N°7 Marzo Aprile 2014
FNP a convegno per crescita ed equita’
Complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia (foto di Paola Valli)
Al voto per l’Europa: Diamanti, un sì convinto
Per i nonni: quanto sono verdi le città
Una ReTE per gli anziani
Il Coordinamento Donne della Fnp - Cisl e le sue prospettive
Sommario
Gian Guido Folloni è un politico e giornalista italiano, già Ministro della Repubblica per i Rapporti con il Parlamento. E’ stato direttore del quotidiano cattolico Avvenire dal 1983 al 1990. Successivamente ha lavorato alla Rai. Dal 2008 è Presidente di Isiamed (Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo).
3 Per una tutela attiva dei pensionati (Ermenegildo Bonfanti) 4 Hanno scritto per noi 5 Note a margine (Giobbe) 6 La posta del Direttore 8 La lettera 10 Crescita, equità, riproduzione sociale: l’evento Fnp Cisl POLITICA 12 Le basi teoriche di un nuovo mutualismo per la riproduzione sociale e lo sviluppo (Giulio Sapelli) 13 La mutualità: una formula che ha prospettive (Angelo Pandolfo) 15 La difficile partita del lavoro perduto (Marco Iasevoli) 16 Riforma del Senato, si accende il dibattito tra favorevoli e contrari (Arturo Celletti) 18 L’Europa al voto tra welfare, fiscalità, lavoro e pace (Marco Pederzoli) ATTUALITA’ E SOCIETA’ 20 Storie di origami (Elettra) 22 Un sì convinto all’Europa (Mimmo Sacco) 25 Tre ricette per l’Europa ma il voto è la carta vincente (Guido Bossa) 28 Il coordinamento donne e le sue prospettive (Maria Irene Trentin) 30 Verde urbano e terza età (Cristina Petrachi) 32 Fare welfare di qualità in maniera produttiva. L’esperienza RETE (Stefano Della Casa) 34 Il vivere dell’uomo, che sa di non essere immortale (Gian Guido Folloni) MAPPAMONDO 37 Turchia, l’alleato mediterraneo (Gianfranco Varvesi) 40 Nuovi diritti per nonni e bisnonni (Luigi Ciaurro) 42 L’arma a doppio taglio delle sanzioni alla Russia (Paolo Raimondi) 43 I paralleli sono gremiti di giusti al lavoro. Basta saperli cercare (Giorgio Torelli) SALUTE 46 Ascoltare il cuore (Dr. Alberto Costantini) CULTURA 47 TV: se è per noi, che sia di qualità (Umberto Folena) 48 Nonni clikkanti. Per legge, per passione e per valore (Pier Domenico Garrone) 49 Libri e web (Marco Pederzoli) 51 Vagabolario (Dino Basili) 2
memoria, attualità, futuro
In copertina: Interno del complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia a Roma, dove si svolgerà il convegno Fnp-Cisl del 19-20 Maggio 2014 (Foto di Paola Valli)
Postatarget Magazine - tariffa pagata -DCB Centrale/PT Magazine ed/ aut.n.50/2004 - valida dal 07/04/2004 Contromano Magazine N°7 Aprile 2014 Aut. Trib. Roma n 40 del 18/02/2013 Prezzo di copertina € 1,80 Abbonamento annuale € 9,048 Direttore responsabile: Gian Guido Folloni Proprietà: Federpensionati S.r.l. sede legale: Via Giovanni Nicotera 29 00195 Roma Editore delegato: Edizioni Della Casa S.r.l. Via Emilia Ovest 1014 41123 Modena Stampa: tipografia ARBE s.p.a Via Emilia Ovest 1014 Modena Redazione Coordinamento grafico: Edizioni Della Casa ArtWork: M. Barbieri Postproduzione immagini: Paolo Pignatti Comitato di redazione: Matteo De Gennaro Dino Della Casa Questo numero è stato chiuso il 15/04/2014 A norma dell’art.7 della legge n.196/2003 il destinatario può avere accesso ai suoi dati chiedendone la modifica o la cancellazione oppure opporsi al loro utilizzo scivendo a: Federpensionati S.r.l. sede amministrativa: Via Castelfidardo, 47 00185 Roma L’editore delegato è pronto a riconoscere eventuali diritti sul materiale fotografico di cui non è stato possibile risalire all’autore
Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento alla celebrazione del centenario della nascita di Guido Carli, utilizzandone una sua espressione, ha dichiarato: “Le rigidità legislative burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali sono sempre la remora principale allo sviluppo del nostro Paese”. In ogni caso, al riferimento ai “lacci e lacciuoli” è seguita una polemica di color bianco in quanto quella che è apparsa una chiamata di “correità” sia delle parti sociali sia del potere politico, è apparsa, almeno alla Cisl e alla Fnp, come una sottovalutazione delle numerose discontinuità messe in campo, delle svariate idee nuove e delle intenzioni emerse nelle elaborazioni culturali e politiche di mettersi in discussione. Certo lo scontro dialettico che ne è seguito è sembrato un ritorno al futuro di 36 anni fa, che si colora oggi con la posizione del Governo sulla de-concertazione delle scelte politiche del Paese. In realtà la strategia posta in essere dall’Esecutivo mira a riconquistare alla politica in generale quel primato della rappresentanza popolare che il sindacato ha finito per assumere a titolo di supplenza, mano a mano che scemava la credibilità dei politici e delle istituzioni come risultante della dispersione identitaria e della frantumazione dell’appartenenza. E’ chiaro che su questo aspetto si è scatenata la canea dei media, eccitata dalla competizione dei decibel, sottolineando la difficoltà nella ricerca di soluzioni innovative da parte delle centrali sindacali romane, al netto delle novità maturate nella contrattazione territoriale e aziendale di secondo livello. Sul piano generale l’attenzione della stampa si è concentrata sui presunti “ritardi”, prima di tutto “culturali”, in cui si dibatte il sindacato, sottolineando tuttavia la diversa gradazione concernente la Cisl, da sempre attestata su un “riformismo partecipativo”, anche a costo di pagarne dei prezzi. Ma si ammette che addossare ai soli sindacati l’intera responsabilità di frenare lo sviluppo del Paese, disconoscendone nel frattempo l’originale e costruttivo contributo, diventa del tutto ingeneroso ed ingiusto. Tuttavia tra i “ritardi” addebitati al sindacato, pur sen-
Editoriale Per una tutela attiva dei pensionati di Gigi Bonfanti
za generalizzare, si citano i limiti della rappresentanza (lavoro non dipendente, spazio giovani, area disoccupati, soggettualità della famiglia, etc.) e, in particolare, si pone in rilievo la difesa molto attiva dei “pensionati”. In genere, salvo le posizioni ideologiche estreme, si ammette l’errore di marginalizzare il ruolo del sindacato, che deve al contrario essere valorizzato, pur nelle differenti responsabilità (basti pensare in questa temperia ai sindacalisti latitanti nei posti di lavoro ma protagonisti seriali di talk-show televisivi). Il Paese ha bisogno di una politica credibile, dinamica, capace di guidare il cambiamento. Per questo obiettivo servono però anche i “corpi intermedi” moderni, rinnovati, capaci di assicurare quella spinta sociale strategica, senza la quale il cambiamento non germoglia, come testimoniato dalla Cisl e dalla Fnp nella loro esperienza concreta. C’è tuttavia un punto da chiarire: la presunta difesa ad oltranza dei pensionati appare, contrariamente a quanto affermano i media, del tutto anacronistica e fuori luogo. I pensionati derivano dal lavoro, sono ex lavoratori in una repubblica fondata sul lavoro e percepiscono un assegno di “salario differito” rapportato ai contributi regolarmente versati. Sono ormai la maggioranza in un Paese che invecchia sempre di più e che con il tasso di natalità che si ritrova non assicura il necessario equilibrio nel rapporto generazionale. Contrariamente a quello che si crede, la media pensionistica è molto bassa, l’ordinamento è del tutto pubblico e unilaterale (basti ricordare la normativa Fornero), gli interventi per ridurre e circoscrivere l’indicizzazione
delle pensioni producono una progressiva perdita di potere d’acquisto, si continua a parlare di “pensioni d’oro”, con l’intenzione di dimezzarle, per assegni di duemila euro lordi al mese, mille netti dopo le tasse, insufficienti persino a far fronte a condizioni di vita ormai prossime alla povertà. In buona sostanza i pensionati, negletti e tartassati, ignorati e incolpati di godere di ignoti privilegi, sono, per il loro numero, la cassa continua dello Stato e, per loro natura, la ragione di una pervicace e sottile rapina pubblica che confisca parte della loro pensione, ma li esclude da provvedimenti fiscali redistributivi (come per il bonus di 80 euro), applicando una solidarietà sociale alla rovescia. Lasciamo le grandi firme del giornalismo italiano alle loro contorte opinioni e alla costruzione di pregiudizi opinabili quando non di una informazione compiacente e, come Fnp, ci impegniamo con ulteriore vigore nella rappresentanza e nella tutela dei pensionati, nell’intento di far maturare un ragionevole scenario di verità. Sembrerà strano, ma i pensionati sono persone, dovrebbero godere dei diritti di cittadinanza, dovrebbero essere l’espressione dei diritti del mondo del lavoro e della solidarietà sociale, dovrebbero essere coperti dalle certezze dei livelli di assistenza e di cura, dovrebbe essere loro riconosciuto il ruolo che esercitano nella famiglia e nella comunità, dovrebbero poter credere nel futuro, osservando il sorriso di giovani e di marginali. Per tutte queste ragioni la Fnp dovrà impegnarsi ancora di più in una tutela attiva della condizione evolutiva dei pensionati. *Segretario Generale Fnp Cisl 3
Hanno scritto per noi
Gigi Bonfanti Segretario generale Fnp Cisl.
Mimmo Sacco Giornalista RAI TV. Condirettore de Il Domani d’Italia, mensile di politica e cultura.
Guido Bossa Giornalista professionista.Presidente dell’Unione nazionale giornalisti pensionati
Paolo Raimondi Economista Scrittore
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Giulio Sapelli Professore ordinario di Storia economica e di Economia politica, Università di Milano
Angelo Pandolfo Professore ordinario di Diritto del lavoro e della previdenza sociale, Università di Roma “La Sapienza”
Maria Irene Trentin Coordinatrice Donne della Fnp Cisl”
Giorgio Torelli per 40 anni inviato speciale dei più importanti quotidiani e settimanali italiani. Fondatore con Indro Montanelli de “Il Giornale”
Arturo Celletti capo servizio politico del quotidiano L’Avvenire. Da 15 anni cronista parlamentare.
Cristina Petrachi Giornalista-pubblicista. Public Relations Officer presso l’Istituto Italiano per l’Asia ed il Mediterraneo.
Alberto Costantini Cardiologo.Ex medico cardiologo della Camera dei Deputati.
Marco Pederzoli Giornalista e collaboratore di diverse testate. Scrive per La Gazzetta di Modena, Il Sole 24 ore.
Stefano Della Casa Giornalista Freelance e Direttore della rivista Jag Generation
Umberto Folena Editorialista del quotidiano L’Avvenire. Consulente della CEI
Marco Iasevoli inviato del quotidiano L’Avvenire
Gianfranco Varvesi Diplomatico, ha ricoperto incarichi in Italia e all’estero. Ha prestato servizio nell’ufficio stampa del Quirinale.
Pier Domenico Garrone Professionista Fe.R.P.I. Responsabile comunicazione de Il Comunicatore Italiano
Luigi Ciaurro Docente di diritto parlamentare alla LUMSA di Roma.
Dino Basili Giornalista e scrittore, Direttore di Rai 2 e Capo ufficio Stampa del Senato
L’Antitrust italiana ha comminato a Roche e Novartis, due colossi farmaceutici mondiali, una maximulta con l’accusa di essersi spartiti il mercato a danno dei pazienti. Il fatto illecito contrasta con la tutela dei diritti fondamentali della persona e, in particolare, quello alla vita e alla salute.
Profitto malato ma nessun controllo
I media denunciano che l’accordo fra i due colossi farmaceutici avrebbe favorito la diffusione sul mercato di un farmaco più costoso rispetto ad un secondo e meno oneroso medicinale analogo. Dal canto loro, le aziende coinvolte fanno sapere di non aver ricevuto, per il momento, alcuna comunicazione e, in ogni caso, ribadiscono di aver sempre agito in modo corretto. Il Governo ha comunque approvato un provvedimento legislativo d’urgenza che prevede una stretta contro i cartelli e indica una direttiva sull’utilizzo di un medicinale off-label (fuori dalle indicazioni terapeutiche ufficiali). E’ da presumere che d’ora in poi, comunque, queste decisioni costituiranno un precedente e un deterrente, a tutela della salute, che non è una merce e non ha un valore di scambio. L’Aifa – Agenzia del farmaco – potrà quindi procedere alla sperimentazione di medicinali off-label – se già usati in altre nazioni – utilizzando soldi pubblici. Non si può fare a meno tuttavia di chiedersi come mai finora l’Aifa non sia intervenuta tempestivamente, per regolare la diffusione e la vendita di questi prodotti. La questione ci coinvolge in modo particolare perché, secondo la Guardia di Finanza e gli accertamenti del Garante, le due aziende non si sarebbero limitate a lucrare sui prezzi, ma mettendo fuori mercato il prodotto alternativo a minor costo, avrebbero influito sull’accesso alle cure e pesato sui bilanci ospedalieri, intervenendo su un farmaco utilizzato per gravi malattie oculistiche che colpiscono, soprattutto, i più anziani, provocando spesso la cecità. A parte la singolarità di una sperimentazione messa in campo con risorse pubbliche (le aziende non dovrebbero investire di tasca propria?), il decreto non scioglie i nodi della trasparenza e dei controlli. Perché quanto avvenuto, cioè un accordo per vendere il medicinale più costoso recando danni pa-
trimoniali al Sistema Sanitario Nazionale, presuppone almeno un permesso e per di più consente un’ampia disinformazione da parte dei media. La Costituzione, all’articolo 32, riguardante la tutela la salute, come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantisce cure gratuite agli indigenti. Questi principi legittimano l’intervento dell’Autorità sul mercato e la concorrenza, soprattutto, in un campo sensibile come quello della sanità, dove gli “animal spirits” del capitalismo rischiano di compromettere la condizione di vita delle persone. Si dovrà anche chiarire la condotta dei “controllori”: i “vigilantes” hanno assolto in pieno il loro compito? Soprattutto in un’epoca caratterizzata dalla scarsità di risorse, la logica del profitto e del mercato non può prevalere sulle garanzie fondamentali di un welfare equo e ordinato. L’industria farmaceutica ha un ruolo troppo rilevante nella vita sociale per sottrarsi alle sue responsabilità, che sono, innanzitutto, responsabilità etiche. Nel caso in questione appare non rispettato il delicato equilibrio per la verifica dell’affidabilità dei farmaci, la libertà di sperimentazione molecolare e i diritti dei malati, che non possono essere intaccati né da valutazioni di opportunità né da interessi commerciali. Le soluzioni transitorie al momento adottate forse corrono il rischio di perseverare nell’errore (sul piano dell’efficacia dei farmaci, sui possibili effetti collaterali, etc.). Su tante zone d’ombra di questa storia si può però intravedere un elemento di modernità, che consiste nel ruolo dell’Antitrust. Abbiamo infatti bisogno di un’Autorità forte e indipendente. Come pure abbiamo bisogno di una rifondazione dell’Aifa, nell’intento di riorganizzarla e di farle fare un salto di qualità nell’interesse dell’utenza. Giobbe 5
la posta del Direttore Da alcuni “amici ritrovati” ai giochi di guerra in tempo di pace, dalle elezioni europee alle bufale che fanno spendere denaro pubblico per vari migliaia di euro, anche per questo numero di Contromano sono arrivati diversi contributi da parte dei lettori per la consueta rubrica delle “Lettere al direttore”. A tale scopo, si ricorda che le proprie lettere, contenenti considerazioni su temi politici, di attualità, cultura, etc. possono essere inviate o via mail all’indirizzo
[email protected], specificando nell’oggetto “Contromano lettere al direttore”, o via fax al numero 059 8396082, o per posta ordinaria all’indirizzo della casa editrice di Contromano: “Edizioni Della Casa, via Emilia Ovest 1014, 41123 Modena”. Si ricorda che, per esigenze di archiviazione, l’eventuale materiale inviato non sarà restituito.
Che piacere rileggere Torelli Carissimo Giorgio Torelli, è stato un grosso piacere per me vedere sulla nostra rivista “CONTROMANO” un tuo articolo sulla ritirata di Russia. Tu l’hai fatta? Ti ho seguito con molta attenzione 30/40 anni fa su un giornale che ora non so più qual era, poi i tuoi articoli sul mio prediletto “Giornale” del grande Montanelli. Mi ricordo con particolare piacere l’articolo del 25° di matrimonio e poi il silenzio. Non ti ho più letto su nessun giornale o rivista e ho pensato che eri troppo buono e cristiano per il mondo di oggi. Io ho 90 anni ma svolgo ancora un’assidua attività di volontariato in tre campi. I fastidi di oggi mi mantengono giovane di spirito. Giuseppe Ossola (detto Pino) Arcisate (VA) Grazie signor Giuseppe. Ci onora quel suo “la nostra rivista” con cui lei parla di Contromano. Grazie anche per le belle parole indirizzate al collega e amico Giorgio Torelli. Gli saranno certamente gradite. Abbiamo stralciato i passaggi più personali che molto volentieri inviamo a Giorgio privatamente.
