IL SENTIERO DI TIBURZI DOMENICO TIBURZI, nato a Cellere nel maggio 1836, fin da giovane aveva accumulato un sentimento di ribellione a causa dell’estrema povertà della sua famiglia, pur continuando a svolgere con tranquillità il mestiere di pastore e, in seguito, di buttero. Ben presto si era sposato con una donna che, morendo molto giovane, lasciò i due figli in affidamento ad alcuni parenti perché Tiburzi, al momento della scomparsa della moglie, era già latitante. Aveva infatti già iniziato a impegnare la giustizia a trent’anni, uccidendo Angelo Del Buono, un guardiano del marchese Guglielmi, che gli contestava un furto di erba. Catturato dopo due anni, fu condannato a 18 anni di lavori forzati. Aveva sperato di essere amnistiato con la caduta del potere temporale dei papi. Non fu così. Dovette allora ingegnarsi per trovare una soluzione differente: riuscì a fuggire con altri due reclusi dalla casa di pena di Porto Clementino, a Corneto Tarquinia, disarmando l’unica guardia presente. Rifugiatosi nella Selva del Lamone, accumulò ben presto numerose condanne. Tiburzi agiva in base ad un ideale molto confuso di giustizia sociale. Mentre da giovane aveva aderito all’attività clandestina della Lega Castrense, di indirizzo liberale, come brigante si era ritrovato a difendere i privilegi dei signori locali, sia pure in modo certamente inconsueto. Aveva infatti ideato la “tassa sul brigantaggio”, una sorta di assicurazione che i possidenti gli pagavano in cambio di protezione. Ma i soldi che prelevava ai ricchi, li elargiva con generosità ai poveri, in cambio di informazioni e servizi preziosi. Rigido nei suoi principi tanto da disdegnare accordi con i delinquenti, implacabile con i traditori e fedele con gli amici, nel corso della sua lunga carriera commise 17 omicidi, ma solo per difesa o per eliminare spie e compagni che non accettavano i criteri della banda, ovvero il rifiuto della violenza gratuita e la ricerca del consenso tramite elargizioni anziché minacce. “Domenichino” si atteneva infatti ai suoi comandamenti, una sorta di decalogo che prescri-
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veva, tra l’altro, di onorare i signori del luogo, aiutare i disgraziati e soprattutto di non fare la spia. Era inoltre contrario all’uccisione dei carabinieri, considerati “poveri figli di mamma” costretti dalla fame a fare quel mestiere, anche perché provocava un aumento della repressione. Durante gli anni trascorsi alla macchia Tiburzi aveva sempre cercato di condurre una vita quanto più possibile normale, mantenendo i contatti con la famiglia e tornando addirittura di nascosto a casa in occasione di avvenimenti importanti come la morte del figlio maggiore, il matrimonio di quello minore oppure la nascita di un nipote. Nell’estate del 1896, accompagnato da Fioravanti, era persino riuscito a recarsi alle Terme di Roselle, in provincia di Grosseto, per curarsi l’artrosi, ma soprattutto per cercare un rimedio ai dolori al ginocchio destro, postumi di una ferita infertagli nel corso dell’azione in cui aveva trovato la morte Domenico Biagini. Vecchio e zoppo, ostile ad accettare i vari mutamenti politici e sociali avvenuti negli anni della sua assenza e ignaro del cerchio che gli si stringe intorno, nella notte tra il 23 e il 24 ottobre 1896, in una casa colonica nei pressi di Capalbio (Forane), Tiburzi viene catturato dai carabinieri delle stazioni di Marsiliana e Capalbio. In quel casolare, abitato dalla famiglia Franci, dove Tiburzi e Fioravanti avevano chiesto (o preteso) ospitalità, ci fu una sparatoria e Tiburzi venne colpito ad una gamba. Quel che accadde in seguito non è chiaro. Secondo una versione furono i carabinieri ad ucciderlo con alcuni colpi di pistola; a parere di altri fu lo stesso “Re del Lamone” a suicidarsi, preferendo darsi la morte piuttosto che cadere nelle grinfie dell’“autorità costituita”. Ma se gli ultimi minuti della sua vita sono avvolti nel mistero, ancora più arcana, anzi, addirittura leggendaria, è la vicenda legata alla sua sepoltura. La versione più accreditata, ma anche la più fantasiosa, è quella secondo cui il parroco di Capalbio rifiuta di officiare un regolare funerale per “Domenichino” ritenuto un criminale, un peccatore, un senza Dio. Alla volontà del sacerdote si oppone però quella dell’intera comunità di Capalbio, che invece esige per il paladino dei diritti dei più deboli un’onorata sepoltura in terreno consacrato. Si arriva ad un compromesso: il corpo verrà sepolto in terra consacrata ma... solo per metà. L’altra dovrà restare fuori: gli arti inferiori restano dentro il camposanto, come vuole la tradizione, mentre la parte impura: testa, torace (e dunque l’anima) rimangono fuori.
