Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa” Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1, 20126 Milano
Mercoledì 12 Dicembre 2012 dalle ore 12:30 alle ore 14:30
Edificio U6, Aula 4
Dott.sa Santina Portelli Psicologa e artista condurrà un seminario dal titolo:
Lo sguardo degli altri Introduce Marina Ramonda
“Una storia… tante storie”, olio su marmo, di S. Portelli
C’è una luce nel pozzo… è l’invisibile presente. L’invisibile fa parte di tutti noi, per me può essere la mia parte sana, non potendo viverla pienamente, c’è sempre la curiosità di tenerla vicino per non perderne il contatto, e dandomi un motivo in più per capire l’altro diverso da me. Chi non sente l’invisibile è chi sta male interiormente, e non vede la sua luce. Santina Portelli, psicologa, ha collaborato con le università di Roma e Milano per la formazione di insegnanti e psicologi. E’ tetraplegica spastica. Pittrice, è membro effettivo della V.D.M.F.K., Associazione mondiale che promuove il lavoro di pittori che dipingono con la bocca e/o con il piede, www.vdmfk.com
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INTRODUZIONE Per quest’incontro avrei voluto fare un seminario diverso dove non si parlasse ancora di disabilità, ma che inducesse a pensare anche alla
disabilità…. Avrei voluto fare un seminario leggero, pieno di speranza, dare spunti di gioia, spesso la quotidianità respinge la positività della vita e tanti sono gli aspetti che sfuggono al primo sguardo. Allora Vi propongo di fare insieme questo breve incontro e di ritornarci anche dopo esserci lasciati: alcune parti sono riflessioni ad alta voce, altre dentro di noi, altre ancora verranno alla luce nel tempo, però vi chiedo di essere sinceri e attivi in questo piccolo percorso.
L’invisibile presente C’è una luce nel pozzo… è l’invisibile presente. Vedere e sentire l’invisibile è dare spazio alla propria sensibilità. A volte l’invisibile ti fa sentire euforica e ti da una felicità tale che non ha motivo d’essere, come il pensiero innocente o lieve. Ecco perché ci attrae e cerchiamo sempre di conservarne un po’… per la prossima felicità. L’invisibile quindi é presente ma abbiamo paura a riconoscerlo. L’invisibile può fare tanta compagnia oltre che paura. Può colmare la solitudine. L’invisibile può essere la fantasia, la fantasia è una forma di libertà. L’invisibile fa parte di tutti noi, per me può essere la mia parte sana, non potendo viverla pienamente, c’è sempre la curiosità di tenerla vicino a me per non perderne il contatto, e dando a me un motivo in più per capire l’altro diverso da me. E’ un concetto cartesiano, nessuna cosa muore veramente fino a che c’è una persona che la ricorda. Chi non sente l’invisibile è chi sta male interiormente, ha perso contatto con questa parte.
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Desidererei che pensaste alla vostra parte invisibile, non so se avete già avuto modo di accorgervene e costatare che esiste…. Non sto parlando d’astrologia o cose simili, no! Sto parlando di una parte di noi che purtroppo non è mai considerata, ma che è la nostra linfa vitale, che ci fa muovere da un lato o dall’altro, più o meno coscientemente, che ci da un colore. Quale lo sceglieremo noi, se grigio o giallo o azzurro o…. Quindi l’invisibile nasce in noi e con noi, ci accomuna e ci differenzia. LO SPECCHIO Uscendo da casa quanti di noi cercano o trovano una vetrina, lo specchietto di una macchina, dove più o meno casualmente specchiarsi. Controlliamo se la nostra persona è al meglio, spesso ci stupiamo perché ci ricordavamo diversi, l’immagine che abbiamo di noi stessi sempre ci stupisce nell’incontro con lo specchio, tanto che molti d’istinto dicono di non riconoscersi.... si chiedono: ma chi è questa/o? E il disabile ? Quando si vede riflesso ha un sussulto, non si riconosce, perché anche per lui, la sua immagine, interiorizzata nel tempo, è diversa da quella che lo specchio rimanda. L'acquisizione della coscienza di essere un diverso è probabilmente la prima grande difficoltà che il bambino disabile è costretto ad affrontare e spesso è vissuta in modo traumatico; il bambino disabile si sente condannato a vivere l'esistenza come una corsa ad ostacoli. La scoperta dell' handicap lascia spesso un segno indelebile nel bambino, egli si scontra continuamente con i propri limiti senza sentirsi protetto né tanto meno preparato ad affrontarli. D'altra parte è interessante osservare come l'inadeguatezza della società possa divenire in seguito l’alibi attraverso il quale il giovane disabile 3
indirizza all'esterno tutti i sentimenti negativi legati al proprio handicap: la società diviene in questo caso l'unica responsabile dei propri disagi. Questa modalità di pensiero, definita in psicologia come spostamento, è uno dei più comuni meccanismi di difesa psicologici. I diversi meccanismi di difesa, ai quali la persona disabile farà ricorso, tenderanno con il passare degli anni a rafforzarsi fino a divenire parte integrante della sua personalità e quindi indispensabili.
