’argomento senza una giusta cognizione di causa. Speriamo che in futuro stampa e politica decidano di affrontare con più serietà argomenti così complessi e di tanta importanza. Lo scenario dei paesi slavo-orientali, Russia, Bielorussia e Ucraina, è molto mutato in questi ultimi tempi e lascia ben sperare per il destino dei popoli di queste nazioni indipendenti, ma unite dalla loro Storia. La scadenza più vicina nel tempo è quella delle elezioni presidenziali nella Federazione Russa che si terranno nel 2012. A quanti ci chiedono quale pensiamo possa essere lo scenario del Cremlino tra due anni rispondiamo, come pubblicato in passato, che il Primo Ministro Vladimir Putin e il Presidente Dmitrij Medvedev sapranno di certo, e di comune accordo, decidere in modo giusto per il bene del Paese. Ospitiamo all’interno, su questo argomento, un contributo interessante di Ivan Marino. Qualche parola vogliamo destinarla, prima degli auguri di fine anno, alle nostre iniziative future. Saremo presenti, oltre che a Napoli, anche a Milano, Minsk e Mosca, come si evince dalla testata in prima pagina, con approfondimenti direttamente sul posto. Avremo presto un Tg Bielorusso che affiancherà il Tg Russo e il Tg Ucraino. Si sente l’esigenza di un Telegiornale Bielorusso in quanto è giusto rafforzare la comunicazione per raccontare di questo paese che ha luoghi di incomparabile bellezza. La collezione Lermontov e la nostra Biblioteca si arricchiscono di preziosi libri e oggetti che la Presidenza del Consiglio della Bielorussia ha voluto donarci in occasione delle festività. Vogliamo ringraziare pubblicamente il Primo Ministro Sergej Sidorskij, e tutto lo staff, per il dono che dà il senso dell’amicizia che ci lega alla Bielorussia. Un augurio a Pavel Pavlovic Borodin, Segretario di Stato dell’Unione dei Paesi di Russia e Bielorussia, al quale ci lega un contratto di collaborazione, non solo giornalistico ma in tutti i campi, che avrà ulteriore impulso nell’anno che sta per iniziare. Agli italiani, nostri concittadini, l’augurio per il 2011 di avere in dono un paese migliore. Le risorse umane ci sono e siamo sicuri che, come sempre, ce la faremo. Alla grande!
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EPISTEME E MERAVIGLIA Oggi si dimentica che il senso primo della filosofia è nel meravigliarsi e che tale passione non può essere giustificata dall’utilità o da un senso di funzionalità di Giuseppe Franza latone afferma che la filosofia nasce dalla meraviglia. Cartesio, nella sua trattazione sulle passioni dell’anima, riflette sul contenuto opposto, condannando la meraviglia che, seppur utile nel farci apprendere e conservare la memoria delle cose, è limite della vera conoscenza: chi si meraviglia smette di pensare, sospendendo nello stupore la meditazione razionale, vincolandosi all’interesse emozionale e determinato dalle cose di poco conto, solo perché nuove, esteriormente prepotenti, eccezionali o infrequenti. Secondo Cartesio il vero sapere deve essere disinteressato e svincolato da qualsiasi scopo marginale, scollegato dal piacere o dal risultato favorevole, perché l’interesse è ragione di contaminazione e di fraintendimento. Tale cesura sembra indicare due prospettive teoretiche completamente opposte. La prima vuole l’essere umano in grado di meravigliarsi e pone in questa capacità la possibilità del più alto sapere, la seconda suggerisce la prudenza e la lucidità della mente, l’assenza di passioni, come assoluta possibilità di scienza (episteme). Più profondamente esse dicono la stessa cosa. La meraviglia di cui parla Platone non è la sorpresa estetica, l’ammirazione (nel verbo admirari, da cui deriva l’italiano meravigliare) che nasce dall’esperienza dell’ignoto o del mirabile, ma thaumazein, che indica appunto il trauma, la forza del puro desiderio di sapere, l’urgenza di una necessità che colpisce l’uomo nella sua libertà di comprendere. La meraviglia nasce dal problema, dalla profondità dell’interrogazione. Non è, quindi, il dominio o il caso dell’inconsueto, dell’anomalo, o dello straordinario a colpire l’essere umano e a stimolare la sua ricerca di senso, ma il problema in sé: anche in ciò che affrontiamo quotidianamente, che diamo per scontato (nell’opinione e nella credenza che è doxa) si cela il trauma, il problema di cui meravigliarsi. Così il filosofo non accetta passivamente le disposizioni e le conformità in cui e di cui vive, ma le critica e le analizza fino all’abisso del fondamento o dell’incapacità di fondamento. Nell’opinione, un semino di basilico che cresce e diventa un piantina profumata ci lascia perfettamente indifferenti, perché è qualcosa di scontato, a cui siamo abituati o di cui siamo consapevoli. Ciò che avviene al semino, la disponibilità di questo evento, è avvertita con la sicurezza dei limiti e delle garanzie del senso comune e delle spiegazioni scientifiche. Per la prospettiva filosofica questo evento, invece, chiama in gioco un’infinita schiera di domande convulse e travolgenti, di interrogativi epocali sul perché sia nata, sul cosa significhi nascere (cosa sia l’esi-
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stere e poi non esistere, essere o non essere), sulla ragione del divenire, sul senso e sul valore della sua specificità, della sua relatività e della sua funzionalità nel mondo e in se stessa. Queste domande, a cui la doxa rinuncia per indifferenza o incapacità di comprensione e di risposta, appartengono alla filosofia puramente, al di là della possibilità di averne o possederne risposta. La meraviglia spinge, quindi, a interrogarsi fino all’inquietudine e alla disperazione. Lo sviluppo dell’interrogazione avvicina l’uomo al problema, alla coscienza del problema e l’esito positivo o negativo di questa ricerca è totalmente irrilevante rispetto all’urgenza o alla possibilità stessa di formulare tali riflessioni. Il mondo attuale non vuole in nessun modo accettare questa possibilità di disperazione (critica o consapevole disperazione) e preferisce credere e sperare. Per questo assolutizza nella tecnica, nel calcolo, nella ragione scientifica, nella conformità, nell’opinione, nel potere, nell’avere e nell’organizzazione sociale i contenuti delle disponibilità a cui si vuole credere, dai quali pretende sicurezza. Una filosofia che interviene con la sua meraviglia a scorgere aporie e problemi, chiedendo ragioni più profonde, pensieri meno vili, è per questo quanto di più disprezzabile si possa immaginare. Un tempo i suoi interrogativi assoluti crearono idee o principi di sistemazione o di ordinazione della realtà a cui era facile aggrapparsi, anche senza coglierne il senso profondo. Oggi, con il suo atteggiamento “debole”, ossia incapace di fondare e determinare assoluti metafisici, trascendenti, trascendentali, epistemologici e morali dalle tangibili implicazioni pratiche, non fa altro che ostentare il suo carattere più fastidioso e distruttivo, il suo mettere in difficoltà e domandare senza rispondere, ed è per questo messa da parte, svilita o asservita. In realtà non si ricorda che il senso primo (e principe) della filosofia è proprio nel meravigliarsi e che tale passione non può essere giustificata o suggerita dall’utilità o dalla funzionalità del suo atto. Esiste l’atteggiamento filosofico perché esiste il pensiero, nonostante la tradizione costruttivamente filosofica sia giunta all’auto-negazione, al nichilismo e alla morte di dio (la fine dell’essere e della metafisica secondo Heidegger). Essa sopravvive, più o meno implicitamente, nel limite e nel confronto della doxa, nel contenuto esistenziale extra-scientifico (e, quindi, relativo al potere e al senso del progresso scientifico in cui è dato il nostro vivere e pensare), come capacità di sapersi meravigliare. Non stupirsi o illudersi, ma meravigliarsi: avere voglia, necessità e genio di domandare e domandarsi ancora.
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UN PAESE...
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Un ritratto di Cartesio e un busto raffigurante Platone
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UNA STORIA DI ORDINARIA MENZOGNA L’ultimo romanzo di Elvira Santacroce, “Il mare della menzogna”, narra di una felicità coniugale tradita da un uomo grazie anche ai canoni sociali degli anni ‘50
di Anna Montefusco a vivacità intellettuale di Elvira Santacroce sembra davvero non subire il tempo. Questa splendida e garbata signora ha trascorso metà della sua vita a trattenere in bozza ciò che avrebbe sviluppato in un età non più tenera. L’ultimo risultato di questa “tardiva” evoluzione si chiama “Il mare della menzogna”, un libro bello e interessante che ci riporta indietro di qualche decennio. Esattamente agli anni Cinquanta, anni che hanno riguardato la sua stessa gioventù. Abbiamo raggiunto la scrittrice a casa sua dove tra mucchi di libri sparsi un po’ ovunque e tanti quadri da lei personalmente dipinti, si è svolta un’amabile chiacchierata in un clima decisamente retrò. Elvira, perché ha scelto di raccontare proprio questo tipo di storia? Non c’è un motivo preciso. Ho iniziato a scrivere solamente un racconto che finiva al secondo capitolo. Poi, ripescando tra le cose vecchie, l’ho riletto e ho pensato che si prestava a essere ampliato e a diventare romanzo. Ho iniziato quindi lentamente a scolpire i personaggi fino a quando non sono stati loro a venire da me e a fare cose che io non avrei mai fatto fare loro. In questo racconto è riconoscibile l’ambiente della provincia, della buona borghesia, quella che tutto tace e tutto copre. Che era poi l’ambiente di noi ragazze dell’epoca. Quindi, tornando alla domanda, più ancora della storia mi piaceva descrivere un ambiente che conoscevo bene. Rifacendoci al suo racconto, oggi l’uomo non ha più strumenti sociali per sottomettere la donna usandole violenza psicologica. Rimane però la violenza fisica, sicuramente in aumento rispetto a prima. Cosa ne pensa? Credo che in un certo senso la donna oggi stia peggio di prima. Una volta, ai miei tempi per esempio, la donna faceva la signora di casa e tutti si accontentavano di questo suo ruolo. Oggi lavora, cosa giustissima, per carità, ma comunque è tempo che toglie a se stessa perché in realtà poi continua a fare tutto il resto. Le donne della mia epoca avevano un’altra difficoltà. Nel senso che le ragazze degli anni cinquanta, quelle che vivevano in contesti sociali borghesi e con famiglie piuttosto antiquate come la mia, venivano educate secondo alcuni criteri ottocenteschi. Ci facevano studiare e questo era un vantaggio non da poco per quei tempi. Ma c’era un enorme contrasto in queste famiglie in quanto, mentre attraverso gli studi c’era questa tensione verso un avvenire, verso un progresso, nello stesso tempo c’era questa educazione rigida e borghese che ci ingabbiava imponendoci i suoi ritmi senza che potessimo mai sgarrare. Li sentiva stretti addosso questi ritmi? Devo dire che non mi è mancato niente, compreso il divertimento. Solo che il tutto si svolgeva in casa, sotto un certo controllo. Non sono mancati i balli, le amicizie la musica alla radio da ascoltare tutti insieme. Ma tutto ciò doveva rientrare in un certo disegno: noi figli eravamo su di un piedistallo ma un piedistallo, appunto, controllato. Personalmente sono stata fortunata e conservo ancora una grande nostalgia per la mia famiglia e per la mia casa di allora. Durante la narrazione, in alcuni passaggi, si passa dalla terza alla prima persona. Come mai? Questo è un modo di scrivere che ha un nome preciso che adesso non ricordo, ma che ho adoperato in altri miei scritti. Vede, quando il racconto incalza, è come se il personaggio prendesse il sopravvento sullo scrittore e volesse essere lui stesso a parlare. Non è un fatto che riguarda lo scrittore, riguarda il personaggio che irrompe nel rigo. Non so se questa cosa piaccia ai lettori o ai
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critici, a me piace molto. Un’altra cosa che si nota è l’assenza dei nomi propri dei protagonisti. Perché? Perché mi interessava parlare di una coppia tipo. Volevo dimostrare come un matrimonio sballato può distruggere la vita di due persone. Le può incattivire. C’è chi da queste esperienze negative riesce a trarre qualcosa di positivo, a realizzare se stesso in un altro modo. E c’è chi invece si lascia distruggere. Ho conosciuto tante coppie così. A un certo punto, la protagonista trova la forza morale per tradire il marito. Cosa impedisce alla donna di proseguire in questo slancio? Intanto non è innamorata di questo amante. La sua è una specie di vendetta. Poi rientra nei ranghi ma non per una questione morale rivolta agli altri. Lo fa per rispetto verso se stessa, quel rispetto che nessuno le dava e che lei sente di doversi dare. L’unico rammarico è quello di non essere stata sorpresa dal marito perché era un’offesa che avrebbe voluto procurargli. Non dimentichiamo che le era stata indirizzata una frase orribile, che lei non dimenticherà mai più e che riassumeva tutta la grettezza e tutta la crudeltà del marito. Alla luce di ciò che si scoprirà in seguito, quella frase fu di una cattiveria assolutamente gratuita. Nel finale della storia, quanto c’entra il destino e quanto la volontà della protagonista? Ho preferito lasciare un dubbio sulla reale responsabilità di questa donna rispetto a ciò che accade nel finale. E’ innegabile che manca la premeditazione nell’azione finale, ma è anche vero che lei non fa nulla per porvi rimedio e lascia fare al destino. Forse c’è una sorta di corresponsabilità con il fato, ma ho preferito non chiarirlo perché si lasciasse aperta ogni ipotesi.
Elvira Santacroce in un ritratto dipinto da sua madre
A chi dedica questo libro? E’ l’unico libro che non ho dedicato a nessuno, forse perché è un po’ cattivello. Come facevo a dedicarlo a qualcuno? Lei ha descritto un rapporto di coppia come poteva essere negli anni Cinquanta. Cosa vede nelle coppie di oggi? Naturalmente conosco le coppie di oggi attraverso i miei figli. Dunque vedo degli ottimi rapporti di coppia. Quello che mi piace, e che mancava ai miei tempi, è questa condivisione, questa colleganza. L’uomo di prima si manteneva sempre un po’ distante dalle donne, aveva un mondo suo dal quale spesso le donne rimanevano fuori. Raccontava poco di sé e del suo lavoro. Oggi noto che si parla di più e di tutto tra marito e moglie e questa cosa la apprezzo molto. Come sono stati i suoi anni Cinquanta? Cosa ha perSegue a pag. 4
il libro IL MARE DELLA MENZOGNA - Elvira Santacroce - Dante e Descartes 2010 di Anna Montefusco Elvira Santacroce ha ambientato il suo ultimo romanzo negli anni cinquanta, sullo sfondo di una tranquilla provincia del sud benestante e borghese. E’ la storia di un sogno infranto da una promessa disattesa. Comincia con un passaggio di consegne da una famiglia di appartenenza a una famiglia da formare, da costruire giorno dopo giorno puntellando le fondamenta con amore e abnegazione. Succede però che la giovane e speranzosa sposa, una volta entrata nella sua nuova casa, avverta da subito lo scricchiolio delle prime crepe. Succede perché il suo brillante sposo ha da subito marcato il territorio delineando con arrogante precisione i confini da non oltrepassare. Da fidanzato premuroso a marito padrone: un’investitura ricevuta sul campo, come spesso accadeva in quegli anni. Allenata alla resistenza, oltre che alla pazienza, da una buona educazione, la neo sposa si affannerà ad arginare le falle, giustificando ogni volta con patetica caparbietà le offese ricevute dal marito. Fino a quando non ne avrà misura colma, dopo una frase che questi le indirizza, la più subdola che potesse concepire, e che farà da cassa di risonanza per una definitiva presa di coscienza. Ci sarà ancora posto per l’inganno maggiore, per la bugia più vergognosa e devastante. Poi sarà vita che si trascina nel baratro della solitudine. E anche quando sarà ridotto su di una sedia a rotelle, a causa di un incidente, l’uomo continuerà a esercitare i “propri” diritti, con il valore aggiunto di una buona dose di sadismo a bilanciare l’invalidità. Eppure, qualcosa di profondamente radicato impedirà alla donna di sottrarsi a questa condizione di sottomissione fisica e psicologica. Consapevole soprattutto che l’intera comunità la metterebbe alla gogna se smettesse il suo ruolo di moglie infermiera: infelice, senza dubbio, ma meritevole di rispettosa commiserazione. Risuonano ancora le parole del sacerdote, il giorno del suo matrimonio: “uniti nella buona e nella cattiva sorte”... Resta l’odio ad alimentare pensieri che non si faranno mai parole, a farsi spinta per una carrozzella che traccia una Via Crucis da doppiare ogni giorno. E resta il destino che presta l’occasione perché quel mare di menzogne possa trasformarsi in una marea che tutto inghiotte e trascina in un vortice.... Un racconto che prende, che si legge con passione, la stessa che deve aver mosso l’animo e la memoria di questa splendida scrittrice cavese che ha sicuramente attinto ai suoi ricordi personali, a quella sua provincia che somiglia a tante altre province di quegli anni. Ricamandoci poi sopra una bella storia che assomiglia a tante storie vere.
