Tra mito e storia
Gli ebrei dell’Africa nera di Daniela Manini
I pregiudizi sul colore e la razza sono, nonostante tutto, duri a morire anche fra coloro che per millenni hanno sofferto discriminazioni razziali. Così le comunità ebraiche reagiscono con perplessità, diffidenza e ancora un certo stupore alla presenza di ebrei neri, come testimoniano numerose esperienze, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Il fatto è che gli ebrei (per evidenti motivi storici) vengono abitualmente identificati, nelle società europea e americana, come ‘bianchi’, e tali si percepiscono. Gli ebrei neri sono costretti a uno sforzo costante per sgombrare il campo dall’idea che ‘ebreo’ e ‘bianco’ siano sinonimi. Di queste difficoltà parla diffusamente Katya Gibel, una studiosa americana, nel numero 44 (2008) di Pardès, periodico diretto da Shmuel Trigano, dal titolo “Juifs et Noirs, du mythe à la réalité”. Katya, figlia di una ebrea austriaca e di un caraibico, è infatti spesso chiamata da interlocutori incuriositi a rendere ragione del magen David che porta al collo, o della sua conoscenza della lingua ebraica, quasi che la pelle scura facesse a priori escludere la sua appartenenza al giudaismo. Eppure il fenomeno degli ebrei neri si è fatto significativo nel Novecento allorché, oltre agli etiopi Falashà, sono emerse varie tribù giudaizzanti fra i neri dell’Africa centrale. Questa emersione ha radici complesse che affondano nel mito, ma che sono state ampiamente rinforzate dalla storia. Mentre la Bibbia non fa mai menzione di differenze di pelle tra i discendenti di Noè, è in epoca post-biblica che il temine Cush viene a designare l’Africa nera, suggerendo così una discendenza dei suoi abitanti da Cush, figlio di Cam. Cam, secondo la narrazione di Genesi 9, 18-25, è il figlio di Noè che scopre la nudità del padre ubriaco, e viene per questo maledetto. Il Talmud Babilonese afferma che l’intera discendenza di Cam è degenerata in quanto portatrice della maledizione, e condannata perciò a essere nera. I neri vengono quindi riconosciuti come marchiati da attributi fisici e morali di segno negativo. Una simile teoria non poteva che rinforzarsi nel tempo, in quanto forniva in primo luogo una giustificazione ai musulmani e ai cristiani che praticavano il mercato degli schiavi e, in secondo luogo, offriva una patente di legittimità alle conquiste coloniali degli europei. Il vero sfondo mitico su cui si basa la pretesa ebraicità di popolazioni sub-sahariane è costituito dalla leggenda delle dieci tribù perdute: alla caduta del regno di Israele, gruppi di ebrei in fuga
avrebbero raggiunto il Nilo, risalendone il corso fino alle sorgenti e penetrando così nel cuore dell’Africa, mentre altri sarebbero giunti sulle coste africane attraverso la penisola arabica e la traversata del tratto di mare che le separa.
