UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI MILANO-BICOCCA Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa” Corso di Laurea Magistrale in Scienze Pedagogiche
I BAMBINI ADOTTATI NELLA SCUOLA PRIMARIA: UN APPROFONDIMENTO CRITICO
RELATORE: Prof.ssa Elisabetta NIGRIS CORRELATORE: Dott.ssa Luisa ZECCA
Tesi di Laurea: Carlotta CORINO Matr. N. 723496
Anno Accademico 2013/2014
A tutti i bambini.
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Indice Introduzione
p.5
Capitolo primo L’adozione 1. La storia dell’adozione
p.7
1.1 Verso il cambiamento
p.11
1.2 Nuovi ruoli. Nuove leggi. Nuove idee.
p.13
1.2.1 Leggi sull’adozione
p.16
1.3 Il procedimento di adozione
p.28
1.4 La famiglia, o meglio, le famiglie, oggi
p.32
1.4.1 Un breve viaggio alla scoperta delle famiglie
p.37
Capitolo secondo I bambini e la scuola primaria 2. Premessa
p.42
2.1 L’inserimento scolastico
p.43
2.1.1 I bambini adottati e l’ingresso nel mondo scolastico 2.2 Stare bene a scuola 2.2.1 La scuola e la famiglia adottiva
p.44 p.50 p.58
2.3 Difficoltà scolastiche, disturbi. Ieri e oggi.
p.60
2.4 Il significato del successo scolastico
p.78
Capitolo terzo La metodologia 3. La mia domanda di ricerca
p.82
3.1 Le interviste
p.84
3
3.1.1 Cosa significa intervistare
p.86
3.1.2 Le mie interviste
p.89
Capitolo quarto La parola agli insegnanti 4. I soggetti della ricerca
p.95
4.1. L’analisi delle interviste
p.99
4.1.1 L’adozione
p.100
4.1.2 I bambini, oggi
p.104
4.1.3 I bambini adottati, oggi
p.106
4.1.3.1 I bambini adottati a scuola: comportamenti e problematiche
p.116
4.1.4 Le famiglie
p.119
4.1.5 La scuola primaria
p.124
4.1.5.1 La scuola
p.124
4.1.5.2 Le strategie
p.126
4.1.5.3 Le difficoltà
p.129
4.1.5.4 Le risorse
p.131
4.1.5.5 Parlare di adozione in classe?
p.132
Conclusioni
p.136
Ringraziamenti
p.138
Bibliografia
p.140
Sitografia
p.150
Allegati Testimoni privilegiati intervistati
p.151
4
Introduzione L’ingresso nel mondo scolastico rappresenta una delle più importanti tappe nello sviluppo e nella crescita di ogni bambino. Un momento in cui il piccolo si allontana dalla famiglia, per trascorrere la maggior parte delle ore della giornata insieme a coetanei e ad adulti. Il bambino entrerà a far parte di un nuovo ambiente, con nuove regole e nuove richieste. A partire da questa consapevolezza, mi sono chiesta: come potrà avvenire questo passaggio, per un bambino adottato? Un momento in cui riceverà nuove richieste di prestazioni e di maggior impegno? Ho così dato inizio alla presente ricerca, nata appunto dall’interrogativo sull’inserimento del bambino adottato, nella scuola primaria. Per comprenderlo, mi sono innanzitutto documentata su ciò che significa adozione, oggi. Essendo un istituto giuridico molto antico, mi sono informata su come essa sia cambiata con gli anni. Ho tentato di far emergere in particolar modo aspetti legislativi, connessi chiaramente ai cambiamenti sociali che hanno riguardato il nostro paese. È stato molto interessante un approfondimento teorico come quello legislativo: ho potuto comprendere alcuni cambiamenti, che vedo e che mi sono stati raccontati, sui bambini adottivi e sulle loro famiglie. Basti pensare che attraverso la Convenzione dell’Aja, del 1993, si è stabilita come necessità quella di trovare una famiglia a un minore in stato, accertato, di abbandono materiale e morale, primariamente nel suo paese di origine. Solamente in caso di non reperibilità a livello nazionale, si potrà cercare una famiglia per il bambino anche a livello internazionale. Ecco perché, oggi, i bambini adottati tramite internazionale sono così.. grandi. L’adozione, quindi, sarà il tema trattato nel primo capitolo della presente ricerca. Come secondo passaggio, e dunque capitolo, mi sono focalizzata sulla scuola di oggi. Come siamo giunti all’odierna situazione della scuola italiana, chi sono i bambini che la vivono oggi e, se e quando le presentano, che tipo di difficoltà possono emergere tra i banchi di scuola. Chiaramente, ho tentato poi di trasporre la presente lettura, anche attraverso la condizione dei bambini adottati. Quindi, come possono inserirsi i bambini adottati? Come viene vissuta l’esperienza scolastica da loro stessi e dai loro genitori?
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A questo punto, le nozioni trovate sui testi e sugli articoli non mi sono bastate. Ho voluto ascoltare la voce di chi ha a che fare con i bambini adottati quasi quotidianamente. Ho così utilizzato lo strumento qualitativo dell’intervista per ascoltare sette esperti di adozione: psicologi, assistente sociale e psicoterapeuti, di Milano e di Genova. Dalle loro riflessioni e dalla letteratura di riferimento, ho elaborato interviste cui sottoporre dieci insegnanti e un’educatrice di scuola primaria, che avessero avuto o meno esperienza con bambini adottati. Le loro parole sono state molto preziose e un interessante spunto di riflessione per arricchire questa copioso lavoro. Sono emersi elementi che riguardano sia i bambini adottati, sia in generale i bambini che vivono la scuola italiana oggi, comprendendo anche chiaramente il rapporto con i genitori adottivi, con la scuola e le istituzioni.
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Capitolo primo L’adozione 1. La storia dell’adozione L’adozione imita la natura, si affermava al tempo dell’antica Roma (..): se la natura è stata avara e non ha reso fertile il grembo di una donna, la collettività ha riconosciuto il valore sociale di questa pratica, e più tardi, quando si è evoluta in società formalmente organizzata con leggi scritte, ha previsto nel proprio sistema una norma che segna un percorso procedurale, seguendo il quale, a imitazione della natura, verrà dato a quella donna e al suo compagno un bambino generato da un’altra donna che, per le più diverse ragioni non è in grado di allevarlo. In tal modo l’interesse della coppia desiderosa di un figlio viene coniugato con l’interesse della madre impossibilitata a prestare al neonato le cure necessarie1.
Per approfondire un tema così ampio e complesso quale l’adozione, ho voluto cominciare riflettendo sulla sua storia: quando è nata, come si è evoluta e come siamo giunti a quella attuale. Come tutti i fenomeni “antichi”, anche l’adozione ha subìto negli anni alcuni importanti cambiamenti. Si sono modificati innanzitutto aspetti a livello giuridico, come vedremo più avanti, aspetti riguardanti i soggetti, le procedure, con parallelamente un profondo cambiamento della concezione dell’infanzia, della famiglia e quindi del rapporto tra genitori e figli. L’adozione è un istituto giuridico antichissimo2, vecchio quanto il mondo 3. In effetti si possono rintracciare le prime testimonianze di atti di adozione addirittura in Mesopotamia, nel codice di Hammurabi, una delle più antiche raccolte di leggi. Esso è 1
Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 9 2 Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 89 3 Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 34
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stato stilato dall’omonimo re, vissuto probabilmente nell’intervallo tra il 1600 e il 1800 a.C. Quattro articoli del codice riguardano, in particolare, l’adozione in quanto fenomeno giuridico: •
art. 185, se un uomo adotta un bambino, che porta il suo nome, il figlio adulto non potrà più essere reclamato;
•
art. 186, se un uomo adotta un figlio, e dopo questi ferisce suo padre e sua madre che lo hanno nutrito, allora questo figlio adottivo deve ritornare nella casa da cui è venuto;
•
art. 188, se un artigiano ha cominciato ad allevare un bambino e ad insegnargli la sua arte, questo non potrà dopo essere reclamato;
•
art. 190, se un uomo non cura un bambino che ha adottato come figlio e (non lo) alleva con altri bambini, allora questo figlio adottivo può ritornare nella casa dove è nato. Insomma è stato il primo atto giuridico che ha previsto diritti e doveri dei genitori adottivi e di quelli biologici. Ma il Codice di Hammurabi non è la sola testimonianza dell’adozione in quanto fenomeno antico. Infatti sono state ritrovate delle tavolette, a Nuzi, antica città mesopotamica, che contengono documenti legali e pratiche sociali 4, in cui, per esempio, si distingueva tra adozione servile, con cui veniva riconosciuto il vincolo tra un uomo o una famiglia e il padrone in cambio di vitto, alloggio e vestiario, e adozione matrimoniale, legata invece a interessi economici. E ancora, nell’antico Egitto l’adozione era ammessa per chi era privo di figli, in modo da potersi assicurare la successione; persino alla donna veniva riconosciuta la possibilità di adottare e di essere adottata. L’adozione nell’antica Grecia, simile a quella egiziana, riguardava essa stessa un modo per garantire la successione a chi non aveva prole. Dunque, si può evincere che nell’antichità l’adozione (..) rivestiva una funzione essenzialmente patrimoniale. (..) Erano risolti i problemi di successione nelle famiglie prive di discendenza, o riconosciuto ai figli nati fuori del matrimonio il diritto ad ereditare5. 4
Terino A., Le origini. Bibbia e mitologia. Confronto fra Genesi e mitologia mesopotamica, Gribaudi, Torino, 2004, p. 63 5 Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 89
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Certamente, man mano con nuovi studi e idee, ci si comincia a orientare verso una diversa concezione d’infanzia, di bambino, per esempio già a partire dal 1700, grazie a John Locke, Jean-Jacques Rousseau e Johann Heinrich Pestalozzi 6. Ma in generale, fino circa la metà del secolo scorso, l’adozione è stata considerata una risposta al bisogno-desiderio di una coppia sterile, e non alla necessità di accudimento di un bambino abbandonato (..); essa inoltre riguardava indifferentemente maggiorenni e minorenni e non interrompeva i legami giuridici con la famiglia di origine; assicurava alla famiglia adottante un erede, in grado di garantirne la discendenza, trasmettendo il cognome7. Si creava un vero e proprio accordo tra capi famiglia, con cui il ragazzo adottato entrava a far parte della nuova famiglia e continuava a mantenere i legami con la famiglia d’origine. Il fine rimaneva quello di soddisfare le esigenze dell’adulto: (..) sopperire alla carenza di figli, avere aiuto per la vecchiaia, non lasciare disperdere un patrimonio in assenza di eredi. Il minore non aveva possibilità di esprimere consenso o disapprovazione: era l’adulto che decideva, in particolare (..) in virtù di un rapporto di scambio negoziale, nel vantaggio che la famiglia dell’adottato ricavava dall’adozione 8. Fortunatamente qualcosa iniziò a cambiare. Nel mondo scientifico, pian piano, emergevano nuovi aspetti, nuove idee e nuove concezioni dell’infanzia e del rapporto genitori-figli. Nella letteratura internazionale veniva dimostrato che le cure materne – o comunque di una figura stabile che assicuri con continuità il rapporto affettivo – sono indispensabili nei primi anni di vita del bambino per creargli quella base sicura che nel tempo gli permetterà lo sviluppo armonico della personalità; e parallelamente, che la lunga permanenza in un istituto potrebbe compromettere quello sviluppo in modo irreversibile 9. Impossibile non citare uno degli autori che maggiormente ha dato contributo per giungere a tale nuova visione: John Bowlby.
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Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. p. 39 7 Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 10 8 Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 184 9 Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 12
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Lo psicologo britannico ha dimostrato che il bisogno di vicinanza fisica e di attaccamento, che il bambino mostra sin dai primi momenti di vita, è una motivazione primaria, fondamentale, più importante del bisogno di nutrimento. Questa è stata definita da Bowlby stesso: teoria dell’attaccamento. Il bisogno di nutrimento del neonato viene soddisfatto con il latte; il bisogno di sicurezza da mani tenere e sicure, dalla voce e dal sorriso (..). Il bisogno primario della fame si lega all’alimento e alla madre, e diviene bisogno psichico e psicosociale. E dal modo in cui l’alimento viene fornito, diviene bisogno culturale. A soddisfare il bisogno primario, e il piacere che ad esso si lega, dunque non basta più solo il latte, ma si aggiungono elementi ambientali e scelte culturali che rinforzano o il piacere o la sicurezza o tutt’e due10.
Il bambino, secondo Bowlby, è spinto a creare legami con gli adulti di riferimento, non tanto per fame o bisogni fisiologici, quanto per ottenere protezione e sicurezza. Nel momento in cui i bisogni affettivi non vengono soddisfatti, si possono avere conseguenza negative (..) sulla personalità del bambino, che solo a partire da un adeguato attaccamento potrà avventurarsi nella conoscenza di sé stesso e del mondo circostante 11. Naturalmente Bowlby non è stato l’unico autore che ha regalato un tale contributo al pensiero educativo, pedagogico: Melanie Klein, Donald Winnicott, Anna Freud.. e molti altri ancora. Insomma, sommando le differenti scoperte degli autori di quegli anni, lo sviluppo della società che era ormai uscita dalle guerre, ci si avvicina lentamente a una differente visione dell’adozione, grazie anche a una diversa considerazione dell’infanzia, dei bisogni del bambino e del suo sviluppo.
10
Trisciuzzi, La pedagogia clinica, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 12, in Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 132 11 Ibidem
10
1.1 Verso il cambiamento (..) se attualmente la famiglia è il luogo fondamentale dello svolgimento dei compiti educativi, nel passato era molto frequente l’abitudine di abbandonare o “mandare a balia” i bambini: in molte città metà o più bambini abbandonati erano legittimi. L’abbandono era una sorta di baliatico a spese della comunità, in quanto l’intenzione e talvolta la pratica era di tornare a riprendere i figli abbandonati. Ciò dipendeva da una tradizione che voleva che i figli a cui badare in casa non fossero più di due, il brefotrofio era la risorsa che permetteva di mettere in pratica questo principio 12.
Penso che emerga in modo chiaro e singolare dalle parole di Hugh Cunningham quanto, tutto ciò che viene attivato da e in uno stato, le leggi, le istituzioni (il brefotrofio in questo caso), i servizi, i beni offerti, sia fortemente intrecciato e dipendente dai bisogni e dalle esigenze espressi dalla popolazione, dalle dinamiche storiche e socioculturali. È bene tenere comunque a mente che il riconoscimento dell’infanzia come periodo specifico, l’accettazione di tutti quegli aspetti che la diversificano e la distinguono dall’età adulta e la visibilità sociale di diritti e doveri propri con la predisposizione di luoghi, arredi e istituzioni ad essa esclusivamente dedicate, come la scuola, sono fenomeni che riguardano una storia relativamente recente13. Basti pensare che solo il 24 aprile 1967, gli Stati membri del Consiglio d’Europa si riunirono a Strasburgo, per stabilire la Convenzione europea sull’adozione dei minori, che sarebbe entrata poi in vigore il 26 aprile 1968. Con essa si tende ad assicurare l’applicazione delle disposizioni nazionali sulla protezione dei minori non per le adozioni nazionali, ma anche per quelle internazionali. I membri del consiglio s’impegnano a incorporare nelle proprie legislazioni alcune disposizioni in materia di adozione; l’atto di adozione deve essere disposto da un’autorità giudiziaria o amministrativa e finalmente la decisione di autorizzare l’adozione di un minore deve
12
P. Ferrario, Politica dei servizi sociali: strutture, trasformazioni, legislazione, Carocci Faber, Roma, 2001, pag. 235. Cit. in H. Cunningham, Storia dell’infanzia: XVI-XX secolo, Il mulino, Bologna 1997 13 Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 38
11
essere liberamente accettata dai suoi genitori e l’adozione deve essere nell’interesse del minore. La convenzione stabilisce anche che, una volta avvenuta l’adozione: •
l’adottante ha, nei confronti del minore adottato, gli stessi diritti e doveri che padre e una madre hanno nei confronti dei loro figli legittimi;
•
quale regola generale, il minore dovrà essere in grado di assumere il cognome dell’adottante ;
•
in materia successoria, il minore adottato è trattato come se egli fosse il legittimo figlio dell’adottante ;
•
l’acquisto da parte del minore della nazionalità dei genitori adottivi è facilitato14. Per quel che concerne l’Italia, nel medesimo anno, 1967, con la legge n. 431, votata all’unanimità di partiti del c.d. arco costituzionale, s’introdusse l’adozione speciale il cui unico e principale scopo era quello di dare una famiglia ad un bambino che ne era privo. La medesima legge prevedeva (..) l’adozione legittimante, la quale capovolse la logica adottiva e divenne lo strumento non per avere un figlio ma per intervenire nei confronti dei minori in stato di abbandono 15. Il cambiamento, come evidente, fu enorme: l’adozione non era più un accordo tra capifamiglia ma era previsto l’intervento dell’amministrazione della giustizia e dei servizi sociali, i legami tra adottato e la sua famiglia d’origine cadevano una volta avvenuta l’adozione, il figlio adottato assumeva il titolo di figlio legittimo e, infine, erano stabiliti limiti di età minima e massima per gli adottanti, in modo da evitare che fossero persone anziane in cerca di qualcuno per la vecchiaia. Questo primo passo, ricco dei contributi del passato, delle nuove scoperte di quegli anni, dei cambiamenti cui la società stava facendo fronte, mostra che forse si poteva smettere di parlare di “domanda di adozione”, ma piuttosto di offerta di disponibilità ad accogliere come figlio un bambino abbandonato.
14
http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/ChercheSig.asp?NT=058&CM=8&DF=03/09/2014&CL=IT
A
15
Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 185
12
La coppia desiderosa di adottare non era più l’attore principale, ma una risorsa da utilizzare in caso di bisogno. Il soggetto principale, il protagonista della procedura diventava, finalmente, il bambino16
Certamente, non poteva già essere cambiato tutto, così drasticamente. Infatti, essendo la legge 431, la prima legge italiana sull’adozione, essa presentava ancora qualche aspetto da aggiustare, naturalmente, qualche limite. Per esempio, la coppia adottiva poteva richiedere come condizione per avviare le pratiche, l’assenza da tempo di contatti tra il minore e la famiglia di origine e la normalità delle caratteristiche psicofisiche del bambino. Come ovvio, con una legge, in effetti, non si può ottenere un automatico cambiamento di mentalità su ciò che teoricamente si voleva imporre: la centralità del ruolo del minore nel percorso di adozione. Insomma, nei fatti, continuavano a essere gli adulti i protagonisti del sistema adozionale; purtroppo o per fortuna, (..) non basta una legge perché il sentire sociale si orienti nel senso voluto dalle disposizioni approvate17 .
1.2 Nuovi ruoli. Nuove leggi. Nuove idee. Le famiglie adottive costituiscono un fenomeno in crescita nelle società post- industriali. (..) questa evidente linea di tendenza (..) negli ultimi anni ha visto l’ingresso nel nostro paese di un numero sempre maggiore di bambini extra-comunitari18.
Dopo aver steso un quadro su ciò che l’adozione è stata nel passato, sulle sue origini e sui contributi scientifici che l’hanno arricchita, mi sento di illustrare dal punto di vista legislativo questo importante tema. Innanzitutto deve essere chiaro che l’adozione in Italia è uno dei servizi delle Politiche per le famiglie e per i minori, nato proprio per far fronte all’incontro tra la domanda di 16
Fadiga L., L’adozione. Una famiglia per chi non ce l’ha, Editrice Il Mulino, Bologna, 2003, in Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p.185 17 Ivi, p. 186 18 Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 17
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assistenza – per i minori in difficoltà - e l’offerta privata di assistenza – da parte delle famiglie. Nel nostro paese, le istituzioni e gli enti che si occupano di adozione sono i seguenti: •
Il Tribunale per i minorenni. Esso è la magistratura specializzata nel trattare la quasi totalità delle questioni giuridiche relative ai minorenni. È stato istituito nel 1934, per ricondurre alla regola i ragazzi con condotta deviante, per (..) rieducare e punire i ragazzi “traviati”; insomma, aveva una competenza (..) quasi esclusivamente rieducativa e penale. Con gli anni le funzioni del Tribunale per i minorenni hanno subìto modifiche e aggiustamenti. In Italia, sono presenti in ognuna delle ventisei Corti d'appello e delle tre sezioni distaccate di Corte d'appello, perciò sono ventinove. Hanno sede in tutti i capoluoghi di regione (eccetto Aosta) e in alcune altre città per le quali l'ufficio giudiziario minorile è apparso funzionale all'utenza (Brescia, Bolzano, Lecce, Catanzaro, Salerno, Messina, Catania, Caltanissetta, Sassari).19 Per quel che concerne l’adozione, è compito del Tribunale per esempio valutare la capacità di un genitore ad allevare ed educare il figlio, e ancora, (..) disporre l’affidamento della prole tra genitori naturali che avevano interrotto la convivenza (..) 20 . E ancora, (..) espletare le opportune indagini nell’ambito familiare, ai fini dell’accertamento dello stato di abbandono, sia di valutare le capacità, le risorse e le potenzialità, ovvero i limiti, dell’aspirante coppia adottiva21. Se agli inizi, il Tribunale per i minorenni si può immaginare con le aule degli uffici giudiziari colme di gente disagiata, di famiglie problematiche, di ragazzi in situazioni complesse, man mano, assumendo la competenza valutativa sulle famiglie della buona borghesia, le aule cominciavano a riempirsi anche di famiglie con storie differenti e di un diverso stato sociale. Nel frattempo, con la chiusura dei manicomi grazie alla Legge Basaglia 180, del 1978, i “malati di mente” erano stati rimandati a casa, senza essere tuttavia accolti da misure alternative. In tal modo i figli dei malati erano coinvolti in dinamiche relazionali difficili e perverse alle quali si faceva fronte portando i bambini in istituto. 19
http://www.commissioneadozioni.it/it/gli-attori-istituzionali/i-tribunali-per-i-minorenni.aspx Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 57 21 Ivi, p. 13 20
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L’istituto degli anni settanta presentava così anche bambini grandi, figli di genitori disturbanti e distruttivi, insomma di famiglie multiproblematiche. •
La Procura della Repubblica presso ogni Tribunale per i minorenni. Essa ha il potere di promuovere e richiedere provvedimenti civili e di rieducazione al Tribunale.
•
Il Giudice Tutelare. Alcune delle sue funzioni sono: nomina e controllo dei tutori per i minori che restano senza genitori in grado di esercitare la potestà; (..) controllo degli istituti che ospitano i minori (..)22.
•
La Commissione per le adozioni internazionali, presso la Presidenza del consiglio dei ministri 23. Struttura istituita nel 1998, per sovrintendere le adozioni internazionali, insediatasi regolarmente ed operativa presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli affari sociali. Essa è l’autorità centrale prevista dall’art. 6 della Convenzione all’espresso scopo di svolgere i compiti che le sono attribuiti dalla Convenzione medesima e dalla suddetta legge di ratifica (in particolare, art. 39 della legge 4 maggio 1983, n. 184, come modificata dalla legge n. 476 del 1998). I principali compiti della commissione sono: cooperare con le autorità centrali degli altri Stati e promuovere la collaborazione fra le autorità italiane per assicurare la protezione dei minori e realizzare gli altri scopi della Convenzione; prendere, sia direttamente sia con il concorso di altre pubbliche autorità tutte le misure idonee a prevenire profitti materiali indebiti in occasione di una adozione; prendere, sia direttamente sia con il concorso di altre pubbliche autorità o di organismi debitamente abilitati, ogni misura idonea per agevolare, seguire ed attivare la procedura in vista dell’adozione; è responsabile di formare l’albo degli enti autorizzati, vigilare sulle loro attività e promuovere informazioni e formazioni sul tema dell’adozione internazionale dichiarare che l’adozione curata dall’organismo autorizzato risponde al superiore interesse del minore; certificare la conformità dell’adozione alla Convenzione affinché essa possa essere riconosciuta di pieno diritto negli altri Stati contraenti; autorizzare 1’ingresso e la 22
P. Ferrario, Politica dei servizi sociali: strutture, trasformazioni, legislazione, Carocci Faber, Roma, 2001, pag. 243 23 Lenti L., Long J., Diritti di famiglia e servizi sociali, Laterza, 2011, pag. 318
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residenza permanente del minore a scopo di adozione, verificando la regolarità della procedura nel paese d’origine e in Italia24. •
Albo degli enti autorizzati in materia di adozione internazionale Dal 1998, gli enti cui rivolgersi per l’adozione internazionale sono all’interno dello specifico albo che consente loro di svolgere un’attività d’intermediazione. Vi sono enti regionali, specifici di territori italiani ed enti in paesi stranieri. I loro ruoli decisivi e fondamentali sono di illustrare alla coppia intenzionata ad adottare informazioni su tempistiche, possibilità e paesi per l’adozione; fare da mediatore tra la coppia e il paese straniero e infine, assistere la coppia per l’intero percorso e, persino una volta inseritosi il bambino, verificare la buona riuscita.
1.2.1 Leggi sull’adozione Come accennato, nel nostro paese, per avere il riconoscimento dell’infanzia abbandonata, bisogna attendere il 5 maggio 1967, con la legge n.431. Questo ci ricorda che il rispetto e l’identificazione del minore in quanto (..) titolare di un’ampia gamma di diritti nell’ordinamento giuridico (..) è qualcosa di molto recente. Parlare di una cultura della tutela dei minori significa collocarsi nella stessa prospettiva del minore, dei suoi bisogni e delle sue aspettative, delle caratteristiche e dei fondamentali aspetti della persona sul piano etico, cognitivo, sociale e creativo ed arrivare a praticare l’elaborazione graduale critica di un progetto di vita personale e sociale basato sulla reciproca interazione fra personalità in evoluzione e bisogni manifestati dalla società25 .
Come mai proprio nel 1967 in Italia si emana questa nuova legge, rivoluzionaria, oserei dire? Innanzitutto, negli anni sessanta gli istituti traboccavano di bambini, soprattutto piccolissimi. Contemporaneamente, come già accennato sopra, il ruolo della letteratura internazionale ha avuto forte influenza in tal senso: era dimostrato che le cure materne – o comunque di una figura stabile che assicuri con continuità il rapporto affettivo – sono indispensabili nei primi anni di vita del bambino per creargli quella
24
http://www.commissioneadozioni.it/media/13231/aja98.pdf Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 145
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base sicura che nel tempo gli permetterà lo sviluppo armonico della personalità 26 . Non solo, nel medesimo tempo si cominciava ad affermare che la lunga permanenza in un istituto avrebbe potuto compromettere l’armonico sviluppo del bambino, in modo irreversibile. Come accennato in precedenza, la legge n.431 introduce anche una nuova forma di adozione, l’adozione “speciale”, distinta da quella “ordinaria”. Quella ordinaria non cambia diritti e doveri dell’adottato nei confronti della famiglia di origine e non produce effetti verso i parenti dell’adottante e verso quelli dell’adottato e serve per regolamentare l’adozione dei maggiorenni (..)27. L’adozione speciale, invece, ha come obiettivo primario quello di svuotare gli istituti e offrire una risposta efficace alla disponibilità delle coppie che chiedevano di essere genitori e di avere garanzie sulla stabilità del vincolo adottivo. Essa poteva essere dichiarata solamente in seguito a una procedura con la quale potesse essere accertato l’effettivo stato di abbandono del bambino (purché la mancanza di assistenza non dipendesse da causa di forza maggiore) e d’altro canto, (..) assicurare l’idoneità genitoriale della famiglia adottante, interrompendo definitivamente i rapporti giuridici tra genitori naturali e figlio, che pertanto diventava legittimo dei nuovi genitori, quelli adottivi 28 . L’adozione speciale senza dubbio comportava numerosi vantaggi e un memorabile cambiamento ma, come accennato sopra, permaneva quella ordinaria, il che comportava in primo luogo il rischio e la possibilità della ricomparsa dei genitori naturali. Infatti, con l’adozione ordinaria non era prevista l’interruzione dei rapporti tra bambino e genitori biologici, perciò dopo anni essi avrebbero potuto ripresentarsi, causando così traumi profondi al bambino che mai li aveva conosciuti e che spesso neppure sapeva di essere figlio adottivo (Cavallo, 2005). In secondo luogo l’escludere dalle cause d’identificazione di stato di abbandono, quelle di forza maggiore, comportava l’impossibilità di dichiarare adottabile un bambino in una situazione di abbandono relativo, per esempio madre con malattia mentale, padre condannato all’ergastolo.. Come risposta a migliorare la legge del 1967, si dovette attendere il 1983, con la legge n.184 che introdusse interessanti novità. 26
Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 12 27 http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_2_10.wp 28 Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 13
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Innanzitutto, mostra passi avanti nei confronti della tutela della famiglia d’origine del bambino. I primi articoli della legge trattano il tema dell’affido, non dell’adozione. Con queste novità si afferma che lo Stato e le istituzioni preposte devono agire a sostegno delle famiglie in difficoltà al fine di consentire la ripresa di corretti rapporti familiari che determinino la possibilità per il bambino di crescere in modo armonico nell’ambito dei suoi affetti biologici. Viene così finalmente sottolineato il diritto del minore a vivere nella propria famiglia di origine 29! E viene, inoltre, sottolineata la (..) consapevolezza del costo emotivo rappresentato dall’essere allontanati dal proprio nucleo e, a maggior ragione, dover cambiare definitivamente l’appartenenza familiare. A sostegno di questo punto di vista viene spesso citata la teoria dell’attaccamento, che ben illustra quanto sia stressante per un bambino essere separato dalle figure di riferimento30.
Inoltre, l’allontanamento non dovrebbe essere considerato l’ultima spiaggia, quanto piuttosto una possibile tappa per una svolta nella storia di quella famiglia. Infatti, (..) oltre a garantire la tutela del minore, esso rappresenta una comunicazione potente ai genitori: “il vostro comportamento non è accettabile, i vostri figli hanno diritto a essere accuditi in modo adeguato”. Inoltre, l’allontanamento può avere positivi effetti sui genitori. Per molte persone (ma forse dovremmo dire per tutti) trovarsi con le “spalle al muro”. Può essere necessario per attivare risorse e motivazioni altrimenti latenti31. La legge n.184 definisce, inoltre, stato di abbandono non solo quello materiale, ma anche morale: questo mostra come l’idea che per crescere un figlio, non basta occuparsene solo materialmente ma sia necessaria una relazione stabile e positiva, stava prendendo piede. Stavano prevalendo l’affettività, la relazione di attaccamento.
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Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 187 30 Chistolini M., Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia e i compiti di sostegno attivati dal tribunale per i minorenni, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2 Franco Angeli, Milano, 2014, p. 59 31 Ivi, p. 60
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Fu abrogata l’adozione ordinaria o consensuale, in vigore solo per i maggiorenni, introducendo l’adozione nazionale applicabile a tutti i minorenni: l’adozione legittimante. Legittimante in quanto: •
interrompeva qualsiasi vincolo con la famiglia d’origine rendendo legittima la filiazione;
•
era definita irrevocabile;
•
l’abbandono poteva essere dichiarato anche nel caso di mancanza di assistenza dipendente da causa di forza maggiore;
•
stabiliva che la coppia, con massimo 40 anni di differenza di età e non più 45 dal minore, doveva essere sposata da almeno tre anni, per testimoniare una forte stabilità. La legge n.184 prevedeva inoltre quattro casi tassativi di adozione del minore di quattordici anni32:
•
Adozione del minore orfano – da parte di parenti entro il sesto grado, o persone che abbiano avuto un rapporto preesistente e duraturo, prima della morte dei genitori.
•
Adozione del minore figlio dell’altro coniuge.
•
Adozione del minore orfano e handicappato – ipotesi introdotta con la riforma del 2001, prevede che, essendo soggetti svantaggiati, non siano sottoposti a procedure di dichiarazione di stato di abbandono e quindi adottabilità.
•
La constatata impossibilità di affidamento preadottivo – questo caso riguarda minori che sarebbero traumatizzati se tolti dall’ambiente in cui si trovano da anni o multiproblematico, per evitare che venga istituzionalizzato. Questo prevede l’adozione anche da parte di single, coppie anziane, non coniugati con un minimo di 18 anni di differenza di età tra adottanti e adottato. Questi tipi di adozioni prevedono la non dichiarazione di figlio legittimo del bambino, la non assunzione del cognome della coppia, la non cessazione dei rapporti con la famiglia d’origine e infine la non acquisizione di rapporti di parentela.
