ISOMORFISMI SESSUALI ED EMERGENZA DELL’IO RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona Societat Catalana d’Estudis Dantescos
Indipendentemente dal contesto politico in cui la canzone fu scritta, che potrebbe abbassarne la datazione fino alla fine del 1305 (Cfr. Carpi 2004: 507), mi sembra evidente che le allusioni cronologiche del testo vadano in direzione di un esilio iniziato di recente (76: «l'essilio che m'è dato onor mi tegno»; 88-89: «s’io ebbi colpa, / più lune ha volte il sol poi che fu spenta»1). Ciò che però vorrei sottolineare è, accanto alla cronologia assoluta del testo, quella relativa in rapporto al Convivio. Si consideri, in particolare, il terzo capitolo del primo trattato (3-5): Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione della mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato-, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato: nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare. 125
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Sembra chiaro che il deprecato evento dell’espulsione risale ad una data non recentissima («fu piacere»), e che l’immagine che il poeta offre di sé come di un esule alla mercé della fortuna, che lo spinge a «diversi porti e foci e liti», che lo presenta agli occhi di «molti», e che lo induce, contro la sua volontà, a visitare «le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende», presuppone che siano passati non mesi (come nel caso di Tre donne) ma anni. Ciò che importa, sul piano della interpretazione letteraria, è, più che la data in sé dei testi, il fatto che lo stesso tema, l’esilio, venga presentato inizialmente nella prospettiva ravvicinata del presente (quella che Harald Weinrich definirebbe del ‘mondo commentato’), ed in un secondo momento nella prospettiva distanziata del passato (che lo studioso definirebbe del ‘mondo narrato’). D’altra parte tale cronologia relativa ha una valenza dimostrativa incomparabilmente superiore a quella assoluta, perché presuppone l’evidenza di una evoluzione del rapporto esistenziale del soggetto nei confronti dell’esperienza (che prima viene vissuta e poi narrata): sul piano pragmatico le due prospettive significano che in un caso (Tre donne) il soggetto può ancora intervenire sull’evento per modificarlo (per esempio, ammettendo la colpa e chiedendo perdono), nell’altro (Convivio) il soggetto può solo raccontare un evento consumato ed irreversibile (per esempio, mostrandosi come vittima di colpe altrui). Si tratta, ovviamente, di valutazioni soggettive, basate sul giudizio che il poeta dava in ogni momento della situazione politica fiorentina e della propria posizione rispetto ad essa. Mi sembra, però, che gli elementi di quella situazione e del suo evolversi ci siano sufficientemente noti da azzardare verosimili ipotesi anche sulla datazione dei testi, e quindi sulla plausibilità dei giudizi di Dante sulla situazione politica che lo coinvolgeva. Credo infatti che sul piano storico-politico le due prospettive possano essere agevolmente spiegate considerando Tre donne scritta quando un riavvicinamento fra le parti in conflitto a Firenze è ancora teoricamente possibile, quindi prima dei conflitti armati fra Neri e fuorusciti Bianchi che condussero alla battaglia della Lastra (20 luglio 1304), e 126
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considerando invece il Convivio iniziato dopo la battaglia, o almeno quando quei conflitti avevano reso la frattura insanabile2. Il ragionamento coinvolge direttamente l’unità del testo di Tre donne, e in particolare il secondo congedo, che è coerente con la colpa che il poeta riconosce nei versi 88-90 (poiché chiede perdono ai vincitori), ma non con la ingiustizia di cui si dichiara vittima nel Convivio (e poi nel De Vulgari e nel Paradiso), per cui non vedo alcun motivo per immaginare che sia stato aggiunto a posteriori (il doppio congedo ha una funzione strutturale analoga a quella del doppio cominciamento del sonetto Era venuta ne la mente mia, di Vita Nuova XXXIV3, e corrisponde ai due piani di significato in cui la canzone vuole essere letta: quello letterario e quello politico4). Tutta la canzone non ha altra finalità che quella di formulare tale richiesta di perdono, presentando se stesso e la propria attività precedente in una luce diversa da quella in cui è apparsa finora: «Però no·l fan che non san quel ch’io sono» (105), e la canzone vuole appunto modificare questa immagine falsa mostrando il poeta molto più disponibile ad accettare l’egemonia dei vincitori di quanto il suo irrigidimento antipapale, quando era politicamente attivo, possa far pensare5. Comparando i due testi, e leggendoli in rapporto all’opera prodotta nel periodo fiorentino, osserviamo, accanto alla denuncia dell’esilio, ovviamente assente nei testi anteriori, l’emergenza di una modalità di scrittura poetica che segnerà profondamente lo stile di Dante, e che anzi inciderà in modo sostanziale sulla poesia della Commedia, e cioè l’uso sistematico dell’allegoria. Intesa ampiamente come autoesegesi, cioè come strategia interpretativa al servizio della attualizzazione del significato delle opere precedenti nella prospettiva di quella che sta scrivendo, l’allegoria non è in realtà estranea al Dante fiorentino, che anzi la dispiega romanzescamente nella Vita Nuova per piegare il senso delle proprie liriche al nuovo mito di Beatrice e alla mentalità del lutto che tale mito significa6. Ed anche se intesa nel senso più ristretto e proprio di personificazione, è pratica frequente delle rime (innanzitutto relativamente ad Amore, 127
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ma anche ad altre astrazioni, come Malinconia nel sonetto Un dì si venne a me). Ciò che invece appare per la prima volta in Tre donne e nel Convivio è un procedimento ermeneutico che potremmo definire come ‘isomorfismo sessuale’, e cioè la conversione del significato originariamente sessuale di figure poetiche femminili in significato filosofico e/o teologico. L’esempio più clamoroso di tale isomorfismo è la ‘donna gentile’, personaggio in carne ed ossa nella Vita nuova, e concorrente di Beatrice, già morta, nell’attrarre il desiderio del poeta; simbolo, invece, della filosofia nel Convivio. Ma anche la prima delle figure femminili di Tre donne viene presentata nella canzone con tratti esplicitamente sessuali, prima di rivelarsi come una allegoria (Drittura, cioè la Giustizia). Comune poi ai due testi (Tre donne e il Convivio) è una inedita emergenza dell’io esistenziale, sorprendente non solo rispetto alle opere giovanili di Dante, ma, direi, rispetto a tutta la letteratura precedente. La frase «E io ch’ascolto nel parlar divino» (Tre donne, 73) non è solo una brusca frattura pragmatico-aspettuale del discorso (dal mondo narrato a quello commentato, dal simbolismo universale alla storia personale); essa è anche la dichiarazione di un privilegio soprannaturale concesso proprio al poeta, quello di ascoltare la parola di Dio. Risuona in essa lo stesso stupito autocompiacimento che avvertiamo in Par. XXXI 37-40: ïo, che al divino da l’umano, a l’etterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano di che stupor dovea esser compiuto!
E si osservi l’analogia dei contesti all’interno dei quali, in entrambi i brani, affiora la singolarità dell’io del poeta: il privilegio di essere ammesso al cospetto divino, il salto dalla temporalità della storia alla eternità dei valori, il distacco da Firenze, l’approssimazione alla giustizia7. La prepotente emergenza dell’io esistenziale apre (con Tre donne), chiude (con i canti finali del Paradiso) e tutta intera percorre la carriera poetica di Dante a partire 128
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dall’esilio, ed è, dell’esilio, l’effetto più clamoroso, poiché questo offre al poeta le risorse espressive e l’energia morale per subordinare la teologia (in tutti i suoi aspetti, dalla scienza del mondo alla visione profetica) alla affermazione dell’io. Intendiamo in questo modo anche il significato eminentemente politico degli aspetti visionari della poesia dantesca, che si serve dello specchio rappresentato dall’idea di Dio per rivestire d’autorità morale e legittimare sul piano espressivo la propria testimonianza, che per quanto si atteggi a messaggio divinamente ispirato, resta parola poetica, cioè fictio letteraria scissa, e quindi libera, da qualunque predeterminazione religiosa8. E intendiamo anche il significato trascendentale che ha Firenze nella scrittura di Dante: in quanto realtà esistenziale dalla quale egli è stato espulso, Firenze rappresenta il concretissimo simbolo della rete di dipendenze familiari e sociali che il poeta si lascia dietro, e sulle cui rovine può innalzare il suo fiducioso inno alla autonomia poetica del soggetto individuale, nel quale la modernità non cessa di ammirare il suo utopico modello. L’affioramento contestuale delle due istanze, l’isomorfismo sessuale e l’emergenza dell’io esistenziale, induce dunque a considerarle come aspetti solidali di una unica strategia espressiva, attivata dalla esperienza traumatica ma poeticamente fecondissima dell’esilio. Sul piano astrattamente verbale, il tema dell’esilio implica innanzitutto la dialettica dentro / fuori, come risulta dalla definizione che ne dà Isidoro da Siviglia: Exilium dictum quasi extra solum. Nam exul dicitur qui extra solum est. (Etymologiarum libri, V 27, 28).