Fantasiosi racconti di viaggio divenuti popolari
nell’Europa medievale, come quello di Benjamin da Tudela, vissuto nel XII secolo, sembrarono confermare una tale credenza: vi si parla di incontri con figli di Cush dalla pelle nera, che conoscono la legge di Mosè e i profeti. Nell’Ottocento gli esploratori del continente africano e i missionari che presto li seguirono ravvisarono in talune pratiche religiose delle popolazioni autoctone alcune similitudini con i riti ebraici (circoncisione, feste legate al calendario lunare, sacrifici di animali) che, applicando le categorie del già noto, considerarono tout court come espressioni di diretta derivazione ebraica. In assenza di altre teorie esplicative dei caratteri fisici e culturali delle popolazioni centro-africane, nacquero così ipotesi ‘storiche’ che facevano discendere alcune tribù indigene dagli ebrei, attribuendo tutti gli aspetti positivi della loro cultura alla origine ‘caucasica’. Quanto al colore della pelle, si proponeva l’ipotesi di un progressivo scurimento indotto da fattori climatici (una sorta di teoria degli ‘abbronzati’ ante litteram). Presso gli europei il mito ha dunque contribuito largamente all’invenzione di un passato biologico e culturale di numerose popolazioni dell’Africa nera. Fino alla metà del XX secolo è stato elemento essenziale del discorso coloniale e ha caratterizzato l’incontro tra colonizzatori e nativi. Per contro, e quasi paradossalmente, la diffusione del cristianesimo a opera di missionari cattolici e protestanti, ha costituito il catalizzatore per il processo di auto-identificazione ebraica da parte di taluni gruppi tribali, che hanno appreso il racconto biblico e la storia del popolo ebraico dalle labbra di sacerdoti e pastori. Scrive Edith Bruder nel citato numero della rivista Pardès: “Portando l’Antico Testamento e identificando con i lontani ebrei le popolazioni che incontravano, i missionari procurarono agli africani la chiave d’accesso a una nuova storia delle origini. Le interpretazioni della Bibbia fornirono la sostanza delle numerose innovazioni che condussero all’evoluzione del mondo religioso africano. Rielaborando temi mitici più antichi, gli africani si appropriarono del materiale simbolico fornito dalle missioni cristiane del XIX secolo, incorporandovi naturalmente il mito delle dieci tribù. La colonizzazione incise attivando strutture mentali profonde in seno a queste società: da una parte la nostalgia delle origini, dall’altra la pregnanza del mito camitico, che introduceva il concetto di ‘bianco dalla pelle nera’”. Tra le popolazioni che affermano la loro appartenenza all’ebraismo troviamo i Lemba nell’Africa meridionale. Si tratta di una popolazione la cui religione ha marcate affinità con quella ebraica: credono in un Dio unico e non praticano culti animistici, non mangiano maiale né pesce
senza scaglie, rispettano il riposo del sabato, concludono con “amen” le loro preghiere. La loro tradizione orale li vuole partiti dalla Giudea 2500 anni fa, per stanziarsi nello Yemen, spostarsi poi da qui nello Zimbabwe, disperdendosi successivamente verso sud. Tudor Parfitt, che li ha studiati negli anni Ottanta, ha anche svolto indagini sul DNA che ha rivelato delle affinità con quello degli ebrei yemeniti . Un’origine ebraica rivendicano anche gli Ibo nigeriani, la cui tradizione orale vuole che gli antenati siano scesi nell’Africa sub-sahariana lungo le rotte commerciali. In Ghana una cinquantina di famiglie Sefwi ha fondato The House of Israel, ponendosi al seguito di un predicatore locale che afferma di avere avuto una visione secondo cui la tribù praticava ritualità ebraiche prima dell’arrivo dei missionari cristiani: si rispettava il riposo del sabato, non si mangiava maiale, i maschi erano circoncisi e le donne osservavano l’isolamento mestruale. In Mali si è costituita nel 1993 un’associazione composta da un migliaio di membri che ha preso il nome di Zahor di Timbuctù. Si tratta di musulmani che si dichiarano discendenti degli ebrei di Touat, regione oggi algerina ai limiti del Sahara. Secondo narrazioni storiche del XVI secolo, la comunità ebraica che viveva in quei territori fu sterminata dai musulmani, ma alcuni riuscirono a fuggire nella regione del Niger. Una seconda ondata di persecuzioni li raggiunse anche qui, dove furono costretti a convertirsi all’Islam. Non esistono testimonianze scritte di questa comunità ebraica di Touat, ma studi recenti hanno reso plausibile la presenza ebraica nell’area dove si svolgeva il commercio trans-sahariano, fra cui anche quello dell’oro che proveniva dall’Africa occidentale. Gli ebrei erano dediti all’oreficeria, attività vietata agli islamici. C’è da chiedersi come mai certe ascendenze e certe affermazioni di ebraicità vengano alla luce soltanto oggi.