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Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 202
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La richiesta per tali adozioni viene comunque comunicata al Tribunale che, in seguito a indagini svolte dai servizi sociali e dagli organi di polizia, verificherà i presupposti che i suddetti casi prevedono. Verranno ascoltati il minore e gli adottanti. In qualsiasi caso è possibile la revoca dell’adozione nel caso d’indegnità dell’adottato, dell’adottando e violazione degli obblighi cui è tenuto l’adottante. Negli anni della legge n.184, inoltre, in Italia si assiste a un boom di industrializzazione, sviluppi e crescita: maggior benessere, maggiori possibilità, calo delle nascite, la possibilità per le coppie di utilizzare strumenti e mezzi contraccettivi, la liberalizzazione dell’aborto (..).33 L’Italia stava diventando uno dei paesi che maggiormente adottava bambini dai paesi più poveri del mondo: fu così aperta l’adozione internazionale. Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale il numero di orfani era aumentato in modo esagerato, in tutta Europa. Il numero di bambini adottabili in Italia andava pian piano diminuendo, a causa di alcuni cambiamenti: accettazione della ragazza madre, del figlio nato fuori dal matrimonio, la diffusione delle pratiche contraccettive. Così i genitori adottivi tendevano a rivolgersi più facilmente all’adozione internazionale. La terribile situazione che si venne a creare fu però la seguente: ebbe inizio una vera e propria “compra-vendita” di bambini. Era sufficiente agganciare il mediatore più efficace per assicurarsi un bambino. Con l’adozione internazionale e in assenza di vere e proprie forme di tutela per i minori, (..) chi offriva di più sul mercato si assicurava il bambino piccolo bello e sano34! Con gli anni novanta si aprono nuovi orizzonti e possibilità di procreazione grazie alla ricerca scientifica, e man mano la legge 184 inizia a entrare in crisi. Uno dei punti più deboli era la vera e propria assenza di tutela per i bambini adottabili attraverso l’internazionale. Per mediare a questa mancanza e a questo pericolo di “mercato” e scambio di bambini, saranno istituite due convenzioni. Il 25 ottobre 1980 la Convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale di minori, col fine di assicurare l'immediato rientro dei minori illecitamente trasferiti o trattenuti in qualsiasi Stato Contraente; e di assicurare che i diritti di affidamento e di visita 33
Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 187 34 Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 37
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previsti in uno Stato Contraente siano effettivamente rispettati negli altri stati contraenti35. In effetti questa convenzione riguarda gli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, utilizzata soprattutto per le istanze di rimpatrio dei minori (per es. quando uno dei due genitori sottrae o trattiene illecitamente il figlio in un altro Paese) e per quelle relative all’esercizio del diritto di visita del genitore non affidatario, Dunque, ha per obiettivo la protezione del minore contro gli effetti negativi che derivano da un suo trasferimento in altro Paese. La Convenzione non entra nel merito nelle vicende inerenti alla tutela e all'affidamento del minore36. Successivamente, il 29 maggio 1993, per porre fine al turpe mercato di bambini a scopo di adozione (..), la Conferenza dell’Aja creò la “Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale”37, un accordo che vincolasse gli Stati firmatari, sia di origine che di accoglienza del minore, a rispettare delle procedure operative rigorose nelle svolgimento delle pratiche adozionali, allo scopo di arginare il fenomeno del “mercato” dei bambini. Furono stabilite delle garanzie, affinché le adozioni internazionali fossero svolte nell'interesse superiore del minore e nel rispetto dei diritti fondamentali che gli sono riconosciuti nel diritto internazionale; fu inoltre instaurato un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti, al fine di assicurare il rispetto di queste garanzie e quindi prevenire la sottrazione, la vendita e la tratta dei minori; e infine di assicurare il riconoscimento, negli Stati contraenti, delle adozioni realizzate in conformità alla Convenzione 38. Insomma, lo scopo sicuramente era quello di eliminare il traffico dei bambini adottabili e stabilire regole che tutti i paesi, che avessero firmato la Convenzione, avrebbero dovuto seguire nel momento in cui avessero accolto o donato un bambino in adozione. Così, grazie alla Convenzione del 1993 si ottenne maggior sicurezza per i seguenti punti: -
La verifica del reale stato di abbandono materiale e morale del minore, dunque la verifica che nel suo paese d’origine sia davvero abbandonato e senza alcun parente idoneo a prendersi cura di lui. Nel caso non sia presente, dovrà essere individuata una 35
http://www.tribunaleminorimilano.it/dettaglio.asp?id_articolo=396&id_categoria=legislazione&parola= http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_5_10.wp 37 Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 37 38 http://www.tribunaleminorimilano.it/dettaglio.asp?id_articolo=391&id_categoria=legislazione&parola= 36
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famiglia adottiva prioritariamente nel suo stesso paese d’origine; nel caso non venisse reperita, il bambino potrà essere collocato in adozione anche presso una famiglia straniera residente all'estero. -
La verifica che i genitori biologici avessero acconsentito all’adozione e alle relative conseguenze;
-
La verifica e l’assistenza, alla famiglia adottiva durante l’intero percorso adottivo, da parte dell’autorità centrale o da parte di un ente autorizzato o controllato. Dunque, la convenzione dell’Aja è la codifica formale dei contenuti etici che ogni soggetto e ogni paese devono seguire durante il processo di adozione, sia riguardo le istituzioni che i genitori adottivi. La richiesta di adozione internazionale crebbe esponenzialmente e così anche l’esigenza di un ennesimo intervento legislativo, anche in Italia, per tutelare i minori stranieri. (..) è inevitabile e giusto che l’identità originaria si annacqui per fare posto a quella italiana. (..) consentire al bambino di costruire una appartenenza completa e sostanziale al contesto che lo accoglie, (..)in primo luogo affettiva ma anche culturale nel senso più esteso del termine 39.
Solo nel 1998, con la legge n.476 si tentò proprio di regolamentare definitivamente l’adozione internazionale, ponendo fine al mercato di bambini, riprendendo proprio la Convenzione dell’Aja, istituita nel 1993. In tal modo venne istituita la Commissione per le Adozioni Internazionali e l’Albo degli enti autorizzati, atti allo svolgimento delle adozioni internazionali. Fu inoltre reso evidente il differente modo di svolgere le adozioni nazionali e quelle internazionali. La legge 476 stabilisce i seguenti punti: 1. termine di sei e mezzo per il rilascio del decreto dichiarativo, o meglio del decreto di idoneità; 2. l’obbligo per le coppie di essere assistite da un ente autorizzato;
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Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 74
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3. non si parla più di “domanda” di adozione, quanto piuttosto di “dichiarazione di disponibilità”. In tal modo ciò che si trasmette è che i genitori offrono la loro disponibilità, senza però la possibilità di avanzare alcuna pretesa di adozione, in quanto istituto previsto nell’interesse esclusivo del bambino. Successivamente con la legge n. 149 del 2001 è stata riformata la 184 del 1983, con la quale è stato innanzitutto cambiato il titolo: da “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori” diviene “Diritto del minore ad una famiglia” 40. Inoltre, con la 149 sono state nuovamente introdotte maggiori garanzie per la famiglia di origine. Il genitore naturale non dovrebbe vedersi espropriato della prole solo per inadeguatezza, temporanea, probabilmente superabile con qualche attenzione o sostegno. La legge del 2001 apporta numerose modifiche e novità anche rispetto le leggi precedenti. Innanzitutto, i requisiti perché un minore possa essere dichiarato adottabile. Esattamente, cosa significa la dichiarazione di stato di abbandono del bambino e quindi di adottabilità? Ho trovato interessante innanzitutto un articolo di uno dei maggiori esperti di adozione, Marco Chistolini, che ha argomentato sugli aspetti positivi o meno dell’adozione. Oggi molti sono ancora contrari all’adozione, o perlomeno sembrano carichi di presupposti e pregiudizi. È diffuso il pensiero che tutte le adozioni vanno male, che i bambini adottati hanno sempre problemi.., e ancora, che è meglio un affido temporaneo piuttosto che un allontanamento definitivo dalla famiglia d’origini. In realtà, secondo lo psicologo, e io concordo con la sua visione, la questione dovrebbe essere impostata in un altro modo: quale scelta ha, per il minore coinvolto, nel breve e, soprattutto, nel lungo periodo, il miglior rapporto costi/benefici? (..) ci si deve chiedere, caso per caso e senza ideologie, quale sia la scelta migliore per quel bambino, sapendo che qualsiasi decisione prenderemo ci sarà un prezzo che dovrà pagare41. A volte, in base alle situazioni con cui ci scontriamo bisognerebbe riflettere se (..) per un bambino mantenere il legame con i suoi genitori rappresenti sempre e 40
Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 189 41 Chistolini M., Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia e i compiti di sostegno attivati dal tribunale per i minorenni, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2 Franco Angeli, Milano, 2014, p. 63
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comunque un vantaggio indiscutibile…42 Nel dettaglio della legge, il giudice di Cassazione è chiamato a eseguire un’attenta e dettagliata analisi della condizione del minore, per poterne, in caso, dichiarare lo stato di adottabilità. Un primo e importante punto da chiarire è che la condizione di disagio e difficoltà in cui si trovano il bambino e la sua famiglia, non deve avere carattere transitorio: la priorità, infatti, va data alla famiglia d’origine. Il presupposto è che la scelta migliore per il bambino sia quella di permanere nella sua famiglia d’origine; così si dovrà provvedere con, per esempio, l’istituto dell’affidamento familiare, per sostenere la famiglia a superare le difficoltà temporanee e agevolare il bambino a tornare nella sua famiglia. In quest’ottica quindi l’istituto dell’adozione risulta come estremo rimedio: bisogna verificare l’inidoneità permanente dei genitori e il rischio che questa possa provocare gravi danni sul minore. Un secondo punto fondamentale è che s’indaghi anche nella cerchia familiare: non si può giungere alla dichiarazione di stato di abbandono del bambino, se prima non si sia accertata la presenza di parenti con un buon rapporto col minore. Come valutare quel minore, quella famiglia, quella situazione? Certamente servono e sono necessari dei parametri di assistenza morale e materiale, che non possono mancare al minore. Quindi elementi di cura materiale e di vicinanza affettiva che non compromettano in modo grave e permanente la crescita armonica43. A partire da questi, però, si dovrà appunto valutare quel minore, quella situazione e quella storia. Infine, lo stato di abbandono non è dichiarabile nel momento in cui si verifichino situazioni di forza maggiore, come un evento grave, una malattia per esempio, che possa determinare uno squilibrio in famiglia. Infatti, la legge 149 del 2001 riconosce che le condizioni d’indigenza dei genitori non debbano essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. 42
Chistolini M., Il diritto del figlio di crescere nella propria famiglia e i compiti di sostegno attivati dal tribunale per i minorenni, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2 Franco Angeli, Milano, 2014, p. 65 43 Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 191
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Lo stato così (..) deve agevolare con misure economiche la formazione delle famiglie e l’adempimento dei compiti relativi44. La dichiarazione dello stato di abbandono è eseguita da parte del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni, che segue il minore. La segnalazione di stato di abbandono può giungere da parte di soggetti o pubblici ufficiali. La 149/2001, per evitare l’omissione di situazioni di abbandono, obbliga i servizi che ospitano minori (case famiglia, centri di accoglienza) a trasmettere in modo semestrale l’elenco dei presenti, al Pubblico Ministero e a questi di poter indagare e informarsi su di essi. Medesimo obbligo per i genitori che affidino a estranei il minore, per più di sei mesi. Nel momento in cui il giudice riceve una segnalazione di stato di abbandono, effettua i primi accertamenti; avvisa genitori o parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti col minore, di provvedere a un avvocato; in assenza di questo, ne verrà designato uno di ufficio. In questo modo si assicura la possibilità per i genitori o altri della correttezza della procedura. Il passaggio successivo da parte del giudice è di avviare un’approfondita indagine, spesso a mezzo dei servizi sociali, ma anche attraverso gli organi di pubblica sicurezza, volta ad acquisire informazioni sulle condizioni di vita del minore, sulla sua condizione socio-familiare e, più in generale, sul suo ambiente di vita 45. Da tenere a mente è che, tutto ciò che viene riportato nel fascicolo, è consultabile dalle parti. Perciò se vi sono indagini in corso, per esempio su sospetti abusi intra-familiari, il pubblico ministero non dovrà allegarli in fascicolo. Nella presente situazione, viene nominato il cosiddetto curatore per il minore. Il minore deve essere ascoltato e sentito, essendo uno dei soggetti protagonisti della procedura, se ha compiuto 12 anni e, in età inferiore, se ha capacità di discernimento. Durante questa procedura possono essere dichiarati provvedimenti quali: collocazione presso case famiglia, sospensione della potestà dei genitori. Questi, comunicati alle parti, possono essere contestati dalle stesse dinanzi alla Corte di Appello entro dieci giorni dalla notifica.
44
Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 192 45 Ivi, p. 194
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Tutto questo può essere sospeso per due mesi nel caso in cui i genitori naturali non abbiano riconosciuto il figlio e nel caso in cui il genitore non abbia compiuto i sedici anni: la procedura rimarrà sospesa fino a due mesi successivi il compimento dei sedici anni del genitore. La sentenza può essere impugnata entro trenta giorni dalla notifica. Con la dichiarazione dello stato di abbandono e successiva adottabilità, viene così sospesa la potestà dei genitori. Tutto questo non è messo in atto nel caso di decesso di entrambi i genitori e di assenza di parenti entro il quarto grado con rapporti con il minore: l’adottabilità è, in questo caso, dichiarata de plano 46. Per quanto riguarda i genitori adottivi, la legge n.149 stabilisce i seguenti requisiti. Innanzitutto
una
convivenza di almeno tre anni
dei futuri genitori,
non
obbligatoriamente sposati, ma che abbiano trascorso almeno tre anni stabili e duraturi; non sono più previsti quarant’anni di differenza di età tra adottanti e adottato, ma un minimo di diciott’anni e un massimo di quarantacinque anni l’età del minore. In realtà questo rigido limite è tale solo apparentemente: infatti, se uno dei coniugi è più anziano, si tiene conto dell’età del più giovane; o ancora, se gli adottanti hanno già figli naturali o fratelli dell’adottato, l’età dei genitori non viene tenuta in considerazione. Ennesimo requisito stabilito è la capacità di educare, istruire e mantenere il minore47, come intuibile, non facilmente accertabili, in quanto sono da verificare l’equilibrio della coppia, la loro capacità di accettare il bambino e la sua storia, i suoi limiti e aspirazioni. Il giudice usufruirà della collaborazione con i servizi socio-assistenziali e le Asl che stenderanno una relazione in merito. La legge 149 conferma l’impossibilità di adottare da parte di persone singole. La legge 149 tocca anche il tema delle origini: •
l’adottato può, anzi, dovrebbe sin da subito, conoscere il suo stato adottivo;
•
gli aspiranti genitori adottivi devono venire a conoscenza delle origini e di informazioni sulla famiglia d’origine;
46
Pomodoro L., Giannino P., Avallone P., Manuale di diritto di famiglia e dei minori, UTET giuridica, Torino, 2009, p. 195 47 Ivi, p. 197
26
•
l’adottato non può accedere a informazioni, nel momento in cui è nato da madre ignota, che quindi, al momento della nascita del bambino, ha dichiarato di non voler essere nominata. In effetti, la legge rende possibile l’accesso a informazioni sulla famiglia d’origine da parte dell’adottiva, nel caso di gravi motivi di salute del bambino. Una volta maggiorenne il ragazzo può accedere a informazioni sulla famiglia d’origine, sempre solo nel caso di comprovati motivi di salute psicofisica. È sempre compito del Tribunale per i minorenni dare l’autorizzazione per l’accesso alle suddette informazioni, dopo aver verificato che esse non destino turbamento al ragazzo. Dal 2001, una delle leggi importanti e rivoluzionarie che il nostro paese ha emanato in materia di adozione è sicuramente quella riguardante l’equiparazione di figli naturali e legittimi. Si tratta della legge del 10 dicembre 2012, n. 219, ossia Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali. Essa annulla la differenze tra figli naturali o legittimi, affermando il principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli. In particolare, la legge:
•
riforma la materia della filiazione naturale e del relativo riconoscimento, applicando il principio "tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico";
•
delega il Governo ad intervenire sulle disposizioni vigenti per eliminare ogni residua discriminazione tra figli legittimi, naturali e adottivi;
•
ridefinisce le competenze di tribunali ordinari e tribunali dei minorenni in materia di procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli;
•
detta disposizioni a garanzia del diritto dei figli agli alimenti e al mantenimento 48.
48
http://leg16.camera.it/561?appro=542
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1.3 Il procedimento di adozione La famiglia acquisita si trova di fronte a un limite che deve colmare, in quanto non possiede le informazioni che riguardano il “passato” del minore che permetterebbero la continuità nell’elaborazione passato-presente-futuro, necessaria nel contesto familiare49.
Dall’excursus legislativo appena fatto, credo emerga in modo evidente quanta complessità sta nel processo di adozione. Ora proverò a comprendere meglio, dal punto di vista della coppia adottiva, quale cammino va seguito per poter adottare un minore. Innanzitutto, la coppia adottiva deve presenta la dichiarazione di disponibilità al Tribunale per i minorenni, uno solo se si tratta di adozione internazionale, plurimi se nazionale. Se i requisiti formali sussistono, il Tribunale può dare inizio all’attività di raccolta d’informazioni per valutare l’idoneità della coppia, grazie alla collaborazione con servizi socio-assistenziali, sanitari.. La relazione stesa da questi servizi dovrà essere trasmessa al Tribunale entro quattro mesi dalla ricezione della dichiarazione di disponibilità. Solo a questo punto, il Tribunale può procedere con il colloquio con i coniugi. A questo punto, se l’esito del colloquio è positivo, il Tribunale per i minorenni può stendere il decreto di idoneità. È un documento necessario per entrambi i tipi di adozioni. Ciò che le differenzia è che per l’adozione nazionale viene conservato in una banca dati e consultato ogni qualvolta la coppia debba adottare. Mentre per l’adozione internazionale è fondamentale che sia presentato, in quanto documento per provare la capacità educativo-assistenziale della coppia. Serve, infatti, al paese cui si rivolgerà la coppia, per avere una conferma scritta delle loro capacità educativo-assistenziali. 49
Pistacchi P., Accorti Gamannossi B., Il ponte adottivo: saldare le storie di vita dei bambini d'origine straniera a scuola, Unicopli, Milano, 2009, p. 14
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L’idoneità, che deve essere dichiarata entro due mesi dalla ricezione della relazione dei servizi, è collegiale: viene espressa da un collegio formato da due giudici togati, magistrati di professione, due giudici onorari, uno dei quali ha precedentemente ascoltato la coppia. A questo punto, la coppia deve incaricare un ente per l’intermediazione per l’adozione internazionale, entro un anno dal decreto di idoneità. Il percorso per giungere all’adozione internazionale è quindi il seguente: •
Dare mandato a un ente del paese dove intende adottare;
•
Preparare la documentazione tradotta grazie all’ente all’Autorità straniera;
•
Attendere l’abbinamento;
•
Dopo aver accettato la proposta di abbinamento, incontrare e conoscere il bambino;
•
Attendere la fissazione dell’udienza di adozione, a cui presentarsi per sentire dichiarare padre e madre. Per ottenere l’autorizzazione dell’ingresso del bambino in Italia sarà compito dell’ente trasmettere alla Commissione per le adozioni internazionali la documentazione necessaria. Infine in Tribunale la coppia otterrà la trascrizione della sentenza di adozione scritta nei registri dello stato civile. (..) l’adozione non è una risposta a sé stante scorporabile operativamente da un intervento globale su “un cittadino di minor età”, ma un’operazione complessa, che riguarda la cultura dell’intera comunità, che nella messa in atto del singolo intervento ingloba la cultura dei professionisti, ossia la cultura dell’agire nel rispetto del diritto, della tutela e del rispetto di tutte le persone coinvolte50.
I criteri per scegliere la coppia per l’affidamento preadottivo non sono di tipo cronologico, quindi la coppia che prima ha presentato domanda viene “abbinata” col primo bambino adottabile. Il fine è sempre quello di tutelare il minore, il suo interesse. Così in camera di consiglio viene svolta la selezione della coppia idonea per quel minore, per giungere alla scelta definita. 50
Pistacchi P., Accorti Gamannossi B., Il ponte adottivo: saldare le storie di vita dei bambini d'origine straniera a scuola, Unicopli, Milano, 2009, p. 13
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In tal modo può avere inizio il periodo di affidamento preadottivo, che può durare persino un anno, in cui, nel caso di fratelli adottabili, tutti devono essere affidati alla coppia, salvo gravi eccezioni. Perché l’affidamento preadottivo? •
Per valutare l’inserimento del minore nel nuovo nucleo familiare;
•
per verificare l’effettiva capacità genitoriale della coppia. Sarà compito dei servizi vigilare e stendere una periodica relazione per il Tribunale per i minorenni, sull’andamento dell’affidamento. Nel caso purtroppo negativo, della convivenza tra affidatari e minore, si procede con la revoca dell’affidamento. Essa può essere proposta sia dal pubblico ministero, sia dal tutore che dagli organi di vigilanza. Alla revoca non consegue una “pena” alla coppia affidataria, ma semplicemente una presa in atto delle difficoltà che la coppia e quel bambino hanno avuto nell’inserimento. Una volta definitiva, la revoca comporta l’affidamento preadottivo presso un’altra coppia. Trascorso l’anno di affidamento, il Tribunale valuterà la situazione per dichiarazione definitiva di adozione. Verranno ascoltati: i genitori adottivi, il minore, eventuali fratelli, il tutore del minore, il Pubblico Ministero. La dichiarazione avviene anche nel caso in cui: uno dei coniugi divenga incapace o deceda o i coniugi si separino, ma ci sia la richiesta di uno o entrambi per proseguire con l’adozione. Una volta dichiarata l’adozione, il minore verrà riconosciuto come figlio della coppia, assumendo tutti i diritti e doveri di un figlio biologico. Come conseguenza a tale dichiarazione il minore adottato perde tutti i rapporti con la famiglia d’origine, salvo l’impossibilità di legami matrimoniali. L’adozione legittimante non potrà essere revocata. Dunque, avvenuta e dichiarata l’adozione, i genitori adottivi possono godere di agevolazione per il lavoro. In effetti, il decreto legislativo del 2001, n. 151 sulle Disposizioni in materia di sostegno della maternità e paternità prevede:
30
•
il congedo di tre mesi, per maternità e paternità all’atto di adozione o affidamento, se il bambino minore di sei anni;
•
il congedo di tre mesi per maternità e paternità per l’adozione internazionale, anche se il minore maggiore di sei anni;
•
il congedo per la permanenza all’estero per il genitore, per l’adozione internazionale;
•
il congedo di massimo dieci mesi per genitori adottivo, fruibile entro i tre anni dall’ingresso del minore in famiglia;
•
i permessi dal lavoro nel caso di malattia del bambino, minore di sei anni, sia per genitori adottivi che naturali;
•
il congedo per maternità e paternità entro i primi tre anni dall’inserimento, nel caso in cui il bambino adottato abbia tra i sei e i dodici anni di età;
•
la possibilità di dedurre dagli oneri Irpef parte delle spese per l’adozione internazionale. Per concludere, quali sono i valori da riconoscere in ogni adozione? Innanzitutto, l’integrità fisica e morale del bambino; la famiglia in quanto fonte insostituibile per la crescita equilibrata del bambino. Tra questi due valori troviamo inoltre la solidarietà, ossia, l’intera società deve dare una risposta organizzata e adeguata ai bisogni di un singolo o di un gruppo. (..) l’adozione nei fatti è di una comunità, di un quartiere, di una città, perché i bambini adottati in quel quartiere, in quella comunità, in quella città vivono, crescono e devono inserirsi51.
A livello internazionale, il valore di solidarietà è riconosciuto nella sussidiarietà: l’idea da cui nasce è che il bambino ha diritto a vivere all’interno della sua famiglia, la quale deve essere aiutata perché riesca ad allevarlo. Solo una volta confermata l’impossibilità di quella famiglia di far fronte alle difficoltà o inadeguatezze, allora il bambino è dichiarato adottabile. E inoltre, l’adozione è primariamente tentata all’interno del paese d’origine del bambino: (..) è nella sua terra che egli deve poter
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Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 50
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trovare una famiglia sostitutiva52. Se questo tentativo fallisce o non ha esiti, allora si passa all’adozione internazionale. Questo sia in rispetto del bambino, per non sradicarlo dal suo paese d’origine e, inoltre, per non sottrarre il paese di un’importante risorsa che ne condiziona il futuro! (..) la plasticità dello sviluppo del bambino e la possibilità, pur partendo da circostanze estremamente avverse vissute nei primi anni di vita, di un eccezionale recupero. Tuttavia una nuova relazione di attaccamento con i genitori adottivi non può semplicemente inserirsi in una tabula rasa. Le esperienze di attaccamento precedenti la separazione dai genitori biologici o nel periodo intercorrente tra la separazione e il collocamento adottivo, con caregivers maltrattanti, abusanti o inadeguati, continuano ad influenzare il nuovo attaccamento. È di cruciale importanza supportare i genitori adottivi nel fronteggiare la richiesta di sviluppare un legame di attaccamento con il figlio adottato. I genitori adottivi in molte situazioni non devono soltanto essere in grado di dare risposte sensibili e responsive ai loro bambini; in considerazione delle strategie difensive coercitive o evitanti sviluppate dai bambini, i genitori devono essere anche in grado di dar voce ai bisogni inespressi o distortamente espressi dei propri figli53.
1.4 La famiglia, o meglio, le famiglie, oggi (..) all’alba del terzo millennio, (..) nonostante tutti i cambiamenti della struttura familiare verificatisi negli ultimi anni, l’idea prevalente di famiglia che la gente ha è quella di due adulti che hanno generato biologicamente dei figli 54.
Ci tengo a terminare questo primo capitolo, analizzando un argomento a mio avviso molto delicato. La famiglia. 52
Cavallo M., Figli cercasi: l'adozione internazionale: istituzioni, leggi, casi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. 42 53 Vadilonga, Il disagio nei bambini adottati, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4 Franco Angeli, Milano, 2012, p. 74 54 Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 43
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Il percorso svolto finora ha mostrato, spero, quanti cambiamenti abbia subìto e stia subendo la nostra società, quanto l’istituto dell’adozione sia cambiato e quanto, fortunatamente, siano cambiate alcune leggi al riguardo. Non posso esentarmi dall’aprire almeno una finestra su uno dei protagonisti del tema che mi sono preposta di affrontare: la famiglia. La famiglia esiste in tutte le società perché risponde a delle esigenze primarie della specie e dell’individuo: i piccoli vanno protetti e allevati, la solitudine rende più vulnerabili, la sessualità crea un legame forte all’interno della coppia almeno per un certo periodo; inoltre in alcune società, come quelle rurali del passato, la sopravvivenza degli individui e della prole dipendeva direttamente dal lavoro dei familiari nei campi, dal numero delle braccia e così via55.
Come intuibile, ormai oggi non è più possibile parlare della famiglia, al singolare: dalla famiglia patriarcale alla matriarcale, dalla nucleare a quella estesa, divisa, ricomposta, adottiva… siamo immersi in una società con molteplici modi di fare famiglia. Forse proprio per questa ragione, mi trovo in difficoltà nella definizione della famiglia? Sono intimorita dal rischio di esplicitare qualcosa che possa in qualche modo escludere qualcuno che in un’altra società, in un’altra cultura, magari sarebbe considerata “famiglia”? Forse perché ho paura di interpretare e giudicare ciò che mi sta intorno sulla base delle mie esperienze e del mio far parte di una famiglia? Penso di aver trovato una risposta a questi miei timori nelle parole di Pierpaolo Donati, che, riprendendo le parole di Marcel Mauss, sottolinea come la famiglia sia una relazione sociale piena, (..) fenomeno sociale totale, che implica tutte le dimensioni
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Oliverio Ferraris A., Caratteristiche e problematiche psicologiche delle nuove tipologie familiari: dalla famiglia del post divorzio alle famiglie omossessuali, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2, Franco Angeli, Milano 2007, p. 95
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dell’esistenza umana, da quelle biologiche a quelle psicologiche, economiche, sociali, giuridiche, politiche, religiose56. La trovo una visione davvero interessante, poiché se si intende in tal modo, allora si comprende come l’individuo, l’uomo, il bambino, non possano essere intesi (..) come un’isola; gli altri non sono semplicemente un limite per la nostra libertà, ma ne costituiscono piuttosto un riferimento ineludibile (..)57, in cui la famiglia rappresenta il primo banco di prova. Dunque se oggi ci troviamo sempre più in difficoltà nell’individuazione di una definizione di famiglia, è proprio a causa di questo suo carattere di relazione sociale piena, che coinvolge gli individui in tutte le dimensioni della loro esistenza umana, una sorta di sovra-funzionalità. Proprio per questo motivo, se cercassi di definire la famiglia, di trovare delle caratteristiche che una famiglia deve avere, rischierei davvero di cadere nella trappola dello stereotipo, di una sorta di etnocentrismo culturale. A prescindere da come s’intende la famiglia, il tentativo di definirla sarebbe assai complesso dal momento che, appunto, la famiglia è un termine che designa una vasta gamma di forme sociali primarie che presentano strutture relazionali assai diversificate e dai confini variabili da cultura a cultura58. I “confini” della famiglia non debbono essere intesi come distinzioni (o barriere) di ordine biologico, fisico o, in generale, di tipo materiale, ma come modalità culturali di considerare le relazioni sociali attese come stabili fra i sessi e le generazioni, cui possono aggiungersi relazioni di parentela e/o di servizio rispetto alle funzioni che sono inerenti alle prime59.
D’altro canto, però, bisognerebbe anche evitare il rischio di definire famiglia una qualsiasi forma di convivenza quotidiana che presenta caratteristiche di amore o familiarità: si rischierebbe in questo caso di cadere in una prospettiva tautologica definendo famiglia tutto ciò che è stare insieme. 56
Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p. 9 57 Ivi, p. 11 58 In W.J. Goode, The family, Parentice – Hall, Englewood Cliffs (N.J) 1964; J. Scott – J. Treas – M. Richards (a cura di), The Blackwell Companion to the sociology of Families, Blackwell, Oxford 2004, da Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p. 13 59 Ivi, p.12
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Ognuno di noi, per le esperienze che ha, per le idee che si è costruito e per le influenze subìte, ha in mente i “canoni” con cui è possibile identificare una famiglia. Per un verso credo sia lecito e la testimonianza che noi stessi facciamo parte di quella che è ed è stata la nostra cultura familiare, testimonia proprio il nostro essere possessori di una psicologia familiare; ma d’altro canto credo si debba andare cauti per non rischiare di imbattersi in inconsapevoli rifiuti verso modi semplicemente differenti di fare famiglia. Spesso si sente dire che oggi non si può più parlare di famiglia, ma piuttosto di famiglie. Ma come esplicita Donati: non riconosciamo più “la” famiglia proprio nel momento in cui qualunque forma di coabitazione chiede di essere riconosciuta come famiglia. Nell’ottica dello studioso, le scienze sociali possono identificare “la” famiglia come gruppo e istituzione sociale sui generis, sulla base dell’argomento che la famiglia è una forma specifica di relazione sociale, ossia è una forma originaria, originale e infungibile60. I sociologi Brigitte e Peter Berger 61 affermano l’impossibilità di parlare di famiglia, al singolare, e la necessità di considerare le famiglie, al plurale. Questa prospettiva, secondo gli autori, dovrebbe rendere più accettabile la possibile diversità tra l’una e l’altra “tipologia” di famiglia, evitando l’idea di superiorità di una su un’altra. Oggi, credo che ognuno di noi senta quotidianamente parlare e discorrere sulle “famiglie”, della presenza di differenti forme, da quella costituita da un solo genitore, a quella omosessuale (anche se ancora poco diffusa nel nostro paese), ma temo che sovente si tenda a far riconnettere l’idea di famiglia a un ideale, magari anche inconsciamente, a un modello di famiglia che ognuno di noi può avere in mente. Spesso frasi quali: “Quella famiglia non è normale”, “In quella famiglia fanno cose ben strane!”, “Ti sembra il modo di educare i bambini?” sono testimonianza di questo rischio. Questo mi fa riflettere parecchio, soprattutto in previsione di un futuro lavoro in ambito pedagogico: quale cultura si cela dietro le mie affermazioni, quale ideale, quale credenza. Sarò quotidianamente in contatto con famiglie, famiglie nuove, forse nella mia ottica diverse, strane, ma per questo non sbagliate, ecco. 60
Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p.13 61 Ferrario P., Politica dei servizi sociali: strutture, trasformazioni, legislazione, Carocci Faber, Roma, 2001, p. 218
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Quello che sarebbe opportuno nel momento in cui si entra in contatto con una famiglia, in quanto esperti di educazione e pedagogia, è di partire dal presupposto che non esista (..) a priori una famiglia data, ma che esistano modi di intenderla, non oggettivi, né neutri, ma storicamente e culturalmente collocati62. Credo che una riflessione e una presa di consapevolezza, in questo senso, siano necessarie e importantissime per chiunque, non solo per chi lavora in ambito educativo, pedagogico: far emergere l’implicito, la parte scontata dei propri pensieri, l’impalcatura che li sostiene, i presupposti “scontati” è il primo passo per creare una comunicazione e una comprensione efficace, a mio avviso. Un modo per farlo, in ambito lavorativo per esempio, credo proprio possa essere un confronto frequente in équipe, scambiandosi punti di vista differenti, idee completamente diverse, per giungere a una decisione comune, a una nuova visione del mondo e, non da ultimo, a una riflessione su sé stessi: cosa mi ricorda quella famiglia? A quali “modelli” faccio riferimento? Perché m’infastidisce così tanto quel determinato comportamento? (..) l’assumere che tutti hanno ragione è la condizione per fare dei passi avanti. Non si tratta di rinunciare ai propri giudizi, ma di risalire dai giudizi alle cornici (sia nostre che altrui) di cui non siamo consapevoli63 .
Se pensiamo alla nostra società, sicuramente è cambiato il vero e proprio significato di fare famiglia: se un tempo era una scelta sociale, per stabilire patti pubblici, oggi è più una scelta improntata sulle relazioni affettive. La coesione della famiglia d’oggi non è fondata tanto sul vincolo giuridico del matrimonio, quanto piuttosto sui vincoli di amore reciproco che legano i suoi membri64. Siamo in balìa di numerosi cambiamenti per quel che concerne l’assetto familiare e nuove dinamiche: i dati mostrano una forte riduzione di matrimoni, una crescita di coppie di fatto, una prolungata permanenza dei giovani presso la famiglia d’origine, la
62
Formenti L., Pedagogia della famiglia, Guerini Studio, Milano, 2000, p. 21 Sclavi M., Arte di ascoltare mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano, 2003, p.34 64 Lenti L., Long J., Diritti di famiglia e servizi sociali, Laterza, 2011, p. 105 63
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diminuzione di occasioni di socializzazione per i bambini, delegate alle istituzioni (Ferrario, 2001). Nonostante questa premessa però ancora oggi, da un punto di vista giuridico, tendenzialmente si continua a dare più rilievo alla famiglia basata sul matrimonio che, come esplicitava il magistrato Alfredo Carlo Moro, (..) costituisce la forma giuridica della convivenza di coppia obiettivamente insuperabile per garanzia di certezza, stabilità dei rapporti e serietà dell’impegno assunto. Ma bisogna riconoscere che se si realizza una convivenza del genitore – di entrambi i genitori – con il figlio o i figli, e se tra questi nascono intensi rapporti fraterni, è una pura astrazione giuridica definire questa stabile relazione un gruppo che non sia una famiglia65 .
1.4.1. Un breve viaggio alla scoperta delle famiglie (..) la famiglia può assumere strutture molto diverse adattandosi al contesto sociale, culturale ed economico in cui è inserita e anche le relazioni al suo interno possono essere molto diverse nel creare gerarchie e nel venire incontro, in misura più o meno soddisfacente, ai bisogni dei coniugi e dei figli 66.