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FARNESE, ISCHIA DI CASTRO, CELLERE e CANINO sono i centri storici lambiti da questo tratto del sentiero. Dal punto di vista naturalistico, consigliamo una visita alla Riserva Naturale Selva del Lamone, mentre dal punto di vista storico segnaliamo le rovine di CASTRO, il piccolo borgo di PIANIANO, i Romitori del FIORA, l’area archeologica di Vulci e il Museo Nazionale Vulcente. Lungo questo tratto, troverete i seguenti pannelli esplicativi: 34 Gli antichi mestieri del Lamone 35 La società anonima: rapimenti ed estorsioni 36 Le tombe dei Briganti 37 Farnese: centro storico 38 Castro: l’abitato e il Ducato 39 Le vie cave degli Etruschi 40 Ischia di Castro: centro storico 41 Quel giorno alla grotta del paternale 42 Cellere: centro storico 43 Il sanguinario Veleno e il povero parroco 44 Giuseppe Basili: una mina vagante 1a I Romitori del Fiora 2a Il Fiora 45 Canino: centro storico 46 Archeologia a Torre Crognola 47 Domenico Biagini, detto il “curato” 48 L’oasi del WWF 49 Luciano Fioravanti, strumento di vendetta
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’ultimo tratto del sentiero, intitolato al brigante Tiburzi, attraversa la Riserva Naturale della Selva del Lamone e il territorio della distrutta città di Castro, conducendoci infine a Vulci, nel territorio di Canino. L’itinerario, lasciato il crinale occidentale della caldera di Latera, scende a quote più basse, costeggiando per un tratto il fosso della Faggeta, nei pressi dell’antica Abbazia Cistercense di Santa Maria di Sala, che fu attiva per una cinquantina d’anni agli inizi del XIII secolo, diventando poi sede di eremiti. Subito dopo l’itinerario penetra nella Riserva Naturale della Selva del Lamone e l’ attraversa per circa 11 Km. La vegetazione della Selva è ricca di quasi un migliaio di specie, distribuite spesso in un intrico orrido, da cui è nata la fama di impenetrabilità del Lamone. Specie rare ed endemismi sono diffusi in tutta la riserva. Anche la fauna, molto ricca e variegata, appare interessante per la presenza di animali rari, come il gatto selvatico, il biancone e il gambero di fiume. La presenza stabile dell’uomo è documentata fin dal Paleolitico medio e giunge fino al Medioevo, con oggetti, resti di abitati (spesso fortificati), rovine di fattorie e chiese. Prima di arrivare
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a Castro, è possibile, attraverso una breve deviazione visitare i suggestivi centri storici di Farnese ed Ischia di Castro. Riprendendo il sentiero, misteriosa ed imponente appare la via cava, proprio sotto Castro, una profonda gola artificiale tagliata nel tufo che sale dall’Olpeta lungo uno dei versanti di monte Sorcano. Scendendo da Castro, verso la via cava, occorre prestare molta attenzione nel guadare il fiume Olpeta. Caratteristica di tutta questa zona è una serie di abitati rupestri, costituiti da grotte scavate nel tufo, utilizzate nel periodo Medioevale. Nelle vicinanze dell’imbocco della strada di Casale Mariotti si trova quello di Chiusa San Salvatore, distribuito sui dirupi che guardano il fosso del Paternale. Oltre alle grotte–abitazione si notano vie cave ed una enorme caverna naturale, la grotta delle Settecannelle, frequentata dall’uomo fin dal Paleolitico. Suggestivi, infine, alcuni romitori, ricavati nelle ripide pareti tufacee, che dominano il letto di alcuni affluenti del Fiora. I più interessanti sono quelli di Poggio Conte (del XIII sec.), nei pressi del Fiora arroccato sull’esedra naturale creata da una piccola cascata e di Ripatonna Cicognina (del XIV sec.), lungo l’Olpeta. In questa zona il corso del fiume Fiora attraversa per lo più un terreno calcareo, dovuto soprattutto a deposizioni travertinose, notevole è quindi la ricchezza di fenomeni carsici, con la presenza di un gran numero di grotte naturali, alcune delle quali si inoltrano per chilometri nel sottosuolo e spesso risultano utilizzate come santuari nell’età del Bronzo. La più importante di tutte è la cosiddetta grotta Nuova (o Bucone, o Infernaccio) lunga circa 1300 metri, comunicante con l’esterno sia nei pressi di Ponte San Pietro sia in località Pianetti. L’ingresso localizzabile nei pressi di Ponte San Pietro si presenta come un’enorme sala, percorsa da un fiume sotterraneo. I monti di Castro, naturale barriera alle colate del vulcano di Latera, nonostante la loro mole modesta, dominano tutto il paesaggio circostante, innalzandosi ripidamente dal fondo del letto del Fiora, che segna il confine tra le vulcaniti volsine e gli affioramenti della serie toscana. Superata la via cava, si prosegue lungo tipici paesaggi agricoli fino ad arrivare all’inserzione con una strada asfaltata all’altezza del pannello n. 44 (Basili: una mina vacante). Qui, proseguendo sulla sinistra dopo circa 5 Km. si arriva ad un nuovo incrocio con la S.P. Doganella: girando verso destra si prosegue verso Vulci mentre a sinistra ci si dirige verso Pianiano. Da questo piccolo e antico borgo, passando davanti al parco fluviale del Timone ed alla splendida Chiesa di S. Egidio è possibile raggiungere il centro storico di Cellere, paese natale di Tiburzi. Ritornando sui nostri passi, si prosegue alla volta di Vulci nei pressi del Ponte dell’Abbadia, costruito dagli Etruschi e più volte restaurato in epoca romana e medievale. È sorretto su due arcate, la maggiore delle quali ha una luce di circa venti metri e scavalca il Fiora da un’altezza di trenta metri. Attigua al ponte sorgeva l’abbazia di san Mamiliano, successivamente trasformata in castello, dove ha sede il museo storico archeologico di Vulci. Siamo ormai nel territorio del comune di Canino, centro famoso per la bontà delle proprie olive e dell’asparago verde denominato anche “mangiatutto”.
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La Selva del Lamone
FARNESE Il paese, caratterizzato da un aspetto squisitamente medievale, ancora intatto, è posto a quota 343 m s.l.m. ed occupa per intero la sommità di un pianoro tufaceo circondato da alte rupi, accessibile soltanto per breve tratto sul fianco orientale; è lambito dal fiume Olpeta, sorgente dal laghetto vulcanico di Mezzano. Nello stemma cittadino spiccano due simboli chiarissimi e tra loro collegati: la farnia (Quercus robur) allusiva del bosco (sing. “il farneto” > plur. “le farnete”) da cui pre•AGRITURISMO: Il Voltone T. 0761.422540 La Piana T. 0761.458684 Poggio Torreano T. 0761.458000 • RISTORANTI: La Vecchia Osteria T. 0761.458508 Il Giardinetto T. 0761.458305 Il Voltone T. 0761.422540 La Piazzetta del Sole T. 0761.458606 La Taverna dei Briganti Cell. 339.4853713 • BED & BREAKFAST: La Falegnameria T. 0761.458795 Il Bottino Cell. 339.4440995 • OSTELLI: Ortensi T. 0761.458580 • CASA PER FERIE: Santa Maria delle Grazie T. 0761.458089
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se il nome sia il borgo di Farnese sia l’omonima famiglia, e due gigli, segno primigenio della nobile casata farnesiana. Le origini di Farnese sono ancora incerte. Conobbe una presenza umana stabile già nel corso dell’età del bronzo finale (XII-X secolo a.C.) e, probabilmente, fu abitato anche dagli Etruschi, restando poi deserto per un lunghissimo periodo, forse fino all’Alto Medioevo. Tra l’XI e il XIII secolo appartenne agli Ildebrandini, famiglia di origine tedesca, ma già nel 1294 l’abitato venne in possesso dei Farnese che, a partire dagli inizi del XIV secolo, grazie soprattutto all’appoggio della S. Sede, ampliarono a più riprese i loro possedimenti. Dopo i tumulti provocati verso la fine del XIV secolo da scontri interni alla famiglia Farnese, a partire dall’inizio del XV secolo l’abitato, posto sotto un controllo farnesiano sempre più solido, seguì le fortunate sorti della famiglia ed attraversò senza scosse i secoli successivi, fino alla caduta del ducato di Castro (1649). Nel 1658 fu venduto alla famiglia Chigi, a cui venne tolto nel 1798 dalle truppe napoleoniche, facendo poi parte della Repubblica Romana; tornò, quindi, sotto il controllo diretto della S. Sede e venne successivamente acquistato dai Torlonia, prima di
Farnese
prendere parte all’Unità d’Italia. Nonostante le successive modifiche che ne hanno snaturato l’aspetto originario, la rocca Farnese (o palazzo Ducale) presenta ancora una forte personalità architettonica; forse realizzata su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, è abbellita da un grande portale attribuito al Vignola, delimitato da colonne bugnate e sovrastato da una loggia. Dalla rocca si stacca un viadotto monumentale, sostenuto su alte arcate, che conduceva al giardino privato dei Farnese, noto come “la Selva”; l’odierno palazzo Comunale, costruito dalla famiglia Chigi nel corso del XVIII secolo, ospita all’ultimo piano il museo civico “F. Rittatore Vonwiller”, dove sono esposti reperti protostorici, medievali e rinascimentali. A destra di palazzo Chigi fu costruita nel
1887 una fontana monumentale in relazione con il nuovo acquedotto; tra gli edifici religiosi si segnalano la chiesa parrocchiale del SS. Salvatore, più volte modificata sia all’interno sia all’esterno, con un pregevole tabernacolo cinquecentesco, il convento di S. Rocco, costruito nel XVII secolo, Numeri utili: COMUNE 0761 - 458381 ASS. PRO LOCO 0761 - 458381 CENTRO VISITE RIS. NAT. SELVA DEL LAMONE 0761 - 458849 MUSEO CIVICO “F. R. VONWILLER” 0761 - 458849
e la chiesetta di S. Anna, fuori del paese, risalente al XVI secolo ed abbellita da un ciclo di affreschi di Antonio Maria Panico.
