Italiano – prof.ssa Cerotti
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Dispensa di Italiano a.s. 2013/14
Tra letteratura e società Sommario IL LAVORO ......................................................................................................................................................................... 2 1. Giovanni Verga .......................................................................................................................................................... 2 La roba, da Novelle Rusticane ................................................................................................................................... 2 2. Stefano Benni ............................................................................................................................................................ 5 Industriali e politici disoccupati, da Non siamo stati noi .......................................................................................... 5 3. Roberto Saviano ........................................................................................................................................................ 8 Lavoro nero e camorra, da Gomorra......................................................................................................................... 8 LA DONNA ....................................................................................................................................................................... 11 1. Gustave Flaubert ..................................................................................................................................................... 11 I sogni di Emma, da Madame Bovary ...................................................................................................................... 11 2. Gabriele D’Annunzio ............................................................................................................................................... 13 Il ritratto di Elena Muti, da Il piacere ...................................................................................................................... 14 3. Sibilla Aleramo......................................................................................................................................................... 16 La presa di coscienza femminile, da Una donna ..................................................................................................... 16 LO SPORT ........................................................................................................................................................................ 19 1. Umberto Saba ......................................................................................................................................................... 19 Goal, da Canzoniere ................................................................................................................................................ 19 2. Primo Levi ................................................................................................................................................................ 21 Il decatleta ............................................................................................................................................................... 21 L’AMORE ......................................................................................................................................................................... 23 1. Charles Baudelaire................................................................................................................................................... 23 A una passante, da I fiori del male .......................................................................................................................... 23 2. Jaques Prévert ......................................................................................................................................................... 25 I ragazzi che si amano, da Parole ............................................................................................................................ 25 3. Eugenio Montale ..................................................................................................................................................... 26 Ho sceso, dandoti il braccio, da Satura ................................................................................................................... 27
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IL LAVORO 1. Giovanni Verga Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 da Giovan Battista Verga Catalano e Caterina Di Mauro Barbagallo, Pagina discendente del ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, appartenenti alla nobiltà sicilana. |2 Lasciati gli studi di legge per entrare nella Guardia Nazionale, manifesta fin da giovane un grande interesse per la letteratura, pubblicando a soli 22 anni il romanzo storico "I carbonari della montagna". Già in quest'opera è visibile l'ardore patriottico dell'autore, e il suo impegno politico per l'annessione della Sicilia al Regno d'Italia; questi si fanno più evidenti con il secondo romanzo, "Sulle lagune" (1863) e con la fondazione del giornale "Roma degli Italiani". Nel 1865 si trasferisce a Firenze, poi a Milano, dove entra in contatto con scrittori del calibro di Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Federico De Roberto. In una lettera del 1878 espone il suo progetto di un ciclo di romanzi dal titolo "I vinti", il cui comune denominatore sarebbe dovuto essere la teoria evoluzionistica darwiniana. Nel 1880 esce la raccolta di novelle "Vita dei campi"; l'anno successivo il primo romanzo del ciclo dei vinti, "I Malavoglia"; nel 1883 le raccolte di novelle "Per le vie" e "Novelle rusticane". Nel 1888 esce il secondo romanzo del ciclo dei vinti, il "Mastro don Gesualdo". Raggiunta l'agiatezza economica e la tranquillità sentimentale, dopo alcune relazioni anche adulterine, nel 1894 si ritira a Catania e pubblica ancora una raccolta di novelle, "Don Candeloro". Nel 1911 inizia il terzo romanzo del ciclo, "La duchessa di Leyra", che però rimane fermo al primo capitolo. Nominato senatore nel 1920, muore nel 1922. Giovanni Verga fu il massimo esponente del Verismo, una corrente letteraria che si proponeva di fotografare oggettivamente la realtà sociale e umana, rappresentandone rigorosamente le classi, comprese quelle più umili, in ogni aspetto anche sgradevole; gli autori dovevano quindi comportarsi come gli scienziati, analizzando con razionalità e distacco gli aspetti concreti della vita. Verga ha raccontato la realtà dei contadini, dei pescatori, più in generale dei “vinti”, come se fosse uno di loro, adottandone il linguaggio, il punto di vista, il modo di pensare, la saggezza popolare. Attraverso vari artifici, tra cui l’uso di espressioni tipiche del parlato e del discorso indiretto libero, l’autore dà l’impressione che a raccontare le storie non sia un uomo colto, ma il popolo stesso.
La roba, da Novelle Rusticane Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. — Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. — Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.
