L’EROGAZIONE DEL CREDITO AD IMPRESE IN CRISI Nell’ambito degli strumenti di composizione negoziale della crisi d’impresa.
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Studio Legale Avvocato Giuseppe Iannaccone e Associati
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Indice 1. Erogazione di credito e tentativi di “salvataggio” delle imprese in crisi: due facce di una sola medaglia.....................................................................III 2. Passato vs. presente.........................................................................................III 3. La responsabilità civile della banca erogatrice di credito: la c.d. “concessione abusiva di credito”.......................................................IV 3.1. La questione di diritto processuale...................................................... V 3.2. La questione di diritto sostanziale.................................................... VII 3.3. Segue: gli “scenari” possibili.................................................................IX 4. La responsabilità penale della banca erogatrice di credito: il neonato art. 217-bis l. fall...........................................................................XI 4.1. La ratio dell’art. 217-bis l.fall................................................................XI 4.2. Le « condizioni di operatività » dell’art. 217-bis l. fall..................XIII 4.3. Segue: relativamente al piano attestato di risanamento...............XIII 4.4. Segue: relativamente all’accordo di ristrutturazione del debito omologato ed al concordato preventivo.........................................XIV
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1. Erogazione di credito e tentativi di “salvataggio” delle imprese in crisi: due facce di una sola medaglia Non può nutrirsi dubbio alcuno sul fatto che erogazione di credito e tentativi di “salvataggio” delle imprese in crisi siano, nei fatti, due facce di una sola medaglia: insomma, come incisivamente osserva un brillante Autore, «senza nuova finanza, la ristrutturazione ha le polveri bagnate» (così, testualmente, STANGHELLINI, Il ruolo dei finanziatori nella crisi d’impresa: nuove regole e opportunità di mercato, in Fall., 2008, p. 1075). D’altronde, non si può non rilevare come, «non appena la crisi d’impresa si manifesta, la liquidità, fino a quel momento scarsa, si prosciuga istantaneamente, in quanto i fornitori chiedono pagamenti in termini anticipati rispetto al passato, o cessano del tutto le forniture» e «la crisi si avvia così in una spirale perversa: il suo semplice manifestarsi la rende rapidamente gravissima,
riducendo, se non annullando del tutto, la possibilità che l’impresa si ristrutturi con le proprie forze» (così ancora, testualmente, STANGHELLINI, Il ruolo dei finanziatori, cit., p. 1075).
2. Passato vs. presente Volgendo lo sguardo al passato, si può agevolmente porre in evidenza come, prima della riforma del diritto fallimentare, fosse difficile – per non dire quasi impossibile – trovare un finanziatore professionale (e penso, ovviamente, alle banche) propenso a concedere credito ad un’impresa in crisi che attraversasse una fase di ristrutturazione stragiudiziale. Qualora, infatti, il tentativo di “salvataggio” dell’impresa sovvenuta non fosse andato in porto e fosse, dunque, sopravvenuto il fallimento, l’inquietante spettro della responsabilità civile per “concessione abusiva di credito”, nonché dell’incriminazione per fatti di bancarotta si sarebbe
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aggirato dietro l’angolo. Senza contare, oltre a ciò, il rischio delle revocatorie ed il loro regime probatorio schiettamente favorevole alla curatela; e senza contare, ancora, che un eventuale credito sorto nei confronti dell’impresa finanziata sarebbe quasi certamente finito nel mare magnum dei crediti concorsuali e, come tale, inesorabilmente assoggettato all’impietosa falcidia fallimentare. Oggi, il panorama sembra (almeno in parte) meno inquietante del passato: sul fronte civile, le esenzioni dalla revocatoria previste all’art. 67 l. fall. e la nuova disciplina della prededuzione di cui agli artt. 111 e 182-quater l. fall. consentono ai finanziatori, in specie a quelli professionali, di avvicinarsi con meno timore alle imprese in crisi che intendano far “decollare” un tentativo di ristrutturazione. Sul fronte penale, basti qui soltanto ricordare l’introduzione nel tessuto normativo fallimentare dell’art. 217 bis l. fall., che sostanzialmente contempla l’irrilevanza penale dei fatti di bancarotta preferenziale e semplice per la banca che abbia posto in essere operazioni creditizie nei confronti dell’impresa in crisi, nell’ambito di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione dei debiti o, comunque, di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa. Qui si tratta di vedere se ed in quale misura detti finanziatori possano stare più tranquilli e sereni con riferimento al rischio di incorrere in responsabilità d’ordine civile e penale.