Ed infatti, accennata nella allegoria iniziale di Tre donne (2-3): e seggonsi di fore, ché dentro siede Amore
la distinzione appare con forza nel Convivio:
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gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia,
e poi in Par. XXV 1-9: Se mai continga che ‘l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò ‘l cappello.
Si osservi poi la concomitanza della esperienza dell’esilio con la consunzione fisica, che in Tre donne viene causata dall’allontanamento dalla donna oggetto d’amore: E se non che degli occhi miei ·bel segno per lontananza m’è tolto dal viso, che m’ave in foco miso, lieve mi conteria ciò che m’è grave; ma questo foco m’have sì consumato già l’ossa e la polpa, che Morte al petto m’ha posto la chiave9.
Nel Convivio la intuiamo dall’aspetto che il poeta mostra ai suoi ospiti, invilito dalla povertà e dalla mendicità; nel Paradiso la vediamo collegata allo sforzo sovrumano dell’opera, composta in condizioni di estrema difficoltà (ma in Par. XVII 55-60 ci era già stata descritta in immagini leggendarie). L’esilio è poi anche occasione e pretesto di una delle fondamentali linee di riflessione di Dante, quella relativa alla lingua materna, o, forse meglio, al sentimento materno della lingua. Nel brano del Convivio citato all’inizio, l’Italia viene circoscritta mediante l’accenno autoreferenziale alla lingua che lo scrittore sta usando: essa è quindi una entità di linguaggio i cui limiti fisici 130
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coincidono con il territorio all’interno del quale tale lingua è operativa («si stende»). La lingua materna e propria concide con essa (cioè con l’italiano), mentre nel De Vulgari la nozione di lingua materna e propria sarà riservata al volgare municipale (nel suo caso, al fiorentino10). L’oscillazione determinerà non pochi equivoci quando, nel ‘500, il problema della lingua si imporrà come questione nazionale. Ora però, ed è questo l’aspetto del brano citato su cui voglio richiamare l’attenzione, la nozione di lingua propria serve a fissare sul piano espressivo la autonomia ontologica dell’io, la sua originalità esistenziale, che ne fa un autonomo soggetto di linguaggio e quindi di significato. Si visualizzi, nella frase per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato,
la scoperta, che è però anche invenzione, di un orizzonte linguisticoterritoriale che dipende dalla posizione del soggetto, che percorre tale spazio facendone personale esperienza. Potremmo dire che solo a partire da questo momento l’Italia esiste in quanto realtà politicoculturale, cioè a partire dal momento in cui qualcuno la delimita come proiezione sul territorio della propria attività espressiva, cioè della propria soggettività. E si osservi ora, in quest’altro luogo del primo trattato del Convivio (XIII), l’affermazione dell’origine sessuale e quindi del carattere esistenziale del volgare proprio, che è ‘proprio’ in quanto mediò l’unione sessuale dei genitori: Questo mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì come 'l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere.
Il soggetto esistenziale viene definito da Dante come singolarità espressiva in un territorio linguisticamente integrato. Esso è quindi, per questo, immediatamente vincolato alla sessualità, che ne rappresenta la causa generativa11.
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È nell’ambito di questo reticolo di temi e linee di ricerca che va letta la sorprendente allusione al sesso femminile dei versi 27-28 («Come Amor prima per la rotta gonna / la vide in parte che il tacere è bello»), e 91-100: Canzone, a' panni tuoi non ponga uom mano, per veder quel che bella donna chiude: bastin le parti nude; lo dolce pome a tutta gente niega, per cui ciascun man piega. Ma s'egli avien che tu mai alcun truovi amico di virtù, ed e' ti priega, fatti di color novi poi gli ti mostra; e 'l fior, ch'è bel di fuori, fa disiar negli amorosi cori12
Se si considera in astratto il procedimento di allegorizzazione del corpo femminile, non siamo lontani dagli isomorfismi della ‘donna gentile’ svolti nel Convivio (III xv 2): li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento.
L’isomorfismo del fiore è anzi concettualmente più ambizioso, poiché aspira a porsi come modello di ogni polisemia: ciò che è occulto e al tempo stesso desiderato del corpo femminile (quindi il suo sesso) è, a ciò che è esposto (le «parti nude»), quello che l’allegoria (cioè il recondito contenuto di verità) è alla lettera (la superficie espressiva del testo). D’altra parte, la figurazione della giustizia come di una donna lacera e seminuda, che attrae la curiosità del desiderio (Amore) per il sesso che la ‘rotta gonna’ lascia intravedere, prelude alla successiva allegorizzazione del fiore, che si presenta, nei versi 91-100, prima come oggetto che si desidera toccare ed eventualmente gustare («lo dolce pome»), e poi come oggetto che si desidera vedere (‘l fior’). La dialettica tatto-visione, del tutto incongrua se applicata direttamente alla lettura132
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comprensione di un testo, diviene invece ben pertinente se l’oggetto testuale viene previamente assimilato all’oggetto sessuale per eccellenza (i genitali femminili), sul quale grava una doppia interdizione, visiva (perché normalmente occultato dagli abiti) e tattile (perché inibito all’uso di chi non ne è legittimo proprietario13). La canzone, dunque, come una donna che stimola il desiderio di un uomo, presenta «parti nude» che sono la lettera e parti intime che sono la allegoria. La visione di queste ultime, e l’eventuale concessione di esse («fa disïar»), sono riservate agli «amici di virtù» (d’accordo con la restrizione a questi ultimi del godimento della bellezza femminile auspicata in Doglia mi reca). Se si considera la similitudine solo dal punto di vista della visione, saremmo all’interno di un campo metaforico (corpo testuale = corpo femminile) per nulla sorprendente. Dante lo utilizza nel cap. XXV della Vita Nuova per illustrare il rapporto fra «figura retorica» e «verace intendimento»: né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento14.
Si osservi, in particolare, la vergogna del poeta stolto (che in Tre donne corrisponde alla vergogna di Amore che guarda l’intimità della donna, v. 38) e il colore della vesta (che corrisponde in Tre donne ai color’ novi della canzone, ed allude alla sua inusitata veste metaforica, che può apprezzare, ovviamente, solo chi ne percepisca la funzione allegorica). Nello stesso significato, cioè per distinguere il contenuto di verità svolto dalla prosa, e quindi la bellezza delle sue costruzioni, da quello letterario e fittizio svolto dalla poesia, l’analogia viene addotta in Conv. I x 11-13, all’interno di una argomentazione (la difesa del
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volgare proprio) tesa a smentire ed anzi a vituperare, coloro che preferiscono altri volgari all’italiano: Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano esso e commendano li altri, massimamente quello di lingua d'oco, dicendo che è più bello e migliore quello che questo; partendose in ciò da la veritade. Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù sì com'è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene manifestare] nelle cose rimate per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. Onde chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d'amabilissima bellezza.