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STRADE AGGRAPPATE ALLA CITTA’ Un volume con oltre 300 foto di scale di Napoli, curato da Giovanni Leone e Cesare Purini, suggerisce un cammino nel corpo e nell’anima della città rivolto verso l’alto
di Anna Montefusco Lunedì 6 dicembre presso il suggestivo atelier di Lello Esposito, a Napoli, è stato presentato un preziosissimo volume di fotografie che mostrano i tanti percorsi in salita della città. L’occhio del fotografo Cesare Purini si è sapientemente posato su questi percorsi verticali immortalandoli con straordinari scatti. La penna e la passione di Giovanni Leone, giornalista e scrittore, hanno accompagnato le immagini con notizie che vanno oltre il dato storico e topografico, rivelandosi commenti dell’anima. Presenti all’evento, oltre a Leone e a Purini, l’editore Rosario Bianco e i due relatori: il professor Benedetto Gravagnuolo e l’architetto Paola Bovier. E’ lo stesso Giovanni Leone a illustrarci lo spirito di un lavoro faticoso che regala ai napoletani uno sguardo alla propria città rivolto verso l’alto. La curiosità immediata, sfogliando il libro, è sul tempo impiegato a completare un lavoro così voluminoso e impegnativo. Come si è svolto il lavoro? Dopo la selezione dei tantissimi scatti effettuati da Cesare Purini, dovevamo trovare il modo giusto per dare risalto alle immagini degli storici percorsi napoletani. Insieme all’art director della Rogiosi, Attilio Sommella, abbiamo affrontato l’argomento quartiere per quartiere, ipotizzando una prima stesura grafica. Poi mi sono messo al lavoro per la realizzazione del saggio introduttivo. Poche pagine che hanno però richiesto molti mesi di ricerche. Qual è l’aspetto di questo lavoro che ti interessava maggiormente approfondire: storico, antropologico, architettonico, sociale o altro? È stato un lavoro complesso, durato circa due anni. Una sfida che vedeva coinvolti tanti percorsi: da quello storico a quello antropologico, dall’urbanistico al sociale. Come ho avuto modo di scrivere, le scale di Napoli rappresentano un patrimonio senza eguali. Tagliano il territorio, si abbarbicano ai costoni, alla roccia, al sentire. Diventano cantastorie e guide, ma anche segno di trascuratezza e abbandono. Nei loro percorsi, le gradinate, i gradoni, i gradini, le pedamentine, soffiano narrazioni,
lampi di esistenza, folgori d’intuizione. Mescolano l’alto e il basso, il cielo e la terra, il soprannaturale e la quotidianità. Mostrarle è come porre la città dinanzi a uno specchio. La scala è da sempre stata utilizzata per raffigurare il processo di sviluppo dell’uomo, l’ascesa graduale nell’individuazione del proprio essere. In breve, questo volume mostra alla città ciò che questi sentieri hanno rappresentato. Gradini che meritano maggior rispetto. Un fotografo e un giornalista sulle tracce di un percorso “verticale” della città. Come si sono incontrati questi due sguardi? A dire il vero gli sguardi sono tre. È stato l’editore, Rosario Bianco, a farci incontrare. Gli scatti di Cesare cercavano un filo conduttore, parole che potessero abbracciare il progetto e raccontarlo, completarlo. Ho aderito con entusiasmo all’idea. Immagini e frasi per raccontare Napoli: un sodalizio che trovo potente. Come si guardano tra loro la Napoli di sopra e quella di sotto? Si guardano con la coscienza del cammino, della fatica, del voler risalire o discendere, lungo i crinali della conoscenza, della comunione d’intenti. Procedere per avvicinarsi, con sapiente lentezza e rispetto antico, quello dovuto al tempo. Come granelli all’interno di una clessidra, i gradini procedono nel racconto. E la magia consiste nel poter ribaltare e dare inizio a una nuova emozione. Quali “dimensioni parallele” si scoprono percorrendo le scale di Napoli? Si riscopre la voglia di voler bene a questa città, nonostante tutto e tutti. Si percorrono i gradini di Napoli e si assapora la possibilità di ascendere, percorso dell’anima, ma, avvolti dalla nostalgia, anche l’opportunità di ritornare in quella vocazione popolana, sgolante e peccaminosa. Le dimensioni parallele sono tante, tutte racchiuse in un unico scrigno: il proprio sguardo che spazia lungo il percorso. In salita o discesa, non ha importanza, quello che conta è come si respira il cammino. In alto a destra la copertina del libro di Giovanni Leone e Cesare Purini. Qui a fianco, la Pedamentina
ELVIRA SANTACROCE Segue da pag. 3
cepito della provincia descritta nel romanzo? Intanto c’era una divisione di classe netta. Ma c’era nel contempo una possibilità di evoluzione molto positiva. Nel senso che le persone che andavano a scuola e si laureavano avevano la certezza di un futuro tranquillo. Si poteva quindi cambiare status sociale e migliorare concretamente. Oggi, purtroppo, non è così e chi si laurea è costretto ad arrampicarsi sugli specchi per farsi strada, chi ci riesce è fortunato. Stiamo vivendo un’epoca in cui tutte le possibilità sono aperte ma è difficile entrarci, mentre prima non tutte le possibilità erano disponibili ma, nel momento in cui tu avevi rotto gli indugi ed eri entrato, eri sicuro. Sicurezza che oggi manca del tutto. Scrittrice, poetessa, pubblicista, editrice, pittrice, grafica. Per dirla alla maniera biblica: in principio cosa fu?
Potrei rispondere niente, come niente sono adesso. Sono scrittrice nel senso che prendo la penna e scrivo, come fanno in tanti. Uno scrittore vero si vede negli anni, laddove la sua scrittura resiste. Ai miei figli dico sempre che lo sapranno loro se sono stata una scrittrice. Pittrice invece lo sono per gioia, per divertimento. Cominciai per scherzo, poi però ho anche preso lezioni. In verità le prime lezioni le presi quando ero una ragazzina da mia madre, lei sì valente pittrice. A un certo punto però mia madre mi consigliò di smettere dicendomi che la mia arte era quella di scrivere non quella di dipingere. Non so come abbia fatto a capirlo allora e comunque non era l’unica cosa che aveva capito. Lei capiva sempre tutto. In seguito, e per un bel pezzo, ho fatto solo la madre, scrivendo di nascosto. Sono uscita allo scoperto solo recentemente. Se dovesse immaginare le scene del suo
libro, le piacerebbe vederle come fotogrammi di film o come quadri? Strana come domanda, non ci avevo mai pensato. Certo, ho curato l’illustrazione di alcuni libri, ma adesso che mi ci fa pensare non mi dispiacerebbe ipotizzare un film tratto dal mio libro. Bisognerebbe stare attenti a non trasformarlo in un film osè e trattare con il giusto garbo le pagine più piccanti. Anche perché non c’è morbosità in quelle pagine, ma solo la necessità di rimarcare alcune situazioni. E comunque, visto che ci siamo e stiamo lavorando di fantasia, mi piacerebbe Michele Placido per il protagonista maschile. E la protagonista femminile? Ho da poco apprezzato Mariangela Melato in “Filumena Marturano”. E’ un’attrice di grande temperamento e ha dimostrato di poter interpretare qualsiasi ruolo. Domanda di rito e di...chiusura: cosa sta leggendo? Sto rileggendo Verga, esattamente “Giacinta”. Ma devo dire che non mi sta entusiasmando. Di scrittura più recente
sto invece leggendo “Malamore”, di Concita De Gregorio che trovo interessante come tema e originale nello stile.
La copertina del libro
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GLADIATORI MEDIATICI E SONNO DELLA REALTA’ La confusione culturale e sociale di oggi tende a consolidare in un unico magma realtà e rappresentazione, fino a trasformare la politica in un rito spettacolare continuo di infimo livello. di Salvatore Casaburi a società dello spettacolo ricorda il paradosso meccanico della macchina che riproduce se stessa. Quest’ultima, annullando il concetto stesso della produzione come “produzione tesa alla produzione materiale” e alla “produzione/soddisfazione di bisogni”, dà luogo a un non-senso tecnologico ed economico. Una macchina che riproduce all’infinito se stessa ha in sé, e solo in sé, la ragione della sua funzione perché non ha “fuori di sé”, cioè nell’oggetto della produzione stessa, altra ragione di essere. Un po’ come avviene nella “tridimensionalità-bidimensionale” visionaria di Maurits Cornelis Escher o in certe installazioni cinetiche con le quali l’arte contemporanea ha demolito il mito positivistico del “progresso come macchinismo”. La società dello spettacolo ha ribaltato il tradizionale rapporto tra “reale” e “rappresentato”, fino al punto di inserire se stessa in una “unicità storica” che di autenticamente storico ha poco o nulla. In fondo, a pensarci bene, anche quello della unicità della “società dello spettacolo” appartiene alle “grandi rappresentazioni mediatiche” del nostro tempo. Ebbe proprie caratteristiche di spettacolarità il mondo antico, con la sontuosità delle architetture e la teatralità dei riti collettivi, dalla civiltà egizia fino a quella micenea o ellenistica. Il dominio imperiale romano si basò sulla teatralità della vita quotidiana, come dimostrano i suoi impianti urbani e non soltanto i giganteschi luoghi ufficialmente deputati agli spettacoli. Furono spettacolari le civiltà precolombiane. Nel Medio Evo, poi, la Chiesa fece ricorso alla spettacolarizzazione del mistero della morte, riempiendo di dannati e demoni le chiese romaniche e gotiche d’Europa, in cui i fedeli erano, con i celebranti, attori e pubblico. Non viene “spettacolarizzato” tale mistero, allo stesso modo, anche nel nostro tempo? La Controriforma Tridentina ebbe bisogno di spettacolarizzare il potere religioso e lo stesso concetto di Dio, fino a trasformare altari e navate in veri e
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propri spazi teatrali dove, quotidianamente, si rappresentavano la commedia a lieto fine del Paradiso e la inevitabile tragedia senza ritorno dell’Inferno. Fecero altrettanto i re-taumaturghi e i sovrani assoluti per sancire l’unicità divina, e quindi indiscutibile, del loro potere. Ricorsero a grandi scenografie e coreografie di massa i totalitarismi del ventesimo secolo. “Il grande dittatore” di Charles Chaplin e “1984” di George Orwell costituiscono sintesi narrative sublimi dei meccanismi perversi che sono alla base di ogni dominio propagandistico/mediatico. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi, anche se tutto deve sembrare “nuovo” per meglio attirare l’attenzione dei creduloni abbagliati dalla “arcaica modernità”. La “società dello spettacolo” contemporanea, di conseguenza, celebra la sua “unicità” per meglio celebrare se stessa. In tal modo preclude ogni via di fuga a chi voglia rimettere la “realtà capovolta” sui suoi piedi. In poche parole: se tutti siamo “dentro” la società dello spettacolo e ne siamo sussunti, ciò vuol dire che non c’è salvezza al di fuori, perché il “fuori” non esiste. Altro che “modernità”. A tal fine, per chi ha il controllo dei “media”, c’è bisogno di sostenere che l’unica
realtà possibile è quella “rappresentata” e che ogni altra cosa è pura illusione, perciò immagine fantasmatica e inesistente del nostro pensiero. Come dire: se non accettate ciò che il potere rende manifesto, vuol dire che non ci state con la testa, perciò meritate compatimento e, nei casi più estremi, la punizione alla quale il pensiero non omologato è destinato. Accadde anche a Giordano Bruno e a Baruch Spinoza, portatori di autentica modernità nel loro tempo. Accade ancora a chi, nel mondo contemporaneo, si sottrae al conformismo politico e culturale, spezzando l’incantesimo della rappresentazione. Bisogna demolire, perciò, il mito postmoderno della “società dello spettacolo”, per dare nuovamente spazio al concetto che vede la contemporaneità, come già accaduto altre volte nella storia, vittima di una vera e propria “anestesia del reale” della quale sono molteplici i responsabili, primo fra tutti il sistema di potere con le sue logiche di dominio. La teoria elaborata nei primi anni Sessanta dal francese Guy Debord merita, perciò, la necessaria revisione che ne impedisca la trasformazione in stereotipo concettuale incapace di misurarsi con il presente e con la storia. La rapida
Guy Debord e George Orwell
riduzione a schemi preconfezionati è il vero male del pensiero contemporaneo. Esso viene ridotto, così, a moda o ad accademismo conservatore. Se da una parte si esalta il concetto di “velocità” e di “liquidità” del nostro tempo, dall’altra non si riesce (o non si vuole) accettare la necessità di sottoporre a revisione, con altrettanta “velocità”, anche ciò che appare elemento di novità. Questa “pigrizia” deriva dalla consolidata abitudine degli ambienti accademici di “musealizzare” le idee, in mancanza di altre sedi che consentano “la libera concorrenza del pensiero”. Ciò avviene, in particolare, nei paesi dove “il mercato della riflessione e dell’elaborazione” è maggiormente soggetto ad escludenti logiche “monopolistiche”, a causa di “un’economia politica della mente” poco attenta al principio della competizione. Non a caso, Adam Smith pose questo principio a fondamento della sua teoria economica. Il problema, quindi, non è lo spettacolo, ma la confusione culturale e sociale che tende a consolidare in un unico magma realtà e rappresentazione, fino a trasformare la politica, che della realtà dovrebbe essere forza motrice collettiva, in un rito spettacolare continuo di infimo livello. Di conseguenza, si assiste al paradosso per il quale scrittori e artisti devono assumersi l’onere di incidere sul reale, mentre i politici si trasformano in guitti, continuamente ossessionati dalla necessità di “incantare” il pubblico. Il pubblico, a sua volta, accetta di entrare nel frullino mediatico/spettacolare per ridursi a folla di gladiatori pronti al sacrificio estremo del pudore. Integerrimi impiegati, esemplari madri di famiglia, fanciulle in fiore, ragazzotti tonici, signori ormai nella senilità, fanno la coda per entrare nell’Eden mediatico dell’eterna rappresentazione, desiderosi unicamente di mostrare in modo osceno sentimenti e corpi. Recenti cronache mi hanno sospinto a rivisitare la storia del Libertinismo. Dal sedicesimo secolo esso diede impulso al superamento dei peggiori dogmatismi che si erano stratificati nei secoli precedenti, fino a confluire in quella che sarebbe poi stata la grande stagione dell’Illuminismo. Pensatori come Pierre Gassendi, Miguel de Molinos, Pierre Bayle, seppero scrollarsi di dosso le incrostazioni che avevano impedito al libero pensiero di esprimersi. Ma quello era, sia ben chiaro, il “Libertinismo erudito” e la libertà che esso rivendicava riguardava la mente pensante. Oggi i nuovi “libertini mediatici” si accompagnano non a dotti frequentatori di salotti letterari, ma a personaggi di infimo ordine, dediti più ai postriboli che alle biblioteche.
Archeologia della letteratura a cura di Calais Borea
I brani qui pubblicati sono tratti dal volume “Napoli russa” edito da SANDRO TETI EDITORE nel 2005 Mstislav V. Dobuznskij - In viaggio verso Napoli (1911) Napoli si avvicina: già ci è apparso il Vesuvio, in lontananza, ma è stato subito inghiottito da una coltre di nubi temporalesche. Balenano alti coni di biche di paglia e pini di un’altezza straordinaria; l’uva sulle viti forma grandi cortine verdi. La città non si vede ancora, ma la sua vicinanza si avverte come un’inquietudine diffusa. Il treno accelera nervoso e arriviamo in una stazione fumosa e rimbombante. Si sente il Sud: le palme sulla piazza, le file di balconi sui muri lisci delle case, ricorda moltissimo la Spagna. Dalla porta spalancata di un negozio vedo nell’interno il commesso che, in piedi sul banco, srotola una lunga pezza di stoffa. E’ probabile che un tempo qui i mercanti orientali srotolassero così le loro sete davanti alle dame del Rinascimento. Percorriamo vie lunghe e monotone, lastricate di grosse pietre e piene di una folla rumorosa. Superiamo un vecchio castello nero e il colonnato di “San Francesco di Paola”, che mi sorprende per la sua somiglianza con la cattedrale di Nostra Signora di Kazan, poi oltrepassiamo le porte del Real Palazzo con i cavalli del Klodt; attraversiamo tutta la città e la nostra carrozza si arrampica per una strada che sale a zigzag verso un gruppo di case aggrappate alla montagna. Ci fermiamo lì, in alto, da dove si vede tutto il mare. Fedele alla mia passione, la sera stessa scendo in città per perdermi in queste vie sconosciute. Il temporale però mi trattiene e arrivo soltanto fino al lungomare deserto, senza riuscire a distogliermi dallo spettacolo fantastico dei nastri rosa dei fulmini che volano contro la gigantesa nube cinerea - violetta che si alza con minacciosa lentezza sul mare calmo. Mi attirano i vicoletti che salgono e scendono ai lati della borghese e impersonale “via Roma” ex “via Toledo”. Queste
scale di pietra simili a corridoi sono tutte coperte dai fili della biancheria stesa ad asciugare attraverso le strade, che forma quasi delle ghirlande sopra le teste dei passanti, con un effetto festoso di bandiere. Bambini poveri, chiassosi, riempiono di grida i cortili dei vecchi palazzi dalle magnifiche porte, palazzi di un’architettura meravigliosa, stretti in questi vicoli che adesso sono diventati l’alloggio di una folla di poveretti. Ed è nelle strade che si svolge la vita domestica, è qui che cucinano, mangiano, è qui che addirittra dormono con i loro letti, come se le case avessero espulso quella parte di abitanti che non potevano contenere. E tutti gridano, cantano, fischiano, imprecano, si danno da fare, corrono di qua e di là, oppure se ne stanno pigramente seduti sulle soglie delle loro case. In tutto si avverte il “sud” e, dovunque, ti colpiscono i contrasti più stupefacenti! Sil’vestr Scedrin - Lettere dall’Italia (1819) Napoli, vista dall’alto, appare allo straniero come una città distrutta, perchè tutte le case sono senza tetto e assomigliano perfettamente a quelle casupole che i bambini costruiscono con le carte. La città è straordinariamente estesa, e la posizione è delle più incantevoli, ma non esiste alcun edificio principale come in tutte le altre città italiane, di quelli che riassumono la città e incatenano l’occhio del visitatore, rendendo più vivida l’impressione e la registrazione nella memoria. Essa si distingue invece per il rumore, e non è certo strano: la città è tra le più popolose d’Europa e, soprattutto, è piena di italiani, un popolo che va da un estremo all’altro: o grida a squarciagola o si spiega a gesti.
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VINCENZO ONORATO Segue da pag. 1
La storia che racconta copre un lunghissimo arco di tempo. Quale parte del libro è più autobiografica? Lo sono un po’ tutti i racconti e non lo è nessuno. Non c’è un arco temporale dove questo elemento è più presente. E poi non c’è autore che non scriva libri autobiogafici, tutti i libri lo sono. Anni fa Cino Ricci ci disse che navigare aiuta a capire la natura attraverso una filosofia diversa da quella di chi sta sulla terraferma. E’ d’accordo? Beh sì, questo è assolutamente vero. Vale non solo per la natura, ma per la vita in generale. Spesso un uomo di mare è persona schiva, di poche parole. Qual è il suo rapporto coi media? Neutrale. Oggi il rapporto con i media ha iniziato a far parte della nostra vita mostrandoci anche la vita degli altri. Molte persone ricercano il rapporto coi media in maniera spasmodica. E’ una componente della civiltà contemporanea. Tutto qua. La vela è sicuramente una disciplina per veri sportivi, ma è ancora libera dalla pressione dei grandi interessi di cui soffre, per esempio, uno sport come il calcio? Ai grandi livelli no. Quando parliamo di Coppa America la vela è come gli altri sport che muovo grandi interessi. Vi preparate ad affrontare la prossima Coppa America. E’ soddisfatto dell’esperienza accumulata dal suo team in questi anni proprio nella Coppa? Si, ma credo che si possa sempre migliorare. Per quanto riguarda invece la Louis Vuitton Trophy, è soddisfatto dei risultati di quest’anno?