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ISCHIA DI CASTRO Il centro storico di Ischia di Castro, la parte più antica, sorge su una rupe tufacea ad una altitudine di 384 m. s.l.m. alla confluenza di due torrenti, posizione che denota, secondo il parere di illustri studiosi, la sua origine Etrusca, della quale rimangono preziose testimonianze. In questo pianoro, dotato di buona posizione e di difesa naturale, vi posero dimora i suoi primi abitanti che vi praticarono l’agricoltura e la pastorizia. Il territorio circostante, nella sua vastità e varietà, è oggi in grado di offrire uno straordinario connubio di storia, archeologia e natura. Il nucleo abitativo più antico del paese conserva ancora oggi
e tortuose, le abitazioni addossate le une alle altre che rivelano, per le caratteristiche architettoniche, la condizione sociale degli antichi proprietari. Ischia fu uno dei primi feudi della famiglia Farnese che fece erigere il palazzo ducale, detto La Rocca, commissionandone la ristrutturazione all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane. Altri monumenti di interesse storico e artistico sono la Chiesina di S. Rocco, le cui origini rimangono ignote, in stile romanico a navata unica dove sono visibili affreschi del XIV XVI sec. il Duomo di S. Ermete edificato nel ‘700 opera dell’architetto Prada di Viterbo è così grande che sembra incastonata per forza nel • AGRITURISMO: piccolo borgo. La facCastro T. 0761.458769 ciata è in stile Barocco Le Chiuse T. 0761.424875 e l’interno è diviso in Montecalvo T. 0761.453025 tre navate con numeRiminello T. 0761.425418 rose cappelle laterali Antico Casale di Maremma T. 0761.425263 Il Prataccio T. 0761.425490 nelle quali sono pre• RISTORANTI: senti pregevoli opere Ranuccio II T. 0761.425119 di varie epoche. Di La Pineta T. 0761.425024 particolare interesse il Il Coccio T. 0761.425485 Fonte Battesimale del • BED & BREAKFAST: 1538, in travertino, I 3 gigli T. 0761.425255 l’affresco della Madonna del Popolo opel’impianto urbanistico, la fisiono- ra di scuola senese e due amboni mia tipica dell’epoca medioevale, di marmo, costituiti da due plutei, con il castello e le sue solide porte, provenienti dal duomo di S. Sai resti delle mura, le viuzze strette vino di Castro (sec. IX). Il San-
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Ischia di Castro
tuario della Madonna del Giglio, dedicato alla patrona del paese, è situato nella vallata sottostante il centro abitato e conserva l’affresco della Vergine risalente agli inizi del ‘400 e una crocefissione ed affresco, con evidenti motivi di scuola umbra ascrivibile alla fine del XV secolo. Della vastissima necropoli etrusca la parte più interessante è quella situata nei pressi del Santuario del Crocifisso di Castro. Di fronte ad esso c’è una tomba monumentale del VI secolo a.C.. Dello stesso periodo è la tomba denominata della biga di Castro dove è stato rinvenuto un rarissimo esemplare di biga etrusca trasferita al Museo della Rocca Albornoz di Viterbo. Infine il piccolo ma prezioso Museo civico, istituito nel 1958, dove è
allestita una ricca esposizione di vari reperti archeologici della vicina necropoli, fra cui alcuni vasi preistorici, preziose e raffinate sculture del VI sec. a.C. e vari reperti della città distrutta di Castro. Nei pressi del fiume Fiora, in un ambiente naturale incantevole, sorgono alcuni insediamenti rupestri monastici di epoca medioevale: i Romitori. I Romitori di Poggio Conte e Chiusa del Vescovo sono, tra tutti, quelli di maggiore interesse. Numeri utili: COMUNE 0761 - 425455 ASS. PRO LOCO 0761 - 425455 MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO “P. e T. LOTTI” 0761 - 425400
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CELLERE
Cellere
Come tanti altri borghi della Tuscia viterbese, anche il centro storico di Cellere sorge su di uno sperone tufaceo, stretto ed allungato, protetto da profonde gole scavate per millenni dalle acque; la sommità della rupe si distende per oltre un chilometro, a quota 342 m s.l.m. Dette i natali a Domenico Tiburzi, il più famoso e sanguinario brigante della Tuscia. La tradizione vuole che il nome di Cellere derivi da Cellae Cereris (“i granai di Cerere”), mentre in antichi documenti il paese è menzionato anche come Cellulae (“piccoli granai”) o come Castrum Cereris (“Castello di Cere-
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re”), evidentemente alludendo alla feracità di un suolo votato essenzialmente all’agricoltura estensiva, ma coperto anche di fitte boscaglie, dove viveva un’abbondante selvaggina, se nello stemma cittadino, accanto ai tre gigli riferibili al dominio dei Farnese, compare la nobile sagoma di un cervo. Le prime notizie di Cellere risalgono all’anno 737, quando venne redatto un atto di vendita relativo ad alcuni terreni situati nel fundus Cellulae, acquistati dal monastero di S. Salvatore sul monte Amiata. Nel 1180, non è certo se dall’antipapa Innocenzo III oppure dal pontefice Alessan-
Cellere: chiesa di Sant’Egidio
dro III, il borgo venne donato a Viterbo, sotto il cui controllo rimase fino alla metà del XIII secolo, passando poi sotto la signoria di Tuscania. Nel 1308 tentò, senza successo, di ribellarsi al dominio tuscaniese e nel 1351 fu conquistato da Giovanni di Vico, prefetto di Roma; venne liberato e riportato sotto il controllo della S. Sede per intervento del cardinale Albornoz nel 1354. Successivamente fu ceduto agli Orsini, che vi governarono a
lungo, per poi venire in dote ai Farnese, assieme al vicino borgo di Pianiano, a seguito del matrimonio tra Gerolama Orsini e Pier Luigi, figlio di Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III; nel 1537 Cellere venne in• RISTORANTI: Il Gabellino T. 0761.451304 • BED & BREAKFAST: Casale Bonaparte Cell. 349.2577459