Ciò che invece è indeducibile dalla trattatistica sulla allegoria è la considerazione del testo come oggetto tattile, aspetto potentemente messo in rilievo dalla metafora sessuale della canzone, per la quale del corpo di una donna è certo desiderabile la visione (nelle sue parti occulte); ma ancora di più lo è il tatto (di tali parti). Logicamente ineccepibile, il ragionamento si discosta, però, dalla norma retorica in uso15, e poiché non si può dubitare della intenzionalità con cui Dante sovverte tale norma, non possiamo eludere il problema critico che il testo pone e dobbiamo chiederci cosa sia, letterariamente, il fiore per Dante. La questione sarebbe ardua, o almeno scomoda per l’imbarazzante terreno anatomico su cui il poeta si muove, se non avessimo lì, fra le sue opere, un testo che reca appunto questo titolo (dedotto dai suoi editori dal tema ivi trattato), e al quale dovrebbe 134
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immediatamente andare l’attenzione dei critici per spiegare il senso di Tre donne16. D’altra parte, con l’allusione al Fiore, siamo messi di fronte al consueto gioco autoesegetico con il quale Dante ‘riscrive’ le opere precedenti in funzione di quella che sta scrivendo: proprio come, per capire il Convivio, bisogna tener presente la Vita Nuova, di cui il trattato è riscrittura e fino ad un certo punto palinodia, così per capire Tre donne dobbiamo tener presente il Fiore ed intendere il testo della canzone come riscrittura e palinodia del poemetto. Inoltre, proprio come il Convivio trasforma una donna in carne ed ossa in una allegoria (la Filosofia), così Tre donne trasforma una donna in carne ed ossa (la detentrice del fiore) in una allegoria (la Giustizia)17. Ma è sul piano verbale e concettuale dei riscontri intertestuali che vedremo la stretta parentela fra i due testi. Se consideriamo la canzone nelle sue scansioni aspettuali, osserveremo che la parte narrativa, cioè i versi 26-72, è incastrata fra due parti commentative (vv. 1-25 e vv. 73-107), le quali, sganciando il dialogo fra le ipostasi dalla contingenza esistenziale della scrittura, ne mettono in risalto la solennità, cioè il carattere oracolare (il «parlar divino» del verso 73), che rende plausibile, ed anzi necessaria, una ermeneutica di tipo teologico, quale è spesso l’allegoria. Si confronti ora l’inizio della parte narrativa (vv. 27-28), Come Amor prima per la rotta gonna la vide in parte che ‘l tacere è bello,
con l’inizio del Fiore: Lo Dio d'Amor con su' arco mi trasse Perch'i' guardava un fior che m'abellia, Lo quale avea piantato Cortesia Nel giardin di Piacer.
In entrambi casi si allude alla origine visiva del desiderio, che ha per oggetto il metaforico fiore, di cui il poemetto svolge esclusivamente il simbolismo sessuale, e la canzone anche quello allegorico (oltre quello sessuale). Apparentemente del tutto irrelata, 135
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la curiosità di Amore nei confronti dei genitali della Giustizia, nella canzone, rivela tutta la pregnanza del suo valore autoesegetico se la leggiamo come ripresa della storia e del personaggio narrati nel Fiore, che devono essere ora ripensati a partire dal nuovo significato che il poeta gli attribuisce (esattamente come la «donna gentile» della Vita nuova deve essere ripensata a partire dal significato che le attribuisce il Convivio). D’accordo con la trama intertestuale che vincola la canzone al poemetto, la follia degli occhi di Amore («Fenno i sospiri Amore un poco tardo; / poscia con gli occhi molli, / che prima furon folli») riprende su altro piano di significazioni la follia di amante che segue il consiglio di Amore, nel Fiore. Si vedano i sonetti XXXVIII-XLI, nei quali Ragione cerca, senza successo, di convincere Amante a distogliere il suo desiderio dal fiore e a dirottarlo verso Dio, e si osservino le reciproche accuse di follia che i due interlocutori si rivolgono18: XXXVIII, L'Amante «Ragion, tu sì mi vuo' trar[e] d'amare E di' che questo mi' signor è reo, E ch'e' non fu d'amor unquanche deo, Ma di dolor, secondo il tu' parlare. Da·llui partir non credo ma' pensare, Né tal consiglio non vo' creder eo, Chéd egli è mi' segnor ed i' son seo Fedel, sì è follia di ciò parlare. Per ch'e' mi par che 'l tu' consiglio sia Fuor di tu' nome troppo oltre misura, Ché sanza amor nonn-è altro che nuìa. Se Fortuna m'à tolto or mia ventura, Ella torna la rota tuttavia, E quell'è quel che molto m'asicura».
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XLI, Ragione «Del dilettar noi, vo' chiti tua parte», Disse Ragion, «né che sie sanz'amanza, Ma vo' che prendi me per tua 'ntendanza: Che'ttu non troverai i·nulla parte Di me più bella (e n'ag[g]ie mille carte), Né che·tti doni più di dilettanza. Degna sarei d'esser reina in Franza; Sì fa' follia, s' tu mi getti a parte: Ch'i' ti farò più ric[c]o che Ric[c]hez[z]a, Sanza pregiar mai rota di Fortuna, Ch'ella ti possa mettere in distrez[z]a. Se be·mi guardi, i·me nonn-à nes[s]una Faz[z]on che non sia fior d'ogne bellez[z]a: Più chiara son che nonn-è sol né luna».
L’ammissione da parte di Amore della propria follia, in Tre donne, per aver volto lo sguardo «in parte che ‘l tacere è bello», significa il rientro dell’io nel ‘consiglio della ragione’, e la sua vergogna per aver seguito un impulso di desiderio puramente sessuale (vv. 37-39). Tale ammissione di colpa è solidale con il pentimento che il poeta dichiara nei versi 88-90; l’una e l’altro ci fanno capire qual era stata la motivazione ideologica che aveva ispirato la redazione del poemetto, cioè la rottura con il guelfismo bigotto (di stretta osservanza pontificia) che sacrificava l’automia politica del comune. Il perdono che il poeta ora chiede ai vincitori (vv. 104-107) non può non passare attraverso una palinodia che dichiari come superata quella esperienza di radicalismo anticlericale (salvo poi riprenderla, e più ferocemente, a partire dal Convivio, quando ogni riappacificazione parrà impossibile). Un episodio di cronaca (letteraria) fiorentina illustra bene il senso politico che aveva, per l’autore e per i lettori contemporanei, un poemetto di contenuto sessuale come il Fiore. Il 3 luglio del 1292 erano apparse immagini miracolose della Vergine che avevano acceso la fantasia religiosa popolare e avevano dato luogo a regolari 137
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pellegrinaggi da tutta la Toscana19. Guido Cavalcanti non si lasciò sfuggire l’occasione per dileggiare la credula ingenuità dei fiorentini, e mandò questo sonetto a Guido Orlandi, le cui posizioni ideologiche e politiche erano notoriamente conservatrici (cfr. Pollidori 1995: 7273): A GUIDO ORLANDI
Una figura della donna mia s'adora, Guido, a San Michele in Orto, che, di bella sembianza, onesta e pia, de' peccatori è gran rifugio e porto. E qual con devozion lei s'umilìa, chi più languisce, più n'ha di conforto: li 'nfermi sana e' domon caccia via e gli occhi orbati fa vedere scorto. Sana 'n publico loco gran langori; con reverenza la gente la 'nchina; d[i] luminara l'adornan di fòri. La voce va per lontane camina; ma dicon ch'è idolatra i Fra' Minori, per invidia che non è lor vicina.
La parodia blasfema consiste nel presentare l’immagine miracolosa della Vergine come figura della propria amata (d’accordo con la sublimazione religiosa della donna che, su tutt’altro piano metafisico, andavano svolgendo gli “stilnovisti”), oltre che nella insinuazione degli ultimi versi per la quale la condanna del falso miracolo per idolatria dei Frati Minori è dettata da motivi bassamente mercantili («per invidia che non è lor vicina»). Risentito, così gli risponde Orlandi: GUIDO ORLANDI A GUIDO CAVALCANTI. SONETTO DOPPIO S'avessi detto, amico, di Maria gratïa plena et pia: -«Rosa vermiglia se', piantata inn-orto», avresti scritta dritta simiglìa. Et veritas et via: 138
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del nostro Sire fu magione, e porto della nostra salute, quella dia che prese Sua contìa, [che] l'angelo le porse il suo conforto; e certo son, chi ver' lei s'umilìa e·ssua colpa grandia, che sano e salvo il fa, vivo di morto. Ahi, qual conorto - ti darò? che plori con Deo li tuo' fallori, e non l'altrui: le tue parti diclina, e prendine dottrina dal publican che dolse i suo' dolori. Li Frà·mMinori - sanno la divina [I]scrittura latina, e de la fede son difenditori li bon' Predicatori: lor pridicanza è nostra medicina.