LA BARRIERA INVISIBILE Come viene vissuta la disabilità?, la diversità?, come viene sentita al primo contatto? Nonostante si continui da anni a parlarne e a studiare queste tematiche, non si riesce a smantellare quella barriera invisibile che allontana, già dal primo sguardo, la persona disabile dagli altri. Io stessa in anni di ricerche e di formazione a futuri psicologi ed insegnanti, riscontro questa barriera, ed allora insisto proprio in quello che io considero un punto nodale, fondamentale della formazione sia esistenziale sia professionale: com’è vissuta la disabilità intimamente, in maniera profonda? Per la persona sana, la barriera è un meccanismo di difesa, per la persona disabile è un muro d’abbattere. In alcuni casi la barriera invisibile è palpabile, ma sia la persona sana sia il disabile non riescono a scalfirla, in altri la consapevolezza d’averla, ha fatto agire percorsi per modificarsi e renderla quasi impercettibile. La persona disabile sente se la barriera è stata affrontata solo culturalmente.
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SGUARDI Nella mia esperienza ho osservato che spesso lo specchio non è mai un oggetto d’arredamento predominante nella stanza e nella casa di un disabile, non credo sia un fatto casuale… in molti casi è una scelta protettiva, prima dei genitori poi del disabile stesso, così come spesso capita per le foto da bambini, che immortalano un’occasione, ma mai si soffermano sul bambino disabile. Sembra quasi che per i familiari la foto e lo specchio rilevino la disabilità del figlio e quindi preferiscano il loro immaginario alla realtà, potrebbe essere anche questo un ennesimo meccanismo di difesa perpetuato nel tempo dai familiari. I primi sguardi che il bambino/a disabile incontreranno saranno quelli dei suoi cari, inizialmente e per la maggior parte delle volte increduli, sorpresi, sopraffatti, disperati, pronti a cercare nel corpo del bambino disabile una parte seppur piccola “da riconoscere”, ad esempio “è tutto storto, ma ha degli occhi grandi, azzurri … come il nonno, …. Peccato!” e qui gli esempi si sprecano…… La Parola “peccato!” è onnipresente, e si rifà ad un senso di colpa, loro? Del bambino? Questo ci porterebbe ad affrontare altri argomenti. Se ritorno invece all’importanza dello SGUARDO, penso ai primi incontri extrafamiliari che il bambino o adolescente disabile vivrà: con i medici, fisioterapisti e successivamente gli insegnanti. Anche per la famiglia questi incontri assumeranno vari tipi di significato, legato alle attese che ognuno di loro avrà maturato con il tempo, ad esempio la possibilità di recupero fisico e/o psichico del figlio, la speranza in una progettualità scolastica o a più ampio raggio, la possibilità di condurre una vita vivibile.