3. La responsabilità civile della banca erogatrice di credito: la c.d. “concessione abusiva di credito” Principiando dalle responsabilità d’ordine civile – cioè, per esser chiari, dalla probabilità che venga contestata la c.d. “concessione abusiva di credito” – diciamo subito (è, a mio modo di vedere, un’utile osservazione
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empirica) che, nei confronti delle banche, le intenzioni dei curatori fallimentari non sembrano essere fra le più miti: sotto questo profilo, non è certo un mistero – e lo sostengono gli interpreti più autorevoli – che siffatta, atipica ed incerta forma di responsabilità sia «destinata a costituire una sorta di nuova frontiera per i curatori, i quali, ‘orfani’ ormai della revocatoria fallimentare» cercheranno giocoforza di «ripiegare proprio su que[sta] figura per tentare di rimpinguare gli attivi delle procedure» (così, testualmente, NIGRO, La responsabilità della banca nell’erogazione del credito, in Soc., 2007, p. 438). Si potrebbe, allora, dire che promette “mal tempo” per le banche, se si tiene anche conto – sempre come dato empirico – del numero dei fallimenti o, comunque, delle procedure concorsuali che – quanto meno a partire dal 2008 – hanno interessato – e continuano a interessare – lo scenario nazionale. Ma, ancor più, e, prima di tutto, è il caso di chiedersi: sopraggiunto il fallimento, può il curatore esperire un’azione per “concessione abusiva di credito” nei confronti della banca finanziatrice? E se può esperirla, quali sono le sue chances di vittoria?
3.1. La questione di diritto processuale Se il curatore fallimentare possa esperire l’azione in discorso – ovvero, in termini eminentemente processuali, se abbia la c.d. legittimazione ad agire – è tema ancora lungamente e fortemente dibattuto; ciò nondimeno, in proposito, lo stato attuale della giurisprudenza e della dottrina sembra suggerire di distinguere fra tre ipotesi. La prima ipotesi è quella in cui il “nostro” “Aulo Agerio” deduca il danno che la “concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato ai creditori dell’impresa sovvenuta; ipotesi, questa, rispetto alla quale la Suprema Corte – con le tre note
sentenze “gemelle” della sua più autorevole composizione del 28 marzo 2006 n. 7029, 7030, 7031 – ha recisamente negato la legittimazione attiva dell’organo della procedura; con ciò consolidando un indirizzo già propugnato dalla giurisprudenza milanese (cfr. App. Milano, 11.5.2004, in Banca borsa tit. credito, 2004, p. 643; Trib. Milano, 21.5.2001, in Dir. banca e mercato fin., 2002, p. 259) e poi condiviso nei più recenti arresti di quella successiva, tanto di legittimità (cfr. Cass. 23.7.2010, n. 17284) quanto di merito (cfr. Trib. Monza 8.2.2011, n. 317, in Riv. dott. comm., 2011, p. 440). Il ragionamento della Cassazione appare, senz’altro, ispirato ad una logica ferrea; ed infatti: la premessa maggiore del sillogismo, è che «la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa», ossia a quelle azioni «finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo»; la premessa minore del sillogismo è che a tale tipologia di azioni (i.e., alla tipologia delle «azioni c.d. di massa») non afferisce quella per “concessione abusiva di credito”, in quanto tale azione, «analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ., costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore»; la conclusione del sillogismo è, inevitabilmente, che la legittimazione del curatore non sussiste con riferimento all’azione volta a contestare la “concessione abusiva di credito” (in questo senso le già citate Cass., Sez. Un., 28.3.2006, nn. 7029, 7030 e 7031). In altri termini, la Corte non nega che la “concessione abusiva di credito” possa produrre un danno in capo al singolo creditore preesistente al finanziamento abusivo, il quale – per effetto di quest’ultimo e dell’aggravarsi del dissesto – abbia visto diminuite le proprie possibilità di soddisfa-
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Mutu wangechi Untitled 2004, Tecnica mista su carta Cm.190,5X104,1 Collezione privata Milano
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cimento; così come, ancora, la Corte non nega che dalla medesima “concessione abusiva” possa discendere un danno in capo al singolo creditore successivo al finanziamento abusivo, il quale – evidentemente – non avrebbe instaurato un rapporto contrattuale con l’impresa sovvenuta se non fosse stato tratto in inganno dall’apparenza di solvibilità ingenerata dall’erogazione abusiva di credito. Tuttavia, la Corte è dell’avviso che un danno di tal fatta – proprio perché si produce direttamente sul patrimonio di ciascun singolo creditore ed è diverso da caso a caso – potrà essere fatto valere soltanto dal singolo creditore ipoteticamente danneggiato, e non già dal curatore fallimentare, il quale, altrimenti, sarebbe inspiegabilmente legittimato, contro il disposto dell’art. 81 cod. proc. civ., a far valere in nome proprio un diritto altrui, per tale intendendosi il diritto dei singoli creditori asseritamente danneggiati. E può essere giusto osservare che autorevole dottrina giudica l’opinione espressa dalla Corte come «assolutamente ineccepibile» (cfr. NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, in Giur. comm., 2011, p. 312). Veniamo, ora, alla seconda ipotesi e cioè quella in cui il curatore agisca deducendo il danno che “la concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato (non già ai creditori dell’impresa sovvenuta, bensì) al patrimonio della medesima impresa sovvenuta. Qui le Sezioni Unite (sempre nelle cosiddette sentenze “gemelle” cui più volte ho fatto riferimento) non hanno escluso una volta per tutte la legittimazione attiva: esse si sono semplicemente limitate ad affermare, con riferimento alle vicende loro sottoposte, che la domanda era stata formulata solo in grado di Cassazione ed era, pertanto, inammissibile. Nelle tre sentenze “gemelle”, insomma, non si è detto che il curatore è privo di legittimazione ad agire per l’ipotesi in cui alleghi il danno dalla “concessione abusiva di credito” asseritamente cagionato all’impresa sovvenuta, ma soltanto che egli deve proporre una simile domanda tempestivamente, cioè a dire senza incorrere nelle preclusioni dell’ordinario processo di cognizione (per quest’osservazione si veda anche BONELLI, «Concessione abusiva» di credito e «interruzione abusiva di credito» , in ID. - a cura di - Crisi di imprese: casi e materiali, Milano, 2011, p. 259 e ss.). Vediamo, infine, la terza ipotesi in cui l’impresa sovvenuta sia una società di capitali ed il curatore agisca deducendo (non già il danno che la “concessione abusiva di credito” avrebbe cagionato ai creditori dell’im-
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presa e nemmeno il nocumento che la stessa “concessione” avrebbe cagionato al patrimonio dell’impresa, bensì) un inadempimento degli amministratori nei confronti della società ed il concorso della banca erogatrice del credito in siffatto inadempimento. Ebbene, anche a questo riguardo la Cassazione (cfr. Cass. 1.6.2010, n. 13413) – come chiosa reputata dottrina (cfr. NIGRO, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito, cit., p. 317) – sembra aver riconosciuto la legittimazione ad agire del curatore: sembra cioè che là dove quest’ultimo affermi che gli amministratori, differendo l’apertura della procedura concorsuale, si sono resi inadempienti verso la società, il finanziatore possa essere convenuto come concorrente nell’inadempimento (e ciò, va da sé, secondo il comodo regime dell’obbligazione risarcitoria solidale di cui all’art. 2055 cod. civ. che, come risaputo, non implica il litisconsorzio necessario fra i concorrenti). In tal contesto, il curatore agirebbe secondo il comb. disp. degli artt. 2393 cod. civ. (che disciplina la responsabilità degli amministratori verso la società) e 146 l. fall. (che attribuisce allo stesso curatore la legittimazione ad agire ex art. 2393 cod. civ.).
3.2. La questione di diritto sostanziale A conti fatti, nella concreta dimensione processuale, la legittimazione attiva del curatore rispetto all’azione per “concessione abusiva di credito” sembra essere ormai destinata a divenire una realtà: una realtà che il finanziatore professionale che si accinga a far credito ad imprese in situazione di difficoltà dovrà inevitabilmente tener presente, poiché un giorno (a fallimento dichiarato) un qualche “Aulo Augerio” potrebbe agire contro di lui. Sennonché, si tratta di vedere, nel merito, quali margini di vittoria abbia quell’“Aulo Agerio”; e
cioè quali siano i presupposti sostanziali in forza dei quali il giudice potrebbe porre in carico alla banca l’obbligo risarcitorio. Ora – nell’ambito delle riflessioni che da anni, anzi da svariati decenni, la letteratura va facendo (anche e soprattutto sulla scia della giurisprudenza d’oltralpe) sul fenomeno della “concessione abusiva di credito” – sembra potersi affermare che l’azione in discorso, riconducibile al paradigma dell’illecito extra-contrattuale, possa dal curatore essere vittoriosamente esperita solo ove quest’ultimo fornisca in giudizio una rigorosa prova ossia, la dimostrazione che la banca ha erogato il credito ad un’impresa che, al momento della concessione dello stesso, versava in una situation désespérée, per tale intendendosi una crisi definitiva ed irreversibile che, se esteriorizzata, legittimerebbe ed anzi renderebbe doverosa la dichiarazione di fallimento; situation désespérée che la banca conosceva o, con l’esigibile diligenza, avrebbe dovuto conoscere (in senso sostanzialmente analogo, per tutti, ARATO, La responsabilità della banca nelle crisi di impresa, in Fall., 2007, p. 255 e ss.; per la necessità che si tratti di un’insolvenza attuale - e non già soltanto potenziale-, App. Milano 11.5.2004, in Banca borsa tit. cred., 2004, II, p. 643). Ebbene, potrebbe prima facie ritenersi che il “nostro” curatore abbia, per così dire, la “strada spianata”: non vi è chi non veda come, in effetti, l’erogazione del credito “in funzione” od “in esecuzione” di una ristrutturazione dell’impresa in difficoltà sempre presupponga – per definizione – la conoscenza, da parte dell’ente finanziatore, della situazione precaria dell’impresa, e, magari, proprio, di … una situation désespérée (profilo colto acutamente anche da BONELLI, «Concessione abusiva» di credito, cit., p. 268). Tuttavia, per l’attore in responsabilità, il “gioco” è meno facile di quanto possa apparire. Sul tema che ci occupa risulta decisivo osservare che la giurisprudenza francese – il cui esame (va ancora rammentato) ha da sempre costituito
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Peyton elisabeth Fred Hughes in paris 1994, Olio su tavola Cm.30,5X23 Collezione privata Milano