Il senso del sonetto è chiaro: con la religione non si scherza, e meno ancora con i suoi paladini, cioè i Minori e i Predicatori. Pensi Guido ai suoi errori e chieda perdono a Dio20. La spaccatura che si sta producendo nella città sul piano politico ha un immediato riscontro letterario nell’atteggiamento che gli scrittori assumono nei confronti della ideologia cattolica: l’incredulità in materia religiosa significa la difesa delle autonomie comunali dalle ingerenze papali, mentre l’ossequio alle forme esterne, ideali ed istituzionali, del cristianesimo è testimonianza di fedeltà al Papa21. D’altra parte, proprio sul conflitto fra clero secolare e clero regolare -scoppiato a Parigi per l’assegnazione delle cattedre di teologia della Università (cfr. Dufeil 1972)- verte il Roman de Rose, e il Fiore ne riprende la polemica attualizzandola in chiave fortemente antiteologica ed a favore dei maestri ‘artisti’, i quali erano sottoposti alla persecuzione antiaristotelica e/o antiverroista dei dottori mendicanti22. I due sonetti citati ora devono essere letti anche nel contesto europeo del generale irrigidimento della politica culturale del papato, che attraverso francescani e domenicani 139
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vegliava nelle università per la difesa della ortodossia. Mentre Cavalcanti, ironizzando sulla venalità dei Minori, prende partito contro gli ordini mendicanti, e quindi contro il Papa, Orlandi ne prende le difese, dimostrando la sua fedeltà alla Chiesa. Si veda ora come interviene Dante, dal Fiore (224), sullo stesso episodio di culto popolare (cui ovviamente si riferisce, anche senza citarlo esplicitamente): Troppo avea quel[l]'imagine 'l [vi]saggio Tagliato di tranobile faz[z]one: Molto pensai d'andarvi a processione E di fornirvi mie pelligrinag[g]io; E sì no·mi saria paruto oltrag[g]io Di starvi un dì davanti ginoc[c]hione, E poi di notte es[s]ervi su boccone, E di donarne ancor ben gran logag[g]io. Ched i' era certan, sed i' toccasse L'erlique che di sotto eran riposte, Che ogne mal ch'i' avesse mi sanasse; E fosse mal di capo, o ver di coste, Od altra malatia, che mi gravasse, A tutte m'avria fatto donar soste.
La conversione blasfema dell’immagine della Vergine in una prostituta (la detentrice del fiore), e della devozione dei pellegrini nella posizione del coito («di starvi un dì davanti ginocchione, / e poi di notte esservi su boccone»), è notevolmente più oltraggiosa di quella dell’amico, cui Dante allude, riprendendone le allusioni alla venalità dei Minori, anche al verso 8: «e di donarne ancor ben gran logaggio», pagarne cioè un lauto noleggio, considerato il potere miracoloso e risanatore delle «erliquie che di sotto eran poste». La emancipazione della sessualità dalle ipoteche religiose (cioè dal controllo ecclesiastico) significava, immediatamente, prendere posizione a favore degli aristotelici radicali. E in effetti la difesa degli ‘artisti’ perseguitati dai teologi arriverà fino alla Commedia, nella quale «la luce eterna di Sigieri» è collocata nel cielo del sole fra 140
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gli spiriti sapienti (Par. X 133-138). Ma qui la dissacrazione del culto religioso attraverso l’oscenità della provocazione sessuale ha un significato immediatamente politico, e manifesta un risentimento anticlericale del tutto assente nell’opera precedente (per esempio nella Vita Nuova) e che acquista un plausibile significato ideologico solo nella prospettiva di un politico impegnato nella difficile pacificazione del Comune e che vede frustrati i suoi tentativi dalle ingerenze del nuovo Papa, dettate, nella sua interpretazione, da vili interessi economici. Si veda, nel sonetto V (9-14), quanto perentoriamente Amore si ponga come alternativa ai Vangeli, obbligando l’amante a scegliere fra due fedi antitetiche (il brano non ha riscontro nella Rose): E quelli allor mi disse: «Amico meo, I’ ò da·tte miglior pegno che carte: Fa che m’adori, chéd i’ son tu’ deo; Ed ogn’altra credenza metti a parte, Né non creder né Luca né Matteo Né Marco né Giovanni. Allor si parte23.
Se ora andiamo al luogo della Rose corrispondente al sonetto 224, citato sopra, cioè quello in cui viene introdotta l’immagine di cui si invaghisce Pigmalione, osserveremo un significativo particolare (20809- 2081224): Mout erent gent li autre mambre, Mais plus olant que pomme d’ambre Avoit dedenz .l. saintuaire, Couvert d’un precieus suaire…
La comparazione del sesso femminile con un profumato «pome d’ambre»25, assente nel Fiore26, viene invece ripresa in Tre donne (94): «lo dolce pome», che recupera un elemento gustativoolfattivo che il poemetto aveva trascurato, privilegiando immagini di sessualità più direttamente genitali. Interessante è seguire il percorso del pome nelle opere successive a Tre donne. Sempre vincolato alla tensione di desiderio, in quanto infantile, cioè primario, stimolo della 141
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volontà, lo troviamo in Conv. IV xii 16: «Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo» e in Purg. XXVII 45: «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (questo secondo esempio è riferito a Beatrice, evocata da Virgilio per convincere Dante ad attraversare la cortina di fuoco che lo separa dal Paradiso terrestre). In quanto simbolo della vera felicità che gli uomini perseguono, lo troviamo in Inf. XVI 61: «lascio lo fele e vo per dolci pomi», in un discorso rivolto ai tre nobili fiorentini con i quali Dante depreca i mali che «la gente nova e i súbiti guadagni» hanno generato a Firenze; e poi di nuovo in Purg. XXVII 115-116, nelle parole che Virgilio rivolge a Dante al suo risveglio dal sogno di Lia: Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de’ mortali.
È evidente, in tali esempi, il doppio registro che l’immagine del pome conserva, cioè quello sessuale e quello politico, che in Beatrice tende ad unificarsi in un unico polivalente oggetto di desiderio. In Tre donne è più scoperto il valore sessuale del pome, come nella Rose, a cui Dante esplicitamente rinvia, nel primo dei due congedi, orchestrando la relazione fra lettera e allegoria nei termini di un fiore (parzialmente) occultato dalle vesti, alle quali «uom pone mano» per scoprire il santüaro e le erlique (secondo il Fiore), cioè «quel che bella donna chiude», a cui «ciascun man piega». Dunque il disvelamento del significato latente viene paragonato al gesto con cui si solleva la veste di una donna per avere un contatto con i suoi genitali27. Tutto ciò la canzone deve impedire, a meno che non la preghi un «amico di virtù»; in questo caso, cambiati i suoi colori (cioè rese più allettanti le sue figure) la canzone deve mostrare la propria esterna bellezza perché ne venga desiderato il senso occulto. Il tema della ‘polisemia’ dei genitali era stato gustosamente svolto da Jean de Meun in un brano che genera, da una parte, l’immagine blasfema delle erlique nel Fiore e dall’altra la sua allegorizzazione in Tre donne. Per dimostrare all’amante 142
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l’arbitrarietà dei nomi, Natura, che impose i nomi alle cose, ipotizza quello che succederebbe se avesse scambiato il nome delle ‘reliques’ con quello delle ‘coilles’: ovviamente, che amante si scandalizzarebbe davanti alle prime, e che adorerebbe e bacerebbe, invece, nelle chiese le seconde (7104-7120): Je te di devant dieu qui m’ot, Que je, quant mis les nons as choses, Que si rependre et blasmer m’oses, Coilles reliques apelasse Et reliques coilles nommasse, Tu, qui si m’en mors et depiques, Me redeïsses de reliques Que ce fust laiz moz et vilains. Coilles est biaus nons et si l’ains. Si sont par foi coillon et vit, Ainc nus plus biaus gaires ne vit Et quant pour reliques m’oïsses Coilles nommer, le mot prisses Pour si bel et tant le prissasses Que partout coilles aorasses Et les baisasses en eglises En or et en argent assises.
I termini propri, cioè quelli imposti da Natura, sono dunque sempre i più apprezzati. Nelle scuole, però, questa regola viene parzialmente smentita attraverso l’uso di parabole (7157-7182), Qui mout sont beles a entendre. Si ne doit on mie tout prendre A la lettre quanque l’en ot. En ma parole autre sen ot, Au mains quant des coillons parloie, Dont si briement parler vouloie, Que celui que tu i veuls mettre. Et qui bien entendroit la lettre Le sen verroit en escripture Qui esclarcist la fable oscure. 143
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La verité dedenz reposte Seroit bele, s’ele ert esposte: Bien entendras se tu repetes Les integumenz as poetes. La verras une grant partie Des secrez de philosophie, Ou mout te vorras deliter Et si porras mout profiter: En delitant profiteras, En profitant deliteras, Car en leur geus et en lor fables Gisent deliz mout profitables, Souz cui leur pensees couvrirent Quant le voir des fables vestirent. Si te couvendroit a ce tendre, Se ben veuls la parole entendre».