Nel tempo si sono succeduti tanti tipi di famiglia, altrettanto differenti da quelli presenti oggi, nel 2014. Trovo interessante riportare alcuni esempi di famiglie presenti nel passato e in diversi paesi. Nell’antica Roma era presente il clan familiare, che presentava all’interno anche schiavi, liberti, figli naturali e adottivi, zii e cugini, balie e fratelli di latte. Alla testa del clan c’era sempre pater familias. Anche in Cina, il capofamiglia governava un gruppo numeroso: ma mentre la famiglia romana era monogamica quella cinese era poligamica.
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Ferrario P., Politica dei servizi sociali: strutture, trasformazioni, legislazione, Carocci Faber, Roma, 2001, p. 223 66 Oliverio Ferraris A., Caratteristiche e problematiche psicologiche delle nuove tipologie familiari: dalla famiglia del post divorzio alle famiglie omossessuali, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2, Franco Angeli, Milano 2007, p. 96
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Nel Tibet tradizionale si praticava, invece, la poliandria: gli uomini, commercianti, stavano lontano da casa per periodi molto lunghi, così una donna sposava anche i fratelli minori del marito perché ci fosse sempre un uomo in casa e i figli che nascevano consideravano loro padre il primo marito e fratello maggiore anche se erano stati concepiti da altre unioni67. In alcune zone dell’Africa (Sudan e Costa d’Avorio) ci sono matrimoni tra donne non lesbiche. Una donna ricca anziana può sposare una donna più giovane per garantirsi una discendenza. A riprodursi è la donna giovane aiutata da un uomo, che però è marginale alla coppia e non ha alcun diritto sui beni delle donne né alcun ruolo educativo per i figli 68. In Europa la forma famiglia più diffusa era quella estesa rurale; ma in città gli artigiani costituivano già delle famiglie nucleari. Un’istituzione familiare in salute è la migliore garanzia per la crescita di individui veramente autonomi e liberi69.
Credo possa essere interessante comprendere le varie tipologie di famiglia che oggi in Italia, come in tutto il mondo, sono presenti, tenendo a mente due assi: la relazione coniugale e la relazione tra genitore e figlio. La relazione coniugale può differire secondo vari caratteri, che sia un uomo con una donna a sposarsi, una donna con più uomini (per necessità sociali ed economiche per esempio se uno dei mariti deve spesso assentarsi da casa) o un uomo con più donne (per esempio nelle culture in cui c’è una forte enfasi per l’accrescimento della popolazione). Tendenzialmente tutte le società comunque tendono a identificare e definire pubblicamente i contenuti, quindi i diritti e i doveri, della relazione tra i componenti. Dal punto di vista della relazione genitori-figli possiamo distinguere le varie tipologie, a seconda che si tratti di famiglia patrilineare e matrilineare e del numero delle generazioni presenti, da due ad addirittura quattro generazioni. 67
Oliverio Ferraris A., Caratteristiche e problematiche psicologiche delle nuove tipologie familiari: dalla famiglia del post divorzio alle famiglie omossessuali, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2, Franco Angeli, Milano 2007, p. 95 68 Ivi, p. 96 69 Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p. 11
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E la nostra società come considera la “famiglia”? La famiglia come (..) la realtà più profonda dell’identità umana e sociale, una realtà primordiale che segna ancor oggi (..) il passaggio dalla natura alla cultura che riguarda ogni singolo essere vivente (ontogenesi) e l’evoluzione della specie umana (filogenesi). La famiglia è questo passaggio non solo perché si regge su vincoli e divieti, non solo perché – come relazione – è condizionata da un contesto storico – sociale – culturale, ma perché – sempre come relazione autonoma – ha una propria distinzione-guida che costituisce la sua ragione di essere sociale: l’esseredover-essere una relazione di piena reciprocità fra i sessi e fra le generazioni70.
Le famiglie sono considerate in una doppia valenza dallo stato: come una forza per la società, sono parte del mercato economico di un paese, si rendono disponibili per affidamenti, adozioni, sono sistemi sociali che meglio organizzano l’economia delle nostre società, sono un’unità economica! Eppure, sono anche debolezza, fragilità psicologica. Le politiche sociali messe in atto da uno stato per esempio, vanno proprio rafforzarne la forza e a intervenire per le funzioni in cui sono deboli. La società appartiene all’ambito della cultura, mentre la famiglia è l’emanazione, a livello sociale, di quei requisiti naturali senza i quali non ci potrebbe essere la società,né, in fondo, il genere umano. (Claude Lévi-Strauss, 1967)
Oggi, nella società complessa e differenziata in cui ci troviamo, come può la famiglia inserirvisi ed esserne accolta? La famiglia va considerata una realtà sociale vivente, capace di assumere forme nuove e di rigenerarsi continuamente71. Trovo interessante pensarla nel seguente modo. 70
Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p. 19 71 Donati P., Manuale di sociologia della famiglia, Editori Laterza, Bari, 2006, p. VIII
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L’identità della famiglia è possibile proprio dall’incontro tra individuo, gruppo familiare e istituzione sociale: la famiglia nasce dalle esigenze del singolo in relazione ad altri soggetti, per elaborarsi in una relazione intersoggettiva matura, possibile solo se orientata dal suo valore istituzionale72. Pensiamo al bambino. Egli si relaziona inizialmente in modo percettivo e in un secondo momento linguistico, prima con padre e madre, o attraverso le relazioni che significano qualcosa per lui. Le norme che apprende in famiglia e poi nell’ambiente sociale contribuiranno alla formazione della sua identità. La famiglia è base per creare relazioni e dare vita ad altre relazioni, con l’entrata del soggetto nel mondo sociale. Sembra quindi che la società sia la base per ognuno di noi, in quanto individui e in quanto parte di una famiglia. D’altronde anche la società stessa senza famiglia non potrebbe esistere. In effetti, la famiglia può essere intesa, dal punto di vista sociale, come un “sistema sociale vivente” che presiede alla riproduzione primaria della società, non solo per il fatto di generare e allevare figli, ma anche e soprattutto al fatto di prendersi cura dei bisogni primari delle persone che nella vita quotidiana, trasmettendo quegli stili relazionali di vita (..) che sono alla base delle solidarietà più ampie che ogni società riesce a organizzare nella sfera pubblica73. Certo forse sembra stia diventando sempre più latente e stiano prevalendo i singoli, gli individui, sembra che famiglia, matrimonio, coppia e genitorialità non stiano più insieme; ma in qualunque caso, la famiglia è e rimane la mediazione, il bene comune relazionale per i singoli e per la società. la famiglia come una piccola società, (..) una configurazione relazionale che va al di là della semplice somma di individui e non arriva mai ad essere un corpo organico. Il che significa che non esaurisce mai le sue possibilità74.
Per concludere, sembrerebbe che la famiglia nucleare sia ancora il modo più diffuso di fare famiglia. 72
Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p. 70 73 Ivi, p. 18 74 Ivi, p. 90
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La famiglia nucleare attuale può ricordare quella nucleare di trent’anni fa, da un punto di vista strutturale, ma si differenzia sempre più nel tipo di relazioni che esistono al suo interno: mentre nella classica famiglia nucleare i ruoli tra padre e madre erano “complementari”, nella famiglia nucleare contemporanea questi rapporti tendono ad essere simmetrici 75. Sono sempre più frequenti richieste ai padri per quel che concerne la cura dei figli, di svolgere attività domestiche. Questi nuovi aspetti della famiglia di oggi hanno sicuramente, come vedremo più avanti, un’enorme influenza sui rapporti che vanno a crearsi con i figli, adottati in questo caso, e nel loro inserimento all’interno dell’istituzione scolastica.
75
Oliverio Ferraris A., Caratteristiche e problematiche psicologiche delle nuove tipologie familiari: dalla famiglia del post divorzio alle famiglie omossessuali, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.2, Franco Angeli, Milano 2007, p. 96
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Capitolo secondo I bambini e la scuola primaria 2. Premessa E’ ben nota a tutti la cruciale importanza che la scuola riveste nella vita di tutti i bambini. La quantità di tempo che vi trascorrono, l’intensità delle relazioni che vi instaurano e l’importanza generalmente attribuita dagli adulti e dagli stessi bambini alle performance scolastiche, fanno sì che l’esperienza della scuola rappresenti un ingrediente fondamentale nel percorso di crescita di tutti i minori76.
Nel presente capitolo cercherò di avvicinarmi al focus della mia ricerca: l’inserimento del bambino adottato nella scuola primaria. Cercherò di comprendere cosa significhi comunemente inserimento nel mondo scolastico, quali problematiche o difficoltà possono mostrare i bambini e in che modo queste si discostano o si avvicinano a quelle, talvolta, mostrate dai bambini adottati. Come accennato nel capitolo precedente, oggi la nostra società è costituita da soggetti con nuove caratteristiche, con nuovi bisogni, che danno vita a nuove tipologie di famiglie. Questo aspetto influisce certamente sul mondo scolastico, che deve imparare a conoscere e ascoltare bambini e famiglie “nuovi”; in tal modo si può assistere a una scuola (..) in una condizione depressiva, di impotenza, in assenza degli elementi teorici, professionali, tecnici e metodologici nuovi e adatti al momento e alle situazioni attuali77. Quindi, appare, forse, (..) decisivo ripartire da una buona scuola, capendo e conoscendo le situazioni attuali, allentando (..) la standardizzazione delle modalità didattiche ed organizzative della nostra scuola, nella direzione di rispondere ai bisogni 76
Dondè D., Santi M., L’accoglienza nella scuola dei bambini in adozione e lo sviluppo di nuove prassi, da www.incrocicomuni.it, p.6 77 Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 10
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diversi con risposte diverse attraverso opportune discriminazioni positive verso chi parte con meno78. Inoltre, sembra che gli insegnanti si trovino soli in tutto questo, quasi con una sensazione di abbandono da parte dei vertici delle istituzioni scolastiche. Così, la scuola (..) si trova sotto il fuoco incrociato da una parte di pressanti compiti educativi dai quali è sollecitato da altri (società e famiglia in primo luogo) derivati in gran parte da difficoltà e mancanze proprie, e dall’altra si trova circondato da vuoti di pensiero e da carenze strutturali e istituzionali proprie che lo fanno sentire sempre più solo e disarmato delle proprie competenze formative ed educative di fronte ai compiti istituzionali che gli sono propri79. Quindi, in un’apparente condizione di disagio, in che modo scuola, famiglie e bambini riescono ad affrontare uno dei passaggi più importanti nella vita di un bambino?
2.1 L’inserimento scolastico Il passaggio dalla scuola dell’infanzia alla primaria è sicuramente una delle tappe più importanti nel percorso evolutivo di ogni bambino. L’ingresso nella scuola primaria è la prima esperienza che fa emergere il bambino dal nucleo familiare, per fare ingresso in un contesto relazionale diverso, caratterizzato da (..) rapporti privilegiati con gruppi di coetanei e con figure adulte diverse da quelle parentali80. Si creerà un vero e proprio gruppo classe, che, chiaramente (..) non è un ambiente omogeneo di persone che hanno gli stessi comportamenti apprenditivi e relazionali, piuttosto è un mondo eterogeneo in cui ogni alunno è portatore di una sua peculiare individualità che va rispettata e valorizzata, ponendo attenzione alla persona nel senso olistico del termine 81. Il bambino dovrà così assumere un nuovo ruolo: (..) da "figlio" passa al ruolo di "scolaro/studente" appartenente ad una comunità - la classe, la scuola - che ha regole
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Rossi-Doria M., Domanda educativa e lotta all’esclusione precoce. La scuola nella crisi. in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4, Franco Angeli, Milano, 2013, p.61 79 Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 11 80 Molin A. e Andrich S., Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati, 2012, da http://www.genitorisidiventa.org 81 Storace F., Capuano A., A scuola con difficoltà, da http://www.genitorisidiventa.org, 2011, p. 1
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proprie, nella quale ci si confronta con un'autorità esterna alla famiglia, l'insegnante, che ha il compito di guidare nell'acquisizione di conoscenze, abilità e competenze82. L’ingresso nel mondo scolastico non riguarda solo l’assunzione di un ruolo differente che il bambino deve indossare, ma anche la necessità di cambiare punto di vista: si troverà da (..) un mondo soggettivo a un mondo basato su una realtà oggettiva governata da regole condivise, in cui lui dovrà compiere uno sforzo di adattamento, adeguandosi a ciò che la nuova realtà gli richiede. È un po' come uscire dal confine protetto della propria casa, da solo, col proprio bagaglio costruito nei precedenti cinque anni, e avventurarsi verso un mondo nuovo, verso la crescita e quindi verso la vita, con le sue sfide ed i suoi rischi83. E la scuola dovrebbe, forse, porsi come obiettivo l’accoglienza, intesa come comprensione dei bambini con le loro espressioni di disagio, senza volerle “curare”, obiettivo che si discosterebbe da quelli educativi ai quali la scuola si appoggia.
2.1.1 I bambini adottati e l’ingresso nel mondo scolastico C’è un prima e un dopo nella vita del figlio adottivo: sia il prima che il dopo sono parti integranti della sua vita e i genitori devono aiutarlo a integrarle nel modo migliore, a poco a poco.. (..) per progredire nelle sue relazioni interpersonali il bambino necessita dell’esperienza, iniziale e successivamente confermata, di essere amato per se stesso, sempre, qualsiasi cosa gli accada o comunque si comporti. Solo da questa esperienza fortemente valorizzante possono nascere nel bambino la fiducia in “se stesso”, la sua disponibilità a far proprie le regole della convivenza e a contribuire a migliorarle84.
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Molin A. e Andrich S., Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati, 2012, da http://www.genitorisidiventa.org 83 http://www.nostrofiglio.it/bambino/bambino-6-14-anni/scuola-primaria/64312-alla-scuola-dei-grandidalla-materna-alle-elementari 84 Tonizzo F., La cura delle famiglie adottive, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.1, Franco Angeli, Milano, 2012, p. 169
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Come spiegato, l’ingresso nell’istituzione scolastica comporta un enorme cambiamento e un passaggio non sempre facile per i bambini. Intuitivamente per i bambini adottati questo può rappresentare un’ennesima messa alla prova sia per loro sia per le loro nuove famiglie. (..) una fase molto delicata per tutti i bambini sia della scuola della prima infanzia che della scuola primaria. I bambini si trovano ad affrontare una prima separazione dai loro genitori che il più delle volte crea ansia e agitazione. Questo discorso è stato condiviso anche dai genitori che hanno sottolineato l’importanza di curare i tempi di crescita e di maturazione durante tutto il percorso scolastico, in quanto spesso questi bambini hanno bisogno di avere un proprio tempo per “recuperare” fasi di sviluppo che sono loro mancate85.
Orientativamente possiamo considerare due fasi nell’inserimento specifico del bambino adottato86: •
Accoglienza relativa alla conoscenza del bambino o ragazzo nella sua storia pre e post adozione da parte della scuola. L'insegnante potrà conoscere il bambino o ragazzo nelle sue caratteristiche psicologiche, linguistiche e nel livello di sviluppo delle abilità scolastiche, potrà altresì preparare la classe all'inserimento del bambino nella classe in accordo con la famiglia, anche con il supporto dell'ente che ha seguito l'adozione. Saranno, quindi, prese delle decisioni condivise tra scuola e famiglia rispetto alle modalità di sviluppo dei requisiti utili ad una frequenza scolastica fruttuosa nella classe di iscrizione;
•
Accesso nella classe più adatta a quel particolare bambino/ragazzo. La scelta della classe e i tempi di accesso vanno effettuati mediando tra esigenze del processo adottivo, abilità scolastiche possedute dal bambino e richieste apprenditive della classe di inserimento.
85
Dondè D., Santi M., L’accoglienza nella scuola dei bambini in adozione e lo sviluppo di nuove prassi, da www.incrocicomuni.it, p.14 86 Molin A. e Andrich S., Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati, 2012, da http://www.genitorisidiventa.org
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Le fasi appena descritte avranno maggior successo e avvio positivo nel momento in cui si presenti una (..) collaborazione tra famiglia, scuola, servizi territoriali ed ente che cura l'adozione, nell'idea che la sinergia tra chi si occupa del bambino possa rendere il contesto educativo sensibile alla problematiche adottive. (..) la situazione particolare dei bambini stranieri adottati impone alla scuola un rinnovamento e una formazione sul tema specifico87. L’avvio della relazione con la scuola potrebbe (..) essere affrontato attraverso il coinvolgimento oltre che degli insegnanti, anche dei genitori e, se necessario, anche dei Centri Adozione o dei servizi del terzo settore competenti88. Il nuovo percorso d’inserimento scolastico, che la famiglia adottiva e il bambino s’impegnano a fare, potrebbe essere considerato non tanto un punto di arrivo, una conclusione, quanto un vero e proprio inizio. E la scuola in questo ha un ruolo e un’influenza basilare! Basti pensare al sostegno che può offrire al bambino per ciò che riguarda il suo passato, la sua storia, riconoscendo e valorizzando (..) le esperienze pregresse del bambino, nel suo saper fare, nelle sue autonomie può sostenere la sua autostima e attenuare il drastico cambiamento dei suoi punti di riferimento89. Inoltre, come espliciteranno anche gli esperti di adozione da me intervistati, per accogliere a scuola, in modo “positivo” (per tutti), il bambino adottato (e credo tutti i bambini) sembra che un requisito base sia, (..) nella fase di inserimento che il bambino si senta “accettato, tranquillo e a suo agio nell’ambito familiare, prima di essere catapultato in un ambiente come la scuola che non sempre si rivela accogliente e che anche quando lo è richiede comunque un notevole impegno psico – emotivo per il bambino, che deve imparare le regole di questo nuovo contesto90. Trovo fondamentale tenere a mente questo aspetto: (..) un minore straniero abbandonato e adottato ha innanzitutto bisogno di sentirsi amato, di ricevere un’affettività nutriente che lo aiuti a superare il dramma del suo passato e a conquistare la fiducia in sé, negli altri, nella vita, nell’autorealizzazione gratificante. 87
Molin A. e Andrich S., Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati, 2012, da http://www.genitorisidiventa.org 88 Dondè D., Santi M., L’accoglienza nella scuola dei bambini in adozione e lo sviluppo di nuove prassi, da www.incrocicomuni.it , p.14 89 Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p.3 90 Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 10
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Per questo è importante sollecitare il minore straniero adottato ad essere protagonista attivo del processo di apprendimento e di costruzione dei saperi, a stare bene con se stesso, gli altri, la famiglia, a scuola, nel mondo91. Un aspetto altrettanto importante e ancora dibattuto sull’inserimento del bambino adottato riguarda la classe in cui incominciare il percorso. In effetti, (..) spesso, l’età anagrafica dei bambini che arrivano in adozione non corrisponde all’età biologica di sviluppo psico-fisico. I tempi dei bambini adottati non sempre coincidono con quelli dei loro coetanei. E’ importante perciò curare il momento in cui inserire il bambino all’interno della scuola, valutare in quale gruppo classe inserirlo, con quali modalità e soprattutto con quale piano formativo.92 Questo ragionamento, teoricamente, può voler dire che scuola e famiglia, in collaborazione e disponibilità l’una all’altra, dovrebbero comprendere in modo specifico per quel bambino, quale possa essere la classe più adeguata. Scegliere la classe inferiore per agevolare l’apprendimento della lingua (nel caso di bambini adottati con l’internazionale per esempio), sfavorendo però magari il livello di socializzazione, essendo circondato da bambini più piccoli di lui od osare scegliendo la classe corrispondente alla sua età? Forse ci sarebbe bisogno di tempo, per conoscere quel bambino, per comprendere di cosa possa avere davvero bisogno in quel momento della sua crescita fisica e psicologica, a prescindere da ciò che, per esempio, è richiesto dal programma scolastico. Comprendere quel bambino, di cos’ha bisogno, dargli e darsi tempo, (..) tempo per capire, tempo per capire sé stessi, tempo per crescere, tempo per sentirsi a proprio agio con la propria crescita93. E, nel momento in cui il bambino entra a far parte di questa nuova esperienza, cosa succede da parte dei tre soggetti coinvolti?
91
Rubinacci D., I minori stranieri adottati e l’offerta formativa della scuola, Affari sociali internazionali, n.2, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 164 92 Dondè D., Santi M., L’accoglienza nella scuola dei bambini in adozione e lo sviluppo di nuove prassi, da www.incrocicomuni.it , p. 14 93 Guerrieri A., In che classe?, da http://www.genitorisidiventa.org, 2010, p.2
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gli stereotipi e i pregiudizi negativi, svalutanti, che spesso gravano sui paesi, sui popoli e su coloro che sono ritenuti appartenere a quei paesi e popoli, dai quali anche gli adottati di origine straniera provengono, coinvolgono l'immagine di sé che essi vanno sviluppando. Alla famiglia e necessariamente alla scuola, agli insegnanti è richiesta la capacità di guardare alle proprie idee preconcette riguardanti i paesi del sud del mondo e coloro che hanno il colore della pelle, i tratti somatici, linguaggi, culture, religioni diverse, poiché i contenuti di tali idee passeranno, in maniera esplicita o implicita, come messaggi che hanno profondamente a che fare con la costruzione dell'identità dell'alunno/a, anche quando di origine straniera e divenuto figlio, oltre che cittadino italiano, con l'adozione94.
La fretta, il pensiero del programma da portare a termine e le aspettative dei genitori, possono portare gli insegnanti del bambino adottato a focalizzarsi su un bambino generico, adottato, quindi magari straniero, associato magari al bambino immigrato, quindi “sicuramente” in cerca di bisogni speciali. Questo può avere come conseguenza il rischio che i (..) docenti assimilino il bambino adottato al bambino immigrato, proponendo interventi d’integrazione poco calibrati sui suoi bisogni; o che lo dimentichino nella sua specificità, evitando di progettare interventi di supporto e magari chiedendogli di portare testimonianze della sua infanzia precoce; ma anche che, pur riconoscendolo nella sua “normalità differente”, in mancanza delle competenze per accoglierlo nel modo più giusto finiscano per assumere nei suoi confronti atteggiamenti iperprotettivi ed eccessivamente condiscendenti, che possono trasmettere un messaggio di diversità e svalutazione negativo per il bambino95. Purtroppo, attraverso ricerche e indagini è emerso, inoltre, che spesso i bambini adottati che cominciano un percorso scolastico, più che essere considerati semplicemente bambini, bambini con una storia magari non “semplice”, senza necessariamente bisogni “speciali”, in realtà (..) spesso vengono considerati secondo due categorie 94
Lorenzini S., Adozioni internazionali ed esperienze scolastiche, da http://www.genitorisidiventa.org, 2011 95 Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p. 2
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macroscopiche: quella dell'handicap e quella dell'intercultura. Handicap quando si tratta di difficoltà nell'apprendere e nel vivere a scuola, intercultura quando si tratta di affrontare il tema delle "differenze". Entrambe le categorie non sono sempre pertinenti alla realtà dei bambini adottati96. (..) è importante che la madre offra, al momento giusto per il bambino, un rispecchiamento, una risposta alla domanda di senso di aiuto nell’individuazione di sé, che il bambino o la bambina rivolgono all’adulto. Si possono così costruire le basi di un “narcisismo sano” nell’infanzia, di un buon senso si sé e di sicurezza in se stessi. Ognuno sa che, quando non c’è stato tale rispecchiamento nell’infanzia, nella vita adulta si è continuamente costretti ad alimentarsi da fonti di conferme esterne, per poter sostenere un assai carente senso di sé e della propria sicurezza. M.G. Riva, 2004
Si è compreso quanto, il recupero della storia del bambino, seppur negativa, e il diritto all’identità garantito siano fondamentali per un buon inserimento del bambino all’interno del nuovo “mondo”. In effetti, (..) il vissuto emotivo di un bambino adottato rispetto al paese e alla lingua d'origine è diverso da quello di un bambino immigrato, pertanto il rapporto con la cultura di provenienza non va affrontato a scuola con le stesse modalità. Il passaggio da una cultura a un'altra rappresenta per un bambino adottato una cesura più dolorosa tra un prima e un dopo97. Oggi, si deve recuperare in pieno l’idea della triade adottiva all’interno della quale i tre poli (bambino, genitori biologici, genitori adottivi) sono connessi lungo un continuum temporale dal passato al futuro98.
Spesso sono bambini (..) pieni di ansie, che ne impediscono la concentrazione. 96
Guerrieri A., I bambini adottati e la loro scuola, da http://www.genitorisidiventa.org, 2010, p. 1 Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p. 3 98 Vadilonga, Il disagio nei bambini adottati, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4, Franco Angeli, Milano, 2011, p.68 97
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Andrebbero aiutati, soprattutto abbassando aspettative e obiettivi. Se sono troppo alti, non riusciranno a raggiungerli, e ciò provocherà insuccesso scolastico, con tutti i disagi conseguenti che tutti ben conosciamo: basso senso di autostima, odio per la scuola, e anche disturbi comportamentali e di relazione con compagni e insegnanti99. I genitori adottivi, da parte loro, per agevolare l’inserimento positivo del bambino a scuola, potrebbero provare ad abbassare le loro aspettative. Occorrerà quindi lavorare sulla calma, sulla rassicurazione, e non curarsi se ci vorrà del tempo per avere dei risultati soddisfacenti. Perché occorrerà prima colmare quelli che sono stati i tanti piccoli e grandi traumi nella sua vita100.
Uno dei principali “scopi” di scuola e famiglia, a maggior ragione quella adottiva, dovrebbe essere donare un sostegno al bambino per imparare a stare lui stesso bene, all’interno del contesto familiare, innanzitutto, e poi a scuola. (..) il minore straniero adottato, va sostenuto nella ricerca della sua identità, nella costruzione di un’immagine positiva di sé101.
La psicologa terapeuta familiare Cecilia Edelstein (2010) utilizza un’interessante termine: "migrazione invisibile" (..) per i bambini adottati-stranieri che, di fatto, hanno un'identità mista in quanto non sono italiani, ma neppure stranieri102.
2.2 Stare bene a scuola Una volta “inserito” o ambientato il bambino a scuola, come fa a stare “bene”? L’elemento base del benessere dei bambini, degli insegnanti e di conseguenza anche delle famiglie riguarda la relazione. Innanzitutto penso alla relazione tra bambino e insegnanti. 99
Genni Miliotti A., Adozione e difficoltà scolastiche, da http://www.leradicieleali.com, 2012, p.2 Ivi, p.3 101 Rubinacci D., I minori stranieri adottati e l’offerta formativa della scuola, Affari sociali internazionali, n.2, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 163 102 Molin A. e Andrich S., Il percorso scolastico dei bambini stranieri adottati, 2012, da http://www.genitorisidiventa.org 100
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Il rapporto del bambino con la sua maestra costituisce senza dubbio uno degli elementi essenziali del suo star “bene” o “male” nella situazione scolastica103.
Infatti, a scuola il bambino crea vere e proprie forme di attaccamento con i nuovi adulti di riferimento, sulla base di ciò che sono state le sue prime forme relazione con i caregivers. In tal modo è chiaro che ogni bambino si approccia a modo suo, con i propri modi e i propri tempi, basandosi sulle esperienze pregresse di rapporti instaurati con gli adulti. Questo forse talvolta è dimenticato dagli insegnanti che sovente si relazionano agli alunni come se questi si dovessero comportare in modo omogeneo, (..) come se il loro rapporto con gli adulti dentro la scuola fosse un qualcosa di scontato e derivasse da una situazione ideale, e non ammettesse differenze e peculiarità individuali anche notevoli104. Pretendere che il rapporto con l’insegnante si crei nella medesima modalità va contro il senso pedagogico dell’insegnamento, a mio avviso. Ogni bambino ha una propria modalità di rapportarsi, una sua modalità di imparare e di parlare, di ascoltare e di comprendere. Ogni bambino ha ricevuto un’educazione speciale e preziosa, positiva o negativa, da quella che è la sua famiglia biologica o adottiva. Ogni bambino considera l’adulto in modo differente, in base a come i primi adulti che l’hanno accolto nel mondo, l’hanno preso in braccio, gli hanno parlato, l’hanno amato, in base ai segnali e ai messaggi che ha ricevuto. (..) l’importanza della ricchezza che nasce semplicemente dalla diversità, dalla contemporanea presenza in uno stesso luogo di alunni differenti, caratterizzati da condizioni sociali di provenienza diverse, da qualità socioculturali molteplici e variegate105.
Sono stati condotti numerosi studi sull’idea dell’attaccamento dei bambini, basti pensare alla stessa Teoria dell’attaccamento di John Bowlby e ai successivi esperimenti di Mary Ainsworth; con essi in particolare sono stati elaborati alcuni modelli di attaccamento. Sicuro, disorganizzato, evitante e insicuro. 103
Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 28 Ibidem 105 Amenta G., Situazioni difficili in classe, Editrice La scuola, Brescia, 2006, p. 13 104
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Tralasciando quello “sicuro” e quello “disorganizzato”, che probabilmente presenta risultati più “seri” da un punto di vista evolutivo, quello “evitante” e quello “insicuro” sono messi in atto da bambini non clinicamente “riconosciuti” come problematici, ma piuttosto da bambini con “difficoltà” a livello comportamentale. Come vedremo più avanti, sembrerebbe trattarsi proprio di quei bambini che oggi mettono maggiormente in difficoltà gli insegnanti. Pensiamo per esempio a un bambino che ha come adulto di riferimento una persona che permette l’instaurarsi di un rapporto prepotentemente uno a uno. Il bambino-alunno potrà entrare in crisi appena l’insegnante si rivolge anche al gruppo. Il bambino potrà “ribellarsi” a questo comportamento in modalità considerate disturbanti l’ambiente classe, cercando in tutti i modi di riportare l’insegnante a prendersi cura solo di lui. Questo è solo un esempio, forse apparentemente banale, ma a mio avviso potrebbe essere interessante per l’insegnante cercare di riflettere, non in solitaria, ma in équipe, sul motivo che spinge il bambino a questo comportamento, a questo segnale di “malessere”, magari riflettendo sul tipo di attaccamento che quel bambino ha interiorizzato e in che modo la scuola, ora, può sostenerlo nell’elaborazione dello stesso. In tal senso, qualsiasi momento d’insegnamento-apprendimento può essere interpretato come un’occasione per arricchire il processo di attaccamento, in cui l’insegnante, come accennavo prima, potrebbe provare a rivolgersi al bambino, non tanto con un bambino ideale in mente, ma con l’intento di conoscere quel bambino. Rendersi consapevoli del tipo di sapere pedagogico cui si sta riferendo e di come, quando lavoriamo, lo decliniamo. Utilizziamo un certo sapere pedagogico in modo intenzionale e consapevole? In modo intenzionale, ma non completamente consapevoli delle sue mescolanze tra pedagogia familiare e pedagogia teorica colta?106
Dunque, se si creerà una buona relazione, un attaccamento buono tra l’insegnante e l’alunno, allora ogni momento di apprendimento, ogni consegna sarà ricevuta e accettata di buon grado dal bambino proprio come “testimonianza” del legame che tra i due si è creato. La relazione prima di tutto quindi. 106
Riva M.G., Il lavoro pedagogico come ricerca dei significati e ascolto delle emozioni, Edizioni Angelo Guerini, Milano, 2004, p.16
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Mi sembra interessante la definizione di Donald Winnicott del rapporto bambiniinsegnante: un modello relazionale non diretto, che non consiste nel guardarsi negli occhi, ma nel guardare entrambi nella stessa direzione; una (..) relazione simbolica perché implica un legame che passa necessariamente attraverso una condivisione mentale, e non più attraverso una semplice vicinanza fisica107. Così questo “guardare entrambi nella medesima direzione” si può per esempio pensare all’apprendimento come un guardare insieme nella medesima direzione e quindi, una sorta di “rinforzo” sul piano del legame di attaccamento. La funzione della scuola non può essere soltanto quella di trasmettere conoscenze. Essa, infatti, non può rivolgersi soltanto allo “scolaro”, dimenticando il “bambino” o la “persona” che c’è dietro108.
Oltre all’attaccamento, che può innescare una spinta nell’apprendimento, anche l’apprendimento stesso può spingere all’aumentare dell’attaccamento nei confronti di un insegnante. Sono due elementi che quindi s’intersecano e si danno forza vicendevolmente. Nel momento in cui il bambino mostra difficoltà di apprendimento, aspetto che oggi purtroppo sembra sempre più diffuso, l’insegnante dovrebbe, forse, comprenderle e riconoscerle e tentare di indagare le origini e le cause scatenanti, indagando anche ciò che concerne l’attaccamento del bambino. Per quel che concerne l’apprendimento non bisogna dimenticare inoltre di (..) riconoscere che le emozioni svolgono un ruolo facilitante o bloccante rispetto alla possibilità che un soggetto si costruisca i propri personali progetti di apprendimento. Sistema cognitivo, emozionale e motivazionale funzionano in modo interconnesso e si condizionano a vicenda109. Oltre alla relazione tra il bambino e l’insegnante, sembra fondamentale per il benessere dell’alunno instaurare positive relazioni con i pari. Instaurare relazioni 107
Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 31 Amenta G., Situazioni difficili in classe, Editrice La scuola, Brescia, 2006, p. 20 109 Maselli M., Di Pasquale G., Quanto è difficile. Il disagio e il ruolo della scuola, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 176 108
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orizzontali. In effetti, l’apprendimento non può avvenire se l’individuo è isolato. Esso richiede necessariamente il rapporto con i pari110. Senza dimenticare che Sviluppare una relazione sana con gli altri, poter entrare in un gruppo e costruire relazioni gratificanti, implica una relazione adeguata innanzitutto con sé stessi111.