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la “pietra di paragone” per la letteratura italiana – non esita ad escludere la responsabilità della banca là dove esista un «piano di risanamento credibile» (cfr. Cass. Com. 15.6.1993, in JCP, 1993, p. 253; App. Paris, 15.12.1995, in D., 1996, inf. rap., p. 65). Ricalcando il modello transalpino, la dottrina italiana più accorta non ha mai mancato di sottolineare come la banca, là dove il credito sia stato concesso ad un’impresa in situazione – anche - di crisi definitiva e irreversibile, possa ben andare esente da responsabilità se dimostra di aver escluso l’esistenza della situation désespérée in forza, giustappunto, di un «credibile piano di risanamento» (così testualmente, per tutti, ARATO, La responsabilità della banca, cit., p. 256), ossia sulla base di un progetto «oggettivamente serio, vale a dire dotato di comprovate ed obiettive possibilità di realizzazione» (così testualmente, già prima della riforma, CASTIELLO D’ANTONIO, Il rischio delle banche nel finanziamento delle imprese in difficoltà: la concessione abusiva di credito, in Dir. fall., 1995, p. 254). In analogo ordine di idee, il brillante Autore, più volte citato, si è, addirittura, spinto ad affermare che «chi concede finanziamenti» nell’ottica di un «tentativo serio di soluzione della crisi» non può essere ritenuto responsabile se il tentativo non ha successo» ; nel senso che «solo quando si opera in condizioni, non di semplice incertezza sul vantaggio per i creditori, ma di ragionevole certezza circa l’assenza di un vantaggio per costoro può esservi la reazione sanzionatoria dell’ordinamento»; sicché la responsabilità del finanziatore potrebbe sorgere solo là dove quest’ultimo avesse attribuito nuove risorse ad un’impresa in difficoltà «consapevole dell’inutilità del finanziamento per gli interessi dei creditori» (così, testualmente, STANGHELLINI, Finanziamenti-ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in Fall., 2010, pp. 1361-1362). Se così è, non pare allora revocabile in dubbio che – alla pretesa del curatore – la banca possa ragionevolmente contrapporre il proprio affidamento su di un “fattibile” piano di risanamento, cioè a dire la propria convinzione circa l’utilità dello stesso per i creditori; e qui si apriranno, come è subito intuibile, vari “scenari”: perché differenti sono gli strumenti che la prassi e la vigente legislazione fallimentare conoscono per evitare il fallimento e consentire la ristrutturazione.
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3.3. Segue: gli “scenari” possibili. Orbene, sono, a mio avviso, logicamente distinguibili, in un’ideale “griglia” di analisi, i seguenti “scenari”. Il primo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di risanamento non attestato o non ancora attestato; “scenario” che mi sembra logicamente assimilabile a quello in cui la banca eroga credito in vista della presentazione della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., ovvero della domanda di concordato preventivo senza che siano state ancora redatte, rispettivamente, la relazione del professionista sull’«attuabilità» dell’accordo e sulla «fattibilità» del piano allegato alla domanda di concordato. Il secondo “scenario” è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un piano di risanamento attestato; “scenario” che mi pare affine a quello in cui la banca eroga credito in vista della domanda di concordato preventivo, allorché sia stata già redatta la relazione del professionista sulla «fattibilità» del piano allegato che verrà accluso alla domanda medesima; “scenario” che, ancora, mi sembra somigliante a quello in cui la banca eroga credito in vista della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis l. fall., ovvero nel periodo intercorrente fra la presentazione e l’omologazione di tale accordo, là dove si sia già in presenza della relazione sull’«attuabilità». Il terzo “scenario”, infine, è quello della banca che eroga credito in esecuzione di un accordo di ristrutturazione omologato, ovvero di un concordato preventivo. Non sarà eccessivamente arduo afferrare il criterio logico-giuridico che presiede alla classificazione dianzi proposta. Difatti: il primo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca conces-
so in assenza della certificazione di un soggetto terzo, ossia del professionista che – iscritto nell’albo dei revisori contabili ed in possesso dei requisiti richiesti per lo svolgimento dell’incarico di curatore – attesta la “fattibilità” del piano di risanamento; il secondo “scenario” corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso in presenza della certificazione del professionista in ordine alla “fattibilità” (variamente denominabile) del piano; il terzo “scenario”, infine, corrisponde alle ipotesi nelle quali il credito è dalla banca concesso in presenza sia della certificazione del professionista sulla “fattibilità” del piano, sia di un controllo giudiziale sulla medesima “fattibilità” (controllo espletato dal Tribunale in sede di omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo). Proviamo adesso a “misurare” ciascuno di tali scenari con la premessa da cui siamo partiti, vale a dire con la premessa che la banca potrà e dovrà andare esente da responsabilità per “concessione abusiva di credito” là dove esista un “fattibile” piano di risanamento. Ne risulteranno – a mio sommesso avviso – le seguenti, lineari, conseguenze: quanto al primo “scenario”, la banca – mancando la certificazione di un soggetto terzo sulla “fattibilità” del piano – potrà sì andare esente da responsabilità, ma solo se avrà dimostrato di aver erogato il finanziamento in presenza di un piano che, pur non attestato, era degno – in una prospettiva ex ante – di essere creduto, in quanto la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa dava adito, con ragionevole sicurezza, a concrete prospettive di ristrutturazione; quanto al secondo “scenario”, la banca – mancando un controllo giudiziale sulla fat-