Il termine apparentemente osceno di coilles o coillons occulta quindi una verità bella da ascoltare se ben esposta, ed alla quale l’amante agevolmente accederà se torna con la memoria a «les integumenz as poetes», poiché vi scorgerà gran parte dei segreti della filosofia. Questo passaggio ha ispirato, con ogni evidenza, tanto la metaforicità blasfema delle erlique nel Fiore, quanto l’allegorismo del fiore e del pome in Tre donne, ed è anzi anche in rapporto con la teoria allegorica del Convivio, che ne riprende alcuni concetti ed immagini28. Ma in Tre donne l’isomorfismo sessuale che trasforma i genitali femminili nel contenuto di verità che si occulta sotto la veste lacera della favola, segue una strategia inventiva di estrema originalità, poiché, come s’è visto, tale contenuto, dopo essersi presentato al principio come un desiderato oggetto di visione, si traforma, nel primo congedo, in un oggetto di desiderio tattile, sul quale l’amante lettore «la man piega», dopo aver sollevato la veste della donna. Ed è appunto su questo aspetto del rapporto sessuale che il Fiore concentra la propria attenzione (derivandone la polisemia dal potere miracoloso che le reliquie hanno, se toccate); prima di essere 144
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penetrati dai genitali maschili, infatti, i genitali femminili sono oggetto di un desiderio squisitamente tattile: E dissi: «Chi mi tien, ched i' no'l prendo?»; Sí ch'i' verso del fior tesi la mano, Credendolo aver colto chitamente; (6, 8-11) Ma non ched egli al fior sua mano ispanda, (15, 7) Ma' che lungi dal fior le tue man tenghi. (16, 10) Allor sì volli al fior porre la mano, (203, 3) Ched i' era certan, sed i' toccasse L'erlique che di sotto eran riposte, Che ogne mal ch'i' avesse mi sanasse; (224, 9-11) Di toccarne l'erlique i' pur pensava. (228, 11)
L’aspetto olfattivo dei genitali femminili viene invece tematizzato da Dante in un luogo, remoto dal Fiore, che rivela meglio la complessità delle sue implicazioni autoesegetiche se lo leggiamo alla luce della rete intertestuale che stringe la Rose al Fiore e a Tre donne. Si rileggano i versi 31-33 del canto XIX del Purgatorio, che concludono l’episodio del sogno della «femmina balba»: L’altra prendea, e dinanzi l’apria Fendendo i drappi, e mostravami il ventre; quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Il gesto col quale Virgilio, ragione guidata dalla fede, cioè da una «donna ... santa» che se non è Beatrice ne è controfigura, svela il contenuto di verità del canto della sirena, è proprio quello paventato in Tre donne; egli squarcia le vesti della prostituta, perché il ventre, col suo puzzo, mostri al poeta il suo disgustoso contenuto sensoriale29. È la stessa struttura analogica di cui abbiamo seguito le 145
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tracce finora (ma tradotta in immagini di una violenza inusitata): posta la somiglianza fra il corpo femminile ed il testo, ciò che del corpo si vede (la bellezza della strega, che lo sguardo del poeta ha modellato) rappresenta l’apparenza del testo (la dolcezza del canto), e ciò che non si vede, ossia il sesso, ne rappresenta il contenuto di verità (la materia teologicamente ripugnante). Se ora andiamo al rimprovero di Beatrice, in Purg. XXXI, 43-45: Tuttavia, perché mo vergogna porte del tuo errore, e perché altra volta, udendo le serene, sie più forte...
innanzitutto riconosciamo una palinodia che iniziò con Tre donne (la vergogna di Amore) e poi agevolmente ricostruiamo, come oggetto di tale palinodia, quella linea di sperimentazione della poesia di Dante che ha nel Fiore il suo momento di massimo allontanamento da Beatrice (e da ciò che essa rappresenta sul piano poeticoteologico). Infine le serene, in quanto immagine riassuntiva del femminile perverso dal quale in varie occasioni Dante si è lasciato sedurre, suggeriscono che tale femminilità negativa (cioè il fiore o il pome, negativi nella prospettiva teologica della Commedia) agisce come segreto movente dell’alter ego di Dante, cioè Ulisse, la cui averroistica sospensione di ogni trascendenza individuale implica una visione riduttivamente sessuale del desiderio30. Mi sembra indiscutibile che il perdono richiesto nei versi finali di Tre donne abbia come oggetto primo il blasfemo e pornografico poemetto con cui il poeta aveva irriso il guelfismo bigotto, poemetto che va quindi restituito al pensiero politico di Dante, giacché esso è il primo clamoroso documento del suo anticlericalismo, che, divenuto pilastro del pensiero di Dante a partire dal Convivio, non verrà più ritrattato dal poeta, che su questo punto resterà sostanzialmente fedele, come s’è visto, ad una idea non confessionale del sentimento religioso. Tale anticlericalismo, infatti, non deve essere inteso (secondo l’uso moderno) come astratta ideologia, ma bensì come concreta e lucidissima difesa degli 146
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ordinamenti statuali (embrionalmente già vivi a Firenze) dalla invadenza feudale di poteri (quello economico dei magnati, quello religioso della chiesa) avvertiti ormai come estrinseci a quegli ordinamenti, e comunque ad essi subordinati in linea di principio. Il Fiore, in altre parole, implica già quella mentalità politica risolutamente laica da cui emanerà la grande riflessione sullo stato svolta nella Monarchia. Riandando, alla luce di tutto ciò, alla convulsa situazione che la Signoria dei Neri determinò a Firenze nel momento in cui assunse il potere, era tatticamente necessario, nei mesi immediatamente seguenti alla sua fuga da Firenze, che il perdono richiesto dal poeta ai vincitori, in un estremo tentativo di composizione del conflitto, e quando tale composizione sembrava ancora possibile, facesse ammenda, sconfessandola come ignara e quindi colpevole allegoria della Giustizia, proprio di quell’opera, che non solo riprende e traduce le polemiche antiteologiche che in Francia scuotevano il mondo universitario, ma le innerva di una violenza antireligiosa e blasfema che capitalizza e libera le energie sotterranee del discorso del desiderio31, discorso che, non più limitato alle corti, aveva ormai ampia irradiazione sociale, e che fin dalle sue origini trovadoriche aveva puntato sulla destituzione di ogni credibilità e autorità del discorso religioso per fondare un nuovo sistema di valori (o controvalori, secondo il programma di rinnovamento culturale che Dante espliciterà di lì a poco, nel I trattato del Convivio, quando ogni composizione appare ormai impossibile). Ma è poi nel quadro di ciò che qui si è definito come «emergenza dell’io» che Tre donne si presenta come capitale documento di una svolta poetica non meno che esistenziale nella biografia del poeta. Giacché l’io che emerge, con forza ignota alla letteratura, nei versi della canzone, scopre, nello stesso tempo, il proprio radicamento nell’esistenza (contro l’astratta funzione locutrice o lirica o romanzesca della cultura letteraria premoderna) e il potere di controllo che esso ha sul linguaggio e sulla scrittura, cioè sulla parola che, narrandola, interpreta l’esistenza, e la costruisce 147
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secondo un lucido ed intenzionale progetto di vita e di cultura. Se l’io lirico adombrava, nella tradizione che fa capo ai trovatori ed arriva fino al Fiore, la sospensione delle determinazioni estrinseche della persona (la rete feudale delle dipendenze), Tre donne sancisce la politicità di tale sospensione, giacché deduce da quella esperienza (il desiderio) il controllo che l’io esercita sulla posizione che il soggetto occupa nel mondo, il cui significato non è più previamente dato, ma liberamente costruito attraverso la scrittura e la sua funzione interpretativa ed autointerpretativa. Potremmo dire che Dante apre la modernità in quanto fonda l’autonomia del soggetto nella politicità della scrittura, la quale viene investita di un duplice compito, quello di esprimere e quello di interpretare. In quanto espressione, essa è poesia (da intendere nel senso ampiamente antropologico di manifestazione verbale della soggettività); in quanto interpretazione, essa è coscienza critica e progettuale del soggetto nel mondo. Tale progettualità si proietta nello stesso tempo verso il futuro e verso il passato: verso il futuro perché aspira a incidere sulla storia, a trasformare il mondo per adattarlo alla forma esistenziale in cui l’io desidera incarnarsi; verso il passato perché tutto ciò che è stato scritto prima deve ogni volta essere riscritto, cioè reinterpretato alla luce della determinata progettualità che informa la scrittura in ogni occasione esistenziale. Insinuando che le immagini oscene del Fiore erano in realtà allegoria di nobili astrazioni, magari fraintese da lui stesso per un difetto di visione, Dante mostra, insomma, già matura la sua tempra di poeta-critico, la cui consumatissima abilità di retore è al servizio di un sentimento radicalmente politico della poesia.