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Vulci (Canino) castello e ponte dell’Abbadia
cluso nel ducato di Castro, di cui seguì le sorti fino al 1649, anno della distruzione di Castro voluta da papa Innocenzo X, tornando poi sotto il dominio diretto della S. Sede. Nel 1788 papa Pio VI lo concesse in enfiteusi al marchese Casali Patriarca e nel 1834 passò alla famiglia Macchi, sotto la cui proprietà il borgo medievale rimase anche dopo l’Unità d’Italia. All’estremità dell’abitato sorge la rocca, di origine medievale, ampliata e trasformata in lussuosa residenza dai Farnese nel corso dei secoli XVI e XVII; la chiesa
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parrocchiale, a tre navate, fu ricostruita quasi per intero nel 1929; pregevole esempio della sapienza architettonica di Antonio da Sangallo il Giovane è la rinascimentale chiesa di S. Egidio, patrono di Cellere, costruita appena fuori dell’abitato intorno al 1512, con pianta a croce greca, bassa cupola e facciate a timpano. Numeri utili: COMUNE 0761 - 451791 ASS. PRO LOCO 0761 - 451283
CANINO Siamo ormai in vista della Maremma. Le aspre rupi tufacee della zona vulcanica cominciano a stemperarsi, cedendo il posto alle vaste pianure ed alle basse colline calcaree della fascia costiera. Qui sorge Canino, famosa per gli uliveti, distesa lungo una dorsale tufacea a 212 m s.l.m. Nel suo territorio, delimitato verso sud-ovest dalle profonde forre del Fiora, si conservano le più importanti necropoli di Vulci, da cui cavarono tesori Luciano Bonaparte e i Torlonia. • AGRITURISMI Cerro Sughero T. 0761.437242 Le Cascine T. 0761.438941 Villa Rubens T. 0761.433313 • RISTORANTI: Lo Zodiaco T. 0761. 433355 Da Isolina T. 0761.437162 Villa Rubens T. 0761.433313 Vicomandi T. 0761.438295 Il Giardino T. 0761.438415 • BED & BREAKFAST: Oliveto dei Prischi T. 0761.437020 Fattoria dei Roggi T. 0761.439033 Le Palme T. 0761.438254
L’origine del nome, che secondo una tradizione sarebbe derivato da una presunta gens Caninia, originaria di Vulci, è probabilmente in rapporto con il cane, l’animale per eccellenza simbolo di fedeltà
ed amicizia, giustamente inserito anche nello stemma cittadino. Nonostante l’antichità ed il numero delle testimonianze archeologiche sparse nel suo vasto territorio, il primitivo nucleo abitato non sembra risalire oltre l’Alto Medioevo; è citato, difatti, per la prima volta verso la metà del IX secolo, in Numeri utili: COMUNE 0761 - 437001 ASS. PRO LOCO 0761 - 437001 MUSEO NAZIONALE VULCENTE 0761 - 437787
una lettera di papa Leone IV. Nel 1180, assieme a Cellere, venne donato a Viterbo da papa Alessandro III (meno probabilmente dall’antipapa Innocenzo III), come premio per l’appoggio dato da questa città alla S. Sede contro Federico Barbarossa. Sotto il governo viterbese Canino restò a lungo, fino al 1259, passando poi sotto il controllo di Tuscania. Nel 1317 fu occupato dai Farnese ma nel 1351, come altri centri della Tuscia viterbese, cadde nelle mani di Giovanni di Vico, prefetto di Roma; riportato sotto il potere della S. Sede dal cardinale Albornoz soltanto tre anni dopo, il borgo fu poi governato da castellani di nomina pontificia e, nella prima metà del XV secolo, fu concesso in vicariato a varie famiglie finché,
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L’ASPARAGO VERDE DI CANINO è un ortaggio destinato al consumo alimentare fresco e surgelato, che viene prodotto in un’area ristretta individuata in gran parte (90%) all’interno del Comune di Canino ed in misura minima nei comuni di Tessennano, Arlena di Castro e Tuscania. L’introduzione di questa coltura si deve ad una nota azienda agroalimentare che alcuni decenni fa in un proprio terreno sperimentò degli asparagi destinati alla surgelazione, con risultati lusinghieri che indussero a continuare l’esperienza sostituendo la varietà iniziale con un asparago più rispondente al consumo fresco. Le caratteristiche qualitative che rendono peculiare il prodotto dipendono dal colore completamente verde brillante su tutto il gambo e da una commestibilità eccelsa. Per l’uniformità su tutta la parte edule e per l’assenza di scarto viene definito “mangiatutto”; presenta inoltre una considerevole precocità della maturazione rispetto agli asparagi coltivati in altre zone. Le caratteristiche organolettiche dell’asparago di Canino dipendono essenzialmente dalla tipologia dei terreni di tipo calcareo, d’origine vulcanica e da un ambiente caratterizzato da un clima mite e temperato.
nel 1445, venne sotto la signoria dei Farnese. A Canino, nel 1468, nacque Alessandro Farnese che, eletto papa nel 1534 con il nome di Paolo III, fondò per la sua famiglia il ducato di Castro (1537). Dopo la caduta di quest’ultimo (1649) Canino tornò sotto il controllo della S. Sede. Divenuto capoluogo di cantone durante la parentesi napoleonica, Canino acquistò ulteriore prestigio con Luciano Bonaparte, fratello di Napoleone, che nel 1814 acquistò il feudo, ricevendo da Pio VII il titolo di “Principe di Canino e Musignano”. Nel 1853 i possedimenti di Luciano Bonaparte furono acquistati dai Torlonia, restando nella proprietà di questi ultimi
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a lungo, ben oltre l’Unità d’Italia. La chiesa collegiata dei SS. Giovanni e Andrea, costruita nel 1796, ospita una cappella di stile neoclassico contenente le tombe di Luciano Bonaparte e della sua famiglia; presso la chiesa si segnala una bella fontana con vasca dodecagonale, attribuita al Vignola. Il palazzo Bonaparte tradisce nelle sue severe forme architettoniche la mano del Valadier; al limite orientale dell’abitato sorge il maestoso complesso conventuale di S. Francesco, fatto erigere dai Farnese nel corso del XV secolo inglobando una chiesetta romanica dove, secondo la tradizione, avrebbe pregato il Poverello di Assisi.