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tibilità del piano – andrà esente da responsabilità se avrà dimostrato la bontà e la correttezza, in altre parole la plausibilità, della certificazione rilasciata dal professionista, in una prospettiva che chiaramente dovrà essere anche qui e rigorosamente ex ante, dal momento che – bene insegnava il Manzoni – «del senno di poi son piene le fosse» (sul punto, IANNACCONE, La crisi d’impresa, in Atti del Convegno Paradigma - Milano 16-17 dicembre 2010, pp. 28-29, ove rilevavo che – nell’ambito di un piano di risanamento attestato ex art. 67 l. fall. – le banche, al fine di evitare contestazioni, dovrebbero procedere, prima di concedere il finanziamento, ad una puntuale «verifica di logicità e coerenza dell’attestazione rilasciata dal perito e di fattibilità del piano»); quanto al terzo “scenario”, infine, la banca – essendo presente un controllo giudiziale sulla fattibilità del piano – andrà esente da responsabilità per definizione, avendo fatto credito all’impresa in crisi in forza di un piano che gode dell’“imprimatur” dell’autorità giudiziaria; ciò perché, come saggiamente evidenzia un Autore, «sarebbe (…) contraddittorio che il Tribunale dapprima (in sede di omologa) affermi che l’insolvenza è reversibile, sicché la nuova finanza prevista nel piano era legittima, e poi, dopo il fallimento, affermi invece che malgrado l’omologa e malgrado il piano di ristrutturazione, la società era rimasta insolvente, sicché la nuova finanza era illegittima» (così, testualmente, BONELLI, «Concessione abusiva» di credito, cit., p. 274; in senso convergente, VITIELLO, Responsabilità delle banche per concessione abusiva di credito e risanamento, in Il Fallimentarista, p. 7). Tutto ciò, ovviamente, salvo il caso di “dolo” e cioè l’ipotesi in cui la banca fosse a conoscenza della falsità dei dati o, comunque, di fatti e circostanze – non noti o accertabili dal Tribunale – che le consentissero di avere consapevolezza in ordine alla non realizzabilità del progetto di ristrutturazione/risanamento dell’impresa. E sarà appena il caso di notare – con un poco di esprit de geometrie – come tale conclusione collimi pressoché perfettamente, mutatis mutandis, con il regime di stabilità (i.e., irrevocabilità) contemplato, anche per i finanziamenti (e le eventuali garanzie), dall’art. 67, comma 3°, lett. d), l. fall.: quando il finanziamento viene concesso «in esecuzione» di un piano attestato, la revocabilità è esclusa solo se il giudice conferma la plausibilità delle valutazioni operate dal professionista in punto di “fattibilità” del progetto; diversamente, quando il finanziamento è concesso «in esecuzione» di un accordo di ristrutturazione omologato o di un concordato preventivo, la revocabilità è esclusa, per dir così, automaticamente (sul punto, per l’apprezzabile chiarezza, ROPPO, Profili strutturali e funzionali dei contratti «di salvataggio» o di ri-
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strutturazione dei debiti di impresa, in Dir. fall., 2008, p. 391; cfr. anche D’AMBROSIO, sub art. 67 l. fall., in Jorio diretto da, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006, p. 992).
4. La responsabilità penale della banca erogatrice di credito: il neonato art. 217-bis l. fall. Chiudendo il tema delle responsabilità civili della banca, si deve ragionevolmente concludere che il curatore – per quanto fatalmente tentato ad agire nei confronti dei finanziatori per “concessione abusiva di credito” e per quanto, magari, anche legittimato all’azione – non avrà la “strada spianata” se il finanziamento sia stato erogato nell’ambito di uno degli strumenti di composizione della crisi oggi praticabili. Ciò, del resto, sembra giusto ed equo: nel senso che, evidentemente, sarebbe profondamente ed istintivamente scorretto prevedere la responsabilità della banca che abbia concesso nuova finanza “in funzione” od “in esecuzione” di un “credibile” tentativo di “salvataggio” (per rilievi simili, VITIELLO, Responsabilità delle banche, cit., p. 7). Spostandoci, ora, sul versante penale, in questa sede limiterò la mia attenzione all’art. 217-bis l. fall., senza prendere in considerazione le – pur sempre possibili - ipotesi del concorso della banca (o meglio dei funzionari della stessa) nei fatti di bancarotta fraudolenta di cui al primo comma dell’art. 216 l. fall e di cui all’art. 223 l. fall.. L’art. 217-bis l. fall. – partorito in sede di conversione del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 – stabilisce l’inapplicabilità delle fattispecie di bancarotta preferenziale (art. 216, comma 3°, l. fall.) e di bancarotta semplice (art. 217 l. fall.); leggo testualmente: «ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo di cui
all’articolo 160 o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182bis ovvero del piano di cui all’articolo 67, comma 3°, lettera d)».