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NOTE: 1 Per questo motivo Gianfranco Contini considera la canzone scritta «probabilmente nel 1302» (Alighieri 1984: 452). D’altra parte l’inizio dell’esilio di Dante oscilla fra i primi di ottobre del 1301 (quando gli ambasciatori del Comune lasciano la città per recarsi a Roma) e il 27 gennaio dell’ 1302, data della prima condanna di Dante. Secondo la versione tradizionale, Dante fu sorpreso dalla condanna durante il viaggio di ritorno a Firenze. 2
Tenendo conto del fatto che la nuova Signoria nera si insediò il 7 novembre del 1301, che il 27 gennaio del 1302 Dante fu condannato in contumacia dal nuovo governo cittadino (alla esclusione da ogni incarico pubblico), che il 10 marzo fu condannato a morte, e che la canzone parla di un esilio durato «più lune», conviene situare la sua composizione, se non addirittura prima, non troppo dopo questa ultima condanna, e comunque anteriormente alla riunione di S. Godenzo (8 giugno 1302) nella quale i fuorusciti bianchi (fra cui Dante) ed i ghibellini si accordavano contro Firenze e formalizzavano la situazione di guerra contro il Comune, che rendeva impossibile ogni «perdono». Per la cronologia degli eventi mi attengo a Petrocchi (1983 [1986]: 86-92).
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Rinvio, per questo problema, a Pinto (1994: 95-96).
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La sua assenza, in una parte dei testimoni della tradizione manoscritta, può dipendere dalle inclinazioni politiche del copista. Il fatto, invece, che venga indirizzata sia ai bianchi che ai neri sottintende che (secondo i voti del poeta) fra le due parti il conflitto non è insanabile, il che ci riporta di nuovo ad una data anteriore al giugno del 1302. Un aspetto della narrazione di Dino Compagni relativa a quei tragici mesi ci permette di avvicinarci un poco al clima che si viveva in Firenze, e del quale certo Dante doveva partecipare, sebbene, forse, fisicamente assente. Compagni (strenuo difensore dell’ordine legale contro gli abusi e i personalismi dei Magnati) attribuice alla viltà dei Cerchi il successo dei Neri. Si consideri questo capitolo della Cronica (2,21): «Molti disonesti peccati si feciono: di femmine vergini; rubare i pupilli; e uomini impotenti, spogliati de' loro beni; e cacciavanli della loro città. E molti ordini feciono, quelli che voleano, e quanto e come. Molti furono accusati, e convenia loro confessare aveano fatta congiura, che non l'aveano fatta, e erano condannati in fiorini M per uno. E chi non si difendea, era accusato, e per contumace era condannato nell'avere e nella persona: e chi ubidia, pagava; e dipoi, accusati di nuove colpe, eran cacciati di Firenze sanza nulla piatà. Molti tesori si nascosono in luoghi segreti: molte lingue si canbiorono in pochi giorni: molte villanie furono dette a' priori vecchi a gran torto, pur da quelli che poco innanzi gli aveano magnificati; molto gli vituperavano per piacere agli adversari: e molti dispiaceri ebbono. E chi disse mal di loro mentirono: perché tutti furono disposti al bene comune e all'onore della republica; ma il combattere non era utile, perché i loro
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adversari erano pieni di speranza, Iddio gli favoreggiava, il Papa gli aiutava, messer Carlo avean per campione, i nimici non temeano. Sì che, tra per la paura e per l'avarizia, i Cerchi di niente si providono: e erano i principali della discordia: e per non dar mangiare a' fanti, e per loro viltà, niuna difesa né riparo feciono nella loro cacciata. E essendone biasimati e ripresi, rispondeano che temeano le leggi. E questo non era vero; però che venendo a' signori messer Torrigiano de' Cerchi per sapere di suo stato, fu da loro in mia presenza confortato che si fornisse e apparecchiassesi alla difesa, e agli altri amici il dicesse, e che fusse valente uomo. Nollo feciono, però che per viltà mancò loro il cuore: onde i loro adversarii ne presono ardire, e inalzorono. Il perché dierono le chiavi della città a messer Carlo». Come risulta da questo brano, alle violenze, alle espropriazioni, ai giudizi sommari, alle condanne i Bianchi non opposero resistenza, dando per scontato che l’appoggio del papa e di Carlo di Valois erano decisivi, e che quindi la lotta sarebbe stata inutile, e considerando invece che il rispetto formale degli ordinamenti comunali (che i Neri non furono obbligati, da una attiva opposizione armata, a sospendere manu militari) avrebbe consentito in futuro una rivincita. È in un contesto di questo tipo, nel quale la violenza viene esercitata in una sola direzione, che la richiesta di perdono ha credibilità politica, perché conferma l’atteggiamento di sottomissione, alla forza ma anche alla legge, di chi non ha mai usato il linguaggio della violenza e ha dimostrato quindi la sua disposizione «al bene comune e all'onore della republica». La diagnosi di Dino è confermata da questo passaggio del Trattatello di Boccaccio (23), che anzi sembra dipendere, nel giudizio politico, dalla Cronica: «Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe più volte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una e dell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della minacciante Fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falso rapportatrice, nunziando gli avversarii della parte presa da Dante, di maravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di grandissima moltitudine d'armati, sì gli prencipi de' collegati di Dante spaventò, che ogni consiglio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro, se non il cercare con fuga la loro salute». 5
I versi 77-79, «ché, se giudizio o forza di destino / vuol pur che il mondo versi / i bianchi fiori in persi», se, come credo, alludono al rivolgimento politico in atto a Firenze, significano rassegnazione nei confronti di tale rivolgimento, che viene accettato come decisione divina. Tale rassegnazione potrebbe essere produttiva immediatamente dopo la formazione della Signoria dei Neri, dei quali il poeta riconosce la supremazia. Non risulterebbe logica, invece, ma anzi smentita dai fatti, dopo che Dante ha partecipato ai tentativi dei Bianchi di rientrare a Firenze con la forza.
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Sul tema del lutto e della autoesegesi in Dante, rinvio a Pinto (1994).
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D. De Robertis, evocando Par. XXXIII 46-48 («E io ch’al fine di tutt’i disii / appropinquava, sì com’io dovea, / l’ardor del desiderio in me finii»), sottolinea «il ritorno dell’io, l’adesione in prima persona a quanto ‘ascoltato’, il privilegio, l’investitura (o la chiamata) di questo ascolto».
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Sull’uso di metafore nella Scrittura, secondo Tommaso d’Aquino dal quale Dante su questo tema dipende, rinvio a Pinto (1994: 122-144).
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Che il bel segno sia una immagine femminile non mi sembra ragionevole mettere in dubbio, data la continuità nella opera dantesca, fino a questo momento, della donna come fondamentale o unico motivo ispiratore. Non sarebbe riconoscibile, l’identità del poeta, senza una donna che costituisca il segno (cioè il «bersaglio» – De Robertis) del suo desiderio (cfr. Par. III 124-127: «La vista mia ... / volsesi al segno di maggior disio, / e a Beatrice tutta si converse»). Ma si veda soprattutto Io sento sì d’amor, 28-32, che sembra prospettare, per ipotesi, la situazione che in Tre donne viene descritta: «E’ miei pensier’, che pur d’amor si fanno, / come a lor segno al suo servigio vanno; / per che l’adoperar sì forte bramo / che s’io ·l credessi far fuggendo lei, / lieve saria, ma so ch’io ne morrei». Si confronti, in particolare, lieve saria e lieve mi conteria. 10
In De Vulgari I vi, viene denunciato come osceno l’attaccamento alla propria lingua («quicunque tam obscene rationis est ut locum sue nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium vulgare licetur, idest maternam locutionem»), pur ammettendo, come nel Convivio, che «Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste». La contraddizione si spiega col fatto che all’altezza del I trattato del Convivio Dante non ha ancora distinto fra volgare illustre e volgare municipale, e quindi il volgare in blocco, in quanto lingua propria, viene rivendicato e contrapposto da una parte al latino e dall’altra al volgare altrui. Nel De Vulgari, invece, la distinzione fra i due livelli d’uso del volgare, popolare e colto, determina la identificazione della lingua materna con il registro popolare, del quale condivide il discredito. Sul tema si veda Pinto (1998: 13-32). 11
La lingua naturale come sostanza espressiva del soggetto individuale viene postulata sul piano metafisico in De Vulgari I v: «Opinantes autem non sine ratione, tam ex superioribus quam inferioribus sumpta, ad ipsum Deum primitus primum hominem direxisse locutionem, rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox postquam afflatum est ab Animante Virtute, incunctanter fuisse locutum». Si osservi il carattere comunque genetico del linguaggio (Dio lo infonde con l’anima in Adamo; i genitori lo infusero, con la vita, in Dante).