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Infatti, colla testa come un brillanle, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista Pagina lunga — dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, | 3 senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: — Curviamoci, ragazzi! — Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule — egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. — Costui vuol essere rubato per forza! — diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: — Chi è minchione se ne stia a casa, — la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare —. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se
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veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo Pagina scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: — | 4 Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te —. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. — Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! — diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava — per un pezzo di pane. — E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! — I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. — Lo vedete quel che mangio io? — rispondeva lui, — pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba —. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: — Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? — E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: — Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! — Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me! —
Guida alla lettura La novella La roba (1880), dal titolo quanto mai significativo, ha come sfondo sociale la realtà delle campagne siciliane alla fine dell’Ottocento. Inclusa nelle Novelle rusticane, delinea un brevissimo ritratto di un uomo e di una situazione sociale che mostra con chiarezza da quale realtà nascano molte delle storie verghiane. Il mondo rappresentato è arcaico, basato sul duro rapporto dei padroni con i contadini e con i mezzadri: è presente l’inesorabile legge economica della “roba”, così come la decadenza dell’antica casta nobiliare, incapace di controllare i propri beni e sostituita da uomini nuovi, determinati e furbi. Fra costoro Mazzarò, il personaggio protagonista della novella. Egli è un eroe della fatica: ha accumulato le sue ricchezze scontrandosi con la società e le leggi economiche; ma è senza umanità, la sua unica dimensione di vita è quella utilitaristica. L’autore sottolinea la negatività di un’esistenza solitaria vissuta solo per l’accumulo di beni e che
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finisce con l’essere improduttiva. Il personaggio rappresenta la condizione del contadino avaro, per il quale la terra e la “roba” sono i simboli del proprio status sociale. È il risultato dell’ambiente cui appartiene e ne rispecchia la mentalità e i valori: si è sostituito all’aristocratico barone (dopo l’Unità d’Italia molti proprietari terrieri vendettero le loro terre per far fronte alle numerose tasse), ma non è diverso da lui.
Attività
Pagina 1. Quale significato ha il lavoro per Mazzarò? A che cosa esso è finalizzato? Ha per lui un valore morale? |5 2. Mazzarò ha la testa come «un brillante». Eppure, per firmare gli atti di acquisto delle proprietà del barone, «ci metteva sotto la sua brava croce»: perché? Quali sono le conoscenze e le capacità del personaggio? Che cosa sa o non sa fare? In quali campi mostra di essere particolarmente abile? 3. Mazzarò appare succube della “roba”, quando ne diventa signore non meno di quanto ne era schiavo. Traccia un ritratto del personaggio (10-15 righe): con puntuali riferimenti al testo evidenzia gli aspetti della sua psicologia, quindi poni in primo piano la sua dedizione assoluta alla “roba”e la spietata logica del profitto che guida le sue azioni.
2. Stefano Benni
Industriali e politici disoccupati, da Non siamo stati noi Un gruppo di operai e operaie di un’azienda emiliana ha scritto poco tempo fa una lettera molto simpatica e spiritosa, anche se raccontava di situazioni difficili. Parlavano della lotta che da mesi conducono contro la minaccia di licenziamenti, e delle apparizioni paterne del padrone che continua a dire «ragazzi, in fondo anch’io rischio il licenziamento.» Concludevano dicendo: «Noi abbiamo provato a immaginare qualche padrone, e qualche ministro, che si trova improvvisamente licenziato e disoccupato. Per quanto cerchiamo di immaginarlo, non ci riusciamo. Vuoi provarci tu?». E’ proprio vero. Anche lasciando andare la fantasia e sforzandola, ci sono cose che non si riescono a immaginare, che non accadono neanche nel mondo lontano dei sogni. Comunque, proviamoci. Dunque, una mattina di dicembre l’avvocato Agnelli tutto elegante si mette i ciappetti in fondo ai pantaloni principe di Galles. Prende la bicicletta appesa nell’ingresso e, alle cinque e mezza di mattina, si prepara a pedalare in mezzo alla nebbia fino al suo posto alla Fiat. Ma da sotto la porta vede sbucare una lettera. Dice: «Egregio dottor Gianni Agnelli, sede. La nostra direzione si duole di informarla che, per superiori esigenze di bilancio, questa azienda è costretta dal