No ai “giochi di guerra” in tempo di pace Egregio Direttore, Le scrivo per esprimere pubblicamente il mio turbamento riguardo a una nuova moda che è scop6
piata tra i giovani. In inglese si chiama “softair”, ma per farci capire bene in italiano possiamo chiamarla “giochi di guerra”. Io vivo in un piccolo centro vicino a Bologna e già più volte mi è capitato di osservare ragazzi e pure diversi adulti (i quarantenni di oggi, tanto per intenderci) che, vestiti di tute mimetiche e armati di tutto punto (naturalmente si tratta di armi giocattolo, riprodotte fedelmente rispetto a quelle vere), giocano alla guerra colpendosi con pallini di plastica, sparati dai loro fucili. Io ho purtroppo un’età che mi consente di sapere cos’è la guerra, quella vera. Mi rammarica molto vedere che tra i giovani stia esplodendo questa moda, che oltre ad essere costosa non mi pare nemmeno molto educativa. Credo che oggi ci siano tanti sport alternativi che si possano praticare, anche per tenere a freno la propria eventuale aggressività individuale. La guerra, secondo me, è qualche cosa di troppo serio e tremendo per farne uno sport da insegnare ai ragazzi. Antonio Bonaldi (Bologna)
L’Europa è ancora un concetto astratto? Egregio Direttore, ho notato che “Contromano” sta dando un grande rilievo al tema delle ormai prossime elezioni europee. Me ne rallegro e Le faccio i complimenti, perché la percezione che ho a livello personale è che di questo argomento si discuta ben poco. Diversi miei amici conoscono poco o nulla del Parla-
mento europeo e del suo ruolo. Pochi sanno cosa fa l’Europa per l’Italia e cosa l’Italia deve fare per l’Europa. Il concetto stesso di Europa, secondo me, rimane ancora molto astratto per la maggior parte degli italiani. Certamente, alla base di questa percezione ci sono ragioni storico culturali, che affondano le loro radici nel particolarismo politico – geografico che ha sempre caratterizzato il Vecchio Continente. Molto probabilmente, ci vorranno ancora tanti anni affinché noi italiani (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare secondo me anche per spagnoli, francesi, inglesi, etc.) ci sentiamo effettivamente parte di un’unica comunità, quella europea. La direzione, tuttavia, mi sembra ormai tracciata. La stessa esplosione di internet, che ormai è entrato nella vita quotidiana di milioni di persone, anche anziane, può dare senza dubbio riscontri positivi in questo senso. Mi sento di dire, insomma, che il futuro della nostra nazione si avvia ad essere non più italiano, ma europeo. Certo, occorrerà non accettare acriticamente tutto ciò che comporterà questa rivoluzione epocale. L’Europa deve continuare ad essere una grande opportunità, non una fonte di grattacapi. Guido Picerni (Roma)
viamente, al vaccino anti influenza aviaria, venduto nel mondo dalla Roche per 2,64 miliardi di euro nel solo anno 2009 e, oggi, considerato inutile e sostanzialmente inefficace. La famigerata epidemia aviaria, che doveva mietere nella sola Italia 150.000 vittime, in realtà non c’è mai stata. In dieci anni, per questa influenza, sono stati in realtà certificati soltanto 62 decessi in tutto il mondo, mentre un normale ceppo influenzale provoca ogni anno oltre 700 mila morti. L’Italia, e cioè noi tutti che paghiamo le tasse, per far fronte a quella che doveva essere una catastrofe sanitaria ha speso 50 milioni di euro. Abbiamo fatto molto “meglio” di tanti altri Paesi, a partire da Francia e Gran Bretagna, che hanno speso per la bufala dell’aviaria rispettivamente 13 e 14,6 milioni di euro. A questo punto, io mi chiedo: possibile che nessuno paghi per questi errori? Possibile che si spendano soldi pubblici con questa leggerezza e poi tutto cada nel dimenticatoio? Flavio Repetto (Campobasso)
Il vaccino dannoso per le casse dello Stato Egregio Direttore, Le scrivo per commentare una bufala che è costata migliaia di euro in tutto il mondo. Mi riferisco, ov7
la Lettera
Caro Direttore, sono un pensionato 73enne e le scrivo da semplice automobilista, per esprimerle tutto il mio disappunto sulla situazione che stanno vivendo gli automobilisti nel nostro Paese. Credo, innanzitutto, di comprendere una buona parte di lettori quando parlo di “noi automobilisti”. Volenti o nolenti, le auto fanno parte della vita di tanti di noi. Non si tratta, qui, di valutare idee più o meno ecologiche o più o meno sostenibili. Per tanti di noi, l’auto ha rappresentato e rappresenta un mezzo a volte indispensabile, senza il quale ci troveremmo in grandi difficoltà. Tanto che, guarda un po’, c’è già chi ha rilevato da tempo questa “necessità alla mobilità” e ha pensato di affibbiarci tanti balzelli, senza distinguere troppo tra categorie forti e categorie deboli della popolazione. Un articolo pubblicato sul quotidiano “La Repubblica” lo scorso 11 aprile, peraltro, apre bene gli occhi sulla situazione che stiamo vivendo. Ne cito alcuni passaggi. “C’è una grande abbuffata che si consuma ogni anno attorno al mondo dell’auto. Il protagonista non è il proprietario del veicolo, l’unico a perderci in media 3.500 euro l’anno...a brindare sono enti locali, grandi aziende pubbliche e ministeri, i veri padroni del business in Italia. Da noi, per operazioni a prima vista semplici e sbrigative come un normale cambio di proprietà, vengono richiesti fino a sei volte più soldi che nel resto d’Europa. E visto che ogni auto da spolpare costa in media 3.500 euro l’anno, basta moltiplicare questa cifra per i 35 milioni di veicoli registrati al PRA per ottenere un risultato sconcertante: attorno alle due e quattro ruote girano vorticosamente qualcosa come 122,5 miliardi di euro ogni 12 mesi. E parte di questo denaro viene speso per mantenere in vita un sistema perverso che sfama i più diversi appetiti. Ad esempio, il passaggio di proprietà costa seicento euro e più, mentre nel resto d’Europa basta in alcuni casi andare in un ufficio comunale, mettere una firma pagando poche decine di euro per cambiare proprietà ad una vettura....Insomma, chi sta sfruttando l’auto e i risparmi degli automobilisti? Innanzitutto occorre partire da un dato che potrebbe far sobbalzare sulla sedia un automobilista medio italiano: sui 3.500 euro di spese annue, circa 1.100 (oltre un terzo) vanno dritte nella borsa dell’Erario o di società pubbliche come Anas (per
Noi, automobilisti tartassati i pedaggi autostradali), Enti locali (multe, parcheggi o pagamento del bollo) o Servizio sanitario nazionale (una quota delle polizze auto). Prendendo l’esempio che è alla base dello scontro tra Aci e viceministro alle Infrastrutture e Trasporti Riccardo Nencini — convinto della necessità di abolire, di fatto, il Pra — la somma necessaria per effettuare un normalissimo trasferimento di proprietà per un’auto di Roma da 80 kW, viene “aggredita” e ripartita tra sette “attori”... Nel dettaglio, l’Aci per i costi amministrativi incamera 27 euro (il 4,6% del totale); il ministero dei Trasporti ne porta a casa 9 (l’1,5%)...le Poste incassano 3,6 euro per “imposte e oneri di intermediazione” (lo 0,6% del totale). Il ministero dell’Economia interviene, invece due volte: alla voce “imposta di bollo per operazione Pra” (48 euro secchi, l’8,2%) e per “operazione di trasferimento” (16 euro, il 2,7%). Il boccone più grosso spetta però alle Province che, grazie all’imposta di trascrizione (la ben nota Ipt), in un sol colpo si portano in cassa 365 euro, il 62% del costo complessivo di un passaggio di proprietà sull’usato. Ultimo passaggio quello riservato all’intermediario forse più visibile di tutta la catena che alimenta i trasferimenti di proprietà e, in misura simile, anche le immatricolazioni: le agenzie di pratiche auto, che incamerano 120 euro per operazione, il 20,4%, un quinto secco. In totale, quindi, su 588,6 euro finali di costi per potersi intestare la vettura, l’automobilista romano spende in realtà solo 36 euro di “diritti” effettivi per iscrivere il passaggio di proprietà, mentre tutti i restanti 552,6 sono imposte e oneri di intermediazione privata...” Insomma, tale stato delle cose, perpetrato da anni anche sulla pelle di noi anziani, sono fatti che mi indignano e mi fanno auspicare una profonda revisione, in un futuro a breve termine, anche degli oneri legati al mondo dell’automobile. Questo non sarà forse il problema principale dell’Italia, ma per molti di noi è senz’altro qualche cosa con cui ci troviamo a che fare nella quotidianità. Adelmo Cordedda, Roma
CRESCITA, EQUITA’, RIPRODUZIONE SOCIALE La riproduzione della società sta divenendo sempre più centrale nel nuovo assetto capitalistico internazionale. Soprattutto nelle nazioni ad antica industrializzazione e a matura struttura dei servizi avanzati. Il cambiamento tecnologico e la ciclicità continua di una struttura finanziaria sempre più dominante sul profitto capitalistico genera una sorta di frammentazione e frantumazione sociale che pone allo stato compiti nuovi e immensi dal punto di vista delle antiche forme di protezione sociale, di Welfare, di conservazione delle società naturali complesse, parentele e famiglie, che si trovano a dover assolvere ai compiti che la crisi fiscale dello stato sposta verso di loro. Solo la rinascita della comunità come sistema di relazioni e di valori d’uso – spesso a fianco e non prevalenti sul valore di scambio – potrà consentire la riproduzione di società che sempre meno siano fondate sul solo meccanismo produttivo di creazione del profitto capitalistico, ma sul lavoro non pagato delle reti amicali, parentali, naturali o sociali, comunitarie, che consentono appunto la stessa crescita economica o disperdono le tensioni della decrescita per recessione e per deflazione, come sta ora accadendo nella ciclicità capitalistica. Laddove la crescita economica, del resto, avviene 10
senza codeste reti sociali di riproduzione, vediamo il manifestarsi di crisi profonde non solo di disoccupazione, di rarefazione dei consumi, ma anche di anomia, di assenza di riconoscimento e di relazionalità. In questo senso, più l’equità scarseggia più difficile diviene generare una riproduzione sociale sostenibile, che non muoia per i colpi della disuguaglianza e dell’anomia, della vera e propria disperazione umana che vediamo così tristemente diffondersi attorno a noi. La ricerca della mutualità diviene, quindi, la realizzazione nella polis del bisogno di relazione e di sostegno comunitario. Tutte le forme di comunità, di cooperazione, debbono essere sostenute, aiutate, incoraggiate, valorizzate dall’umano comportamento e non da artifici che nuovamente distruggono comunità e mutualità con l’assistenzialismo statualistico e cleptocratico di piccoli gruppi. Tale nuovo Welfare investe anche il sistema delle relazioni industriali con sempre più forza e intensità, diffondendo un messaggio un tempo proprio solo al sindacato associativo anglosassone, dall’Australia agli USA, con la loro tradizione mutualistica e neo-associativa che affronta i difficili temi della riforma del Welfare. Si tratta di una nuova frontiera tanto del sindaca-
lismo, chiamato ad una riflessione sulla sua natura e sul suo ruolo, per rafforzare il suo essere soggetto strategico nella società che cambia, quanto della cooperazione sociale, in particolare dell’area dell’anzianità colpita dalle politiche inique e dalla crescente disuguaglianza economica e sociale, per aprire nuove frontiere e generare nuove speranze.
Cambia la data per il grande evento Fnp – Cisl
Per esigenze organizzative e per incontrare la disponibilità di tutti i relatori, è stato fissato al 19 e 20 maggio prossimi presso il complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia a Roma il grande evento destinato alla classe dirigente della Fnp Cisl.
Lunedì 19 maggio 2014
Martedì 20 maggio 2014
CRESCITA E SVILUPPO
LE RELAZIONI SOCIALI FRA L’EQUITÀ E LA RIPRODUZIONE
Ore 15.00 Introduce ERMENEGILDO BONFANTI Segretario Generale Fnp Cisl Ore 15.30 Riflessioni sullo sviluppo sostenibile e la riproduzione sociale. Rilancio della politica industriale, dei consumi, dell’occupazione, della protezione sociale, delle condizioni di vita GIULIO SAPELLI Professore ordinario di Storia economica e di Economia politica, Università di Milano Ore 16.15 Economia delle relazioni STEFANO BARTOLINI Professore ordinario di Economia Politica, Università di Siena
CRESCITA, EQUITA’, RIPRODUZIONE SOCIALE IDEE PER IL CAMBIAMENTO
EQUITÀ Ore 17.00 Analisi della mutualità e sua prospettiva nella dimensione associativa ANGELO PANDOLFO Professore ordinario di Diritto del lavoro e della previdenza sociale, Università di Roma “La Sapienza” Ore 17.45 Confronto fra i relatori, modera ANDREA PANCANI Caporedattore centrale del TG de La7 e conduttore di Omnibus Ore 18.30 Chiusura dei lavori
EVENTO FORMATIVO DESTINATO ALLA CLASSE DIRIGENTE DELLA FEDERAZIONE NAZIONALE PENSIONATI
Ore 9.00 Il mutualismo comunitario e sindacale nel mondo PETER SHELDON Full Professor, University of Management and Economy of New South Wales, Sidney Ore 9.45 Una particolare esperienza sindacale fra tutele, vertenze, mutualità e Welfare PADDY CRUMLIN National Secretary of the Maritime Union of Australia (MUA) and President of the International Transport Workers’ Federation (ITF) Ore 10.30 Il Welfare solidale delle Banche Popolari e Cooperative GIUSEPPE DE LUCIA LUMENO Segretario Generale Associazione Nazionale Banche Popolari Ore 11.15 Equità SALVATORE NATOLI Professore ordinario di Filosofia teoretica, Università Bicocca di Milano Ore 12.00 Confronto fra i relatori, modera ANDREA PANCANI Caporedattore centrale del TG de La7 e conduttore di Omnibus Ore 13.00 Chiusura del Segretario Generale Fnp Cisl Ore 13.30 Pranzo 11
Le basi teoriche di un nuovo mutualismo per la riproduzione sociale e lo sviluppo Ci sono concetti che vanno maneggiati con cura. Così è per il concetto di crescita. Per molti decenni abbiamo inteso con questo termine solo l’elemento produttivo del sistema sociale in cui siamo immersi, quello capitalistico. Ma in effetti, se andiamo a fondo nell’analisi, la crescita non consiste mai soltanto nel momento della produzione: essa è possibile solo nella forma più complessiva della riproduzione sociale, ossia in tutte quelle pratiche di relazione con l’altro che consentono la cura delle persone e delle generazioni nel loro riprodursi attraverso forme di sostegno alla vita in comune. È allora che la crescita economica diviene sviluppo: sociale, civile e umano. Scopriamo allora che nella società vive la comunità, ossia convivono nella società più forme di associazioni che sostengono i deboli e gli ultimi, ma che altresì consentono alla macchina produttiva e dei servizi di continuare a svolgere il loro ruolo nella divisone sociale del lavoro. La comunità è infatti l’immediata relazionalità tra i soggetti e tra i soggetti e la società. Quei soggetti, in tal modo, aboliscono le divisioni di ruolo, tipiche delle società. Ma anche dove la società si è affermata e sembra aver distrutto la comunità, quest’ultima sempre risorge con l’associazione. Ecco l’irreversibilità, in tutto il mondo, del principio di associazione che si ripropone, in forme diverse, certamente, anche nella modernità. Modernità che, 12
invece, molti pensano debba essere tutta determinata dal monismo individualistico e dalla società fondata sui ruoli, che avrebbe distrutto la comunità, che avrebbe dovuto così definirsi come tipica soltanto della società segmentata (alias primitiva…). In tal modo il contratto dovrebbe divenire la forma transitiva escludente, nella contemporaneità, tutte le altre. Un fondamento teorico, quello che noi invece proponiamo, affatto diverso da quello che ipostatizza, in una sorta di evoluzionismo, un destino dell’umano segnato da un cammino ininterrotto verso una sorta di obbligazione antropologica prima che giuridica, fondata sullo scambio e sul suo valore in qualsivoglia azione. In questa ideologica visione, tutte le azioni dovrebbero essere solo economicamente orientate: transazioni inderogabili tra individui, invece che relazioni tra persone. Come, invece, esse sempre sono. La comunità, in effetti, non si contrappone storicamente al contratto, così come il mercato non si contrappone alla società secondo scansioni storiche a somma zero, come erroneamente taluni preconizzavano, descrivendo la nascita del Welfare state, per esempio, come una sorta di inevitabile difesa della società dal mercato. La comunità, invece, si ricrea nella società e tra le pieghe enormi lasciate nel tessuto sociale dai punti e croce del contratto: la comunità sempre si riattualizza e rinverdisce.
Solo gli occhiali tolemaici dell’ideologia neoclassica in economia (la grande reazione contro i grandi pensatori classici fondatori della scienza economica come scienza della produzione e della riproduzione sociale anziché del consumo “razionale”) impediscono di vederla. Questo è il plesso concettuale decisivo della nostra riflessione: la società e quindi l’economia capitalistica nelle sue diverse varianti, non esclude, meccanicisticamente, l’emergere della comunità. Anzi, le strutture societarie capitalistiche possono essere la base o la condizione di esistenza della comunità: in questo caso ecco apparire le associazioni not for profit o cooperative a cui ci si può rivolgere, in tal modo assicurando a tutte le strutture societarie condizioni vitali essenziali. Possiamo ora definire in forma pertinente ai nostri scopi la comunità mutualistica che fonda il Welfare del futuro: sussidiario e non più statolatrico, ossia che si serve dello stato solo quando la comunità mutualistica non giunge a difendere e a garantire di per sé solo la riproduzione sociale. La nuova mutualità di cui il sindacato sa di poter essere protagonista soprattutto grazie alle generazioni più anziane e al volontariato di ogni età, è una forma di azione eticamente orientata collettivamente. Ossia, una condivisione di obbiettivi che un gruppo di persone riconoscono come fondativi della personalità, unificando alcune delle loro sfere morali in vista di determinati fini. Ciò consente lo sviluppo di relazioni sociali non sovradeterminate dalla transazione economica ma, invece, determinate dalla relazione affettiva tesa al raggiungimento del bene comune: la “relazione personale” per un nuovo Welfare della riproduzione sociale. Giulio Sapelli
LA MUTUALITA’: UNA FORMULA CHE HA PROSPETTIVE Tutti noi siamo degli assistiti, utenti, clienti. In queste vesti entriamo in relazione con istituzioni, amministrazioni, imprese: entità diverse fra loro anche perché ispirate da principi diversi e strutturate secondo moduli anche profondamente diversi. In ogni caso, nel rapporto con tali entità, che si possano vantare diritti pubblici soggettivi ovvero diritti privatistici scaturenti da contratti, tutti ci troviamo in una posizione passiva, per quanto siano previsti, e magari operino effettivamente, dei meccanismi partecipativi. Questa realtà, tuttavia, non è senza alternative. Lo dimostra la storia delle classi non tutelate dalla ricchezza scaturente da un patrimonio personale o da un’attività economica organizzata investendo capitali, che all’indomani della rivoluzione industriale hanno letteralmente inventato forme di auto-organizzazione ispirate ad una logica paritaria e di comunanza, se non di fratellanza. La mutualità è stata intesa ed è intesa in vari modi. Essa assume un significato pieno quando è assunta non solo per indicare lo scopo per il cui perseguimento i singoli si associano, ma anche per evidenziare la particolare struttura messa in essere per la soddisfazione del comune interesse degli associati. La mutualità, dunque, si realizza attraverso l’impegno che, in considerazione di un rischio comune e 13
con lo scopo di fronteggiare le possibili situazioni di bisogno, gli associati assumono non basandosi su altri che non sia la struttura mutualistica, la quale realizza interessi coordinati e non contrapposti restando ben distante da scambi mercantilistici. La mutualità, peraltro, non è condannata a modi empirici di procedere, come testimonia già la fase delle origini. Le mutue di pura ripartizione erano addirittura prive di un fondo sociale, tanto che le prestazioni mutualistiche erano pagate ripartendo, dopo ogni sinistro, le somme necessarie fra tutti gli associati. Non può negarsi, però, la presenza, già in quella fase, di mutue e anche di società di mutuo soccorso segnalatesi per essersi poste come sedi di sperimentazione e seria applicazione del metodo tecnico-assicurativo. Mutualità e sana e prudente gestione, come dimostrabile sul piano storico, possono senz’altro accompagnarsi. Quanto l’esperienza del mutualismo ci consegna è tutt’ora attuale e, anzi, varie ragioni spingono a ritenere che la formula mutualistica sia capace di sfidare anche il futuro. C’è un problema di quantità: lo Stato sociale è in affanno e tende a ridurre, talora in maniera diretta e talaltra in maniera meno appariscente ma ugualmente incisiva, le sue prestazioni. Soprattutto c’è un problema di qualità. Non si tratta solo della tendenza alla diversificazione delle esigen14
ze. Invero, rileva sempre più l’emergere di interessi suscettibili di essere soddisfatti solo da organizzazioni ispirate a valori solidaristici, interessi che mal si collocano all’interno di scambi contrattuali fra soggetti portatori di interessi contrapposti ovvero all’interno di strutture burocratizzate. All’inizio la mutualità si è messa alla prova tendendo ad offrire tutele nella completa assenza dell’intervento. Oggi non è così. La discrezionalità legislativa (statale e regionale) può essere impiegata per rivedere i livelli di copertura del sistema di welfare pubblico, ma comunque la nostra Carta costituzionale configura come necessario tale sistema. La mutualità, di riflesso, non può che svolgere una funzione integrativa, sussidiaria, dando concretezza alla linea pluralistica che senz’altro la Costituzione valorizza. Funzione integrativa e sussidiaria che non deresponsabilizza lo Stato e, anzi, sollecita un suo dovere di coerenza: dato che la mutualità dà risposte ad interessi socialmente rilevanti, lo Stato ha il dovere di predisporre efficaci misure di promozione e sostegno, attente anche all’autonomia delle varie forme mutualistiche. Quando si parla delle organizzazioni mutualistiche, si dice che la comunione di interessi, fra persone esposte a rischi analoghi, preesiste alle (e non
è creata dalle) organizzazioni. Il principio di libertà sindacale, invece, porta a ritenere che le categorie sono frutto di scelte libere, diversamente da quanto accadeva nel periodo corporativo in cui le categorie erano predeterminate autoritativamente. Nondimeno, anche il sindacato libero si organizza sulla base di elementi oggettivi, organizzandosi con riferimento a persone che sono o sono state parti di un rapporto - il rapporto di lavoro - caratterizzato da una doppia alienità: l’alienità del progetto produttivo; l’alienità dei mezzi di produzione. Anche per questo l’incontro fra la mutualità e il sindacato è naturale: il sindacato è precipuamente la coalizione di soggetti che, solo coalizzandosi, possono far sentire la loro voce e ottenere risultati non raggiungibili individualmente; l’organizzazione mutualistica è l’organizzazione di soggetti non in grado individualmente di parare gli effetti negativi di rischi comuni, che solo grazie alla mutualità possono divenire protagonisti del soddisfacimento di loro bisogni. Alle origini si è avuto anche questo processo: società di mutuo soccorso e mutue si sono trasformate in società di resistenza e poi in vere e proprie associazioni sindacali. Oggi, l’associazione sindacale può generare nuove ed avanzate organizzazioni mutualistiche. Angelo Pandolfo
Detrazioni Irpef: 85 euro ma non a tutti. Pensionati ancora penalizzati
La difficile partita del lavoro perduto Gli unici provvedimenti economici sinora varati dal governo Renzi sono il decreto Lavoro e la legge delega su contratto unico d’inserimento e nuovi ammortizzatori sociali. Di fatto, le sole norme già in vigore – la legge delega ha tempi lunghi - sono quelle che allargano la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro attraverso un allentamento dei vincoli su apprendistato e contratti a tempo determinato. Per il premier, questo primo “pacchetto” va letto insieme a quello, più volte annunciato ma che arriverà solo a breve, relativo al taglio delle detrazioni Irpef, che porterà 85 euro in più nelle buste paga sino a 1500 euro netti. Non un centesimo, invece, finirà alle pensioni di importo pari o inferiore a quella indicata dall’esecutivo, nonostante l’Istat abbia accertato proprio negli ultimi giorni che 4 pensionati su 10 sopravvivono (e spesso assistono ancora figli e nipoti) con meno di mille euro al mese. In attesa del decreto taglia-tasse, numeri, statistiche e polemiche si arroventano. L’ultimo dato sulla disoccupazione è, parola del premier, “sconvolgente”. L’idea che si perdano mille posti al giorno, l’equivalente di una grande impresa che chiude, impressiona. Renzi è convinto della sua filosofia di fondo: “più flessibilità, perché le vecchie ricette hanno fallito”. Per vecchie ricette, il premier intende quelle strategie politico-sindacali finalizzate a rafforzare le tutele e a dare maggiore stabilità ai redditi anche in momenti di crisi acuta. Parzialmente diversa l’opinione del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che invece ha denunciato come della flessibilità, negli ultimi anni, le imprese hanno fatto “cattivo uso”, preferendo il taglio del costo del lavoro agli investimenti in innovazione. Inevitabile che questo dibattito si riversi sull’iter parlamentare del dl Lavoro, che potrebbe risolversi in un paradosso: Forza Italia che spinge Renzi a non spostare di un centimetro le misure pro-flessibilità, e mezzo Pd che vorrebbe quantomeno ridurre il margine di discrezionalità sul rinnovo dei contratti a termine.