la selva del lamone Una macchia ostile, fatta di sassi e di rovi, di sconfinate distese alberate, difficili da attraversare senza seguire i sentieri, dove chi non conosce profondamente i luoghi inevitabilmente si perde. “Entrammo poi in una foresta tale, che ci smarrimmo”, scriveva nel 1537 Annibal Caro, ed un secolo dopo, nel 1630, Benedetto Zucchi gli faceva eco, confermando i rischi che si potevano correre in un bosco dove “...se uno vi entra...con difficoltà vi può trovare la strada d’aver da uscire”. Questa selva, spesso dipinta dalla letteratura con contorni mitici ed inquietanti luogo comune tramandato da tradizioni tanto vecchie quanto al limite della superstizione, è in realtà uno dei luoghi più suggestivi e più intatti tra quanti se ne possano visitare nell’Alto Lazio. La porzione di questo immenso bosco compresa nel comune di Farnese è stata inserita nel 1994 nel sistema delle aree protette del Lazio. Nasce così la Riserva Naturale Selva del Lamone che, estesa per circa 1800 ettari, è destinata al corretto uso ed alla valorizzazione del territorio e delle sue risorse naturali. Incerta è l’origine del nome: “Amone” o “Ammone” nel XVI secolo, ma già “Lamone” nel secolo seguente, un termine altrimenti ignoto che, a dire di certo Luca Ceccarini, ottocentesco avvocato di Farnese, si sarebbe trattato
di una deformazione per “Lavone”, alludendo alla natura vulcanica del suolo da cui ha avuto origine la selva, costituito dai resti di un’immensa colata lavica. Ma ci piace pensare che il nome del Lamone, attorno al quale si sono accavallati nei secoli misteri e leggende, trasformandone gli alberi in giganti, gli animali in mostri ed i sassi in enormi macigni, sia nato proprio da quello del grande dio Ammone, padre di tutti gli dei tebani che, dispensatore di grandi ricchezze in Egitto, fu il solo in grado di trasformare una sterile distesa di sassi in una selva ricca e lussureggiante. Ammone > L’Ammone > Lamone: una discendenza sinonimo di ricchezza. Difatti, nonostante la fama di luogo aspro ed impenetrabile che la letteratura gli ha assegnato, il bosco del Lamone ha costituito per molti una sicura ed inesauribile fonte di guadagno, fornendo i mezzi di sostentamento non solo ai briganti che, nel corso del XIX secolo, vi avevano stabilito la loro dimora ed il loro teatro d’azione, come i famosi Tiburzi e Biagini, ma anche a ben più onesti lavoratori: pastori, contadini, cacciatori, boscaioli, carbonai. I pastori, un tempo certo più numerosi di oggi, guidano ancora lungo i sentieri della macchia piccole greggi di capre, che trovano ricco nutrimento nel fitto sottobosco, dando un latte dal sapore unico, con cui ven-
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Rifugio dei carbonai (foto M. Pinna - Eyes Group)
gono prodotti formaggi sublimi. E al pascolo sono ancora condotti anche i maiali che, nutrendosi soprattutto delle ghiande prodotte da una grande varietà di querce, crescono sodi ed asciutti, fornendo carni prelibate. Piccoli appezzamenti di terreno strappato alla macchia erano messi a coltivazione dai contadini che, come i pastori, vivevano in piccole e rustiche capanne. Una volta una delle attività più praticate nel Lamone era la caccia, rivolta a tutte le specie animali commestibili e, forse, anche a quelle che oggi nessuno più oserebbe assaggiare, tanta era l’indigenza. L’animale più ricercato, allora come adesso, era il cinghiale. Ma molti erano costretti a diventare cacciatori di frodo, per combattere la fame e la povertà, come quei due che, sorpresi dai Carabinieri nei dintorni di Ischia di Castro nel 1877, riuscirono ad evitare l’arresto e la galera, indicando il luogo in cui si nascondeva il brigante Biscarini con la sua banda.
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L’unica ricchezza concessa a tutti era la legna, che per moltissimo tempo è stata il solo combustibile a disposizione per cucinare e per scaldare la casa. Schiere di boscaioli erano continuamente al lavoro nelle macchie destinate al taglio periodico ed ogni famiglia di Farnese aveva diritto al “legnatico”, un uso civico che è tuttora in vigore e che dà diritto alla fornitura gratuita di un certo quantitativo di legna da ardere. Un mestiere ormai da tempo abbandonato, il più difficile e complesso tra tutti, era quello del carbonaio, praticato soprattutto tra il XVIII e la prima metà del XX secolo da lavoratori stagionali che venivano appositamente dal circondario di Arezzo; costruivano le loro capanne con legno e sassi, le coprivano con frasche e zolle di terra, aprivano nuovi sentieri per muoversi nella macchia e, quindi, creavano piccole piazzole di terra su cui costruivano le complesse strutture delle carbonaie.