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trentuno del corrente mese a fare a meno della sua prestazione. Il provvedimento è motivato, oltre che dalla grave situazione economica, dall’onerosità dei suoi servizi. Nella sua ultima nota di rimborso spese leggiamo infatti: ventidue milioni per viaggi in aereo Roma-New York. Caro avvocato, esistono anche i traghetti. Del tutto eccessive poi le spese di ristorante ma cosa sono quei conti di duecentomila lire all’Hilton? Possibile che suo fratello e i suoi amici non possano mai andare a un self-service? Sottolineiamo inoltre il suo assenteismo, con la scusa dello yacht che la lascia a piedi senza nafta. Dice che la nafta costa troppo? Vada a nuoto! Mi dice che ha dei figli e una squadra di calcio da mantenere. Riduca la paghetta al figlio e i premi partita alla Juventus. Duecento lire a punto e una Pagina tartarughina ogni gol. Inoltre lei si è sempre rifiutato di fare gli straordinari, come firmare gli assegni con la sinistra e | 6 sciare dopo le cinque del pomeriggio. Ciò non è bello. In allegato le uniamo assegno con la sua liquidazione: cinquemila camicie direttamente versate in banca a Lugano. Distinti saluti.» L’avvocato Agnelli non batte ciglio, compra la Fiat e si fa riassumere. La seconda lettera arriva al ministro Lattanzio. Il ministro sta affrontando i problemi dei suoi dicasteri, Trasporti e Marina mercantile, e Gioia sta cercando di vendergli per dieci miliardi una balena con rimorchio e carrozza ristorante. Arriva la lettera: «Onorevoli ministri Lattanzio e Lattanzio, con la presente vi comunico il vostro licenziamento dai ministeri dei Trasporti e della Marina mercantile, nonché da dodici commissioni, trentatré sottocommissioni e nove enti pubblici. Siete pregati di sgomberare i vostri uffici entro mezzanotte di domani. I vostri segretari e sottosegretari verranno raccolti con apposito servizio pullman e riportati a casa. Firmato: il segretario della commissione personale Vito Lattanzio.» Ma Lattanzio si gonfia d’ira e urla: «Questo Lattanzio non sa chi sono io! gliela faccio vedere!» e scrive una lettera «all’onorevole Vito Lattanzio, segretario commissione personale. Io, onorevole Vito Lattanzio, in qualità di presidente della commissione ricorsi personale della Camera, revoco il provvedimento da lei preso contro l’onorevole Lattanzio e anzi lo eleggo vicesegretario della sua commissione. Distinti saluti — onorevole Lattanzio.» Ma le lettere di licenziamento continuano e colpiscono, poco alla volta, tutti i ministri. Invano i dirigenti delle Partecipazioni statali vantano utili di miliardi, invano Gava piange e dice «dopo trent’anni di onesto lavoro!», invano i generali invocano ulcere e i ministri amnesie. Tutti restano disoccupati, e devono trovar lavoro dove capita. Fanfani dipinge madonne per la strada, Zaccagnini fa Sandrone in un teatro di burattini, Piccoli il correttore di bozze. Rumor l’attore, Almirante mette su una palestra di karaté. Seimila licenziamenti alla Rai. Paolo Grassi è costretto a trasmettere da una radio libera, tutte le notti, un programma di musica lirica che comincia con le parole «ok ragazzi, che forte questo Placido Domingo.» Diecimila licenziamenti di generali golpisti, burocrati, mafiosi, finanzieri disonesti, giornalisti spia, galoppini di partito. Tutto il Sid emigra a cercar lavoro in Germania. Anche al Vaticano, un giorno, la fatidica letterina. Sua Santità sospira, fa la valigia e parte per la parrocchia di Montevolo. L’economia, intanto, migliora a vista d’occhio. Nelle sedi degli enti, nelle ville con parco, nei convitti, entrano i senza casa. I Crociani, i Torri e i Sindona non devono neanche più spendere i soldi dell’aereo per scappare, perché già son fuori dai piedi. Tutti sono contenti. Ma non è vero. E’ tutto finto. I padroni dicono: «Via, tutto come prima, è tutto uno scherzo che abbiamo fatto ai carabinieri per vedere se facevano il golpe. Ma cosa vi eravate messi in testa?» Tutti tornano al loro posto. Come vedete, la fantasia da sola proprio non ce la fa. Ma proviamo a immaginare ancora. Duecentomila lavoratori, proprio quelli che normalmente nella realtà vengono licenziati, vanno in cassa integrazione, rischiano la vita sul lavoro, e con loro i disoccupati, i senza casa, si trovano tutti insieme in una città. E dicono: se poche persone, che non è poi che lavorino tanto bene, possono licenziare migliaia di lavoratori, perché duecentomila lavoratori veri non possono neanche licenziare una persona sola? Contano proprio così poco? Sono loro che sono «superflui», quando l’economia è in crisi, o qualcun altro? E se gridano forte che non ci stanno, cosa si fa, si licenziano tutti? Duecentomila sono tanti, anche se ci sono compagni che per la lotta di classe preferiscono il numero chiuso. Una città piena, duecentomila voci, hanno o no il diritto di essere ascoltate più di qualche statistica truccata o di qualche ladro in difficoltà? Chissà che oggi non succeda l’impossibile. Cominciamo a licenziare anche noi. Fuori lo slogan: Facciamo un altro disoccupato governo Andreotti sei licenziato E non preoccupatevi per questi poveri ministri se restano senza lavoro. Qualcosa da parte, per la vecchiaia, in questi trent’anni, l’hanno già messo.