Ma la partita del lavoro è molto più ampia, e alcuni giocatori si stanno appena scaldando. Il ministero della Pubblica amministrazione Marianna Madia ha rilanciato, in salse diverse, l’idea dei prepensionamenti e della staffetta generazionale, bloccata però dalla collega dell’Istruzione Stefania Giannini. Ma la Madia ha fatto infuriare anche gli esodati del settore privato, che la riforma-Fornero l’hanno pagata restando senza reddito, senza ammortizzatori e senza assegno pensionistico. In questo quadro ancora molto frastagliato, in cui al momento gli annunci sono più delle misure messe in campo, il dato positivo obiettivo è il ritorno d’interesse dei grandi investitori esteri, un interesse che però diventerà occupazione nel medio termine, non subito. Si comprende bene, in questo scenario, la scelta di Renzi di offrire una boccata d’ossigeno da 1000 euro all’anno ai redditi da lavoro medio-bassi. E la strenua lotta con l’Europa per assicurare coperture al provvedimento dimostra quanto per lui sia cruciale questo provvedimento, specie alla vigilia di una importante tornata elettorale europea e amministrativa. Tuttavia, la platea delle “buste-paga” è stata scelta con criteri discutibili: rilanciare i consumi, e non sostenere la qualità e dignità della vita. Sono stati dunque esclusi dagli economisti del premier i soggetti con “propensione al risparmio”: i pensionati, appunto. Per il momento sembra rientrato il tema di un nuovo prelievo sugli assegni pensionistici più alti. Si era partiti mettendo nel mirino addirittura gli assegni da 2.000 euro netti, si è saliti verso i 3.000, poi il tema è diventato bollente e il premier ha stoppato tutto e rinviato al prossimo anno. Quando, probabilmente, si tornerà a valutare un contributo di solidarietà sopra i 5.000 euro. Va comunque considerato che il Presidente del Consiglio ha annunciato che nel 2015 si affronterà anche la questione del sostegno alle pensioni più basse. Marco Iasevoli
Nuovo redditometro, istruzioni per l’uso Con la definizione delle liste dei contribuenti da controllare, è entrato nel vivo lo strumento di accertamento dei redditi (redditometro). Nel mirino i grandi scostamenti tra spese e redditi. Ecco alcune novità dello strumento 2014, che si applica iniziando dalle dichiarazioni 2010 sui redditi 2009: - no alle spese media Istat. Ai fini della valutazione degli scostamenti tra spese e redditi, non saranno considerati i valori medi statistici di abbigliamento, alimenti e pranzi fuori casa. Tali voci possono essere considerate solo se già presenti in Anagrafe tributaria. Idem per elettrodomestici ed arredi; - il fitto figurativo solo nella fase di contraddittorio: la spesa attribuita al contribuente che non risulta, nel comune di residenza, in possesso di un immobile di proprietà, entrerà in gioco solo nella fase di contraddittorio con il Fisco; - verifica della reale composizione familiare: prima di chiamare un contribuente a contraddittorio, il Fisco è tenuto a verificare non solo la “famiglia fiscale”, ma anche quella “anagrafica”. Occorre accertarsi, dunque, anche della presenza di figli non a carico e altri familiari oltre i coniugi e i figli non a carico; - 20.000 “lettere”: a tanto ammonta la lista dei contribuenti considerati border line tra legalità ed evasione (partendo dalle dichiarazioni 2010 sui redditi 2009), cui è già stata inviata la lettera di accertamento. Meno dei 35.000 previsti; - tolleranza del 20%: i controlli fiscali veri e propri scattano quando si riscontra uno scarto del 20 per cento tra redditi dichiarati e spese sostenute. Alcuni consigli per il contraddittorio: specificare bene la casa data in comodato ai figli; verificare la potenza dei propri veicoli; raccogliere la documentazione (disponibile anche on line) relativa ai movimenti su conto corrente; conservare traccia di prestiti e donazioni avute da altre persone e familiari, oltre alle attestazioni di finanziamenti e mutui; tenere distinti gli acquisti per la vita privata da quelli per l’impresa e lo studio professionale, esenti dal redditometro; recuperare le ricevute di spese ordinarie come le rette scolastiche o le spese per mobilità. m.i. 15
Riforma del Senato, si accende il dibattito tra favorevoli e contrari di Arturo Celletti
L’opinione di Francesco Russo
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Senatore Francesco Russo, leader dei 25 democratici critici verso la riforma di Palazzo Madama, varata dal governo Renzi: cosa non va nel ddl del governo? Devo dire che l’ultima bozza è migliore della precedente. Però la sostanza non cambia di troppo: resta una Conferenza Stato-regioni che si riunirà in un palazzo più bello e prestigioso. Ma il problema più grosso è che si vuole disegnare un sistema istituzionale debole, meno democratico. Perché? Seguendo l’impostazione dell’esecutivo, c’è una Camera dei deputati in cui comanda una maggioranza mostruosa, che potrebbe essere formata da un partito o una coalizione che ottiene il consenso del 25-30 per cento dei votanti. La logica imporrebbe un Senato che mette dei freni, dei paletti a questo strapotere. E invece no, si determina una dittatura della maggioranza. E poi, di fatto, si passa al presidenzialismo senza chiamarlo così. In che senso? Il presidente della Repubblica continua ad essere nominato con le soglie del bicameralismo perfetto, due terzi nei primi due voti e maggioranza assoluta dalla terza in poi. Con la riforma, alla maggioranza politica bastano una manciata di senatori per spuntarla e mettere “il proprio uomo” al Quirinale. Bisogna alzare le soglie, altrimenti si perde la funzione di garanzia del Colle. Non solo: questo presidente della Re-
pubblica, evidentemente “figlio” della maggioranza che ha vinto le elezioni, nominerebbe a sua volta 21 senatori. Ora, 21 senatori sono il 15 per cento dell’Aula, pari a un partito da 6 milioni di voti. In qualsiasi votazione, sarebbero decisivi. E rafforzerebbero la dittatura della maggioranza. Queste le critiche. Ora proviamo ad essere propositivi… Le nostre idee sono queste: il Senato si occupi non solo delle modifiche costituzionali, ma anche delle leggi “sensibili”, quelle sui diritti fondamentali, per le quali deve restare la doppia lettura. E poi, proprio per valorizzare le autonomie e i territori, bisogna dar voce al nuovo Senato anche sui sistemi elettorali. La competenza sui rapporti Stato-regioni, poi, deve essere molto più vasta: oggi ci sono tantissimi ricorsi che ingolfano la Corte costituzionale, la Camera alta potrebbe prenderli in carico al posto della Consulta. In cosa consisterebbe il potere di controllo che lei richiede? Vanno conservate le commissioni d’inchiesta e va affidato al Senato il potere ispettivo sugli organi dello Stato, specialmente se Montecitorio ha numeri blindati. Secondo lei i senatori vanno eletti oppure basta un’elezione di secondo livello? Certo, il dopolavoro dei sindaci e dei governatori non mi esalta, ma non faccio barricate. Chiariamo prima le funzioni, poi passiamo alla composizione.
Adesso c’è un testo. Il Governo ha messo nero su bianco la “sua” riforma del Senato e del titolo V. Per il premier, sono quattro i punti sui quali non si può trattare: Palazzo Madama non deve dare la fiducia e non deve votare la legge di bilancio, i senatori non devono essere eletti e non devono ricevere indennità. Ma le resistenze sono molteplici e trasversali. Nel Pd ben due gruppi della minoranza interna hanno progetti divergenti, Forza Italia è tentata di svincolarsi dal patto sottoscritto tre mesi fa alla luce della vicenda giudiziaria che esclude Silvio Berlusconi dalla campagna elettorale per le Euro-
Più volte deputato, grande esperto di riforme istituzionali e sistemi elettorali come gran parte degli ex radicali, ora Peppino Calderisi è una delle “punte” del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. E il suo giudizio sul ddl governativo è sostanzialmente positivo: “L’impianto generale del testo – dice - è senz’altro da condividere perché risponde a due obiettivi fondamentali: una sola Camera che accorda e revoca la fiducia, e una Camera che rappresenta le istituzioni territoriali e che serva da raccordo tra Stato e regioni, in sostanza per decidere “chi fa che cosa” ed evitare sovrapposizioni e conflitti di competenza che generano contenzioso costituzionale e incertezza del diritto”. Qualcuno, sia nel Pd sia nell’opposizione, sostiene che il nuovo Senato debba avere più competenze legislative… E invece a mio avviso è da respingere nel modo più fermo la proposta per cui il nuovo Senato delle Autonomie abbia competenza paritaria sulle leggi che riguardano i diritti fondamentali. Quasi tutta la legislazione infatti, compresa la legge finanziaria, tocca i diritti fondamentali della persona (salute, istruzione, previdenza, giustizia, ecc.); così pure i programmi con i quali le forze politiche si candidano a governare. Con questa modifica, la riforma del bicameralismo paritario sarebbe del tutto vanificata e chi vince le elezioni non potrebbe governare perché al Senato non avrebbe né maggioranza né possibilità di porre
pee, anche altri partiti di maggioranza come Ncd e Scelta Civica presentano obiezioni. Ed M5S annuncia una lotta in piazza e in Parlamento durissima. I numeri ballano, come ha certificato in una discussa intervista il presidente del Senato, Pietro Grasso, protagonista poi di un pesante botta e risposta con il premier. L’obiettivo dell’esecutivo è incassare il primo “sì” dell’Aula di Palazzo Madama entro il 25 maggio, anche se ciò significa lasciare per il momento in secondo piano l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale.
la fiducia. Dunque per lei non si deve toccare nulla? Ci sono vari aspetti da rivedere. Innanzitutto la composizione del Senato: sono ingiustificati 21 cittadini nominati per sette anni dal capo dello Stato ed è eccessivo il numero dei sindaci rispetto ai rappresentanti delle regioni, perché sono queste ultime e non i comuni che fanno le leggi. E poi bisogna reintrodurre un criterio di proporzionalità in base alla popolazione: Val d’Aosta e Lombardia non possono avere lo stesso numero di senatori. Ho anche forti dubbi ad estendere al Senato delle autonomie la competenza paritaria sulle modifiche costituzionali, altrimenti sarebbe difficilissimo cambiare la Carta. Si può invece prevedere una procedura aggravata che comporti, qualora la Camera non accolga le proposte del Senato, che si possa svolgere comunque il referendum come da articolo 138. Lei non teme derive autoritarie richiamate da alcuni parlamentari e giuristi? Non credo che ci siano questi rischi. Al contrario, sono preoccupato perché, se si legge la riforma del bicameralismo insieme all’Italicum, ci si renderà conto che la nuova legge elettorale offrirebbe a chi vince il ballottaggio appena 6 seggi di margine. Pertanto, oltre ad un margine di seggi più consistente, andrebbe eliminata la procedura aggravata prevista per la legge di stabilità, che consente alla Camera di non recepire le modifiche del Senato solo con la maggioranza
assoluta dei voti. Significa escludere la possibilità di governi di minoranza, che invece potrebbero essere necessari in momenti eccezionali. Sono d’accordo invece con chi propone di inserire un filtro preventivo ai ricorsi delle regioni presso la Corte costituzionale, proprio valorizzando il ruolo del nuovo Senato.
L’opinione di Peppino Calderisi
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L’Europa al voto tra welfare, fiscalità, lavoro e pace di Marco Pederzoli
Le imminenti elezioni europee lanciano numerose sfide a coloro che saranno eletti a governare l’Europa per i prossimi 5 anni. Tra i temi più “caldi” del momento ci sono senz’altro il welfare, la fiscalità, il lavoro e la
pace. “Contromano” ha interpellato in proposito altrettante personalità che illustrano il loro punto di vista su queste emergenze del presente e, molto probabilmente, anche del prossimo futuro.
Lo stato sociale: il punto di Attilio Rimoldi, segretario nazionale con delega alle politiche sociali della Fnp Cisl. A livello europeo, occorre innanzitutto fare qualcosa di concreto per le cure a lungo termine e per la non autosufficienza degli anziani. L’Europa ha sviluppato negli ultimi anni la propria parte finanziaria e monetaria, trascurando quella sociale e politica. Così non va. Per le cure a lungo termine, ad esempio, bisogna regolare il diritto a ricevere un livello essenziale di cure. Il sistema di welfare non è regolamentato da una legge quadro e non sono stabiliti livelli essenziali di cura. In ambito sanitario, ogni regione è intervenuta con la propria volontà e la propria qualità, creando numerose differenze. Poi, parlando sempre di welfare, in questo momento c’è un altro grande problema che è la disoccupazione, la quale necessita di interventi di carattere strutturale. Per quanto riguarda lo stare in Europa, io sono d’accordo con la Cisl sul fatto che oggi non si può e non si deve tornare indietro, ma l’Europa deve fare un salto di qualità, occupandosi non solo di problemi economici e finanziari, bensì aprendo all’Europa dei popoli e alle politiche sociali. Un tempo c’era un sentimento 18
europeo molto più radicato e si guardava all’Europa unita con grandi speranze e aspettative. Oggi, quindi, l’Europa ha bisogno di scuotersi e di rivolgersi ai suoi popoli e al sociale. Pensiamo soltanto al caso della Grecia: i tagli e i sacrifici imposti ai greci, stanno minando perfino la salute infantile e stanno rispuntando malattie come la tubercolosi. Anche in Italia ci sono problemi analoghi, con tanti anziani che stanno facendo numerosi sacrifici per aiutare i loro figli, limitandosi nelle cure che sarebbero loro necessarie. Per recuperare risorse occorre intervenire sugli sprechi, senza pensare ad effettuare tagli lineari. Mi auguro infine che il titolo V della Costituzione sia riformato e si chiariscano bene i compiti dello Stato e
Riccardo Migliori, presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione internazionali).
quelli delle Regioni. Io ritengo che si possa lasciare alle Regioni una certa autonomia di intervento sulla sanità, ma lo Stato deve garantire e vigilare sui livelli essenziali di assistenza.
Fiscalità: le richieste di Erio Luigi Munari, presidente di Lapam Confartigianato Modena e presidente della Fondazione Democenter.
Il lavoro: l’auspicio del Sen. Tiziano Treu, componente del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), già Ministro del Lavoro. Occorre allentare un po’ il rigore che si è registrato in questi ultimi anni. Bisognerebbe che l’Europa ci sostenesse di più e che ci fossero più fondi e un maggiore impegno per arginare il fenomeno della disoccupazione giovanile. Penso sia arrivato il momento di svecchiare e dare più spazio ai giovani, anche nella pubblica amministrazione. Dall’altra parte, rimarrebbe tuttavia importante anche il ruolo degli anziani, sia per la loro esperienza, sia perché con ruoli diversi potrebbero fungere da tutor dei giovani, lavorando magari part time. Tutto ciò fa parte del resto del programma di Renzi e mi auguro che lo porti avanti.
L’operato della Troika non ha raggiunto i risultati che si auspicavano e c’è quindi bisogno di un radicale cambiamento. Pensiamo innanzitutto all’utilizzo del denaro pubblico: in Italia non tutti i fondi messi a disposizione dall’Europa a vantaggio del nostro Paese vengono spesi. Per quanto concerne l’evasione fiscale, consideriamo che in Europa essa è stimata in 1 trilione di euro all’anno. In Italia l’evasione si suppone di 180 miliardi all’anno. I telegiornali di solito, quando ne parlano, mettono in evidenza il piccolo negozio, quando invece si sa che il 60% dell’evasione è imputabile a banche, assicurazioni e grandi imprese. Il problema dell’evasione fiscale, quindi, va affrontato in maniera diversa. Noi chiediamo per l’Europa una rappresentanza concreta e vera. Si deve andare in Europa pensando alla “regione Italia”. Il ceto medio è in seria difficoltà e in pericolo. All’interno dello Small Business Act, ad esempio, sono indicati precisi tempi di pagamento, che in Italia sono spesso disattesi. In questo modo, l’imprenditore perde fiducia nel sistema – Paese. L’Europa sarà comunque il mercato di riferimento delle nostre imprese, anche perché al modo in cui produciamo noi in Italia, anche elementi in serie, è riconosciuto un valore aggiunto.
Non è affatto banale, oggi, parlare di pace. Tanto che abbiamo visto quello che è successo con la vicenda russo - ucraina: abbiamo uno stato che decide di ampliare le frontiere e determina un ordine mondiale nuovo. Bisogna riportare la centralità del mondo sull’Europa ed è chiaro che sentiamo l’esigenza di un’unità politica europea. L’Europa vive una grande difficoltà in politica estera. E’ indispensabile una coesione politica. Questa coesione si trova se sconfiggiamo gli euroscettici e quelli che vogliono uscire dall’Euro. Se non sarà così, l’Europa avrà sempre un ruolo marginale nella politica internazionale. Pensiamo ad esempio al caso della nave nordcoreana che ha acquistato di contrabbando 230.000 barili di petrolio dalla Libia. In tutta questa vicenda, l’Europa non è intervenuta. La politica di difesa europea è di là da concretizzarsi. Il fatto stesso che l’Europa lasci da sola la Francia nella Repubblica Centrafricana è significativo. C’è più bisogno di coesione. Auspico anche la nascita di un esercito europeo.