castro la metà del VII e la fine del VI secolo a.C., prima di attraversare un lungo periodo di crisi, che durò fino alla metà del IV secolo a.C. Sopravvisse alla conquista romana del territorio vulcente (280 a.C.), fu attraversata dalla via Clodia e nell’VIII secolo, secondo alcuni autori, accolse il vescovo Bernardo, in fuga da Vulci, diventando sede di diocesi. Nel 1537 divenne la capitale del ducato che il pontefice Paolo III (alias Alessandro Farnese) creò per il figlio, Pier Luigi, e rappresentò la base di questa ardita famiglia, d’origine Alto Viterbese, per assicurasi il domino sui territori della Chiesa e successivamente su quelli della Lombardia, attraverso il Ducato di Parma e Piacenza. Il Ducato di Castro comprendeva un territorio delimitato tra i fiumi Fiora e Marta, il lago di Bolsena
Le rovine di Castro
Un pianoro tufaceo scavato sui fianchi da profonde gole ospitò Castro, una città etrusca vestita di forme rinascimentali, distrutta dalla storia, celata dal bosco, cancellata dall’avidità umana, alla ricerca dei suoi tesori. Quando Annibal Caro, tessendo le lodi di Castro, scriveva “...sorge ora con tanta e sì subbita magnificenza che mi rappresenta il nascimento di Cartagine”, non immaginava certo il realismo profetico delle sue parole, non immaginava che la capitale del ducato dei Farnese non solo sarebbe stata distrutta come Cartagine ma, subendo una sorte ancora più infausta, non sarebbe neanche più risorta dalle rovine. Secondo una tradizione medievale il nome di Castro deriverebbe da Castrum Felicitatis, in ricordo di una nobildonna di nome Felicità; in realtà, il toponimo latino Castrum indica semplicemente la trascorsa esistenza di un antico centro fortificato, il cui nome si è perso nei secoli. Erroneamente identificata con la celebre Statonia, Castro fu un’importante città etrusca, appartenente al territorio vulcente; sorta nel corso dell’VIII secolo a.C., visse un periodo di particolare floridezza economica tra
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Castro: via cava
ed il Mar Tirreno: vi erano annessi il Ducato di Latera e, sui Monti Cimini, la Contea di Ronciglione. Il piccolo stato nello stato ebbe come capitale questa suggestiva cittadina che nonostante il primo duca, Pier Luigi Farnese, si adoperò per realizzarvi dei palazzi e una cattedrale, pavimentandovi le strade, non si elevò mai al di sopra di una piccola cittadina. Il primo nucleo del Ducato fu realizzato con i possedimenti della moglie di Pier Luigi, Girolama Orsini, che portò in dote i castelli di Cellere e Pianiano. Visse un’esistenza breve, poco più di 110 anni, posto in ombra dal centro più raffinato e colto di Parma. Tra il 1641 e il 1644 fu occupata dalle truppe di Urbano VIII; poi restituita al duca Odoardo Farnese, nel settembre del 1649 venne nuovamente assalita, occu-
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pata e, questa volta, rasa al suolo dalle milizie di Innocenzo X, che sanava così l’enorme indebitamento dei Farnese, punendo al tempo stesso Ranuccio II, considerato il mandante dell’assassinio del vescovo Cristoforo Giarda, ucciso nel marzo dello stesso anno a Monterosi dai sicari del duca. Quel che appare oggi di Castro, definita la Cartagine della Maremma, è una visione triste; delle sue chiese, dei suoi palazzi, non rimangono che pochi ruderi coperti da una fitta boscaglia ma in parte ancora ben visibili: la cattedrale di S. Savino ed il convento di S. Francesco, il palazzo Ducale e la Zecca, gli avanzi delle imponenti opere di fortificazione del Sangallo, la piazza rinascimentale con la caratteristica pavimentazione a spina di pesce, i resti degli edifici circostanti. All’inizio del sentiero che dal parcheggio e dalla piccola chiesa porta all’antica città, un masso tufaceo recita: “Qui fu Castro”. Della Castro etrusca rimangono testimonianze nelle vie cave che circondano l’abitato e nelle tombe monumentali della necropoli, tra cui si segnalano la Tomba della Biga e la grande Tomba a Dado, situata di fronte alla chiesa del Crocifisso di Castro, con la sommità conformata ad altare e decorata in origine da grandi teste d’ariete. Sculture funerarie e ricchi corredi tombali sono esposti nel Museo Civico di Ischia di Castro.
Il borgo di Pianiano
pianiano
A poco meno di 4 chilometri da Cellere, tra boschi di querce e campi di grano, si trova il piccolo borgo di Pianiano. Comune autonomo fino al 1729, ancora intatto nella sua struttura medievale, con il vecchio castello completamente trasformato e la chiesa di S. Sigismondo, in parte ristrutturata. Il territorio di Pianiano, percorso da due affluenti del fiume Fiora (Strozzavolpe a nord e Timone a sud), è caratterizzato dalla macchia mediterranea e da terreni di origine vulcanica. Situato su una dorsale stretta e allungata, Pianiano è sorto nell’ambito delle lotte scatenatesi nel Medio Evo per il predominio sul territorio nord-occidentale del Viterbese. Tali lotte si conclusero con l’affermazione dei Farnese che riuscirono ad eliminare la concorrenza di Viterbo, di Orvieto, di Pitigliano e di Siena.
La storia documentabile di Pianiano è chiaramente assai simile a quella di Cellere confinante e, in linea di massima, la “fortificazione” è sempre appartenuta ai Farnese dal trecento in poi. Infatti, è opinione comune, che quando venne istituito il Ducato di Castro (1537) Paolo III (alias Alessandro Farnese) non specificò nella bolla né Pianiano né Cellere perché erano già antichi possedimenti dei Farnese. Nel 1630 “ Piandiana” o “Plandiana” contava “60 fuochi (abitazioni) con 150 anime ed il borgo esterno era più grande di quello antico piccolo luogo rinchiuso”. Con la distruzione della città di Castro (1649), ha inizio per il borgo di Pianiano un lento declino che diventerà inarrestabile. Gli abitanti, “avvilite assai per conoscere che vi si campa poco
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Il borgo di Pianiano
tempo, causato ciò ancora dal mancamento del traffico e dall’ozio”, sottoposti alla insidiosa presenza della malaria, cominciano ad abbandonare il castello. La situazione di grande indigenza che si era gradualmente venuta creando, portò gli abitanti alla risoluzione di operare l’unione con Cellere “ per poter godere del monte frumentario dei celleresi e di altri privilegi”. I consigli comunali dei due paesi decidono l’unione quasi in simultanea: Pianiano delibera la mattina del 6 marzo 1729. La decisione fu osteggiata all’inizio da alcuni, ma poi venne suggellata dal pontefice Benedetto XIII in data 28 novembre 1729. Nel 1734, il borgo è del tutto abbandonato. Tale situazione, che comporterà gravi perdite erariali, si protrarrà fino al 1756, cioè
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fino a quando, per volere del governo pontificio, non si verifica l’arrivo di un gruppo di emigrati Albanesi, provenienti da Ancona, dove erano sbarcati. Comunque, già nel 1805, a Pianiano si contano solo 15 famiglie che negli anni successivi cominciano a trasferirsi, in massima parte, a Cellere e a Ischia di Castro. Nel 1844, non viene nominato nessuno per coprire il posto vacante di direttore spirituale e, l’anno successivo, il vescovo di Acquapendente, nella sua relazione dopo la visita pastorale, registra la presenza di tre sole famiglie: Mida, Codelli e Micheli. A Pianiano, degli Albanesi non è rimasto che una via a loro intitolata ed una tela “orientaleggiante” nella chiesa parrocchiale di S. Sigismondo.