Onestamente no, però le ripeto: io per forma mentis miro sempre all’eccellenza, per cui vorrei che si potesse vincere sempre. Francamente, un risultato diverso non rientra nel mio dna di sportivo. Nella prossima edizione della Coppa America “Mascalzone Latino” sarà Challenger of Record, ovvero primo sfidante. Vuole spiegarci meglio cosa vuol dire? Significa che nella Coppa America le regole vengono scritte in due: dal difensore, cioè da colui che detiene la Coppa, in questo caso il team Oracle, e da un team scelto tra gli sfidanti. In questo caso è stato scelto Mascalzone Latino. Essere stati scelti è motivo di grande soddisfazione. Certo, ma soprattutto di grande impegno e responsabilità. Con una bellissima battuta lei ha spiegato che aver lasciato a sua moglie la presidenza del team è stata una “furbata”. La realtà è che preferisco molto di più la parte sportiva, la parte del mare. Quella mediatica, delle sponsorizzazioni e tutto quello che c’è intorno all’evento sportivo non è poi
UN’OCCASIONE PER LA NOSTRA CITTA’ La Scuola di Vela di “Mascalzone Latino”, ideata dal Patron Vincenzo Onorato, vuole offrire una prospettiva di crescita ai ragazzi di Napoli. La nuova sede a Via Acton a convinzione ferma che la risposta ai mali di Napoli possa venire anche dal mare. E’ questo che ha spinto Vincenzo Onorato a fondare una Scuola di Vela per ragazzi, l’idea che il mare debba rappresentare, per la città di Partenope, la prima fonte di ricchezza insieme alla cultura. E per questo offrire ai ragazzi meno fortunati la possibilità di un percoso formativo che faccia conoscere loro una realtà diversa. Il concetto alla base della nascita della Scuola velica, le sue propsettive, la sua organizzazione e la sua operatività, sono illustrate molto bene sul sito di Mascalzone Latino che racconta la giornata inaugurale della nuova sede napoletana avvenuta a settembre. La città di Napoli - è scritto - è ben altro rispetto agli stereotipi che restituiscono le cronache locali: è un capoluogo di grande prestigio artistico e culturale, di storia, luce e soprattutto di mare. E proprio dal mare arriva un’opportunità unica, che rappresenta una forte volontà di cambiamento e offre una prospettiva di crescita per i giovani. «Io credo che una risposta sul futuro dei giovani di Napoli possa venire dal mare», sostiene da sempre Vincenzo Onorato, Patron di Mascalzone Latino. Proprio da questa sua convinzione è nata, nel 2007, la scuola di vela - e di vita - Mascalzone Latino, riservata ai giovani tra gli 8 e i 16 anni, con un’attenzione particolare alle fasce sociali più disagiate che, grazie ai risultati conseguiti e alla sua vocazione formativa, ha recentemente ottenuto il patrocinio del Ministero della Gioventù. La scuola di Vela offre corsi assolutamente gratuiti ai ragazzi delle fasce meno abbienti dei quartieri disagiati di Napoli. Il percorso messo a disposizione alterna tre fasi: la prima educativa, offrendo un luogo stabile di ritrovo e scambio. La seconda, formativa, attraverso la quale gli allievi partecipano alle attività sia in aula che in mare, in
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un dialogo diretto con gli istruttori che alternano momenti teorici alla pratica sulle imbarcazioni. La terza fase è un vero e proprio inserimento nel mondo del lavoro, con la possibilità di trasformare una passione in professione, attraverso stage organizzati da Mascalzone Latino nei settori della comunicazione, della nautica, della navigazione commerciale, etc. Anima e corpo di questa lodevole iniziativa è appunto Vincenzo Onorato, Presidente di Moby e di Mascalzone Latino - il team velico da lui fondato nel 2003 - che, oltre a essere lui stesso un regatante e a gestire in prima persona la Compagnia di navigazione, ha saputo creare con passione e spirito marinaresco un’alternativa concreta al disagio sociale di cui troppo spesso i giovani sono vittima. «Nel 2007 abbiamo dato vita a questa scuola», ricorda Onorato. «Il mio desiderio era - ed è tutt’ora quello di condividere la passione per il mare con i giovani di questa città e con chi è meno fortunato. Il nostro obiet-
Vincenzo Onorato con alcuni giovani allievi della sua Scuola di Vela a Napoli
n° 12 - Dicembre 2010 così divertente. Ci parla della sua iniziativa per avvicinare i ragazzi disagiati alla vela? Io sono napoletano. La risposta ai mali di Napoli può venire anche dal mare che io penso dovrebbe essere la nostra prima fonte di ricchezza, insieme alla cultura. Offrire ai ragazzi meno fortunati una possibilità, in questo caso con la Scuola di Vela, credo che possa essere un modo per far conoscere loro una reatà diversa Ma quale dev’essere la prima dote di un velista? La vela è uno sport di team, la principale dote dev’essere quella di sapersi relazionare con gli altri per fare squadra. Le piace il termine “navigare” legato a chi consulta internet? Non mi piace molto, però rende l’idea. Abbiamo letto che tra questo e il prossimo anno ci sarà un passaggio epocale dal punto di vista della tecnica degli scafi. Vuole spiegarci? Sì, perché si passa dai monoscafi, che hanno sempre governato la Coppa, ai pluriscafi, in questo caso i catamarani che sono imbarcazioni con due scafi, molto innovative e rivoluzionarie. Insieme ad Aponte e Grimaldi Napoli sta cercando di acquisire la Tirrenia. Quale spirito vi anima? Quello di dare a quest’azienda la sopravvivenza, farla crescere e farla migliorare. Io credo che la matrice di questa operazione risalga al fatto che siamo tutti e tre napoletani. Quindi si tratta anche di far rimanere l’azienda a Napoli? Certo Occorrerà sicuramente un piano industriale. Con quali linee guida? Ci stiamo già lavorando. C’è bisogno di efficientamento e rinnovamento della flotta.
tivo è quello di far conoscere, attraverso uno sport formativo come la vela, valori fondamentali quali il lavoro di gruppo, la lealtà, la forza, il rispetto reciproco e il coraggio». È stato proprio Vincenzo Onorato a inaugurare, a settembre, la nuova sede della scuola vela a Napoli di via Ferdinando Acton 1. La Scuola Vela di Mascalzone Latino non esisterebbe se non ci fosse il sostegno costante e attento della Marina Militare che, fin dagli esordi, ha creduto nello spirito didattico e sociale dell’iniziativa promossa da Vincenzo Onorato per avvicinare i giovani al mare e alle pratiche navali.Tra i principali partner del progetto vi è la Fondazione Vodafone Italia che sostiene il progetto della Scuola Vela con l’obiettivo di contribuire fattivamente alla riduzione del disagio giovanile attraverso le molteplici iniziative promosse da Mascalzone Latino in campo sportivo e sociale e il rinnovo delle strutture gentilmente concesse dalla Marina Militare. La Scuola beneficia inoltre del supporto finanziario di Kinder+Sport, nato per diffondere e promuovere la pratica sportiva come una sana abitudine quotidiana, soprattutto per i più giovani. “Sensibile ai temi del disagio sociale, la Fondazione Vodafone Italia - ha affermato Antonio Bernardi, Presidente della Fondazione, in occasione dell’inaugurazione - che proprio a Napoli si è già affiancata ad altre iniziative che attraverso lo sport mirano alla riduzione del disagio giovanile, sostiene il progetto Scuola Vela di Mascalzone Latino e in particolare il rinnovo delle strutture dedicate alla Scuola Vela, con l’obiettivo di offrire ai ragazzi meno abbienti e a rischio della città, prospettive non solo di recupero e integrazione con la società civile, ma anche sportive e professionali, attraverso la pratica dilettantistica dello sport velico e di tutte le attività marinare in genere, stimolando lo spirito di squadra e il rispetto delle regole di una sana competizione.” All’interno della scuola - in una zona centrale della città sono presenti aree living, spogliatoi e servizi (anche per disabili), presidio medico, cucina, sala pranzo, uffici, area relax istruttori, aula lezioni e videoproiezioni, palestra, area hospitality, area TV, locale guardiani, cala vele e depositi. La scuola vela Mascalzone Latino ha ottenuto il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, del Ministero degli Interni, del Ministero della Gioventù e idel Ministero del Lavoro, dell’A.M.O.V.A, Associazione Medaglie d’Oro al Valore Atletico.
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SOUTH STREAM CONTRO NABUCCO La scelta, da parte dell’Italia, del gasdotto proveniente dal Mar Nero assume una valenza strategica oggettiva, basata sul fatto che la Russia è sempre stata un partner affidabile di Ivan Marino* La cooperazione russo-italiana nel settore della sicurezza dell’informazione e della sicurezza energetica internazionale” (Napoli, Palazzo Caracciolo, 30 settembre 2010) è un tema particolarmente delicato, che preoccupa non poco il governo degli USA. E’ notorio il fatto che la dipendenza italiana (e dell’UE nel suo insieme) dai rifornimenti russi, ha ripercussioni geoeconomiche e, di conseguenza, geopolitiche particolarmente temute dagli americani. Il Governo italiano ha dovuto dare più di una volta rassicurazioni alla parte americana (il Presidente Scaroni dell’ENI è stato a tal fine convocato a rapporto a Washington) per confermare che sostanzialmente soltanto il 30% dei nostri approvvigionamenti proviene dalla Russia e che quindi si tratta di una “dipendenza” relativa. La posizione ufficiale degli USA rispetto all’ orientamento strategico dell’Italia volto a stabilire rapporti più stretti con la Russia, è stata espressa dal braccio destro militare del Presidente USA, James Jones. Secondo quest’ultimo: “occorre diversificare, evitando di rendersi ostaggio di un monopolio”. Ma questo invito appare del tutto gratuito, data la tradizionale politica italiana di diversificazione delle fonti d’energia e dei paesi produttori. In questa chiave deve essere interpretato il vero significato “strategico” del “Nabucco”, ovvero del gasdotto progettato dagli USA che dovrebbe portare il gas dal Caucaso all’Austria evitando la Russia. L’Azerbajdzan, il Turkmenistan (ex Repubbliche Sovietiche), insieme ad altri paesi, potrebbero fornire gli approvvigionamenti di gas attraverso il Nabucco, ma sono troppe le incognite legate alla realizzazione di tale progetto, il quale sembra avere un solo vero prioritario obiettivo, quello di “rincorrere e superare” il “South Stream” che invece dovrà portare il gas russo dal Mar Nero all’Italia con previsto punto d’approdo nel sud d’Italia e precisamente nella Puglia. Il “Nabucco” quindi risponde chiaramente più a scelte di carattere politico, che a decisioni di opportunità economica e ha, in sostanza, come precipua finalità quella di bypassare il territorio e quindi contrastare gli interessi della Federazione Russa. La scelta eventuale del “Nabucco” è, a nostro avviso, una scelta che potrebbe diventare rischiosa per la stessa sicurezza energetica dell’UE. L’ex Presidente della Federazione Russa V. Putin non a caso ha più volte sottolineato: “Prima di costruire un gasdotto bisogna assicurarsi la firma dei contratti di fornitura di gas”, sottintendendo con
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queste parole che la Russia, a differenza di altri paesi, è un grosso produttore che commercializza il gas e che quindi può assicurare in prima persona la sicurezza degli approvvigionamenti. Il “Nabucco” si traduce, in altri termini, in una sfida statunitense ai piani di cooperazione nel settore energetico tra alcuni paesi dell’UE e la Russia. Ma è un progetto che, comunque, tra non poche oggettive difficoltà e contraddizioni, va avanti: l’8 settembre 2010 la Banca Europea e la Banca Mondiale si sono impegnate a concedere un ulteriore consistente finanziamento per la sua realizzazione. La scelta del “South Stream” da parte dell’Italia, in particolare, assume invece una valenza strategica oggettiva, basata sul fatto che la Russia è sempre stata un partner affidabile sin dai tempi di Togliattigrad, che ha sempre garantito le forniture, a parte qualche ostacolo provocato dai paesi di transito, come si è visto nel caso dell’Ucraina in anni recenti. Al “South Stream”, tra l’altro, ha aderito la Francia e da poco anche la Germania e questo aumenta l’importanza della scelta italiana di partecipare alla costruzione di questo gasdotto in funzione del rafforzamento dei rapporti complessivi della UE con la F.R. Occorre guardare oltre gli interessi esclusivi nazionali e valutare il peso strategico di lunga durata di questa opzione nel dialogo complessivo Russia-UE. La Russia grande potenza energetica. La Federazione Russa, ovvero il più grande Stato del mondo per estensione, potenza bicontinentale, che gode di una strategica posizione geopolitica, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, potenza militare, nucleare, è prioritariamente una grande potenza energetica. E’ interesse dell’Italia, ma anche della UE, andare oltre una semplice politica di buon vicinato con la Russia non solo per assicurare i necessari approvvigionamenti energetici, ma anche per rafforzare la cooperazione in altri campi negli interessi reciproci.Va qui ricordato che, escluso lo stretto periodo bellico, l’Italia, sia prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, sia immediatamente dopo, ha sempre guardato all’URSS e poi alla Federazione Russa, non solo come al fornitore di materie prime, in Italia carenti, ma anche come a un grande mercato di sbocco per le proprie merci e prodotti industriali su un piano di reciproca convenienza. Ma indubbiamente la scelta del “South Stream” non riguarda solo l’affidabilità del partner nei rifornimenti. La questione è ovviamente soprattutto politica. Infatti la Russia può dare un suo non secondario contributo alla crescita europea nella difficile fase di risalita dalla crisi economica, acquisendo un ruolo trainante insieme
LA BIELORUSSIA PREMIA LUKASHENKO Andiamo in stampa nel giorno in cui le elezioni in Bielorussia confermano la leadership del Presidente. Anche grazie all’efficacia della sua politica sociale ed economica on un’affermazione ampia, 79% dei votanti, Alekandr Lukashenko vince, anzi stravince, le elezioni presidenziali in Bielorussia. E’ la conferma di una leadership governativa, che è saldamente in sella da 16 anni, e della salute politica del suo massimo esponente. Il voto popolare ha ribadito, ancora una volta, la piena volontà della gente bielorussa di premiare il cammino fatto fino a ora. Una scelta che è frutto principalmente della politica sociale e di pace che il Presidente porta avanti sin dal suo primo mandato. C’è chi si meraviglia dell’ampia popolarità di cui gode Lukashenko presso il suo popolo. Nulla, però, ha impedito alla Bielorussia, stante la tenuta economico-finanziaria e l’affidabilità, di ottenere recentemente dal Fondo Monetario un finanziamento di tre miliardi di dollari, senza quindi alcuna concessione sul piano delle scelte nazionali effettuate, volte ad assicurare una forte presenza statale nell’economia. In Bielorussia infatti l’80% delle aziende restano pubbli-
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che. Le imprese statali sono riuscite, una volta rimodernate, a stare sul mercato esportando trattori, camion, macchinari, prodotti chimici, legnami, prodotti alimentari. L’agricoltura e l’industria alimentare svolgono anch’esse un ruolo importante. Le fattorie collettive assicurano un buon livello di crescita. Lo stesso Lukashenko è stato a suo tempo direttore di un kolchoz. Solo il 20% circa delle aziende, attualmente, rimane all’iniziativa privata a seguito delle privatizzazioni intervenute dopo il ‘91. Per la verità queste ultime sono molto più contenute e caute rispetto a quanto avvenuto nelle aree post sovietica e dell’Europa orientale. E va ricordato che in Bielorussia vige anche la clausola del “golden share” per le imprese private di ex proprietà statale. Ove si dovesse registrare una congiuntura economica non favorevole, è previsto un sostegno statale nel funzionamento di queste imprese. Tutto questo ha fatto sì che la disoccupazione in Bielorussia si riducesse a un minimo tollerabile. Il debi-
alla Cina e agli altri paesi emergenti, come l’India e il Brasile. E qui si pone con sempre maggiore attualità la questione annosa (una richiesta esaminata da ben 17 anni) dell’adesione della Russia al WTO. Come giustamente sottolineato dal Presidente della Federazione Russa, Medvedev, tra i paesi del G20, la Russia continua a essere l’unico paese non membro del WTO. L’ingresso nel WTO della Russia sarebbe invece un logico, coerente riconoscimento della centralità della Russia come co-protagonista dell’economia mondiale e rafforzerebbe non poco la cooperazione della Russia con l’UE. Ma, come denunciano puntualmente le massime autorità della Russia, l’UE e soprattutto gli USA avanzano sempre nuove richieste e pongono continue nuove condizioni. Sono risultate essere non poche le contraddizioni, le incoerenze dimostrate nei confronti di questa adesione. L’adeguamento delle forniture di gas all’Ucraina ai prezzi mondiali di mercato, per esempio, è stato visto da taluni osservatori occidentali come un “ricatto energetico” dei russi. Sono state solo avanzate precise accuse di aggressività della Russia e delle sue Società energetiche. Si è trattato del solito “doppiopesismo”, dei “doppi standard” degli analisti occidentali. Persino M. S. Gorbacev, che, come è noto, non è uno strenuo sostenitore di Putin, ha prontamente criticato questo atteggiamento: “l’occidente ha spinto perchè la Russia introducesse meccanismi di mercato nel commercio dell’energia e ora che li abbiamo adottati, ci criticano tutti”. Altra precondizione posta, rifiutata dai russi, è quella che si riferisce Segue a pag. 10
to pubblico è quasi nullo, malgrado i riflessi negativi della crisi economico-finanziaria mondiale che ha imperversato. Tra la comunità presente in Italia, costretta spesso a lavori minori nonostante l’elevato livello di scolarizzazione, è sincera e ampia l’ammirazione per la Bielorussia, che offre tranquillità sociale ed economica rispetto ad altre repubbliche ex sovietiche. In Bielorussia infatti è costantemente scesa, dal 2002 in poi, la percentuale di cittadini sotto la soglia di povertà. Il tasso di crescita annuo dal 1996 si mantiene alto, come quello cinese. Il livello culturale è elevato, la criminalità è quasi inesistente, lo stato sociale è efficiente e funziona egregiamente, come gli stessi osservatori del FMI e della Banca Mondiale hanno potuto constatare.