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Co-housing e co-working: due nuovi modi di vivere per giovani e anziani In questi ultimi anni i giovani e gli anziani spesso sono stati messi a confronto per sottolineare lo scontro evidente che si è venuto a creare tra queste due generazioni, oppure per evidenziare i tratti caratteristici di queste due età che, per alcuni versi, presentano lo stesso elemento di criticità, ossia l’incertezza del futuro rappresentata dalla mancanza di lavoro per i primi e un welfare quasi inesistente per i secondi, che non permette loro di avere un’assistenza adeguata alle proprie esigenze. 20
Ora, però, c’è un nuovo elemento, un fenomeno che, piuttosto che dividere, può rappresentare un fil rouge che va ad avvicinare le due generazioni, ossia la necessità di mettere insieme le forze per fronteggiare la crisi di questi anni. Un fatto che, ovviamente, presenta caratteristiche e finalità diverse a seconda che sia realizzato dai giovani o, al contrario, da chi ha già i capelli color argento. Per entrambe le generazioni, infatti, in piena crisi economica, si è posto il problema di dover fare i conti
con budget sempre più ridotti e, quindi, ci si è trovati costretti a collaborare, a stare insieme e a condividere le risorse. E’ con queste finalità che nascono il ‘co-working’ ed il ‘co-housing’: due modi nuovi di lavorare e vivere insieme che si concretizzano in una nuova diversa concezione di vita, improntata sulla condivisione dei luoghi di lavoro e delle abitazioni. Questi due nuovi modi di considerare il lavoro e la vita di tutti i giorni si avvicinano molto all’idea di darsi una mano a vicenda come potrebbe succe-
dere durante una guerra, un conflitto, un contesto nel quale da soli si è o ci si sente più deboli e fragili, mentre mettendo in comune ogni cosa, si crea quella forza che può aiutare ad affrontare ogni difficoltà. Un modello di vita e di lavoro che sta accomunando le due fasce più deboli della nostra società, giovani da una parte e anziani dall’altra, in un momento nel quale ogni cosa assume i contorni della precarietà. Se i primi, non essendo nelle condizioni di fronteggiare le spese d’ufficio, decidono di condividere gli ambienti di lavoro, allo stesso modo anche gli anziani cercano di combattere crisi e solitudine decidendo di vivere insieme, dando vita al cosiddetto ‘silver co-housing’: una coabitazione che prende il nome dal colore ‘argento’ dei capelli, e che dà loro la possibilità di condividere l’alloggio e le esigenze della vita quotidiana come la spesa, le bollette, l’affitto. Un fenomeno che si sta sempre più diffondendo e che, come dimostrano le ultime previsioni dell’Istat, è destinato ad aumentare se è vero che nel 2050 ci saranno 263 anziani ogni 100 giovani. Una soluzione, quella del co-housing, che in un momento di grave difficoltà come quello attuale, sta aiutando molti anziani nella difficile impresa di far quadrare i conti con le misere pensioni che si ritrovano e che non permettono loro di vivere dignitosamente. Sono infatti tre milioni e mezzo in Italia gli anziani che abitano da soli, spesso in case enormi che, come è facile comprendere, non riescono più a mantenere. Finora molti di loro optavano per la nuda proprietà, ma da un po’ di tempo il silver co-housing si sta rivelando la soluzione migliore per salvare pensione e risorse pubbliche. Se è vero che siamo oramai una popolazione di ‘argentati’, con un’aspettativa di vita che cresce sempre più, è altrettanto vero che diminuisce la possibilità di trascorrere la terza età forti di una tranquillità economica e sociale. Come mostra il quarto Rapporto sulla Coesione sociale 2013, l’Italia ha un sistema di trasferimenti sociali meno efficaci a contenere il rischio di povertà rispetto ad altre realtà nazionali europee. Ecco quindi che il fenomeno del cohousing potrebbe rappresen-
tare la soluzione al problema legato alla domanda di assistenza sociale e sanitaria in continua crescita che, al momento, non trova risposta nel nostro welfare sempre più disastrato: se queste forme di coabitazione dimostrano che due anziani che vivono insieme si fanno compagnia e dividono le spese, allo stesso modo si possono ridurre notevolmente anche i costi e le richieste di ospedalizzazione. Il co-housing, però, non è solo ‘silver’, ossia tra anziani. La ‘comune del terzo millennio’ in effetti è fatta anche di coabitazioni tra generazioni diverse. A Milano, per esempio, è nata un’iniziativa che mette insieme anziani soli e studenti in cerca di una sistemazione a costi contenuti. Una soluzione che permette di risolvere non solo i problemi economici, come quello del pagamento delle bollette e delle altre spese quotidiane, ma anche i problemi che interessano più strettamente l’aspetto umano, come la solitudine e la tristezza di cui purtroppo soffrono molti dei nostri anziani e che rappresentano la causa di molte loro malattie. Un modo nuovo e, per molti versi, rivoluzionario, di vedere accomunati giovani e anziani: due realtà che invece di essere rappresentate l’una contro l’altra, possono finalmente avvicinarsi, integrarsi per dare vita a quel contagio di idee e di valori che sono alla base di una società che vuole crescere pur mantenendo le vecchie sane tradizioni. Elettra
Aumentano anche le “strade sociali” Accanto al co-housing, un altro fenomeno che si sta diffondendo è quello delle ‘social street’: una sorta di quotidianità collaborativa tra abitanti della stessa via, un modello semplice che cambia il modo di vivere, contribuendo alla creazione di nuovi legami sociali. Il primo esempio di ‘social street’ è nato a Bologna, precisamente in Via Fondazza, anche se oramai in Italia esistono più di 138 cosiddette ‘strade sociali’, dove l’obiettivo è quello di socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale. Anche in questo caso, il fatto di condividere ogni cosa porta inevitabilmente giovani e anziani a interagire continuamente, creando quella sorta di scambio generazionale importantissimo per la società odierna. 21
Un antieuropeismo e un euroscetticismo che può essere sconfitto con un serio e responsabile progetto di un’Unione Europea politica e non solo monetaria: sono le conclusioni della nostra intervista al prof. Ilvo Diamanti, politologo ed esperto conoscitore di questi temi.
Un sì convinto all’Europa Ilvo Diamanti 22
di Mimmo Sacco
Sacco: Professore, avvertiamo tutti un diffuso e crescente spirito antieuropeo (il Front National di Marine Le Pen è solo il fenomeno politico più vistoso), ma la mappa dei movimenti euroscettici è ampia, dalla Grecia all’Olanda. Come si è arrivati a tanto? Diamanti: Ci si è arrivati più rapidamente nell’ultimo periodo. Quando però parliamo di antieuropeismo non parliamo di un fenomeno nuovo. Già negli Anni Novanta c’è stato un euroscetticismo dovuto alle “resistenze” dello spirito nazionale: era difficile andare oltre gli Stati nazionali. Inoltre, è seguito (nel passaggio tra gli Anni Novanta e il Duemila) un atteggiamento contrastante dovuto all’allargamento dell’Unione. L’antieuropeismo, poi, è cresciuto a causa della recessione e della grave crisi economica. La crisi è un insieme sia di responsabili sia di capri espiatori. E l’Europa si presta a dare una risposta alle frustrazioni, a dare volto al nemico invisibile: è la crisi che arriva dai mercati. Se hai un’angoscia, se hai problemi e devi cercare un colpevole e il colpevole è senza nome e senza volto trovi un capro espiatorio. Siamo in tempi di paure senza nome e senza volto e il nome dell’Europa, e in particolare dell’euro, si pre-
stano a questa funzione. La notevole caduta di fiducia verso l’UE e la moneta unica non è dovuta, anche, ad una dirigenza europea burocratica e lontana dai bisogni della gente, ovvero distante dai temi del lavoro, del welfare, dell’ambiente e dell’immigrazione? L’euro è il vero problema: è il principale volto che ha l’Unione Europea. L’aspetto più diretto e più esplicito che ha l’UE per i cittadini è la moneta unica. La conduzione burocratica vale anche per gli Stati nazionali, non è una cosa specifica dell’Unione Europea. Questa, per ora, non è che una moneta senza Stato. L’amara constatazione di questa situazione porta a considerare l’Europa più come un “problema” che una risorsa. E poi, il ruolo egemone della Germania con la sua insistenza sull’austerità, non rischia di aggravare i problemi? Condivide questa opinione? La condivido. Non possiamo costruire l’Unione Europea restando al suo interno “solo per paura” di cosa succederebbe altrimenti. Gli italiani (e non solo loro) si dicono europei “nonostante” non siano soddisfatti dell’UE e considerino l’Euro un danno più che un vantaggio. Così è difficile costruire un soggetto solido
che abbia futuro. La Germania costituisce il principio e il fondamento di questo modello: è il puntello ma anche il motore di questa UE. La sua storia la rende insofferente verso ogni squilibrio del debito pubblico e dell’inflazione. Così, è divenuta la custode dei “limiti” della UE. Limiti di spesa, limiti dei conti. Ha fatto di se stessa la misura dell’Unione. E in questo modo ne è divenuta un vincolo, più che un volano, un guardiano, più che la guida. Populismo e neo-nazionalismo non vanno considerati come humus favorevole per l’affermarsi dell’antieuropeismo? Certo, ma populismo e neo-nazionalismo non sono equivalenti; ci sono forme di populismo che vanno al di là del neo-nazionalismo: ci sono populismi che non sono soltanto di destra. Però i populismi, oggi, i neo-populismi, sono tutti anti-europei. Il fenomeno, inoltre, è alimentato e ingigantito da una diffusa condizione di disagio. La disoccupazione sta raggiungendo picchi drammatici. E poi va data una risposta alla sfiducia della gente verso la politica e le istituzioni. C’è chi sostiene che la forte ondata di euroscetticismo può costituire uno shock salutare, “un avvertimento”, per riprendere poi il cammino europeo. Non è questa, però, una strada molto rischiosa? Sì che lo è; è una strada non percorribile. Se alle prossime elezioni europee ci fosse un forte successo delle forze anti-europee questo non sarebbe, ovviamente, uno stimolo all’europeismo, anzi! Credo, piuttosto, che indebolirebbe ulteriormente l’UE. Alcuni movimenti antieuropei auspicano, addirittura, con molta leggerezza, emotività e miopia – ritengo – anche l’uscita dall’Euro. Le persone più responsabili, però, ne auspicano la sopravvivenza, chiedendo che si passi davvero ad un processo di crescita. È così? L’atteggiamento principale che prevale, quanto meno in Italia, nei confronti dell’euro, è un atteggiamento di timore. L’euro non piace, però fuori sarebbe peggio. Un terzo degli italiani oggi sostiene che sarebbe
Il disagio veneto Il profondo malessere di ampie zone venete è motivato e anche visibile. Chilometri di capannoni abbandonati, più di ventimila imprese chiuse negli ultimi cinque anni, centonovantacinquemila disoccupati. Il reddito medio, nel 2013, è sceso di 600 Euro. Il Veneto versa 70 miliardi di tasse allo Stato, ricevendone indietro meno di 50. Si parla di sciopero fiscale. Questo il desolante e preoccupante quadro di una grave crisi economica che sta mettendo a terra un’economia florida, suscitando un istinto di indignazione e di rivolta al di là della presenza grottesca di un “carro armato”, il tanko. Un recente sondaggio di Demos (molto più credibile del referendum online) ha scoperto che il 55% dei veneti è favorevole alla prospettiva dell’indipendenza (contrari la maggioranza dei giovani). La voglia di indipendenza è un modo estremo per denunciare il disagio nei confronti dello stato centrale. Ilvo Diamanti e il costituzionalista dell’Università di Padova, Mario Bortolissi, invitano a non sottovalutare queste tensioni indipendentiste. Vengono da lontano e hanno ragioni condivise. ms
Il grottesco “tanko” dei separatisti veneti
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quasi meglio uscire dall’euro, ma gli altri due terzi dicono “no è meglio restarci”: ancora una volta prevale la paura. Un’opinione pubblica distratta fatica a rendersi conto che la posta in gioco, questa volta, è davvero alta: la tensione, cioè, tra “valori universali di libertà” e di democrazia e quelli identitari. In quest’ottica non ritiene che non vadano sottovalutate le spinte localistiche all’autonomia come quelle in Veneto per l’Italia, in Spagna con la regione catalana e in Gran Bretagna con il prossimo referendum in Scozia ? Io distinguerei tra l’anti-europeismo, il regionalismo e le spinte neonazionaliste che ci sono in alcuni Paesi. Non è detto che lo spirito indipendentista sia necessariamente antieuropeo. Da noi lo spirito indipendentista veneto non è antieuropeo. Sono due questioni diverse che definiscono la crisi degli equilibri e delle cornici geopolitiche. La stessa Unione Europea costituisce un fattore di ridefinizione dei rapporti tra Beppe Grillo, leader del movimento 5 Stelle
i soggetti istituzionali: gli Stati e le Regioni. È evidente che sotto questo profilo noi ci troviamo di fronte a una sorta di ridisegno delle entità e delle spinte autonomiste. E, paradossalmente, è la stessa Europa che le introduce. A questo proposito rammento che la Lega, prima di diventare anti-europea, fino agli anni Ottanta aveva come slogan: “Meglio l’Europa dell’Italia”. L’Europa delle Regioni era considerata alternativa all’Europa delle Nazioni. Professore, lei ritiene che per sfidare gli antieuropei ci voglia un fisico… Può completare il concetto? Per sfidare gli antieuropei ci vuole (per mantenere l’immagine) un fisico europeo. Bisogna, di fatto, avere europeisti convinti. Questi non possono essere, però, quelli che affermano “meglio l’Europa perché altrimenti chissà cosa succede”, ma coloro che sanno spiegare i vantaggi dell’essere cittadini europei. Occorrerebbe, in qualche modo, ritrovare, almeno in parte, anche se la nostra fase storica è molto diversa, Nigel Farage leader dell’ UKIP, partito per l’indipendenza del Regno Unito 24
lo spirito dei Padri fondatori, Monnet, Schuman e di europeisti convinti come De Gasperi e Spinelli. Accanto a questo quadro preoccupante è opportuno segnalare il rovescio della medaglia: chi sta fuori dall’Europa vorrebbe entrarci. Alludo alla voglia di Europa nell’Est (l’Ucraina ha siglato un patto di associazione con l’UE e la Polonia vuole entrare nell’unione monetaria). Guardiamo quindi al futuro. Quali potranno essere le basi di un nuovo edificio comunitario? Un edificio comunitario ha bisogno di europeisti convinti, come ho appena accennato. Uno statuto europeo fondato su valori. L’Europa è stata immaginata e fondata non tanto e soltanto come moneta, ma anzitutto come luogo della pace e della libertà. Noi venivamo da due guerre nell’arco di mezzo secolo; fare l’Europa ha significato anche ‘mai più guerre’ e quanto meno quel proposito, quel progetto, è stato mantenuto anche per sottrarsi a rischi di tensioni e a sussulti di un passato illiberale molto vicino. Penso ai Paesi dell’Est. L’Europa è anche questo: potremmo dire, dovremmo dire, che è soprattutto questo: un luogo di libertà, di pace, di convivenza e troppo spesso ce ne dimentichiamo. Però per fare questo, in sintesi, bisogna arrivare all’integrazione politica che non c’è mai stata, non le pare? Per arrivare a questo noi non possiamo accontentarci di una moneta senza Stato. L’unione politica dell’UE va considerata un obbiettivo prioritario.
Chi è Ilvo Diamanti
Docente di Governo e comunicazione politica all’Università di Urbino. Dirige La Polis ed è direttore scientifico di Demos & Pi. Insegna Régimes politiques comparés all’Università Paris II. Ultima sua pubblicazione: Democrazia Ibrida con Laterza. Negli anni Ottanta ha diretto l’Ufficio Formazione e Studi della Cisl di Vicenza. ms
Tre ricette per l’Europa ma il voto è la carta vincente di Guido Bossa
Jacques Delors
Tre ricette si confrontano nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, ma nessuna di esse, da sola, sembra al momento in grado di convincere gli elettori a vincere una profonda sensazione di delusione se non proprio di rifiuto dell’offerta politica che viene da Bruxelles e da Strasburgo.
“Meno Europa!”, dice il britannico David Cameron, erede di una tradizione di scetticismo rispetto al grande disegno federalista, peraltro perseguito a fasi alterne da chi se ne è fatto da sempre promotore; “Un’altra Europa!”, predica il socialista tedesco Martin Schultz (presidente del Parlamento uscente e candidato alla guida della Commissione), rivendicando il primato della politica sui mercati; “Questa Europa!”, sembra raccomandare Angela Merkel e con lei, più o meno convinti, i popolari e i conservatori che contendono ai socialisti il primato nell’assemblea da eleggere. Delle tre, sarà sicuramente la ricetta della Cancelliera quella con cui tutti dovranno fare i conti dopo il 25 maggio, data delle elezioni; e non solo perché la Merkel guida il paese leader dell’Unione, ma anche perché ha saputo tessere attorno a sé una rete di alleanze che va oltre i confini della Germania e della sua stessa famiglia politica, come dimostra la recente designazione di un ex premier laburista, il norvegese Jens Stoltemberg, alla segreteria generale della Nato, casella sempre di prima grandezza nel puzzle politico-istituzionale europeo e atlantico. E allora vale la pena di considerare meglio la composizione della ricetta tedesca per capire se sarà in grado di soddisfare gli inappetenti stomaci dei cittadini europei o se dovrà essere integrata e arricchita da altri ingredienti. 25
David Cameron
Lo slogan “Questa Europa!” richiama da vicino quello con il quale Angela Merkel ha vinto le elezioni tedesche dell’anno scorso ottenendo il suo terzo mandato sia pure in coabitazione con i socialdemocratici. “Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa” aveva detto allora, indicando nella moneta unica e nei pesanti vincoli da essa imposti alle economie dei paesi che l’hanno adottata la strada maestra per uscire dalla crisi che ha desertificato le politiche sociali degli ultimi anni. Il risultato, in Germania, è stata appunto una vittoria a metà: l’euro è sopravvissuto ma a scapito degli alleati liberali; e ora la Cancelliera governa insieme ai socialdemocratici, ai quali ha delegato la politica sociale (che vuol dire salario minimo garantito e un po’ di sollievo per i mini-job) riservando a sé il controllo della moneta e dei relativi equilibri dell’Unione. Le sarà possibile replicare lo stesso successo alle Europee? Difficile. Perché se è vero che della politica monetaria imposta dall’euro i tedeschi sono stati i maggiori beneficiari e quindi non hanno motivi per rimpiangere il marco, a livello continentale, invece, l’euro ha catalizzato attorno a sé i diversi motivi di insoddisfazione, di polemica, di frustrazione, alimentando le tentazioni isolazioniste e nazionaliste e dando fiato alle pulsioni secessioniste che dalla Catalogna alla Scozia, dal Veneto alla galassia dei partiti euroscettici che prolifera26
no ovunque, guardano all’appuntamento di fine maggio come all’occasione unica e irripetibile per assestare un colpo mortale al superstato europeo, al moloch che mortifica le culture, le tradizioni, le identità. E’ dunque ben possibile che per rendere governabile il nuovo Parlamento europeo si debba replicare l’alleanza popolari -socialisti che governa in Germania, ma ciò non basterà a ridare fiato ad un’Europa stremata dalla crisi e insidiata nel cuore delle sue istituzioni da una forza disomogenea ma unita nella volontà disgregatrice, che potrebbe raggiungere un terzo o forse più dei 751 seggi del nuovo Parlamento. Che dal fondo della crisi cui è giunta l’Europa si possa risollevare è ancora possibile, ma molto dipende dal volto che le sue istituzioni rinnovate – Parlamento, Commissione, Consiglio – sapranno presentare ai cittadini dei 28 Stati membri. Cinquantasette anni fa una generazione europea uscita dalla guerra in condizioni economiche molto peggiori se paragonate alle attuali, accettò dei sacrifici perché riteneva che sarebbero serviti ad assicurare la pace ed un futuro migliore ai propri figli; oggi quei figli si vedono imporre sacrifici che apparentemente servono solo a consolidare i bilanci delle banche; e quanto alla pace, essa è sì garantita all’interno dei confini europei, ma si rivela, in assenza di una vera politica estera dell’Ue, un bene difficilmente esportabile, come si è visto in Siria e in Crimea. Il socialista Jacques Delors, che a cavallo degli Anni ’90 fu a capo della Commissione che istituì il Mercato unico ed elaborò il trattato di Maastricht, propose all’Europa di adottare i criteri di un’economia decentrata, solidale e competitiva. Oggi, a quasi 89 anni, dice che l’Europa “ci ha dato molto”, ma le manca “un sussulto di partecipazione civica” e “le prossime elezioni sono l’occasione storica per compierlo”. Le ricette sono tutte discutibili ma il voto resta la carta vincente.