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Giuda alla lettura
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Attività 1. Soffermati sulla lettera di licenziamento di Gianni Agnelli. Quali sono i motivi che spingono l’azienda a licenziarlo? Quali sono gli aspetti umoristici della situazione? 2. Secondo le indicazioni del testo, cosa succederebbe in Italia se ministri, generali e burocrati fossero licenziati? Attraverso tale situazione paradossale, quale critica l’autore rivolge implicitamente all’Italia? 3. Visto che i licenziamenti prospettati possono avvenire soltanto nella fantasia, quale strumento reale esiste, secondo l’autore, per modificare le cose? 4. Immagina di dover licenziare un personaggio pubblico (appartenente al mondo dello sport, dello spettacolo, della politica…) perché, a tuo parere, non sta compiendo il proprio dovere sul posto di lavoro. Scrivi una lettera di licenziamento per comunicare il provvedimento all’interessato, indicando le cause che lo giustificano e utilizzando il registro linguistico formale.
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3. Roberto Saviano Roberto Saviano (1979) ha iniziato a scrivere come giornalista (“la Repubblica”, “L’Espresso”). Dopo la pubblicazione di Gomorra (2006), il suo libro-indagine sulla camorra campana, è stato costretto a vivere sotto scorta per le minacce di morte ricevute. Nel 2009 è uscito il suo secondo libro, La bellezza e l’inferno, Pagina e nel 2013 Zero zero zero, indagine sul mondo legato alla cocaina. Il suo caso ha suscitato molto interesse, in Italia e all’estero: nel 2008, un gruppo di premi Nobel (tra cui l’ex | 8 presidente sovietico Gorbaciov e il vescovo sudafricano Desmond Tutu, entrambi Nobel per la pace) scrisse un appello allo Stato italiano perché non gli fosse tolta la scorta di polizia. Nei suoi interventi come ospite televisivo (con grande successo di pubblico) Saviano continua a denunciare le attività illegali della camorra e i suoi intrecci con la vita economica e finanziaria italiana. Nel brano che segue egli descrive il circuito economico che unisce la camorra alle imprese “legali”, consentendo all’una e alle altre di trarre ingenti profitti dal lavoro in nero delle piccole fabbriche disseminate sul territorio controllato dai boss.
Lavoro nero e camorra, da Gomorra Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese perché lavorano sulle grandi griffe. Velocità e qualità. Altissima qualità. Il monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arzano, e via via tutta la Las Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene. Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro. Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metà dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro volerebbe via dall'Italia. […] Io e Pasquale legammo molto. Quando parlava dei tessuti sembrava un profeta. Nei negozi era pignolissimo, non era possibile neanche passeggiare, si piantava davanti a ogni vetrina insultando il taglio di una giacca, vergognandosi al posto del sarto per il disegno di una gonna. Era capace di prevedere la durata della vita di un pantalone, di una giacca, di un vestito. Il numero esatto di lavaggi che avrebbero sopportato quei tessuti prima di ammosciarsi addosso. Pasquale mi iniziò al complicato mondo dei tessuti. Avevo cominciato anche a frequentare casa sua. La sua famiglia, i suoi tre bambini, sua moglie, mi davano allegria. Erano sempre attivi ma mai frenetici. Anche quella sera i bambini più piccoli correvano per la casa scalzi. Ma senza fare chiasso. Pasquale aveva acceso la televisione, cambiando i vari canali era rimasto immobile davanti allo schermo, aveva strizzato gli occhi sull'immagine come un miope, anche se ci vedeva benissimo. Nessuno stava parlando ma il silenzio sembrò farsi più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla televisione e si mise le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa grave e si tappa un urlo. In tv Angelina Jolie calpestava la passerella della notte degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star. Quel vestito l'aveva cucito Pasquale in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: «Questo va in