Ho trovato interessanti, a tale proposito, alcuni punti esplicitati dallo psicologo Giuseppe Nicolodi. Egli ha individuato come possibile punto di svolta perché si creino dei buoni rapporti sociali all’interno della classe due caratteri: assertività e resilienza. Assertività nel senso che la più proficua modalità di comunicazione tra gli individui, dovrebbe essere proprio assertiva, ossia tentare di giungere a un equilibrio tra i singoli senza prevaricare le esigenze di ognuno. Questo, a scuola potrebbe significare, quindi, riuscire a educare al rispetto di ognuno, di ogni singola persona, dotata di diritti, diritto ad accettare, a rifiutare, ascoltare senza giudicare. Quindi ad avere (..) una buona coscienza e stima di sé, a saper ascoltare le idee e i sentimenti degli altri senza perdere il diritto ad avere delle idee e sentimenti propri (..)112. Sembra essere una grande sfida, oggi a maggior ragione, nella nostra società dell’intolleranza e della pretesa che il proprio punto di vista prevalga sugli altri. Una società in cui chi la pensa diversamente è purtroppo ancora giudicato negativamente, come un diverso e non come una ricchezza da cui apprendere e a cui “regalare” qualcosa. La seconda caratteristica da tener presente a maggior ragione nelle nostre aule, luogo in cui i bambini trascorrono buona parte del loro tempo è, secondo Nicolodi, la resilienza. 110
Reffieuna A., L’educazione del bambino fra scuola, servizi e associazionismo. Conoscere gli alunni per realizzare le finalità educative della scuola, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.3 Franco Angeli, Milano, 2012, p. 230 111 Amenta G., Situazioni difficili in classe, Editrice La scuola, Brescia, 2006, p. 115 112 Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.37
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Resilienza intesa la capacità umana di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne addirittura rinforzati. Oggi nelle nostre famiglie i bambini sembrano trovarsi sotto una “campana di vetro”, circondati da adulti che non esitano a “bombardarli” di nozioni e a sostituirsi loro. Adulti che vogliono evitare ogni “dolore” ai bambini, che tentano di non farli incontrare con le parti negative e “cattive”, banalmente anche la semplice “sbucciatura al ginocchio”. Pensando alla resilienza a livello educativo, si può forse dare senso al dolore, senza eliminarlo e senza farlo diventare necessariamente esperienza di stress negativo, ma cercare di incontrarlo, di affrontarlo, di “parlargli” e crescere proprio dall’incontro con esso. Invece pare che oggi il bambino sia “iper” protetto, così prezioso, così idealizzato che non possa nemmeno appunto.. cadere e farsi male. Trovo curioso e interessante pensare che nell’antichità la vera prova di essere cresciuti, di essere cambiati consisteva nell’affrontare le situazioni di dolore, da cui poter guadagnare preziosi apprendimenti. Ma, in effetti, con (..) la crisi dell’autoritarismo all’interno della famiglia e il graduale affermarsi in Europa di modelli sociali consumistici e narcisistici all’inizio degli anni ’80, (..) si è giunti a dare più spazio al valore della persona, ma anche a pseudo valori individualistici e edonistici113. Mantenendo questa visione, all’interno dell’istituzione scolastica, l’insegnante, inteso come adulto autorevole, presente e forte, potrebbe far affrontare ai bambini le situazioni di “frustrazioni” con cui si scontrano, proprio per apprendere e crescere. Per ultima, ma non in ordine di importanza, ha un peso molto rilevante sul benessere del bambino, la relazione tra la scuola e la famiglia. (..) il tipo di relazione che predomina in un certo contesto determina la costruzione del discorso, ossia ciò che può e ciò che non può essere detto, così come la forma e il registro degli scambi comunicativi. (..) tutte le ricerche socio-semiotiche mostrano che è attraverso la partecipazione alle conversazioni informali che il bambino apprende e costruisce il proprio linguaggio.
113
Miscioscia D., Crisi, cambiamento e crescita: come trasformare la recessione in un’occasione di sviluppo. in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4 Franco Angeli, Milano, 2013, p.99
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Per questa regione, nel processo di insegnamento-apprendimento va operata una mediazione fra il linguaggio dell’insegnante e quello del mondo di riferimento del bambino114.
Oggi, la scuola deve affrontare e gestire nuove situazioni, diverse da quelle degli anni passati. Inoltre si può comprendere che prima la famiglia aveva una sicurezza della continuità dei valori, delle norme e regole trasmessi nelle proprie relazioni, nel sistema scolastico; la scuola, (..) nell’esercizio della sua fondamentale azione di socializzazione secondaria trovava nella famiglia un valido alleato, che si riconosceva non tanto nei contenuti, quanto soprattutto nella cornice normativa e valoriale in cui si muoveva la scuola115. La famiglia è una “piccola società” (..) una configurazione relazionale che va al di là della semplice somma di individui e non arriva mai ad esser un corpo organico. Il che significa che non esaurisce mai le sue possibilità116.
Ora invece, scuola e famiglia si trovano ad assumere ruoli e compiti nuovi e con esiti incerti: basti pensare che la situazione economica, lavorativa attuale richiede di (..) sviluppare, nei giovani, il controllo della natura interna, ma, soprattutto, (..) maturare e realizzare un progetto di vita, al cui interno le competenze professionali e le sicurezze primarie sono sì importanti, ma non più sufficienti. Infatti, oggi sono necessarie all’interno della nostra società: (..) adattabilità, flessibilità e capacità di valutare i rischi, in quanto attrezzi che i giovani dovrebbero sapere maneggiare per entrare nel mondo degli adulti. Ingresso che, tra l’altro, si sposta sempre più in avanti117. Dunque, se poco tempo fa la famiglia e la scuola agivano in modo differenziato, per quel che riguarda compiti e funzioni, ma in erano comunque complementari, ora la situazione è diversa.
114
Nigris E., Le domande che aiutano a capire, Bruno Mondadori, 2009, p. 71 Di Nicola P., Landuzzi M.G., Masotto M., Famiglia e scuola: quando la complementarità svanisce, Sociologia e politiche sociali, Fascicolo n. 3, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 131 116 Donati P., Perché “la” famiglia? Le risposte della sociologia relazionale, Edizione Cantagalli, Siena, 2008, p.8 117 Di Nicola P., Landuzzi M.G., Masotto M., Famiglia e scuola: quando la complementarità svanisce, Sociologia e politiche sociali, Fascicolo n. 3, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 136 115
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Sulla scuola le famiglie hanno riversato aspettative molto più ampie – dall’istruzione si è passati alla formazione dell’identità in senso ampio delle giovani generazioni – sia perché il sistema simbolico e valoriale di riferimento (di insegnanti e genitori) deve sempre più frequentemente confrontarsi con una realtà sociale caratterizzata da una molteplicità senza unità; con una realtà sociale che costringe gli attori sociali a cimentarsi quotidianamente con il tema-problema della diversità (..). Scuola e famiglia sono comunque chiamate, pur in una situazione socio-culturale completamente diversa, a contribuire ai delicati processi di costruzione dell’identità sociale delle giovani generazioni, costruzione il cui esito sembra essere sempre più contingente e provvisorio (..).118 In effetti, se prima (..) per vivere dignitosamente era sufficiente saper leggere, scrivere e far di conto, oggi la complessità sociale presuppone capacità di trovare le informazioni utili, di interpretarle, di correlarle tra loro, di fare scelte consapevoli, di aggiornarsi in autonomia119. I compiti sembravano essere chiari, ognuno sapeva cosa, come e quando svolgere il proprio. Gli insegnanti possedevano una competenza e una conoscenza che si distanziavano parecchio da quelle genitoriali. Di conseguenza, (..) il genitore, si affidava alle competenze
professionali
dell’insegnante,
rispetto
al
quale
conservava
un
atteggiamento di deferenza e distacco. Rispetto al quale, ovviamente, non esercitava mai l’arte del dubbio e della scelta120. Oggi, un comportamento sempre più frequente è proprio la tendenza della famiglia a delegare ad altre agenzie e a non svolgere più i compiti di crescita e di accompagnamento dei propri figli. Il ruolo che i genitori oggi sembrano svolgere, appare (..) più affettivo che etico: (..) si sono orientati soprattutto a trasmettere ai figli amore, presenza, bontà e sicurezza, mentre appare molto più sfumato rispetto al passato l’obiettivo educativo di trasmettere regole e principi. Per la prima volta nella 118
Di Nicola P., Landuzzi M.G., Masotto M., Famiglia e scuola: quando la complementarità svanisce, Sociologia e politiche sociali, Fascicolo n. 3, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 137 119 Spada L’educazione del bambino fra scuola, servizi e associazionismo in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.3 Franco Angeli, Milano, 2012, p. 236 120 Di Nicola P., Landuzzi M.G., Masotto M., Famiglia e scuola: quando la complementarità svanisce, Sociologia e politiche sociali, Fascicolo n. 3, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 138
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storia il ruolo genitoriale non viene più appreso nella trasmissione da una generazione all’altra. I genitori, quindi, sono spesso soli a prendere decisioni e a determinare i propri comportamenti educativi121. Invece, la stessa (..) psicologia dell’educazione sottolinea come il coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica degli alunni favorisca il raggiungimento dei risultati accademici (Jeynes, 2009), incrementando le performance degli studenti tanto nella scuola primaria (Driessen, Smit e Sleegers, 2005) quanto nella scuola secondaria inferiore (Hill e Tyson, 2009)122.
2.2.1 La scuola e la famiglia adottiva La famiglia adottiva (..) avrà comunque bisogno, più di quella biologica, di una stabilità che permetta di recuperare la frattura del tempo e la storia non comune. I genitori adottivi dovrebbero poter essere accompagnati a (..) elaborare le loro paure, condividere le aspettative reciproche, di imparare a farsi trovare preparate ed unite di fronte all’imprevedibilità del futuro e ad incamminarsi sulla strada del cambiamento e della possibilità; di predisporsi ad affrontare il vissuto di bambini orfani di genitori fantasticati con nostalgia (..).123
Ciò che mi sono prefissata di comprendere è come la storia del bambino possa influire sul suo inserimento scolastico, oltre che familiare ovviamente, e come la scuola possa sostenere un suo benessere. Come premessa sento di dover ricalcare l’enorme cambiamento che l’istituzione adozione ha subìto in questi ultimi anni. E con essa, anche il pensiero e le modalità per affrontare il tema, sia in famiglia che a scuola. 121
Miscioscia D., Crisi, cambiamento e crescita: come trasformare la recessione in un’occasione di sviluppo. in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4, Franco Angeli, Milano, 2013, p.100 122 Addimando L, I comportamenti controproducenti dei genitori a scuola: un’analisi sulla soddisfazione e l’autonomia lavorativa degli insegnanti, Psicologia della salute, n.2, Franco Angeli, 2013, p.34 123 Brinchi M., Avvocato V., Barbara B., Oltre lo specchio: coppie e bambini nell’iter adottivo, in Psicobiettivo, Volume XXVII, 2007, CASO CLINICO, p.113
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(..) il nuovo modello di adozione si fonda sull’idea di continuità tra presente e passato124.
In effetti, se prima con l’atto di adozione, i genitori tendevano a “dimenticare” il passato del bambino, a cambiare il nome a questi (e talvolta succede ancora) e quindi raramente erano attivati interventi alle famiglie, per cura e sostegno su questo aspetto, ora la situazione è ben diversa. È in corso il passaggio da un modello adottivo fondato sul segreto delle origini, sull’interruzione del passato, a un modello adottivo fondato sul recupero dello stesso, dove la storia del bambino non inizia nel momento in cui incontra la famiglia adottiva, sia che questo avvenga a pochi mesi di vita, sia che avvenga ad età avanzata, ma inizia dal momento in cui è nato. (..) diffondere nella scuola una cultura dell'adozione, da considerare come uno dei modi possibili di “fare famiglia” oggi, all’interno di una pluralità di modelli125,
Quindi, ancora, come per le famiglie non adottive, sembra necessario che con la scuola si riesca a instaurare una relazione chiara, di disponibilità e collaborazione, per sostenere e accompagnare il bambino e i suoi nuovi genitori in questo percorso. Senza, forse, la pretesa che a scuola si discuta e si rifletta sull’adozione in sé, quanto si trasmetta una cultura che mostri la possibilità e la presenza di famiglie eterogenee, da quella immigrata a quella con la madre single, come modi di fare famiglia, senza tenere a mente, per quanto possibile, un modello di famiglia “giusto”.
124
Vadilonga, Il disagio nei bambini adottati, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.4 Franco Angeli, Milano, 2011, p. 64 125 Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p.1
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2.3 Difficoltà scolastiche, disturbi. Ieri e oggi. (..) le emozioni nel processo di apprendimento (..) ritenerle un repertorio di conoscenze che mettono gli individui in grado di rispondere in modo adeguato alle diverse situazioni, in quanto consentono di attribuire il significato corretto agli eventi. Le emozioni fanno da guida ai ragionamenti, non sono in contrasto con questi ultimi. Senza le emozioni la cognizione non dispone di sufficiente supporto, ma in assenza della capacità di controllare le emozioni e di inibire i comportamenti negativi, gli allievi non risultano capaci né di quell’attenzione sostenuta e focalizzata che è indispensabile per apprendere né di quella metacognizione che consiste in primo luogo nel sapere ciò che si sa e ciò che non si sa e che consente se necessario di richiedere aiuto ad altri, né di quelle strategie di memoria che consentono di trasferire nella memoria a lungo termine ciò che è stato acquisito e di operarne il recupero successivamente126.
Che tipo di problemi possono essere riscontrati oggi nella scuola primaria? Trovo interessante introdurre questa riflessione, attraverso un breve excursus sulla scuola italiana. Una delle prime riforme che ha visto coinvolta la scuola italiana, risale al 1923, con la Riforma Gentile, con cui è stato pensato il sistema scolastico propriamente in funzione della situazione sociale dell’epoca. (..) la classe era concepita come comunità omogenea composta di alunni uguali127.
A quei tempi, lo scopo principale della scuola era quello (..) di selezionare la classe dirigente e, al contempo, insegnare a tutti gli elementi essenziali del leggere, scrivere e far di conto128. Quindi la scuola primaria offriva e prevedeva apprendimenti base, 126
Reffieuna A., L’educazione del bambino fra scuola, servizi e associazionismo. Conoscere gli alunni per realizzare le finalità educative della scuola, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.3, Franco Angeli, Milano, 2012, p.230 127 Pozzar R., L’istituzione scuola e il bambino omologato, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.1 Franco Angeli, Milano, 2014, p. 18 128 Spada G.L., L’educazione del bambino fra scuola, servizi e associazionismo, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.3 Franco Angeli, Milano, 2012, p. 232
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mentre la scuola secondaria era ritenuta di “élite”: per esempio, l’accesso all’università era possibile solo in seguito al liceo classico. Inoltre a quei tempi, e forse non solo, i bambini erano considerati secondo tre grandi categorie: normali, anormali e immaturi. Attraverso la riforma Gentile è stato dichiarato che il “problema” dei bambini anormali sarebbe stato affrontato solamente da un punto di vista assistenziale e non educativo e scolastico. Addirittura la riforma dichiara che (..) quando gli atti di permanente indisciplina siano tali da lasciare il dubbio che possano derivare da anormalità psichiche, il maestro può, su parere conforme dell’ufficiale sanitario, proporre l’allontanamento definitivo dell’alunno al direttore didattico governativo o comunale129. Per quel che riguardava invece i bambini considerati immaturi, la decisione rimaneva comunque quella di non togliere l’equilibrio dell’ambiente dei normali e allontanare gli altri, con scuole speciali o con la ripetizione dell’anno scolastico. Nel momento in cui non fosse riconducibile a nessuna delle tre categorie, il bambino poteva essere espulso da scuola e ricoverato in riformatorio. Nel 1923 l’utenza si ampliò persino, (..) a ciechi e sordomuti e, si noti bene: “purché non presentino altra anormalità” e comunque in appositi istituti130. Si deve attendere il 1940 per avere tutte le scuole medie unificate e la possibilità di accesso alle scuole superiori, attraverso un esame di ammissione. In caso di non superamento, si sarebbe provveduto con un avviamento professionale, senza ulteriore possibilità di istruzione. Successivamente, nel 1962 l’articolo 34 della costituzione, dichiara che La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso131.
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Pozzar R., L’istituzione scuola e il bambino omologato, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.1 Franco Angeli, Milano, 2014, p. 17 130 Ivi, p.18 131 Dal sito https://www.senato.it/1025?sezione=121&articolo_numero_articolo=34
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Con esso fu inoltre istituita la scuola media unica per garantire un’uguale opportunità di accesso all’istruzione, assicurando così un livello minimo culturale, nonostante però un abbassamento della qualità. Questo probabilmente anche a causa della (..) scarsa competenza socio-pedagogica di parte del corpo docente (particolarmente di quello proveniente dalla vecchia scuola media) che acuì il problema interpretando la nuova struttura come un invito a promuovere tutti, anziché innescare nuovi meccanismi di crescita conformi alle potenzialità di ciascuno132. Man mano, il mondo del lavoro stava diventando più vario e, di conseguenza, il contesto socio-economico richiedeva una sempre maggiore flessibilità alla forza lavoro. Solo negli anni ’70 comincia un movimento contro l’idea di normalità e omologazione degli alunni nelle scuole. Il 4 agosto 1977, con la legge n. 517, sono introdotti (..) concetti quali: programmazione educativa, attività organizzate per gruppi di allievi, realizzazione di interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni; non è più l’alunno a doversi omologare alla ideale normalità che l’istituzione ipotizza, pena l’allontanamento, ma è la scuola a doversi far carico della diversità degli alunni, di tutti gli alunni; per i casi di disabilità con l’ausilio dell’insegnante di sostegno133. Inoltre, è stabilito l’ingresso obbligatorio di tutti i bambini, anche disabili, all’interno della scuola. Questo è un importante cambiamento. Se fino ad allora, i bambini con “bisogni speciali” erano stati esclusi e collocati all’interno di scuole apposite, la situazione viene capovolta, per cui: (..) le scuole e i docenti non erano del tutto preparati ad accogliere in classe gli allievi in situazione di handicap. (..) non era facile gestire (..) gruppi eterogenei che richiedevano risposte, strategie, modalità di intervento diversificate e speciali134.
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Spada G.L., L’educazione del bambino fra scuola, servizi e associazionismo, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.3 Franco Angeli, Milano, 2012, p. 234 133 Pozzar R., L’istituzione scuola e il bambino omologato, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.1, Franco Angeli, Milano, 2014, p. 20 134 Amenta G., Situazioni difficili in classe, Editrice La scuola, Brescia, 2006, p.13
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Così, si può davvero parlare di vera e propria educazione inclusiva: (..) ogni bambino, indipendentemente dal livello di difficoltà o di disabilità, dovrebbe avere diritto a un’istruzione di qualità insieme a compagni più abili, senza essere (..) escluso dalle classi ordinarie a causa di disabilità o difficoltà di apprendimento135. A questo evento, si deve aggiungere la chiusura degli istituti e dei manicomi grazie alla legge n. 180 del 13 maggio del 1978, la cosiddetta legge Basaglia. Insomma, la scuola italiana ha “dovuto” così armarsi per ricevere tutti i bambini, appunto anche i portatori di handicap, di disabilità o di varie forme di diversità136 La risposta che la nostra scuola è riuscita a dare è stata molto positiva, mettendo in atto profondi cambiamenti e rinnovamenti, tanto da essere riconosciuta come una tra le migliori d’Europa. Alcune delle novità di quegli anni sono state per esempio (..) tempo pieno, le classi aperte, la costituzione dei laboratori con attività parallele e complementari alle classiche attività curricolari (teatro, musica, psicomotricità e attività espressive in generale)137. Altro elemento che ha contribuito al “successo” per questa nuova sfida è stato il sostegno che la scuola ha trovato intorno a sè: il mondo del sociale e quello della salute l’hanno sostenuta e accompagnata costantemente. Insomma, qualche anno fa la scuola era per l’Italia un vero fiore all’occhiello. Poi qualcosa col tempo è cambiato. Oggi ci troviamo in una situazione diversa e con soggetti differenti. Sembra che la complessità del lavoro degli insegnanti non “aumenti” per la presenza di bambini con bisogni speciali, magari portatori di handicap. In effetti, fortunatamente, il numero di bambini con bisogni speciali è molto diminuito: grazie alle moderne ricerche in campo medico sono state ridotte fortemente le patologie neurologiche e anche grazie, per esempio, allo screening precoce prenatale, le patologie genetiche con conseguenze a livello evolutivo sono minori. Così, oggi la complessa gestione da parte dei docenti delle attività, della classe e del loro rapporto con i bambini, riguarda l’aspetto relazionale degli stessi.
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Garbo R., Prospettiva inclusiva e percorsi di vita, Edizioni Junior, Azzano San Paolo, 2009 Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.19 137 Ivi, p.20 136
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In tal modo, mondo della scuola e mondo della sanità, che con la legge 517 avevano affrontato positivamente la nuova sfida di accoglienza dei bambini portatori di bisogni speciali, si sono man mano allontanati. Un’enfasi a tale situazione è stata data dall’introduzione del “ICD-X” (Decima Classificazione Internazionale delle malattie e dei problemi correlati), stabilito dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità): essa prevede un riconoscimento mondiale delle diagnosi, con la vera e propria classificazione internazionale di malattie e problemi. Così che tipo di problematiche o difficoltà possono essere individuate oggi, a scuola? Una premessa è che sarà evidente a chiunque quanto sia alto il tasso di stimolazione che si offre ai bambini, oggi. Il bambino sembra essere (..) abituato a un funzionamento mentale fatto di spot continui, intensi, ma frammentati e variabili (..) che vive con una certa difficoltà il fatto di lasciarsi contenere tra banco e sedia con lo sguardo e la mente fissi sull’insegnante per tempi lunghi
138
. Proprio a tale proposito il
“provvedimento” che gli insegnanti potrebbero prendere, piuttosto di incolpare il bambino e la famiglia, può essere “andare incontro” alle difficoltà del bambino. Quindi, pensare a una sistemazione e posizione più agevole per le sue necessità: all’estremo esterno della fila dei banchi, per permettergli di alzarsi, muoversi… Bisognerebbe, e per davvero, abbandonare il pensiero di trovare soluzioni scolastiche perfette. Nei casi concreti si tratterà spesso di trovare la soluzione migliore per quello specifico bambino che si ha dinanzi in quell'istante, consci che si darà prevalenza a qualcosa su qualcos'altro e che ogni scelta comporterà anche rinunciare a qualche aspetto che si ritiene essenziale sulla carta ma poi poco affrontabile nella realtà139.
Le difficoltà individuabili, più o meno gravi, senza entrare in vere e proprie classificazioni diagnostiche sono: bambini “vivaci”, (..), quelli “provocatori”, che “non rispettano le regole”, “disattenti”, “aggressivi”, “inibiti”, “assenti”, “persi nei loro pensieri”(..)140. 138
Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.58 Da http://www.lazioadozioni.it/lazioadozioni/contenuti/?id=L-039-Inserimento_12_125_182 140 Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.12 139
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In particolare, si possono analizzare oggi, nei bambini sono divisibili in: difficoltà strumentali, difficoltà emotiva a espressione implosiva, difficoltà emotiva a espressione esplosiva, il rapporto scuola famiglia e infine altre difficoltà (Nicolodi, 2011).
−
DIFFICOLTA’ STRUMENTALI
Si tratta delle difficoltà strumentali o cognitive connesse ai principali processi di apprendimento, specifici del programma della scuola primaria. Questo primo blocco di difficoltà riguarda i problemi strumentali più seri, che dipendono dallo status neuropsicologico del bambino. Il successo educativo nei confronti di queste difficoltà è rappresentato dalla permanenza del sintomo di dislessia, discalculia ma in un bambino che si sente accolto, felice di andare a scuola e il cui problema non causa altri tipi di problemi. In queste difficoltà si possono individuare alcuni sottogruppi che descriverò brevemente, di seguito. Difficoltà di attenzione e concentrazione In questa categoria possiamo distinguere: Orientamento dell’attenzione – non può essere “classificato” come un vero e proprio disturbo. Semplicemente il bambino pone la sua attenzione a qualche punto d’interesse differente dalla lezione dell’insegnante. Starà a questa limitare le (..) fonti d’attenzione del bambino141. Energia dell’attenzione – si tratta di un comportamento messo in atto da un bambino che ha fortemente bisogno di (..) una contiguità spaziale o temporale con l’adulto. Il bambino è come se fosse perso nei suoi pensieri, e nel momento in cui si domanda a cosa stava pensando invece di ascoltare l’adulto, lui non sa esplicitarlo. Se lo sapesse fare, saremmo in presenza della categoria precedente142. Le cause di questo comportamento sono spesso (..) d’origine neuropsicologica, psicologica, relazionale o socio-parentale143. Forme miste che sono la conseguenza di difficoltà emotive più generali – in questo caso le difficoltà derivano da un problema di tipo psicologico-emotivo, o possono
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Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.60 Ibidem 143 Ibidem 142
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essere (..) effetti traumatici o mini traumatici che il bambino o la sua famiglia possono aver vissuto144. Difficoltà di attenzione e concentrazione con (o senza) iperattività – (..) si tratta di una disabilità evolutiva che fa riferimento a uno specifico problema di sviluppo145. Può dipendere da fattori di tipo psicologico-relazionale e neurobiologico. Questi bambini sono “vittime” di stimoli successivi e frammentari; mostrano così difficoltà a prestare attenzione per il tempo necessario. Non rispettano i turni, le norme di educazione sociale. Vengono così conseguentemente emarginati dai compagni. Non riescono a concentrarsi sui dettagli, svolgono i compiti in modo superficiale e trascurato e il loro stesso aspetto fisico mostra disordine e confusione. Dal punto di vista clinico si tratta della ormai famosa ADHD (Attention Deficit Hiperactivity Disorder), o DDAI (Difficoltà Di Attenzione e Iperattività). Difficoltà di decodifica del codice scritto Dislessia – Difficoltà nella lettura e nella scrittura. Secondo l’ICD-X, si definisce dislessia (..) una specifica e significativa compromissione nello sviluppo delle capacità di lettura che non è solamente spiegato dall’età mentale, da problemi d’acutezza visiva o da inadeguata istruzione scolastica. “Hai un problema, ma non sei un problema” questa è la frase che gli adulti di riferimento del bambino colpito per esempio da dislessia dovrebbero trasmettere. Difficoltà di comprensione del messaggio Il bambino mostra difficoltà nel comprendere il senso o il significato di un testo scritto. Al di là delle difficoltà specifiche possono inoltre interferire aspetti caratteristici del bambino che lo mettono in “svantaggio ” per l’apprendimento: origine sociale, culturale o ambientale. Queste caratteristiche chiaramente non costituiscono un aspetto irreversibile del bambino, ma sono superabili con strategie didattiche e operative specifiche. Difficoltà a passare dalle operazioni concrete a quelle astratte Discalculia evolutiva – ha origini neuropsicologiche e si riferisce a difficoltà nel calcolo. Le più comuni sono difficoltà di memorizzazione, percettivo-motorie,
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Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.60 Ivi, p. 61
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disprassiche, di organizzazione e integrazione spazio-temporale, nell’esecuzione di consegne, nel processo di simbolizzazione146. Difficoltà di organizzazione dello spazio grafico Sono difficoltà che riguardano un problema di sviluppo del bambino. Il problema del bambino deve essere “accolto”, così da fare in modo che il problema del bambino non crei successivi problemi evolutivi. Disprassia – se per prassia s’intende un gesto, un’azione finalizzata a uno scopo (..) e che quindi implica la simultanea organizzazione e coordinazione di più schemi motori in una sequenza spaziotemporale corretta, con la disprassia questo manca. Come conseguenza il bambino avrà difficoltà nella maturazione di competenze naturali; metterà in atto movimenti difficoltosi, maldestri. O ancora, potrà avere difficoltà nello svolgimento di un’azione in sequenza logica, quindi (..) corre il rischio di perdersi nello svolgimento dell’azione che deve compiere, oppure si può trovare di fronte a delle difficoltà d’organizzazione dello spazio grafico del foglio (..)147. Il bambino potrà apparire pigro, svogliato, ma in realtà questa sarà una difesa per evitare di fare brutta figura. Disgrafia – è una difficoltà che riguarda la scrittura specifica. Studi dimostrano che la scrittura, quale “punto i congiunzione tra linguaggio, motricità e assetto tonicoemozionale sembra riflettere, come un sismografo, le vicissitudini della relazione tra l’individuo e il mondo circostante”, quindi il tratto grafico diventa in seguito un elemento caratterizzante e discriminante l’individualità di ciascuno (..)148. Disortografia – è una difficoltà che riguarda la trasformazione del linguaggio parlato in linguaggio scritto. Problemi strumentali Le ultime due difficoltà che vado ora a esplicitare possono facilmente essere superate e i sintomi possono presto scomparire per ottenere un successo educativo soddisfacente. Non riguardano infatti uno “status evolutivo, ma una situazione a lui contingente che può essere superata proprio anche grazie all’intervento scolastico.
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Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.86 Ivi, p.78 148 Da G.B Camerini, C. De Panfilis, Psicomotricità dello sviluppo, Carrocci, Roma, 2003, p. 201, in Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.78 147
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Situazioni di svantaggio socio-ambientale Si comprendono bambini che provengono da situazioni sociali e famigliari disagiate o deprivate e che come conseguenza finale potrebbero mostrare difficoltà mentali. Sono stati poco stimolati e poco sollecitati da piccoli, quindi si dimostreranno poco interattivi e curiosi. Difficoltà linguistica In esse vengono compresi i bambini stranieri che hanno difficoltà ad apprendere la nuova lingua. I bambini presentano, frequentemente, significativi disturbi dell’attaccamento che danno origine a comportamenti caratterizzati o da forte diffidenza e chiusura nei confronti degli adulti o da una esagerata facilità nell’istaurare relazioni di vicinanza e affetto, senza saper correttamente distinguere tra persone conosciute e significative e persone appena incontrate. Questi opposti comportamenti, di diffidenza e di estrema familiarità, rappresentano in realtà due facce di una stessa medaglia, indicando la medesima difficoltà nell’ instaurare rapporti profondi e privilegiati con gli adulti di riferimento149.
− DIFFICOLTA’ EMOTIVE A ESPRESSIONE IMPLOSIVA Riguardano il versante emotivo-relazionale. Il bambino non permette o ha difficoltà nel lasciare libere le emozioni nella relazione con ambiente o gli altri. Sono difficoltà da accogliere e riconoscere all’interno del gruppo classe. Difficoltà a mantenere il livello di attenzione Sono le difficoltà che possono frequentemente mostrare i bambini adottati. Siamo di fronte a un vero e proprio vuoto di pensiero. Ha origini psicologico-emotive, può essere a causa di traumi o mini traumi, o cambiamenti familiari, o bambini che nella vita passata hanno subito abusi o difficoltà (bambini in affido, bambini adottati). O ancora, può essere manifestato da un bambino con un attaccamento non particolarmente sicuro.
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Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p.12
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Quando si presentano difficoltà di apprendimento, di attenzione, di comportamento e riguardano un bambino adottato si rischia di spiegare tutto liquidando con la spiegazione “non riesce perché è adottato150.
L’insegnante prima di “rimproverare” il bambino per la sua disattenzione dovrebbe quindi comprenderlo, ascoltarlo e rendersi conto di che tipo di difficoltà mostra il bambino in questione. Difficoltà a comunicare verbalmente Il bambino mostra difficoltà a parlare quando interpellato dall’insegnante. È la forma più lieve di regolazione emotiva di tipo implosivo. Nel caso in cui invece si verifichi una totale impossibilità a parlare, allora si tratta di un caso decisamente più grave. Si parla di mutacismo, un problema emotivo/relazionale. Questo comportamento può mettere in grave disagio l’adulto che cercherà di spronare il bambino a parlare, insistendo. Nei casi più gravi può trattarsi di un vero e proprio “inceppamento” nel processo di attaccamento. Il comportamento auspicabile per l’insegnante è quello di non cercare il colpevole di questo comportamento, quanto di comprenderlo e accoglierlo e non giudicarlo come un rifiuto del bambino nei suoi personali confronti! Da tenere a mente è: “Ho capito il tuo problema, ma ti aiuto a farvi fronte, non ci rassegniamo all’ineluttabilità del problema” (..) “Hai un problema, ma non sei un problema per me. Hai un problema, ma non è un problema tra noi perché io ti ho capito e ti aiuto.”151 Nella parola “maestro/a” sono impliciti due concetti, da una parte è implicito il ruolo della figura d’attaccamento mediato dall’istituzione, dall’altro è implicito anche il ruolo che ha il compito primario di guidare e indirizzare il processo verso il mondo esterno (l’apprendimento), e di guidare il successo lungo tale percorso di apprendimento. (..) doppio ruolo, quello di figura d’attaccamento e quello di “giudice” dei risultati lungo il processo d’apprendimento152.
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Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p.88 151 Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.102 152 Ivi, p.103
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Difficoltà a esprimere verbalmente dei bisogni Alcuni eventi mandano in confusione emotiva il bambino, anche solo la rottura della punta di una matita. Sintomi somatici di vario genere Mal di testa, mal di pancia che il bambino esprime, la cui causa è di natura emotiva. − DIFFICOLTA’ EMOTIVE A ESPRESSIONE ESPLOSIVA Sono problematiche che riguardano la difficoltà del bambino a (..) regolare in modo autonomo il proprio vissuto emotivo153. Queste riguardano una mancata capacità di autocontrollo del bambino delle proprie emozioni; l’insegnante potrà in tal modo sostenerlo in un processo di eterocontenimento, attraverso per esempio la metacognizione. L’offerta da parte del nuovo adulto di riferimento a far ordine dentro il bambino, ad avvicinarsi al suo mondo interiore, può essere un esempio di strategia educativa. Difficoltà a condividere l’insegnante con il gruppo Il bambino mostra difficoltà a rispettare le regole della classe, le (..) convenzioni sociali tipiche del comune stare insieme154. La vera difficoltà il bambino la mostra nel rapporto con la figura di riferimento in classe: il suo insegnante, il che deriva da un tipo di attaccamento con l’adulto per cui esso non è visto come valido e sicuro. Non si tratta quindi di “problematiche” cognitive, quanto proprio a livello emotivo, quasi una sfiducia nei confronti del legame con l’adulto. Difficoltà a riconoscere l’autorevolezza dell’adulto Il bambino ha difficoltà a rispettare le regole. Questo va ricondotto al piano emotivo, psicologico e relazionale. L’autorità fa affidamento su un senso morale interno. Autorevolezza, invece, vuol dire che il potere di cui gode l’adulto gli proviene all’interno attraverso i rapporto e il legame con il bambino155. Così il bambino che mostra difficoltà a rispettare le regole, non dovrà essere considerato un precoce anarchico, ma piuttosto come un bambino che ha difficoltà a (..) relazionarsi 153
Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.153 Ivi p.120 155 Ivi, p.131 154
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con un adulto importante per lui, con la sicurezza e la fiducia nella solidità del legame che è alla base della proiezione d’attaccamento verso l’adulto156. Se il bambino va in crisi e non rispetta le regole, è perché non sente sufficientemente forte, stabile e sicuro il legame con l’adulto che, (..) deve sentire (..) dietro le regole157. E’ interessante dare una lettura anche storica a questa situazione. Se fino a qualche anno fa l’autorità della scuola, degli insegnanti non veniva assolutamente messa in discussione, ora la situazione è ben differente; ora il ruolo istituzionale è sostituito dalla forza della persuasione e della condivisione mentale. Nel momento in cui il mondo della scuola s’incontra con bambini con difficoltà emotive, inerenti il proprio modello d’attaccamento, ecco che il rapporto non può che incepparsi. Come diceva un famoso detto indiano, la miglior difesa allo straripamento di un fiume non consiste nel predicare all’acqua di essere così gentile da stare negli argini, o di rimproverarla poi di essere uscita, ma consiste nell’alzare degli argini forti e robusti. Saranno loro a “guidare” l’acqua lungo il percorso. E non è detto che gli argini debbano per forza essere contrari e ostili all’acqua158.