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LA MODERNITA’ ELEGANTE DI DE NITTIS La mostra al Petit Palais di Parigi ridà al pittore italiano la giusta collocazione nel panorama degli interpreti più attenti ai mutamenti della società francese di metà Ottocento di Gerardo Pedicini Giuseppe De Nittis: La modernité élégante. Quale sia questa “modernità”, basta guardare le opere esposte nelle sale del Petit Palais per comprenderlo. Nelle sezioni “En plain air” e “Parigi e le rive della Senna” c’è il ritratto del bel mondo parigino della seconda metà dell’Ottocento ripreso nei suoi momenti di gioia e di piacere: corse ippiche ad Auteuil, incontro a Longchamp, passeggiate lungo le rive della Senna, in calesse al Bois de Boulogne, a spasso con il cagnolino, gite in barca, ore tranquille nell’affogata calura estiva, tramonti dorati, distese di papaveri, tra le spighe, flitraten all’ombra di accoglienti alberi, appuntamenti al Bois, nevicate, brividi di freddo, luci tremolanti dell’acqua sotto i ponti, a colloquio con le amiche, sotto l’ombrellino, impalcature a Place des Piramides, cavalieri e amazzoni con lo sfondo dell’Arco di Trionfo, affollati boulevards, scene d’interni nella nuance e nell’ennui delle ore invernali, animate discussioni nel salotto della contessa Matilde. Su tutti domina la raffinata eleganza, lo charme e l’incanto delle toilettes femminili. De Nittis ne è attratto come una falena. Cappelli, ombrellini, svolazzi di vestiti, gesti sono fissati sulla tela con ardore e stupore, con intimità e passione. C’è leggerezza di tocco, armonia e gioiosa partecipazione. Gli impasti cromatici creano un’atmosfera delicata e avvolgente; hanno una compostezza cromatica, effetti luministico-atmosferici simili agli impressionisti. Dominano le tonalità basse e delicate, i paesaggi annegati in una dissolvente nebbiolina, le atmosfere imperlate in sottili sfumature che danno all’immagine una fuga prospettica che si perde all’infinito. Sono tagli ante litteram cinematografici, già sperimentati in alcuni lavori realizzati in Italia prima di trasferirsi a Parigi. Infatti, in “Il passaggio degli Appennini” (1867), Giuseppe De Nittis era già riuscito a realizzare, con estrema finezza e attenzione nei dettagli, l’immagine del paesaggio come se fosse stato ripreso da un obiettivo grandangolare. In primo piano, si accampa l’ampia carreggiata segnata dalle ruote che s’incastra sulla linea dell’orizzonte dietro cui si alza, come una muraglia, un cielo nuvoloso
attraversato da variazioni cromatiche di suggestiva bellezza. Un albero, la carrozza che sfila sull’impasto del terreno, un contadino, alcune case sul fondo contribuiscono a creare una dimensione fugace ed eterna a tutta la scena. Il lungo studio del vero con gli amici di Resina incominciava a dare i suoi primi frutti. Il vero, per De Nittis, è la capacità di cogliere a volo e far vivere la realtà in uno stato di perenne sospensione. De Nittis arrivò a Parigi nel 1867 dopo un breve soggiorno a Firenze, dove entrò in contatto con il gruppo dei Macchiaioli e strinse amicizia con Telemaco Signorini. Su suggerimento di Diego Martelli, lasciò la città toscana. Dopo le prime non felici esperienze e vicissitudini, il giovane barlettano riuscì subito a imporsi nella capitale francese. Molto gli valse l’amicizia di E. de Concourt e la frequentazione dei salotti culturali dell’epoca, dove ebbe modo di conoscere Roberto de Montesquiou e José-Maria de Herédia. Ben presto casa De Nittis diventò un punto d’incontro per intellettuali e artisti come Alphonse Daudet, Alexander Dumas figlio e Èmile Zola. In questo, un ruolo importante lo ebbe la giovane Léontine Lucile Gruvelle, sposata nel 1869, che con saggezza e accortezza seppe orientare amicizie e scelte del marito. Il successo non tardò ad arrivare. E con il successo, il denaro. Al giovane barlettano, nato nel 1846, che a quattordici anni aveva abbandonato i libri di scuola per la pittura, non poteva capitare di meglio. Lontano era il tempo dell’apprendistato nello studio di G. B. Calò, l’iscrizione all’Istituto d’Arte di Napoli dove insegnavano Mancinelli e Smargiassi, il rifiuto di seguire i loro insegnamenti, l’espulsione per indisciplina, il trasferimento a Portici, dove con Federigo Rossano, Marco de Gregorio, Alceste Campriani, Antonino Lieto, Camillo Amato e Raffaele Belliazzi fondò la “Scuola di Resina” che, con ironica sprezzante denominazione, Domenico Morelli chiamava “Repubblica di Resina”. Fu proprio qui, a Portici, che De Nittis iniziò a concretizzare le proprie scelte espressive. Con gli amici del gruppo, si diede a percorrere in lungo e in largo la campagna circostante e le pendici del Vesuvio. Il suo unico programma fu lo studio dal vivo, senza mediazioni o intellettualismi. Lo affascinavano le
atmosfere dei colori e l’intensità di luce del paesaggio napoletano, già sperimentate da Giacinto Gigante e dalla “Scuola di Posillipo”. Ma, a differenza di questi ultimi, in De Nittis lo studio del vero non è racchiuso nell’intento di rappresentare il respiro del paesaggio in un evocante arcadico scenario di composta bellezza, ma nella vitalità della sua forza. Da qui la predilezione di alcuni temi, più volte ricorrenti in questo periodo: improvvise turbolenze atmosferiche, pendici del Vesuvio ricoperte di lava, desolazione e abbandono della campagna ofantina, nubi d’autunno, ecc. Due suoi lavori, “Un casale nei dintorni di Napoli” (1866) e “Il passaggio degli appennini “(1867), furono acquistati dal re Vittorio Emanuele II per la Pinacoteca di Capodimonte. Fu la svolta decisiva. Napoli e poi Firenze non gli avrebbero potuto dare di più. Su consiglio di Martelli si trasferì a Parigi, dove il mercante Goupil lo impose all’attenzione del pubblico. Immediato il successo, ma ben presto, insoddisfatto, De Nittis abbandonò le scene di genere in costume per ritornare alla pittura di paesaggio. Nel 1872 andò a Londra, realizzando malinconici scenari di vita cittadina, presenti nella sezione “Londra e il Tamigi”. Ponti, torri, strade, palazzi, Westminster, la National Gallery, Buckingham Palace, Piccadilly sono calati in un nebbioso pulviscolo atmosferico che dà un senso di infinita tristezza, che, come ne “La domenica a Londra” (1872), esemplifica emblematicamente il noioso scorrere del tempo nella capitale inglese. Ritornato a Parigi, realizza con i pastelli alcuni ritratti femminili, molto apprezzati dall’amico Degas e da Manet. Desideroso di ritrovare la calda luce mediterranea, a più riprese ritorna in Puglia e Segue a pag. 14
Giuseppe De Nittis “Papaveri”
ROMAN JAKOBSON, UN UOMO DEL FUTURO Un volume di Matteo D’Ambrosio descrive la figura del grande linguista russo-americano, che fu poeta futurista e incontrò in Russia, nel 1914, Filippo Tommaso Marinetti Alexandre Urussov rmai si è placato il clamore mediatico suscitato dalle celebrazioni del centenario della nascita del Futurismo, il movimento che si era rumorosamente affacciato al mondo nel 1909 con la pubblicazione del famoso “Manifesto” di Tommaso Marinetti. Rimane il ricordo di qualche mostra di pittura e scultura futurista (su queste pagine, per esempio, abbiamo parlato della grande mostra a Mosca) e di qualche convegno con poche, dobbiamo ammettere, nuove scoperte. Ma rimangono libri che svelano aspetti del tutto inediti del fenomeno, particolari poco conosciuti o ripresentati in un contesto o in una visione originale. Tra questi c’è il libro “Roman Jakobson e il Futurismo italiano” di Matteo D’Ambrosio (Napoli, Liguori Editore, 2009). Matteo D’Ambrosio, docente di Storia della critica letteraria presso l’Università di Napoli “Federico II”, semiologo e storico delle avanguardie, ha dedicato questo volume a Roman Jakobson, uno dei maggiori linguisti e teorici della letteratura del Novecento. I princìpi teorici e i risultati creativi che ci hanno consegnato le avanguardie artistiche e letterarie vanno interpretati partendo, innanzitutto, dalle riflessioni dei maggiori studiosi del primo Novecento. E chi se non proprio Roman Jakobson, poeta futurista in gioventù, linguista di fama mondiale in età
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matura, può meglio indagare sull’argomento? Da giovane, Jakobson fu l’unico, tra i futuristi russi, in grado di comunicare (in francese) con Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del movimento futurista italiano, il quale, all’inizio del 1914, si recò a Mosca e Pietroburgo per tenervi alcune conferenze. Il libro di D’Ambrosio raccoglie centinaia di documenti, spesso inediti in Italia, che raccontano anche storie a volte molto curiose sui primi contatti tra gli avanguardisti russi e Marinetti. Si sa che il movimento futurista in Russia non fu affatto secondario rispetto al futurismo italiano né assenziente. Nato in seguito a un periodo di grande risveglio culturale e spirituale della Russia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si è subito distinto per originalità, indipendenza e anche per una certa “caparbietà”, soprattutto in campo letterario. Basti dire che una notevole parte dei futuristi russi, seguendo le teorie del grande Velimir Chlebnikov, rifiutava persino il nome “futurista” preferendo la parola inventata da lui: “budetljnin”, dal fonema della parola russa “budet” (sarà). Il quinto capitolo del volume è dedicato al saggio di Jakobson su Velimir Chlebnikov e la nuova poesia russa. La nuova traduzione integrale delle prime pagine permette di abbandonare definitivamente le traduzioni precedenti, in cui erano stati soppressi proprio i passaggi che dimostrano come alcuni sviluppi decisivi del pensiero
critico di Jakobson emergano da una riflessione approfondita sulle differenze che separano il Futurismo russo da quello italiano. Sollecitato in particolare dai caratteri più innovativi della poesia di Chlebnikov - che considerava il maggior poeta del Novecento - Jakobson si sofferma sui fenomeni relativi alla materialità acustica del segno, che riguardavano in particolare il progetto di una nuova lingua della poesia russa, denominata zaum’: una poesia allo stato puro, autonoma, valida in sé, intesa come parola-suono. Come scrive D’Ambrosio, il linguaggio zaum’, uno degli sviluppi più radicali e incisivi del Futurismo russo, «prepara, insieme con ricerche condotte dai futuristi italiani e dai dadaisti, gli sviluppi della poesia fonetica e sonora, una tendenza post-verbale che nel secondo Novecento ha individuato inediti modelli e dispositivi testuali, usufruendo di mezzi, linguaggi e codici che le avanguardie storiche non possedevano». Forse sarebbe più giusto, a mio modesto parere, chiamare il libro “Jakobson e la sua visione del futurismo russo in contrapposizione con quello italiano”, ma l’autore ha deciso diversamente. Bisogna comunque ricordare che il volume è dotato di un ricchissimo apparato criticobibliografico e presenta due articoli di Jakobson in una nuova traduzione italiana integrale.
Tommaso Marinetti visto da N. I. Kul'bin nel 1914 in tre differenti versioni di un ritratto
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NAPOLI RENDE OMAGGIO A SCHUMANN L’Associazione Musicale Alessandro Scarlatti celebra il bicentenario della nascita del grande compositore tedesco. Il concerto del Quartetto d’Archi Gagliano di Enzo Amato omenica 28 novembre 2010, Teatro Sannazaro. Il pubblico gremisce numerosissimo l’ingresso e prende posto nell’accogliente platea e nei palchi del grazioso teatro. L’atmosfera è serena e Napoli, anche questa volta, ci sorprende per la sua capacità di essere appieno una capitale d’Europa. In programma i “Tre quartetti” di Robert Schuman, op. 41. La genesi di questo lavoro che, non a caso, il compositore tedesco indica con un numero d’opera unico, è frutto di un’esigenza profonda del celebre musicista di andare oltre il pianoforte, amore e ossessione della sua vita. Amore in quanto Schumann aspirava a diventare un grande pianista e, addirittura, per perfezionare la sua tecnica si sottopose a esperimenti insensati che gli causarono la perdita dell’uso dell’anulare della mano destra. Ossessione per la sua inconscia rivalità con una delle più grandi pianiste tedesche dell’epoca che poi diventerà sua moglie, Clara Josephine Wieck, di nove anni più giovane di lui. Il concerto fa parte di una rassegna organizzata dalla “Associazione Musicale Alessandro Scarlatti” per celebrare il bicentenario della nascita di Robert Alexander Schumann avvenuta a Zwickau, grande città circondariale della Sassonia, l’ 8 giugno del 1810. Protagonista della serata il “Quartetto d’archi Gagliano” che, con il proprio nome, rende omaggio alla più celebre famiglia di liutai napoletani che hanno lasciato alla storia splendidi strumenti, tra cui il violino di Carlo Dumont che è animatore e primo violino del quartetto. Il Quartetto d’archi Gagliano è formato, oltre che dal già citato Carlo Dumont, dal violinista Carlo Coppola, dal violinista nonché violista Paolo Di Lorenzo e dal violoncellista Raffaele Sorrentino. I musicisti del quartetto sono tutti di formazione napoletana, come napoletane sono le formazioni che hanno animato questa rassegna domenicale denominata Shumannenesque dalla direzione artistica della “Associazione Scarlatti”. Domenica 24 ottobre erano in programma due sonate per violino e pianoforte con Paolo Chiavacci al violino e Simonetta Tancredi al pianoforte. Domenica 21 novembre è stata la volta del “Quartetto Artelli” e domenica 28 del Quartetto d’archi Gagliano. Domenica 19 dicembre si è chiusa la rassegna con un florilegio di
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lieder (arrangiamenti per voce solista) di Shumann, e dei suoi contemporanei romantici, di “Minimo Ensemble” con Daniela del Monaco, contralto, e Antonello Grande, chitarra. Bisogna riconoscere all’abile direzione artistica dell’ “Associazione Alessandro Scarlatti”, affidata a Chiara Eminente, la capacità di costruire gli eventi concertistici a Napoli non solo usufruendo di concerti di “giro”, anche se con prestigiose presenze, ma di dare spazio a formazioni e musicisti partenopei con una saggia opera di produzione artistica. Questa capacità andrebbe sostenuta da parte delle istituzioni pubbliche dando la disponibilità all’Associazione di un Auditorium nel centro della città che abbia un’acustica adatta alla musica. Ciò perchè i luoghi che hanno altre finalità, come la prosa, e quindi il Teatro Sannazaro, hanno un’acustica molto secca, che risulta disarmante per chi deve esibirsi e lascia nuda la musica da eseguire. Ritornando all’esecuzione del concerto, ci piace ricordare uno scritto di Robert Schumann relativo al periodo di composizione dei quartetti op.4. E’ l’anno 1842, così scrive il compositore: “Non avresti dovuto lasciarmi, Clara. Il tuo posto è al mio fianco. Lo sai bene che io non avrei avuto il coraggio di rompere, sia pur per qualche giorno soltanto, la dolce catena che ci lega”. Esiste un rapporto conflittuale con Clara, che Schumann aveva conosciuto quando lei aveva appena dodici anni. Infatti, capitava spesso che, dopo gli applauditi concerti della moglie, Robert si sentisse domandare: “Anche lei si occupa di musica?”. Ma, pur se il tutto è mitigato dal grande amore che spinge il musicista a piegarsi e adattarsi, la situazione non regge e giovedì 10 marzo 1842 i due musicisti si separano. Robert entra in una profonda depressione, tanto da non riuscire a comporre. Decide quindi di riprendere l’analisi dei quartetti di Mozart, Haydn e Beethoven e di approfondire lo studio del contrappunto. Fortunatamente il 26 aprile Clara ritorna, Robert prende nuova vita, trova nuove energie e, in soli due mesi, compone tre quartetti per due violini, viola e violoncello riunendoli in un unico numero “Op. 41” con la volontà di scrivere un’opera dalle grandi dimensioni. Li scrive in tonalità semplici - “La differenza fra il maggiore e il minore dovrà essere ammessa senz’altro. Quello è il principio attivo, maschile, l’altro il passivo, il femminile. Sentimenti
AL SAN CARLO TRIONFA LA MADRE RUSSIA L’ottima direzione del Maestro moscovita Alexander Anissimov ha inaugurato la stagione concertistica con grandi affreschi musicali di Rachmaninov e Musorgskij di Umberto Garberini l Coro e l’Orchestra del Teatro San Carlo, con la direzione del moscovita Alexander Anissimov, hanno inaugurato la stagione dei concerti 2010/2011 con una locandina che è stata un omaggio alla Santa Madre Russia, a cominciare dal programma agli interpreti vocali, impegnati, questi ultimi, nella magnifica cantata “Le Campane” (Kolokola) per soli, coro e orchestra, op. 35, di Sergej Rachmaninov. Quest’opera risale al 1913, ispirata dalla lettura, durante un soggiorno a Roma, dei versi omonimi di Edgar Allan Poe, tradotti in russo dal poeta rivoluzionario Kostantin Bal’mont. Scrive l’autore: “Nella quiete sonnolenta di un pomeriggio romano, ho sentito la voce delle campane e messo su carta i loro suoni cordiali, in cui rivivono le diverse fasi dell’esistenza umana”. “Le campane”, infatti, rappresentano un topos della tradizione russa perché scandiscono la vita di ogni cittadino dall’infanzia alla morte. La forma è articolata in quattro movimenti: “Nascita”, “Matrimonio”, “Terrore” e “Morte”. Nel primo è il tenore (il limpido Vsevolod Grivnov) che intona un festoso inno alla vita, il cui sbocciare è paragonato a corse di slitte sotto le stelle nel suono argentato dei campanelli; l’orchestrazione è un fiume in piena che sommerge il solista. Ma, nascoste nel fondo della musica, risuonano inquietanti le note del “Dies irae”, quasi a contenere l’entusiasmo. Queste tornano anche nel “Lento” successivo, affidato all’intensa voce del soprano Irina Krikunova, nel momento più intimamente lirico e appassionato della composizione, con il testo che
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rimanda a paesaggi notturni e a suoni dorati. Ma il presagio è in agguato e il terrore si impossessa del terzo movimento, un “Presto” furioso che vede orchestra e coro scambiarsi fuoco e fiamme, fra suoni di metallo e rintocchi assordanti. Per placarsi, infine, nell’ultimo “Lento lugubre”, che conduce mestamente verso il silenzio sepolcrale, reso più oscuro dalla profonda voce di basso di Nikolaj Didenko. Ottima la prova del Coro, che in questo lavoro ha un compito fondamentale, pienamente assolto per tempismo, omogeneità e poten-
Il maestro Alexander Anissimov dirige l’Orchestra del San Carlo di Napoli
semplici hanno tonalità semplici; quelli complessi si muovono di preferenza in una tonalità dissueta che l’orecchio ode più raramente”. Fa Maggiore per il n. 3, che è quello che scrive per primo, La Maggiore per il n .2, scritto per secondo, e La Minore per il n.1, in realtà l’ ultimo a essere composto. La scelta del “Quartetto d’archi Gagliano” di eseguire per ultimo il quartetto n. 3 è sicuramente dettata da questa riflessione e comunque dall’estrema bellezza dello stesso che lo vede giustamente a conclusione di una splendida serata di musica. Il Quartetto napoletano si pone in maniera corretta nella visione romantica della musica di Schumann (“Gli uomini poco raffinati sono generalmente inclini a non afferrare, nella musica senza testo, che dolore o gioia o cosa che giace nel mezzo, dolce melanconia, ma non sono capaci di trovare le più fini sfumature della passione , come la collera, il pentimento, quei momenti di intimità familiare, il benessere.....”) rendendo intellegibili le funzioni retoriche delle complesse e articolate strutture melodiche e armoniche dell’op. 41. Ed è proprio nel quartetto n.1, in quattro movimenti, come negli altri, che l’ensemble partenopea raggiunge un ottimo livello di interpretazione. Il tema iniziale dell’andante espressivo, di vago sapore bachiano, viene proposto a canone da tutti gli strumenti del quartetto, che con chiarezza ci accompagnano in uno sviluppo che vede dialogare gli archi in un susseguirsi di emozioni. Il tutto sfocia in una “fuga” per poi rientrare in uno struggente tema che fa da ponte al secondo movimento avvincente che viene proposto con convinzione, mostrando le capacità virtuosistiche dei componenti del quartetto. Nell’adagio del quarto movimento il “Quartetto d’archi Gagliano” riesce a esprimere con convinzione il tormento che travagliava Schumann e che lo porterà alla follia, ma che viene subito ricondotto a razionalità nello splendido “presto” finale di virtuoso rigore contrappuntistico che dà filo da torcere anche alla viola, che generalmente ha ruoli di accompagnamento. Ruoli qui risolti con abilità dal bravo Paolo di Lorenzo. Applausi e bis, Napoli la capitale della musica omaggia il grande Schumann.