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America». Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli USA. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. E il pantalone. Aveva passato le mani nei tubi delle gambe e ricordava ancora il corpo nudo che ogni sarto immagina. Un nudo senza erotismo, disegnato nelle sue fasce muscolari, nelle sue ceramiche d'ossa. Un nudo da vestire, una mediazione tra muscolo, ossa e portamento. Era andato a prendersi la stoffa al porto, lo ricordava ancora bene quel giorno. Gliene avevano commissionati tre, di vestiti, senza dirgli altro. Sapevano a chi erano Pagina destinati, ma nessuno l'aveva avvertito. |9 In Giappone il sarto della sposa dell'erede al trono aveva ricevuto un rinfresco di Stato; un giornale berlinese aveva dedicato sei pagine al sarto del primo cancelliere donna tedesco. Pagine in cui si parlava di qualità artigianale, di fantasia, di eleganza. Pasquale aveva una rabbia, ma una rabbia impossibile da cacciare fuori. Eppure la soddisfazione è un diritto, se esiste un merito questo dev'essere riconosciuto. Sentiva in fondo, in qualche parte del fegato o dello stomaco, di aver fatto un ottimo lavoro e voleva poterlo dire. Sapeva di meritarsi qualcos'altro. Ma non gli era stato detto niente. Se n'era accorto per caso, per errore. Una rabbia fine a se stessa, che spunta carica di ragioni ma di queste non può far nulla. Non avrebbe potuto dirlo a nessuno. Neanche bisbigliarlo davanti al giornale del giorno dopo. Non poteva dire "Questo vestito l'ho fatto io". Nessuno avrebbe creduto a una cosa del genere. La notte degli Oscar, Angelina Jolie indossa un vestito fatto ad Arzano, da Pasquale. Il massimo e il minimo. Milioni di dollari e seicento euro al mese. Quando tutto ciò che è possibile è stato fatto, quando talento, bravura, maestria, impegno, vengono fusi in un'azione, in una prassi, quando tutto questo non serve a mutare nulla, allora viene voglia di stendersi a pancia sotto sul nulla, nel nulla. Sparire lentamente, farsi passare i minuti sopra, affondarci dentro come fossero sabbie mobili. Smettere di fare qualsiasi cosa. E tirare, tirare a respirare. Nient'altro. Tanto nulla può mutare condizione: nemmeno un vestito fatto ad Angelina Jolie e indossato la notte degli Oscar.
Attività 1. Quali sono le condizioni di lavoro nelle fabbriche controllate dalla camorra? 2. Perché, “se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, …il lavoro volerebbe via dall’Italia?” 3. Da quale motivo nasce la rabbia di Pasquale? 4. Qual è il significato di questo episodio? Cosa ci sta dicendo Saviano sul rapporto tra camorra e economia “legale”?
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Guida alla lettura
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LA DONNA 1. Gustave Flaubert Gustave Flaubert nasce a Rouen il 12 dicembre 1821. A quindici anni sulla spiaggia di Trouville incontra Elise Foucault, ragazza sposata che sarà oggetto della Pagina grande e mai soddisfatta passione della vita dello scrittore; da questa esperienza trarrà ispirazione per il suo | 11 romanzo L'educazione sentimentale. Nel 1844 Gustave Flaubert viene colpito dal suo primo attacco di epilessia; lascia gli studi (facoltà di legge) e torna a Rouen. Si stabilisce quindi nella casa di campagna di Croisset, dove scriverà tutti i suoi più importanti capolavori, tra cui il suo romanzo più famoso: Madame Bovary. La guerra franco-prussiana lo costringe a lasciare momentaneamente Croisset: le conseguenze per il suo già fragile sistema nervoso saranno rilevanti. Nel 1875 per salvare dal fallimento il marito della nipote, vende tutte le proprietà e si riduce a vivere con gli scarsi proventi del suo lavoro di scrittore. Nell'ultimo periodo della sua vita Flaubert accetta, non senza riluttanza, una modesta pensione governativa. A causa di un attacco di epilessia, Gustave Flaubert muore a Croisset l'8 maggio 1880. Madame Bovary Appena pubblicato, il romanzo fu messo sotto inchiesta per "oltraggio alla morale". Dopo l'assoluzione, il 7 febbraio 1857, divenne un bestseller sotto forma di libro nell'aprile del medesimo anno, e oggi è considerato uno dei primi esempi di romanzo realista. Flaubert si ispirò alle vicende realmente accadute di una giovane donna di provincia, Delphine Delamare, del cui suicidio si parlò in un giornale locale nel 1848. La vicenda si basa su Charles Bovary, un modesto medico di campagna, che sposa in seconde nozze Emma Rouault. Emma, sognatrice romantica, illusa dai libri da lei divorati fin dall’adolescenza, è presto delusa dalla mediocrità del marito e dalla sua vita in provincia. Bovary, per distrarla, si trasferisce a Yonville dove Emma è corteggiata da un giovane, Léon, che però non le confessa il suo amore e parte per Parigi. Emma diventa l'amante di Rodolphe, un dongiovanni di provincia, da cui però è abbandonata. La donna, sconvolta, cerca in ogni modo di stordirsi. A Rouen ritrova Léon, ma ben presto stanca anche lui. Inizia così la degradazione di Emma: si indebita con un usuraio, all'insaputa del marito, e non sa come pagarlo. Chiede aiuto a Léon e a Rodolphe poi, disperata, si uccide con del veleno. Bovary si lascia lentamente morire.