Perdita del controllo emotivo Difficoltà del bambino nel controllo delle sue reazioni di fronte a differenti eventi della classe (da un compito andato male a una risposta di un compagno). Scarsa autostima e legame verso l’altro vissuto come precario Il bambino continua a porre all’adulto domande, come pretesto per conferma, approvazione, provocare. Questo tipo di difficoltà ha radici nell’attaccamento: ha in sé il senso di abbandono o di non essere presente agli occhi dell’adulto. − DIFFICOLTA’ CHE RISENTONO DI UN CATTIVO RAPPORTO SCUOLAFAMIGLIA Se l’atteggiamento della scuola di qualche decennio fa era di “insegnare a fare i genitori” e che l’utenza riconosceva, oggi la scuola sembra porsi (o doversi porre) in un modo più solidale e interattivo. Di conseguenze il rapporto dovrebbe essere di 156
Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.132 Ivi, p.133 158 Ivi, p.137 157
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affiancamento e condivisione partecipe. Difficoltà di separazione dalla famiglia Il bambino mostra particolari difficoltà a separarsi dalla famiglia, non solo il primo giorno di scuola. Nel caso il bambino, una volta entrato a scuola e avviata la giornata, riesce a farsi consolare e a ritrovare la serenità, il “problema” probabilmente si risolverà velocemente. Mentre se il bambino non mostra particolare tristezza al momento della separazione, ma appare triste e in difficoltà emotiva nel corso della giornata scolastica, ci si può trovare di fronte al cosiddetto “lutto permanente”. O ancora, il bambino può mostrare sintomi psicosomatici Squalifica dell’ambiente scolastico da parte della famiglia Questo tipo di atteggiamento ha forte influenza sulla qualità dell’attaccamento che generalmente dovrebbe crearsi tra bambino e istituzione, in modo che egli possa stare bene a scuola. In questo caso quindi la squalifica può riguardare la figura stessa dell’insegnante; ma capita anche che la squalifica riguardi la scuola in quanto istituzione, i cui riferimenti pedagogici non sono accettati dalla famiglia, o più in generale, il contesto sociale in cui la scuola è inserita. Difficoltà della famiglia a separarsi dal figlio Si tratta dell’inosservanza, intrusione da parte della famiglia di quelle che sono le regole, i riti, i tempi e spazi che la scuola ha per definire la propria identità. Il bambino ideale non corrisponde al bambino reale (..) se per una persona adulta può essere in un certo qual modo vero, almeno a livello cognitivo, il celebre detto cartesiano “Penso, quindi sono”, per un bambino, soprattutto in tenera età, ne è vero uno opposto “Sono stato pensato, quindi sono”159. Le rappresentazioni che si hanno di una persona possono variare anche a seconda dei contesti. Quindi il bambino a scuola può mostrare una parte di sé diversa da quella mostrata a casa. Le rappresentazioni che per esempio scuola e famiglia hanno del bambino possono avere grande influenza sul soggetto ed essere inoltre molto differenti: l’impressione che comunemente si ricava in questi casi è che si stia parlando di due bambini diversi160. 159 160
Nicolodi G., Il disagio educativo alla scuola primaria, Franco Angeli, Milano, 2011, p.169 Ivi, p. 169
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ALTRO
Rifiuto del cibo È rintracciabile solamente nei casi in cui il bambino si fermi a scuola nel momento del pranzo, il quale quindi assume un chiaro valore educativo. Mangiare, dormire e controllo sfinterico sono le attività su cui si basano le primordiali cure materne, e di conseguenza il processo di attaccamento. Si deve quindi comprendere se il rifiuto totale del cibo sia in qualche modo connesso ai problemi di separazione dalla famiglia, o della famiglia dal bambino. Difficoltà nell’utilizzo dei servizi I bambini possono mostrare difficoltà nell’utilizzare servizi che siano differenti da quelli di casa loro. Supplenti o insegnanti con ruoli trasversali Se si pensa che sono i bambini stessi a dare all’insegnante un “potere educativo”, tramite il processo di attaccamento, è di conseguenza possibile che le insegnanti che trascorrono meno ore in classe possano essere addirittura considerate dai bambini stessi “estranei” o la “non maestra”. I compiti per casa Nei compiti a casa si intersecano: scuola, famiglia e bambino. L’insegnante dà compiti a casa per, in qualche modo, verificare il lavoro fatto in classe il quale non può esaurirsi a scuola. L’insegnante attraverso i compiti attualizza il rapporto con la famiglia proprio attraverso i compiti. I compiti possono dare al bambino maggior rilievo al rapporto tra lui e la scuola, la maestra. Allo stesso modo però, vanno svolti a casa, quindi, dipenderà dal rapporto con la famiglia, tenendo conto che il processo di apprendimento è ancora subordinato al processo di apprendimento. Infine attraverso i compiti, la famiglia può giocare un ruolo sia nei confronti della scuola che in quelli del bambino. Negligenza, maltrattamento o abuso In questi casi è importante che l’insegnante riesca ad accogliere il bambino, nonostante carico magari di aspetti “pesanti” da ascoltare e ricevere. L’insegnante dovrebbe condividere dubbi, sospetti, atteggiamenti con una collega per un’iniziale verifica. Se il caso lo richiede poi potrà informare i superiori e cercare così di adottare strategie
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comuni. Cosa succede con il bambino adottato? Talvolta, presi nel turbine del “problema scuola”, anche i genitori si dimenticano che il valore del loro bambino non va misurato in base alle sue prestazioni scolastiche161.
Innanzitutto, (..) i genitori dovranno fare la loro parte, imparando ad abbassare le aspettative. Un adottato sta sempre all’erta, in modo consapevole o no, che gli succeda di nuovo quella cosa terribile: ritrovarsi di nuovo solo. Questo sottrae energie. Occorrerà quindi per prima cosa colmare queste di ansie, e questo compito sta prima di tutto alla famiglia. La scuola verrà dopo162! Per quel che riguarda gli inseganti e l’istituzione scolastica, il rischio che si corre è che spesso sapere che il tale bambino (o adolescente) è stato adottato anziché portare a una maggior attenzione relazionale, conduce a un tipo di osservazione viziata in partenza. Si va, insomma, alla ricerca di un dato comportamento che per comune sentire si sa (o si crede) essere “tipico” dei bambini adottati: ciò da un lato ci riconferma in alcune false credenze (perché inevitabilmente le prova e quindi le rafforza), dall’altro impedisce – soprattutto – l’instaurarsi di una relazione positiva, perché al centro non c’è la persona, ma la nostra pre-comprensione163. Come abbiamo visto finora in generale, anche nei i bambini adottati si possono manifestare alcuni comportamenti e difficoltà specifici di chi, come loro, ha avuto un passato complesso e talvolta deprivante. 1. Possono emergere difficoltà nell’apprendimento (ad es. bambino lento, fatica a star dietro al ritmo dei compagni, scarsa attenzione, difficoltà nella concentrazione, difficoltà nella memoria, povertà verbale …), queste potrebbero essere conseguenti non a una situazione di ritardo mentale ma più semplicemente legate all’ambiente di provenienza, spesso socialmente e culturalmente deprivante164. 2. Accanto alle difficoltà nell’apprendimento possono emergere anche difficoltà a livello comportamentale: spesso si parla di disturbi dell’attenzione e iperattività, instabilità, 161
Genni Miliotti A., Adozione e difficoltà scolastiche, da http://www.leradicieleali.com, 2012, p.4 Ivi, p.3 163 Bandini G., Adozione e formazione. Guida pedagogica per genitori, insegnanti, educatori, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 18 164 Basla M., Durante il percorso scolastico, da http://www.anfaa.it , p.1 162
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passaggi all’atto. Si tratta di bambini agitati, in continuo movimento, incapaci di soffermarsi, di prestare attenzione a lungo, di concentrarsi. Questo tipo di comportamento nella maggior parte dei casi è spia di un disturbo che riguarda la sfera della affettività. E’ espressione di un disagio interior . L’agitazione esterna è il riflesso di una inquietudine interiore dalla quale il bambino si difende con una fuga continua sia con la mente che con il corpo. Di fronte ad un vissuto doloroso, alle difficoltà fuggono165. (..) rabbia per la negazione della storia dei suoi primi quattro anni di vita ai genitori, che non riescono a restituirgli un’immagine di continuità tra il passato ed il presente, tra il ricordo delle origini e la realtà attuale e pertanto non gli consentono di elaborare vissuti dolorosi legati all’abbandono. Spesso, nei bambini abbandonati “… il comportamento aggressivo e provocatorio può diventare… il mezzo per negare realtà sgradite e minacciose,… genera nel bambino anche sensi di colpa o timori di punizione e di ulteriore abbandono… Si alternano così nel suo comportamento momenti di rivalsa e momenti di richiesta di affetto e di rassicurazione che sconcertano i genitori adottivi se non preparati (ma avviene raramente) agli uni e agli altri166.”
3. Un’altra via con la quale il bambino manifesta un disagio interiore e che spesso emerge a scuola è la via somatica. Spesso gli alunni lamentano disturbi psicosomatici: nausea, vomito, mal di testa, disturbi nel sonno e alimentari … Anche in questo caso si deve cercare di capire cosa sta dietro al sintomo psicosomatico ed aiutare il bambino ad elaborare. Il sintomo psicosomatico è l’espressione attraverso il corpo di un disagio psicologico167. 4. Scarsa autostima e legame con l’altro vissuto come precario Bambini che continuamente pongono domande all’insegnante, apparentemente su quel che concerne la didattica, ma che si rivelano domande per conferma, approvazione di quel che si sta facendo. Anche questo comportamento è collegabile a quello che è stato il rapporto di attaccamento del bambino con la figura adulta. In che modo può rispondere la scuola? 165
Basla M., Durante il percorso scolastico, da http://www.anfaa.it, p.3 Brinchi M., Avvocato V., Barbara B., Oltre lo specchio: coppie e bambini nell’iter adottivo, in Psicobiettivo, Volume XXVII, 2007, CASO CLINICO, p.116, in Dell’Antonio, 86, p. 106. 167 Basla M., Durante il percorso scolastico, da http://www.anfaa.it, p.4 166
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Innanzitutto diminuirne il carico di compiti e nozioni aiuta, come anche farlo sentire a suo agio tra i compagni, affrontandone la storia in maniera normalizzante. Ogni bambino deve sentirsi uguale agli altri, deve avere le stesse possibilità di apprendimento e di successo in ambito scolastico e sociale. Occorre vedere nel nostro caso un bambino adottato, italiano o no, come una risorsa per la classe168. Un elemento importante dovrebbe riguardare anche, per esempio, la (..) sensibilizzazione degli insegnanti, da una formazione aggiornata (e sappiamo quanto sia difficile e complessa oggi questa opera) e continua. Una formazione rivolta non solo a contenuti didattici o pedagogici, ma anche psicologici, volta a far comprendere le speciali tematiche che ogni bambino adottato si porta nel suo bagaglio. Occorre che la scuola non lo faccia mai sentire un “diverso”, né per la sua storia, il suo paese, il colore della sua pelle, o eventuali sue difficoltà di apprendimento169. Ogni bambino dovrebbe trovare nella scuola lo spazio per costruite la propria identità attraverso la narrazione, il racconto della propria storia individuale e familiare, sentire che essa viene accettata, compresa da tutti. Questo vale per il bambino adottato come per quello in affidamento o per altre situazioni: divorzi, convivenza, presenza di un solo genitore, minore straniero… (..) Pensare vuol dire ricordare il passato e di conseguenza prendere coscienza di una realtà dolorosa 170.
Teniamo a mente inoltre che quando un evento è stato notevolmente traumatico, è alta la probabilità che si attui una specie di coazione a ripeterlo. Quell’evento sconvolgente che tanto ha fatto soffrire il soggetto (..) se non adeguatamente elaborato ed integrato, tenderà, inavvertitamente a riapparire nelle relazioni significative: ad esempio con i docenti e con i compagni 171 . (..) il soggetto trascurato o abbandonato rischierà inavvertitamente di ricreare una relazione col genitore adottivo e con gli adulti significativi, “familiare”, in cui possa riapparire il trauma di rifiuto o dell’abbandono172. La scuola è potenzialmente una risorsa che può favorire un corretto inserimento dei bambini adottati, pur nella consapevolezza che questa istituzione
168
Genni Miliotti A., Adozione e difficoltà scolastiche, da http://www.leradicieleali.com, 2012, p.3 Ivi, p.4 170 Basla M., Durante il percorso scolastico, da http://www.anfaa.it p.2 171 Amenta G., Situazioni difficili in classe, Editrice La scuola, Brescia, 2006, p. 114 172 Ivi, p. 155 169
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“(...) non può occuparsi di tutti i problemi che riguardano la sfera personale dei bambini e che le insegnanti non sono (non devono) essere delle tuttologhe: un po’ maestre, un po’ mamme, e un po’psicologhe....”173
Inoltre, da un punto di vista pratico, la scuola italiana può offrire in particolare ai minori adottati con difficoltà scolastiche alcuni supporti: •
mediatore linguistico: persona della medesima origine del bambino, che durante alcune ore dell’attività scolastica, può accompagnarlo nell’apprendimento dell’italiano;
•
insegnanti per l’apprendimento dell’italiano in quanto L2: può trascorrere un numero maggiore di ore con il bambino e svolgere lavori singoli o di gruppo per sviluppare maggiormente le sue competenze in sintonia con i programmi scolastici;
•
il Piano Didattico Personalizzato (PDP), introdotto con la Direttiva Ministeriale "Strumenti d'intervento per alunni con bisogni educativi speciali" del dicembre 2012, preso atto delle evidenti difficoltà che alcuni bambini adottati possono riscontrare durante il loro percorso scolastico. È una sorta di programma parallelo che può essere utile sia per l’insegnante che per la famiglia, così da avere una progettazione didattico-educativa mirata e personalizzata sulle loro effettive possibilità. È un modo interessante pensato per quei bambini che presentano fragilità non riconducibili a una situazione di disabilità: essi potranno trarre vantaggio da una progettazione didattica "su misura" e flessibile174, Il PDP potrà inoltre essere attivato anche per quei bambini a cui è riscontrato un disturbo specifico di apprendimento (DSA), che sono presenti nei bambini adottati in misura leggermente superiore alla media della restante popolazione. Questi certamente non possono essere diagnosticati prima di almeno due anni dall’arrivo dei bambini in Italia, quindi una volta acquisite sufficientemente le competenze di lettura e scrittura. Nel momento in cui un bambino viene riconosciuto come “portatore” di una qualche disabilità, la legge prevede un sostegno e un Piano Educativo Individualizzato (PEI), che contiene gli obiettivi didattici ed educativi da raggiungere, calibrati sulle possibilità 173
Da Chistolini M., Scuola e adozione. Linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, 2006, Milano pag. 9, in Dondè D., Santi M., L’accoglienza nella scuola dei bambini in adozione e lo sviluppo di nuove prassi, da www.incrocicomuni.it , p.9 174 Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p. 2
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reali dell'alunno, nonché tutti gli interventi individualizzati previsti. Invece per quel che concerne i PDP, starà all’insegnante gestire la situazione. Un sostegno ai PEI è dato dalle figure degli OSE, operatori socio-educativi, che metteranno in atto interventi finalizzati a favorire l'integrazione, potenziare le autonomie personali, promuovere uno stato di benessere nel contesto scolastico.
2.4 Il significato del successo scolastico Nelle famiglie di oggi sembra essersi evoluto il pensiero nei confronti del bambino e dell’infanzia in genere. Sembra sia stato acquisito un enorme “rispetto” nei confronti dell’infanzia, da parte del mondo adulto: teoricamente il bambino non è più considerato come una tabula rasa su cui “incollare” gli insegnamenti dell’adulto, (..) come processo di semplice trasmissione e di travaso di informazioni175; un contenitore da riempire e da plasmare a gusto e piacere dell’adulto. Oggi il bambino sembra essere considerato attivo sin dalla nascita, in grado di contribuire lui stesso all’instaurarsi della relazione con chi si prende cura di lui. Il riferimento dovuto è ai cosiddetti comportamenti di attaccamento (sorrisi, sguardi..) con i quali il neonato contribuisce al rinforzo della relazione con il suo caregiver. Un bambino che, oggi, sembra essere sempre più al centro, sempre più ricco di attenzioni, di responsabilità. Un tale atteggiamento, apparentemente positivo, però se non contenuto, può portare gli adulti che vivono intorno al bambino a idealizzarlo, a pretendere la perfezione: insomma genitori con aspettative altissime che possono diventare un forte peso per i bambini. Proprio a proposito delle aspettative dell’adulto nei confronti dei bambini, mi collego al tema
del
successo
scolastico,
che
cambia
e
influenza
maggiormente
e
“pericolosamente” se si tratta di bambini adottati. In effetti, il bambino adottato ha come (..) principale problema derivante dall'abbandono una bassa autostima ed una frammentata immagine di sé!176
175
Reffieuna A., Tutela della persona e finalità educative delle istituzioni scolastiche, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.1 Franco Angeli, Milano, 2012, p.67 176 Nobile M., Emozionarsi a scuola, da http://www.genitorisidiventa.org, 2010
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Così, in essi in particolare “andare bene a scuola” sostiene la costruzione, o meno, dell’autostima: (..) la riuscita scolastica rappresenta quasi la verifica della normalità, dell’essere all’altezza degli altri compagni e, dell’essersi inseriti completamente nella nuova realtà177. Sembra quasi che il voto di una singola materia (..) si trasformi in un giudizio globale della persona. Lo stesso vale per il genitore che è o meno un buon genitore secondo la valutazione scolastica del figlio e per l’insegnante che è un bravo insegnante solo se la sua classe ha un buon rendimento178.
Anche per quel che riguarda i genitori, compresi quelli adottivi ovviamente, il successo scolastico può voler dire (..) rafforzamento o meno della relazione di padrefiglio, madre-figlio 179 , e può addirittura essere considerato un segnale del buon adattamento e inserimento del bambino nella famiglia e nel nuovo ambiente. Insomma, (..) la riuscita scolastica dei figli assume delle valenze molto importanti: essa viene spesso interpretata come una valutazione delle proprie capacità genitoriali e non come un giudizio sul grado di apprendimento del figlio rispetto determinate materie180. Dal punto di vista degli insegnanti il successo scolastico dovrebbe significare (..) trarre il massimo profitto da ogni alunno cercare cioè di sviluppare nel modo migliore le capacità di ciascuno181. Talvolta però anche nel caso degli insegnanti si può giungere a considerare (..) il rendimento scolastico dei propri alunni come una cartina al tornasole delle proprie capacità professionali e che vivono l’insuccesso scolastico dei propri alunni come un insuccesso personale182. Sembra quindi che il successo scolastico abbia un’enorme influenza e importanza su questi tre soggetti.
177
Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p.90 178 Ivi, p.88 179 Ibidem 180 Ivi, p.90 181 Ivi, p.89 182 Ivi, p.88
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Dal risultato scolastico sembrano dipendere la qualità dell’inserimento nel contesto sociale e la propria autostima (non solo per alunni ma anche per genitori ed insegnanti)183
Penso possa essere interessante terminare la riflessione sul successo scolastico aprendo una parentesi su ciò che concerne l’apprendimento. Come viene considerato oggi? A quanto pare, permangono ancora convinzioni errate. Si identifica cioè l’apprendimento con una pratica esclusivamente cognitiva, artificiosa, non naturale, che comporta molta fatica; che, soprattutto, risulta lontana dalle modalità di sviluppo naturali dei bambini. (..) invece le ricerche della psicologia dello sviluppo, della psicologia cognitiva e delle neuro scienze hanno condotto a ritenere l’istruzione ciò che rende unico l’essere umano: il solo, tra gli esseri viventi, a disporre di una capacità di apprendimento praticamente infinita che si realizza attraverso l’istruzione scolastica e la trasmissione culturale184. Si può quindi comprendere e affermare che l’istruzione sia qualcosa di essenziale perché “l’umanità” di ogni bambino si realizzi. Inoltre, come già esplicitato nelle precedenti pagine, mi sento di riprendere il seguente concetto: (..) l'apprendimento affonda le sue radici in ambito emotivo; se non si è motivati dal punto di vista emozionale non c'è apprendimento, tanto che si parla di quoziente emotivo oltre a quello intellettivo. Per poter apprendere è necessario avere dentro di sé uno spazio sereno e quieto dove immagazzinare e sviluppare le nuove conoscenze. L'ansia impedisce la concentrazione e la ritenzione185. In particolare, nel bambino adottato, quando si parla di apprendimento, risulta importante sostenerlo a mantenere un legame con il suo passato: il bambino adottivo potrà permettersi di apprendere se sarà capace di conservare il legame con il passato e ripercorrere a ritroso, sostenuto dai genitori, il cammino dell’abbandono, riconoscendo la sua rinascita adottiva186
183
Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006, p.88 184 Reffieuna A., L’educazione del bambino fra scuola, servizi e associazionismo. Conoscere gli alunni per realizzare le finalità educative della scuola, in Minori Giustizia, Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, n.3 Franco Angeli, Milano, 2012, p.224 185 Storace F., Capuano A., A scuola con difficoltà, da http://www.genitorisidiventa.org, 2011, p. 1 186 Da Cavallo (1999), in Chistolini M., Scuola e adozione: linee guida e strumenti per operatori, insegnanti, genitori, Franco Angeli, Milano, 2006
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Se pensiamo, per esempio, all’apprendimento, nei bambini adottati con l’adozione internazionale, viene automatico pensare che una delle maggiori difficoltà che essi possono riscontrare riguardi la loro competenza linguistica. Nonostante però la provenienza da un paese straniero, e soprattutto se in età scolare, la loro capacità di apprendere l’italiano sarà sorprendentemente rapida, ma si tratterà della lingua (..) della quotidianità, fatta di un vocabolario limitato, adatto per cavarsela nella vita di tutti i giorni, ma insufficiente per padroneggiare il linguaggio dell'apprendimento scolastico187. Le ricerche dimostrano, oltre alle suddette difficoltà linguistiche, che nei bambini adottati si possono frequentemente mostrare comportamenti (..) di sfida, l’iperattività, la messa alla prova degli adulti. L’auspicio che ho, nello scrivere, è che la risposta degli insegnanti non sia un punire e un bloccare tali comportamenti a priori, quanto piuttosto cercare di comprenderli. Comprendere per quale ragione il bambino voglia attirare l’attenzione dell’insegnante; pensare che forse è alla (..) ricerca di un limite, di un contenitore solido di emozioni positive e negative che non è stato introiettato a sufficienza nella prima infanzia. (..) provare dunque a instaurare con il bambino un rapporto di fiducia e di affetto che consenta di aiutarlo, con decisione e pazienza, a far proprie le regole di comportamento scolastico e di relazione con coetanei e adulti, è pertanto un compito cruciale per gli insegnanti che lo accolgono in classe188. Inoltre, un punto da tenere sempre bene a mente quando un bambino adottato viene inserito nel contesto scolastico è che (..) da un punto di vista cognitivo, la scarsità di stimolazioni nella prima infanzia può aver causato ritardi (..) nello sviluppo sensomotorio (difficoltà linguistiche, di simbolizzazione, di motricità fine); non è raro che ci siano anche (..) carenze nella capacità di concentrazione e ritenzione, probabilmente perché il bambino sta impegnando molte energie emotive per rielaborare l’esperienza traumatica originaria189.
187
Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p.1 Ivi, p. 3 189 Botta L., La scuola che aiuta – parte seconda, http://www.genitorisidiventa.org, p.3 188
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Capitolo terzo La metodologia 3. La mia domanda di ricerca Quando s’intende condurre una ricerca, bisogna innanzitutto capire e chiarire il perché. Può trattarsi, per esempio, di una curiosità, di un dubbio da verificare, di una domanda; qualcosa insomma che ci porta a pensare, costruire e mettere in pratica una ricerca. La fase preparatoria della ricerca, una volta delimitato l'ambito in cui essa si svilupperà, è quella in cui s’individua il problema: è questo, infatti, che determina l'attivazione di un processo di ricerca. La domanda da cui ho dato inizio al presente lavoro è stata: l’inserimento dei bambini adottati nella scuola primaria, inteso come primo ingresso, primo passaggio che possa richiedere loro una vera e propria prestazione. Avere una domanda chiara e definita credo sia la base per poter ottenere una ricerca efficace e soddisfacente. Mi piace immaginare questa motivazione, questa domanda, come quella “cosa invisibile”, quel filo rosso che accompagna lungo tutto il percorso di ricerca, il faro cui far riferimento nei momenti d’incertezza, una mano che possa accompagnare nella “selva oscura”; e ancora, l’immagine fissa cui pensare in ogni momento in cui si introducano cambiamenti o novità nel percorso di ricerca. Con questo non voglio intendere che con lo sviluppo della ricerca, la domanda non possa subire cambiamenti, anzi. Credo che con lo sviluppo e la crescita della ricerca stessa si possano trovare nuove sfumature, nuove visioni e nuovi tagli, magari fino a quel momento non considerati. Nel mio caso, il tema dell’adozione l’avevo già affrontato per la tesi della Laurea Triennale in Scienze dell’educazione. In quel caso la mia domanda riguardava una prospettiva psicologica: a partire dalla teoria dell’attaccamento, ho tentato infatti di comprendere se e come il legame di attaccamento sia possibile tra bambini adottati e genitori adottivi. Intervistando alcuni genitori adottivi, ho cercato di dare una risposta al
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mio quesito. Per la presente ricerca ho voluto invece considerare la situazione da un secondo livello, dando voce non solo a dieci insegnanti di alcune Scuole Primarie di Milano e hinterland, ma anche, e prima di tutto, a sette esperti dell’adozione. Proprio dalle parole di questi ultimi, infatti, e dalle loro riflessioni, ho elaborato e steso le interviste da porre, in un secondo momento, agli insegnanti. Unendo quindi la teoria e i dati, raccolti ed elaborati nei due iniziali capitoli di questo lavoro, ho potuto dare inizio all’elaborazione delle interviste. Prima di cominciare questo lavoro avevo alcune idee sulla posizione dei bambini adottati, in classe, e sul ruolo che gli inseganti avrebbero dovuto svolgere in loro presenza. Documentandomi, confrontandomi anche con la mia relatrice, e poi, dando voce ai testimoni privilegiati, ho decisamente sviluppato il mio punto di vista. Un esempio: parlare o non parlare di adozione in classe? Ricordo che prima di iniziare, sulla base di mie credenze e studi, pensavo fosse fondamentale affrontare il tema “adozione” nel momento in cui si fosse presentato un bambino adottato in classe. Alcuni testi da me consultati sostenevano il contrario. Grazie alle parole ascoltate, a riflessioni e pensieri, ho compreso che forse sarebbe opportuno parlare di tutte le situazioni familiari, a prescindere che siano presenti in classe e nel momento in cui ci sia un bambino adottato, rispettare la sua posizione e quella dei suoi genitori. Nel caso, per esempio, in cui i genitori evitino di affrontare l’argomento, evitare di farlo obbligatoriamente, rischiando in effetti di far sentire in forte disagio il bambino. Altro aspetto estremamente importante per condurre una buona ricerca, una volta chiarita la domanda, è riflettere su quale tipo di metodi utilizzare per portarla avanti. In ambito educativo la maggior parte delle tematiche indagabili tratta argomenti e tematiche difficilmente “classificabili” od ottimali per ottenere risultati chiari e riconoscibili in modo quantitativo. C’è stato a lungo il dibattito se “accettare” o meno metodi quantitativi in ambito educativo e, in breve, con questi emergerebbe (..)la necessità, di standardizzare i fenomeni umani, (..) in completa antitesi con gli obiettivi che deve porsi una ricerca in campo educativo190. 190
Monasta A., Mestiere: progettista di formazione, Carocci, Roma, 2003, p.46
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In generale, la ricerca empirico-sperimentale in ambito pedagogico, educativo ha per molto tempo, e tuttora, riguardato (..) l’efficacia dell’insegnamento o i confronti tra esperienze, approcci didattici e sistemi scolastici191. Perlopiù quindi si può evincere che i metodi utilizzati nelle ricerche educative siano quelli qualitativi, nel momento in cui (..) si voglia arrivare alla comprensione dei fatti sociali192. Una volta privilegiata la scelta qualitativa, bisogna riflettere sul metodo per cominciare la ricerca. Io ho optato per l’intervista.
3.1 Le interviste L’intervista (..) pone innanzitutto seri problemi interpretativi ed ermeneutici in tutte le sue fasi: dalla concettualizzazione dell’oggetti di ricerca, alla redazione della traccia, alla somministrazione ai soggetti, fino all’analisi e alla redazione del report193. (..) l’intervista mette in contatto due mondi diversi, quello del ricercatore/rilevatore e quello dell’intervistato (..)194
Ho scelto come strumento per la mia ricerca l’intervista, uno degli strumenti tipici della ricerca qualitativa, insieme per esempio all’osservazione. Apparentemente strumenti facili e utilizzabili da chiunque, si sono e si continuano a rivelare strumenti molto complessi. Una volta scelti è bene riflettervi e comprenderli in profondità prima di metterli in pratica, per evitare di imbattersi in facili errori. È inevitabile che la tecnica che utilizziamo condizioni il nostro lavoro scientifico195.
Fare un’osservazione non vuol dire semplicemente… guardare. 191
Mantovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p.3, in A. Visalberghi, Ricerca empirica e sperimentale in campo educativo, in “Scuola e Città”, 56, 1989, p.209-14 192 Monasta A., Mestiere: progettista di formazione, Carocci, Roma, 2003, p.46 193 Ciucci F., L’intervista nella valutazione e nella ricerca sociale. Parole di chi non ha voce, Franco Angeli, Milano, 2012, p.12 194 Ivi, p.7 195 Ivi, p.26
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Intervistare non significa solo…. chiacchierare. L’intervista è uno strumento che riveste un ruolo decisivo nella costruzione di informazioni, per le elevate capacità e potenzialità di indagine196.
Quello che mi ha spinto e accompagnata per l’intera ricerca è stato, come esplicitato sopra, l’interesse nella comprensione dell’inserimento dei bambini adottati nella scuola primaria. Questo è stato il mio faro che nei momenti d’incertezza e insicurezza mi riportava a pensare a cosa stavo facendo e, soprattutto, se quello che stavo seguendo era il cammino giusto. Faccio un esempio. All’inizio del percorso, mi è stato suggerito di intervistare una psicoterapeuta, come possibile testimone privilegiato. Immediatamente mi si sono attivate numerose domande, in modo ingenuo, prevenuto e “ignorante” forse: sarà utile? Cosa mi potranno regalare le sue parole? “Solo” dettami psicologici? E io voglio introdurre elementi estremamente “psicologici” nel mio lavoro? Ebbene, in realtà, si è svelata una delle interviste più arricchenti che abbia fatto. Ogni persona che ho incontrato nella mia ricerca mi ha regalato aspetti e riflessioni, anche se “piccole”, cui non avevo pensato, esperienze interessanti, tristi, concluse con successo o andate male. Tutto mi ha permesso di creare questa ricerca. Quasi inconsapevolmente ognuna delle persone che ho incontrato ha inserito il suo piccolo pezzo di puzzle per formare questo quadro finale, che a mio avviso, si sta scoprendo davvero interessante. Come dicevo, intervistare non significa semplicemente chiacchierare, ma (..) saper tacere o parlare solo quel tanto che possa incoraggiare l’altro a esprimersi197. Intervistare significa forse semplicemente fare domande a chi si ha di fronte per ottenere informazioni? Forse questo è un po’ ciò che appare intorno a noi. Basta accendere la televisione che si può osservare “chiunque” condurre un’intervista. 196
Ciucci F., L’intervista nella valutazione e nella ricerca sociale. Parole di chi non ha voce, Franco Angeli, Milano, 2012, p.12 197 Mantovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p.38
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Sembra che l’intervista non abbia più segreti, che tutti possano svolgerla, ecco, (..) attualmente si tende a considerare questa pratica alla portata dei più198. In effetti, oggi sembra che si possa definire intervista “(..) una situazione in cui una persona ne interroghi un’altra (oppure conversi con un’altra) per ottenere delle informazioni”, sembra ormai “(..) più un gioco da ragazzi che un lavoro vero e proprio e quindi non richiede particolare addestramento199”. Eppure, facendo pratica, mi sto rendendo davvero conto che intervistare comprende diversi aspetti e particolari che vanno tenuti ben presente se si vuole ottenere un buon risultato. Non si può lasciare al caso, non si può pensare di “chiacchierare” con chi si ha di fronte, altrimenti si rischia di perdere di vista l’oggetto della ricerca e il motivo stesso che ci fa stare uno di fronte all’altro.
3.1.1 Cosa significa intervistare Innanzitutto, la scelta dell’intervista presuppone essere a conoscenza dell’idea che quello che si otterrà da questa saranno le preziose percezioni che l’intervistato ha ed esprime sul tema da noi proposto. È un aspetto fondamentale, credo, quindi anche nell’analisi delle interviste, tenere a mente che quello che ne ricaverò saranno rappresentazioni, percezioni che quel soggetto, secondo le sue esperienze, secondo i suoi preconcetti e idee ha di quell’argomento. Come dicevo, intervistare non è qualcosa di semplice da mettere in atto, non è qualcosa che può avvenire casualmente a mio avviso. Ci sono paletti e regole ben precise da seguire, per riuscire a stare bene noi e gli intervistati. Pensiamo, per esempio, ai ruoli. L’intervistatore e l’intervistato hanno ruoli ben differenti, come Rogers esplicitava per il rapporto terapeutico, anche per questo rapporto, è l’intervistato ad avere tutti i diritti, mentre l’intervistatore ha tutti i doveri. Sicuramente il cliente, così come l’intervistato, devono essere accettati (..) in maniera incondizionata, (..) non essere giudicato, con di 198
Mantovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p.36 199 Ibidem
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fronte una persona che (..) cercasse di immedesimarsi in lui utilizzando la tecnica dell’empatia200. Un secondo aspetto fondamentale dell’intervista riguarda le risposte che l’intervistato darà. Che fine faranno? Come verranno utilizzate? (..) uno dei diritti fondamentali è quello di sapere in anticipo quale sarà l’utilizzo delle informazioni da lui fornite201.