Angela Merkel
Martin Schultz
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Il Coordinamento Donne e le sue prospettive Il Coordinamento Donne Fnp ha approvato il suo programma di lavoro da qui fino alla prossima Assemblea dei quadri. Siamo partite da una discussione sul ruolo del Coordinamento: per noi non rappresenta un fine, ma un mezzo per raggiungere un obbiettivo. Per la Fnp la presenza femminile nei propri organismi è importante, non tanto per una rappresentazione di genere, storicamente sottorappresentato, ma per l’apporto che le donne stesse possono portare con la loro esperienza di vita, di lavoro e di sindacato. Questo è il nostro obbiettivo: una maggiore presenza femminile in tutta l’organizzazione e in tutti i vari ruoli. A partire da questo, nell’impostare il programma ci siamo poste il problema di come riuscire a lavorare in modo sinergico sui grandi temi dell’organizzazione, evitando quindi separatismi. In via prioritaria lavoreremo su quattro aree tematiche: - la formazione di nuovi quadri dirigenti femminili - il tema della violenza - il proselitismo - il grande tema della cura
La formazione Non c’è categoria che abbia bisogno di lavorare come noi sul tema del ricambio dei dirigenti, uomini e donne. Da sempre il coordinamento si è impegnato per la presenza femminile nelle nostre strutture, e da questo punto di vista statuto e regolamento ci danno una mano. 28
Ma a noi non basta esserci per esserci, vogliamo esserci con qualità e competenza, a pieno titolo. La formazione è quindi indispensabile. Una formazione fatta dalla categoria, non separata tra uomini e donne, salvo necessità particolari. La formazione sarà propedeutica poi per attivare sperimentazioni femminili nel territorio, al fine di selezionare un nuovo gruppo dirigente.
La violenza Il nostro lavoro sarà indirizzato a creare una cultura della non violenza. E’ veramente drammatica la problematica della violenza sulle donne, ma non è l’unica violenza che conosciamo. Per una categoria come la Fnp non possono passare inosservate le situazioni che coinvolgono gli anziani in istituti che, anziché pensare a dare servizi, pensano a fare soldi. E il problema non riguarda solo gli istituti di cura: ci sono diverse situazioni famigliari nascoste. I giovani non sono immuni, neanche i più piccoli: parliamo di bullismo. Lavorare quindi per una cultura della non violenza vuol dire per noi fare rete con tanti attori nel territorio, informare i nostri iscritti e non sulle situazioni, dare loro indicazioni di dove poter trovare aiuto, e perché non aiutare i nonni a capire le modificazioni che sono avvenute nella società, quella in cui vivranno i loro nipoti. Su questo tema un grosso aiuto potrà arrivare dall’Anteas, anche attraverso la creazione di sportelli di ascolto presso le nostre sedi.
Il proselitismo La categoria è forte politicamente anche in base a quanta rappresentanza ha, quindi quanti iscritti. Per avvicinare persone che possano accettare di iscriversi alla Fnp bisogna saper spiegare perché serve un Sindacato dei Pensionati. Noi diciamo che serve per dare voce a chi non ce l’ha. Quante volte i pensionati, più che una risorsa per la società, sono considerati un peso economico? Ci si dimentica l’apporto che danno alla cura dei nipoti e degli anziani, al volontariato, all’aiutare economicamente i figli e le loro famiglie nel momento in cui perdono il posto di lavoro. Una recente ricerca inglese condotta su dodici Paesi europei, tra cui l’Italia, dimostra come nei Paesi analizzati l’impegno degli anziani nel bisogno della cura sia inversamente proporzionale alla presenza dei servizi dati dalle Istituzioni. Ossia: più servizi ci sono, meno gli anziani sono impegnati nell’aiuto. Questa ricerca ci dice che i nonni che si prendono cura dei nipoti in Italia e in Grecia sono il 20%, in Olanda e nei Paesi scandinavi il 2%. Sappiamo tutti la grande carenza nel nostro Paese di servizi per l’infanzia, ma anche di quelli per gli anziani, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno. Queste sono alcune delle motivazioni che fanno sì che noi si chieda l’iscrizione alla FNP. Anche in questo il Coordinamento è impegnato.
La cura
Troppo spesso il tema della cura è “predicato” e non “praticato”. O, meglio, se ne parla molto, ma si fa poco. Si preferisce troppo spesso scaricarlo sulle famiglie come fosse un fatto “personale” e non un fatto sociale. A partire dalla Costituzione, molte altri leggi ancora vigenti hanno affermato il diritto alla “cura” sanitaria e “sociale”. Normative troppo spesso disattese visto che si parte sempre dalla quantità di soldi in possesso più che dalla quantità dei bisogni espressi. Pensando che serva un forte patto tra tanti attori,
ognuno per il suo pezzo d’intervento, al fine di trovare soluzioni che separatamente ognuno di questi soggetti non potrà dare, abbiamo scelto di approfondire il tema della cura come elemento forte del nostro programma. L’8 Aprile abbiamo avviato un percorso di approfondimento su questa tema, convinte che debba essere affrontato sotto varie sfaccettature. Lo abbiamo intitolato “CURARE LA CURA”, avere cioè cura di tutte quelle azioni che possono aiutare chi ha bisogno di cura, ma anche chi la cura la deve dare. Durante il nostro percorso abbiamo approfondito i seguenti temi: - i diritti alla cura e i doveri delle istituzioni di metterla in atto; - la famiglia e la cura degli anziani: quali strumenti e costi (non solo monetari); - le “badanti”; - la contrattazione nazionale e aziendale può aiutare la gestione dei tempi di vita e di lavoro?; - dai bisogni degli anziani si possono creare nuovi posti di lavoro?; - il ruolo del volontariato e del terzo settore; - la gestione dei fondi europei finalizzati alla creazione dei servizi all’infanzia ed agli anziani per le regioni del sud. Siamo certe che le tematiche da approfondire siano ancora molte, ma potranno farlo le Fnp regionali e territoriali. Il nostro obiettivo è quello di poter offrire, alla fine del percorso, approfondimenti, suggerimenti, riflessioni utili al nostro lavoro di contrattazione a tutti i livelli, nazionale, regionale, territoriale. Certamente non dimentichiamo che la maggioranza degli anziani sono donne la cui presenza nelle case di riposo è di gran lunga superiore a quella degli uomini. È un lavoro molto corposo quello che ci siamo proposte di fare, ma non ci manca la volontà. Lo faremo insieme ai dipartimenti della Fnp perché non siamo interessate ad un lavoro su un binario parallelo. Siamo dirigenti della Fnp e sappiamo che il nostro apporto
conta molto di più se è sinergico al lavoro della nostra Federazione. Vedremo i risultati, li valuteremo alla fine, li valuteremo insieme. A chi ci legge chiediamo di seguirci in questo lavoro, chiediamo a chi avesse voglia di darci una mano e di chiamarci, chiediamo di fare conoscere questo lavoro. Siamo certe che stiamo lavorando per una società migliore. Maria Irene Trentin Coordinatrice Donne Fnp Cisl
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Verde urbano e terza età
Giardini, parchi e aree verdi sono fonti di benessere fisico e mentale. L’Italia è ancora indietro nella progettazione del verde urbano destinato specificatamente agli anziani, ma qualcosa si inizia a muovere. di Cristina Petrachi
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Analogamente a quanto sta avvenendo nel resto del mondo, anche l’Italia è caratterizzata da un costante fenomeno di urbanizzazione. Nel nostro Paese, infatti, il 24,9% della popolazione è concentrata in una superficie pari al 4% del territorio nazionale. Un dato che costringe le autorità, in primis le amministrazioni locali, a fare i conti con questo progressivo inurbamento del territorio, conciliando lo sviluppo delle città con la tutela ed il rispetto dell’ambiente, a primario vantaggio dei cittadini e della biodiversità. I dati e le classificazioni statistiche sono un segnale che qualcosa si sta muovendo. L’ISTAT, il Ministero dell’Ambiente e l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), infatti, nel raccogliere annualmente i dati, stanno progressivamente articolando e stratificando i misuratori del benessere delle aree verdi delle nostre città, al fine di averne una mappatura sempre più completa. Purtroppo, ancora nel 2013, non esistono statistiche in grado di dare conto non solo delle percentuali relative alle differenti aree verdi presenti nelle città italiane (classificate in verde storico, verde attrezzato, aree di arredo urbano, giardini scolastici, orti urbani, aree sportive, aree destinate alla forestazione, aree boschive, etc.), ma anche del tipo di fruitori di quelle stesse aree. Risulta pertanto impossibile procedere con una mappatura delle aree verdi destinate specificatamente alla terza età in termini di servizi, percorsi tematici e finalità proprie. A livello nazionale, l’ultima normativa entrata in vigore prevede una soglia minima di verde urbano per ciascun cittadino pari a 9 mq. Le statistiche ci riportano di una situazione assai migliore, con una disponibilità media del verde urbano pari a 31,4 mq per abitante, anche se permangono fortissime differenze tra un centro – nord in cui il verde urbano raggiunge percentuali notevoli ed un centro – sud con ancora molti progressi da fare in materia.
Anche a livello europeo, in realtà, non esistono ancora indicatori mirati, in grado di mappare le aree verdi in virtù delle differenti tipologie di utenze, tra cui gli anziani. Ma l’Unione è sensibile all’argomento, consapevole che l’invecchiamento della popolazione europea pone e porrà sfide sempre più grandi, a partire dalla pressione sui servizi sanitari nazionali. In questo contesto, quindi, il principio europeo dell’invecchiamento attivo risulta essere di importanza strategica. Il numero degli anziani, infatti, è in rapido aumento ed il numero delle persone ultraottantenni è destinato ad aumentare del
benefici sociali ed economici. L’UE ha pubblicato le linee guida comunitarie sull’attività fisica che prevedono una sezione specifica per i servizi rivolti agli anziani. Ma non solo. Il “Premio europeo per le città accessibili”, indetto annualmente dall’UE, mira a sostenere proprio quelle città del continente che hanno adottato misure volte a favorire l’inclusione sociale di quelle fasce della popolazione più facilmente emarginate, come i disabili o gli anziani, appunto. Nonostante sia a livello nazionale sia europeo non ci siano ancora statistiche ed indicazioni normative puntuali sulle aree verdi attrezzate per la terza età, amministrazioni locali, enti ospedalieri e privati cittadini stanno iniziando a sperimentare diverse soluzioni. Le testimonianze sono ancora a macchia di leopardo e per lo più concentrate nel centro e nel nord del Paese. Ma prendendo spunto da quanto fatto già negli anni passati all’estero, complice anche una sempre maggiore importanza attribuita al fenomeno della terza età e degli strumenti per il c.d. invecchiamento attivo, interessanti esperimenti si stanno diffondendo nella nostra Penisola.
Alcune esperienze sono di più antica prassi e retaggio. Tra esse figurano senza dubbio gli orti urbani, nati con la duplice finalità di integrazione economica al reddito di molti cittadini, ma anche come spazio sociale dalla doppia finalità aggregativa e di attività fisica a sostegno della salute. Altre esperienze sono più recenti e presenti solo da pochi anni in Italia. Trattasi di tipologie di verde urbano destinato specificatamente alla terza età, come i cosiddetti “giardini terapeutici” o i “parchi divertimento”. La prima esperienza nasce e si sviluppa negli Stati Uniti circa trent’anni fa, con l’obiettivo di supportare le terapie sanitarie destinate anche alla terza età. La seconda ha una funzione più prettamente sociale e mira ad istituire aree tematiche verdi di supporto alla socializzazione non solo tra appartenenti alla stessa fascia d’età anagrafica, ma anche all’interno delle famiglie, con una maggiore integrazione intergenerazionale. Di queste tre principali tipologie di aree verdi urbane, si discuterà più nel dettaglio nei prossimi numeri, con un focus tematico su ciascuna soluzione e mediante l’analisi di casi concreti già realizzati in Italia.
57,1% tra il 2010 e il 2030. Ciò significa quindi 12,6 milioni in più di persone ultraottantenni in Europa, con importanti ripercussioni sui servizi sanitari e assistenziali. Un invecchiamento attivo significa non solo una più lunga permanenza nell’ambito lavorativo, ma anche e soprattutto “permettere a donne e uomini di mantenersi in buona salute e di condurre una vita indipendente con il passare del tempo, grazie a un approccio e a un invecchiamento in buona salute per tutta la durata della vita”. Sono stati creati, quindi, diversi programmi (con i relativi finanziamenti) per il sostegno all’invecchiamento attivo e alla salute dei cittadini europei, inserendo esplicitamente lo sport e l’attività fisica come fonti di 31
Fare welfare di qualità e in maniera produttiva
L’esperienza di RETE
Raffaele Leoni, presidente di RETE
L’invecchiamento della popolazione italiana, la necessità di promuovere aziende in grado di venire incontro alle esigenze di una fascia sempre più ampia di persone, la trasformazione delle persone anziane in risorsa e non solo “peso sociale” e la gestione di queste strutture a livello manageriale sono le sfide che attendono le amministrazioni nei prossimi anni. Ma esistono già ASP (Aziende di Servizi alla Persona) che hanno intrapreso questo percorso con successo, dimostrando che la gestione delle persone anziane può essere fatta attraverso un percorso qualitativo che pone la persona al centro dell’attività, come RETE, acronimo di Reggio Emilia Terza Età, un esempio di come il welfare può diventare una scommessa vincente. Abbiamo rivolto alcune domande al Presidente di RETE, Raffaele Leoni, dalle cui risposte si possono tracciare le linee guida per il futuro di queste Aziende. Della Casa: Presidente, può innanzitutto chiare cosa solo le ASP ed il loro ruolo? Leoni: Le Aziende Pubbliche di Servizi alla Persona nascono nell’ambito del programma di riordino e trasformazione delle Ipab (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza, ndr) previsto dalla legge regionale quadro sui servizi sociali. Sono aziende costituite per garantire la gestione unitaria e la qualificazione dei servizi sociali e socio-sanitari erogati 32
alle persone. In questo contesto si inserisce RETE, nata come IPAB nel gennaio 2001 dalla fusione fra l’O.P. Ospedale Invalidi Omozzoli Parisetti ed il Centro Servizi Anziani, trasformata poi in ASP nel gennaio 2008. Quali sono i servizi offerti da RETE? RETE ospita anziani e disabili adulti nelle proprie strutture, le quali si differenziano per rispondere alle diverse esigenze di assistenza. Attualmente gestiamo sette case di riposo per anziani con residue autonomie o non autosufficienti e sette centri diurni, inoltre abbiamo aperto uno sportello di servizi al pubblico con l’obiettivo di fornire un orientamento alle famiglie. L’anno scorso abbiamo erogato servizi a più di 1.100 persone. Purtroppo, con l’aumento dell’età media aumentano anche le richieste. Abbiamo una lista d’attesa che supera le 200 persone, con tempi
superiori ad 1 anno. Il vostro è un esempio di azienda produttiva nell’ambito del welfare con un bilancio in attivo. Come avete raggiunto questo importante obiettivo? Voglio precisare che gli importanti risultati di bilancio non hanno comportato un peggioramento del servizio, anzi i dati in nostro possesso ci confermano che la qualità di vita dei nostri ospiti è migliorata negli ultimi due anni. L’attuale Consiglio d’Amministrazione è subentrato al precedente nel 2010, ereditando una situazione in deficit. Già l’anno successivo abbiamo riportato il bilancio in pareggio e l’inversione di tendenza è stata confermata dagli esercizi successivi. Questo risultato è stato ottenuto con una razionalizzazione dei servizi, portandone alcuni al nostro interno, come l’assistenza alberghiera, e affidandone altri a strutture esterne come ad esempio il servizio mensa. Inoltre abbiamo attuato una riconversione e riorganizzazione del personale sanitario. Tutto questo mantenendo il concetto di base di RETE, che è la centralità della persona e il suo riconoscimento come portatore di bisogni e di diritti. Il nostro personale ha il compito di aumentare le capacità di autonomia delle persone anziane, sia nella movimentazione che nell’alimentazione. I fisioterapisti e gli animatori sfruttano le capacità dei singoli
individui per sviluppare la loro autosufficienza e non reprimerla. Rendere soggetti passivi, o ritenuti tali, in soggetti attivi, è la nostra sfida più importante. La situazione economica italiana ha inciso sulla vostra attività? Purtroppo sì. La qualità di vita delle persone anziane ha subito un netto peggioramento negli ultimi anni. RETE ha promosso una serie di attività che si rivolgono direttamente alle famiglie, con l’obiettivo di migliorare questa condizione. Lo Sportello per le famiglie, ad esempio, nato con lo scopo di fornire un’assistenza qualificata e gratuita grazie al quale, attraverso un vero e proprio servizio di “tutoring”, la famiglia può meglio comprendere le necessità dell’anziano migliorandone sensibilmente la qualità della vita. Oppure i “ricoveri di sollievo”, che sono un servizio di assistenza offerto nei periodi estivi o nelle fasi post-dimissioni. Inoltre abbiamo avviato un programmi di orari flessibili dei nostri Centri Diurni, per venire incontro alle necessità delle famiglie e degli anziani. In conclusione, quali ritiene che siano i passi da fare per rendere il nostro welfare uno strumento migliore? Una mossa in questa direzione è già stata fatta attraverso le procedure di “accreditamento” attuate dalle Regioni, un modello organizzativo unitario attraverso il quale sarà possibile accedere ai fondi regionali per la non autosufficienza. Purtroppo, come spesso accade in Italia, la burocrazia non ci permette un rapporto diretto con le Amministrazioni pubbliche e l’esperienza maturata “sul campo” rischia di disperdersi o rimanere isolata nell’ambito delle realtà locali, quando potrebbe essere utilizzata per razionalizzare il servizio e migliorarlo a carattere nazionale. Stefano Della Casa
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Marcello Buiatti
Lo sviluppo e l’evoluzione della vita. Il nascere e il morire delle cellule e, dunque, dei corpi. Marcello Buiatti ha un curriculum che lo qualifica come scienziato della vita in tutte le sue forme: il DNA, i geni, le mutazioni di animali e piante, le sintesi ormonali, le malattie degenerative come l’Alzheimer. Perché e come nasce e si forma la vita. Perché le cellule e gli esseri evolvono. Perché s’invecchia. E perché della vita fa parte la morte. Le persone e le società vorrebbero essere immortali, ma così non è. E la buona vita non può essere eterna. Vivere bene significa compiere al meglio l’intero ciclo. Imparare a vivere significa anche imparare a morire.
