GIALLI E NOIR METROPOLITANI
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GIALLI E NOIR METROPOLITANI
collana diretta da: Paolo Roversi direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione: Eugenio Nastri, Cristiana Mossotti commerciale e amministrazione: Marco Bianchi, Donatella Baccolini realizzazione editoriale: Veronica Bonalumi
progetto grafico: Tralerighe, Milano foto in copertina: © Massimiliano Arbuti
ISBN 978-88-99316-24-2 Novecento Editore è un marchio Novecento media srl Copyright © 2016 Novecento media srl via Carlo Tenca, 7 - 20124, Milano www.novecentoeditore.it -
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Riccardo Besola
MILANO DISCO INFERNO
Novecento Editore
It’s not time to make a change Just relax, take it easy You’re still young, that’s your fault There’s so much you have to know. How can I try to explain When I do he turns away again It’s always been the same, same old story From the moment I could talk, I was ordered to listen. Father And Son, Cat Stevens (1970)
Side 1 Stereo Milano Disco Inferno 1.Mario Spitz 2. Fuori 3. Ho sbagliato tante volte 4. Perché 5. Non dormì 6. Il cielo 7. Era stanco
Mercoledì 16 luglio 1975 1. Mario Spitz Provincia di Milano, casa incisione dischi FuturAudio, ore 19.09 Mario Spitz era in piedi. Stava incurvato su di un disco in vinile fissato a uno strano ripiano. Nella mano destra stringeva un punteruolo molto affilato, poco meno di un bisturi. Una piastra di metallo era agganciata per il vertice a una robusta staffa che sormontava il vinile, e sorreggeva l’avambraccio con cui Mario Spitz stava incidendo. I suoi occhiali erano appesi a una catenella di plastica, prigionieri tra il bancale di lavoro e la stoffa blu del camice. Un monocolo, simile a quello che usano orafi e orologiai, era appoggiato, quasi incassato, al suo occhio sinistro. Una guaina leggermente consunta, di pelle, era calzata intorno alla 9
lente circolare per facilitare l’aderenza all’orbita oculare. Il suo collo era piegato, la mano ferma e attenta. Mario Spitz s’era poi sollevato e nel farlo aveva sfilato il monocolo. Un alone di sudore gli era rimasto intorno all’occhio. Faceva caldo in quel capannone dalle pareti grezze in cemento, che per tetto aveva un mosaico di ondulato in amianto ricoperto di lamiera. Le due ventole d’areazione erano state spente da più di mezz’ora, e il sole di metà luglio premeva i suoi raggi bollenti su quella enorme lucertola senza vita. “Ecco fatto”. “Ricontrolla”. Il tono di voce dell’uomo calvo, alle sue spalle, non ammetteva repliche. Mario Spitz si era piegato nuovamente sul vinile, aveva inforcato gli occhiali appesi alla catenella al collo. Aveva guardato il disco, poi aveva spostato la testa di lato, su un cartoncino rettangolare che poco prima l’uomo calvo aveva estratto da una busta. Aveva letto nuovamente la sequenza di numeri e lettere. Aveva confrontato il vinile e il foglietto per tre volte. Le sue labbra avevano mormorato numeri e lettere mute, come fossero preghiere. Bisognava essere scemi per sbagliare. Si era risollevato e si era sfilato gli occhiali, aveva guardato l’uomo calvo e aveva annuito. L’uomo allora aveva fatto un cenno con la testa, uno scarto laterale che somigliava a un tic, prima di estrarre da una tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette. Ne aveva sfilata una assieme a un accendino metallico, 10
di quelli a benzina, automatici, che si accendono sollevando il piccolo coperchio. Si era acceso la sigaretta e con lo stesso accendino aveva bruciato il cartoncino rettangolare da cui Mario Spitz aveva copiato la serie di cinque lettere e numeri. Lo teneva sollevato per un lembo, poi l’aveva lasciato cadere a terra. La carta subito si era rattrappita, annerita, consumata. Allo stesso modo aveva bruciato la busta che l’aveva contenuto. Con uno dei mocassini rossi aveva calpestato quel niente, l’aveva disfatto sul cemento impolverato. Mario Spitz aveva allora infilato il disco in uno strano macchinario. C’era uno spuntone, una specie di ferro da maglia. Aveva spinto il vinile a fine corsa, spostato il busto all’indietro. “Attenzione”. Aveva premuto un pulsante rosso e subito dopo abbassato una leva di plastica nera, a scatto. Una parte del macchinario si richiuse sullo spuntone come fosse un torchio, emise rumori di vapore e aria compressa. Un paio di tubi di rame si tesero, attraversati dall’aria. Risollevò la leva: il vinile si era staccato e aveva la sua etichetta di carta, un centrino arancione, incollato su entrambi i lati. Mario Spitz allora aveva premuto nuovamente il pulsante rosso, con un sibilo l’etichettatrice si arrestò, i tubi sfiatarono. Sfilò il disco e si mosse verso un altro bancale, una decina di metri alla sua destra. Sopra vi erano appoggiate, in serie, fodere di carta leggera e copertine. Ancora più a destra stava un altro macchinario, la confezionatrice, che impacchettava ogni long playing nel cellophane. 11
Il capannone era deserto. Quella sera era rimasto soltanto lui. Si fermava spesso oltre l’orario di lavoro perché a fine mese si ritrovava qualche migliaio di lire in più in busta paga e gli facevano comodo, con un figlio che cresceva e iniziava a pretendere. Il padrone glielo permetteva, sapeva che Mario Spitz era un uomo serio e onesto, un padre di famiglia, non era uno che se ne approfittava e se restava un’ora in più era un’ora in cui Spitz lavorava. Ma quella volta Mario Spitz non era lì per lavorare: un paio di sere prima, al bar sotto casa, un uomo che conosceva di vista gli aveva chiesto un favore, gli aveva offerto due bicchieri di bianco e una partita a biliardo e lui aveva provato subito, ma debolmente, a desistere. Aveva provato subito perché gli era sembrato uno strano affare, ma anche debolmente, perché si stava parlando di centomila lire. “E dai Mario, fai il bravo. Verrà un uomo. Devi incidere qualcosa su uno dei dischi che fate lì in ditta da voi. Gli dai il disco e buonanotte. Le centomila lire più facili della tua vita”. “Ma perché?” “Con un centone non ci sono perché. O lo fai o non lo fai. Lo farei io, cosa credi, ma non sono mica capace. Tu invece sì”. Mario Spitz avrebbe voluto fermarsi a pensare, ma quelle centomila lire avevano reso quel suo pensare molto veloce. “Va bene”. 12