I sogni di Emma, da Madame Bovary Ogni mese veniva al convento, per otto giorni, una vecchia zitella ad accomodare la biancheria. Protetta dall'arcivescovo perché appartenente a un'antica famiglia nobile rovinata dalla rivoluzione, mangiava nel refettorio alla tavola delle suore e rimaneva con loro dopo il pasto a fare quattro chiacchiere prima di riprendere il lavoro. Spesso le educande scappavano dalla sala di studio per andare da lei. Conosceva a memoria certe canzoni galanti del secolo passato e le cantava a mezza voce mentre cuciva. Raccontava storie e novità, faceva commissioni in città a chi ne aveva bisogno, e prestava di nascosto alle ragazze più grandi certi romanzi che teneva sempre in tasca del grembiule, e dei quali divorava anche lei lunghi capitoli negli intervalli del suo lavoro. Non parlavano che di amore, di amanti e di innamorate, dame perseguitate che scomparivano in padiglioni fuori mano, postiglioni uccisi a ogni tappa, cavalli sfiancati in tutte le pagine, foreste tenebrose, cuori in tormento, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barche al chiaro di luna, usignoli nei boschetti, cavalieri coraggiosi come leoni, mansueti come agnelli, e virtuosi come nessuno, sempre ben vestiti e malinconici come sepolcri. Per sei mesi di fila, a quindici anni, Emma si imbrattò le mani con questa polvere di vecchie sale di lettura. Leggendo Walter Scott si appassionò più tardi ai soggetti storici, sognò forzieri, corpi di guardia, e menestrelli. Le sarebbe piaciuto vivere in qualche vecchio maniero, come quelle castellane dai lunghi corsetti, che passavano i giorni affacciate a una finestra a trifora, con i gomiti sulla pietra e il mento fra le mani, per veder giungere dal limite della campagna un cavaliere biancopiumato
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galoppante su un cavallo nero. In quel periodo si diede al culto di Maria Stuarda e, con una venerazione entusiasta, di tutte le donne illustri o sfortunate. […] Alcune delle compagne portavano in convento gli album dei ricordi ricevuti in dono. Bisognava tenerli nascosti e non era cosa da poco; li sfogliavano in dormitorio. Emma maneggiava con delicatezza le belle rilegature di raso e fissava con uno sguardo affascinato i nomi degli autori sconosciuti — spesso conti o Pagina visconti — che avevano firmato le loro composizioni. | 12
Sollevava fremendo, con un soffio, la carta velina delle illustrazioni che si alzava un po' piegata e ricadeva piano sulla contropagina. Si vedeva, dietro la balaustra di un balcone, un giovane con una corta mantellina, il quale stringeva fra le braccia una fanciulla in abito bianco, con una borsa appesa alla cintura; oppure il ritratto di un'anonima signora inglese, dai boccoli, che la fissava con i grandi occhi chiari di sotto la tesa di un cappello di paglia rotondo. Vi si vedevano signore adagiate su un carrozzone che correvano senza scosse nel parco, ove un levriero saltava davanti ai cavalli condotti al trotto da due piccoli postiglioni in pantaloni a coscia bianchi. Altre dame sognavano su divani, avendo accanto a sé missive dissuggellate e contemplando la luna attraverso la finestra semiaperta e per metà drappeggiata da una cortina nera. Le più ingenue baciavano, mentre una lagrima rigava loro la gota, una tortorella attraverso le sbarre di una gabbia gotica, oppure, sorridendo con il capo reclinato su una spalla, sfogliavano una margherita con le dita sottili e incurvate all'indietro come babbucce orientali. E c'eravate anche voi, sultani dalle lunghe pipe, in estasi sotto le volte a tutto sesto fra le braccia delle baiadere, e poi giaurri, scimitarre, fez, ma soprattutto voi, paesaggi sbiaditi di contrade esaltate all'eccesso, che spesso mostrate palmizi vicino a pinete, tigri a destra e un leone a sinistra, minareti tartari all'orizzonte e, in primo piano, rovine romane e cammelli accovacciati, il tutto inquadrato da una foresta vergine molto linda, con un raggio di sole tremolante nell'acqua sulla quale spiccano, come scalfitture bianche, qua e là, su un fondo grigio-acciaio, alcuni