La proposta e la scelta dell’intervento psicologico per i familiari R. Chattat Dip. Psicologia, Università degli Studi di Bologna I dati dell’ISTAT del 2004 riportano che circa 2,6 milioni di persone con età superiore ai 6 anni presentano condizioni di disabilità e/o non autosufficienza che richiedono l’assistenza da parte di un’altra persona per lo svolgimento della vita quotidiana e rappresentano circa il 4,8% della popolazione generale. Solo una minima parte di queste persone riceve l’assistenza in strutture dedicate (stimati in circa 200.000) mentre il resto dell’assistenza è fornito direttamente dalla famiglia oppure organizzato e sostenuto dalla stessa usufruendo del contributo delle assistenti familiari (Badanti). Le problematiche di non autosufficienza interessano in maniera significativa la popolazione anziana in quanto si stima che circa il 40% della popolazione ultraottantenne richiede qualche forma di assistenza o supporto e solo dal 3 al 15% di questa è fornito dal sistema. Ciò implica che dal 10 al 20% delle famiglie italiane è impegnato in qualche attività di caregiving. Sempre dal punto di vista generale occorre sottolineare che il mestiere di cura è un mestiere al femminile (80% dei caregivers è donna) con un età media attorno ai cinquant’anni e spesso impegnati in più ruoli contemporaneamente. Le necessità assistenziali a carico della famiglia possono essere di varia intensità sia in termini di impegno di ore (media stimata di 18 ore settimanali con un 20%
che spende più di 40 ore a settimana) sia in termini di tipologia dell’impegno in base al tipo di problematica che la famiglia deve affrontare (tipo di disabilità, età, durata e progressività del problema). La funzione di cura (caregiving) può essere distinta in due macro categorie in base al tipo di “contratto assistenziale” che le persone coinvolte nel processo (il fornitore di cure e il ricevente) hanno tra di loro. Da una parte vi sono i caregivers formali e/o professionali i quali forniscono la loro assistenza in forma di lavoro retribuito e l’accordo può essere diretto (tra assistente e assistito) mediato (tra assistente e famiglia) oppure indiretto (contratto con il servizio). Per questa categoria sono stati messi in luce delle problematiche di ordine psicologico peculiari e per affrontare i quali sono stati proposti dei percorsi formativi e di supporto-supervisione adatti ad affrontare quella che viene definita la sindrome del rest-out che viene ritenuta specifica dell’ambito gerontologico e distinta dalla cosiddetta sindrome del “burn-out” frequente negli operatori che svolgono delle professioni di aiuto. La seconda categoria di persone coinvolte nella cura, che rappresenta la stragrande maggioranza, sono i “caregivers informali” la cui funzione assistenziale è fornita in base ad un “contratto” non di lavoro ma basato su altri obblighi di tipo affettivo, morale, sociale, etico e legale. Questa modalità di fornitura comporta delle conseguenze che sono completamente diverse da quelle che possono presentare gli appartenenti al gruppo descritto prima. 6° corso per psicologi 437
Data la complessità del ruolo svolto la definizione più appropriata del caregiver informale potrebbe essere la seguente: “un membro della famiglia che aiuta un altro regolarmente nello svolgimento di compiti necessari nella vita di tutti i giorni”. Con questa formulazione si fa riferimento esclusivamente all’impegno assunto, alla sua regolarità – continuità nel tempo senza ricorrere ad altre qualifiche che possono caratterizzare in maniera più specifica il caregiver. Da ciò discende anche che la figura del caregiver è tale in quanto svolge un ruolo, un compito e in conseguenza di ciò può essere a rischio di sviluppare delle reazioni disadattive e quindi avere delle conseguenze in termine di salute fisica, emotiva, relazionale, sociale e economica anche se occorre precisare che le conseguenze non determinate esclusivamente dal ruolo di caregivers ma dalla presenza di altri elementi di vario ordine che rendono il ruolo fonte di disagio e di sofferenza per alcuni familiari. Si rende quindi opportuno affermare che è importante tenere distinto il concetto di caregiving da quello di problema in quanto l’assunzione del ruolo non è di per sé problematica ma rappresenta uno “sforzo” particolare al quale il familiare viene esposto; le conseguenze dello sforzo (in altri termini l’esito del processo di caregiving) dipenderà da molti fattori. Nel corso degli anni, partendo dal modello originale di Lazarus e Folkman sullo stress sono stati proposti dei modelli articolati che mettono in relazione gli stressor, sia primari che secondari, i fattori moderatori (interpersonali, intrapsichici e ambientali) ai quali sono stai successivamente