Questo è un dato assolutamente da non omettere; a mio avviso sarebbe meglio se esplicitato all’inizio dell’intervista, in modo che l’intervistato si senta tranquillo nel parlare, sapendo quale utilizzo sarà fatto delle sue parole, per poter decidere verso quale angolatura orientare il suo discorso. Purtroppo durante alcune interviste mi sono resa conto di non averlo chiarito sin dall’inizio, ritrovandomi così al termine dell’incontro, con l’intervistato che mi chiedeva notizie sull’intervista e sul mio lavoro. Mi è successo soprattutto durante le prime interviste che ho condotto, durante le quali ero abbastanza emozionata e alle “prime armi”, quindi presa dall’entusiasmo dell’incontro mi “dimenticavo” questi importanti aspetti. Nel momento in cui mi venivano poste quelle domande, mi sentivo molto a disagio. Un terzo aspetto che caratterizza l’intervista riguarda l’ascolto. L’intervistatore deve porsi in un ascolto totale nei confronti dell’altro, che significa, non solo rivolto alle parole, (..) ma a tutto quell’insieme di comportamenti, modi di essere e di fare, atteggiamenti che costituiscono il suo modo di essere202. Quindi il tono, la postura e certamente le parole. Questi aspetti riguardano anche lo stesso intervistatore: deve ascoltarsi completamente. Io, per esempio, per ciò che concerne la postura, cercavo di assumere una posizione “accogliente”, di apertura e cercavo di evitare per esempio le braccia conserte. Se mi rendevo conto della mia posizione di “chiusura”, cambiavo o lo tenevo a mente per l’intervista successiva. Inoltre, cercavo di unire alla postura, un ascolto caldo e un interesse continuo, con gesti 200
Mantovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p.39 201 Ivi, p.41 202 Ivi, p. 42
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di approvazione e parole non valutative. In effetti uno dei diritti dell’intervistato è quello di essere accettato in modo incondizionato dall’intervistatore. Questo significa inoltre che chi conduce l’intervista deve necessariamente, o perlomeno il più possibile, immedesimarsi e ascoltare in modo empatico chi ha di fronte. Quindi si tratta anche di un ascolto autentico e congruente, tra ciò che l’intervistatore esplicita e ciò che esprime. Ascoltare ciò che si prova in quella determinata intervista, con quella persona e capire perché. Ho in mente, a tale proposito, un ulteriore esempio. Ho intervistato un’insegnante “al buio”, collega di un’insegnante che avevo contattato. Il giorno dell’intervista, l’insegnante da me contattata mi ha suggerito una sua collega, senza che né io né la signora ne sapessimo nulla. La collega mi è apparsa davvero in “ansia” prima dell’intervista, chiedendomi, giustamente, la durata dell’incontro, dichiarando sin da subito che sull’adozione non sapeva molto; durante l’intervista mi sono trovata in uno stato di angoscia, percependo probabilmente la sua e trovando di fronte una persona che mi guardava, continuando a sbattere velocemente gli occhi per l’intera intervista. L’apice c’è stato nel momento di commozione dell’intervistata. Ho tentato di interrompere l’intervista per evitare maggiori “scombussolamenti”, ma lei si è giustificata come persona molto emotiva e così ha proseguito, giungendo poi al termine del nostro incontro. Questo è stato poi concluso da un suo sospiro e da un suo “Bene, è stata facile.” Mi sono trovata davvero a disagio, mi sembrava che in quella stanza fossero presenti un’energia e un’emotività davvero forti e “troppo” per me; nel momento in cui sono uscita da quella scuola ho sentito profondamente il bisogno di un sospiro liberatorio e di riflessione su quei trenta minuti di intervista. Probabilmente sono stata investita inconsapevolmente dall’ansia dell’intervistata e non sono stata in grado di gestirla. Forse l’intervistata aveva timore che potessi farle domande “difficili” e quindi avrei dovuto rassicurarla maggiormente all’inizio del nostro incontro. In effetti, prima di intervistare qualcuno credo che sia necessario avere in mente ciò che si vuole ottenere da quell’incontro, per quale motivo è stato organizzato. Tutto questo a mio avviso va esplicitato anche all’intervistato stesso. In generale, nei diversi ambiti (giornalistico, scientifico, sociale..) l’intervista viene definita sicuramente attraverso ottiche differenti, ma complessivamente gli aspetti
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comuni sono: -
intervista come scambio verbale tra due o più persone, una delle quali cerca di raccogliere informazioni, attraverso domande più o meno fissate.
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intervista quale situazione asimmetrica, in cui l’intervistato deve essere posto a proprio agio, essere ascoltato e aiutato a esprimersi L’intervista è quindi una relazione, ma per cosa si distingue rispetto ad altre relazioni che intratteniamo quotidianamente? Innanzitutto, come comprensibile, è una relazione non casuale. È qualcosa di cercato voluto, pensato. È inoltre, certamente, una relazione asimmetrica: l’intervistatore è lì per ottenere informazioni dall’altro, che è il solo a possederle. Per questo motivo l’intervistatore deve porre particolare attenzione alle modalità, analizzate sopra, che vorrà utilizzare per poter raggiungere il suo obiettivo. Infine, ultimo aspetto ma molto importante da tenere a mente: i ruoli non sono intercambiabili. Quindi l’intervistatore non dovrebbe cominciare a fornire risposte, e dunque l’intervistato a porre domande! L’intervista è una relazione partecipata, perciò, come avviene nella relazione terapeutica, il modo di “(..) essere, di presentarsi, di “sentire” dell’uno si ripercuote sul modo d’essere, di presentarsi e di “sentire” dell’altro (..)”.203
3.1.2. Le mie interviste Decidere di condurre interviste presuppone innanzitutto la scelta del tipo di intervista. Si spazia dal semplice e meccanico questionario, all’intervista libera. Va tenuto a mente che (..) la scelta del tipo di intervista dipende proprio dal piano a cui ci si vuole attenere (..)204 e certamente dipende anche dalla (..) quantità di persone che si intendono intervistare, (..) campione di soggetti dai quali il ricercatore desidera 203
Mantovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p.40 204 Ivi, p.74
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ottenere delle informazioni205. Tenendo conto che avrei intervistato un limitato numero di testimoni privilegiati, ho considerato fattibile condurre interviste semi-strutturate, in modo da dare all’intervistato libertà di raccontare e raccontarsi, ma tenendo io a mente alcune domande fondamentali da porre. Il medesimo ragionamento l’ho poi fatto per le interviste rivolte agli insegnanti. Ho quindi stabilito delle tematiche che avrei voluto approfondire attraverso gli incontri con gli esperti e da quelle ho pensato a delle domande che lasciassero ampio spazio a racconti e riflessioni. Ecco la traccia dell’intervista proposta ai testimoni privilegiati, esperti di adozione:
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Dal suo osservatorio, quali sono le tematiche che emergono quando i bambini adottati vanno nella scuola primaria?
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Quali differenze individua tra i bambini adottati stranieri e quelli italiani?
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Ci sono, secondo lei, differenze sostanziali tra bambini adottati da poco tempo e subito inseriti a scuola, e bambini che fanno ormai parte da qualche tempo nella nuova famiglia, al momento dell’inserimento scolastico?
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Dal suo osservatorio, rispetto ai genitori adottivi, invece, come reagiscono all’inserimento scolastico dei loro bambini?
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Quali comportamenti dei genitori, a suo parere, possono accompagnare e aiutare i bambini?
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Quali corsi di formazione per gli insegnanti vengono organizzati? 5 bis – E per i genitori, su questo aspetto specifico della scuola, cosa può essere utile?
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Se ha altro da aggiungere.. Formulare le domande non è stato semplice. Trovare la modalità corretta per farlo, evitando, per esempio, di introdurre nella domanda idee o sfumature che presupponessero la mia idea, nemmeno. Dovevo formulare domande che riuscissero a mettere a proprio agio l’intervistato, pensare a come creare “apertura” nell’altro, in modo da evitare di imbattermi in 205
Mantovani S., La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p.75
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un’intervista “botta-risposta”. Per quanto riguarda la registrazione dei dati, ho pensato di aiutarmi con un registratore, per tutte le interviste svolte, appuntandomi, una volta terminata l’intervista, alcuni atteggiamenti o comportamenti che mi avessero particolarmente colpita. Attraverso il registratore ho comunque potuto ascoltare più volte le parole dell’intervistato, ascoltando le sfumature della sua voce, le risate e le pause. Grazie al registratore, inoltre, ho potuto evitare di appuntarmi in modo frettoloso, durante l’intervista, alcuni dettagli, potendo così ascoltare in modo libero e il più possibile empatico le loro parole. Per quel che riguarda l’analisi delle interviste ho dovuto ascoltarle numerose volte, in modo da estrapolarne le tematiche che attraverso le loro parole stavano emergendo. Ho avuto davvero la necessità di leggere e rileggere, in modo da ricavare davvero il loro pensiero e non una mia interpretazione. Così, con l’individuazione dei temi emersi da ogni intervista e il conseguente confronto tra le sei interviste rivolte ai testimoni privilegiati, ho individuato i temi sui quali avrei voluto indagare e dare maggior voce agli insegnanti. Ho così steso altre due interviste. Una per gli insegnanti di scuola primaria che avessero avuto esperienza diretta con bambini adottati in classe e l’altra rivolta a insegnanti che non ne avessero avuto esperienza. Ecco le due tracce.
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L’intervista per gli insegnanti con esperienza di bambini adottati, in classe.
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Se pensa all’adozione, cosa le viene in mente? Mi può fare degli esempi? Vuole aggiungere qualcosa?
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Ha mai avuto nella sua classe bambini adottivi? Può raccontarmi le sue esperienze con questi bambini? 2 a. Le esperienze con questi bambini sono state tutte uguali? 2 b. E i genitori adottivi? 2 c. In queste classi ha riscontrato particolari difficoltà o problematiche? − d. I bambini adottivi, nella sua esperienza, hanno specifiche difficoltà scolastiche? Quali? Come lo ha capito? 2 e. Quali strategie educative e didattiche pensa possano essere più efficaci?
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Pensa che il tema dell’adozione vada affrontato con i bambini? Perché sì? Perché no? − a. L’ha mai fatto? Mi può raccontare la sua esperienza? 3 b. Ha mai affrontato il tema della famiglia in classe? In presenza o meno dei bambini adottivi? Mi può raccontare? − c. Pensa che queste tematiche possano provocare particolari conflitti? Anche rispetto ad altre problematiche… che siano i genitori separati, padre morto… 3 d. E rispetto alla storia personale?
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L’intervista a insegnanti che non hanno mai avuto bambini adottati in classe. 1. Se pensa all’adozione, cosa le viene in mente? Mi può fare degli esempi? Vuole aggiungere qualcosa? 2. Ha mai avuto nella sua classe bambini adottivi? E in altre classi della scuola in cui ha insegnato? Cosa pensa possa succedere in una classe con bambini adottivi? E con genitori adottivi? 3. Pensa che il tema dell’adozione vada affrontato con i bambini? Perché sì? Perché no? 3 a. L’ha mai fatto? - mi può raccontare la sua esperienza? 3 b. Ha mai affrontato il tema della famiglia in classe? In presenza o meno dei bambini adottivi? Mi può raccontare? 3 c. Pensa che queste tematiche possano provocare particolari conflitti? Anche rispetto ad altre problematiche… che siano i genitori separati, padre morto… 3 d. E rispetto alla storia personale del bambino?
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È stato davvero interessante poter avere un riscontro “pratico” di ciò che sto approfondendo e studiando. Gli insegnanti con le loro esperienze, con i loro ricordi, i loro racconti mi hanno permesso di avere un feedback pratico sulla mia ricerca. Talvolta senza timore, hanno espresso la loro solitudine, la loro ignoranza sulla tematica e quindi difficoltà nel doverla affrontare. Altre volte hanno dipinto situazioni in classe “perfette” e alle mie domande di maggiore indagine, poiché alquanto incredula alla “perfezione”, ricevevo un “muro” più che maggiori spiegazioni e approfondimenti. Il caso, inoltre, ha voluto che proprio nel mese di dicembre uscissero, da parte del Ministero, le nuove linee guida per favorire il diritto allo studio degli alunni adottati. Grazie a queste, oltre a evidenziare le “buone prassi” da tenere con gli alunni adottati, uno degli aspetti più innovativi e interessanti, a mio avviso, riguarda l’introduzione in tutte le scuole, di un referente dell’adozione. Questa figura svolgerà il ruolo di supporto dei colleghi che hanno alunni adottati nelle loro classi, nella sensibilizzazione del Collegio dei docenti sulle tematiche dell'adozione, nell'accoglienza dei genitori.
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Capitolo quarto La parola agli insegnanti 4. I soggetti della ricerca (..) la comprensione della realtà, per il soggetto umano, si basa su una disposizione e capacità di attribuire senso agli eventi, attraverso la costruzione di rappresentazioni della realtà stessa. Riva M.G., 2004
Come anticipato nel capitolo precedente, ho scelto l’intervista come strumento per la mia ricerca bibliografica. Innanzitutto sono riuscita a intervistare sette esperti di adozione206, sei di Milano e una di Genova. Dalle loro parole e dalle loro riflessioni, ho sviluppato le interviste per gli insegnanti di scuola primaria. Ho così condotto dieci interviste a insegnanti di scuola primaria e una a un’educatrice di un bambino adottivo che frequenta la scuola primaria. In particolare, ho pensato a un’intervista semi-strutturata che permettesse di dar voce alle esperienze degli insegnanti, alle loro percezioni nei confronti dei bambini, dei bambini adottivi, delle famiglie e della scuola stessa. Infatti, ho creato alcune domande e punti d’interesse che avrei voluto approfondire con le insegnanti, pensando sempre all’intervista come momento in cui loro stesse riuscissero a raccontare e sentirsi accolte e ascoltate. Sono riuscita a mettermi in contatto, e quindi a incontrare, insegnanti di varie zone di Milano: 1. Sei di loro insegnano in scuole primarie della zona nord-est di Milano (Gemma, Flavia, Loredana, Rosita, Anna, Lella) 2. Un’insegnante e l’educatrice lavorano in una scuola di un paese dell’hinterland milanese (Cristina e Valentina) 206
Si veda p.151 del presente documento, per i dettagli.
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3. Tre di loro insegnano in scuole primarie in zona nord di Milano (Antonella, Lorella, Elisabetta). Tutte le insegnanti hanno avuto esperienze con bambini adottivi, in classe, tranne un’insegnante sola. Alcune di loro hanno toccato spontaneamente gli aspetti che volevo approfondire; altre avevano più “bisogno” di una “spinta” da parte mia. Ho comunque cercato sempre di tenere a mente le domande che mi ero preparata, senza perdere però di vista quello che l’altro mi stava raccontando, quello che l’altro esprimeva sia verbalmente che attraverso il linguaggio non verbale. A volte mi rendevo conto di essere davvero coinvolta dalle parole di quell’insegnante, oppure di trovarmi seriamente a disagio. Mi è capitato, per esempio, nel momento in cui l’intervistata ha replicato con un “botta-risposta”. In quel caso sentivo di aver sbagliato approccio, di aver sbagliato domande o atteggiamento. Non riuscivo a capire come “agganciare” quella persona, come farle raccontare le sue esperienze. In un’altra situazione mi sono sentita particolarmente a disagio: avevo di fronte una persona, apparentemente molto in ansia per l’intervista, come spiegato nel capitolo precedente, molto in ansia per gli episodi che mi stava raccontando e infine molto coinvolta dall’esperienza riportata. Purtroppo, ammetto, non vedevo l’ora di terminare quell’intervista, sentendo che sia a me che all’intervistata stava creando particolare difficoltà. Ho, quindi, proposto all’insegnante di interrompersi (nel momento in cui si è commossa per ciò che stava raccontando), ma si è rifiutata e ha proseguito. In altri casi mi sono sentita una “valvola di sfogo” per l’insegnante che avevo di fronte, che si è lasciata andare, che ha espresso senso di frustrazione, tristezza e solitudine, a scuola. Ho apprezzato molto questo coinvolgimento, mi sono sentita “fortunata” a poter ascoltare quelle parole. Allo stesso tempo però, temevo di sviare quello che era lo scopo della mia intervista. Infine, talvolta sentivo che avrei voluto esprimere la mia opinione su un dato, su un avvenimento o su alcune frasi espresse dall’insegnante, magari che non condividevo. Tuttavia, cercando di tenere a mente il mio ruolo di intervistatore, ho tentato comunque di essere accogliente e di accettare tutto quello che l’altro esprimeva, senza esporre un giudizio.
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L’intervista consiste nell’instaurarsi di una relazione tra due persone, iniziata da uno dei due soggetti coinvolti, con l’intento di ricostruire ai fini conoscitivi il mondo sociale e rappresentazionale dell’altro. Cozzi, Nigris, 1996
Prima di dare inizio all’analisi vera e propria delle interviste, voglio ricordare però che quello che sto per riportare, quello che emerge dalle parole degli insegnanti, sono le loro preziosissime e personali percezioni e visioni su determinati argomenti. Cercherò in tal modo di analizzarle leggendole alla luce della teoria e delle altresì preziosissime parole dei testimoni privilegiati. Come già approfondito nel capitolo precedente, ho creato una traccia per le interviste da proporre agli insegnanti, che non dovesse essere estremamente rigida, ma che mi desse la direzione corretta da seguire per raggiungere i miei obiettivi. Ho pensato a due tipi d’intervista: quella rivolta agli insegnanti che avessero avuto esperienza di bambini adottivi in classe e quella per gli insegnanti che non ne avessero mai avuti. L’intento iniziale era di ottenere circa metà soggetti di un tipo e metà dell’altro, ma purtroppo (o per fortuna) ho incontrato nove insegnanti con esperienze dirette di bambini adottivi e solo un’insegnante che in classe non ne avesse mai avuti. Inoltre ho potuto intervistare anche un’educatrice, ottenendo così un ennesimo punto di vista sulla tematica. Tutte le interviste condotte riguardano, come evidente dalle tracce, i medesimi temi: l’adozione, i bambini adottivi in classe, l’adozione e la famiglia come argomenti da affrontare o meno in classe. Chiaramente gli insegnanti hanno collegato alla tematica dei “bambini adottati”, quella dei genitori adottivi, delle possibili problematiche e delle difficoltà scolastiche. I vantaggi che ho riscontrato in questo tipo d’intervista sono la flessibilità e la possibilità che si ha di lasciare “libero” l’intervistato di raccontare; senza mai dimenticare l’obiettivo di quell’incontro e quindi di sottoporre, anche in ordine differente, le medesime questioni e approfondimenti a tutti i soggetti. I punti che sono stati posti in evidenza, e su cui cercherò di riflettere in modo critico, riguarderanno: 1. La percezione degli insegnanti sull’adozione 2. La percezione che gli insegnanti hanno oggi sui bambini;
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3. La percezione che gli insegnanti oggi hanno sui bambini adottivi; con particolare attenzione alle problematiche e comportamenti dei bambini adottivi; 4. La percezione degli insegnanti sulla famiglia, oggi; quindi le aspettative, la relazione con i bambini; se viene considerata alleata o controparte. 5. La percezione che gli insegnanti hanno nei confronti della scuola; Cosa fa generalmente con i bambini adottivi? Quali possibili problemi, risorse e strategie offre? Come viene considerata dagli insegnanti? 6. La percezione degli insegnanti sulle loro difficoltà. 7. Parlare di adozione in classe? Come affrontare la storia personale? Se la domanda da cui ho dato inizio alla presente ricerca è stata “L’inserimento del bambino adottato, nella scuola primaria”, si comprende come, attorno a essa, ruotino numerosi aspetti che riguardano fondamentalmente tre principali soggetti: i bambini, le famiglie, la scuola. Le dinamiche e le problematiche che li riguardano, comprendono chiaramente il momento pre-scolatico, l’inserimento a scuola e lo svolgersi in itinere del momento scolastico. Quindi attraverso la mia ricerca, ho potuto, e forse dovuto, prenderli tutti in considerazione, poiché le problematiche e le riflessioni emerse in connessione all’inserimento, sono parecchie e altrettanto interessanti. Emergono, quindi, dalle parole degli esperti, ma soprattutto da quelle degli insegnanti, pensieri e percezioni su ciò che è l’adozione, su come si comportano i genitori adottivi e sulle maggiori problematiche dei bambini. Non è tanto questione di rimettere in circolo il rapporto teoria-prassi, quanto piuttosto riconcettualizzare radicalmente la natura della teoria, inserendola nella concretezza, nella materialità, nella corporeità e nel vissuto dell’esperienza207
207
Riva M.G., Il lavoro pedagogico come ricerca dei significati e ascolto delle emozioni, Edizioni Angelo Guerini, Milano, 2004, p. 14
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Infine, cercherò di svolgere questo passaggio conclusivo della mia ricerca, in modo sempre riflessivo, mantenendo uno sguardo di secondo livello, uno sguardo da futuro consulente pedagogico, uno sguardo che scende e penetra, sotto alla superficie visibile (..) a scrutare ciò che si cela, che sta nascosto (..) che giace in strati più profondi e nascosti e da lì influenza, e spesso determina, però, lo stato e il comportamento esterno208. Dunque, cercherò di avere come consapevolezza prima di tutto l’idea che il soggetto che incontro non mi sta presentando una realtà oggettiva distante da sé, ma piuttosto avrà una sua personale rappresentazione della realtà che ha incontrato (Riva, 2004). Come secondo aspetto voglio tenere a mente che l’intervistato ha, sì una rappresentazione soggettiva della realtà, ma che la stessa risente delle sue esperienze passate, in primo luogo della sua relazione con la famiglia. Infine, forse la sfida più difficile: mantenere la consapevolezza che la situazione in cui ci si trova a lavorare, a intervistare, a vivere, non può che essere una realtà caratterizzata da disordine e caos, incertezza e imprevedibilità (Riva, 2004).
4.1 L’analisi delle interviste (..) può mescolare, spesso in modo inconsapevole, spezzoni di sapere teorico, colto, con ricordi personali della propria storia educativa, delle teorie e delle rappresentazioni pedagogiche espresse dal proprio ambiente negli anni della formazione personale (..)209.
Le esperienze che abbiamo vissuto, che ci hanno raccontato, che abbiamo osservato sono la base di quelle che diventano nostre credenze e valori. Ecco che in numerose delle interviste condotte agli insegnanti, alla domanda “Se pensa all’adozione, cosa le viene in mente?” ottenevo risposte per lo più basate su esperienze personali di parenti e amici stretti adottati o adottivi oppure, chiaramente, su esperienze vissute con bambini adottati in classe. Di conseguenza la descrizione o le caratteristiche che mi 208
Rezzara a., Ulivieri Stiozzi S., Formazione clinica e sviluppo delle risorse umane, Franco Angeli, Milano, 2004, p.41 209 Riva M.G., Il lavoro pedagogico come ricerca dei significati e ascolto delle emozioni, Edizioni Angelo Guerini, Milano, 2004, p.15
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hanno trasmesso sul tema “adozione” erano positive o negative, a seconda del successo o insuccesso che gli insegnanti hanno riscontrato nella loro personale esperienza. E questo vale per tutti gli aspetti toccati durante la nostra intervista. Vediamo quindi ora, in particolare, questo primo punto di analisi su cui ho posto la mia attenzione: l’adozione.
4.1.1 L’adozione (..) io provo molta tenerezza su questo argomento perché la mia nonna è stata una bimba adottiva. Quindi questa cosa qui mi ha sempre predisposto e interessato210.
(..) ho cambiato la mia opinione rispetto a prima da quando ho A. in classe. (..) ho sempre pensato all’adozione come un percorso straordinario, ma anche straordinariamente difficile, cioè ho sempre pensato che dei genitori che si mettono alla prova in questo modo devono avere davvero un bagaglio, una serie di atteggiamenti, (..) devono avere una predisposizione di cuore e di mente e di anima per fare una cosa di questo genere. Adesso che posso toccare più direttamente con mano (..) direi che sono meno “spaventata” adesso211.
Come strategia per creare un clima rilassato e che mettesse l’intervistato a proprio agio, ho chiesto, come una sorta di brainstorming, cosa venisse loro in mente, pensando all’adozione. Mi è sembrato un ottimo modo per “rompere il ghiaccio”, senza chiedere immediatamente il racconto di una specifica esperienza, ma appunto ponendo l’attenzione sulla percezione dell’intervistato sulla tematica, in generale. Ho notato da tutte le interviste, che chi avevo di fronte sembrava rilassarsi, “mettersi comodo”, sciogliersi, nel momento in cui ponevo tale quesito. Raccogliendo le diverse risposte e riflessioni, ciò che emerge è suddivisibile in tre gruppi: − coloro che pongono l’attenzione sui genitori; 210 211
Intervista a Gemma Intervista a Cristina
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esprimono quindi ammirazione, stima, consapevolezza di un percorso difficile, in cui la famiglia riesca ad accogliere qualcuno come proprio; − Coloro che considerano l’adozione sulla base della relazione che si crea tra famiglia adottiva e bambino; sono state riportate parole come incontro, collaborazione, apertura, in particolare: incontro tra un abbandono e una ferita generativa212; − l’educatrice ha collegato adozione a qualcosa di problematico e faticoso, in riferimento all’esperienza che sta vivendo a scuola e di amici che hanno adottato; − Infine ci sono state alcune insegnanti che hanno collegato all’idea di adozione l’idea di qualcosa di molto lontano, di molto positivo, arricchente e di molto tenero (Gemma). Per quel che riguarda la prima “rappresentazione”, quindi con focus sui genitori, il riconoscimento in essi di fatica, difficoltà e dunque di provare un senso di ammirazione nei loro confronti mi è stato, all’incirca, confermato anche dalle parole dei testimoni privilegiati. Diventare genitori adottivi è un passo molto importante, che se non fatto con consapevolezza e riconoscimento del “nuovo ruolo”, può portare “problemi” sia nei genitori che nei figli. La genitorialità adottiva è considerata una genitorialità che non si fonda sul biologico, ma che si fonda sulla (..) legittimazione genitoriale che il genitore riesce a concedersi nonostante, nonostante, per quanto riguarda la madre non ci sia stata la gravidanza. E per quanto riguarda il padre nonostante, (..) non ci sia l’attribuzione di significato che i suoi geni sono dentro quel bambino213.
Approfondirò ulteriormente questo tema, nello sviluppo di altri focus dell’analisi. L’adozione come incontro è un’immagine che anche alcuni testimoni privilegiati mi hanno donato. l’adozione (..) è l’incontro di due lutti,
212 213
Intervista ad Anna Intervista a Test. Guidi
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o l’incontro di due lutti superati dal bisogno di cure reciproche. Non è un atto beneficario, è un incontro di due, (..) bisogni214.
Quindi l’incontro tra il bisogno dei genitori, di donare cure e di colmare un vuoto, e il bisogno del bambino abbandonato, di essere accudito. Da una parte è una rinuncia, dall’altra è un’accettazione215.
Si parla proprio di “intreccio adottivo”, in cui si assiste, o ci si augura di assistere, a un incontro della legittimazione dei genitori di essere adottivi con la legittimazione di appartenenza, ossia (..) la legittimazione che crescendo il bambino si dà o si non dà, dell’appartenenza a questa famiglia, (..) il bambino man mano che cresce, finché diventa adolescente, si deve legittimare di essere figlio di quelli lì216.
Effettivamente, anche i dati del 2013 ci confermano che i genitori adottivi sono per la maggior parte persone che hanno dovuto affrontare la sterilità. La sterilità come motivazione all’adozione riguarda ben il 95,3% di coppie che hanno portato a termine il percorso in quell’anno. Purtroppo sono dati che sembrano aumentare, pensando che pochi anni prima, nel 2009, la sterilità riguardava solo l’80,6% delle coppie adottive. E’ comunque interessante sottolineare che la sterilità non è l’unica motivazione che spinge una coppia ad adottare. I dati, infatti, ci dicono che la seconda motivazione riguarda (..) la “conoscenza del minore” e riguarda le coppie che hanno sperimentato una positiva esperienza di accoglienza di un bambino straniero che, per motivi di risanamento, viene in Italia dai Paesi dell’Est colpiti dalla catastrofe nucleare di Chernobyl, con soggiorni che normalmente prevedono una permanenza nel periodo estivo e una durante le vacanze natalizie217. Infine, l’ultima motivazione (che riguarda il 214
Intervista a Test. Guidi Intervista a Test. Guidi 216 Intervista a Test. Guidi 217 Presidenza del Consiglio dei Ministri Commissione per le adozioni internazionali, Dati e prospettive nelle adozioni internazionali. Rapporto sui fascicoli dal 1°gennaio al 31 dicembre 2013, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti, http://www.commissioneadozioni.it/media/143019/report_statistico_2013.pdf 215
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2,4% delle coppie adottive) è la volontà di “fare del bene”, quindi adozione come spinta umanitaria. Infine, se pensiamo all’adozione come un incrocio, uno scambio, trovo interessante l’idea che essa non sia da considerare un progetto individuale, o della sola coppia adottiva, ma sia Un’operazione sociale, ognuno ci mette un pezzo (..) il genitore mette il pezzo della famiglia, della cura, dell’affettività, la scuola si occupa della parte cognitiva, del recupero, dell’integrazione218.
in cui la legittimazione deve essere elaborata da tutti i soggetti che vivono intorno al bambino. Permettendosi di accettare che si possa avere un figlio non biologicamente creato, che si possa quindi rinunciare alla genitorialità senza far ricadere sul bambino l’idea di essere stato abbandonato o peggio, di avere due mamme, ma riconoscendo nella genitorialità adottiva la sua unicità. Certamente, poi, l’adozione può essere considerata anche nella sua sfaccettatura di processo faticoso e problematico. Basti pensare al lunghissimo e travagliato percorso che il bambino e la famiglia devono affrontare per giungere all’adozione definitiva. Effettivamente i dati (i più recenti risalgono al 2013 e si concentrano sull’adozione internazionale) testimoniano che il tempo minimo, che una coppia adottiva impiega dal momento dell’idoneità all’autorizzazione dell’ingresso del bambino in Italia, è di tre anni con addirittura punte massime di cinque. Periodo in cui sia per il bambino che per i genitori possono aumentare le difficoltà. Infine, l’ultimo gruppo di risposte riguarda l’esperienza diretta che gli intervistati hanno avuto toccando con mano l’adozione, come “qualcosa di molto positivo”: è chiaro che il riferimento è dato da esperienze con bambini adottivi che non hanno mostrato né particolari problematiche né difficoltà. E infine, adozione come qualcosa di tenero, per l’insegnante che porta con sé l’esperienza di adozione della sua nonna.
4.1.2 I bambini, oggi 218
Intervista a Test. Patrizi
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“(..) espressioni, comportamenti e rappresentazioni mediante le quali gli attori organizzativi riescono a orientarsi e ad agire nel loro contesto appartiene a un primo livello, quello degli assunti dati per scontati, dal quale possono essere estratti concetti e interpretazioni di secondo livello, definibili come «interpretazioni di interpretazioni»” Infantino A., 2002
Prima di entrare nello specifico dei bambini adottati, oggi presenti a scuola secondo le parole degli insegnanti, mi sembra interessante fare un’analisi di come gli stessi considerino e percepiscano tutti i bambini che vivono le loro aule. Non tutti gli insegnanti hanno espresso il loro punto di vista sui bambini, in modo generico, concentrandosi particolarmente sui quelli adottivi e le loro esperienze. Le insegnanti che hanno aperto una parentesi sui bambini di oggi, mi sono sembrate persone che avessero bisogno di qualcuno che potesse ascoltare le loro frustrazioni, le loro difficoltà e le loro perplessità. Voglio sottolineare, però, che le riflessioni fatte sulle problematiche dei bambini di oggi, non sono state fatte come lamentela e giustificazione della loro eventuali difficoltà di lavoro, ma come un dato di fatto, e un motivo in più per rimboccarsi le maniche e affermare il loro ruolo. L’immagine dei bambini, che mi è stata donata, è quella di soggetti sempre più fragili, fragili psicologicamente ed emotivamente, che hanno difficoltà ad affrontare e sopportare le più banali frustrazioni. Sembrano essere davvero sofferenti e sempre più bisognosi di un sostegno psicologico. Il dato triste che mi è stato comunicato è che non si tratta di uno o due casi per classe, ma queste sono apparse come piene di bambini con difficoltà. Difficoltà che possono andare dalle difficoltà cognitive o comportamentali diagnosticate, a difficoltà relazionali. Le classi sembrano essere piene di diversità, come spiega un’insegnante:
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(..) veramente ci sono tante, tante diversità tra i bambini dislessici, il bambino disabile, la bambina rom, ma ci sono quelli timidi, ci sono quelli aggressivi, c’è quello con l’attacco di panico, cioè non è che ci sono i normali e i diversi. Ognuno ha degli aspetti che funzionano benissimo e c’è la fragilità219.