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Allusioni indirette sono anche ai versi 37-39: «Poi che fatta si fu palese e conta, / doglia e vergogna prese / lo mio segnore» (Amore si vergogna di aver guardato le
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nude intimità della donna) e 55-57: «Fenno i sospiri Amore un poco tardo; / e poi con gli occhi molli, / che prima furon folli» (per lo stesso motivo). 13 Il tema della inibizione maritale del sesso femminile all’uso altrui è oggetto di trattamento burlesco fin dalle origini della poesia romanza. Si veda, per esempio, la parodia del patriarcato sessuale in Guglielmo d’Aquitania (Companho, tant ai agutz d'avols conres, vv. 8-9): «Senher Dieus, quez es del mon capdels e reis, / qui anc primer gardet con, com non esteis?», oppure la feroce satira di Marcabruno, che, in una prospettiva ideologica anticortese, rimprovera ai mariti di non sorvegliare sufficientemente il con delle loro mogli (Dirai vos en mon latí, ): «Moillerat, ab sen cabrí: / a tal paratz lo coissi / don lo cons esdven laire»). 14
Ha quindi senz’altro ragione D. De Robertis nell’intendere i panni del v. 91, cioè la veste della Vita Nuova, come l’integumentum, ossia ciò che (parzialmente) occulta il senso vero della canzone. 15
Ernst Robert Curtius (1992), però, segnala, fra le metafore del corpo quella della «vulva della grazia rigeneratrice», di Aldhelmo: «antequam regenerantis gratiae vulva parturiretur» (De Virginitate, XXVI 18-19), «regenerantis gratiae vulva conceptus» (ibid. XXXV 9), e si veda anche (ibid., XLIII 15): «parturientis gratiae vulva» (in Aldhelmo 1984). 16 Considero non solo certamente dantesco il Fiore, ma credo anche che il poemetto rappresenti un momento essenziale nella evoluzione ideologico-letteraria del poeta, che difficilmente può essere spiegata nel suo insieme se non si tiene conto del significato estetico di quel testo e della sua collocazione nella diacronia delle opere. 17
La parentela fra Tre donne e il Fiore è stata finemente osservata da Carlos López Cortezo (2000: 43-44), il quale ipotizza, inoltre (2000: 45-46), che il «numer de le trenta», del sonetto Guido i’ vorrei, potrebbe riferirsi al sonetto XXX del Fiore, nel quale Gelosia dispone un sistema difensivo che protegga il fiore dal desiderio di Amante. Lo studioso cita in particolare due versi (8-9): «Al secondo, la figlia di Ragione, / ciò fu Vergogna, che fe’ gran difensa», ed osserva che esistono precise analogie formali fra Vergogna e la seconda donna schermo (bella difesa in VII 1 e lunga difesa in IX 5). Salva la cronologia relativa (credo che la redazione del Fiore sia successiva a quella della Vita Nuova), concordo pienamente sulla forte imbricatura intertestuale del Fiore nelle altre opere di Dante. E relativamente alla allegoria di Vergogna, osservo che in Vita Nuova XXV 10 il rimatore che non sappia «denudare le sue parole» dalla «vesta o colore rettorico» per scoprirne il «verace intendimento» merita «grande vergogna», e che in Tre donne 37-39, Amore, quando finalmente Giustizia «fatta si fu palese e conta», viene preso da «doglia e vergogna».
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Si osservi anche il deciso rifiuto di Amante di seguire il consiglio di Ragione, rifiuto che costituisce una flagrante palinodia del solenne proponimento del poeta di seguire tale consiglio in Vita Nuova II 9: «la sua immagine ... nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire». I versi «Chéd egli è mi' segnor ed i' son seo / Fedel, sì è follia di ciò parlare» (XXXVIII 7-8) hanno una precisa corrispondenza con i primi capitoli della Vita Nuova, in parte confermando le ipotesi lì svolte («egli è mi’ segnor» = «ego dominus tuus», III 3), in parte smentendole, poiché la solidarietà lì affermata viene qui negata attraverso la contrapposizione fra le due ipostasi. Il naturalismo erotico di Jean de Meun va infatti nella direzione ideologica contraria alla lettura trascendente di eros che il libello si proponeva, e se questo significava una proposta di coesione e compromesso ‘teologico’ fra le varie componenti ideologiche attive a Firenze, la traduzione del Roman de la rose nel Fiore testimonia di una perentoria scelta in favore delle posizioni antireligiose dell’averroismo fiorentino (come mostrano, fra l’altro, le numerose citazioni da Cavalcanti). Bisogna, infatti, senz’altro collocare la composizione del Fiore dopo quella della Vita Nuova, ed intendere il poemetto come manifestazione di una crisi di credibilità nella trascendenza di eros (caratteristica del libello), collegata alla crisi politica del Comune degli ultimi anni del ‘300 (quindi il 1295, a suo tempo ipotizzato da Guido Mazzoni, appare come la data più probabile). Erich Köhler, osservando gli indizi di averroismo presenti nell’opera, giunse in effetti a conclusioni analoghe. Mi pare di poter leggere in questo senso (cioè di una palinodia nei confronti della Vita Nuova dettata dalla contigenza politica) la sorprendente occorrenza sintagmatica (ragione + consiglio) acutamente messa in luce da Natascia Tonelli (2005: 237): «consultando la base dati dell’OVI è possibile verificare come l’abbinamento ‘ragione+consiglio’ (nel ruolo appunto di determinante e determinato) sia inedito fino alla Vita Nova; e come poi aggioghi Vita Nova e Fiore a costituire una coppia che verrà raggiunta solo alla metà degli anni trenta del Trecento... ». La studiosa deduce dall’antitetico comportamento dei due amanti che diversi siano gli autori dei due testi. Se però si intende il Fiore come palinodia della Vita Nuova riguardo alla razionalità di Amore (come la canzone Amor che ne la mente lo è della ballata Voi che savete riguardo al disdegno della donna, o come il De Vulgari lo è del Convivio riguardo alla nobiltà del latino, e segue un lungo etc.), l’«aggiogamento» di Vita Nuova e Fiore prodotto dal sintagma «consiglio della ragione» diventa un prezioso elemento per ricostruire nelle sue tormentatissime fasi l’evoluzione della poetica di Dante. 19
Ne dà notizia Giovanni Villani nella Nuova cronica (Lib. 8, cap. 155): «De' miracoli che apparirono in Firenze per santa Maria d'Orto Sammichele. Nel detto anno (1292), a dì III del mese di luglio, si cominciarono a mostrare grandi e aperti miracoli nella città di Firenze per una figura dipinta di santa Maria in uno pilastro
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della loggia d'Orto Sammichele, ove si vende il grano, sanando infermi, e rizzando attratti, e isgombrare imperversati visibilemente in grande quantità. Ma i frati predicatori e ancora i minori per invidia o per altra cagione non vi davano fede, onde caddono in grande infamia de' Fiorentini. In quello luogo d'Orto Sammichele si truova che fu anticamente la chiesa di Sammichele in Orto, la quale era sotto la badia di Nonantola in Lombardia, e fu disfatta per farvi piazza; ma per usanza e devozione alla detta figura ogni sera per laici si cantavano laude; e crebbe tanto la fama de' detti miracoli e meriti di nostra Donna, che di tutta Toscana vi venia la gente in peregrinaggio per le feste di santa Maria, recando diverse 'magine di cera per miracoli fatti, onde grande parte della loggia dinanzi e intorno alla detta figura s'empì, e crebbe tanto lo stato di quella compagnia, ov'erano buona parte della migliore gente di Firenze, che molti benificii e limosine, per offerere e lasci fatti, ne seguirono a' poveri». Si noti la ripresa dell’argomento di Guido Cavalcanti («per invidia o per altra cagione non vi davano fede»). 20 Estremamente istruttiva, in tal senso, è la tenzone fra i due Guidi: in La bella donna, Cavalcanti prende in giro Orlandi sulla natura tutta terrena della sua amata, adeguata al livello ugualmente terreno (cioè disprezzabile) del suo intendimento («ch'al vostro intendimento si convene / far, per conoscer, quel ch'a lu' sia tale», 1314); Orlandi, in A suon di trombe, si schermisce subordinando il suo amore terreno a quello per la Vergine («per ch'io la Donna nostra / di su ne prego con gran reverenza», 8-9); Cavalcanti, in Di vil matera, gli dice, sprezzante, che non ha capito l’ironia del suo sonetto, perché in generale non capisce nulla né d’amore né di poesia («qual che voi siate, egli è d'un'altra gente: / sol al parlar si vede chi v'è stato», 1314); Orlandi, si trincera di nuovo dietro il suo (ridicolo) disprezzo per l’amore carnale («Io per lung' uso disusai lo primo / amor carnale: non tangio nel limo», 1516). Cfr. Favati (1975: 102-105). 21