Il “Quartetto d’Archi Gagliano” durante le prove
za timbrica, grazie alla meticolosa preparazione svolta dal maestro Salvatore Caputo. In seconda parte seguiva un altro affresco di portata musicale e simbolica come i “Tableaux d’une exposition” di Modest Musorgskij, nella trascrizione per orchestra di Ravel. Ispirati alle inquietudini dell’arte di Viktor Hartmann, condividono la stessa aspirazione al folklore nazionale. L’originaria versione pianistica è del 1874, quella di Ravel del 1922. Come spesso in Musorgskij, personalità irruenta e volubile, anche questo lavoro sembra solo sbozzato e lasciato a metà. La verità è che, per il “barbarico” compositore (come appare nel celebre ritratto di Ilya Repin del 1881), il romanticismo è definitivamente alla spalle. I brani che compongono la sua grandiosa colonna sonora possiedono una carica espressionistica inaudita, al punto da far gridare allo scandalo e far ricorso a continue “correzioni” da parte di revisori e trascrittori. Non si contano le versioni spurie che tradiscono le reali intenzioni dell’autore. Compresa quella, impeccabile peraltro, dell’amico RimskijKorsakov, da cui parte Ravel per la sua rielaborazione. Ma il risultato finale, in questo caso, è un prodigio di orchestrazione che esalta le novità armoniche e coloristiche dell’opera. Un esercizio di tecnica raffinatissima, che sperimenta arditamente sovrapposizioni, impasti e dinamiche al limite del virtuosismo orchestrale, per una materia sonora purissima e incandescente. Abbaglia di luce la “Promenade” iniziale, che poi attraversa l’intera composizione trasfigurandosi, di volta in volta, al contatto con personaggi e luoghi simbolici: gnomi, streghe, mercati, castelli e catacombe, fino al culmine dell’ultima visione de “La grande porta di Kiev”, maestosa sintesi di cultura e creazione nazionale. Autorevole l’interpretazione di Anissimov, direttore di lunga esperienza, allievo di Gennady Rozhdestvensky, attivo in Russia e Bielorussia; con il suo gesto trascinante ha guidato brillantemente l’Orchestra del Teatro San Carlo, in cui si sono ben distinti i reparti dei fiati cui erano assegnati tanti temi e momenti importanti; soprattutto la prima tromba, Fabrizio Fabrizi, è stato solista anche nel bis con la “Danza napoletana” di Caikovski, tratta dal balletto “Il lago dei cigni”, per un commiato e un abbraccio ideale con la nostra città.
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LE PROVOCAZIONI DI EIMUTIS MARKUNAS ^
Nelle installazioni dell’artista lituano, esposte al Museo Ciurlonis di Kaunas, ci sono padronanza tecnica, vivacità e ricchezza di idee. di Gerardo Pedicini Installazioni, filmati, grandi composizioni pittoriche realizzate con varie tecniche fotografiche occupano l’intero piano terra dell’Art Gallery del Museo Nazionale M. K. Ciurlionis di Kaunas. Sono dell’artista lituano Eimutis Markunas. Nato a Kaunas nel 1959, insegna Pittura nella locale “Art Accademia” della città. Espone dal 1983, partecipando a importanti mostre nazionali e internazionali. Sue opere si trovano in molti edifici pubblici e privati lituani ed europei. Per chiese e banche ha realizzato grandi vetrate policrome, composizioni in ceramica e dipinti vividi di colori, vicini all’espressionismo astratto. Oltre alla padronanza di varie tecniche compositive come vetro, pittura, ceramica, scultura e metallo, l’opera di Markunas si distingue per la vivacità e ricchezza delle idee. Questa mostra ne è un esempio. Sono opere che creano suggestione e meraviglia, a partire dall’installazione “Tustumos sodai” (Giardini di vuoto) che è al centro della sala. Su un lungo rettangolo di tappeto rosso, sono fissate dieci lunghi filari di zampe di galline. Sembrano piantine già avvizzite che protendono all’aria i loro avvizziti rami giallastri. Sulla parete di fronte è scritto: “Visi musu darbai tai lyg kalbèjimas zmogiskajai, istorinei civilizacijos tustumai, kalbèjimas vèjams” (“L’attuale nostra società lascia cadere nel vuoto le opere degli artisti come parole al vento”). Solo dopo aver letto la scritta sul muro, si comprende il significato dell’installazione. L’umanità preferisce fermarsi all’apparenza, piuttosto che porsi degli interrogativi. Chiaramente il riferimento non è diretto soltanto al manufatto artistico, ma all’ordine degli avvenimenti, umani e sociali, che quotidianamente accadono e di cui siamo muti testimoni. Questo lavoro di Markunas, con intelligenza e finezza, rimanda alle provocazioni surrealiste e ai giochi intellettuali dell’arte concettuale, concepiti con arguzia e spirito nuovo. Sulle pareti della successiva sala giganteggiano 12 enormi gigantografie, disposte su tre file. Immediatamente si pensa a ^
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SOUTH STREAM Segue da pag. 7
alla richiesta di allineare i prezzi interni del petrolio a quelli internazionali. Senza mezzi termini Putin ha chiaramente espresso il suo parere: “Non possiamo allineare i prezzi interni del petrolio a quelli internazionali, ciò rovinerebbe la nostra economia. Gli euroburocrati o non capiscono o cercano di imporre condizioni inaccettabili per l’entrata della Russia nell’OMC”. Un’altra nota precondizione è relativa alla riduzione del peso dello Stato nei mass media. Viene in altre parole criticata la strategia volta in questi anni a ostacolare lo strapotere degli oligarchi, o quantomeno di alcuni di essi, che avevano messo le mani anche sui mass-media. Oligarchi vicini politicamente al primo Presidente della Federazione Russa, Eltsin, fautore della selvaggia privatizzazione del patrimonio statale, a suo tempo fortemente sostenuta dai paesi occidentali. Gli USA criticano il fatto che Gazprom Media, per esempio, possa avere un peso mediatico decisivo sui giornali “Izvestija”, “Tribuna”, sul Canale “NTV”, sulla Radio “Echo Moskvy” e, in maniera pretestuosa, accusa il Cremlino di: “usare i monopoli statali per ripristinare il controllo dei media”. La verità è che in questi anni i dirigenti russi, attraverso il rafforzamento del controllo statale sui settori strategici dell’economia e in primis sul settore energetico, hanno sottratto, sia pure con mezzi machiavellici e non propriamente ortodossi, ad alcuni oligarchi una parte dell’egemonia politica, economica, finanziaria e mediatica conquistata. L’attuale Presidente del Governo, Putin, è indubbiamente lo stratega della dottrina energetica della Russia. In netta rottura con le scelte precedenti, ha rafforzato il controllo statale sulle ricchezze strategiche nazionali mediante le partecipazioni pubbliche e in particolare mediante importanti investimenti della Gazprom, il cui pacchetto azionario di maggioranza è pubblico, gettando le basi di un sistema che in prospettiva può essere definito di economia mista.
delle lastre di una tomografia assiale computerizzata. A trarre in inganno è la divisione in due emisferi di ciascuna gigantografia: in realtà, sono impronte di glutei femminili, realizzate con sapienti elaborazioni e manipolazioni fotografiche. Lo stesso accade con i due pilastri, sistemati in fondo alla sala. Sembrano delle semplici colonne, invece sono delle gambe femminili che emanano luce che viene dall’interno dell’involucro di vetroresina con cui è realizzata l’installazione che è senza dubbio un omaggio alla potenza dell’universo femminile, ma anche la capacità di stupire e di invitare alla riflessione. Il filmato della sala successiva è la documentazione di ciò che si vede andando a Kèdainiai. Dopo alcune scene di riposanti onde sulla riva di un lago, improvvisa la cinepresa si sofferma su un punto bianco all’orizzonte. Via via che si procede il punto diventa un’enorme parete bianca nel cielo plumbeo. Sono i resti dei rifiuti chimici di una fabbrica. L’artista scala la “montagna” con la cinepresa, riprendendola da varie angolazioni. Dal basso si erge come un novello Everest, sovrastato da voli di neri avvoltoi rotanti in un cielo plumbeo, carico di neri presagi prossimi futuri, in Campania diventato già presente, basti pensare all’inquinamento delle falde acquifere delle discariche di Terzigno e di Giugliano. Nell’ultima sala c’è una lampada che proietta un cono di luce a terra. Intorno al faro di luce s’intravedono degli oggetti di varie dimensioni e forme. Sono delle valigie: alcune chiuse, altre aperte da cui fuoriescono miseri e informi vestiari come si possono vedere nelle stanze dei nostri extracomunitari. Leggiamo il cartello: “Ar tu busi sekantis?” (Sarai tu il prossimo?). Chiaro il messaggio: l’artista intende farci riflettere sull’emigrazione, forzata o volontaria che sia. Musica con tonalità basse e cupe, disposizione delle valigie intorno al cerchio di luce, inteso come luogo delle proprie radici umane e culturali, portano il fruitore a ripercorrere con la memoria passate e vicine emigrazioni. E a interrogarsi sulle possibilità che eventi così traumatici per l’umanità non accadano più. Come sottolineato da più fonti, la partecipazione dello Stato nella produzione di petrolio dal 100% dell’epoca sovietica era scesa al di sotto della soglia del 10% nel 2004. L’allora Presidente Putin decise di invertire questa tendenza, andando a riaffermare il ruolo dello Stato nell’economia in maniera più che significativa. E’ interessante rilevare come alcuni sondaggi d’opinione mostrino come l’85% della popolazione russa approvi le nazionalizzazioni dell’energia e il 65% vorrebbe estenderle ad altri rami dell’economia. L’ “affare Youkos”, ovvero il progetto di consegnare in effetti alla americana EXXON MOBIL il controllo di una parte significativa del petrolio siberiano è fallito, sia pure con l’adozione di misure consistenti nell’accusa a carico del magnate Chodorkovskij di evasione fiscale. Putin, a questo riguardo ha puntualizzato: “Tutti i grandi affari che concernono l’interesse nazionale devono essere trattati con i governanti russi”, precisando successivamente che: “La Russia non può farsi accerchiare dai grandi gruppi finanziari che fomentano le false rivoluzioni colorate nei paesi ai suoi confini”. E’ chiaro il riferimento a quei gruppi transnazionali di pressione economica e finanziaria, il cui ultimo scopo è quello di destabilizzare equilibri politici, economici e in particolare energetici nei paesi confinanti con la Russia e non solo. Il Presidente Putin è stato lungimirante nel comprendere che il comparto energetico costituisce un presupposto essenziale per poter tenere unita la Federazione. Da tempo gli economisti occidentali spingono la Russia a smantellare, come primo passo per successive privatizzazioni, il sistema centrale energetico (non solo l’energia elettrica, ma anche la produzione e la distribuzione di petrolio, gas) e a creare una serie di sistemi regionali separati. Putin ha sempre respinto questo pressante invito e ha operato diversamente, mantenendo in piedi una rete nazionale, comprendendo che in un paese così vasto e complesso come la Russia il settore energetico costituisce quell’elemento strategico fondamentale capace di contrastare derive disgregative. Verso le elezioni presidenziali del 2012. Medvedev-Putin. Quali le strategie di politica energetica?
Due delle installazioni di Eimutis Markunas esposte al Museo Ciurlonis. In alto, l’artista
Vedremo quali saranno le prossime scelte di politica energetica dei dirigenti russi e soprattutto del Presidente Medvedev, che, ancora qualche anno fa, sottolineava la necessità di una minore presenza dello Stato nell’economia, apparendo così più liberista del suo predecessore. Nel 2007 non ancora Presidente della Federazione, Medvedev dichiarava: “... Non penso che le corporazioni statali siano più efficaci di quelle private. Al contrario, sostengo il punto di vista opposto. Ma ci sono alcuni settori economici dove le compagnie di Stato sono indispensabili soprattutto per quanto riguarda la Russia”. Nel Messaggio Presidenziale del 12 novembre 2009 Medvedev ha invece rimarcato: “Per ciò che concerne le corporazioni statali, io ritengo queste formule nelle condizioni attuali complessivamente senza futuro. Innanzitutto dobbiamo modernizzare il settore statale. Il suo livello non scende oltre il 40%, ma durante la crisi il ruolo dello Stato naturalmente è cresciuto di nuovo. Tra l’altro, questa tendenza si è registrata in tutto il mondo, ma è senza prospettive”. Sono stati poco tempo fa preannunciati ambiziosi piani di privatizzazione per i prossimi cinque anni concernenti proprio grandi aziende a partecipazione statale, (nel settore energetico ad esempio di ROSNEFT), oltre che di grandi banche (per esempio della Banca per il Commercio Estero “VTB”). Saranno portati effettivamente questi piani a compimento? E’, questa, solo la fase iniziale di un nuovo processo di privatizzazioni? Sarà salvaguardato il necessario controllo statale? Questi temi cruciali saranno inevitabilmente al centro della campagna elettorale per le presidenziali del 2012. Nell’avvicinarsi dell’importante scadenza elettorale appariranno più chiare le distinzioni tra i due leader circa il rafforzamento o meno dell’intervento diretto dello Stato nell’economia, quale fattore anche di stabilità politica interna rispetto al caos generato dalla gestione eltsiniana. * Ph.D in scienze giuridiche presso il Dipartimento di diritto costituzionale russo dell'Istituto di legislazione e di diritto comparato del Governo della Federazione Russa.
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GIULIO BAFFI E IL FASCINO DELLA SCENA “Il Teatro sa essere un grande motore di seduzione emotiva e intellettuale” di Paolo Montefusco i potrebbe dire che non c’è teatro senza Giulio Baffi a Napoli. Si potrebbe dire perchè quella del noto critico teatrale e giornalista di Repubblica è una presenza costante nelle sale partenopee, una figura riconoscibile e quasi rassicurante per gli abitueè della platea, laddove c’è una prima, laddove ci sono giovani attori da sostenere, laddove, in sostanza, c’è del buon teatro. Certo, gli manca il dono dell’ubiquità, ma non ci stupiremmo se un giorno lo acquisisse con la misura e la disponibiltà che tutti gli riconoscono. Lo definiscono un critico buonista, ma lui smentisce. Giulio, sei docente di storia tecnica di regia, critico teatrale, giornalista. C’è voluta più passione o applicazione? Passione, sicuramente, anche nel senso che ho avuto la fortuna di realizzare quello che desideravo. Una passione da spettatore bambino, ragazzo e adolescente che si è avicinato al teatro già al liceo in occasione delle recite di fine anno, quelle che ti facevano rimandare o bocciare. Ho avuto il fortunato incontro con il “Teatro Esse” di Gennaro Riviello in anni ormai lontanissimi e un rapporto fatto di anni lunghi e formativi. Dopo, sono arrivati tutti gli incontri che hanno fatto la mia vita: amicizie, affetti, contrasti. Dall’organizzazione della NCCP ai Festival de l’Unità o ancora alla direzione del Teatro San Ferdinando e tanto altro ancora. Con quale spirito hai svolto la tua attività in tanti anni? Con quello di chi costruisce ponti per la gente, non facendo il critico affacciato alla finestra, ma ponendomi come anello di congiunzione in un processo che parte parlando e arriva realizzando o osservando. Avendo un occhio particolare, attento, appassionato e anche parziale. E’ questa la funzione di un critico teatrale? La funzione del critico teatrale negli ultimi 50 anni è cambiata radicalmente. Un tempo era quello che osservava lo spettacolo rispetto a un testo. Era prima un po’ critico letterario e poi vedeva come questo testo si era trasformato sulla scena. Oggi fare il critico teatrale ha poco senso, siamo cronisti. I giornali non ospitano più critiche o un approfondimento ampio che invece si fa parlando nelle occasioni possibili. Per il resto facciamo cronaca, diamo notizia di. E’ in questo ruolo che io sento di essere assolutamente privilegiato perché nel tempo si è costruito un rapporto, che potrei definire fiduciario, e mai subalterno, con il mondo dello spettacolo. Come gestisci la scelta degli spettacoli da andare a vedere? Ho delle regole. Naturalmente, rispondo a un giornale e quindi anche a degli indirizzi che però contribuisco a fare. Vado a teatro tutte le sere, ma capitano settimane particolari in cui non è possibile assistere a tutte le prime che sono in cartellone. Quindi privilegio, via via, un teatro più originale, un teatro di testo, una drammaturgia napoletana, lo spettacolo che non ha cambiato data rispetto a quando è stato annunciato, lo spettacolo fatto da giovani attori e regista che hanno bisogno di un’attenzione maggiore rispetto ai grandi protagonisti. E quindi lo spettacolo che ferisce, quello che inquieta, quello che incuriosisce, quello che non mi fa dormire la notte. Il che significa che in un anno ne trovo tre. Cosa scegli di non vedere in partenza? Non escludo mai niente, ma naturalmente non ho il dono dell’ubiquità. Mi capita di vedere anche due spettacoli per volta, ma raramente. Teoricamente non andrei a vedere uno spettacolo il cui prodotto puzza di disonestà, di occupazione capziosa dello spazio, di muffa in questo senso perché già altre volte ne ho avuto verifica. In effetti io di uno spettacolo dopo dieci minuti so tutto o quasi, ma aspetto pazientemente fino alla fine per capire se quello che avevo pensato o intuito trova conferma. E quasi sempre non mi sbaglio. Ti hanno spesso definito un critico buonista. E’ l’accusa che più facilmente mi fanno. Io rispondo sempre che non sono buonista ma sono rispettoso: non mi piace offendere, non mi piace mortificare. Questo come scelta di vita. La ragione per cui c’è la leggenda del mio buonismo è perche se un giornale, nella fatica della conquista degli spazi, mi può dare uno spazio tre volte in una settimana nella quale ci sono otto spettacoli, io ritengo meglio o più piacevole o ancora più doveroso,
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parlare delle tre cose migliori che ho visto. Questo perché ritengo che il mio ruolo sia far andare la gente a teatro e non allontanarla da esso. Quindi lo scopo di quello che scrivo non è esprimere il mio parere, ma individuare, incuriosire, gli ipoteteci lettori che vogliano programmare la serata in base a ciò che io scrivo e dare loro degli input da verificare in scena. Sei stato il direttore artistico dell’ultimo “Benevento Città Spettacolo”. Non c’era solo teatro, ma anche musica e danza. Sei stato a tuo agio?