Questi africani che spesso conservano patronimici arabizzati di cui si intuisce
chiaramente l’origine, come Al Jahudi o Al Kuhin, che contano nel loro lessico parole ebraiche, avevano per secoli creduto ─ nel loro vivere isolati ─ di essere gli ultimi discendenti sopravvissuti di quella antica popolazione. Avevano addirittura perso, in secoli di islamizzazione, la consapevolezza di un qualche legame con l’ebraismo, se non di tipo puramente nominale. Si proclamano, infatti, “musulmani ebrei”. Grande contributo all’emersione di questi gruppi è venuto, negli ultimi decenni del Novecento, dalla vicenda dei Falashà. Il nome è un appellativo (che significa qualcosa come “emigrati”) dato dagli etiopi a questa popolazione, rimasta sempre consapevolmente ebraica, che usa invece per sé l’appellativo (in amarico) di Beta Israel. Nel XVI secolo il Gran Rabbino del Cairo proclamò che gli ebrei di Cush (che in questo caso rappresentava specificamente l’Etiopia) sono senza dubbio discendenti della tribù di Dan. È su questa base di giurisprudenza rabbinica che nel 1973 i Beta Israel sono stati riconosciuti come ebrei dal Rabbinato di Israele.
Per lungo tempo i Falashà combatterono per mantenere la loro indipendenza dal regno etiope, finché nel XVII secolo subirono una definitiva sconfitta che li costrinse a integrarsi, con la conseguenza della perdita di una propria lingua (l’agaw) e l’adozione generalizzata dell’amarico. Anche la Bibbia era conosciuta solo in lingua etiope, nella traduzione dal testo dei ‘Settanta’. I contatti
dei Falashà con il giudaismo rabbinico, che fino ad allora non conoscevano,
avvengono solo all’inizio del Novecento, grazie all’opera di un ebreo ortodosso, Jacques Faitlovitch (1881-1955), che si fa carico di aggiornarli sui cambiamenti intercorsi nell’ebraismo dall’epoca della Torah e li spinge a studiare l’ebraico. L’opera di questo missionario ─ che ha determinato una ridefinizione identitaria di un gruppo di africani neri che potevano essere considerati ebrei pur praticando una forma marginale di giudaismo e ignorando la tradizione rabbinica ─ ha in qualche modo aperto all’idea di una conciliabilità tra africanità ed ebraicità, introducendo il concetto di “ebreo nero”. Le successive vicende, che dagli anni Settanta dello scorso secolo hanno visto i Falashà perseguitati, profughi al confine sudanese e salvati con un ponte aereo che li ha portati in Erez Israel, ha grandemente scosso gli animi, in Israele e fuori, e ha fortemente sollecitato l’immaginario dei neri africani. Essi hanno visto, nelle immagini di questo esodo moderno dalle connotazioni bibliche, la conferma dell’esistenza di una mitica comunità ebraica africana, dalle origini misteriose, che finalmente ritrova la ‘terra promessa’. È stata una spinta decisiva al processo di giudaizzazione
di alcuni gruppi che già si sentivano, per ragioni diverse, vicini o attratti
dall’ebraismo. E, al tempo stesso, tra i Falashà le sofferenze e le atrocità subite sotto il fuoco incrociato di truppe etiopi governative e anti-governative, la fuga, le miserevoli condizioni nei campi di rifugiati, hanno significativamente rinforzato e intensificato il sentimento di appartenenza alla diaspora ebraica, e la percezione di una comunità di destino con gli altri ebrei che avevano vissuto in Europa. Sul piano esistenziale, infatti, molto accomuna l’esperienza degli ebrei e quella dei neri, come vittime di una violenza storica esercitata da chi a lungo ha voluto rifiutare di riconoscere la loro autonoma identità e la loro piena umanità. È proprio questo aspetto che ha determinato l’avvicinamento all’ebraismo di un’altra popolazione centro-africana, quella dei Tutsi (o Watutsi, o Batutsi), fra i quali v’è un gruppo che proclama che la regione di Grandi Laghi fu nel passato la sede di una comunità ebraica, e afferma perciò la propria appartenenza al giudaismo. In realtà, fu il colonialismo a dare una spinta importante nella direzione di una siffatta identificazione. I primi esploratori delle regioni del Ruanda e del Burundi (alle soglie del XX secolo) notarono le evidenti differenze fisiche tra le popolazioni locali e attribuirono all’aspetto nobile e alla prestanza fisica dei Tutsi anche la manifestazione di una superiorità intellettuale e culturale rispetto ai