4.1. La ratio dell’art. 217-bis l.fall. Quale sia la ratio di una simile previsione è di solare comprensione: bisognava – sia consentito entrar in metafora – “chiudere il cerchio”, far correre all’unisono la disciplina civilistica e quella penalistica; insomma, non era tollerabile che la “nostra” banca erogatrice di credito godesse, nei confronti delle revocatorie e delle azioni per “concessione abusiva di credito”, di una sostanziale immunità (ricorrendo i su esposti presupposti) e – al medesimo tempo – i suoi funzionari continuassero a correre il rischio dell’incriminazione penale per concorso in fatti di bancarotta (cfr., fra i primi commentatori, LOTTINI, Il nuovo art. 217 bis l. fall.: una riforma che tradisce le aspettative, in Fall., 2010, p. 1366 e ss.; FR. D’ALESSANDRO, Il nuovo art. 217 bis l. fall., in Soc., 2011, p. 201 e ss.; F. MUCCIARELLI, L’art. 217bis l. fall. e la disciplina penale delle procedure di soluzione della crisi d’impresa, in Bonelli - a cura di - Crisi di imprese: casi e materiali, cit., p. 275 e ss.. Sulla discrasia esistente, prima dell’introduzione dell’art. 217-bis l. fall., fra l’assetto civilistico e quello penalistico e sui tentativi di superarla si veda, per una sinossi, LOTTINI, op. cit., p. 1368 e ss.). Limpida sembrerebbe, per conseguenza, la differenza rispetto al passato. In passato – per quanto concerne i fatti di bancarotta preferenziale (art. 216, comma 3°, l. fall.) – la giurisprudenza era dell’avviso che «risponde[sse] a titolo di concorso nel reato (…) il funzionario di banca che, dopo la concessione di un mutuo non coperto da garanzie ad un imprenditore successivamente divenuto insolvente,
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[avesse] determin[ato] la trasformazione del credito già chirografario in credito privilegiato mediante concessione di mutuo fondiario, assistito da garanzia ipotecaria, destinato a ripristinare l’esposizione del conto corrente non assistito da garanzie, venendosi in tal modo ad alterare la par condicio creditorum» (così, testualmente, Cass., 2.3.2004, n. 16688; cfr. anche Cass. 1.12.1999, n. 2126. Per richiami cfr. LOTTINI, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., p. 1368; FR. D’ALESSANDRO, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., p. 206). Così come avrebbe risposto del medesimo reato quel creditore che, conscio dello stato di insolvenza dell’impresa, anziché limitarsi a ricevere il pagamento – come suo diritto – avesse posto in essere un’attività aggiuntiva e ulteriore, in danno degli altri creditori. Oggi, invece, tutto ciò non dovrebbe più succedere: voglio dire che se una simile «operazion[e]» fosse posta in essere «in esecuzione» di uno degli strumenti dalla vigente legislazione fallimentare contemplati per tentare di risolvere la crisi dell’impresa, il funzionario della banca (e prima ancora l’imprenditore) non dovrebbe rischiare la persecuzione penale (cfr., in prospettiva “aperturista” - prima cioè che fosse introdotto l’art. 217-bis l. fall. - Cass. 20.5.2009, n. 31168, secondo cui «la strategia di alleggerire la pressione dei creditori, in vista di un ragionevolmente presumibile riequilibrio finanziario e patrimoniale, è incompatibile» con il delitto di bancarotta preferenziale «soprattutto alla luce della riforma, introdotta dal d.lgs. n. 269/2007, dell’azione revocatoria e specialmente dell’art. 67, comma 3°, l. fall.)». Stesso discorso va fatto per la bancarotta semplice (e penso, soprattutto, alla bancarotta semplice di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 217 l. fall.). Prima dell’introduzione di tale disposizione, qualcuno avrebbe potuto ipotizzare, per far un esempio, che concorresse in un siffatto delitto la banca che avesse concesso un mutuo ad un imprenditore insolvente e, per tale via, consentito il differimento della dichiarazione di fallimento, oppure la banca che avesse preso parte ad accordi di composizione stragiudiziale della crisi poi rivelatasi inconcludenti (cfr. LOTTINI, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., pp. 1370-1371).
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Dopo l’introduzione dell’art. 217-bis l. fall., ciò non potrebbe più ipotizzarsi: intendo dire che se una «operazion[e]» di tal fatta fosse compiuta «in esecuzione di un concordato preventivo di cui all’articolo 160 o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182bis ovvero del piano di cui all’articolo 67, comma 3°, lettera d)», non ricorrerebbero gli estremi della bancarotta semplice.