Come mai queste problematiche? Come mai i bambini oggi mostrano così tanta fragilità e difficoltà? Un interessante tentativo di risposta l’ho ricevuto dalla dottoressa Antonella Patrizi. In effetti, la sua è stata l’ultima intervista da me condotta. In tal modo l’ho elaborata alla luce dei dati e delle informazioni ricavate dalle interviste già condotte. Così, ho chiesto, quasi un suo punto di vista critico su quello che era il materiale che avevo ottenuto. Per quel che riguarda i bambini, adottivi ma anche non adottivi, la dottoressa ha affermato che nelle classi oggi si possono individuare problematiche e difficoltà nei bambini, che abbiano avuto un’evoluzione affettiva particolare. Le difficoltà da lei individuate, a partire da questa “mancanza” sono: episodi di aggressività, problemi nell’area logicomatematica, blocco nella parte meta-cognitiva; e quindi possibili bambini disturbanti, con difficoltà e problemi emotivi. Probabilmente, le famiglie oggi “stimolano” molto il figlio da un punto di vista cognitivo, mentre poco nella parte emotiva. Genitori confusi, che non sanno stimolare adeguatamente i bambini, che non li sanno tenere dentro le routine, che non si collocano in un’organizzazione spazio-temporale. Si potrà appunto assistere a: − reazioni aggressive, nel momento in cui il bambino non riceve la dovuta attenzione dall’insegnante; − difficoltà nell’area logico-matematica. Quest’ultima in particolare può essere una conseguenza di esperienze faticose, difficili che il bambino ha vissuto, tali da bloccare l’area logico-matematica, quindi l’area della consequenzialità. Questo è un dato davvero interessante: (..) non funzionare in alcune aree sono anche segnali significativi della storia. − l’impossibilità di questi bambini di meta-riflettere, di pensare, di ripercorrere la loro storia, poiché nella loro stessa storia si sono presentate delle chiusure, dei blocchi.
219
Intervista a Flavia
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Infine, una raccomandazione che ha evidenziato la dottoressa Patrizi è stata comunque, in qualunque caso, di fare in modo (..) che il bambino non coincida con il problema di cui è portatore e quindi dargli delle chances, dei riscatti, delle possibilità di riscatto che i bambini sentono220.
4.1.3 I bambini adottati, oggi Occorre pensare alla costituzione della vita individuale sotto il segno della possibilità e delle potenzialità esistenziali. Questo per il tramite sia delle transazioni con gli altri e con la realtà esterna, sia delle catene di significati a cui danno luogo e in cui verranno racchiusi. Riva M.G., 1993
Sulla base di quelle specifiche esperienze o “intuizioni” dell’intervistato è emersa l’immagine, la percezione, la rappresentazione di ogni insegnante sui bambini adottivi. A volte sono state fatte generalizzazioni, ma per lo più le caratteristiche che andrò a esporre sono connesse, chiaramente, da ogni soggetto a uno specifico bambino con cui hanno avuto esperienza. Un primo punto di analisi è rintracciabile nelle insegnanti che hanno collegato al bambino adottivo la caratteristica di avere alle spalle esperienze molto pesanti e talvolta vissuti terribili. (..) il caso di questi bambini che hanno dei problemi più grandi di loro, che non capiscono, cui non sanno dare un nome e cercano, con i modi che loro conoscono, coi pochi modi che loro conoscono, cercano di coinvolgere l’adulto, e sta a all’adulto saper ascoltare221. (..) tutti i bambini adottati hanno un bagaglio incredibile che va gestito222.
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Intervista a Test. Patrizi Intervista ad Antonella 222 Intervista a Cristina 221
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Questo mi è stato ripetuto in quasi tutte le interviste degli insegnanti ed effettivamente è intuibile anche da un punto di vista delle tempistiche che vedono coinvolti i bambini. Innanzitutto, (..) questi minori hanno vissuto sicuramente un periodo legato a una comunità o un istituto. Con la differenza che essi siano stati con adozione internazionale, (..) sono allora prevalentemente istituti, mentre in Italia gli istituti sono chiusi perciò per tutto quello che riguarda i minori si parla di comunità. Ha esperienza comunque di una situazione di pregiudizio piuttosto importante, per avere un procedimento, perché ormai questi procedimenti di allontanamento dal contesto familiare vengono fatti proprio per casi di grosse.. cioè, di situazioni diciamo sinceramente molto importanti223. Questo è sicuramente un aspetto che contribuisce a riempire il bagaglio dei bambini adottati di giorni o anni travagliati e di allontanamento dalla famiglia. Inoltre, oggi, sempre per quel che concerne l’internazionale, i bambini possono essere adottati in Italia, solo dopo aver “tentato” il circuito della nazionale del loro paese d’origine. Succede così che (..) i bambini che vanno in adozione sono già grandicelli224. (..) era stato anni in istituto. Per cui, in istituto in Ucraina aveva vissuto una situazione allucinante. Per cui violenze, percosse, di tutto e di più. Elisabetta
Quindi (..) passano attraverso la loro nazionale (..) i bambini che son stati lasciati dai genitori allora viene emesso il decreto di adottabilità e attraversano il circuito della LORO nazionale. (..) quelli che vanno nel circuito dell’internazionale son quelli che son già passati nella nazionale, non sono stati adottati da piccoli per cui vanno nel circuito nell’internazionale225. A tale proposito effettivamente anche i dati disponibili, con registrazione fino il 2013, testimoniano che l’età media dei bambini adottivi è stata di 5,5 anni, in 223
Intervista a Test. Patrizi Intervista a Test. Da Pian 225 Intervista a Test. Da Pian 224
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diminuzione rispetto al 2012, pari a 5,9 anni. Precisamente, (..) oltre 4 bambini adottati su dieci nel 2013 (42,1%) hanno un’età compresa fra 1 e 4 anni, il 43,8% dei minori adottati ha un'età fra 5 e 9 anni, l’8,8% un’età pari o superiore a 10 anni, mentre solo il 5,4% dei bambini adottati si colloca sotto l’anno d’età226. (..) il 98% dei bambini adottati comunque portano sempre dei disagi profondi. (..) quindi le ferite si fanno sentire. Antonella
Quindi, con le tempistiche più lunghe, in particolare per quel che riguarda l’adozione internazionale, il rischio che il bambino rimanga “segnato” da ciò che vive nel tempo che intercorre tra la dichiarazione di adottabilità e il vero e proprio ingresso nella nuova famiglia, c’è; che poi sia tanto, poco, con pesanti conseguenze o lievi, dipenderà certamente dal singolo e dalle persone che riuscirà a incontrare lungo il suo cammino. E difatti, come afferma anche Donatella Guidi, se poi il tempo fra la nascita e l’adozione è talmente lungo che il bambino comincia ad avere ricordi (..) comincia ad avere la percezione di aver avuto una vita prima di quei genitori lì, ovviamente l’adozione diventa più complicata227. Tutto questo, senza dimenticare che il bambino che viene dichiarato adottabile, è un bambino che (..) il pubblico ministero ritiene (..) in stato di abbandono 228 , il che presuppone dunque che provenga da una situazione importante. Un secondo punto di analisi delle interviste, a mio avviso molto interessante è la resilienza. Trovo che sia un dato da non sottovalutare il fatto che questa caratteristica sia emersa sia dalla parole di una delle testimoni privilegiate, sia da quelle di un’insegnante. La resilienza, come abbiamo visto, è la capacità umana di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne addirittura rinforzati229.
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Presidenza del Consiglio dei Ministri Commissione per le adozioni internazionali, Dati e prospettive nelle adozioni internazionali. Rapporto sui fascicoli dal 1°gennaio al 31 dicembre 2013, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti, http://www.commissioneadozioni.it/media/143019/report_statistico_2013.pdf 227 Intervista a Test. Guidi 228 Intervista a Test. Dalla Negra 229 Capitolo secondo, p.54
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Da parte del testimone privilegiato mi è stata spiegata come la capacità dei bambini adottati, o comunque persone che abbiano vissuto situazioni difficili se non addirittura traumatiche, di rialzarsi, di darvi comunque un senso. Ecco le sue parole: (..) tu puoi avere anche delle situazioni molto difficili nella tua vita, però se tu hai trovato comunque nel tuo cammino, un tutore di resilienza, oppure delle situazioni favorevoli, no, le ricerche ci dicono che nell’evoluzione di questi soggetti, nel momento in cui nella loro vita si è verificata una situazione traumatica, sono riusciti a dare un senso a questo evento traumatico, e hanno trovato intorno a loro delle figure stabili come tutori, possono essere uno zio, un parente, un educatore, un insegnante eccetera.
E quindi, in quest’ottica, pensare per esempio a un appoggio per i bambini adottati per ripercorrere la loro storia, per ricostruirla: (..) partire dall’oggi, e tornare indietro230. In tal modo, nel momento in cui il bambino si sente pronto a pensare alla sua storia, la riflessione potrebbe essere: “La mia storia è partita male, parto da oggi che ho in mano una possibilità, ho delle risorse, da queste risorse torno indietro e quindi man mano mi attrezzo accompagnata a tornare indietro”. Allora questa potrebbe esser una cosa interessante, allora a quel punto uno può toccare che a un certo punto della sua vita è stato in istituto quindi tirar fuori le foto dell’istituto eccetera. Mentre partire da lì, da lì, parti dalla carenza, dal vuoto, cioè dalla fragilità, comunque dalla tua storia che aveva comunque più elementi e fattori di protezione e quindi questa potrebbe essere una cosa interessante231.
Anche l’insegnante (che non ha mai avuto esperienza in classe con bambini adottivi, ma solo in incontri di psicomotricità) evidenzia, (..) una capacità di resilienza spesso fortissima, nel senso che comunque la resistenza che hanno dovuto mettere per sopravvivere è una resistenza forte232.
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Intervista a Test. Patrizi Ivi 232 Intervista ad Anna 231
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A proposito di belle parole che descrivono i bambini adottivi, come appunto resilienza, credo che, in questa parte sia interessante aggiungere anche alcune riflessioni positive, belle, fatte dagli insegnanti: Nel momento in cui è riuscito a dare la parte migliore di sé era davvero, ma con una disponibilità, con un amore soprattutto con il bambino in difficoltà che avevamo in classe. Era come se lui lo leggesse. Non so avevo bisogno che so di un fazzoletto? Tac, me lo passava immediatamente. Un bambino meraviglioso233. (..) non ho mai visto disegnare così bene un bambino234. (..) abbiamo cercato di individuare delle sue risorse, lei è molto brava a ballare e molto brava a cantare e quindi abbiamo, come dire, attivato durante l’intervallo, cosa che succede sempre in quinta, perché le bambine ballano, adorano ballare, quindi questa cosa è servita moltissimo perché lei in quell’ambito è emersa come una delle più brave. E quindi le altre bambine, ma anche i maschi ballano, l’hanno vista, cioè hanno cominciato ad apprezzarne questo aspetto, come altre235. (..) un bambino simpaticissimo, molto dolce, anche con i compagni, proprio molto piacevole come bambino236.
(..) era in classe, o disegnava, perché era bravissimo a disegnare, proprio meraviglioso237.
Una terza percezione che gli insegnanti mi hanno trasmesso è di bambini arrabbiati. Quindi questa rabbia che i bambini adottivi sembrano portarsi dentro e forse non sanno come gestire. Era un livello comportamentale, come se lui fosse arrabbiato, ecco. Gemma
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Intervista a Gemma Intervista a Gemma 235 Intervista a Cristina 236 Intervista a Rosita 237 Intervista ad Antonella 234
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Una rabbia che a volte si esprime in comportamenti aggressivi o violenti nei confronti di compagni e insegnanti, come spiegherò approfondendo i comportamenti specifici di questi soggetti. (..) questa rabbia sotto, sotto la vedevo più in B. e quindi la sentivi nella voce che era molto di gola, un po’ strozzata, nelle modalità, negli atteggiamenti, con questo tentativo di essere sempre invece.. no, che non è facile avere un modello. (..) e C. meno, però C. rideva. Era questa risata imbarazzata, questa risata..(..)238
Infine è emerso dalle parole degli insegnanti, secondo loro esperienze passate, studi o preconcetti, quanta differenza sia riscontrabile tra bambini adottati a età differenti: quindi, l’età di adozione. Sono andati loro ad allattarlo in clinica. Perciò come dire, la strada è stata più facile per un certo verso. Lella
(..) se non avessi saputo che erano bambini adottati, non me ne sarei proprio accorta. Anche perché questi sono stati adottati da piccolissimi. Flavia (..) secondo me più tardi si adottano e più queste problematiche emergono. Perché se si adottato a meno di un anno sai… ma se poi questi bambini iniziano a vivere in questi istituti, all’estero.. ma.. guarda… son pesanti eh239.
Un’insegnante ha affermato che, nonostante il bambino fosse stato adottato da molto piccolo (sei mesi), avesse comunque presentato la cosiddetta sindrome dell’abbandono. Lui è stato adottato a sei mesi, però non mi ricordo, su una relazione però, una delle prime che abbiamo avuto, parlava di questa sindrome dell’abbandono (..)240.
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Intervista a Lorella Intervista ad Antonella
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Dunque, pare che più piccolo sia il bambino adottato, quindi con un minor bagaglio di ricordi, meno potrà presentare particolari difficoltà. Ovviamente questo non deve essere inteso in modo assoluto, come testimoniano le parole dell’insegnante che mi ha parlato di trauma dell’abbandono. (..) un adottato alla nascita tendenzialmente potrebbe avere meno traumi, meno difficoltà di uno adottato a quattro, cinque, sei anni. Perché vuol dire che il bagaglio di vicende dolorose, alle spalle può essere più lungo. Non è detto perché poi magari241.
Su questo, trovo interessante e basilare il ragionamento di Donatella Guidi che sostiene che “Se tu adotti un bambino a sei mesi, è uguale, se tu hai un bambino l’hai fatto, poi magari il tuo bambino ha l’asma, ha l’ira di dio, te lo tengono in ospedale sei mesi. È uguale! Lui ti conosce a sei mesi, prima ha avuto quelli che lo.. , gli facevano del male nella sua testa (..) È identico. Quindi il trauma è uguale, solo che il bambino che è stato in ospedale, avrà un racconto della sua origine, collegato alla famiglia. Il bambino che viene dall’adozione, quindi ha avuto i sei mesi, ma perché è stato adottato, avrà bisogno di un racconto che colleghi le sue origini a quelle della famiglia242. Infine, secondo la psicoterapeuta genovese, Livia Botta (..) i bambini adottati in adozione nazionale, quindi molto piccoli, ma anche in generale, bambini adottati molto piccoli è più facile che abbiano problematiche più avanti243. A questi aspetti inerenti l’età del bambino al momento dell’adozione, sento che potrebbe essere utile un breve collegamento a quello che è l’inserimento scolastico vero e proprio del bambino adottivo. Nel mio caso, ho raccolto esperienze d’inserimento nella scuola primaria di bambini adottati, le più svariate: − in prima, a inizio anno; − in prima, ad anno appena avviato, un bambino adottato da due settimane − in prima, a gennaio. − in seconda, a inizio anno, un bambino bocciato − in quarta, a metà anno, proveniente da un’altra scuola 240
Intervista a Loredana Intervista a Test. Provantini 242 Intervista a Test. Guidi 243 Intervista a Test. Botta 241
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− in quarta, a maggio. L’inserimento è avvenuto, in tutti i casi, a seguito di un colloquio con i genitori adottivi, in cui, per quel che era possibile, questi hanno descritto il loro bambino. Alcuni insegnanti hanno posto in evidenza che, se nel primo colloquio i genitori tendono a trattenersi nella descrizione del bambino, aggiungo io, forse anche per la poca conoscenza del medesimo, un secondo incontro con i genitori risulta solitamente più elaborato e approfondito, in particolare nel momento in cui, purtroppo, emergono problemi. Non sono state evidenziate particolari differenze nell’inserimento del bambino adottato, immediatamente successivo all’ingresso nella nuova famiglia, e l’inserimento più graduale, in seguito all’instaurarsi di un’iniziale relazione con la stessa. La differenza maggiore, confermata anche dalle parole dei testimoni privilegiati, sembra essere riscontrabile nel: 1. numero di esperienze vissute prima dal bambino; 2. atteggiamento dei genitori adottivi; 3. atteggiamento degli insegnanti. Mi spiego. Come già chiarito approfondendo la variabile età del bambino e delle esperienze vissute, maggiore è il bagaglio negativo che il piccolo deve portare con sé, maggiore sarà la possibilità di problematiche. Per quel che riguarda il secondo punto: i genitori. Il loro atteggiamento ha una forte influenza sull’inserimento del bambino a scuola. E anche qua ritorna il discorso già approfondito sulla legittimazione genitoriale. Se i genitori adottivi sono stati in grado di elaborare il loro lutto, la loro sterilità, la loro impossibilità di riprodursi e quindi si sono concessi e legittimati di essere genitori di quel bambino, ecco che riusciranno (..) anche a capire quali possono essere i problemi di un bambino che va a scuola, che si separa244. Infine, anche l’atteggiamento degli insegnanti influisce particolarmente sull’inserimento dei bambini adottivi, in classe. Se siamo in presenza della seguente situazione: 244
Intervista a Test. Da Pian
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la maestra che comincia a dire: “Questo bambino, perché lui c’ha una mamma in Africa e c’ha una mamma qui” è una maestra che non legittimerà il bambino, perché con due mamme tu non appartieni né all’una né all’altra. Perché una diventa la mamma vera, ed è quella che ti ha rifiutato e una è la mamma finta che è quella che.. allora, se tu hai una situazione del genere tu vai in tilt. Poi altro che disturbo d’ansia245.
È necessaria quindi una buona e vera legittimazione da parte di tutti i soggetti che circondano il bambino adottato: genitori, parenti, insegnanti e di conseguenza, i pari. Ecco che torniamo a parlare di adozione come un avvenimento sociale e non individuale. Infatti, se si legittima l’appartenenza di quel bambino a quella famiglia, nonostante non sia stato generato biologicamente da quei genitori, nonostante si tratti di una genitorialità adottiva, si riuscirà, forse, a comprendere quel bambino, il quale potrà (se quindi gli sarà concesso) manifestare particolari difficoltà, problemi o bisogni. Senza, però, far ricadere nello zaino dell’adozione (Lucina Bergamaschi) tutte le difficoltà o bisogni manifestati dal bambino. Come se quello fosse un faro talmente tanto forte che illumina con la sua luce tutto il resto e non si vede nient’altro. (..) il problema che oggi abbiamo qui a scuola deriva dal fatto che lui tre anni fa è stato adottato. Nel momento in cui tu poni la questione così è ovvio che oggi non ci puoi far nulla, devi solo sopportare un problema a scuola. Katia Provantini
Infine, mi sembra fondamentale terminare con una riflessione sulla classe in cui inserire il bambino. Sappiamo che i bambini adottati non sempre mostrano lo sviluppo che ci aspetteremmo da un bambino della medesima età nato e cresciuto qua in Italia. Dunque, la perplessità esposta da molti insegnanti è stata se è giusto inserire il bambino in una o addirittura due classi inferiori rispetto la sua età anagrafica, per poterne agevolare lo sviluppo cognitivo e linguistico, con ipoteticamente uno svantaggio a livello relazionale.
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Intervista a Test. Guidi
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E allora se a otto anni dovrebbe essere in terza elementare mentre è pronto per fare una prima. Nello stesso tempo se va in prima si trova grande con dei bambini piccoli246.
Chiaramente bisognerà conoscere il singolo caso, di quel bambino e delle sue esperienze e dei suoi sviluppi. Anche perché Cioè, se un ragazzino, il meccanismo italiano a volte, per mancanza di risorse è che se ti arriva un ragazzo di dodici anni, però non conosce la lingua, lo metti indietro.. Nella classe prima per imparare, no? Usi questa logica così almeno parte dall’inizio. Però magari così si perde la possibilità che la parte adolescente, quindi la parte persona, non studente, faccia doppia fatica, si inserisca più faticosamente. Abbia un elemento in più per pensare che sia inadeguato, che sia a disagio e quindi a volte certe decisioni prese ragionevolmente con l’ottica di migliorare o facilitare l’acquisizione di contenuti, o la didattica in generale, poi di fatto si configuri come un boomerang, perché sono ragazzi che si sentono per un altro247.
Però, (..) può esserci il bambino che arriva già grande, ma è stato scolarizzato e allora non può essere, no.. messo direttamente nella classe che gli corrisponde all’età ma può esserci anche il bambino che nel paese d’origine ha fatto un buon percorso di scolarizzazione, perché esiste questa possibilità, dunque in questo caso può essere che il bambino sia in grado, no, di entrare nel suo anno scolastico248. Un dato interessante che ho individuato riguarda proprio questa specifica questione. Le fonti249 ci dicono che non tutti i paese prevedono un avvio della scuola primaria dai sei anni come in Italia. Questo è un dato interessante e che forse, nel caso di adozioni internazionali di bambini “grandi”, può essere rilevante per comprendere lo sviluppo o il mancato sviluppo di alcune capacità. Teniamo conto della seguente situazione: -‐
inizio previsto della scuola primaria a sei anni – Bielorussia, Brasile, Colombia, India, Cambogia, Ucraina, Burkina Faso; 246
Intervista a Test. Da Pian Intervista a Test. Provantini 248 Intervista a Test. Botta 249 Istituto degli innocenti, Viaggio nelle scuole: i sistemi scolastici nei paesi di provenienza dei bambini adottati, Firenze, 2008 247
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inizio previsto della scuola primaria a sette anni – Bulgaria, Etiopia, Federazione Russa, Polonia, Romania, Lituania, Ungheria. Inoltre, ogni paese prevede l’insegnamento di specifiche materie, la frequenza scolastica in determinati orari250.
4.1.3.1 I bambini adottivi a scuola: comportamenti e problematiche (..) il caso di questi bambini che hanno dei problemi più grandi di loro, che non capiscono, cui non sanno dare un nome e cercano, con i modi che loro conoscono, coi pochi modi che loro conoscono, cercano di coinvolgere l’adulto, e sta a all’adulto saper ascoltare. Antonella
In seguito all’ingresso scolastico dei bambini adottivi, alcune insegnanti testimoniano le iniziali problematiche e difficoltà. Partiamo dal presupposto che gli insegnanti avranno iniziato a conoscere il bambino dal primo colloquio con i genitori, momento in cui forse però non vengono esposte tutte le caratteristiche dello stesso, soprattutto nel caso di adozione molto recente, non avendo dunque i genitori un’approfondita conoscenza del bambino. O, al peggio, gli insegnanti potranno aver persino ricevuto notizie e informazioni dalla scuola di provenienza del bambino e che lo stesso ha dovuto abbandonare per mancanza di “affinità”. Alla luce delle interviste degli insegnanti e dell’educatrice, le problematiche che possiamo riscontrare nei bambini adottati, a scuola, sono raggruppabili in: cognitive, comportamentali, relazionali. Quelle che andrò a esporre, ricordo che riguardano le esperienze di questi bambini, riscontrate da questi insegnanti: non deve essere considerata una mera generalizzazione delle problematiche manifestabili dai bambini adottati e non è chiaramente automatico che un bambino adottivo manifesti alcune di queste. Le problematiche cognitive possono mostrarsi nei bambini adottati, come in quelli non adottati: fatica a scuola, difficoltà nell’area matematica (incapacità di fare la 250
Per ulteriori dettagli, http://www.commissioneadozioni.it/media/66895/sist%20scol%202%20n.e..pdf
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sottrazione, forse per il fatto di non riuscire a ricostruire la sua storia?), fatica a imparare; difficoltà linguistiche, problemi di apprendimento, difficoltà di attenzione e concentrazione, fatica ad applicarsi e realizzare qualsiasi lavoro, scarsa capacità di attenzione e concentrazione, necessità di un lavoro differente dal resto della classe, vero e proprio ritardo cognitivo, deficit a livello psico-emotivo. A tale proposito, tengo a riportare le parole e le riflessioni delle testimoni privilegiate che anche su questo aspetto hanno dato un grande contributo. Traspare dalle loro parole quanta influenza abbiano i genitori sulle capacità cognitive e di apprendimento dei bambini, che siano adottivi o meno. La base è sempre, come ripetuto più volte, la legittimazione che quei genitori si danno di essere il papà e la mamma di quel bambino, nonostante la mamma non abbia avuto una gravidanza e nonostante il papà non vi riconosca esplicitamente i suoi geni. Questo vale appunto anche per i genitori biologici che devono concedersi di essere genitori, quindi di prendersi cura del bambino, il che non è un riflesso automatico dal momento in cui si genera un bambino. Se non c’è la legittimazione genitoriale e quindi la legittimazione di appartenenza di quel bambino a quella famiglia, c’è la possibilità che il figlio si costruisca (..) un’ansia che lo porterà magari a sviluppare quei tipi di disturbi, sull’attenzione, piuttosto che disturbi sull’apprendimento, (..) che sono comuni anche ad altri bambini non adottivi che hanno avuto dei percorsi ansiogeni lungo la loro vita. In particolare, (..) il bambino adottivo può presentare disturbi dell’attenzione perché ha delle interferenze ansiose, che gli derivano da, magari, non da eventi che gli sono successi, ma dal fatto che nel suo sistema familiare non c’è stata una legittimazione degli adulti tale, che abbia (..) legittimato lui a sentirsi di appartenere a loro251. Riflessione confermata anche dalla dottoressa Paola Dalla Negra, che parla di (..) problema dell’appartenenza (..) che può interferire con l’apprendimento252. Oltre a questo aspetto dell’appartenenza e del riconoscimento, possono influire sul futuro cognitivo dei bambini adottati, chiaramente, anche le esperienze passate, più o meno dolorose. (..) poi se ovviamente ci sono stati, nel periodo, fra la nascita e l’adozione dei traumi di qualsiasi tipo, come potrebbero essere in un bambino non adottivo.. allora avremo tutti i
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Intervista a Test. Guidi Intervista a Test. Dalla Negra
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disturbi, non so i disturbi della condotta, piuttosto che non addirittura i disturbi dell’apprendimento, ma non da ansia, da non so questo qui non è stato stimolato, ipostimolazione, da una genetica non chiara253.
Sappiamo quanto le relazioni iniziali instaurate dal bambino con i suoi caregivers siano fondamentali per la sua crescita, cognitiva, e non solo (Bowlby). L’altro aspetto è quello dei primi anni di vita, perché se un bambino è stato deprivato, l’apprendimento non può che essere complicato, e la deprivazione è qualche cosa che comunque inficia le capacità mentali per tutta la vita. Se poi ha subìto storie di maltrattamento.. magari anche qualche abuso qui e là.. è chiaro che..254
A livello comportamentale i bambini adottivi possono mostrarsi dispettosi, aggressivi, provocatori, parlare con voce in farsetto o comunque strozzata, possono “rubare”, scappare per non ascoltare, riproporre ciò che hanno vissuto in istituto, fare “casino” nel gruppo, avere un’enorme avidità nel cibo, un forte senso dell’ironia, avere una forte rabbia, dimostrata per esempio da una risata imbarazzata e infine, rifiutare la scuola. A livello relazionale sono bambini che talvolta hanno difficoltà a fidarsi dell’altro, quasi a doverne “comprare” l’affetto, difficoltà a creare relazioni e a relazionarsi in particolare con i pari, e per esempio (ma solo in un caso da me raccolto) un bambino ha scambiato il ruolo insegnante-mamma. Questa mancanza di fiducia nell’altro, difficoltà nel relazionarsi, poca fiducia nell’altro appaiono spesso presenti, e forse di riflesso vanno a ricollegare la mancanza del bambino di autostima. Anche su questo effettivamente hanno grande influenza le esperienze passate del bambino: aver avuto relazioni primarie che consentissero la costruzione di modelli operativi interni, attraverso l’interiorizzazione delle relazioni affettive, poteva permettere la capacità, con la crescita, di regolare i propri stati emotivi
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Intervista a Test. Guidi Intervista a Test. Dalla Negra
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e di avere una buona immagine di sé (Bowlby, 1980). Nel momento in cui questo non accade, è chiaro che autostima e fiducia in sé e negli altri possono essere molto basse.
4.1.4 Le famiglie Non è sufficiente mettere al mondo un bambino per essere genitori Dobbiamo smettere di pensare di avere un comportamento da genitori adottivi, siamo genitori e basta. Marisa Persiani
Il secondo soggetto protagonista dei racconti degli insegnanti è rappresentato chiaramente dalla famiglia. Mi sono state offerte riflessioni sia sulla famiglia adottiva sia su tutte le famiglie che oggi entrano nella scuola primaria. Un primo gruppo di considerazioni sulla famiglia adottiva può essere identificato con quella che a mio avviso è la premessa e la base per comprendere l’adozione (Guidi): la legittimazione genitoriale. Da questo, infatti, dipenderà la relazione che potrà instaurarsi con il bambino e dunque la capacità di accettare quel bambino, ragionamento che abbiamo già fatto approfonditamente nelle pagine precedenti. Molti insegnanti, infatti, mi hanno descritto genitori che ancora sembravano non in grado di autorizzarsi come genitori di quel bambino. Quindi, esempi di madri “ansiosissime”, che non legittimandosi rendevano più confusi e ansiosi i bambini stessi. Un secondo aspetto sulla famiglia adottiva riguarda sicuramente l’aspettativa dei genitori. poi c’è stato un momento difficile, perché comunque nel momento in cui noi abbiamo un po’ dichiarato qual era la situazione di difficoltà, chiaramente no, non è stato facile per la mamma e il papà capire e capire qual era la situazione del bambino a scuola, no. E qual era soprattutto il punto di vista di un’insegnante che deve avere da un lato avere un’attenzione specifica sul loro bambino, ma dall’altro deve avere la stessa attenzione per tutti gli altri bambini, no255.
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Intervista a Lella
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Aspettativa sia nei confronti del bambino, sia nei confronti della scuola stessa. Se partiamo dal presupposto, già indagato, che il procedimento di adozione è un percorso lungo, che può durare fino cinque anni, che la maggior parte dei genitori che lo intraprendono vi giungono in seguito a un’esperienza di sterilità, si può comprendere come sia necessaria un’approfondita elaborazione di questo lutto e del forte bisogno, e forse proprio di un’aspettativa affettiva, che questi genitori hanno dentro. Se questo non viene messo in atto dagli stessi, se non mettono in atto una profonda elaborazione del loro lutto e quindi del loro istinto di riproduzione annullato, la relazione sia con il bambino che con la scuola, che un giorno lo accoglierà, potrà essere complessa. Le aspettative nei confronti del bambino. Ogni famiglia possiede la propria definizione di che cosa deve essere un uomo o una donna, secondo i modelli di riferimento prodotti dalla sua storia. Cramer, 1996
Tenendo a mente le problematiche e le difficoltà che i bambini adottivi possono mostrare, è comprensibile che l’aspettativa dei genitori nei confronti del figlio, possa essere messa in discussione se non, nuovamente, sia stata messa in atto la famosa legittimazione genitoriale. I genitori adottivi risultano quindi sereni, equilibrati, tranquilli, nel momento in cui il bambino, quel bambino tanto desiderato e sognato, è ritrovato il più possibile nel bambino reale. Nel momento in cui, invece, si dovessero evidenziare problematiche nel bambino, la relazione genitoriale può complicarsi. Gli insegnanti sostengono che per i genitori adottivi sia davvero complesso accettare, ascoltare e comprendere le difficoltà di quel bambino. E allora, nei casi più estremi, Quando si arriva alla giustificazione di gene, per cui è il dna che parla, è figlio di un delinquente, è figlio di.. siamo proprio alla rottura, quasi al disconoscimento256.
A queste aspettative, sono chiaramente collegate le aspettative che i genitori hanno nei confronti della scuola. 256
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Effettivamente sappiamo quanto sia importante l’ingresso nella scuola primaria, sia per i bambini, che si trovano a dover (..) imparare una quantità enorme di cose257; sia per i genitori che, talvolta ansiosi per questo passaggio, riporranno nella scuola un vero e proprio campo per le loro capacità e quelle del bambino. (..) già nella scuola primaria, quando i bambini cominciano a imparare, ci sono i voti, i compiti che vengono assegnati a casa e a scuola, le scadenze da rispettare, ed ecco fare la comparsa gli spettri del fallimento e dell’insuccesso258.
I genitori adottivi, in particolare, vivono la scuola come un vero e proprio campo di verifica delle loro capacità genitoriali. Forse anche per la loro impossibilità di conoscere il passato del bambino, ecco che concentrano le loro forze e le loro capacità sul mondo scolastico, quindi su quello che nel qui e ora possono conoscere e intraprendere. E allora sembrano esserci genitori che si “impicciano” in compiti che non li spettano e pretendendo risultati da questi bambini, che purtroppo talvolta non sono in grado di dare, a volte anche per la sopravvivenza mentale che i piccoli hanno messo in atto. Quindi succede che c’è un grosso investimento da parte della famiglia adottiva nella scuola. Perché è quel pezzo di mondo che iniziano a gestire in modo autonomo. Investono nella scuola, nella cosa che loro hanno un controllo totale. (..) scelgono la scuola, cercano di capire qual è la collocazione migliore Cioè nell’apprendimento, per cui si attivano, si organizzano, con ripetizioni, supporti esterni, eccetera, per portare questi bambini a un livello di quasi paritarietà agli altri259.
Se poi, analizzando i dati, notiamo che (..) l'altissima prevalenza di coniugi con un titolo di studio di scuola media superiore corrisponde a quasi il 50% del totale (il 45,8% dei mariti e il 44,6% delle mogli); cui seguono (..) coniugi con titolo di studio universitario (il 36,9% dei mariti e il 44,1% delle mogli), e infine (..) genitori adottivi con titolo di studio di scuola media inferiore (il 16,9% dei mariti e il 10,7% delle mogli). Con solo lo 0,5% sia tra i mariti sia tra le mogli sprovvisti di un titolo di studio 257
Phillips A., I no che aiutano a crescere, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1999, p.96 Ivi, p.114 259 Intervista a Test. Patrizi 258
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o in possesso della sola licenza elementare.260. Allora, comprendiamo che l’aspettativa, e dunque la pretesa, che questi genitori hanno dal punto di vista scolastico nei confronti dei figli adottivi può essere alta, anche per questo motivo (..) se noi abbiamo dei genitori che minimo sono laureati e questa è una cosa che viene, che si affronta soprattutto a livello del, quando si analizza la disponibilità adottiva. Di fare i conti che forse il figlio adottivo non sarà un figlio che farà il liceo. per il tipo di cultura della gente che di solito fa l’adozione, che ha un buon livello culturale.. eh, è una grossa mortificazione accettare di avere un figlio che magari non andrà bene a scuola! Che non riuscirà a scuola. Clorinda Da Pian
Inoltre nel momento in cui l’aspettativa nei confronti della scuola viene in qualche modo “negata” dagli insegnanti, ecco che qualcosa si incrina. In effetti, in tutte le occasioni in cui le insegnanti hanno dovuto prendere provvedimenti per i comportamenti o per le difficoltà del bambino adottato, il rapporto con la famiglia adottiva è, almeno inizialmente, cambiato. La motivazione di questa reazione è stata letta, uniformemente da tutte, nel modo spiegato schiettamente da Flavia, insegnante di una scuola nella zona nord-est di Milano: (..) se poi ti capita un bambino problematico ed è biologicamente tuo, ti è capitato. Se ti capita un bambino problematico e te lo sei andato a cercare, magari ti viene da dire “Caspita”261.