aggiunti i cosiddetti fattori di esacerbazione e fattori di protezione che possono incidere sull’esito del processo (Pearlin et al., 1990; Sorensen et al., 2006). Da questi modelli è emersa la complessità dei fattori coinvolti nel processo di caregiving e la necessità di sviluppare una valutazione che non sia limitata ai fattori stressanti e agli esiti ma che consideri anche i fattori intermedi che sono quelli modulabili dagli interventi. A tale scopo diventa importante adottare una strategia di assessment che permetta l’identificazione di specifici cluster di caregiver in base alle loro caratteristiche socio demografiche, di personalità, di risorse (soggettive, interpersonali e sociali); inoltre le caratteristiche della persona in cura cosi come la disponibilità di supporti esterni (formali ed informali) andrebbe considerata. Questa valutazione preliminare dovrebbe permettere l’individuazione delle aree di bisogno del caregiver e delle componenti di fragilità. Nelle review sistematiche inerenti l’efficacia degli interventi a favore dei caregivers con demenza (Pinquart e Sorensen, 2006; GallagherThompson, Coon, 2007; Selwood et al., 2006; Brodaty et al., 2003) viene messo in luce l’utilità di questi interventi a migliorare il burden dei caregivers, lo stato dell’umore e la qualità della vita (Chattat et al., 2008). Questa efficacia rilevata però richiede un ulteriore perfezionamento in modo da rispondere in maniera più puntuale ai bisogni
dei caregivers. In effetti occorrerebbe fare il passaggio dalla strutturazione di interventi globali adatti (o supposti tali) a tutti i caregiver in base al ruolo assunto a interventi su misura per gruppi specifici di caregivers distinti non in base al ruolo ma in base al tipo di bisogno. Questo passaggio presupporrebbe come affermano Zarit e Femia (2008) la separazione tra il concetto di caregiver e il concetto di problema-malattia, in altri termini essere caregiver non comporta necessariamente essere in difficoltà, non tutti i caregiver necessitano di aiuto e non tutti i caregiver necessitano dello stesso aiuto. Per cui gli interventi di psicoeducazione, di supporto, di sollievo oppure multicomponenziale, rivelatisi utili, non sono adatti a tutti ma andrebbero proposti alle persone che ne possono beneficiare in maniera appropriata. In tempi di risorse limitate, data la dimensione del problema e il numero delle persone coinvolte diventa essenziale sviluppare un metodo che permetta una allocazione ottimale delle risorse; inoltre l’inquadramento adeguato del caregiver sia a finalità di diagnosi che di trattamento permette un invio mirato riducendo il possibile senso di frustrazione e di impotenza dovuti alla partecipazione ad interventi che non rispondono ai bisogni e alle caratteristiche soggettivi e oggettive del caregiver. Si può quindi concludere che l’approccio alle persone che prendono di una persona non autosufficiente debba considerare non solo gli esiti del processo del caregiving ma anche i fattori moderatori di
tali esiti al fine di proporre interventi che possono essere efficaci nel favorire l’adattamento del caregiver utilizzando al meglio le risorse disponibili in base ai bisogni correlati non solo con il ruolo ma anche con le caratteristiche soggettive e oggettive. Bibliografia Brodaty H, Green A, Koschera A. Meta-Analysis of Psychosocial Interventions for Caregivers of People with Dementia. J Am Geriatr Soc 2003;51:657-64. Chattat R, Gianelli M, Savorani G. Group psycho-educational intervention for family carers. In: Moniz-Cook E, Manthorpe J, eds. Early Psychosocial Interventions in Dementia. Evidence-Based Practice 2008. Dunkin JJ et al. Dementia caregiver burden. A review of the literature and guidelines for assessment and intervention. Neurology 1998;51:53-60. Kneebone I, Martin P. Coping and caregivers of people with dementia. British Journal of Health Psychology 2003;8:1-17. Moniz-Cook E, Vernooij-Dassen M, Woods R, Verhey F, Chattat R, De-Vugt M, Mountain G, O’Connell M, Harrison J, Vasse E, Droes RM, Orrell M. A European consensus on outcome measures for psychosocial intervention research in dementia care Aging-Ment-Health. Aging and Mental Health 2008;12:14-29. Pearlin LI, Mullan JT, et al. Caregiving and the Stress Process: An Overview
of Concepts and Their Measures. The Gerontologist, Washington 1990;30:583. Quinn C, Clare L, Wood B. The impact of the quality of relationship on the experiences and wellbeing of caregivers of people with dementia: A systematic review. Aging & Mental Health 2001;3:143-54. Sorensen S, Duberstein P, Gill D, Pinquart M. (2006). Dementia care: mental health effects, intervention strategies and clinical applications. Lancet Neurology; 5:961-73. Thompson C, Spilsbury K, Hall J, Birks Y et al. Systematic review of information and support interventions for caregivers of people with dementia. BMC Geriatrics 2007;7:18. Zarit SH, Femia EE. A future for family care and dementia intervention research? Challenges and strategies. Aging and Mental Health 2008;12:5-13.