4.2. Le «condizioni di operatività» dell’art. 217-bis l. fall. A questo punto, la nostra indagine richiede di essere un poco approfondita, occorrendo interrogarsi su quali siano le «condizioni di operatività» (così le chiama F. MUCCIARELLI, L’art. 217-bis l. fall., cit., p. 291) dell’art. 217-bis l. fall. Detto direttamente: la peculiare guarentigia di cui stiamo discutendo è applicabile in maniera automatica, i.e. per il solo fatto che i «pagamenti» e le «operazioni» siano avvenute «in esecuzione» di un piano attestato, o di un accordo di ristrutturazione o di un concordato preventivo omologati? Oppure, l’art. 217-bis l. fall. è in grado di creare uno “scudo di protezione” soltanto all’esito di una «ri-valutazione» del magistrato penale sull’ «idoneità» dello strumento adoperato nel singolo caso concreto «a superare in modo razionale lo stato di crisi in cui versava l’impresa», epperciò (detto in una parola) sulla “fattibilità” dello stesso? (cfr., per questa chiara impostazione del problema, F. MUCCIARELLI, L’art. 217-bis l. fall., cit., p. 291 e ss.).
4.3. Segue: relativamente al piano attestato di risanamento. Orbene, con riferimento al piano attestato è la
lettera della legge a risolvere chiaramente il problema: ognun vede, infatti, che ad essere protetti sono i «pagamenti» e le «operazioni» avvenute «in esecuzione del piano di cui all’articolo 67, comma 3°, lettera d)» e, quindi, i «pagamenti» e le «operazioni» previsti da un «piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria». Ciò significa che la protezione non scatterà ipso iure, bensì solamente all’esito di una valutazione del magistrato penale sulla plausibilità della certificazione al riguardo fornita dal professionista. Ed è appena il caso di rilevare come il legislatore abbia adottato una soluzione perfettamente lineare con quanto disciplinato in materia di revocatoria, ove «gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore» sono stabili ed irrevocabili, per l’appunto, solo all’esito della “ratifica” del giudice civile, davanti al quale pende il giudizio sulla pauliana, in ordine alle valutazioni operate dall’attestatore; una soluzione che ben si sposa, altresì, con quanto sopra proposto in materia di “concessione abusiva di credito”, ove si è suggerito di affermare la responsabilità della banca solo all’esito di una verifica del giudice sulla bontà e sulla correttezza dell’operato del professionista. Se quanto testé osservato è corretto, conclude bene e condivisibilmente un illustre interprete, a giudizio del quale «la eventuale non applicabilità delle disposizioni richiamate dall’art. 217-bis l.fall.» agli atti esecutivi del piano attestato ex art. 67, comma 3°, lett. d), l. fall. «sarà soggetta all’accertamento da parte del giudice penale circa l’idoneità ex ante del piano a superare lo stato di crisi, nel quale versava l’impresa all’epoca in cui il piano stesso venne predisposto» (così, testualmente, F. MUCCIARELLI, L’art. 217-bis l. fall., cit., p. 293. In senso conforme, fra altri, LOTTINI, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., p. 1373; nonché FR. D’ALESSANDRO, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., p. 207: tutti anche per la giusta enfasi data al criterio della “prognosi postuma”).
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4.4. Segue: relativamente all’accordo di ristrutturazione del debito omologato ed al concordato preventivo. Più delicato e spinoso si fa invece il discorso quando tocca «i pagamenti» e «le operazioni» poste in essere «in esecuzione di un concordato preventivo» o di «un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato» . Il reputato scrittore del quale abbiamo detto poc’anzi sostiene, a questo proposito, che «il problema si concentra e, per certi versi, si esaurisce nel decidere quale sia il contenuto del provvedimento di omologa o, se si preferisce, quale sia l’oggetto del giudizio incorporato nel decreto»; con la conseguenza che sarebbe “disegnabile” un ideale “ponte di collegamento” fra il giudice civile omologante ed il magistrato penale giudicante, in ossequio al quale: il magistrato penale sarebbe chiamato a svolgere «una ri-valutazione completa dell’accordo e della sua fattibilità», allorché in sede di omologazione il Tribunale si fosse limitato ad un «controllo formale»; il magistrato penale sarebbe chiamato a svolgere una «ri-valutazione» «limitata alla correttezza dei dati economici, patrimoniali e finanziari dell’impresa e, al più, anche a quella degli altri dati di contesto», allorché in sede di omologazione il Tribunale avesse condotto una «valutazione di carattere per così dire ‘intrinseco’» (cioè, giustappunto, non estesa agli anzidetti dati aziendali e di contesto); il magistrato penale non potrebbe / dovrebbe svolgere alcuna «rivalutazione», se il Tribunale omologante si fosse spinto in una valutazione di carattere «estrinseco» ossia includente i citati dati aziendali e di contesto (cfr. F. MUCCIARELLI, L’art. 217-bis l. fall., cit., p. 294 e ss. Aderiscono ad una costruzione per larghi tratti simile e, tuttavia, con margini di incertezza, fra gli