Gian Guido Folloni a colloquio con Marcello Buiatti
Il vivere dell’uomo, che sa di non essere immortale 34
Folloni: Professore, che succede quando si attiva il meccanismo della vita? Buiatti: Noi siamo un uovo fecondato. L’uovo fecondato inizia a vivere come unione di due cellule diverse, maschile e femminile. Immediatamente parte la storia della vita. Ma quando si attiva il meccanismo della vita, si attiva anche quello della morte. Hegel affermava che “l’uomo è l’unico essere al mondo che sa di dover morire”. Che implicazioni ha, biologicamente e psicologicamente, questa consapevolezza che invano allontaniamo e cerchiamo di rimuovere? Chi ha consapevolezza biologica muore meglio. Come biologo, prima che guardando a me stesso, so che la morte c’è. Ci deve essere. La morte genera vita. Perché quando uno ha vissuto e ha probabilmente avuto figlioli, sa benissimo che morirà. La morte non è un fatto strano, magico, crudele, feroce. Certo, a nessuno piace morire. Però è un fatto assolutamente naturale che ognuno ha dentro senza doverci neanche pensare. Lo sa. E’ ovvio che sia così e sa anche che il morire significa avere però avuto delle altre generazioni, averle fatte e aiutate. Avere compiuto il proprio ciclo. Semmai uno può avere rimorsi su quello che non è riuscito a fare o non ha avuto durante la vita. Ma questo non rende paurosa la morte. Ma quanto vivono e si rigenerano le cellule dei nostri organi? Per una cellula, cosa vuol dire invecchiare? Il sistema complessivo delle sostanze è fatto a rete. I geni non determinano il nostro programma vitale. Guardandoli non posso sapere quando morirò. Il DNA non è un programma ma è in grado di dare informazioni per una serie di strumenti. L’uomo ha 23 mila geni che sono in grado di darci un milione di strumenti diversi per vivere: molecole che cambiano altre molecole. Questa è una grande dote strumentale. Siamo come un muratore con un milione di utensili con i quali egli può fare un sacco di cose diverse. Non una sola, perché il progetto non è nel
DNA. Il progetto avviene. Deriva dal fatto che durante la vita riceviamo tanti stimoli: interni, perché con l’età si cambia; esterni perché da fuori riceviamo dei segnali, buoni o cattivi che siano. A essi i nostri strumenti rispondono. Lo fanno in modo connesso. Se mi tagliano il naso, un pezzo della mia vita cambia. I pezzi del mio corpo sono fra loro connessi, devono stare in una certa armonia. Ognuno fa il suo, non da solo ma insieme a quell’altro. Siamo una rete, una serie di aeroporti che interagiscono. Che cos’è l’invecchiamento? E’ la sopravvenuta incapacità, che aumenta durante la vita, di cambiare in funzione della necessità di cambiamento. Viviamo soltanto se cambiamo continuamente. Se il milione di strumenti non ci funziona più bene… E’ vero che dopo i 25 anni perdiamo centomila neuroni al giorno? Forse un po’ meno. Ne abbiamo 100 miliardi, che possono fare un milione di miliardi di connessioni diverse. Solo l’uomo ne ha tanti. Gli anni, le malattie, la decadenza. Pende sull’uomo quel “Non conoscete né l’ora, né il giorno, né il luogo”: come sta la scienza di fronte a questa parte dell’esistenza che sfugge a ogni nostro potere e controllo? La scienza, soprattutto la medicina, cerca di riaggiustare quei pezzi che si stanno logorando. Fondamentalmente, nel caso degli umani è il cervello che conta. Sono quei 100 miliardi di neuroni. Il cervello non dà soltanto il pensiero, controlla tutto il corpo. Opera con impulsi che vengono dal cervello attraverso il pensiero e attraverso la comunicazione con gli altri. Questo è molto importante. Chi è solo muore nettamente prima. Chi è messo in prigione, senza parlare con gli altri, chi era nei manicomi, chi non è sufficientemente connesso con altri esseri umani muore nettamente prima. Noi già prima della nascita, quando usciamo dalla pancia della mamma, abbiamo già i 100 miliardi di neuroni con tantissime connessioni random, quasi casuali. Il cervello però si forma per davvero soltanto su segnale umano ester-
no. Se non ricevono segnale umano esterno i neuroni scompaiono. Sono in catena: cellule legate con altre. Se non hanno segnali umani le catene si spaccano. Ecco perché chi è completamente isolato sta male. Ecco perché i bambini allevati dai lupi o dai leoni sono handicappati. Noi recepiamo soltanto segnali umani. Ne riceviamo anche altri ma non ci organizzano il cervello. Quale atto conclusivo della vita biologica, la morte è nemico, è mistero, è ritorno a casa. E’ possibile demistificare la morte? Sì. Anzi è uno dei modi migliori per riuscire vivere e a morire bene. Doloroso è il sapere che si morirà. In ognuno di noi ci sono una vita personale e un desiderio d’immortalità. Ecco perché si scrivono le memorie, quasi per continuare a essere. Parliamo di testamento biologico. Senza entrare nel dibattito etico che registra chiare e distinte posizioni da parte della Chiesa rispetto a iniziative di parte laica, da scienziato, quale giudizio dà in merito al fatto che la legge definisca norme che vanno a esplorare ciò che riguarda la “misteriosa” morte? Sull’interazione con le leggi ho dubbi forti. Ho difficoltà a dire se ci debbano essere o no. Se hanno da
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essere, dovrebbero lasciare una grande libertà. Parliamo di cose molto intime, dentro di noi. Le leggi sono fisse, noi no. Questo vale anche per i parenti? Tutto il circolo umano. Io sono io, ma non soltanto io. Stiamo parlando io e lei, siamo due, ma non solo due. A+B non fa mai AB, ma un’altra cosa. Parlando costruiamo una cosa a due. La famiglia è importantissima, ma anche gli amici, il contesto generale. Noi ci cambiamo continuamente i cervelli. Le leggi? Se sono rigide, non le vedo. La società procede però in altra direzione. Sempre meno si muore in casa, tra amici e parenti. Si afferma l’istituzionalizzazione del morire: l’anziano, il malato, il moribondo, separati dalle loro famiglie, privati di qualunque potere decisionale, si trovano “affidati” all’ingranaggio. E’ un bene o un male? Se i servizi specializzati servono ad allungare la vita è un bene. Se non aiutano la vita della persona, 36
che essendo umana è vita di pensiero, non li vedo più come un bene. La nostra vita è pensiero. Tutte le cose che limitano il pensiero sono non vita. Si può morire molto prima che fisicamente. Perché si è arrivati a ciò? Buiatti: Questo mondo umano si sta rompendo. Si spezzano le connessioni. Non solo a causa della morte. Esse si rompono anche guardando soltanto il cellulare e comunicando con gli altri solo in modo bidimensionale. Così perdiamo connessione, dunque vita. Vale solo per gli umani: ma non riuscire a comunicare guardandosi nel muso è un pezzo di morte. La scienza e la tecnica con il pretesto di occuparsi della vita conducono agli eccessi dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia e forse presto porteranno alla manipolazione genetica… La manipolazione genetica non funzionerà. Ci sono gli scienziati, ci sono gli scientisti e ci sono i tecnici. Gli scienziati, sono conoscenza. Conoscenza è vita: noi stiamo bene proprio perché colloquiamo con gli altri. Usando il cervello stiamo bene. Sapere quel che siamo, quel che succede e succederà è bene. Sapendo cos’è e cosa significa la vita si vive meglio. La vita è molto gioiosa. Porta invece dolore fare finta che siamo macchine. Purtroppo stiamo attraversando un periodo di “macchinizzazione”. Un’idea che era già in Cartesio. Si pensa che la vita sia solo quella materiale: il movimento delle mani. Ma in questo modo l’uomo si pensa poco come essere “self conscious”: invece questa è la nostra vita. Una società che voglia aiutare la buona vita in età avanzata come dovrebbe organizzarsi? Le medicine vanno date, le cure fatte. Non sono molto religioso, ma non sono per l’eutanasia: è un’azione meccanica. Preferisco morire. E non ci tengo a essere uno senza cervello. E’ tecnica negativa mantenere delle persone quando
non ci sono più, fingendoli vivi. Le macchine…Uno vive di più e meglio se l’ambiente sociale è mantenuto in modo armonico, in cui tutti hanno la massima possibilità di stare e colloquiare con gli altri. Che cosa dire invece alla persona, anche per gli anni in cui sarà in difficoltà? Non essere solo. Sai che morirai…ma stai con gli altri. Questo è il punto di divisione tra scientismo e scienza. La scienza mi dice: sei uomo perché stai con gli altri. Lo scientismo è la macchinizzazione: singoli pezzetti, singole cose che si fanno. Danno una falsa sicurezza e anche tanta rabbia. Eppure, il sistema di cura è andato verso la specializzazione. Negli ospedali, il reparto cura un pezzo, o cura il malato intero? Il sistema di cura va ripensato? Molti ci stanno pensando. Lo sanno bene gli psichiatri. Non si può chiedere la medicina che ti salva. La chiedi, ma magari non c’è. Ci sono invece gli altri con i quali stare, chiacchierare, con empatia: così si vive meglio e di più.
Oltre le turbolenze del “cortile dietro casa”
Turchia, l’alleato mediterraneo Dal dopoguerra pilastro di stabilità regionale. Il ruolo nella NATO e nell’OSCE. Via alternativa a Mosca nel rifornire di idrocarburi l’Occidente europeo. L’economia florida dà sbocco alle nostre esportazioni. Le recenti tensioni interne. Alleato ideale per l’Italia. di Gianfranco Varvesi
Ai confini dell’Europa si stanno consumando tre gravi crisi. Al nord lo scontro Russia – Ucraina resuscita vecchi conflitti storici. Nel Mediterraneo le speranze di democrazia sono state amputate: al sud, l’Egitto sta tornando ad un governo militare e la Libia è ancora in piena ebollizione. A est, al purtroppo radicato conflitto arabo-israleiano, si sono
aggiunti la rivolta siriana e i moti in Turchia. Di fronte ai focolai di crisi che circondano l’Europa, occorre intraprendere urgentemente coraggiose politiche di lungo termine, elaborate sulla base di prospettive, ben più vaste del cosiddetto “cortile dietro casa”. E’ alla Turchia che rivolgerei il mio sguardo,
nell’auspicio che le recenti rivolte rappresentino un assestamento dovuto ad errori della classe dirigente, ad un disorientamento di alcuni strati della società di fronte a subitanei e profondi mutamenti, ad una presa di coscienza della gioventù dei propri diritti. Movimenti impulsivi che non compromettano però le strutture fondamentali del Paese e del 37
suo popolo. Al di là di questi scossoni sociali, infatti, Ankara è stata, e continuerà ad essere, un pilastro della stabilità nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nel Caucaso. La storia del dopoguerra ha visto la Turchia come l’argine verso i tentativi espansionistici dell’Unione Sovietica e, negli Anni Novanta, verso il conflitto Iran – Iraq. In questi ultimi anni, la Turchia si è affermata come una potenza regionale, ispirandosi alla formula “zero problemi con i vicini”. La sua stabilità politica le ha consentito di divenire un crocevia fondamentale della rete di oleodotti e gasdotti che collega la regione euro - asiatica all’Europa centrale e meridionale. La possibilità di neutralizzare – o almeno contenere - la minaccia di Mosca di trasformare le sue riserve di idrocarburi in una potente arma politica (del resto come già avvenuto due volte nel recente passato) conferisce alla Turchia un ruolo politico di grande rilevanza. Il miracolo economico realizzatosi negli ultimi dieci anni ha trasformato un’economia sostanzialmente debole in uno dei principali sbocchi italiani ed europei di esportazione. Ultimamente però, 38
questo quadro è stato seriamente incrinato dalle rivolte che hanno avuto come principale terreno di scontro Gezi Park. Alle inizialmente moderate richieste dei giovani manifestanti ha fatto seguito una dura reazione di polizia, con atti amministrativi che hanno intaccato l’autonomia della magistratura, la libertà di stampa e i diritti civili delle opposizioni. Nel suo rapporto annuale, la Commissione Europea ha criticato la violenta repressione delle manifestazioni anti-governative. Anche la diplomazia si è recentemente allontanata dalla sua impostazione dialogante. Con la Primavera Araba, la linea tradizionale di Ankara sembrava potersi affermare come modello: l’Islam moderato, che aveva saputo coniugare la tradizione laica di Ataturk con una ricerca di maggiore spiritualità della popolazione musulmana, avrebbe potuto ispirare la transizione Nord Africana e in particolare l’Egitto del dopo Mubarak. Quel complesso di circostanze di politica interna e l’ambizione della Turchia di esercitare una forte influenza sugli sviluppi delle rivolte tunisina, libica e, soprattutto, egiziana, hanno fatto perdere ad
Ankara la sua posizione privilegiata di paese guida. Con amarezza si potrebbe dire in questo momento che il motto “zero problemi con i vicini” si sia trasformato in “zero vicini senza problemi”. Nel riconoscere queste ombre, di cui non si deve sottovalutare la portata nel breve periodo, bisogna tuttavia considerare qualche primo sviluppo positivo in politica estera. Un più costruttivo approccio
verso l’Iraq e l’Iran mostra che vi è la volontà di recuperare un ruolo in Medio Oriente. Allo stesso tempo stanno migliorando le relazioni con i Paesi europei e con gli Stati Uniti. Il ritiro della NATO dall’Afghanistan potrà ridare alla Turchia la possibilità di recuperare uno spazio in Asia Centrale. Le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato che la maggioranza del corpo elettorale ha votato per la stabilità. La verifica si avrà prima con le elezioni presidenziali in agosto e poi con quelle parlamentari nella primavera del 2015. Pur senza fare previsioni, è con la prospettiva di una Turchia che sappia comunque recuperare le sue migliori tradizioni e le sue posizioni di forza che l’Italia dovrebbe sviluppare una relazione privilegiata. Si tratta in primo luogo di aiutare la Turchia a gestire la crisi interna. Gli strumenti si trovano nel contesto di quegli organismi internazionali di cui Ankara è membro, in particolare Consiglio d’Europa e OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Internazionale), nei quali il concetto di “Non interferenza nelle questioni domestiche di uno Stato” è attenuato dal principio della cooperazione collegiale per la tutela dei diritti umani e democratici. Occorre, poi, aiutare la Turchia a re-
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan
cuperare il suo ruolo di potenza regionale. Basti pensare alla vastità che il suo raggio di influenza potrebbe avere, superando ampiamente i confini dell’impero ottomano. Interessi politici, economici, culturali ed etnici che già spaziano dall’Ucraina, ai paesi dell’Asia centrale turcofoni, relazioni privilegiate con i Paesi musulmani, una rete economica e commerciale vastissima, che copre l’Asia e tutta l’Africa, gli USA e alcuni Paesi importanti dell’America latina, quali il Brasile. La Turkish Airline è oggi la quarta compagnia mondiale per numero di aeroporti serviti. Le premesse geo-politiche ed economiche per una forte sinergia italo-turca emergono in tutta la loro evidenza. Italia e Turchia potrebbero insieme sviluppare una strategia di portata fondamentale per la pace e lo sviluppo del Nord Africa, del Vicino e del Medio Oriente, e del Caucaso. I nostri interessi
coincidono e le nostre economie sono in gran parte complementari. La Turchia, Stato musulmano, ha una capacità di penetrazione in tutto il mondo islamico (arabo e non). In proposito, pur se le differenze fra sciiti e sunniti hanno la loro rilevanza, questa sarebbe smussata se Ankara ritornasse alle sue posizioni religiose moderate e tolleranti. Il ritorno alla pace sociale favorirebbe la ripresa economica del Paese, consentendo di recuperare una centralità economica e finanziaria. Dal canto suo, l’Italia offrirebbe il suo know how, il suo ruolo di Paese membro dell’Unione Europea, con i vantaggi e la solidità politica ed economica che tale status garantisce. In molti Paesi gli italiani hanno una presenza politica e commerciale più forte di quella turca, così come in altri la presenza turca prevale su quella italiana.
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Nuovi diritti per nonni e bisnonni di Luigi Ciaurro
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Probabilmente ha ormai fatto il suo tempo la riforma del diritto di famiglia operata dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, all’epoca salutata con favore unanime degli operatori perché adeguava i dettami del codice civile del 1942 (ancorato al modello della c.d. “famiglia patriarcale”) alle profonde trasformazioni sociali intervenute negli Anni Sessanta e Settanta. Ma attenzione. Pur a fronte delle molteplici aggettivazioni che hanno eroso la definizione costituzionale di famiglia (art. 29: “società naturale fondata sul matrimonio”) - vale a dire famiglia “di fatto”, famiglia “allargata” e così via soprattutto in tempi di profonda recessione occorre mantenere la “barra dritta” intorno alla nozione tradizionale di famiglia, che è anche più ampia rispetto a quella corrente di “famiglia mononucleare”, ricomprendendo pure i nonni; nozione ampia che soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia ha consentito di supplire alle carenze del nostro welfare. Bene ha fatto quindi il legislatore a prevedere di recente una preziosa disposizione, che ha riconosciuto diritti specifici ed azionabili in giudizio direttamente in capo agli “ascendenti”, cioè i nonni e, perché no, anche i bisnonni, visto che (almeno di questo dobbiamo essere orgogliosi) in Italia l’aspettativa di vita tende a salire verso l’alto ed è maggiore rispetto alla media europea. Si tratta dell’art. 42, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, che ha sostituito l’art. 317-bis del codice civile (Rapporti con gli ascendenti), per cui a decorrere dal 7 febbraio 2014 gli ascendenti hanno “diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”, al qual fine possono ricorrere al giudice, affinché siano adottati i provvedimenti più idonei “nell’esclusivo interesse del minore”, qualora sia loro impedito l’esercizio di tale diritto.
Dal punto di vista del giurista, questo diritto assoluto degli ascendenti va interpretato in modo ragionevole e proporzionato rispetto al “diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori”, come recita l’art. 337-ter del codice civile. Ciò che risulta incontestabile è il fatto positivo che l’ordinamento giuridico italiano ha riconosciuto una nuova categoria di soggetti familiari titolari di diritti (appunto, gli ascendenti paterni e/o materni); diritti tra l’altro esercitabili anche a prescindere dal verificarsi di una “crisi di famiglia”, potendo in qualsiasi circo-
stanza gli ascendenti ricorrere autonomamente al giudice del luogo di residenza del minore in caso di ostacoli all’esercizio dei loro diritti, seppur sempre nell’esclusivo interesse del minore. Le fattispecie astrattamente tutelabili sono le più svariate, ma è prevedibile che il contenzioso sarà relativo soprattutto alle situazioni post-separazione dei genitori. E’ ipotizzabile a questo punto un subentro giudiziale della coppia dei nonni rispetto alla coppia dei genitori nella cura, educazione, istruzione e assistenza morale dei nipoti minorenni? In linea astratta, nell’interesse esclusivo del minore, il nuovo articolo 317-bis CC lo imporrebbe. Ormai siamo oltre il tradizionale diritto di visita ai nipoti, che pur viene rafforzato dalla norma in esame. Purché non finisca come al Tribunale di Modena, dove il 14 luglio prossimo è stata fissata un’udienza, a seguito dell’istanza di una madre, che ha trascinato in tribunale i propri genitori, accusandoli di stalking nei confronti suoi e del marito, a causa di comportamenti fortemente invasivi data la pretesa dei nonni di esercitare una sorta di “controllo” sulla crescita e l’educazione della nipotina. Ancora una volta soccorre monsieur de Talleyrand: sourtout pas trop de zèle (“soprattutto senza uno zelo eccessivo”). In conclusione: con l’attribuzione ai nonni di diritti specifici ed autonomamente azionabili nei riguardi dei nipoti è stata finalmente data un’attuazione ragionata e complessiva agli articoli della Costituzione 29 (riconoscimento dei diritti della famiglia), 30 secondo comma (“nel caso di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”) e 2 (garanzia dei diritti inviolabili nella formazione sociale dove si svolge la personalità dei singoli, fra cui in primis la famiglia).