Giulio Baffi
Sì, perchè ho avuto degli ottimi collaboratori, perché chiedo consigli, non credo di essere il Padreterno e gli errori sono sempre contemplati e contemplabili. Benevento è una grande città, con un’attenzione culturale ampia, per cui anche l’offerta culturale deve essere ampia. Non mi è stato chiesto di organizzare una kermesse di tendenza e la mia risposta è stata quella di costruire un festival delle possibilità del fare spettacolo. Le possibilità messe a confronto dovevano dunque essere le più differenti possibili. All’interno di tutto questo c’erano sicuramente anche le mie gioie, il mio piacere. Ma è chiaro che l’intero Festival mi è piaciuto tutto. Non metterei mai all’interno di un Festival uno spettacolo che non mi piace solo perché può chiamare pubblico o solo perché può essere prestigioso. Come ti sembra il rapporto dei giovani con il teatro? Il teatro può essere un grande motore di seduzione e quando riesce a esserlo è straordinario perché l’emozione che dà l’attore con la sua fatica può rappresentare una spinta emotiva e intellettuale di grande forza. A volte lo spettacolo non funziona perchè il pubblico non entra in sintonia con la proposta e molte volte i giovani non hanno l’abitudine al linguaggio dello spettacolo. La complessità del dello spettacolo teatrale li inquieta un po’ troppo, ma questo è anche un difetto del percorso culturale dei singoli spettatori. Molto spesso i ragazzi a teatro cercano il comico, il personaggio televisivo affermato. Ritengono che quel comico sia teatro, ignorano perlo più la complessità della sintassi del teatro. Infatti, li invito sempre a vedere uno spettacolo dove ci sia un testo con più attori e dove a domanda c’è risposta. Il comico fa spettacolo, molto spesso non fa teatro. E’ molto rasserenante, sai bene cosa dice e lo sai prima e questo rilassa e non inquieta. Ci sono però tanti giovani che affollano laboratori e scuole varie di teatro. Certo, perché il teatro è anche un motore di comunicazione strepitoso. Io dico sempre a tutti: giocate al teatro perché fa bene. Come giocare al pallone. Frequentare il teatro invece diventa più complicato perché non sempre è affascinante. E io l’ho detto che su 200 spettacoli che vedo in un anno quelli che mi emozionano sono 4 o 5. Se la stagione è buona, ci sono 50 spettaco-
li di corretta ortodossia. Il resto è roba da dimenticare o quasi. Vogliamo parlare di tagli alla cultura? I tagli sono una sciagura che in questo momento di crisi sembra inevitabile, mentre, secondo me, sarebbe evitabile se si tagliassero cose differenti. I tagli alla cultura sono il suicidio di una generazione o l’omicidio perpetrato verso una generazione. Si taglia ciò che si ritiene inutile, ma non c’è niente di più indispensabile dell’inutile perché non bisogna privarci della fantasia, della fuga intelligente dalla realtà. Anche perché molto spesso questi tagli non sono accompagnati da un progetto, è qui che io mi dispero. In una famiglia normale che abbia esigenza di risparmiare si decide, per esempio, che non si può mangiare filetto tutti i giorni. Allora, i tagli allo spettacolo devono essere immediatamente bilanciati da una progettualità forte che stimoli e dia ossigeno al mondo dello spettacolo. Invece spesso c’è un atteggiamento sprezzante: tanto poi sopravvivono. Costringere alla miseria culturale è molto peggio che costringere alla miseria fisica e in questo momento si sta provocando un piccolo cataclisma occupazionale. Il mondo dello spettacolo è un’industria molto ampia, molto articolata, molto diffusa per un settore che si accontenta di poco. Questo è il problema, che accontentandosi di poco sembra che abbia bisogno di poco. Quindi quando ci si trova di fronte a film che prendono due milioni di contributo e poi neanche arrivano nelle sale la risposta sta nella progettualità? Il progetto sta nel capire perché non escono. In anni lontani ho preso parte alla commissione ministeriale per i premi alla cinematografia e ho sempre posto il problema dei meccanismi cinematografici ai responsabili politici. Il problema è capire bene come funziona il rapporto tra produzione e distribuzione. Parliamo di “Visti da vicino”, due volumi che descrivono gli incontri con personaggi dello spettacolo avuti in tanti anni di lavoro. Chi di loro ti ha dato qualcosa di diverso? E’ difficile rispondere. Ho messo nei volumi tutto quello che mi piaceva mettere insieme della mia vita, lasciando fuori tanto altro per poter, in teoria, fare altre raccolte. Nessuna di queste presenze è stata marginale nel mondo dello spettacolo e quindi nel mio lavoro all’interno di questo mondo. Tutte queste persone straordinarie hanno fatto parte della mia vita, anche dei miei sentimenti, dei miei affetti, della mia quotidianità, delle mie amicizie. Quindi è molto difficle prediligerne uno o più di uno. Naturalmente ho le mie predilezioni tra loro o meglio so chi mi ha dato di più. E allora so che mi ha dato di più negli stimoli e nell’esigenza di riflettere una persona come Roberto De Simone o Eduardo De Filippo, mi ha dato di più nella tenerezza e negli affetti una persona come Pupella Maggio, nell’amicizia fraterna uno come Peppe Barra, negli stimoli a guardare oltre uno come Leo De Berardinis, nell’emozione di come si canta una canzone Sergio Bruni. Ma che gli altri mi abbiano dato di meno faccio fatica a pensarlo. E’ un momento d’oro per Tony Servillo. Al di là dell’indubbio talento, quale pensi che sia la sua marcia in più? Ho grande ammirazione per Tony Servillo, oltre che un affetto profondissimo. Riesce a comunicare qualcosa con una forza straordinaria, ma ha anche grande rigore sulla scena e dietro la scena. Un rigore che io riconosco come se l’avessi già visto in altri grandi protagonisti del nostro teatro. E’ un rigore sereno, un modo di porsi non chiassoso, senza mai sbracciare, senza mai alzare il tono della voce o ridere più forte degli altri, quasi un voler passare inosservato. Un grande senso della misura dunque? E questa misura sicuramente è la freccia che scocca e che colpisce al cuore e al cervello. Ed è una misura alimentata con serena onestà e costanza, da che era ragazzo, a porsi sempre con serietà davanti al lavoro che stava facendo. In questa disarmante serietà, nel modo in cui lo fa, non è mai arretrato di un millimentro. E’ questa forse la marcia in più. O forse la marcia in più è perché ce l’ha e basta. Parliamo dei grandi del palcoscenico napoletano. Quelli come Luisa Conte, Nino Taranto, i Maggio, Pietro De Vico e tanti altri, erano grandi già nei primissimi anni ‘70 e sono durati, fortunatamente, molto a lungo. Prima che ci fossero volti nuovi si è dovuto aspettare i ‘90. Non c’è un buco generazionale al centro? Certo, perché c’è stato un momento preciso della storia del teatro in Italia in cui, con grande onestà, e lo sottolineo, una generazione si è posta un problema teorico forte: il rinnovamento del linguaggio dell’espressione teatrale attraverso il prevalere del corpo sulla voce. Ciò ha provocato un periodo abbastanza ampio di poca disciplina dell’uso di alcune tecniche attoriali, tra cui appunto l’uso della voce, dell’impostazione della parola. Molti, andando avanti e lavorando sulle proprie tecniche, hanno riconquistato questo uso. I grandi che non erano certo diventati afoni ma sapevano come adoperare la parola, hanno conquistato gli spazi che a loro competevano. Segue a pag. 16
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LA PASSIONE ARTISTICA DI EDUARDO PAOLA Ha organizzato eventi che hanno visto protagonisti i grandi artisti di tutti i tempi. Come le serate dedicate ad Annibale Ruccello e alla celebre artista Milly
di Giovanna Castellano l suo è un nome che con sempre maggiore insistenza circola negli ambienti dell’arte e, in particolare, del teatro. Eduardo è un ragazzo molto giovane, ma l’aspetto è decisamente quello di un ragazzino; un ragazzino che sembra timido (ma poi lo scopri spigliato e disinvolto), che sembra ossequioso e fragile (ma poi lo scopri dotato di un’ironia sferzante nei confronti di chiunque); l’unica cosa che sembra e che non viene smentita dalla realtà è che è un ragazzo intelligente. L’amore per il settore della comunicazione lo ha portato a scegliere il percorso universitario di laurea in lettere moderne e l’impegno lavorativo nel settore della diffusione di marchi. Tutto in coerenza con la sua grande passione per l’arte. Con il Penguin Cafè di via Santa Lucia, locale molto trendy gestito da Diego Nuzzo, ha collaborato e collabora per l’organizzazione di eventi che vedono protagonisti i grandi artisti di tutti i tempi. Sono tanti i personaggi che, nella realtà o solo nell’immaginario personale e collettivo, sono entrati nel locale di via Santa Lucia perché su di essi si accendessero i riflettori che erano stato posizionati dalla bravura e dalla passione del giovane Paola. Alcuni di essi hanno fatto sì che si affollasse la saletta del caffé letterario e hanno mostrato un Eduardo Paola visibilmente emozionato a confronto con i suoi grandi miti. Per esempio la serata dedicata ad Annibale Ruccello, il grande commediografo, autore di capolavori come “Anna Cappelli”, “Le cinque rose di Jennifer” e, soprattutto, quel “Ferdinando” che per anni ha visto protagonista una grandissima Isa Danieli che, proprio in omaggio a Ruccello, ha voluto partecipare alla serata organizzata da Eduardo, facendosi accompagnare da Adriano Mottola che sulle scene impersonava
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proprio Ferdinando. Altra serata di grande impatto emotivo è stata quella dedicata ad Angela Luce che, in una sala stracolma, ha commosso e si è commossa parlando della sua prestigiosa carriera e della sua vita intensa, fonte di ispirazione per il suo libro di poesie “Momenti di ...Luce”. Ancora un grande evento è stata la serata dedicata a Mario Scarpetta che si è svolta alla presenza di Maria Basile; e poi la presentazione del libro di Arnolfo Petri dal titolo “Graffi del cuore”, poesie interpretate per l’occasione da Annamaria Ackermann; e una serata all’insegna dell’allegria quella dedicata a Rosario Ferro che ha presentato il suo CD di “macchiette” dal titolo “Preferisco il Novecento”. Ma forse il fiore all’occhiello di Eduardo Paola è il lavoro che sta facendo per riportare a una memoria più ampia e più diffusa una grande artista scomparsa ormai trent’anni fa: Milly. L’appuntamento che si è svolto al Penguin in omaggio alla mitica cantante, va a integrare uno spettacolo, andato in scena a Roma, dal titolo “Il bello non è più di moda”. Nel corso dello spettacolo è stato possibile ammirare una mostra di tre abiti di scena (che custodisce proprio Eduardo Paola a cui sono stati affidati dalla famiglia di Milly) e una bellissima galleria fotografica. Tutto questo lavoro di ricerca, allestimenti e spettacoli è finalizzato alla pubblicazione di un cofanetto che conterrà tre perle: un libro scritto da vari personaggi che l’hanno conosciuta e ne parleranno come artista e come donna, un DVD con le sue apparizioni più significative, un CD live con la registrazione per intero di uno dei suoi ultimi concerti tenuto al Teatro Eliseo di Roma nel 1980. Proprio il concerto live, rarissimo documento di grande valore, è frutto della ricerca e dell’impegno che Eduardo Paola mette al servizio delle sue passioni.
PASSIODEA, UN ANNO DI VIAGGI DELL’ANIMA Primo positivo bilancio dell’associazione culturale napoletana tra eventi letterari e artistici e ospiti di rilevo. La serata di chiusura del 2010 con Angela Luce ’associazione culturale PassioDea fa un primo bilancio della sua attività a un anno dalla nascita. Anno ricco di programmazioni e di ospiti di volta in volta più numerosi. Le ideatrici di PassioDea, Sabrina Vitiello e Anna Montefusco, con la preziosa collaborazione artistica di Vanina Luna, hanno portato avanti un progetto nato sulla spinta della passione per l’arte dell’incontro e del convivio. Il tema portante degli ultimi eventi è stato, e lo sarà ancora nel corso del 2011, il viaggio. Viaggio inteso non solo come spostamento fisico da un luogo all’altro, ma anche viaggio nel tempo, nelle epoche, oppure viaggio dell’anima. Viaggio a coniugare mescolanze di lingue, tradizioni...suoni, dove ogni incontro con gli ospiti diventa una benefica “sosta”. Molte di queste soste hanno permesso all’associazione di presentare interessanti libri, così come diversi e divertenti spettacoli sempre sul filo conduttore del tema portante. Lungo questo percorso, l’apertura del Bulin Calce, una casa-laboratorio dell’arte, sita nel cuore di Materdei, che gli ideatori, Fernando Alfredo Cabrera e Fortuna Del Prete, hanno spalancato in un gemellaggio con PassioDea. L’ultimo incontro del 2010 è stato organizzato nel cuore della città, all’interno del prestigioso Palazzo Alabardieri. Protagonista Angela Luce, cantante, attrice di cinema e teatro, poetessa, da sempre amata dalla gente di Napoli. L’evento che ha avuto per protagonista la grande artista napoletana ha generato un miracolo: far dimenticare ai presenti, almeno per un paio d’ore, il gelo che stringeva il golfo nella sua morsa, con una temperatura allo zero, la sera del 16 dicembre. E infatti Angela Luce l’aveva detto, esor-
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dendo con una battuta, che era la serata adatta a rompere il ghiaccio. Così al tepore della saletta dell’Hotel Palazzo Alabardieri si è aggiunto il calore che ha caratterizzato l’atmosfera della serata in un crescendo di interesse del pubblico accorso, dalla presentazione del libro alle esibizioni finali della cantante e attrice. Con il benvenuto alla Luce e un breve commento al libro, con incursioni nel rapporto personale, ha preso la parola Giovanna Castellano facendo anche simpaticamente da “spalla” per alcuni interventi dell’artista. La scrittrice Dora Celeste Amato, con consuete competenza e amabilità, ha illustrato i contenuti del volume e ha dipinto un ritratto di artista e di donna, di personaggio e di persona (“parola che già dice tutto”) dal quale emerge una figura, quella di Angela Luce, non solo mossa dalla passione artistica e dal temperamento forte che tutti le riconoscono, ma da considerare “imbarazzante” per un ambiente spesso troppo legato alle forme e alle apparenze e poco incline ad aprirsi alla verità e alla sincerità caratteriale più lampante. Mentre cresceva l’attenzione dei presenti, è arrivato il momento più atteso, quello che ha visto protagonista diretta Angela Luce, nelle vesti di attrice dei suoi versi e di cantante. Dal libro presentato, la Luce ha letto alcune poesie, scegliendo anche di recitare più di quanto previsto in partenza. Si è trattato naturalmente di una recitazione magistrale, emotivamente carica, capace di far calare il silenzio tra il pubblico impegnato a non perdere la più piccola scansione delle parole e pronto a esplodere in un applauso alla fine di ogni poesia. Non poteva andare diversamente quando Angela Luce si è esibita nella performance che maggiormente l’ha resa amata dal pubblico, ovvero
Eduardo Paola. Nella foto in alto, la locandina della serata dedicata a Milly
il canto. Accompagnata dal maestro Tommaso Maione, l’artista ha regalato due classici: “Era de maggio” e “Ipocrisia” e in più un pezzo che l’ha resa famosa come “Bammenella ‘e ‘ncoppe ‘e Quartieri”, chiudendo poi con un brano di Viviani. Tra un’esibizione e l’altra, simpatici botta e risposta con l’amica Anna Maria Ackerman e col resto del pubblico. Come detto, è stato un crescendo: si è passati dal ghiaccio da rompere all’inizio, agli applausi calorosi e prolungati e alle richieste di bis, per finire con le foto e le dediche sul volume di poesie e sui cd dell’artista. Non ci sono dubbi: giovedì 16 dicembre 2010 a Napoli non faceva freddo.