Il momento a partire dal quale la politica fiorentina si inasprisce è il dicembre del 1294, quando Bonifazio VIII viene eletto papa (al posto di Celestino V, che era stato costretto ad abdicare), ed ha inizio la pressione sul comune (già profondamente diviso dalle leggi antimagnatizie) che dividerà il partito guelfo, fino ad allora dominante, nelle due note fazioni. D’altra parte, la partecipazione di Dante alla politica fiorentina inizia nel 1295. Proporrei senz’altro di collegare la composizione del Fiore alla esperienza politica del poeta, della quale il poemetto manifesta, sul piano letterario, la strenua posizione antipapale. 22
Nel sonetto XCII, Falsembiante si dichiara complice di coloro che hanno perseguitato Guglielmo di Sant’amore (condannato nel 1256 dal papa Alessandro IV per il suo attacco ai teologi francescani e domenicani attivi nella università), e della uccisione di Sigieri di Brabante (maestro nella facoltà di Artes della Università di Parigi fra il 1266 e il 1276 e teorico dell’aristotelismo radicale, richiamato a Roma
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Raffaele Pinto
ISOMORFISMI SESSUALI ED EMERGENZA DELL’IO
da Martino IV ed ucciso ad Orvieto nel 1284 circa): «Color con cuï sto si ànno il mondo / sotto da lor sì forte aviluppato, / Ched e' nonn-è nes[s]un sì gran prelato / C[h]'a lor possanza truovi riva o fondo. / Co·mmio baratto ciaschedun afondo: / Che sed e' vien alcun gra·litterato / Che voglia discovrir il mi' peccato, / Co·la forza ch'i' ò, i' sì 'l confondo. / Mastro Sighier non andò guari lieto: / A ghiado il fe' morire a gran dolore / Nella corte di Roma, ad Orbivieto. / Mastro Guiglielmo, il buon di Sant'Amore, / Fec'i' di Francia metter in divieto / E sbandir del reame a gran romore». 23
Molto diverso il senso ideologico della sessualità in Jean de Meun, che la giustifica a partire dai postulati del’aristotelismo radicale, cioè nel quadro di un materialismo che positivamente la rivendica come strumento di riproduzione della specie, rispetto al quale non solo l’ascetismo clericale ma anche il matrimonio appare come innaturalmente repressivo (questi fermenti di libertà sessuale, frutto della diffusione dell’aristotelismo, furono puntualmente messi all’indice dalle condanne vescovili parigine del del 1270 e del 1277). In Dante la ideologizzazione positiva della libertà sessuale è del tutto assente, e prevale l’atteggiamento opposto, puramente sovversivo e scandaloso, quindi comico, del discorso sessuale. Sul tema del piacere sessuale al servizio della continuità della specie, su cui non solo Jean ma anche i medici e i teologi di osservanza aristotelica (come Tommaso) esibivano una grande apertura ideologica, Dante è cinicamente indifferente: che la natura o Dio facciano quello che vogliono del fiore, a lui esso importa solo per il piacere che produce (XXXIX: «Di dilettar col fior no·me ne getti, / Faccia Dio po’ del fiore su’ piacere!»; cfr. Tonelli 2005: 239-245). Direi quindi che deve essere invertita la diagnosi di Luigi Vanossi sul significato politico-cultuale delle due opere (1979: 5758): ingenuamente utopico è il libertinismo di Jean de Meun; vibrante di attualissima polemica politica è, invece, la sessualità comicamente provocatoria di Dante. 24
Cito dalla edizione di Armand Strubel (de Lorris et de Meun 1992).
25 Il «pome d’ambre» appare, anche lì in rima con mambre, nei versi 19032-19036, in un passaggio nel quale Natura dichiara che tutto, nell’uomo è stato generato da lei: «C’est la fins de tout mon labour, / N’il n’a pas, se je ne li donne, / Quant a la corporel personne / Ne de par corps ne de par mambre, / Qui li vaille une pomme d’ambre». 26
In 54, 9-11, però, l’amico consiglia all’amante di dissimulare, per iscritto, i nomi autentici, ed utilizza una similitudine che attrae il pome nel campo concettuale della polisemia: «Ma nella lettera non metter nome; / Di lei dirai “colui”, di te “colei”: / Così convien cambiar le pere a pome». Nel sonetto XCIV, inoltre, appare una metafora che riprende la nozione di pome e che si irradierà nella Commedia, nel valore ideologico (ovviamente anticlericale) che ha nel Fiore. Falsembiante afferma
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che la salvezza non dipende dall’abito e conclude: «’Chéd e’ sareb[b]e troppo gran dolore / Se ciaschedun su’ anima perdesse / Perché vestisse drappo di colore. / Né lui né altri già ciò non credesse’: / Ché ‘n ogne roba porta frutto e fiore / Religión, ma’ che ‘l cuor le si desse». Il frutto della religione (cioè la salvezza) non dipende dall’abito che si indossa (la roba), ma dal sacrificio del cuore, cioè da una dedizione interiore sulla quale non ha alcun potere l’autorità clericale. Perfettamente allineato con il teorema di Falsembiante è la storia di Costanza nel discorso di Piccarda, che in Par. III 113-117 distingue fra le «sacre bende», la cui ombra le fu tolta dal capo, e il «velo del cor», dal quale la donna non fu «mai disciolta». E’ evidente la continuità del pensiero di Dante circa l’irrilevanza dell’abito religioso nel determinare il destino escatologico della persona, e quindi la sottrazione alla chiesa di ogni sostanziale funzione mediatrice nei confronti del destino ultraterreno dell’anima. E ritroviamo il concetto anche in Conv. IV xxviii 9: «Ché non torna a religione pur quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a Santo Domenico si fa d’abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore» (cfr. Vanossi 1979: 312). Se una ideologia è positivamente rintracciabile nel Fiore, è quella della imperscrutabilità del rapporto fra l’io e la divinità che anima tante pagine della Commedia, contro la chiesa ed in favore della libertà morale del soggetto. 27
Vedi, in particolare, il sonetto 229: «Tant'andai giorno e notte caminando, / Col mi' bordon che non era ferrato, / Che 'ntra' duo be' pilastri fu' arivato: / Molto s'andò il mi' cuor riconfortando. / Dritt'a l'erlique venni apressimando, / E·mantenente mi fu' inginoc[c]hiato / Per adorar quel [bel] corpo beato; / Po' venni la coverta solevando. / E poi provai sed i' potea il bordone, / In quella balestriera ch'i' v'ò detto, / Metterlo dentro tutto di randone; / Ma i' non potti, ch'ell'era sì stretto / L'entrata, che 'l fatto andò in falligione. / La prima volta i' vi fu' ben distretto». 28
Mi sembra di avvertire un’eco di questi versi anche nella proposta di Bonagiunta a Guinizzelli (Voi ch’avete, 9-14): «Così passate voi di sottigliansa, / e non si può trovar chi ben ispogna, / cotant’ è iscura vostra parlatura. / Ed è tenuta gran dissimigliansa, / ancor che ’l senno vegna da Bologna, / traier canson per forsa di scrittura». 29
La scena, nel suo insieme, deve essere letta alla luce della teoria medica dell’«amor hereos», que prescriveva, fra le terapie della malattia d’amore, l’esibizione degli aspetti ripugnanti dei genitali femminili al fine di destituire l’amata della immaginaria sacralità che ne fa oggetto di adorazione. 30
Sui moventi sessuali dell’Ulisse dantesco, rinvio a Pinto (2006).
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Sull’anticlericalismo sotteso alla fin’amor rinvio a Pinto (1994).
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