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L’arma a doppio taglio delle sanzioni alla Russia Possibile una “guerra” delle valute
Le sanzioni economiche nei confronti di uno Stato allontanano qualsiasi soluzione negoziata, invece occorre creare sempre le condizioni per risolvere i contrasti e ottenere la migliore convivenza ed il più efficace sviluppo comune. Ecco perché l’Ue, la Russia e l’Ucraina, che convivono nello spazio euro-asiatico, devono muoversi in quest’ottica. Altrimenti non solo permarrà un clima di tensione, ma si irrobustirà anche la tesi di coloro che ritengono che oggi si sia in piena “guerra economica”. Le analisi della situazione e della crisi in corso possono essere differenti. Quella di Romano Prodi è precisa e condivisibile. Egli ha detto: “L’idea che l’Ucraina possa essere o dell’uno o dell’altro è un’idea assolutamente folle. L’ultimo atto del mio governo, insieme ai francesi e, credo, anche ai tedeschi, fu quello di votare contro l’entrata dell’Ucraina nella Nato. Qui è cultura russa e cultura europea assieme; o noi dilaniamo il Paese o dobbiamo avere un assoluto accordo fra Russia ed Europa. L’Ucraina deve essere vista non come campo di battaglia ma come ponte”. D’altra parte, di solito a sanzioni corrispondono contro - sanzioni. Sono armi a doppio taglio. Perciò, se l’Europa malauguratamente dovesse bloccare i capi-
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tali russi o sospendere i pagamenti dovuti alla Russia, questo sarebbe fatto anche dall’altra parte. Se da un lato si bloccano le merci, dall’altra si fermeranno i rifornimenti di gas. La Russia ha un debito estero statale quasi irrisorio, circa 30-35 miliardi di dollari. Il debito estero delle corporation russe private invece è elevato. All’inizio del 2014 era di 732 miliardi di dollari. Che succederebbe se i pagamenti di questi debiti dovessero essere congelati? La Russia è parte integrante del sistema commerciale mondiale. Nel 2013 ha importato merci, beni di consumo, cibo, medicine, macchinari e tecnologia per 350 miliardi di dollari, di cui la metà dall’Unione Europea. Al tempo stesso un terzo della produzione di gas russo e un quarto di quella petrolifera sono destinati all’Europa. Mentre i sostenitori delle sanzioni puntano sull’indebolimento della Russia, nella convinzione che aumenterebbe la fuga di capitali, a Mosca si programma la conduzione del commercio, dell’import e dell’export, in rubli e non più in dollari. In verità si tratta di un vecchio progetto relativo alla costruzione di un sistema fondato sul rublo, reso convertibile e legato alle sue riserve auree. In merito è significativo che da qualche tem-
di Paolo Raimondi
po, sulla facciata della Banca Rossiya a Mosca, sia apparso un grande rublo in oro a simboleggiare la sua stabilità garantita dalle riserve auree nazionali. Il consigliere economico di Putin, Sergey Glazyev, ha detto che se le sanzioni verranno applicate la Russia dovrà necessariamente creare un altro sistema di regolamenti internazionali insieme ad altre valute. Ha ricordato quindi gli eccellenti rapporti economici e commerciali con i partner del Sud e del’Est del mondo, riferendosi in particolare ai Paesi del Brics, che da tempo si sentono anch’essi destabilizzati dalle politiche monetarie “accomodanti”della Federal Reserve. In questo contesto si dovrebbe valutare attentamente anche la diffusione delle moneta cinese negli affari internazionali. Nel 2013 circa il 17% dell’intero commercio cinese è stato regolato in yuan. Nel 2009 era solo l’1%. Alla fine del 2013 lo yuan ha superato l’euro come seconda moneta, dopo il dollaro, nella finanza commerciale mondiale. Che gli Stati Uniti facciano la voce grossa da lontano è una cosa, ma che l’Unione Europea dia segnali di rottura dei suoi rapporti di cooperazione e di commercio con la Federazione russa non è comprensibile.
I PARALLELI SONO GREMITI DI GIUSTI AL LAVORO, BASTA SAPERLI CERCARE
Annoto questa storia di un medico nel deserto africano degli scorpioni perché chi vuole possa adottarne la provocazione. di Giorgio Torelli Provo a raccontare una storia su cui forse - volendo – si può riflettere. Corrono gli Anni Sessanta. Io sono inviato speciale di un settimanale mondadoriano a grande diffusione: 350.000 copie, anche 250 pagine, per metà redazionali, per l’altra metà salutarmente pubblicitarie. Il periodico, che gode anni di reputazione, entra nelle famiglie col miglior reddito e un buon livello di erudizione. Il direttore è capace quanto caparbiamente sedentario. Del mondo, per quanto è vasto e tutto da leggere, riconosce solo le emergenti nuove, quelle di rimbalzo sui quotidiani e i telegiornali. Gli va di praticare sul conto dell’uomo il pessimismo. Non fa che replicare uno scetticismo da diporto: “ Andrà sempre peggio, credetemi! Non esistono risorse morali e altruismi di riserva!”. Ogni sera, uscendo dal giornale, si accompagna a qualche rassegnato redattore per predicargli le puntate del diluvio dei costumi già in corso: tutto rovinoso, tutto divelto, tutto estraneo alla speranza di nuovi albori. Io, che penso il contrario, non sto a discutere con lui, piccolo, grassottello e con un gran covone di giornali sottobraccio, quando itinera verso casa, distante appena dieci minuti dalla Mondadori. Faccio il contrario. Gli propongo reportages su quanto si stia opponendo – di fatto – ai suoi drastici convincimenti. E lui, che ha la tana in Milano, mi vede stravagante, ma se ne compiace nel darmi via libera, dovunque voglia spingere lo sguardo. Si va convincendo – almeno formalmente - che storie di altruismo, prossimità, donazione di se stessi al sollievo di chi ansima in un recesso della Terra, possano sorprendere le lettrici e i lettori in relazione fiduciosa col settimanale di cui non saprebbero fare a
meno per tradizione e compiacimento. Questa volta, ho una proposta spiccia per il Direttore, che sta governando con l’aria condizionata una scrivania folta di ninnoli e vezzi, veste con zelo abiti di ricercato taglio e cravatte di tocco perfetto (segretamente è un pittore mancato, seguita a dipingere quadri che non mostra). Gli dico: “Andrei in Africa, ai confini tra Kenia e Somalia, dove un medico italiano – solo e solissimo in un ospedale di 150 letti – si prodiga allo stremo con l’intima, tenace persuasione che “divinum opus est humanum sanare dolorem”. Potremmo fare dieci pagine. La storia, di cui ho appena saputo, è inedita e tonificante. Il dottore non sa niente di me né dei giornali. E’ come se abitasse sulla luna. Devo raggiungerlo e sorprenderlo, sperando che accetti l’incontro”. Il direttore s’illumina. Io sono sempre la proiezione di quel che gli piacerebbe essere: diventare anche lui utente delle lontananze, viaggiare, scoprire, raccontare a man salva. Si dice subito d’accordo. Ancora una volta - ed è sempre così - posso prendere il volo per dove l’opportunità del meglio mi convoca. Quel che conta (come ha sempre predicato Montanelli) è che un inviato ritorni con l’osso in bocca e il carniere pieno. La Mondadori degli Anni Sessanta non lesina per prestigio e per metodo: dollari immediati, caterve di rullini fotografici, biglietti aerei e prenotazioni a cura della segreteria di redazione. Io appronto la sacca essenziale, le mie tre Leica di pronta mira, il quaderno da appunti rilegato in tela scozzese, le credenziali delle vaccinazioni, i medicinali di urgenza e conforto, l’abbigliamento equatoriale coi correttivi per pioggia, vento e notti stellate. E vado, senza la fissità di un calendario: quando avrò visto 43
tutto quel che mi preme, rientrerò. Mia moglie e i miei figli si sono adeguati al padre che s’invola, ma torna sempre con doni per tutti, perfino i ciottoli, le conchiglie, i fiori, le erbe del luogo che ha scoperto, anche i tessuti artigianali, le statuette delle culture tribali, i giocattoli dei poveri, creati con la latta dei barattoli. Mai ho dimenticato di portare a casa anche i sillabari, magari in swahili, i libretti di preghiere, le ingenue icone dei santi privilegiati dal fervore di popolo e dipinti con primitiva devozione. Decollo dunque per Nairobi. E, là, prendo contatto con medici italiani che sostengono la facoltà di medicina keniana. Ricevo conferma che il dottore, di cui voglio raccontare i giorni e le opere, è sempre lassù nel deserto verso gl’ipotetici confini somali. La località ha nome Wajir, un pianeta riarso: scorpioni, pietrame, pozzi d’acqua salata, piste insidiate. Il dottore che voglio incontrare ha un nome, ovviamente, ma non lo scrivo perché i suoi propositi di riservatezza mi consigliano di non farlo. Di lui, sarei diventato amico per tutto il resto della vita. E’ tuttora vivo, anziano, fanciullo nel cuore, sposato, un po’ affranto, mezzo insordito dal chinino, tuttora limpido nel dare e nel fare. Vive in un piccolo cantone svizzero, lui novarese, la moglie ostetrica elvetica. Si parlano in inglese. I medici italiani, consultati a Nairobi, mi pongono sul chi vive: attenzione, il dottore del deserto di Wajir è un orso piemontese, potrebbe diffidare di un cronista che gli capiti dal cielo. Conosco bene questo tipo d’uomini riservati e anacoreti. Ho bisogno di 44
nude sotto il camice rattoppato, le scarpe da savana, l’aspetto di chi impugna le situazioni ricorrendo alle sigarette di tabacco plebeo. Vada come dovrà andare: possiamo considerarci benvenuti. Potrò veder tutto, dialogare, fotografare. Abbiamo tempo fino al tramonto. Il pilota inglese trova una sdraio e prende a leggere un libro da tasca. Attorno al dottore italiano, si assiepano infermieri kikuyu. Le corsie sono terse. La sala operatoria non ha elettrogeneratore, qui si opera con due fanus accesi. La residenza del medico è di tre stanze, un gran letto, un frigorifero a petrolio stivato di scatolette militari, le grandi pentole per far bollire l’acqua sul fuoco a braciere. I domestici sono rigorosamente uomini. Le donne di Wajir, quasi tutte statuarie somale musulmane, preferiscono soccombere alla malattia piuttosto che farsi visitare intimamente dal dottore cristiano, ginecologo oltre che chirurgo generale alla napoleonica. Lo vedo motivato e deciso. Guadagna quanto può dargli il governo keniano, pochissimo. Per farsi animo, gli bastano quaranta sigarette al giorno. La pochezza di tutto è evidente. Il mio settimanale ha mandato in dono al medico – chissà se la mia iniziativa coglierà nel segno – un giradischi a batterie con ampia riserva di pile. Potrà ascoltare sotto la volta stellatissima le sinfonie di Mozart (Amadeus, compagno delle notti nel deserto, dove i guerriglieri somali e keniani si scannano per bande). Il dottore spiega, fuma, illustra, sottolinea, ci sta a parlare a lungo. Forse, è un sollievo. E ci fa conoscere un personaggio memorabile, un vecchio pastore somalo che mesi fa è stato azzannato da un leone. La belva penetrò nella capannuccia del nomade durante un plenilunio, addentò alla gamba il pastore e prese a trascinarlo fuori per sbranarlo. Il vecchio si difese a randellate, il leone mollò la preda. La gamba era scarnificata e infetta. I figli del pastore, con tre notti di cammino sotto il peso della barella (di giorno, la calura avrebbe resa impossibile la trasferta), portarono il padre ferito all’ospedale. E il medico italiano riguardò quel pastore straziato come fosse l’uomo più importante della Madre Terra. Con interventi
un garante che mi scorti. Così, chiedo a un vescovo missionario italiano – piemontese anche lui -, uno di quei tipi tosti di confine, se accetterebbe di volare con me fino alla remota, assolata Wajir. Abbiamo la pipa tutti e due. Ci scambiamo le buste di tabacco inglese. Ci andiamo reciprocamente a genio. Il vescovo, con la sahariana sdrucita e il cappellaccio da safari, s’imbarca. Ho noleggiato un monomotore con un pilota britannico. Decolliamo all’alba dall’aeroporto Wilson. E’ un giorno di novembre. Sorvoliamo il Kenia verdissimo delle colture di caffè, anche la fattoria dove visse Karen Blixen. Mano a mano, il Kenia si fa giallo e ocra, stinge, impoverisce. E là in fondo, davanti alla prua dell’aeroplano, si profilano a biancori di ghiaia le povere case di Wajir. Difficile prender terra sulla pista traversata da bovini zebù, che dobbiamo disperdere con puntate a bassa quota. Ci attende una Land Rover della polizia distrettuale per recapitarci all’ospedale, che è un insieme di edifici calcinati, costruiti da prigionieri italiani durante l’ultima guerra. Niente elettricità, solo lampade a petrolio. Il vescovo appare un po’ spupazzato dalle cabrate, ma si rinfranca dando fuoco alla pipetta. All’ospedale – un risalto di candori dove il deserto tende all’assedio – ecco finalmente il dottore, stupito ma anche all’erta: una camionetta della polizia, due forestieri europei, chi possono essere? Il vescovo fa da apripista. Il dottore è un ragazzone con le gambe
studiati su libri italiani di medicina, portati a Wajir, il dottore piemontese intervenne più volte sulla gamba e chirurgicamente la risanò. Dal suo letto con il fitto della zanzariera il pastore biblico, dalla barba d’argento sul viso brunito ci sorride, tendendo le mani riconoscenti al dottore, che se ne gratifica. Il vescovo della pipa si turba. Aveva in animo di celebrare una Messa da campo all’ospedale, visto che nella remota Wajir ancora non è arrivato un missionario stanziale. Ma una pugnalata improvvisa gli s’infigge sotto il giustacuore africano: infarto. E si badi: infarto in un ospedale di frontiera, dove non c’è niente di specifico per bonificare la pena cardiaca. Il dottore italiano agisce come può. Fortunatamente, ho già parlato a lungo con lui e ripreso tante immagini. Il pilota inglese contatta via radio l’aeroporto Wilson a Nairobi. Decolleremo al più presto col vescovo trafitto dal dolore. Il medico ci abbraccia fraternamente. E’ anche alpino e, poco prima, l’ho convinto a farsi fotografare col cappello grigioverde che s’è portato fino in Kenia come garanzia di una robusta identità. Il vescovo viene imbarcato, non c’è modo di sdraiarlo. Ricordo ancor oggi come l’ho fotografato mentre sfioravamo il monte Kenia e lui - senza un lamento - si riparava la fronte con la mano nobilitata dall’anello episcopale. Il vescovo si salvò. Sopravvisse ancora per anni. Il mio reportage, al ritorno a Milano, fu dislocato su molte pagine nella settimana di Natale. Letta la sto-
ria, migliaia di alpini in congedo scrissero al dottore con affettuosa ironia. “Bravo fesso, sei lì a fare un’altra naja e a giocarti la carriera! Bravo, però! Dai: facci sapere cosa ti serve!”. Mandarono cifre imponenti e il dottore con la penna organizzò un ricovero per gli orfani dei guerriglieri, tutti ragazzi e ragazze che battevano il deserto, bradi e armati, depredando le carovane. Il dottore seppe del reportage pubblicato e mi scrisse parole di amicizia, anche da tutti i paralleli dove poi s’inoltrò per fare il medico di avanguardia con quaranta sigarette del giorno e della notte. Lavorò – senza ufficio stampa - per i miseri, gli afflitti, i diseredati, gli sconfitti, gli emarginati, le vittime d’ogni peggio nel Rwanda degli eccidi, in Tanzania, in Uganda, nello Yemen, sulle Ande e a Papua Nuova Guinea. E quando, tornato in Kenia, conobbe l’infermiera del suo cuore, da solitario che era si ammogliò. Naturalmente pretese dal missionario del luogo (che non era più Wajir) una garanzia: cerimonia riservatissima senza danze né tamburi tribali: tutto in incognito nella sagrestia della cappella. Al momento del sì, il celebrante chiese. “Dottore, hai con te gli anelli?”. “Ma quali anelli!”, sbalordì lui, “ e dove volevi che li comprassi?”. “Ma gli anelli ci vogliono!”, ribadì il barbuto reverendo in sandali. E, allora, il mio amico medico di frontiera s’alzò dall’inginocchiatoio e uscì dalla chiesa. Andò nell’officina della missione. Fece segare da un vecchio tubo due cerchietti di ghisa. E quelli furono gli anelli di nozze per due prodi, sconosciuti al mondo. Di persone così non si trova quasi mai traccia sui giornali. Ma Dio Padre le conosce e le tiene care. E dunque, ecco la sintesi doverosa. Il mondo è tuttora abitato da ignoti di buonissima volontà. E proprio questo deve sapere chi non fa che attardarsi nello scetticismo e nel convincimento arbitrario che ogni seme del ben fare sia avariato o disperso. E’ segretamente vero il contrario. I giusti persistono. Bisogna andarli a scovare per farsi cuore e agire in prima persona. Bisogna schierarsi a supporto perché ogni Wajir vicina o lontana (quante ce n’è di Wajir sulla mappa della ventura di vivere) trovi rispondenza e anche eco tra i samaritani di complemento. 45
ASCOLTARE IL CUORE di Dr. Alberto Costantini
In questo numero completiamo l’argomento sui principali segnali che il cuore può inviare e che sta a noi percepire e considerare nel loro giusto valore.
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Segnale fra i più importanti, se non il più importante, è il dolore al torace: in questo caso è essenziale che sappiamo distinguere quando la sofferenza ha origine dalla gabbia toracica (di tipo artritico, muscolare, nevralgico, etc.) oppure è di origine coronarica. Capita che persone, specie non più giovani, avvertano a volte un dolore in sede retrosternale; quando questo dolore è superficiale (anche se con fitte più o meno acute), cambia di intensità con profondi respiri, o con la pressione sulla zona dolorosa, o con la torsione del tronco, o ancora con la tosse o con l’ingestione di cibo o di liquidi, allora si tratta di un dolore toracico. Il dolore coronarico o anginoso invece ha caratteristiche differenti. Si presenta per lo più durante uno sforzo o dopo un pasto abbondante; è di tipo costrittivo, oppressivo come una morsa che stringe il torace, è accompagnato da sudorazione spesso fredda; si può irradiare al braccio sinistro, e anche al braccio destro, contrariamente a quello che è una comune credenza. Talvolta si estende pure al collo e al dorso; scompare con il riposo dopo pochi minuti, per ripresentarsi però poi con le medesime caratteristiche. Con questi sintomi, specie chi è diabetico, iperteso, fumatore o cha ha un familiarità per malattie coronariche, è bene che si rechi il prima possibile in un centro cardiologico organizzato dove lo specialista farà le opportune valutazioni con un elettrocardiogramma a riposo o sottosforzo, e deciderà se basta la prescrizione di farmaci (beta-bloccanti, coronarodilatatori, etc.) oppure se necessita di una coronarografia con angioplastica per dilatare il vaso che si stava ostruendo.
Purtroppo per i “profani” non è sempre facile “raccapezzarsi” tra disturbi più o meno evidenti e più o meno eloquenti, ma per questo, fortunatamente, abbiamo in tutte le regioni delle strutture di eccellenza pronte a risolvere i nostri dubbi. Quello che occorre potrebbe essere una più razionale distribuzione di queste strutture e anche una maggiore diffusione delle stesse che, in molte zone, sono carenti se non addirittura inesistenti. Evitare un infarto o un grave danno al cuore significa diversi anni di vita in più.