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Anche il figlio si caricherà di queste attese, sia esso un bambino anche piccolo, un ragazzo/a o un adulto. Il bambino come una spugna assorbirà le ansie e le attese dei genitori, che spesso sottovalutano, a maggior ragione con la presenza di un handicap, la sua comprensione e consapevolezza degli eventi che lo riguardano. Nell’età evolutiva poi gli sguardi saranno diversi secondo il percorso di vita, se un ragazzo/a dimostra qualche talento, capacità, predisposizione, simpatia, coraggio e intraprendenza, le esclamazioni successive allo sguardo saranno: “se fosse stato sano, chissà……”, “studia… ma per passare il tempo!”, facendo questi esempi ripenso alle parole di mia madre, che riferendosi a me, dall’adolescenza fino all’età adulta, diceva: “ se Tina non fosse stata così, io ad un certo punto della sua vita non l’avrei più rivista, sarebbe stata sempre in viaggio, a lavorare in altri paesi…. Non sarebbe qui con me!”, Gli sguardi verranno accompagnati il più delle volte da queste parole, che sembrano precludere progetti esistenziali soddisfacenti e alternativi agli stereotipi legati alla condizione del disabile. Tutti questi sguardi il disabile li avrà scolpiti nella testa e nel cuore e inevitabilmente faranno parte del suo BAGAGLIO FORMATIVO NEL COSTRUIRSI UN’IDENTITA’. E’ interessante a questo proposito la testimonianza di un’amica: “Ricordo di quando ero bambina e passeggiavo con i miei genitori, la cosa che mi feriva di più erano gli occhi degli altri su di me, non per l’handicap, ma per il disagio che “quello sguardo” causava ai miei genitori. Io, che in fondo ero la diretta interessata, non stavo male perché ero in carrozzina, ma stavo male per la loro mortificazione, allora ero io ad abbassare lo sguardo. Il modello di riferimento, il mio specchio, in quel periodo della mia vita erano i miei genitori. 6
Con il tempo mi sono costruita una barriera tutta particolare, da una certa età in poi, gli altri non li vedevo, né come si rivolgevano a me, né come mi guardavano, per me………. non esistevano. Per molti anni qualsiasi persona io incontrassi per strada, non la vedevo, non la riconoscevo, ho riscontrato in molti disabili questo comportamento, che io interpreto come un altro meccanismo di difesa. Questa scelta mi ha fortificato molto, è come se avessi voluto non subire la barriera messa da altri, in altre parole il loro sguardo, ma decidere io di costruirne una: chi mi avesse voluto veramente conoscere avrebbe dovuto andare “oltre”, tanto da volerla abbattere, prima la sua e poi la mia. Facevo inconsciamente una selezione naturale degli sguardi, in fondo selezionavo i miei rapporti umani, decidevo con chi e come entrare in relazione. E’ molto difficile convivere con gli sguardi degli altri, così ho imparato a leggere e ad intuire attraverso il loro sguardo, la tonalità della voce, senza farmene accorgere, cosa passa loro per la mente quando si rivolgono a me o ad un altro disabile”. Si potrebbe dire che la mia amica si è difesa e protetta non guardando le persone, allo stesso tempo scegliendo di non vedere si è preclusa quegli sguardi di ammirazione e simpatia, laddove ci fossero stati sguardi, credeva quindi che gli sguardi a lei rivolti fossero tutti omologati al pregiudizio ricorrente. Confrontandomi con lei ho scoperto che entrambe, per cercare di superare il disagio dello sguardo degli altri, nel corso degli anni abbiamo sviluppato una forte capacità d’osservazione e d’ascolto, che è diventata strumento di conoscenza e intuito. Altri potrebbero dire che la nostra identità si è formata cercando di non subire questo disagio.
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Nella mia vita professionale il mio handicap è diventato un “manuale” di lavoro. Durante la specializzazione in Terapia Familiare ho avuto modo di andare ad un Convegno a Roma, ancora una volta ero l’unica psicologa partecipante disabile, in quell’occasione seguii un workshop del dott. Carl Whitaker, americano, uno dei fondatori della terapia familiare. Decisi di creare un’occasione per avere un suo parere, poiché le sue parole mi avevano aperto degli orizzonti inaspettati, così decisi… Scelsi l’interprete, poiché il mio inglese è molto scarso, e le chiesi di aiutarmi in una chiacchierata con il professore, accettò di buon grado e facemmo un abbordaggio al bar, dove il professore si trovava con la moglie. Effettuammo l’imboscata dopo che il gruppo di professionisti italiani, che lo avvolgevano sempre, se ne era andato. Questa conversazione fra sorrisi e traduzioni fu molto importante per me, fra le altre cose gli chiesi:”può il mio handicap essere un problema nella mia professione?”, lui mi guardò non capendo la domanda, all’inizio pensai a una cattiva traduzione, ma subito mi accorsi che invece era proprio il concetto che non comprendeva. Già questa sua reazione mi scioccò e mi illuminò, continuando il dott. Whitaker mi disse che nella mia professione io avevo un vantaggio sui miei colleghi, conoscevo da sempre e intimamente il disagio e la malattia, io vivevo da sempre “one-down”. Io ero già dove altri colleghi solo con molta esperienza sarebbero arrivati. Lo sguardo del prof. Whitaker aveva visto nella mia stessa disabilità una possibile capacità.