cigni che nuotano. […] Quando sua madre morì, i primi giorni ella pianse a lungo. Si fece dare un quadretto con i capelli della morta e, in una lettera indirizzata ai Bertaux, tutta piena di tristi riflessioni sulla vita, chiese di essere seppellita nella stessa tomba, quando fosse venuto il momento. Suo padre, credendola malata, venne a trovarla. Emma si sentì intimamente soddisfatta di aver raggiunto così presto questo prezioso ideale di malinconica esistenza al quale non pervengono mai le anime mediocri. Si lasciò scivolare in meandri lamartiniani, ascoltò il suono delle arpe sui laghi, tutti i canti di cigno, le foglie cadere, le vergini pure che salgono in cielo, e la voce dell'Eterno in fondo alle valli. A un certo punto tutto ciò le venne a noia, ma non volle riconoscerlo e continuò, prima per abitudine, poi per vanità, finché non senza stupore si rese conto di sentirsi placata, senza più tristezza nel cuore che ruga sulla fronte. […] A volte si diceva che questi sarebbero dovuti essere i giorni più felici della sua vita, la cosiddetta luna di miele. Per poterne gustare davvero la dolcezza, senza dubbio, bisognava partire per quei paesi dai nomi altisonanti, dove i primi giorni di matrimonio hanno più soavi pigrizie. In diligenza, all'ombra di tendine di seta azzurra, si sale per ripide strade ascoltando la canzone del postiglione che echeggia fra le montagne insieme con le campanelle delle capre e il rombo sordo delle cascate. Al tramonto, sulla riva dei golfi marini, ci si può inebriare con la fragranza dei limoni; la sera, sulla terrazza di una villa, soli, le mani dell'uno intrecciate con le mani dell'altra, si possono fare progetti guardando le stelle. Secondo lei, taluni luoghi sulla terra possedevano la peculiarità di produrre la felicità, quasi essa fosse stata una pianta alla quale è necessario un particolare terreno, una pianta che cresce male in qualunque altro luogo. Come avrebbe voluto potersi affacciare al balcone di uno chalet svizzero, o chiudere la sua malinconia in un cottage scozzese, insieme con un marito che indossasse un abito a giacca lunga di velluto nero, calzasse morbidi stivali e portasse un cappello a punta e i polsini. Forse avrebbe desiderato confidar a qualcuno queste sue idee. Ma in qual modo avrebbe potuto descrivere quel malessere vago che mutava aspetto come le nuvole o che turbinava come il vento? Le mancavano le parole, l'occasione, il coraggio.
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Guida alla lettura Il personaggio di Emma Bovary fissa un atteggiamento, che è assunto a vera e propria categoria del costume e della mentalità moderni, il bovarismo. In queste pagine ne emerge un aspetto fondamentale. La piccola borghese di provincia, insofferente del grigiore e del vuoto della sua esistenza, si crea mediante il sogno un Pagina mondo parallelo, più splendido e affascinante. Questo sogno è costruito con materiali offerti dalla letteratura. | 13 Emma è accanita divoratrice di libri, in genere – a quanto si desume – romanzi sentimentali di mediocre livello. La fuga dalla realtà a cui l’eroina si abbandona risponde a modelli culturali immediatamente individuabili, quelli romantici: è facile riconoscere l’esotismo del tempo (il Medioevo alla Walter Scott) e nello spazio (i golfi mediterranei, le montagne svizzere, i cottages scozesi). Questi motivi però, nelle sue letture perdono l’autenticità della letteratura “alta”: ridotti al suo livello piccolo borghese, si irrigidiscono in luoghi comuni, in miseri stereotipi, e diventano falsi e ridicoli. Flaubert è feroce nel dare il senso di questa stupidità soffocante. Ma non vi sono, come si può notare, espliciti interventi giudicanti. La tecnica usata da Flaubert è la registrazione impassibile: lo scrittore si limita ad enumerare i motivi ricorrenti dei sogni di Emma, e basta questa semplice menzione perché la loro stupidità di dichiari da sé, in una luce crudele (anche se l’ironia traspare qua e là). Attività 1. Riassumi il contenuto del testo in non più di dieci righe. 2. Cosa si intende per bovarismo?