i romitori del fiora IV secolo, teorizzò questo nuovo modo di vivere la spiritualità cristiana, prendendo spunto dalla vita di S. Antonio Abate, il primo eremita della storia. Il monachesimo conobbe una particolare fortuna, perdurando per un lunghissimo periodo, dall’Alto Medioevo al XIX secolo. Non sappiamo con certezza quale origine avessero i primi
Romitorio di Poggio Conte
Il fiume Fiora, l’etrusco Armine, lo storico fiume di Vulci, citato più volte dalle fonti classiche e testimone diretto del più antico popolamento delle nostre contrade, scorre per lunghi tratti tra forre profonde, scavate dal suo corso millenario ora nel travertino ora nelle rocce vulcaniche. Nel comune di Ischia di Castro la sua valle è delimitata da alte rupi tufacee all’interno delle quali, nel corso dell’Alto Medioevo, alcuni monaci in fuga dalle tentazioni del mondo scavarono la loro dimora, per sentirsi più vicini a Dio ed al Creato, inebriati dal frastuono silenzioso della natura. Nacquero così vari romitori (o eremi) rupestri, caratterizzati da architetture piuttosto complesse, comprendenti sia le abitazioni degli eremiti sia il luogo di culto. Scaturirono dal fenomeno del monachesimo, introdotto in Italia da S. Atanasio di Alessandria che, verso la metà del
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Fiume Fiora
monaci che giunsero nelle forre del Fiora, ma potrebbero essere stati profughi greci o armeni, scampati alle persecuzioni iconoclaste. Scalarono quelle rupi che, probabilmente, ricordavano loro i paesaggi che avevano abbandonato per sempre, impugnarono i ferri e cominciarono a scavare la roccia, per portare a termine il loro voto. Fecero questo più volte e in vari modi, lasciandoci pregevoli esempi di architettura e d’arte sacra, alcuni segnati dai nomi di Santi (Vincenzo, Macario, Biagio) altri da nomi d’incerta origine (Poggio Conte, Ripatonna Cicognina). Con ogni probabilità questi eremi dipendevano dall’abbazia
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benedettina di S. Colombano, da tempo scomparsa, ma già esistente nel IX secolo. Uno dei romitori più interessanti è quello di Poggio Conte, scavato in località Chiusa dell’Armine secondo tipologie architettoniche di ispirazione cistercense. Gli ambienti di abitazione sono quasi del tutto franati, mentre si conserva la piccola chiesa, composta da due ambienti quadrangolari, con copertura a cupola quello d’ingresso, mentre quello di fondo ha una volta a crociera ed un’abside con resti di un affresco raffigurante due santi mitrati, forse S. Colombano e S. Savino. L’ambiente d’ingresso era decorato da un grande ciclo di affreschi del XIII secolo, comprendente le figure dei dodici apostoli e del Redentore. Di questo ciclo, trafugato nel 1964, sono stati recuperati soltanto sei pannelli, oggi esposti nel Museo civico archeologico di Ischia di Castro. Molto più complessa appare la planimetria dell’eremo di Ripatonna Cicognina, a Chiusa del Vescovo, scavato su tre diversi livelli e frequentato dal XV al XVII secolo; all’epoca del primo impianto sembrano riferibili gli affreschi di scuola senese che decorano la chiesa, raffiguranti S. Antonio Abate ed un Santo vescovo.
VULCI redi funerari di tombe del periodo orientalizzante ed arcaico, classico ed ellenistico. Unico lo scenario offerto dal ponte dell’Abbadia che scavalca, ad oltre trenta metri di altezza, il letto del fiume Fiora. La struttura fu realizzata dagli Etruschi con blocchi squadrati di tufo per la parte inerente ai piloni; successivamente, in epoca romana, furono innestati i rivestimenti di travertino e nel Medioevo le arcate che producono il caratteristico profilo “a schiena d’asino” tanto suggestivo alla vista. Della Necropoli Vulcente solo alcune, delle numerose tombe, sono visitabili in località Ponterotto. La più famosa e importante è senza dubbio la tomba François (metà del IV secolo a.C.); meritano atten-
Vulci: Museo Vulcente
Una vasta piattaforma calcarea protesa da un lato sul fiume Fiora ospita i resti di Vulci, una delle più grandi città-stato dell’Etruria. Il Castello e il ponte dell’Abbadia, che si ergono, evocativi, su tutta l’area, conferiscono al luogo un notevole fascino. Il Castello fu costruito nel Medioevo con aggiunte e rifacimenti cinquecenteschi e fu la sede della Dogana Pontificia al confine con il Granducato di Toscana. Dal 1975 è sede del Museo Nazionale Vulcente: il salone a piano terra ospita ricco materiale degli abitati e delle necropoli della media valle del Fiora del periodo Neolitico e Protovillanoviano. Nelle tre sale del primo piano sono esposte significative testimonianze di cor-
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Vulci, ingresso del Museo Vulcente L. Funari 2003
zione le tombe dei Tute (IV secolo), dei Tarna e dei Tori con dieci sarcofagi esposti, dei Tetnie o dei “Due Ingressi”, delle “Iscrizioni”, della “Cuccumella”. Dell’antica Civita o Urbe, che aveva una estensione di 90 ettari con una cinta muraria a cinque porte, sono state rinvenute le mura urbane, il decuma-
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no (strada con basalto del periodo romano), il tempio e la domus del Criptoportico. Scendendo lungo il Fiora si arriva al Ponte Rotto, risalente al I secolo a.C.. Lungo 85 metri il ponte romano si componeva di cinque arcate e si collocava sulla Aurelia Vetus diretta verso la porta est delle mura urbane.
IL LIQUORINO DI VELENO Un brigante da manuale, enorme, con una lunga barba nera, occhi di fuoco, che sembrava il diavolo in persona, mani grosse come pale, cappellaccio floscio, cosciali di pelle di capra; questo faunesco individuo era Angelo Scalabrini detto “Veleno” ed anche “Magnone”. Armato fino ai denti, con fucile, pistola e coltellacci, trascorreva la sua latitanza, al tempo di Tiburzi e Biagini, nelle macchie di Farnese e di Castro, recandosi ogni tanto nel Grossetano, per commettere le sue grassazioni. Più che le armi, bastavano la sua figura imponente e diabolica, comparsa all’improvviso e le sue manacce strette al collo a terrorizzare le sue malcapitate vittime, che lasciavano in fretta i loro averi in cambio della vita. Quel malandrino faceva proprio impressione ed una volta, mentre si accingeva a rapinare un passante, questi gli svenne davanti per la paura. A quella vista Veleno, senza pensarci due volte, cercò di rincuorare
la vittima e, per tirarlo su, gli offri un bicchierino di liquore. Quando quello si fu ripreso, le fredde canne della doppietta lo convinsero a dare al brigante tutto quello che aveva. Durante le sue peregrinazioni, nei pressi di Pianiano, frazione di Cellere, ebbe occasione di conoscere una donna trentenne, di origini albanesi e di innamorarsene. Si trattava di una certa Fiorangela Codelli, che in seguito diventerà una delle amanti di Tiburzi. Allora faceva da perpetua (e non solo, affermano i soliti maligni) a don Vincenzo Danti, curato del piccolo borgo. Questo amore tra la fantesca ed il brigante non andava giù al sacerdote, che mandò a dire allo Scalabrini di smetterla e stare lontano. Figuratevi Veleno, a questo punto, oltre che arrabbiato, divenuto geloso del prete, intimò al sacerdote di stare alla larga della bella Fiorangela, pena l’evirazione. Don Vincenzo, abituato a combattere con i diavoli, infernali o terreni che fossero, non si impaurì per niente e, anzi, continuava nell’opera di convinzione della perpetua ad abbandonare il Bandito. Alla fine lo Scalabrini si stufò e dalle parole passò alle vie di fatto. La mattina del 4 agosto 1886 attese il curato, che si
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“...Il furibondo malandrino aveva già appoggiato le canne della doppietta sul petto del curato, pronto a sparare... il parroco con la rapidità di un fulmine, tirò fuori dall’altra tasca della tonaca, un lungo coltellaccio e vibrò due stoccate al ventre del bandito...”