RECIPROCITA’ Abbiamo fatto un percorso, parlato di invisibile e visibile, di specchi e di sguardi e di quanto sia importante abbattere in tutti, ma in questo caso 8
in voi, insegnanti e educatori quella barriera invisibile che blocca qualsiasi relazione. Ma, come sapete, il tipo di relazione che s’instaura fra insegnante e allievo è molto importante. Per questo motivo insisto a proporre nei miei incontri ed anche in questo, “Lo sguardo degli altri”, quella che io chiamo l’OSTINAZIONE FORMATIVA: com’è la disabilità nei vostri occhi, come la vivete? Come l’avete affrontata? O è ancora un problema per voi? Solo iniziando a farsi queste domande e un sano lavoro d’introspezione, si potrà poi continuare a lavorare con i propri allievi, e loro daranno il massimo solo se sentiranno la vostra mente e il vostro cuore sgombro da questa barriera, o meglio ancora, se capiranno la vostra fragilità e volontà a superarla. Ogni
tecnica imparata,
ogni
proposta didattica troverà in voi
successivamente un terreno così fertile, che potrà diventare un aggiornamento continuo nel vostro lavoro d’insegnante. Ho già quindi iniziato a parlare di RECIPROCITA’ nella relazione. L’ALLIEVO È UNA PERSONA, NON SI LAVORA “SU DI LUI MA CON LUI” Spesso purtroppo se ne conosce il deficit, che è l'immagine più manifesta, e non la sua identità, se ne conoscono le difficoltà, spesso stigmatizzate dalla diagnosi, ma difficilmente le sue potenzialità ed abilità. La conoscenza del deficit è sì utile, ma non deve condizionare l’insegnante nella relazione con l’alunno, EGLI NON È LA SUA CARTELLA CLINICA. Mi ricordo di un insegnante di sostegno, che tempo fa mi scrisse per avere dei consigli utili verso una bimba disabile, avuta in carico. Era molto
preoccupata,
mi
comunicò
informazioni
dettagliate
circa
l’handicap della bambina e le difficoltà estreme che avrebbe dovuto 9
affrontare; l'insegnante andava incontro al suo impegno con questo “peso” da supportare e sopportare, tutto nel suo scritto esprimeva la paura di questo incontro, mai la curiosità e la gioia di una persona nuova da conoscere. Scoprii alla seconda lettera che lei non aveva mai visto la bambina….. e che voleva aiuto solo partendo da ciò che sapeva da altri. In questo caso “lo sguardo” dell'insegnante non aveva ancora incontrato quello della bambina…. Troppo spesso le insegnanti sentono la necessità di fare appello alla categorizzazione
del
loro
allievo,
di
inserirlo
in
uno
schema
d’informazioni e conoscenze, che loro possono affrontare e utilizzare al meglio nel rapporto che si spera di creare. Possono cadere nell’errore di SOTTOVALUTARE le potenzialità del loro allievo, la sua “diversità”, che in questo caso io intendo come caratteristica positiva, “diversità” che già lo rende esperto nel come utilizzare le sue risorse, anche quelle minime, rispetto al suo insegnante. Il disabile ricorre molto spesso a risorse importanti, alle volte sottovalutate, come: la fantasia, l’invenzione, il paradosso, il racconto, l’autoironia
e
non
meno
importante,
l’esperienza
inusuale
già
conquistata, mi riferisco all’esercizio di “addomesticare” il proprio handicap e così via. Un ulteriore compito dell’insegnante sarebbe di portare alla luce le sue capacità, aiutarlo ad esprimerle e a svilupparle in un percorso di crescita evolutiva, d’emancipazione ed integrazione. In questo caso sarebbe utile quindi proporsi un cambiamento di ruolo nella relazione insegnante-allievo, essere “allievo del proprio allievo” diventerà un percorso “formativo”, per conoscerli ed imparare da loro,
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la loro esperienza di vita, seppur breve, la loro diversità, potrebbe essere essa stessa uno strumento didattico. Il bambino si sentirebbe appoggiato, sostenuto, capito, parte attiva e protagonista del proprio percorso di crescita e soprattutto non emarginato. Essere complice dei propri allievi, studiare il modo per aiutarli ad inserirsi nell’ambito scolastico, con i compagni, nel gioco e in un apprendimento, che proprio perché inconsueto ha di per sé un valore aggiunto anche per i compagni. Le esperienze e le proposte nuove che l’insegnante proporrà all’allievo disabile troveranno un interlocutore interessato, partecipe e abile. Da come si svilupperanno questi incontri e dal tipo di relazione che l’operatore e la persona disabile instaureranno, si potrà meglio comprendere, ciò che ho fin qui affermato: lo sguardo con cui si approccia la disabilità lascia una forte impronta nel bambino/a disabile, esso é il suo specchio.
Ecco perché è importante educare il proprio sguardo.