E nel momento in cui si rompe qualcosa nel rapporto tra scuola e famiglia, ecco che il lavoro volto a quel bambino, il lavoro che li aveva accomunati fino quel momento assume una sfumatura molto più complessa e difficile, talvolta al punto che gli insegnanti “devono” consigliare alla famiglia di cambiare scuola.
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Presidenza del Consiglio dei Ministri Commissione per le adozioni internazionali, Dati e prospettive nelle adozioni internazionali. Rapporto sui fascicoli dal 1°gennaio al 31 dicembre 2013, in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti, in http://www.commissioneadozioni.it/media/143019/report_statistico_2013.pdf , p.12 261 Intervista a Flavia
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C’è stato poi un momento invece un pochino più difficile, nel senso che sembrava leggessimo cose, che leggessimo un bambino diverso262.
Da questo è comprensibile ed evidente quanto sia basilare una buona collaborazione tra scuola e famiglia, un cammino da fare insieme, rivolto al bene di quel bambino, con l’attenzione a lui e all’intera classe. La famiglia e la scuola devono essere alleate, possono avere momenti di stallo, momenti in cui (..) ci siamo, non allontanati, ma comunque guardati un momento. Lella
È chiaro quindi che l’attenzione e la pretesa che a scuola, in qualche modo, da parte del bambino vada “tutto bene”, sia rivolta anche agli insegnanti stessi. A maggior ragione con bambini adottati, è bene che ci sia un continuo aggiornamento nello sviluppo e nella condizione del bambino a scuola come a casa. Uno dei testimoni privilegiati mi ha suggerito una “strategia” che forse la scuola potrebbe provare e mettere in pratica per mantenere un continuo scambio con la famiglia: È chiaro che non deve uno stressarsi in modo reciproco, però se si trovano delle modalità, che ne so, una mail ogni quindici giorni, cioè anche modalità di questo tipo, in cui ci si tiene al corrente di ciò che succede da una parte e dall’altra263.
Effettivamente potrebbe essere un buon modo per avere un “appuntamento fisso” in cui condividere l’andamento del bambino, sempre con l’obiettivo del suo “star bene” a scuola. Insomma, come una vera e propria équipe. Mi chiedo allora, sarebbe questo possibile? Riuscirebbero gli insegnanti a mantenere questo impegno ogni mese?
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Intervista a Lella Intervista a Test. Botta
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4.1.5 La scuola primaria Gli allievi si differenziano per tipo di intelligenza, per modalità di apprendimento, per personalità, per temperamento, per aspettative in campo scolastico e più in generale in campo lavorativo, per comportamento sociale e per apprezzamento nei confronti della scuola e dell’insegnante; e l’insegnante si trova a dover gestire classi composte da individui unici, che certamente hanno molte affinità fra di loro ma anche molte dissomiglianze, di cui è bene tener conto. Kanizsa, 2007
Per concludere l’analisi delle interviste prenderò in considerazione il terzo protagonista dell’argomento della mia ricerca: la scuola. Vorrei mettere in evidenza la condizione della scuola, oggi, a partire come sempre da quelle che sono state le percezioni emerse dai miei intervistati, i seguenti punti: la scuola, le strategie messe in atto, le risorse e infine le difficoltà. Sento di avere avuto una gran fortuna a poter intervistare così tanti insegnanti, che hanno espresso a volte la loro piena soddisfazione del lavoro scolastico, a volte le loro frustrazioni, le loro difficoltà, i loro dubbi. Ho avuto insomma un riscontro empirico di quello che oggi si sente tanto dire sulla scuola, sugli insegnanti.
4.1.5.1 La scuola (..) i processi non avvengono tra soggetti isolati in un vuoto sociale, ma in un tessuto relazionale e interpersonale nei confini delle coordinate poste dal servizio264.
Nel momento in cui gli insegnanti si sono “lasciati andare” e hanno parlato dei loro pensieri riguardanti la scuola in quanto istituzione, sono emerse tre sfaccettature: le potenzialità che la scuola possiede, i rischi che la scuola corre, e infine uno sguardo al passato che.. sembra sempre migliore.
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Infantino A., Progettazione pedagogica e organizzazione del servizio, Guerini, Milano, 2002, p.128
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(..) questi sono contenitori meravigliosi per aprirsi e per poter dire cose che a casa non si possono dire. Lorella
La più positiva e marcata potenzialità che mi è stata offerta sulla scuola riguarda la possibilità di rappresentare un ambiente accogliente e sicuro per tutti i bambini che vi entrano. Un’insegnante ne parla proprio come (..) un ambiente sufficientemente buono, per dirla come dice Winnicott, e caldo265. Un luogo in cui i bambini, e gli insegnanti aggiungo io, possano stare bene. Certamente la scuola può avere anche influenza negativa sui bambini, accogliendoli nel modo non corretto per loro e quindi, comportando alti rischi. ci sono bambini che entrano assolutamente normali, poi, vengono presi male dalla maestra, magari anche con i genitori si instaura un rapporto sbagliato e diventano bambini problematici. Cioè noi abbiamo in mano un potere veramente molto grande, che non sempre usiamo bene. Flavia
A mio avviso, alla luce di queste parole e alla luce degli studi condotti sinora, questi iniziali ragionamenti svolti sulla scuola mostrano quanto sia importante e fondamentale la relazione da instaurare con il bambino. Questo sia per fare in modo che i bambini sentano di essere veramente accolti, sia per fare in modo che il permanere in quel luogo sia qualcosa di positivo per tutti. E credo che questo possa essere considerato il filo rosso che ha accompagnato e accompagnerà l’intera analisi. Infine, in alcune insegnanti sono emerse parole “nostalgiche” nei confronti di quella che era la scuola di un tempo, con insegnanti che erano davvero insegnanti, che credevano in ciò che facevano e si rimboccavano le maniche.
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Intervista a Gallia
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(..) era un fermento di idee, desiderio di innovare, verificare quello che andava bene e non andava bene, parlarsi tra maestri266.
4.1.5.2 Le strategie Nel momento in cui qualche insegnante ha orgogliosamente esposto un “successo” riscontrato con l’alunno adottivo, mi sono permessa di chiedere esempi e riflessioni a proposito. Le strategie iniziali mi sono state riportate in particolare con i bambini adottati, ma credo che sia quelle che quelle utilizzate in generale siano speculari. Abbiamo cercato di essere, come devo dire calde, cioè di farle capire che lei lì poteva stare bene (..). Cristina
Dunque, provare ad ascoltare quel bambino, di cos’ha bisogno ora, cosa sta esprimendo e cosa ci sta chiedendo, tenendo a mente che (..) ogni bimbo adottivo è adottivo a modo suo. E invece come sempre perché più rassicuranti, spesso si tende ad avere delle modalità un po’ univoche267.
Perciò trovare le modalità per relazionarsi a quel bambino, accorgersi dei segnali che sta inviando, sentire quando il bambino, iperattivo, non riesce più a controllarsi e a stare seduto, chiedere allo stesso di uscire per andare a prendere un materiale per la classe, o altro. Agevolare l’inserimento nella classe, in particolare se a metà anno, individuando le risorse di quel bambino e trovare il modo di metterle in mostra con gli altri bambini. O ancora, ripercorrere con il bambino adottato la strada fatto fino a quel momento (da un punto di vista scolastico) in modo da notare quanti progressi sono stati fatti. Non 266 267
Intervista a Flavia Intervista a Anna
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“rimproverarlo” perché non riesce a fare la sottrazione, perché sappiamo che a volte (..) non funzionare in alcune aree sono anche segnali significativi della storia 268 . Un esempio a mio avviso molto dolce mi è stato riportato da Gemma, insegnante ormai in pensione: io mi ricordo che lui non riusciva a fare la sottrazione. Era come se lui non poteva contare tornando indietro. Tornare indietro, la storia non poteva studiare storia, c’erano delle cose che per lui erano un tabù. (..) fortunatamente anche noi siamo stati supportati in quel momento e ci hanno, attribuivano questa difficoltà al fatto che lui non riusciva a ricostruire la sua storia, lui non poteva, c’era un problema. E comunque la tematica, operazione come la sottrazione richiedeva uno stesso processo mentale, tornare indietro. Allora io gliel’ho insegata sotto forma additiva: quanto manca a…269
Per quel che concerne invece “strategie” messe in atto con le classi, in generale, e quindi valide chiaramente anche nei confronti dei bambini adottati, ecco i punti emersi. Credo che l’accoglienza sia alla base di ogni relazione. Che siano adottivi o non adottivi. (..) Talvolta siamo talmente concentrati sul cognitivo, sul dover insegnare, che perdiamo di vista altre cose. (..) Cominciamo ad accogliere, vediamo cosa va bene per lui. Gemma
Appare, nuovamente fondamentale la relazione con il bambino: sembra essere necessaria l’accoglienza dello stesso, prima di concentrarsi su eventuali difficoltà o attriti. ognuno ha i suoi modi, il suo modo di relazionarsi agli altri, le sue esigenze di essere incoraggiato, fermato, contenuto, spinto, ognuno ha il suo aggettivo270.
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Intervista a Test. Patrizi Intervista a Gemma 270 Intervista a Flavia 269
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E quindi, pensare quel bambino, il singolo, ipotizzando magari percorsi individuali, ma comunque ascoltando quel bambino. Non dimenticare, inoltre, che apprendere non significa qualcosa inerente solo il cognitivo, ma tener conto anche delle emozioni che influenzano il medesimo processo. (..) particolarmente curata la modalità di relazione con i singoli e con la classe perché è il rapporto fra insegnante e alunno/i a determinare il successo o insuccesso del processo di insegnamento-apprendimento271. (..) lui è un bambino in gamba, un bambino con un sacco di belle cose per cui può essere amato per come è piuttosto che come decide di mettersi in evidenza o decide di mettersi in vista facendo dispetto, oppure.. insomma, il capriccio, o quello che capita in quel momento272.
Un’ennesima “strategia” sembra nuovamente individuabile nel lavoro di équipe. Una squadra che sia rivolta allo stesso obiettivo, con pensieri e intenzioni ben chiari, una squadra innanzitutto formata da insegnanti e genitori. A maggior ragione se adottivi, ma in realtà fondamentale per tutti i genitori, sembra basilare cercare collaborazione e comunicazione con la famiglia, sia prima dell’inizio della scuola primaria, che durante. Una collaborazione che quindi segua le medesime “modalità” e scopi da mettere in atto, che potrà certamente presentare momenti di stallo, ma che, se caratterizzata da fiducia reciproca potrà portare alla risoluzione e al superamento dei periodi di incomprensione. E allora, è interessante l’immagine del camminare insieme, uno a fianco all’altro, guardando tutti nella medesima direzione, e, come dice Lella, possono capitare momenti “ in cui ci siamo, non allontanati, ma comunque guardati un momento. Però devo dire con la stima che avevamo gli uni per gli altri e la sicurezza, ecco, perché questa non è mai mancata, di essere tutti comunque centrati sul bambino, tutti volevamo arrivare lì e tutti volevamo bene a quel bambino lì. Ecco questa cosa poi ci ha fatto superare quel momento difficile e ecco adesso direi che è tutto sereno, tranquillo273.” 271
Kanizsa S., Il lavoro educativo. L’importanza della relazione nel processo di insegnamentoapprendimento., Pearson Paravia Bruno Mondadori, Milano, 2007, p.IX 272 Intervista a Lella 273 Intervista a Lella
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Per quel che concerne invece strategie “pratiche” degli insegnanti per far fronte a momenti di difficoltà o a bambini in difficoltà, ho trovato interessanti le parole di Gemma, (..) per me la narrazione è stato un ottimo mediatore in queste cose, ma anche negli apprendimenti. Bambini un pochino fragili, immaturi dal punto di vista cognitivo, nel momento in cui gli raccontavo la storiellina che so, per la regola di matematica.. gli davo un’immagine mentale, aiutavo a capire274.
4.1.5.3 Le difficoltà (..) i problemi esistono (..) perché, ancor prima, esistono, cioè hanno valore e sono in uso, sistemi teorici, modelli interpretativi, forme di pensiero che li possono «vedere» e che, conseguentemente, li rendono tali. I problemi non sono entità astratte ma esiti provvisori delle costruzioni e delle attribuzioni di significato assegnate loro dal soggetto o dai soggetti e, per riprendere il pensiero di Dewey, esistono grazie all’originalità degli atti del pensiero, processo creativo, inventivo (…). Infantino A., 2002
Le interviste, come accennavo, sono state anche occasione per le insegnanti per dar voce ad alcune delle difficoltà che riscontrano quotidianamente od occasionalmente nel loro lavoro. Anche in questo caso l’attenzione è stata posta su tre focus: le difficoltà con i bambini adottati, le difficoltà con la famiglia adottiva e infine difficoltà con alcune risorse offerte dalla scuola stessa, in particolare rivolte ai bambini adottati. Le difficoltà con i bambini adottati sono molto “pratiche”. Per esempio, nel momento in cui il bambino, coinvolto dal discorso in aula o ispirato da altro, comincia a raccontare episodi che riguardano il suo passato, ebbene, gli insegnanti si trovano sprovvisti di competenze, forse psicologiche, e della capacità di avere uno sguardo strabico (Cristina), rivolto sia a lui, che forse in quel momento vuole essere ascoltato e ne ha bisogno, sia agli altri, che senza dubbio non rimangono “estranei” a quelle parole, talvolta così forti. Quest’apertura del bambino adottato può avvenire sia verbalmente, che fisicamente, andando addirittura a mimare ciò che vedeva o subiva in istituto. 274
Intervista a Gemma
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Nel caso in cui si tratti di un bambino seguito per esempio da psicologo o psichiatra, ecco che le insegnanti ascoltano e “assorbono” avidamente le parole e i dettami donati dall’esperto. Un’ulteriore esempio di difficoltà riguarda l’ignorare la vera età del bambino, o per lo meno quella corrispondente al nostro sistema scolastico. In tal modo si può presentare il rischio d’inserimento in una classe che “pretende” troppo o che risulta troppo “semplice” per il bambino. Infine, l’ultima difficoltà emersa dalle parole delle insegnanti riguarda la capacità di distinguere, per comprendere il comportamento del bambino, tra il suo carattere e quello che la storia o le storie precedenti hanno lasciato. nel caso del mio bambino c’è una componente sul suo comportamento legata alla sua storia precedente e c’è secondo me un altro aspetto legato al suo carattere e comunque a com’è lui, che è indipendente dalla storia pregressa. Quello che poi non sempre è possibile scindere sono queste due cose275.
Le difficoltà con la famiglia adottiva riprendono discorsi già ripetuti in precedenza. In particolare, è possibile che s’incrini nel momento in cui emergono problemi. Sappiamo che le aspettative nei confronti di quel bambino sono molto alte, l’incapacità di accettare che quel figlio, arrivato dopo così tanto tempo, dopo tante fatiche e percorsi, presenti qualche “deficit” o “disturbo” è davvero difficile da accettare da parte della famiglia. Infine, per concludere l’analisi sulle difficoltà, c’è da rivolgere un breve sguardo a ciò che la scuola può offrire come supporto, in particolare per i bambini adottati, ma rivelandosi solamente un ennesimo scoglio. Parliamo quindi per esempio dei sostegni che vengono dati, nel momento in cui il bambino ne abbia riconosciuto il bisogno. Non sempre questi sostegni sembra siano “all’altezza”, sembra non abbiano le competenze per gestire i bambini. E allora, con la fortuna che ho avuto, posso qui dare la parola proprio a un’educatrice che affianca un bambino adottato. Non sempre il loro lavoro è facile e agevolato, Valentina, mi ha infatti riferito che
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Intervista a Lella
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io con l’educatore che mi ha preceduto, purtroppo non ho avuto scambi, perchè.. io ho chiesto più volte di incontrarlo per avere un passaggio, ma…276
o ancora Io in tutto l’anno scorso non ho mai visto i genitori. Avevo avuto sempre.. se non tre o quattro volte quando portavo lui fuori al momento dell’uscita, ma non avevo mai avuto né un contatto né una chiacchiera277.
Un’altra difficoltà sulle “risorse” della scuola riguarda il modo di affrontare la storia personale. Penso che sia più utile parlarne nell’ultimo paragrafo, momento in cui tratterò la questione: parlare di adozione in classe, sì o no?
4.1.5.4 Le risorse Chiaramente, e direi anche fortunatamente, la scuola italiana può godere di alcune risorse e provvedimenti in particolare nei casi “difficili”. Si tratta dei famosi sostegni e agevolazioni per bambini che mostrino difficoltà o ritardi, e vengano diagnosticati come “problematici”. Questi sostegni sono ritenuti molto preziosi, se non fondamentali talvolta per riuscire a gestire l’intera classe: dal facilitatore linguistico all’educatore. Oltre a queste figure la scuola comunque mantiene, se presente e necessario, un continuo e costante contatto con esperti esterni o interni, quali psicologici, psichiatri, psicomotricisti che stiano seguendo il bambino. Ritorna quindi nuovamente l’aspetto fondamentale di un lavoro di squadra che permetta innanzitutto di avere sguardi differenti e prospettive e angolazioni diverse sul medesimo bambino. lavorare insieme, non per vedere chi è il più bravo, il paziente è mio oppure non è di nessuno. Cioè ma è quello anche di, sulle diverse persone vengono proiettate cose diverse ed è anche importante poterle mettere insieme..
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Intervista a Valentina Intervista a Valentina 278 Intervista a Test. Da Pian 277
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E inoltre esperti come i suddetti possono mostrarsi un’enorme risorsa nel caso in cui i bambini siano davvero “problematici” e di conseguenza gli insegnanti non abbiano le competenze o semplicemente le conoscenze per dare risposte il meno negative possibili. D’altro canto, solo un’insegnante mi ha espresso il suo parere “contrario” al ricorrere sempre e comunque a esperti a esterni alla scuola. Agli insegnanti di sostegno, agli esperti.. gli educatori.. ma, santo cielo siamo qui a fare che cosa?! A insegnare a quelli con gli occhi azzurri e quoziente.. o siamo qui a trovare le strade, a inventarcele se non ci sono per ogni bambino?279
4.1.5.5 Parlare di adozione in classe? Non è vero che si insegnano solo matematica o latino, perché, mentre si insegna una materia, contemporaneamente si trasmette una serie di regole e vincoli (..) normalmente dato per scontato, considerato normale, senza prendere coscienza del fatto che, giuste o sbagliate che siano queste regole, (..) esse sono comunque di natura socio-culturale e non valori assoluti280.
Come ultimo punto da far emergere per concludere l’analisi di questo copioso materiale da me in possesso, ho scelto la questione: parlare o non parlare in classe di adozione? È stata una delle domande poste agli insegnanti, ma anche ai testimoni privilegiati. Anche io, al principio del presente lavoro, me la sono posta; avevo una mia idea, vaga, ma l’avevo. Ora, a essere sincera, sono più confusa e perplessa sulla risposta. Vediamo comunque di esplicitare al meglio le percezioni degli insegnanti sul quesito. Sono individuabili diverse “scuole di pensiero” a proposito. •
Parlare assolutamente di adozione
•
Mai parlare di adozione
•
Parlare di adozione solo nel momento in cui il bambino faccia emergere la tematica 279
Intervista a Flavia Riva M.G., Il lavoro pedagogico come ricerca dei significati e ascolto delle emozioni, Edizioni Angelo Guerini, Milano, 2004
280
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Credo che nella realtà, nella pratica quotidiana sia poi difficile “applicare” questi pensieri in modo rigoroso e immediato. Bisognerà certamente conoscere i genitori, conoscere la loro storia e la storia del bambino, comprendere e accettare la decisione dei genitori di far riemergere “continuamente” l’adozione o meno, capire se e come sia stato spiegato al bambino. Per questo, non voglio che ciò che andrò a esplicitare sia preso come qualcosa “da fare”, ma sia semplicemente spunto di riflessione su ciò che è stato fatto e sperimentato dagli insegnanti intervistati, con quei bambini. Alla mia domanda: Pensa che il tema dell’adozione vada affrontato in classe? ho appunto ricevuto idee davvero discordanti; alcune ricerche mostrano che (..) il tema dell’adozione sia stato trattato solamente da quelle insegnanti che avevano classi in cui si è presentata la situazione specifica di un bambino adottato, situazioni che necessitavano un attenzione tale da rendere partecipe tutta la classe. (..) il dr. Chistolini, ha più volte ribadito che non esiste un momento giusto per introdurre l’argomento adozione (sia a scuola sia in famiglia), perché si rischia che il momento giusto non giunga mai e si prolunghi all’infinito, ma bisogna parlarne sempre fino a quando il bambino sarà in grado di comprendere il vero significato281. C’è appunto chi ha “dovuto” parlare dell’adozione prima di inserire, a metà anno scolastico, un bambino adottato, proveniente da un’altra scuola e descritto come un “killer”. Perciò, forse per salvaguardare la classe, per far comprendere ai compagni che sarebbe arrivato un bambino con una storia sofferente alle spalle, cercando forse di rendere più “accettabili” i suoi “terribili” comportamenti. Alcuni insegnanti sono assolutamente d’accordo sull’affrontare il tema, deve essere affrontato, ma come un fatto come una possibilità, perché “io non credo che occorra fare una lezione a sé stante sul tema. Ma nel momento in cui arriva un bambino adottato vuol dire che entra quell’esperienza di vita lì. Così come racconti di un fratello, racconti di un familiare che non sta bene… racconti del fatto che sei adottato282”. C’è chi sostiene non vada MAI affrontato come tema, ma che nel momento in cui si affronta la storia personale, possa emergere l’adozione come una delle caratteristiche di quel bambino, dunque si calibrerà il modo di affrontare e spiegare la 281
Dondè D., Santi M., L’accoglienza nella scuola dei bambini in adozione e lo sviluppo di nuove prassi, da www.incrocicomuni.it 282 Intervista a Lella
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propria storia, senza chiaramente (ma non sempre lo è) richiedere oggetti del bambino quando era piccolo o peggio descrivere com’era bello stare nella pancia della mamma. Un’ultima prospettiva sul quesito posto è data da coloro che sì, ne parlano, ma solo nel momento in cui è il bambino stesso a farlo emergere. E anche qua, come sempre, bisogna conoscere qual è il modo di affrontare il tema a casa: possono esserci genitori che non ne vogliono più parlare, e allora si dovrà rispettare questa scelta per non mettere a disagio il bambino, o genitori che addirittura si offrono per affrontare il tema in classe. Qualsiasi sia la scelta fatta, qualsiasi sia il modo per affrontare, che sia il tema dell’adozione, o il tema della morte, o il tema dei genitori separati, trovo molto sagge e preziose le parole che Antonella Patrizi mi ha donato: Il problema è che poi devi essere in grado di gestire tutto quello che arriva. (..) un conto è se lo tratto come un argomento, allora se lo tratto come un argomento (..) forse se un insegnante, accompagnato, con un esperto vicino.. che la aiuti, su questa cosa qua a vedere alcune cose.. perché poi tu butti, lanci (..) uno stimolo importante, no, poi dopo magari la reazione non ti viene subito, ti viene nel tempo, no, quindi, sei tu capace di riconoscerlo nel tempo? Perché voglio dire è anche una cosa interessante, perché se ad esempio parliamo delle adozioni internazionali, è chiaro che se un bambino, cioè voglio dire, ha un colore di pelle diverso da quello dei suoi genitori, voglio dire, i bambini se ne accorgono. Il problema è poi dopo come tu le gestisci perché magari il bambino al momento regge, perché lo fanno tutti, allora tutti hanno il loro quadernino, ognuno ci mette le sue cose.. allora.. poi magari questa cosa qui il bambino la macina..283
Di conseguenza, è interessante che nell’incontro che ho avuto con le differenti insegnanti, siano emerse modalità differenti di spiegare la storia, momento in cui sembra si fondamentale parlare della propria storia. Ma è davvero cruciale? Tutti noi pensiamo alla nostra storia pensando appunto alle radici (..) se noi abbiamo delle buone radici, un buon tronco, poi dopo la nostra storia è anche più favorevole;
283
Intervista a Test. Patrizi
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in realtà però ci sono delle storie che non partono dalle radici (..) e allora, partire dai rami, cioè dalle cose che ha incontrato, dalle persone, (..) partendo non dal tronco ma dai rami284.
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Intervista a Test. Patrizi
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Conclusioni Alla luce del copioso materiale che ho potuto raccogliere grazie alle interviste da me condotte a esperti di adozione e a insegnanti della scuola primaria, non posso e non voglio concludere con una regola universale su come affrontare l’adozione, o meglio, i bambini adottati, in classe. Non era mio scopo trovare o escogitare un modo “perfetto” per l’inserimento dei bambini adottati nella scuola primaria e la loro permanenza scolastica; non sarebbe stato neppure in sintonia con una laurea in Scienze Pedagogiche. Effettivamente le interviste stesse mi hanno confermato “l’inesistenza” di un’unica modalità per l’inserimento dei bambini adottati in classe o di un’unica modalità di affrontare il tema adozione. Ogni insegnante che ho incontrato ha avuto la propria strategia, il proprio modo e le proprie parole per farlo. I due elementi costanti e che risultano fondamentali perché possa avvenire un buon inserimento e possa verificarsi un buon percorso scolastico per i bambini adottati (e non) e i loro genitori sono la collaborazione con la famiglia e l’accoglienza del bambino. Una collaborazione con la famiglia, che deve avvenire sia prima dell’inserimento che soprattutto durante, attraverso un confronto il più possibile continuo e quotidiano; risulta molto importante per esempio nel momento in cui in classe si debbano affrontare determinate tematiche che potrebbero essere delicate per un bambino adottato. Per quel che concerne l’accoglienza, significa riuscire a farlo sentire accolto per la persona che è, per le sue caratteristiche e per la sua storia, in un ambiente sufficientemente buono. Infine, mi auguro che grazie alla presente ricerca si sia fatta strada un po’ di consapevolezza, un po’ di cognizione in più, su quel che concerne questo bellissimo mondo. E con mondo non intendo dire che i bambini adottati e le loro famiglie vadano considerati a parte, distanti da un ipotetico “noi”. Intendo dire che, con gli studi approfonditi e con le parole dei miei intervistati, ho compreso maggiormente che le dinamiche che scattano e scaturiscono durante un’adozione, nel rapporto tra figli e genitori, tra scuola e famiglia, tra scuola e bambini, ebbene sono specifiche e vanno, a mio avviso, conosciute e comprese proprio per riuscire ad accoglierle. Forse essere a conoscenza di ciò che ruota intorno alla parola adozione, quindi tempistiche, sofferenza, attesa, aspettative, speranza, bassa fiducia, potrebbe permettere di non correre il rischio
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di valutare e giudicare negativamente o con pregiudizio qualsiasi tipo di comportamento che si discosti dalla “norma”. Perché forse, si tende ancora molto a valutare come giusto o sbagliato, come normale o anormale, ciò che si allontana dalla nostra idea di bambino, o di famiglia, o di scuola; giudicando e leggendo qualsiasi situazione, qualsiasi bambino, qualsiasi mamma o qualsiasi papà seguendo quelli che sono i nostri canoni, le nostre idee di servizio, di famiglia, di buon padre e di buona madre. E allora, se quello che spero di aver fatto finora è stato cercare di conoscere questo mondo, di dare voce a chi forse non riesce a farsi sentire, mi permetto di dire che un riscontro, un feedback positivo al mio lavoro, l’ho avuto nel dicembre 2014, quando finalmente il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato le “Linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio nei bambini adottati.” Penso possano essere considerate una conferma della rilevanza della tematica dell’adozione: un modo per far conoscere e conoscere insieme, scuola e famiglia, ciò che ruota intorno a questo mondo. Inoltre, se il Ministero ha deciso di pubblicare proprio ora delle linee guida riguardanti l’adozione significa, forse, che l’urgenza c’è e la necessità di essere a conoscenza di quello che la concerne è forte. Infine, mi auguro che tutto quello che ho raccolto sinora possa essere solo l’inizio di quello che spero, un giorno, possa realizzarsi davvero a scuola, con la famiglia e con i bambini: un lavoro di squadra, un lavoro in cui le diversità e le prospettive contrastanti siano considerate qualcosa di prezioso, da ascoltare e da accogliere.
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Ringraziamenti Desidero innanzitutto ringraziare Lucina Bergamaschi, Clorinda da Pian, Paola Dalla Negra, Donatella Guidi, Katia Provantini, Livia Botta e Antonella Patrizi. Mi hanno donato parte del loro tempo prezioso per creare una buona parte di questo lavoro, attraverso le loro parole, le loro riflessioni e le loro emozioni. Grazie a Gemma, a Flavia, a Loredana, a Rosita, a Anna, a Lella, a Cristina, a Valentina, a Antonella, a Lorella, a Elisabetta. Si sono rese disponibili per la mia ricerca, mi hanno fatto “entrare” nelle loro scuole, nelle difficoltà, nelle soddisfazioni del loro lavoro, attraverso racconti, esempio, ricordi, lacrime e sorrisi. Senza di loro questo lavoro non avrebbe senso. Grazie alla professoressa Elisabetta Nigris, che mi ha sostenuta, ascoltata, tranquillizzata, spronata ogni volta di più. Grazie per la fiducia che mi ha dato. Grazie a tutti i professori incontrati, che in ogni occasione mi hanno regalato qualcosa, mi hanno fatto crescere, riflettere, piangere, ridere, pensare. Grazie a questo corso di laurea, che auguro a chiunque di poter fare, perché mi ha aperto un mondo, mi ha permesso di fare quel famoso salto di livello, almeno spero, che mi ha permesso di non dare nulla per scontato, di chiedermi sempre perché, di riflettere su me stessa e su tutto ciò che sono diventata.
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Allegati Testimoni privilegiati intervistati Lucina Bergamaschi Psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e dell’International Psychoanalytical Association (IPA). Socio fondatore di ApSa, di cui è stata tesoriere fino al 2009. E’ docente di Psicopatologia dell’adolescenza presso Area G, Scuola di Psicoterapia ad orientamento psicoanalitico per adolescenti e adulti, svolge attività clinica e formativa sia nel privato sia nell’istituzione pubblica. Si è occupata a lungo del processo di valutazione del disagio in adolescenza, in particolare del disagio scolastico, approfondendo l’utilizzo dei test proiettivi nella Psicoterapia Breve di Individuazione dell’adolescente secondo il modello di Tommaso Senise. Il suo interesse terapeutico e di ricerca è attualmente rivolto all’area dei disturbi del comportamento e delle patologie gravi riconducibili alla deprivazione e al maltrattamento. Clorinda Da Pian Psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica. Si occupa di consultazioni, psicodiagnosi, psicoterapie individuali con bambini, adolescenti e adulti e di progetti di trattamento psicoterapeutico per madri adolescenti con i loro bambini. Effettua interventi psicofarmacologici per adolescenti e adulti. Ha una lunga esperienza di psicoterapie con bambini affetti da patologie gravi (autismo, psicosi). Ha lavorato per il Comune di Milano (1979 – 1989) come psicoterapeuta infantile e al Coordinamento Tecnico Centrale Affidi (1984 – 1991). Presso l’ASL città di Milano si è occupata di attività di indagine per il Tribunale per i Minori sulla disponibilità adottiva delle coppie che fanno richiesta di adozione nazionale e internazionale, accompagnamento nell’affido preadottivo, conduzione di gruppi di genitori adottivi nel post-adozione. Dal 1995 lavora presso il Progetto A di San Donato Milanese come consulente psicoterapeuta di adolescenti. Attualmente conduce gruppi di formazione per il sostegno alle coppie adottive, presso una associazione di genitori adottivi. Si occupa inoltre del lavoro terapeutico e di ricerca sui temi della maternità in adolescenza e di sostegno alla genitorialità nelle fasi precoci della relazione genitore bambino. Paola Dalla Negra Assistente sociale, responsabile del Coordinamento dei servizi per il diritto di visita e di relazio ne della Provincia di Milano. Donatella Guidi psicologa, psicoterapeuta, esperta nei percorsi adottivi. Katia Provantini Psicologa, esperta in problematiche evolutive con particolare riferimento alle difficoltà scolastiche e dell’apprendimento. Svolge attività di consultazione con adolescenti, genitori e
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coppie in crisi e attività di formazione e supervisione a docenti e psicologi. Attualmente presidente della Cooperativa Minotauro; coordina progetti di rete per l’orientamento, la prevenzione del disagio e della dispersione scolastica in collaborazione con Comuni ed Enti Locali. Livia Botta Laureata in Filosofia presso l'Universita' di Genova e in Psicologia presso l'Universita' di Torino, specializzata in Psicoterapia gruppoanalitica presso l'IGAM (Istituto di formazione della Societa' GruppoAnalitica Italiana, sede di Milano). Iscritta all'Ordine degli Psicologi della Liguria e autorizzata all'esercizio dell'attivita' psicoterapeutica, svolge attivita' clinica privata con adulti e adolescenti nel suo studio di Genova. Si occupa inoltre di consulenze alle scuole, formazione e supervisione presso istituzioni socioeducative, ricerca nell'ambito delle problematiche evolutive, educative, dell'apprendimento e dell'adozione. Antonella Patrizi psicologa, psicoterapeuta sistemico-relazionale e terapeuta infantile EMDR, collabora con il CAM dal 1992. Si è occupata di valutazione di famiglie aspiranti all’affido ed è conduttrice di gruppi per famiglie affidatarie. E’ docente di corsi di formazione per operatori psicosociali, insegnanti ed educatori. Ha seguito numerosi progetti di formazione nelle scuole primarie e nei servizi alla prima infanzia, approfondendo la relazione educativa con i minori che provengono da contesti familiari multiproblematici. E’ psicoterapeuta presso la Fondazione “Fare famiglia Onlus”, a Binasco, dove si occupa di terapia familiare e di minori con disturbi traumatici. Collabora con il Corso di Laurea di Scienze della formazione primaria e di Scienze dell’Educazione, dell’Università di Milano Bicocca, è docente a contratto a supporto alla Cattedra di Pedagogia Generale e tutor di tirocinio. Ha contribuito alla diffusione della cultura dell’affido attraverso alcune pubblicazioni curate dal CAM.
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