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recava a celebrare la messa, alla fonte, appena fuori dal villaggio e, sotto la minaccia della doppietta gli intimò, assieme ad un suo servo, di andare avanti. Percorso circa un chilometro giunti in un luogo deserto, in località Banditella, presso l’Arco delle Nette, in un posto detto (scherzo ironico del brigante) “Cappella del prete”, Veleno ordinò al parroco di prostrarsi a terra, perché era giunta la sua ultima ora. Il prete, a quella feroce ingiunzione, iniziò a pregare ed implorare il feroce aggressore di risparmiargli la vita. Ma tutto fu inutile. Il furibondo malandrino aveva già appoggiato le canne della doppietta sul petto del curato, pronto a sparare. Vistosi perduto, don Vincenzo, per allungare il tempo e trovare una soluzione, chiese all’imbufalito Scalabrini di prendere un suo fazzoletto dalla tasca, per bendargli gli occhi, mentre il brigante, posato il fucile lo frugava per trovare il fazzoletto, il parroco con la rapidità di un fulmine, tirò fuori dall’altra tasca della tonaca, un lungo coltellaccio e vibrò due stoccate al ventre del bandito, poi una terza sulla parte alta e sinistra del petto. Bello scherzo da prete! Ne seguì una feroce colluttazione in cui
il povero Veleno, ormai in fin di vita, tentò di strangolare il sacerdote e di scassargli la testa affibbiandogli violenti pugni sul capo. Alla fine il brigante morì dissanguato. Chiamati i militari, questi pensarono bene di attribuirsi l’uccisione del bandito, sparando due colpi sul cadavere. Il corpo venne caricato su un asino ed esposto per ventiquattro ore sulla piazza di Cellere e quindi sepolto in terra sconsacrata in località Tufelle. Un’altra versione dice che il corpo del terribile brigante fu portato a Farnese e sepolto, senza cassa, in una fossa scavata nel tufo appena fuori dal cimitero. Per la fretta il bandito venne ricoperto soltanto da un palmo di terra. Una notte si scatenò un temporale che scavò la sepoltura, riportando alla luce il corpo di Veleno, il cui volto appariva ancora più terribile per una specie di ghigno feroce che esprimeva. Si provvide a scavare di nuovo la fossa per renderla più profonda; ma un’altra pioggia portò via la terra della sepoltura, scoprendo di nuovo il cadavere. Allora i farnesani, forse per paura o forse per pietà, si decisero a seppellire i miseri resti del brigante all’interno del cimitero.
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Qui finisce... l’avventura!
Alla fine fu preso, alla fine fu ucciso!
Domenico Tiburzi era il suo nome E nelle notti tristi e senza luna Col suo fucile stretto sopra il cuore Sfidava la tempesta e la fortuna... Si dice che una sera alle Forane Mentre felice con gli amici sta... Scatta l’agguato e non si salverà. Così nel camposanto fu portato... Per metà nel terreno consacrato per metà nell’eterna perdizione Poesia - canzone tratta dal film “Tiburzi” di P. Benvenuti, 1996 Tiburzi, una volta esanime, fu legato a una colonna e fotografato con tanto di fazzoletto al collo e armi: questa è l’unica immagine del brigante giunta fino a noi
Con questa ultima ed emblematica foto termina il nostro viaggio nel tempo. Il vecchio brigante maremmano, con tutto il suo armamentario è morto! Con il suo cadavere si allestisce l’ultimo spettacolo: il fucile tenuto con una “strana” mano, lo sguardo senza espressione, il cappello a coprire i danni subiti alla testa sono le ultime immagini del brigantaggio Maremmano e dell’Alta Tuscia. Restano i luoghi, la memoria, la leggenda, l’atmosfera... resta
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INDICE Presentazione Il Sentiero dei Briganti I protagonisti del nostro viaggio
Il Sentiero di Fioravanti Proceno Acquapendente La riserva naturale Monte Rufeno Il covo dei briganti Il Biscino
Il Sentiero di Ansuini Onano Grotte di Castro San Lorenzo Nuovo Gradoli La necropoli di Pianezze Il lago di Bolsena Frate Formica e i briganti Vita da briganti
Il Sentiero di Menichetti Latera Valentano Il lago di Mezzano L’ira di Basilietto, nemico dei mercanti
Il Sentiero di Tiburzi Farnese Ischia di Castro Cellere Canino La Selva del Lamone Castro Pianiano I romitori del Fiora Vulci Il liquorino di Veleno Qui finisce l’avventura!
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MARCHIO COLLETTIVO “PRODOTTI TIPICI ALTA TUSCIA” La Patata dell’Alto Viterbese, il Fagiolo del Purgatorio di Gradoli, l’Aglio Rosso di Proceno, il Cece del Solco dritto di Valentano, il Farro del Pungolo di Acquapendente, il Coregone del lago di Bolsena, il Marrone di Latera, la Lenticchia di Onano, il Miele di Monte Rufeno, il Fagiolo secondo di S. Lorenzo Nuovo sono i “gioielli” di questo territorio:
I PRODOTTI DELLA NOSTRA TRADIZIONE L’utilizzo del marchio collettivo “Prodotti Tipici Alta Tuscia”, è consentito solo agli agricoltori che: - rispettano quanto stabilito nei singoli disciplinari di produzione; - coltivano i prodotti all’interno delle aree stabilite; - conferiscono i loro prodotti presso la struttura di pulitura e confezionamento realizzata dalla Comunità Montana. Una numerazione progressiva è attribuita ad ogni produttore e a ogni singolo lotto produttivo, da questa numerazione è possibile risalire immediatamente al coltivatore. Grazie a questo sistema, la Comunità Montana è in grado di garantire la provenienza, il rispetto di tecniche di coltivazione stabilite e la tracciabilità delle produzioni. Acquistare prodotti con il marchio “Prodotti Tipici Alta Tuscia” significa, in definitiva, consumare un prodotto sicuro e proveniente da un ambiente sano, nel quale coltivare ha ancora un significato diverso da produrre. Nella realizzazione della guida è stata posta la massima attenzione per garantire l’attendibilità e l’accuratezza delle informazioni. Tuttavia l’Ente non può assumersi la responsabilità dell’assoluta esattezza per errori e/o omissioni relativi ai dati dei singoli esercizi pubblici. Ringraziamo quanti volessero segnalarci eventuali inesattezze che verranno puntualmente rettificate nella prossima edizione.