Due momenti della serata a Palazzo Alabardieri. In alto, Angela Luce, Dora Celeste Amato e Giovanna Castellano. Nella foto qui sopra, Angela luce si esibisce accompagnata dal Maestro Tommaso Maione
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IL TEATRO SCATENATO DI GLEIJESES Il noto attore napoletano ha portato al Teatro Bellini una versione efficace e moderna dello “Scarfalietto” di Scarpetta con un “Tartaglia” pirotecnico di Anna Montefusco eppy Gleijeses è sicuramente uno degli attori più poliedrici del mondo dello spettacolo. A soli diciassette anni fu presentato al grande Eduardo De Filippo, al quale dovette rifiutare la partecipazione a una commedia perché intenzionato a proseguire gli studi universitari. Si è ampiamente rifatto negli anni, portando sulla scena molti dei lavori del maestro. Ma nella sua ricca carriera sono da annoverare testi di Pirandello, Camus, Feydeau, Moravia e tanti altri grandi letterati e commediografi. A Napoli, sua città natale, ha portato al teatro Bellini “Lo scarfalietto”, di Eduardo Scarpetta, di cui è protagonista in un doppio ruolo. Una trasposizione scoppiettante, come egli stesso ama dire, perfetta nei tempi recitativi e che ha il suo culmine nella ormai famosa udienza di tribunale conclusiva, a volte surreale. Al suo fianco, un bravissimo Lello Arena nel ruolo di Felice Sciosciammocca e una “impressionante” Marianella Bargilli nel ruolo di Amalia, moglie di Sciosciammocca. Nei camerini dello stesso teatro, Geppy ci accoglie con grande cortesia e una leggera preoccupazione: non manca molto all’inizio dello spettacolo. Chiacchieriamo accompagnandolo nei suoi frenetici spostamenti tra pennelli per il trucco e abiti infilati di corsa. Intanto, perché le figure escono da un libro? Perché mi piace inquadrare lo spettacolo come delle figurette che c’erano una volta ma che non esistono più. Non è un’operazione d’antiquariato, ma un’operazione di stilizzazione. Bisogna rendere chiaro che quel mondo non si ripeterà mai più e che quelle sono la parodia di personaggi, sono macchiette. Sono cioè la parodia di personaggi che noi possiamo immaginare vivessero in quel periodo, parliamo del 1881. E’ una gran farsa ma che ha un meccanismo assolutamente perfetto. Ma questo non impedisce alle figurette di uscire impolverate da un “cascione”, come diremmo noi a Napoli, o da un libro antico, per poi rientrare nello stesso libro alla fine della loro sortita. A chi ti accusa di avere dato un’impronta troppo farsesca alla commedia, cosa rispondi? Che non ha capito il tipo di operazione. Si chiama straniamento comico. Che significa che uno si diverte a prendere un personaggio, a smontarlo guardandolo dall’esterno, e poi rimontarlo. Sono personaggi che non hanno una psicologia o un’anima. Se vai a scavare, se cerchi di renderli più profondi, non esce nulla. Gratti gratti, ma è solo crosta, non c’è una sostanza. Sono stampelle vestite, come lo erano in Feydeau. Ne ho fatti tanti di personaggi così. Questa è la chiave, secondo me. Farli, tenendo in funzione il meccanismo. Facendo capire che lo stile dell’interpretazione è uno stile nuovo, surreale. In virtù dell’amicizia con il compianto Mario Scarpetta, ha un particolare significato l’avere portato in scena questa commedia? Si, parlavamo insieme di fare questo spettacolo e se avessimo avuto il tempo, l’avremmo fatto. Mario è morto troppo presto. Lui ne aveva fatto un’edizione ripresa poi dalle televisioni locali. Cosa pensi di quella versione? Voglio intanto precisare che Mario con il tempo era diventato un grande attore. Noi abbiamo cominciato a recitare insieme. Però, aveva il problema della filologia, problema che ha assillato anche altri figli d’arte, cioè di fare tutto come lo avrebbe fatto, in questo caso, il suo prozio. Sono operazioni insidiose e difficili. Come si fa a fare oggi una commedia pensando a come l’avrebbero fatta nel 1881? Anche se quell’edizione, devo dire, aveva dei grandi interpreti come, per esempio, Dolores Palumbo. A proposito di grandi interpreti, ci sono attori bravissimi nel tuo spettacolo. Si, e lo dico con la massima convinzione. Ci sono anche bravissimi attori giovani, che sono una grande risorsa. Alcuni sono cresciuti con me, come Gino De Luca. Ma parlo anche di Gina Perna, per esempio, o di Margherita Di Rauso o, ancora, di Gianni Cannavacciuolo. Tutti attori che
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sussurri & grida
hanno esperienze diverse, ma non avrei potuto avere di meglio per questo spettacolo. Tu invece interpreti due ruoli. Come mai questa scelta, peraltro faticosissima? Altro che se è faticosa! Ma altrimenti sarei stato Felice Sciosciammocca. Invece mi divertiva di più interpretare questi due personaggi di cui uno, Don Anselmo “Tartaglia”, me lo recitava mio padre quando ero bambino.
Geppy Gleijeses
Dunque non ho dovuto imparare quelle battute perché le avevo nel sangue. Devo dire che, per un motivo o per un altro, non mi erano mai piaciuti i “Tartaglia” che avevo sentito. Il mio è un “Tartaglia” più scatenato, più pirotecnico e penso che così debba essere. Restiamo in tema di personaggi scatenati. Colpisce particolarmente l’interpretazione nevrotica del personaggio di Marianella-Amalia. E’ una impostazione che avete deciso insieme? Ho approfittato della fisicità di Marianella, della sua duttilità e comicità. Perché pur non avendo quasi mai fatto lei ruoli comici, io sapevo che in lei questa comicità esisteva. E infatti, l’ha tirata fuori. Diciamo che è una impostazione nata un po’ dalla mia mente e un po’ dalla sua. Mia, per esempio, è l’idea di metterla sulle zeppe, di vestirla completamente di nero facendola assomigliare a una figura dark. Pensa che un amico antiquario, quando l’ha vista
nello spettacolo, ha detto testualmente: Geppy mi sono spaventato. Questo vuol dire che ha funzionato. Cosa ha significato invece lavorare con Lello Arena? E’ stato molto piacevole perché Lello è un attore che si assume le sue responsabilità e le divide con te. Nel senso che, pur essendo io il capo comico e il primo attore, lui divide con me questo ruolo, interpretando non a caso il personaggio di Felice Sciosciammocca. Lo fa con grande generosità e io so che mentre, in genere, quando non sono in scena devo stare attento a che tutto funzioni, con lui posso stare sicuro perchè tira la “carretta” al posto mio. Tanti i premi ricevuti. Che importanza hanno questi riconoscimenti? Hanno un grandissimo valore. Fortunatamente ho vinto tanto vantando anche una candidatura agli oscar del teatro. Esattamente nel 2006, oscar vinto poi da Eros Pagni. Alcuni di questi premi sono stati davvero belli, penso per esempio al premio Accademia delle Muse, consegnatomi dal Sindaco di Firenze a Palazzo Vecchio. Ma poi ci sono il premio de Curtis, il premio Gino Cervi, il premio Chianciano e tanti altri. Riceverli ha rappresentato senza dubbio una gratificazione. Direttore a Milano per sette anni, ma anche Direttore del Quirino a Roma. Come si lavora in queste due diverse capitali della cultura? Molto meglio a Roma. Non amo Milano particolarmente. Voglio però precisare che sono soprattutto Direttore del Teatro Stabile di Calabria, che poi ha vinto il bando europeo per il Quirino. E quindi il Quirino fa parte del teatro di Calabria. Sembra grottesco, ma è così. Pensando a Milano, ci viene in mente il personaggio di Cazzaniga, nel film “Così parlò Bellavista”, nel quale avevi un ruolo. Non è che nasce da lì l’ “antipatia” per i milanesi? Ma Cazzaniga era una delizia e Renato Scarpa, che l’interpretava, un grande attore. Anche il film però era un’assoluta delizia. No, per carità, battute a parte, i milanesi non mi sono affatto antipatici e Milano è una città che mi piace molto. E’ solo che non ne sopporto il clima, proprio non ce la faccio a resistere. Tutto qua. Sappiamo dei tuoi incontri con Eduardo De Filippo. E che con te è stato sempre affettuoso e disponibile. Ma allora come nasce la leggenda di un Eduardo freddo e talvolta scontroso con gli attori? Bisogna precisare che Eduardo odiava chi lo adulava. Detestava la piaggeria e allora, se trovava qualcuno, seppur giovane come nel caso mio, che gli teneva testa, che aveva dignità, che aveva una forza di proposta, lo rispettava. E poi, lui stesso dice in una delle sue famose commedie: “Voi avete un problema, mi siete antipatico”. Ecco, Eduardo andava a simpatia e antipatia. Hai interpretato un unico personaggio russo, Chlestakov, in un’opera di Gogol. E’ stata l’unica incursione nel teatro russo, pur così ricco? Adoro gli autori russi. Ho in mente un testo da molti anni,: “Il cadavere vivente” di Tolstoj. Un testo meraviglioso che in Italia non si fa da tantissimi anni. Purtroppo non è facile fare Tolstoj in Italia ma io spero, prima o poi, di riuscire a farlo. Com’è cambiato il pubblico napoletano nel corso degli anni? Il pubblico di Napoli non è più quello di una volta. Come ho già avuto modo di dire, è un pubblico molto deteriorato. Corrotto dalla tv, ma anche da un imbarbarimento generale della città. Ventisei anni fa, portai al Politeama “Il malinteso”, di Camus. Un testo difficilissimo con Alida Valli e Marina Malfatti. Teatro pienissimo e osannante. Oggi non verrebbe più tutta questa gente anche perché l’alta borghesia non viene più a teatro. Ma mi auguro di cuore che le cose possano migliorare.
Due tra i momenti più esilaranti de “‘O Scarfalietto”, di Eduardo Scarpetta, portato al Teatro Bellini. Nelle foto Marianella Bargilli, Lello Arena e Geppy Gleijeses
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NAPOLI, I TIFOSI TRA SOGNO E REALTA’ Il 2010 della squadra azzurra è stato fantastico: passaggio del girone in Europa League e secondo posto in campionato. Il Fenomeno Cavani e le conferme degli altri giocatori di Gemo ine anno. Tempo di bilanci. Per le famiglie, le grandi aziende, i singoli individui. La vita ci richiama spesso a una sorte di “resa dei conti”. Volenti o nolenti, siamo costretti a guardare dentro e fuori di noi e, con un po’ d’ansia, a verificare se la lucina è verde o rossa. Tempo di bilanci anche per la S.S.C. Napoli che, da quando Don Aurelio ne ha preso le redini, non ha mai chiuso in rosso, all’opposto, la lucina è un abbagliante faro che in fatto di bilanci pone la società partenopea ai vertici del calcio mondiale. E non è affatto un’esagerazione, visto che il club azzurro ha costretto perfino Le Roy Michel Platini a citarlo come esempio di oculata, sana e seria amministrazione. L’avvedutezza e la sagacia con le quali si è mossa la società, la cautela e la prudenza messe in campo, sono state il carburante giusto per quel processo di crescita che sin qui è apparso inarrestabile. L’organigramma societario inoltre si è arricchito di nuove importanti figure professionali e le soddisfazioni fioccano. Il campionato 2009/2010 si era chiuso con la conquista dell’Europa League. La classifica finale dice che il Napoli ha fatto meglio di squadre più accreditate (leggi Fiorentina e Juve), ma alcuni punti sprecati per inesperienza (ma siamo in clima natalizio: lasciamo in pace gli arbitri...) dicono che poteva addirittura fare di più. Il bello del calcio è questo. L’arbitro fischia tre volte, tutti sotto la doccia, neanche il tempo per le recriminazioni, che oramai fanno parte di un rituale dovuto, ed è di nuovo palla al centro. Gli azzurri si sono ripresentati al via del campionato 2010/2011orfani di Quagliarella, che da figliuol prodigo si è di colpo trasformato agli occhi dei tifosi in un novello Giuda, visto che è passato dalla maglia più amata a quella più odiata. Ci sono state altre partenze altrettanto dolorose, su tutte quelle di Cigarini e Denis, oltre a un robusto sfoltimento della rosa. Ambizioni ridimensionate? Macché! Se non ci fosse la molla dell’ambizione a
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pungolare l’umanità saremmo ancora all’età della pietra, ad accendere il fuoco con i bastoncini e a trascinare le donne per i capelli (il fuoco lo accendiamo più comodamente, con le donne in verità ci siamo un po’ complicati la vita...). Dall’ambizione è nata l’idea di portare l’attaccante uruguaiano Edinson Cavani a Napoli. Del “Matador” si è detto e scritto tutto, abbiamo forse perso un figliuol prodigo, ma certamente abbiamo trovato un “Messia”. Mi scuso per i continui riferimenti biblici ma stiamo parlando “dell’atleta di Dio”, di colui che ogni volta che segna si rivolge al Cielo e quest’anno lo fa molto spesso. Cavani è stato letteralmente adottato dalla tifoseria e dalla città non solo per i suoi gol, tutti bellissimi, ma perché si sacrifica con sfiancanti ritorni che aiutano la difesa, perché non si lamenta se non riceve la palla, perché è altruista (chi vuol capire capisca). Ad affiancare Cavani un Lavezzi più forte che mai, incontenibile, a tratti impetuoso, un Hamsik sempre più Marekiaro sempre più uomo squadra e sempre più richiesto, la conferma di Pazienza, un
n° 12 - Dicembre 2010 Cannavaro finalmente sorretto da una buona dose di praticità, oltre che di tecnica, e un ritrovato Dossena. Sono questi gli ingredienti che hanno dato vita a un cocktail davvero esplosivo. Citazione a parte merita un piccolo grande uomo, Gianluca Grava. A vederlo fuori dal campo passa quasi inosservato, non appena calza gli scarpini si trasforma in un abitante di Pandora e diventa Gravatar. Davvero sensazionale, negli ultimi tempi, la prestazione sulla punta del Palermo Miccoli, cancellato dal campo, e il salvataggio sulla linea nell’ultima partita dell’anno.Ma la grandezza di questo Napoli ha soprattutto un nome e un cognome: Walter Mazzarri. Il tecnico toscano è riuscito a trasmettere agli azzurri stimoli senza fine in virtù dei quali quella azzurra è l’unica squadra che ancora rappresenta l’Italia in Europa League. Il Napoli, grazie al suo allenatore, è in grado di giocare fino al 96° e oltre con rarissima intensità emotiva, regala emozioni e vittorie sul filo di lana e mette a serio rischio le coronarie dei suoi impareggiabili tifosi che, è risaputo, vivono il calcio anche come rivalsa sociale. Un Napoli pieno di determinazione, carico di una voglia che non si ravvisa nelle altre squadre. Un Napoli che fa sognare. Il Pocho Lavezzi ha dichiarato che i tifosi hanno il diritto di sognare. Noi preferiamo la realtà ai sogni. Anche il più bello dei sogni troverà prima o poi un’alba in cui morire (confesso che questa l’ho rubata a Giorgio Faletti) e la realtà dice che al Napoli manca poco per il definitivo salto di qualità. Quando ciò avverrà, lasceremo volentieri che siano gli altri a sognare, noi avremo gli occhi ben aperti. Per goderci lo spettacolo.
Edinson Cavani si rivolge al Cielo dopo un gol. A destra, Gianluca Grava in azione
NAPOLI NEI FUMETTI DI GIANMARCO DE CHIARA Quella illustrata è una città fuori dai clichet: contratta, nervosa,opaca e senza prospettive di futuro hi desidera comprendere problemi, desideri, vaneggiamenti e sogni dei giovani di oggi, non può esimersi dal leggere la rivista di fumetti “Malefico”. Uscita per la prima volta nel 2008, è stata presente a molte fiere del fumetto italiano, tra cui Napoli Comicon e Lucca Comics, dove, recentemente, ha riscosso più che lusinghieri successi. È diretta da un gruppo di giovani intellettuali e artisti, alcuni ancora studenti universitari, che si muovono
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nell’intento di intrecciare fumetto e letteratura. Come scrive Gianmarco De Chiara, essa è “uno spazio libero, per liberi autori, in cui si dà vita alla sperimentazione e alla ricerca di nuovi mezzi espressivi, fondendo il percorso della nona arte con quello di altre espressioni artistiche come il cinema e la letteratura”. Insomma, dopo la Napoli dei romanzi e dei film, abbiamo anche la Napoli del fumetto. È una Napoli molto diversa da quella che potremmo aspettarci. Contratta, distruttiva, autolesionista, sfiduciata, spaesata, nebulosa. Ricorda più la piovosa Parigi di Benjamin, che la definiva “oasi d’orrore in un deserto di noia”, che non l’apparente anarchia della vitalità metropolitana della città campana. Sulle pagine di Malefico sono comparse le strips più intelligenti che ci è stato dato di leggere, a firma di Gianmarco De Chiara, Giovanni Di Meglio Lorenzo Sabia, Domenico Garofalo e Michela Cacciatore. Sulla rivista è apparso per la prima volta il personaggio CREEX, scritto e disegnato da Gianmarco De Chiara. Recentemente, a cura di Malefico fumetti, CREEX, con l’aggiunta di storie inedite è stato pubblicato in volume da ATENA.NET Srl, Grisignano (VI). È un fascicolo da non perdere. Come si legge nella nota editoriale “Creex è la storia di uno studente universitario napoleta-
no e, al contrario di Topolino, non è propriamente un animale umanizzato, ma è vittima del processo inverso. È un ragazzo rappresentato per come vive: un codardo, uno sfigato, un nullafacente, un criceto, vittima dell’alienante realtà quotidiana. Su questo gracile e timido criceto grava il peso di una società in decomposizione e di una città, Napoli, sbranata dalla sua stessa gente”. Dai disegni “impietosi” di CREEX insomma viene fuori una città, Napoli, lontanissima dal cliché propagandato dalla pubblicità. Ci appare come una città nervosa, opaca, dura, senza prospettive di futuro. In una parola, senza una possibile ipotesi di redenzione, immobile negli antichi “gliommeri” che la attanagliano e nel sempre uguale trascorrere dei giorni. Questa immobilità è resa ancor più evidente dalla scenografia che si avvale dell’impiego della fotografia per dare più verosimiglianza all’ambiente cittadino. In questo scenario, degno di un fumetto noir i personaggi soffrono e agiscono, sognano e si aggrovigliano nei loro ricorrenti e almanaccanti pensieri; ma, se ben s’intuisce il pensiero recondito dell’autore, la “narrazione” è soltanto un espediente, il meccanismo adatto per parlare con malcelata ironia dei problemi di una città ripiegata su se stessa e che si avvolge nei suoi stessi mali.
DE NITTIS Segue da pag. 8 a Napoli, dove realizza paesaggi di affascinante bellezza. Nella sezione “All’ombra del Vesuvio” è documentata l’eruzione del Vesuvio del 1872, fedele descrizione quasi scientifica dei fenomeni geologici e vulcanici, mentre nella sezione “La luce del Sud”, di grande impatto emotivo, sono presenti i lavori in cui predomina la campagna pugliese con arditi tagli prospettici affogati in un bagno di luce di grande respiro coloristico ed espressivo. Nel 1874 partecipa alla prima esposizione degli impressionisti nello studio del fotografo Nadar, ma subito dopo si distacca dal gruppo, riprendendo i temi a lui più cari della modernità parigina. Fino alla morte, avvenuta nel 1884 in seguito a un improvviso ictus, De Nittis continua a dipingere le sue “scene” preferite, restando fedele a una visione della realtà, fatta di eleganza e modernità cui seppe imprimere sempre nuove improvvise accelerazioni stilistiche. La mostra del “Petit Palais”, curata da Dominique Morel e da Emanuela Angiuli della Pinacoteca di Barletta che ha prestato 47 opere delle circa 120 in esposizione, è, come scrive giustamente la direttrice della pinacoteca, un’occasione per liberare l’artista italiano “dalle molte zone d’ombra, generate soprattutto dalla critica italiana del primo ‘900” e ridargli la giusta collocazione nel panorama degli interpreti più attenti ai mutamenti della società francese di metà Ottocento che De Nittis ha vissuto e rappresentato in presa diretta, con slancio e viva partecipazione.