Concludendo vorrei lasciarvi queste poche righe che desidererei voi portaste ad ogni incontro con i vostro allievi
LA BELLEZZA DEL DIVENIRE Questa frase ha in se tutta la bellezza del futuro, del tempo che verrà, che corre, non vi è nulla di scontato, non sappiamo cosa ci riserva il domani, sappiamo però che sicuramente sarà nuovo e, come ogni cosa che è nuova, ha in se la freschezza e la gioia di dover essere ancora vissuta... questa è la bellezza del divenire… Santina Portelli Via Monte Rotondo, 21 – 20162 Milano
e-mail:
[email protected] 11
BIBLIOGRAFIA Propongo come bibliografia l’articolo “La tavoletta Magica” del dott. C. Imprudente, pedagogista e direttore dell’Associazione l'Associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna, disabile. L’articolo è un ulteriore approfondimento degli argomenti inseriti nel seminario “Lo sguardo degli altri”.
La tavoletta magica Che cos’è quello strano oggetto che, nella fotografia all’interno di questo articolo, si frappone tra il lettore e il primo piano del viso dell’autore?Ecco finalmente svelato l’arcano. di Claudio Imprudente Molti di voi, forse, si saranno chiesti che cosa sia quello strano oggetto che, nella fotografia all’interno della mia rubrica, si frappone tra voi e il primo piano del mio viso. Sarà forse un vezzo artistico di chi ha scattato la fotografia? Ci saranno sotto chissà quali significati simbolici o subliminali? È un modo per dire che, mentre tanti hanno la testa tra le nuvole, io preferirei avere la testa sempre tra le lettere? Ebbene, è giunto il momento di svelare l’arcano. Partiamo, allora, da quella che è la storia della tavoletta. Si tratta, infatti, di una tavoletta di plexiglass nella quale sono impresse tutte le lettere dell’alfabeto, in un ordine un po’ diverso da quello di un vocabolario, ma solo apparentemente confuso. Avete capito allora a che cosa serve? Dal momento che non riesco ad articolare le parole con la mia voce, io comunico con quella tavoletta trasparente alfabetizzata. Dall’altro lato della tavoletta, anche se nella fotografia non si riesce a vedere, c’è un’altra persona che, seguendo il movimento dei miei occhi, compone, lettera dopo lettera, le parole e le frasi che io voglio costruire e comunicare, e le ripete a voce alta, così che io possa interagire con le altre persone. In realtà, quando la confidenza e la relazione con chi «legge i miei occhi» aumentano, il funzionamento della tavoletta è più simile a quello di un sistema T9 in uso sui telefoni cellulari, perché non sempre per comprendere la parola intera devo comporre dalla prima all’ultima lettera. Così come non sempre il mio collaboratore 12
compone la parola in modo giusto, e allora si ripete pazientemente il processo. Comunque, al contrario di quanto possa sembrare, la comunicazione avviene in modo piuttosto rapido e, anzi, il lieve rallentamento può servire anche… a dire cose più sensate. Ho «scelto» questo metodo quando ancora non ne esistevano altri: oggi potrei sostituirlo con altri tecnologicamente più avanzati, che mi permetterebbero di fare tutto da solo: scrivere una lettera, intrattenere una conversazione telefonica o vis a vis o così via. Perché, allora, non l’ho ancora cambiato, né ho intenzione di farlo? Questa tavoletta è molto più che un ausilio alla comunicazione: è soprattutto un ausilio alla relazione, uno strumento che invita a ragionare secondo una «logica della lentezza». Essa crea tra me e chi riferisce quel che dico un rapporto speciale, un confronto serrato, una vicinanza emotiva che difficilmente potrebbe emergere con metodi di comunicazione altamente tecnologici. Tenete presente che chi legge i miei occhi è solitamente la persona con cui sto dialogando e non una persona che fa da tramite tra me e un terzo. E la tavoletta, che sembra frapporre una distanza maggiore tra me e l’altro, in realtà avvicina, perché tiene sempre in tensione e in contatto i nostri sguardi. E potete immaginare quante cose passino e si trasmettano attraverso gli occhi. Questa modalità di comunicazione, come dicevo, prevede un ritmo ridotto, perché aiuta a considerare le cose secondo un punto di vista (espressione particolarmente azzeccata in questo caso) totalmente diverso. Aiuta a soffermarsi sulle parole, per non perdere il piacere di dar peso a quanto si dice e di associare un singolo termine a un concetto, non considerando quest’ultima un’operazione del tutto scontata e banale. Dunque, parlare della storia della mia tavoletta è stata anche un’occasione per affrontare questioni ulteriori, quali la natura delle relazioni e la bellezza di una comunicazione profonda e pienamente vissuta. Così come la tavoletta è stato un modo efficace per migliorare la qualità della mia vita sotto tanti punti di vista, allo stesso modo avrei piacere di sapere quali e quanti tipi di tavolette adoperate per rendere migliore la qualità della vostra vita. Rispondete cliccando su
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