conterranei. Applicando gli stereotipi mentali del tempo, sembrava che ciò non potesse che attribuirsi a una eterogenesi di tale gruppo etnico: su queste basi gli europei pretesero di riconoscervi tratti semitici. Assecondati dai colonizzatori, i Tutsi vennero quindi formandosi l’idea di una propria superiorità innata, tanto più che gli amministratori coloniali belgi fecero di loro una élite locale, con compiti di sopraintendenza sulle altre popolazioni del territorio. A forza di sentirlo affermare e di vederlo confermato nella prassi, nei Tutsi si radicò il convincimento di essere etnicamente non affini ai propri conterranei, di avere una diversa origine e una parentela biologica con gli ebrei. Ciò che è avvenuto all’epoca della decolonizzazione ha riempito le pagine dei giornali: contro i Tutsi si è scatenata la furia delle altre etnie, e coloro che sotto il dominio belga furono in qualche misura privilegiati divennero oggetto di rappresaglie feroci, massacri, stragi orrende che infuriarono specialmente negli anni Novanta del secolo scorso (centomila morti nel ’94). In seguito alle terribili sofferenze che dovettero patire, si consolidò l’idea di un legame tra la loro storia e quella delle comunità ebraiche perseguitate. Ciò fu anche favorito dal lessico adottato dai media a proposito delle vicende di cui i Tutsi erano vittime: termini come “genocidio”, “pogrom”, “olocausto” apparvero nel loro vocabolario e rafforzarono il senso di identificazione. Ciò ha portato Jochanan Bwejeri, leader del movimento che vorrebbe ‘riportare’ tutti i Tutsi all’ebraismo, ad affermare: “Nel corso degli ultimi quarant’anni i Batutsi sono stati sterminati, e lo sono ancora oggi, a causa della loro identità ebraica e del loro retaggio salomonico”. Se l’immagine dei Tutsi ebrei è sostanzialmente frutto del mito camitico e del colonialismo, tuttavia essa ha avuto una non trascurabile ricaduta anche nel mondo ebraico tradizionale: proprio in virtù delle persecuzioni subite, l’ipotesi di una parentela etnica ha infatti comportato un forte coinvolgimento emotivo, particolarmente da parte dei discendenti delle vittime della Shoà, che non hanno esitato a sollecitare i propri governi a farsi carico delle sorti di questa popolazione martoriata, come dimostra il pressante invito rivolto al governo degli Stati Uniti nel 2004 da Jack Zeller, presidente del Kulanu, con la richiesta di attivarsi al più presto “perché sia posta fine alle sofferenze di questi fieri eredi di una tradizione nazionale e religiosa antica”.* La similitudine di esperienze e di destino è stata quindi per molti africani un fattore determinante nel promuovere un avvicinamento all’ebraismo, storica o mitica che sia l’origine di una comune discendenza. Ciò non può restare privo di conseguenze. Come osserva ancora Edith Bruder, “riattualizzando la concezione universalistica del giudaismo, che era quella dei profeti della Bibbia, alcuni gruppi africani, fino a quel momento ai margini della storia ebraica, si sono gradualmente trasformati in ebrei africani, iniziando una ridefinizione identitaria e affermando una filiazione ebraica. Questa incorporazione storica, religiosa ed etnica
che trasforma irreversibilmente il corso della loro storia, apre probabilmente il campo a sviluppi importanti tanto per l’evoluzione dello stesso giudaismo, quanto per la storia religiosa dell’Africa.” ● _______________________________________________________________________ *Kulanu newsletter, vol. 11, n. 3, 2004. Kulanu è un’associazione americana impegnata nella ricerca degli ebrei dispersi.