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IL FLAMENCO ESPLOSIVO DI DOMINGA La Andrias, ballerina dalla forte personalità, ha partecipato, nelle vesti di bailora, al film “Passione”, dedicato a Napoli dal regista americano John Turturro di Umberto Franzese rofilo decisamente mediterraneo, occhi luminosi penetranti, capelli corvini, naso greco malizioso, labbra voluttuose, mani diafane, dita sottili. Altezza considerevole in un corpo sinuoso, fascinoso. Una figura piacevole, seducente. Una donna, Dominga Andrias, irriducibile, disinibita, spigliata. Non eccentrica né conformista, ma dalla forte personalità artistica. In lei ogni freno, ogni limite, ogni appannamento, si scontra con l’irrefrenabile voglia di esplosione, di liberazione. Desiderio, carnalità sublimazione di forme, di configurazioni, di allegorie di immagini, si fondono in uno stile chiaro e duttile volto a dare corpo e anima al suo disegno artistico: il flamenco. Un ballo in cui esplodono atmosfere, sensazioni, pulsioni, frenesie ispanopartenopee. In una ballerina di flamenco conta, eccome, l’attrattiva del corpo in ogni sua parte. “Forma che pura ti arrotondi dove s’inerta l’arco delle reni...”. Ma oltre il fascino, nella seduzione di un corpo che si lascia contemplare, c’è la libertà di esprimere memorie, desideri, fantasie. E così pure, allorquando quel corpo che vibra, che freme, si curva, si flette, fa di una composizione flamenca un atto di fede, di religiosità, di poesia, di musica. Dominga Andrias dà inizio al suo percorso artistico nel 1988 a Sevilla presso l’Accademia di Manolo Marin, approfondendo poi le tecniche e gli stili del flamenco alla scuola di Matilde Coral. Nel 1995 crea il gruppo di danza flamenca la Romeira. Nel 1996 è l’ideatrice del tablao Cueva del Mar, stage con Andrei Marin, Rafael Campallo, Mercedes Ruiz, Pilar Ortega, Maria Flores, Daniel Dona, Soraya Clavijo. Partecipa a tutte le edizioni del Premio Danza Enzo Avallone e ai Festival di Chiqui Jimenez (El Falo). Nel 2006 è in torunée con lo spettacolo Despues de Carmen in coppia con Antonio Marquez. Nel 2007 Dominga Andrias y Compania è al teatro “Instabile” di Napoli protagonista di “Immagini per una Carmen” di Sergio Javier. Nelle vesti di bailora partecipa al film “Passione” di John Turturro. Di recente, in coppia con Salvatore Inghilleri, per la regia di Gigi Proietti, direttore d’orchestra Daniel Oren, fa parte del corpo di ballo della Carmen al teatro “Verdi” di Salerno. Oggi è insegnante e coreografa di flamenco a Napoli pres-
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so l’associazione culturale “Spazio Danza”, diretta da Annalisa Cernese. Siamo a tu per tu con Dominga Andrias è il momento tanto atteso, un momento non formale, ma confidenziale, cordiale. Il flamenco, secondo lei, esprime desideri, ricordi, seduzione, grazia, sensualità o cos’altro ancora? Può esprimere questo e tanto altro ancora, come forza, passione, sofferenza, disperazione, dignità, ma soprattutto libertà, libertà di poter esprimere la propria personalità. C’è attesa o insoddisfazione di spettacoli di danza?
Dominga Andrias
Ancora tanta insoddisfazione. C’è penuria o cospicua presenza nel panorama cittadino di scuole di ballo? Il discorso della danza in generale sarebbe lungo e anche penoso. A Napoli, oltre che al S. Carlo, ci sono senz’altro diverse scuole all’altezza di educare e avviare alla danza, avviare, sì. Rifugio o conforto. Si ha modo di trovarli nel ballo? Certo, il ballo come terapia: fondamentale per conoscersi attraverso il linguaggio del corpo. Da dove proviene la grazia e la passionalità che osserviamo in una ballerina di flamenco? Dallo studio, dalla tecnica, dalla pratica e dalla voglia di potersi esprimere attraverso un’arte così antica. La tarantella, il tango, il flamenco, sono balli di una identica matrice culturale? Sicuramente sono danze che rispecchiano la tradizione, il colore di paesi diversi, ma pur sempre danze del popolo. Il flamenco, di cui lei è un’incisiva interprete, si può sostenere che racchiude in sé dell’epica e del circo, del mito e del folklore? Sì, si può, perché racchiude degli uni e degli altri. La natura si manifesta negli alberi, nei ruscelli, nelle pietre, nelle stelle. Lei, quando balla, da dove trae modo di esprimersi? Dal mare e dalla terra in movimento, essendo di origini flegree. Ciascuno nasce con capacità da mettere a frutto. I suoi tentativi la fanno sentire tranquilla dentro e ribelle fuori o viceversa? Ribelle dentro e tranquilla fuori. Quale scena vorrebbe dimenticare e quale quella per cui si esalta? Sono tante le scene che vorrei dimenticare, ma l’entusiasmo mi suggerisce di osare, “me quito el sombrero”. Nelle pieghe dei ricordi della sua fanciullezza ci sono giochi che ancora la affascinano? Sì, il contatto con la natura, ma il gioco più bello è la danza. Nel passaggio di una nuvola cosa crede di vedere? Le vedo muoversi come in una danza fascinosa. Il suo è un vissuto fatto di piccoli passi o di salti in alto? Di piccoli passi spesso faticosi. L’azzurro del mare o il rosso di una rosa? L’azzurro del mare. Ritrovarsi nell’ebbrezza di un sogno o nella luce del sole? Nell’ebbrezza di un sogno: è quel qualcosa che a un’artista non deve mai mancare. “Si può levare a uno spagnolo la sua cioccolata alla cannella, a una spagnola le sue trecce nere, ma a nessuno dei due si può togliere la danza, ne morirebbero”.
NAPOLI E LE SUE DIMENSIONI PARALLELE Il volume “101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita” di Agnese Palumbo è un ironico racconto di viaggio nei luoghi fisici e tra i mille volti della città Questo breve e piacevole brano è tratto dal volume “101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita”, scritto da Agnese Palumbo e edito dalla Newton Compton Editori. La scelta di proporre questo brano, tra i tanti, è sicuramente in linea con l’uscita “natalizia” del giornale. La descrizione che l’autrice fa di questo affascinante dedalo del centro storico è frutto del suo attento e appassionato occhio analitico, sempre pronto a posarsi sulla variegata umanità partenopea. Un libro guida, restituito con attento e ironico stile narrativo. *** SGOMITARE PER LA VIA DEI PASTORI di Agnese Palumbo Che sia stretta ogni momento dell’anno è più che evidente, ci si sta a stento, bisogna districarsi tra il via vai, le bancarelle, gli ambulanti, i turisti lenti che fotografano, i commercianti sulla soglia che chiacchierano, la gente che si intallea (si attarda e perde tempo) ai lati del vicolo, contro i muri. Ma che nel periodo di Natale si istituisca addirittura il senso di marcia, quello che si rischia una multa se si va nel verso contrario, è davvero poco credibi-
le se non si è passati almeno una volta per San Gregorio Armeno. Ai primi di dicembre, chi ha conosciuto la fiumana di gente che invade questo strettissimo vicolo ha poco da stupirsi: la si distingue nitida già da piazza del Gesù. Si avanza entrando, senza accorgersene, in una dimensione parallela. Il presepe diventa, in questo vicolo, una condizione immanente. Un lunghissimo respiro aiuta nel momento che precede l’immissione. Un po’ di claustrofobia è fisiologica. Solo un attimo. L’istante dopo si è già parte della storia che si sta raccontando, storia di contrattazioni per il pezzo più pregiato, spingi spingi tra la folla, chiacchiere e inciuci sui parenti da sopportare per la Vigilia e le feste comandate. A mano a mano che si cammina si regredisce d’età e sorprendersi a bocca spalancata davanti alla cascata prodigiosa che schizza e scroscia “meglio di quella della Reggia di Caserta”, è l’istante in cui si capisce che la regressione è al punto di non ritorno. Da qui ad allungare un dito per controllare se è vero il fuoco che scoppietta nel forno è un passo. Il presepe napoletano è un mondo, un appuntamento che si ripete ogni otto dicembre, davanti ai barattoli di colla, lastre di sughero, pennelli, acqua e decine di pastori di tutte
le dimensioni. Il rispetto della proporzione è fondamentale, così ogni anno si riempie un buco e ogni anno il patrimonio di storie e pastori aumenta. Una teoria di statuine che vengono liberate dall’imballo dell’anno prima e sistemate in fila in attesa di prendere posto. Ogni famiglia ha il pezzo antico, pregiato, di ceramica o di terracotta, a cui manca il naso, la mano o la gamba, e via via, fino agli ultimi personaggi di plastica. Ogni costruttore di presepe conosce a memoria le caratteristiche del pastore che sta per tirare fuori dallo scatolone. Dopo qualche tempo, ciascuno di quei pezzi diventa una sorta di parente lontano che ti capita di rivedere una volta l’anno. Tra tutti Benito che, distratto, se ne sta a dormire sotto il suo albero secolare. Il meno partecipe è forse il vero protagonista di questo mondo metafisico. E se fosse lui il genio cartesiano che ci sta sognando tutti? In fondo il presepe è figlio del Seicento napoletano, epoca di lumi e superstizioni, di oscure tradizioni e brillanti speranze: contraddizioni mai fino in fondo raccontate. Di quel sopra e di quel sotto che magicamente trovano incontro nella grotta, superiore passaggio tra morte e vita, metafora femminile di procreazione. Per i bimbi che a terra giocano
impiastricciati, tutto questo ha poco senso, specie se l’angelo dalla tunica rosa fa gli occhi dolci al musicista della grotta o l’acquaiola si lamenta del marito falegname. Mani che s’improvvisano d’artista riproducono la città e, a mezzanotte, il presepe diventa un’opera d’arte personale, quando la famiglia aspetta, al buio, che la casa s’illumini a intermittenza, solo di luci colorate. E poco importa se a San Martino ci sono davvero i capolavori dell’arte presepiale napoletana. Ognuno ha il Cuciniello che si è meritato.
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GIULIO BAFFI Segua da pag. 11
Tanto teatro nella tua quotidianità. Ma cosa ti piace leggere? Oramai leggo molto poco e questo è un rammarico. Una volta divoravo libri, ora leggo molto poco perché leggo piano, trasformo in immagini le pagine. Sostanzialmente leggo durante le vacanze di agosto, libri in genere piccoli, ma ho delle predilezioni. Mi piace Erri De Luca in particolare, oggi è uno dei miei pochi autori di culto e il suo “Il peso della farfalla” mi ha commoso. Mi piace la letteratura sud americana perché è paradossale, sognatrice, fantastica. C’è qualcosa di teatro russo che ultimamente hai visto e apprezzato? Ho visto quest’anno quella cosa meravigliosa che è stata i “Demoni” di Peter Stein e non è naturamente la prima nè la sola cosa che la cultura russa ha alimentato nei secoli. L’ho trovato straordinario. La complessità di questa cultura noi a malapena la intravediamo perché naturalmente siamo un piccolo segmento del mondo. Mi piacerebbe vedere di più, ricordo degli esperimenti di Mario Scarpetta straordinari, ricordo uno spettacolo di Saponaro con alcuni pezzi cechoviani messi insieme con particolare originalità. Ogni tanto capita che la cultura russa alimenti le nostre scene e quando in genere accade felicemente. Probabilmente perché chi sceglie di misurarsi con la scrittura russa è molto motivato, lo fa con grande attenzione e coscienza. Ho un progetto in tal senso per la prossima edizione del “Benevento Città Spettacolo”. Il nostro Tato Russo allestì “Il villaggio di Stepancikovo e i suoi abitanti” tratto da “L’idiota” di Dostoevskij. Anche quello, come tutti gli spettacoli di Tato Russo presentava cose belle e cose un po’ smisurate. Il tutto affrontato sempre con grande generosità di interpreti e di produzione, cosa di cui va sempre dato merito a Tato Russo che nelle sua follie è un folle smisurato e di qualità.
DUE VITE DOLCEMENTE SCONVOLTE “Tre all’improvviso”, diretto dal giovane Greg Berlanti, ha una sceneggiatura che regge bene per tutta la durata e, nella sua semplicità, offre lo spunto per una riflessione profonda di Luisa Apicella a vita diventerà decisamente imprevedibile per Holly Berenson e per Eric Messer, due cuori solitari proiettati ognuno nella propria carriera, sempre pronti a vivere alla giornata. Lei è una ristoratrice sulla via del successo, lui un promettente direttore sportivo di una rete televisiva. Le loro vite si incontrano tre anni prima di quanto ci mostra il film, allorquando Alison e Peter Novak, due amici in comune, li fanno incontrare per tentare di formare una nuova coppia. Il tentativo fallì miseramente dopo una serata decisamente disastrosa con i due single che si punzecchiavano a vicenda non nascondendo grande vicendevole antipatia. Per tre anni, dunque, Holly ed Eric non si sono più visti, ma per loro il destino ha in serbo una svolta. Le vite di Alison e Peter avranno purtroppo un triste epilogo e, in seguito alla loro prematura scomparsa, Holly ed Eric si ritroveranno unici tutori della loro figlia, la piccola Sophie. I due sprovveduti amici vedranno sconvolte completamente le loro vite da questo evento che per quanto piacevole impone
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ai due di rivedere totalmente le loro ambizioni e prospettive. Dovranno, infatti, prima di tutto stabilire un punto di incontro tra di loro, mettere da parte la vecchia antipatia per cercare di dare serenità e un futuro stabile alla piccola Sophie la cui vita è stata già tanto messa alla prova. Inoltre, l’impegno che comporta la responsabilità di occuparsi di una piccola vita, li spingerà a mettere da parte la frenesia per il lavoro e anche il tempo da dedicare alla vita sociale verrà ridotto. I due stabiliranno tra di loro, per amore della piccola Sophie, un rapporto sentimentale che, in realtà, era latente già ai tempi del primo incontro. Attori protagonisti “Tre all’improvviso” sono Katherine Heigl e Josh Duhamel diretti dal giovane regista Greg Berlanti. Il film riesce molto bene dal punto di vista narrativo grazie a una sceneggiatura che ben regge per tutto il tempo del film, ma anche per la buona prova attoriale e registica. Inoltre, il film, nella sua semplicità, con una tematica non certo innovativa, offre spunto per una riflessione più profonda sull’impegno necessario per crescere un figlio, un’avventura meravigliosa che riempie la vita.
Greg Berlanti
SUSSURRI & GRIDA Editore: Servire Napoli Redazione e amministrazione: Napoli - Piazza Municipio, 84 Milano - Viale Premuda 14 Minsk - Gvardeiskaia 16 Mosca - st. Pokrovka 47a Tel. 081 5522285 Fax 081 4203302 e - mail dall’Italia:
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EDIZIONE IN RUSSO In prima pagina, Vincenzo Onorato. E’ armatore e sportivo noto in tutto il mondo, soprattutto per i successi del team velico da lui fondato, quel “Mascalzone Latino” che ha collezionato vittorie in differenti competizioni e categorie. Il Team di Onorato sarà Record of Challenger nella prossima sfida di Coppa America, ovvero primo sfidante dei detentori della Coppa, “Oracle”. Vincenzo Onorato proviene da una gloriosa famiglia di imprenditori italiani ed è lui stesso Presidente della compagnia di navigazione Moby SpA, leader nei trasporti marittimi. Oltre all’attività di competizione, Onorato ha fondato a Napoli anche una Scuola di Vela con lo scopo di offrire una possibilità di vita diversa a molti ragazzi disagiati. Ivan Marino porta ancora in primo piano il problema enregetico che vede protagonista in questi anni la Federazione Russa. Com’è noto, ci sono due differenti progetti di sviluppo per il futuro energetico dell’Europa legato alle fonti russe: i gasdotti South Stream e Nabucco. Marino ci illustra le diverse strategie che ci sono dietro la nascita di questi progetti e spiega i vantaggi del primo, soprattutto per l’Italia, che con la Federazione Russa, ha forti rapporti di amicizia e di collaborazione. Le elezioni presidenziali in Bielorussa hanno confermato la leadership di Alekandr Lukashenko. Il Presidente bielorusso gode di una forte popolarità tra la sua gente ed è stato premiato per la sua efficace politica sociale ed economica che ha dato stabilità al Paese. Parigi celebra Giuseppe De Nittis con un’importante mostra al Petit Palais che colloca il pittore italiano tra
gli interpreti più attenti della società francese di metà ottocento. Ce ne parla Gerardo Pedicini. Alexander Urussov ci parla di un volume che descrive la figura e l’opera di Roman Jakobson, linguista russoamericano che fu futurista e conobbe personalmente, in Russia, Tommaso Marinetti. Un’ampia pagina è dedicata alla musica classica. L’Associazione Musicale Alessandro Scarlatti ha celebrato il grande compositore tedesco Schumann, nell’anno del bicentenario della nascita, in una serata di grande emozione al Teatro Sannazaro di Napoli. Mentre al San Carlo il Coro e l’Orchestra del Teatro, sotto la direzione del moscovita Alexander Anissimov, hanno inaugurato la stagione dei concerti 2010/2011 con alcuni magnifici affeschi musicali di Rachamaninov e Musorgskij. Installazioni, filmati, grandi composizioni pittoriche occupano l’intero piano terra dell’Art Gallery del Museo Nazionale M. K. Ciurlionis di Kaunas. Sono dell’artista lituano Eimutis Markunas in un’esposizione che ne dimostra la padronanza tecnica e la vivacità e ricchezza di idee
Richiedete SHEPOT&KRIK via e- email all’indirizzo
[email protected] oppure scrivendoci a: Napoli Piazza Municipio 84 - 80133 Edizione tradotta a cura di Alexandre Urussov