Paracadute di Umberto Folena
Si chiama televisione generalista. Sono i sei canali della Rai e di Mediaset, più l’unico canale di La7. E i loro spettatori più assidui (qualcuno, maligno, aggiunge: i soli spettatori…) sono gli anziani. Specialmente al pomeriggio. Pensionati che tengono il televisore fisso sul primo canale Rai, su Retequattro o Canale 5. Sempre, feste comandate comprese, tanto da far sibilare a un conoscitore profondo della tv come Carlo Freccero: “Milioni di anziani, spesso poco istruiti, sono affidati alle badanti Venier e D’Urso”. Le ricerche confermano. Ad esempio, l’indagine della Sigec (Società italiana di cardiologia geriatrica) calcola che il 73 per cento della popolazione anziana guarda la televisione più di tre ore al giorno, e il 25 per cento raggiunge le sei ore (appena il 15 per cento svolge regolarmente attività fisica). All’estero le cose non vanno troppo diversamente. Un’indagine dello Stein Institute for Research on Aging dell’Università della California ha stabilito che gli over 65 guardano televisione tre volte più dei quindicenni, ma soprattutto che la televisione non allevia lo stress. In altri termini, quando un anziano afferma di guardare la televisione per rilassarsi, mente, forse senza sapere di mentire. Bisogna essere sinceri, invece. Sempre. E allora diciamolo: per molti anziani soli, drammaticamente soli, la televisione fa compagnia. A volte l’anziano non la guarda né la ascolta. Si limita a tenerla accesa mentre fa altre cose. La tv accesa tiene compagnia, ed è la solitudine la grande nemica. Chi fa televisione lo sa benissimo. Il pubblico anziano che più guarda tv è in genere poco istruito e ha scarse disponibilità economiche, quindi è inutile bombardarlo di messaggi pubblicitari raffinati di prodotti costosi; ma è anche
TV: se è per noi, che sia di qualità inutile investire troppo denaro per gli spettacoli a lui destinati. Così il livello si abbassa e abbiamo la cosiddetta “televisione spazzatura”, lontanissima dai prodotti raffinati, di alta qualità, quasi tutti sul satellite, per un pubblico dotato di denaro e sufficiente cultura. Cultura? In realtà a contare è l’abilità critica. E qui gli anziani svegli, che vogliono darsi da fare e rendere un servizio prezioso ai propri coetanei, possono fare molto. Scollare molti anziani dall’amato televisore è vano, forse perfino ingiusto. Ma assai più ingiusto è che vengano bombardati di sciocchezze, di false lacrime, di emozioni di cartapesta. Che fare dunque? Telespettatori critici, abili e svegli si può diventare a tutte le età. E allora piccoli gruppi di anziani, facendosi aiutare da chi per passione o professione possiede già l’abilità critica e la usa da sempre, possono organizzarsi, trovarsi, guardare un programma insieme, smontarlo, criticarlo nel bene e nel male. Scrivere quello che hanno scoperto. Invitare i coetanei a scegliere il buono scartando il cattivo. Possono pubblicare un bollettino da infilare nella buca delle lettere. Bussare alla porta dei vicini. Coinvolgere la parrocchia, i circoli culturali, la biblioteca, la stessa Cisl. Nessuno vuole anziani soli e infelici. Nessuno vuole privarli del conforto che comunque la televisione dà loro. Quel che dovremmo esigere è che la televisione “per anziani” fosse più rispettosa della loro intelligenza, meno sciatta e banale, più gentile ed educata. A questo dovrebbero servire i Gac, i Gruppi di ascolto critico. Formati anche da appena due o tre di voi. Decisi a farsi sentire. “Guerriglieri” a favore della televisione buona, che sveglia e allieta con intelligenza, contro la televisione cattiva, che instupidisce rifilando patacche. All’opera, Gac!
BREVE ANALISI CRITICA DEL GRANDE FRATELLO Il Grande Fratello è giunto all’ennesima annata. È ripartito con ascolti altissimi. E i telespettatori anziani sono in prima fila. A volte qualche associazione protesta per una parolaccia o una ragazza sotto la doccia. Cose di cattivo gusto. Ma è “quello” il problema? Occorre scavare sotto la superficie e individuare la struttura del programma. Che cos’è il Grande Fratello? È televisione fatta dai telespettatori, 24 ore su 24. “Gente comune” (in realtà esito di un casting accurato, ma sorvoliamo) chiamata a costruire una comunità. Ma che genere di comunità è? I membri devono collaborare, essere amici, flirtare. Viene escluso chi fa meno “comunità” degli altri. Ma lo scopo del gioco, in realtà, è restare da soli. Il Grande Fratello è una comunità di singoli individui in competizione che cercano di eliminare gli altri. È una comunità che esclude. Il Grande fratello è un esempio palese di neo-tv a servizio della consumerist society, ossia la società di consumatori in perenne competizione tra loro. Quindi soli. Forse tiene compagnia, ma ci sta bene quel modello di comunità? Noi siamo per una comunità che esclude o include? Che caccia i suoi membri fino a disintegrarsi o è sempre aperta a nuovi arrivi? Un anziano che teme e combatte la solitudine è bene che sappia che cosa sta guardando. E, guardandolo, contribuisce al suo successo.
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Nonni Clikkanti
Per legge, per passione e per valore di Pier Domenico Garrone
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Il 2020 è il traguardo previsto per la gestione “dell’internet delle cose”, ovvero oltre 50 miliardi di oggetti operanti e governati grazie alla rete internet con impatti diretti sulla vita dell’uomo (Fonte: Cisco/Ericsson). Ma torniamo al 2014, anno primo della trasmissione del CUD per via telematica. Un’esperienza comoda per chi ha a casa la connessione internet e ha soprattutto un computer, un tablet e una stampante. Solo se hai più di 85 anni, puoi fartelo spedire a domicilio. Un sistema quasi coercitivo che mira a scaricare sull’anello più debole il dovere e la responsabilità di produrre/procurarsi il titolo del proprio diritto, in questo caso della meritata pensione. Per il business, invece, la terza età sta diventando primo target. Ecco un esempio. L’operatore telefonico 3 è il primo a provare un marketing che unisce la fedeltà al proprio servizio con il premio alla persona in pensione. La proposta ti assicura dopo i 60 anni un piano tariffario per 20 anni a costo zero se sei stato fedele per 10 anni. Tra poco, appunto nel 2020, con il tablet sposteremo le cose grazie ad internet senza sudare. Sino ad allora, crescente sarà la pressione verso le persone più anziane che il declino economico rende “casta” per la capacità di spesa certa, condizione di serenità e minor ansia sociale. Google e via via tutte le grandi aziende della Rete stanno per occupare il televisore delle nostre case completando così quella che i sociologi chiamano la nostra vita sociale. Come? Una facile chiavetta da inserire in una delle porte HDMI presenti nel televisore che si connette con il nostro Wi-Fi domestico e il nostro televisore ci offre quello che desideriamo, quando lo vogliamo, e se vogliamo senza pubblicità. Così il TG lo potremo vedere
sempre e così rivedremo le puntate della serie Tv. O registreremo lo sport e navigheremo in famiglia, magari per salutare amici lontani o per organizzare un party virtuale o una partita a scacchi. O per vendere, o comprare, o cambiare un prodotto, o rispondere al controllo di un medico. Con circa 35 euro andrà in crisi il rapporto italiano/televisione che ha educato, dal mitico maestro Manzi in poi, ogni nostra generazione che si riconosce in trasmissioni storiche come “Immagini dal Mondo”, “Campanile Sera”, “Rischiatutto”, “Chissà chi lo sa?”. Inizia un rapporto Persona / Oggetto, tablet /televisore, con la stessa intimità che il personaggio dei fumetti Linus dedica alla sua coperta. “Quel nostro oggetto” saprà tutto di noi, persino più di un confessore, e in parte per farci vivere meglio con proposte sempre più commisurate al nostro profilo, ma sicuramente perché noi partecipiamo al business digitale a prescindere. WhatsApp, l’applicazione che consente di messaggiarci gratuitamente, è stata recentemente acquistata per 19 miliardi di dollari proprio perché ciascun contatto, ciascuno di noi registrato sulla piattaforma, vale 42 dollari perché rappresenta una miniera di notizie che fanno scegliere prodotti, modificare offerte. Un consiglio: oggetto utile per portare la connessione internet vicino al televisore e usufruire e conoscere i servizi internet è il convogliatore di onde elettriche (costo circa 40 euro), detto in telecomunicazioni “powerline” (in inglese power line communication o PLC, in italiano onde convogliate). E’ una tecnologia per la trasmissione di voce o dati che utilizza la rete di alimentazione elettrica come mezzo trasmissivo. Tutto sarà sempre più calibrato alle esigenze delle persone più anziane che restano parte integrante non esclusa della società.
Continua come di consueto la rubrica “Libri e web” dedicata ad alcune delle principali novità editoriali disponibili in libreria e a siti internet attivati di recente. Federico Rampini, “Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale” Mondadori, 2013.
La crisi economica scoppiata nel 2008 con il fallimento della banca d’affari americana Lehman Brothers sembra non avere fine, in Italia come nel resto d’Europa. Nonostante i governi e gli economisti si arrovellino sulle misure da adottare, le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, i consumi crollano. E la responsabilità della recessione in corso è stata addossata, di volta in volta, al mercato dei mutui statunitensi (i famigerati “subprime”), allo strapotere della finanza, al peso schiacciante del debito pubblico. Cambiando decisamente prospettiva, Federico Rampini non si chiede a “che cosa” imputare la colpa ma piuttosto a “chi”, e senza alcuna esitazione afferma: “I banchieri sono i grandi banditi del nostro tempo. Nessun bandito della storia ha mai potuto sognarsi di infliggere tanti danni alla collettività quanti ne hanno fatti i banchieri”. Dall’osservatorio privilegiato degli Stati Uniti, dove la crisi ha avuto inizio, Rampini racconta chi sono i banchieri di oggi, come abbiano potuto adottare comportamenti tanto perversi, assumersi rischi così forti e agire in modo talmente dissennato da provocare un’autentica Pearl Harbor economica, sprofondando l’Occidente nella più grave crisi degli ultimi settant’anni. E tutto questo, contando sempre sulla certezza dell’impunità. A pagare i loro errori sono infatti i cittadini dei paesi
sulle due sponde dell’Atlantico, e il prezzo è altissimo: crescenti diseguaglianze, precarietà del presente, paura del futuro. Francesco Guccini, “Nuovo dizionario delle cose perdute” Mondadori, 2014.
Da quando è uscito il primo “Dizionario delle cose perdute”, Francesco Guccini non può fare un passo, per strada, senza che qualcuno lo fermi per suggerirgli con entusiasmo e commozione qualche oggetto “del tempo andato” che merita di essere ripescato dal veloce oblio dei nostri anni e celebrato dalla sua penna. Dall’idrolitina ai calendarietti profumati dei barbieri, dal temibile gioco del Traforo alle cabine telefoniche, dal deflettore all’autoradio passando per i “luoghi comodi” e i vespasiani, le letterine di Natale piene di buoni propositi da mettere sotto il piatto del babbo, le osterie (quelle vere, senza la H davanti per darsi un tono) e molto altro, Guccini torna a scavare nel passato che ha vissuto in prima persona per riportarcelo intatto e pieno di sapore. E con questo suo catalogo delle cose perdute dà vita a un personalissimo genere letterario nel quale l’estro del cantautore (capace di condensare in poche strofe un universo intero di emozioni), la sua passione storica e filologica e la sua vena poetica trovano sintesi piena, regalandoci pagine in cui ogni oggetto, ogni situazione, suscita intorno a sé un intero mondo, sempre illuminato dalla luce di un’insuperabile ironia.
Alan Friedman, “Ammazziamo il Gattopardo” Rizzoli, 2014.
Perché l’Italia è precipitata nella crisi peggiore degli ultimi trent’anni? La colpa è della Germania, dell’austerity imposta dall’Europa, della moneta unica? O della mediocrità della classe dirigente? Esiste una via d’uscita, una ricetta per rifare il Paese? Per rispondere a queste domande, Alan Friedman, forse il giornalista straniero che conosce meglio la realtà italiana, parte da quegli Anni Ottanta in cui l’Italia era la “quinta potenza economica del mondo” e pareva avviata verso una vera modernizzazione per arrivare fino alle drammatiche vicende degli ultimi anni. Attraverso conversazioni con i protagonisti dell’economia e della politica, da cinque ex presidenti del Consiglio (Giuliano Amato, Romano Prodi, Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema, Mario Monti) a Matteo Renzi, Friedman fa luce su retroscena che nessuno ha finora raccontato. Il racconto delle vicende politiche degli ultimi anni assume una nuova luce, rivelando ciò che spesso è stato omesso o taciuto. E si combina con un ambizioso e sorprendente programma in dieci punti per rimettere il Paese sul binario della crescita e dell’occupazione. Il tempo delle mezze misure è finito, e Friedman, in questo libro coraggioso, offre una ricetta di riforme di vasta portata.
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Cristiana Paccini e Simone Troisi, “Siamo nati e non moriremo mai più. Storia di Chiara Corbella Petrillo” Porziuncola, 2013.
Queste pagine raccontano la storia di Chiara, con le parole e i ricordi di chi l’ha conosciuta e ne ha condiviso la profonda esperienza di fede: un’esistenza che non si è arresa di fronte alla morte fino a diventare segno di speranza per tutti noi. Andrea Camilleri “Inseguendo un’ombra” Sellerio Editore, 2014.
“Non è, questo, un romanzo d’ambiente; di costume. Non è un romanzo storico. È una potente azione narrativa. Se nel gioco degli scacchi l’obiettivo finale è catturare il re, le modalità operative e di ricerca di questa opzione strategica forzano il silenzio e le tenebre della storia, per affrontare il mistero di un’“ombra”, penetrare nelle tante maschere di un volto che si può pensare ma non conoscere, catturare la personalità artificiosa di un protagonista di eventi reali che con infame talento si evolve su se stesso e sotto più nomi si tramuta; e restituire, infine, alle necessità del racconto, il lato oscuro, la metà notturna e fosforica della civiltà dell’Umanesimo raggiante di cultura. Qui Camilleri gioca a scacchi con l’imponderabile. Le strade del suo personaggio si moltiplicano, si confondono, si scambiano l’una con l’altra. Partono dalla giudecca di Caltabellotta, in Sicilia, e lungo il Quattrocento si inoltrano nei labirinti delle capitali, 50
delle corti piccole e grandi, degli studioli umanistici, delle Accademie e delle Università; nella geografia politica della penisola italica e delle remote contrade di là delle Alpi. Il lettore fa il possibile per recuperare il fiato. Una pagina tira l’altra, vorticosamente. Tra vari avvisi di pericolosità e d’orrore, il protagonista del romanzo sprigiona intelligenza perversa, crudeltà e spietatezza. È un ebreo convertito, poliglotta: esperto soprattutto in lingue orientali...” (Salvatore Silvano Nigro)
ca libera per parole chiave, grazie alla barra posta in alto. Attraverso una semplice segnalazione, inoltre, Cotto e Postato offre la possibilità ai ‘food blogger’ di segnalare il proprio blog per inserire ed indicizzare le ricette nella ricerca.
www.paginevegan.it
www.giardinaggioweb.net Dall’esperienza di Giardinaggio, il mensile distribuito in edicola su scala nazionale divenuto uno strumento indispensabile per chi ama il verde in tutte le sue accezioni, nasce Giardinaggioweb.net, la prima piattaforma italiana interamente dedicata al mondo del giardinaggio fai-da-te. Giardinaggioweb.net è infatti il primo sito dedicato al giardinaggio studiato a partire dalle più innovative tecnologie multimediali, con l’obiettivo di offrire uno strumento pratico, immediato e di facile fruizione agli appassionati del verde. Approfondimenti botanici, itinerari tematici, novità dal mercato, testimonianze dalla filiera del verde ma soprattutto tanti consigli pratici, utili per avere giardini e terrazzi impeccabili.
www.cottoepostato.it Cotto e Postato mette a disposizione un archivio liberamente consultabile di ricette organizzate per nome e tipo di portata, rintracciabili anche attraverso ricer-
Il sito contiene una mappa dettagliata e un potente motore di ricerca, grazie al quale vengono censite e descritte tutte le attività vegan d’Italia e anche fuori confine. I punti di forza di Pagine Vegan sono una mappa dettagliata e una facile mascherina di interrogazione con centinaia di parole chiave, che diventeranno migliaia via via che le iscrizioni affluiranno al sito. Inoltre, si possono reperire informazioni utili per chi desidera diventare vegano o vuole saperne di più, grazie a interventi italiani e stranieri ispirati all’etica vegan.
www.quotazioneargento.eu Il sito offre tutte le informazioni in merito alla quotazione dell’argento e molto altro ancora. Non solo il prezzo spot giornaliero ma anche come viene quotato l’argento, dove e da chi. Il silver fixing viene stabilito giornalmente dai rappresentanti delle bullion bank che partecipano al London Silver Market, il mercato di riferimento internazionale per la quotazione dell’argento fisico. Il silver fixing è uno dei parametri presi in considerazione per stabilire anche la quotazione dell’argento usato, oltre a questo infatti si deve analizzare il titolo e il peso di un oggetto.
contropelo alle parole di “moda” di Dino Basili
. Secondo singhiere osa per lu o n o s i nizion re qualc le sue defi crede di diventa tragediograe tt tu n o che a. N bbel, Modesti ebbel, è “il niente no niente”. Di He elphi). o d H s h (A n c io u : ri ri d n ia re e e d co Fri ni dei terario ammett ra i et b d -l i mo co it c ti tt s li fa u o ere p osito di “a il solo ppena ai è un gen rme”. Specializzate. a, il prop mo a fargli 0, sono a ri 0 rm te ’8 O n ll . a e o v d ll fo scia una ndi fi Appe i, non riu , peggio Niccolò torio di “gra ’illusione quanto agguerrit rincipe di n P ricco reper u ’ el d E le . ia io d n ia Per No zo millen torio mon inil tempo”. rficiale. Per il mez nel labora bile”, invenchiesto l’ mazzare un graffietto supe Brevetti. , è stato depositato o m l’Italia ha nazionale: im e o o h n c sm e li ti o el m n v en nem onta ort “movim Macchia crete racc diffuso sp politiche il Voci indis gonistiche, di un i. di scienze ani ragazzi. d ia sì p o a . C zi Olim specialità imo grado zione di an mentazio sso, tra le -chi. ta, al mass finisce per sbiare ca g o v in o la fram logi. re a d i p lc n n o a a em v zi lz S a a a c . c tu s a si o, in iglio il chiin certe Chiarezz si del ram , cioè polt chiara, che Gli studio anche in poltiglie . ia are chiara, così g lo o ta” p ezzo al m perti Polito essere es e controlla rino, in m a. e dire. o in p n g a o ri v P ’o e i d d “d , i ne tin agic archio e. nto i nipo rchetta m zione, il m d’occasion ua. Solta o l’arrivo della ba Q , Doc. Atten una parola tronca: o u el Q tti: certi u q n re Qui, a di ritra trattasalendo, gheggia a o ri v d e , n ll a le ta trebbe esse g s sa e , a ità uto un te ri in temp dell’emotiv plodere da un min spunta in lla mostra, quan n. A causa es e omanda b d a in L i . u e q Escalatio sto all’interno può r o Ritratta onaggi, per esser ? “cala” nasc rs alsivi ti o m a storici pe o dovuto compiere ssibile qu d generata o è impo . all’altro. n d la n n a el a u h u q i e Q n il . io a z nato bocc pportab C’è chi ab to inflazio ione. Inso , insomma fru-fru. Strumen anda un segnale. Frustraz . li o le i, iv ntare la a a fr d n e g te en Se ia”, dai Per aume ani, a e, si m rd n a … io u rt g is a particolarm c la e m a s d alt ia”. em iò, voglia ne “tenere lice “stare in guard inare sull rino, risc p L’espressio tta, moto , sarà bene camm le ic ic B Guardia. rata. Meglio un sem . fi Traffico ttirando fotogra go a sembra lo il muranio cr a visibilità, . l’ el n . o, anche o d e, n lt o o v b A Davver ri iù . g etto ” è fu testa in ”? Non è d tatrac. ntro muro oris Causa “muro co bbe avvenire il pa il o d n a H.C. “Hon a per “horroris”. le virgore il Urto. Qu abile sa che potre st i trascura to. h izio è semp c in a l’ , i mo, l’acca o n ci n n e io u n inu nicaz tore m ia degli an oltre un m rie comu ella strateg e!”. ffidare se chi le discute per a i a diM Incipit. N it . d e da significa , camVirgola : “Udite, u le distanz li Ojibwa sì si legge io di Zürau tro. g g re e medesimo e fu d d ri n a u el re g n P o C lin le. no scritto iù kafkiane del maes : h. “Nella naramente”. un quader p dtenawa ta che colpisce du e. In realtà, tribù ai felicità o i d p e à Kafka. In a, si trovano le righe it d il g ib n u a rc ss is g o v h ie i p B re lt a W p o n e tt s em iu m fe im una per i Ambro si procuravano re a ragg lamità pagna bo a è a d c ir i v lo i; sp o a a tr v ri s n o ia a o s te n D li Ojibwa nario del Eccole. “In distruttibile in noi e nel Dizio uale Michigan, g i. ’in e n tt a credere all ’a sere unati. Ch tiva dell spesso agli sciam iderio di es outto ai fort e es d o d gerlo”. d n il n ie e la v rr etti. rto” rico li elogi ce çois de La Rochef ano gl’ins ua per l’o l rifiuto deg ran lmeno i va l’acq nti ristagna e arriv “A : “T o . d Lodare. “I olte”. L’aforisma di F e n r ce a me Zanz in cres v ppa…Altri lodato due otrebbe concludersi on sia tro n p i g g o , cauld . due volte” 51
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