altri, LOTTINI, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., pp. 1373-1374; nonché FR. D’ALESSANDRO, Il nuovo art. 217 bis l. fall., cit., p. 209 e ss.). Siffatta autorevolissima tesi, che pure istituisce una pregevole e finissima costruzione dogmatica, non mi persuade, però, sino in fondo: essa – come del resto dice di sapere il suo Autore (cfr. F. MUCCIARELLI, L’art. 217-bis l. fall., cit., p. 292) – non mi sembra, innanzitutto, aderente alla lettera della legge. Infatti, affinché possa operare l’esenzione dell’art. 217-bis l. fall., la legge chiede soltanto che «i pagamenti» e «le operazioni» siano avvenute «in esecuzione di un concordato preventivo» o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato»; la legge, per l’appunto, non chiede altro che il fatto dell’omologazione. Non solo: il risultato cui conduce l’interpretazione letterale combacia pienamente con quello cui porta l’interpretazione teleologica e sistematica. Quanto all’interpretazione teleologica, la scelta del legislatore, a mio
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avviso, non è certo casuale: i conditores, infatti, fin dai tempi dell’abrogato codice di commercio, hanno sempre considerato l’omologazione come una barriera preclusiva insormontabile che chiude la porta a tutte le contestazioni sulla validità (e, va da sé, sulla “fattibilità”) del concordato, tant’è vero che – proclama la legge – contro il concordato omologato «non è ammessa alcuna azione di nullità» (comb. disp. artt. 138 e 186 l. fall.); così facendo, il legislatore è venuto a congegnare un “orologio” dal meccanismo praticamente impeccabile, nel quale i creditori e gli altri interessati non sono certo privati del potere di opporsi, ma lo devono fare prima che l’omologazione sia avvenuta: dopodiché i “giochi” saranno irrimediabilmente chiusi (cfr. sul punto, per la rievocazione dell’imperituro insegnamento di Alfredo Rocco, GRIFFINI, L’impugnazione del decreto di omologazione in mancanza di opposizioni al concordato, in Fall., 2011, p. 819 e ss.). Tutto ciò con un ovvio corollario: poiché l’omologazione copre con il “velo di piombo” del giudicato ogni questione sulla “validità” e “fattibilità” del concordato, sarebbe iniquo ammettere la «ri-valutazione» del giudice penale per il solo motivo che la terapia per il “salvataggio” si sia rivelata, alla prova dei fatti, inadeguata ed incapace di guarire l’impresa malata. Ed è appena il caso di rilevare che tutto ciò dovrà valere per l’accordo di ristrutturazione del debito ex art. 182-bis l. fall., il cui meccanismo di funzionamento “ricalca”, sotto questo aspetto, quello del concordato. Anche in questo caso, peraltro, le conclusioni cui si giunge valgono sino alla “prova del dolo”; in altri termini, la responsabilità – penale – potrà sempre configurarsi qualora vi fosse consapevolezza della falsità dei dati – sottoposti al vaglio del Tribunale – ovvero di altre circostanze – note alla banca e ignote al Tribunale – circa la non realizzabilità del progetto di ristrutturazione. Venendo poi all’interpretazione sistematica, mi limito a segnalare l’art. 67, comma 3°, lett. e), nonché l’art. 182-quater, comma 1°, l. fall.: per
esentare dalla revocatoria «gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo» o «dell’accordo omologato ai sensi dell’art. 182-bis», il legislatore non chiede altro, appunto, rispetto alla circostanza dell’omologazione; specularmente, per conferire il carattere prededucibile ai «crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati da banche e intermediari finanziari (…) in esecuzione di un concordato preventivo (…) ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis», il legislatore non chiede nulla più dell’avvenuta omologazione. Ciò che, anche in questi casi, risponde evidentemente ad una ben precisa logica: poiché l’omologazione copre con il “velo di piombo” della res judicata ogni questione sulla “validità” e “fattibilità” del concordato, al legislatore è piaciuto di togliere il rischio della persecuzione revocatoria a chi abbia effettuato «atti», «pagamenti» e «garanzie» in forza di un contratto omologato; così come al legislatore è piaciuto di dare il beneficio della «prededuzione» al finanziatore per il semplice fatto che il finanziamento fosse contemplato dall’accordo sul quale il Tribunale ha stampato il “sigillo” dell’omologazione. In definitiva, per tutte le ragioni esposte, il mio pensiero intorno alle «condizioni di operatività» della singolare guarentigia di cui all’art. 217-bis l. fall. confluisce in questa precisa “direzione”: nell’ipotesi in cui «i pagamenti» e «le operazioni» siano avvenute «in esecuzione» di un piano attestato, la guarentigia opererà in esito al vaglio del magistrato penale in ordine alla plausibilità della certificazione rilasciata dal professionista; nell’ipotesi in cui «i pagamenti» e «le operazioni» siano avvenute «in esecuzione» di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologato, la guarentigia opererà automaticamente, godendo già il piano dell’“imprimatur” dell’autorità giudiziaria (salvo il caso di dolo come già precisato).
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