2. Gabriele D’Annunzio Gabriele d'Annunzio nacque a Pescara nel 1863. Frequentò il liceo a Prato e a sedici anni pubblicò a spese del padre la prima raccolta di versi. A diciotto anni si trasferì a Roma per gli studi universitari. Nella capitale si mise a frequentare i salotti alla moda e l'alta società: divenne noto per i suoi atteggiamenti disinvolti e per la brillante conversazione. Amava molto far parlare di sé e ci riusciva benissimo, vivendo passionali storie d'amore e scrivendo poesie, romanzi, articoli giornalistici. Nonostante fosse ormai un autore di successo, la sua vita dispendiosa lo spingeva a contrarre debiti e a dover ricorrere all'aiuto di amici e ammiratori. Verso la fine del secolo fu eletto deputato assumendo posizioni politiche estremistiche (sia a destra che a sinistra). Si era intanto stabilito in una lussuosa villa nei pressi di Firenze. Travolto dai debiti, nel 1910 si rifugiò in Francia, continuando a scrivere, sia in italiano sia in francese. Allo scoppio della prima guerra mondiale, D'Annunzio si dichiarò interventista e, con i suoi discorsi, contribuì all'entrata in guerra dell'Italia. Ormai ultracinquantenne, partecipò a spettacolari azioni belliche: famose l'incursione nella baia di Bùccari a bordo di motosiluranti e il volo su Vienna col lancio di volantini tricolori. Alla fine della guerra sostenne l'idea della "vittoria mutilata", secondo cui l'Italia non aveva ricevuto compensi adeguati per la vittoria. A capo di un gruppo di volontari occupò Fiume, in Istria, con lo scopo di allargare il confine orientale. Fatto sloggiare dall'esercito inviato dal governo, D'Annunzio si accostò al nascente partito fascista, iniziando una collaborazione incerta e discontinua con Mussolini. Consolidatosi il fascismo, D'Annunzio venne messo da parte, pur colmato di onori e ritenuto il poeta ufficiale del regime. Ritiratosi nella sua villa sul lago di Garda, divenuta una specie di museo delle glorie nazionali, vi trascorse gli anni dell'odiata vecchiaia, fino alla morte avvenuta nel 1938. Tra i romanzi più importanti di D’Annunzio ricordiamo Il piacere (1889), il cui protagonista Andrea Sperelli ha molti tratti in comune con l'autore e vive alla ricerca di esperienze sempre più rare e raffinate, e Il fuoco
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(1904), tormentata storia d'amore tra uno scrittore e una famosa attrice, che fa puntuali riferimenti alla relazione tra D'Annunzio ed Eleonora Duse, la più nota attrice di quegli anni. Tra le poesie: le raccolte Maia, Elettra e Alcyone (nomi di alcune stelle della costellazione delle Pleiadi), pubblicate sotto il titolo complessivo di Laudi (1903). D’Annunzio scrisse moltissimo, sperimentando molti generi letterari: opere teatrali, novelle, diari (tra cui il Notturno, scritto nei mesi del 1916 in cui D'Annunzio dovette rimanere a letto con gli occhi bendati, in Pagina seguito all'incidente aereo in cui perse un occhio). | 14
Il ritratto di Elena Muti, da Il piacere La donna amata dal protagonista, Andrea Sperelli, tronca all’improvviso la relazione e scompare. Quando ritorna, Andrea apprende che, per evitare il disastro economico, ella ha dovuto sposare un ricco inglese, Lord Heathfield, individio vizioso e ripugnante. Andrea quindi è assalito dall’orrore al pensiero che Elena sia toccata da “mani immonde”. Per comprendere il comportamento della donna, esercita su di lei le sue acutissime facoltà analitiche e, nel tracciare un crudo ritratto di Elena, ne costruisce uno altrettanto impietoso di se stesso.
Chi era ella mai? Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario.1 A similitudine di tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale, per dir così, era l'immaginazione: una immaginazione romantica, nutrita di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice,2 continuamente stimolata dall'isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel lusso d'una casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di storia, ella erasi velata d'una vaga incipriatura estetica,3 aveva acquistato un gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere della sua bellezza, ella cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne la spiritualità, irraggiando una capziosa4 luce d'ideale. Ella portava quindi, nella commedia umana,5 elementi pericolosissimi; ed era occasion di ruina e di disordine più che s'ella facesse pubblica professione d'impudicizia.6 Sotto l'ardore della immaginazione, ogni suo capriccio prendeva un'apparenza patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendi improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree7 i bisogni erotici della sua carne e sapeva trasformare in alto sentimento un basso appetito... Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna un tempo adorata. Procedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi d'innanzi ad alcun ricordo più vivo. In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione dell'amor d'Elena trovava l'artifizio, lo studio, l'abilità, la mirabile disinvoltura nell'eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte drammatica, nel combinare una scena straordinaria. Egli non lasciò intatto alcuno de' più memorabili episodi: né il primo incontro al pranzo di casa Ateleta, né la vendita del cardinale Immenraet, né il ballo del'Ambasciata di Francia, né la dedizione improvvisa nella stanza rossa del palazzo Barberini, né il congedo su la via Nomentana nel tramonto di marzo. Quel magico vino che prima lo aveva inebriato ora gli pareva una mistura perfida. Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se, penetrando nell'anima della donna, egli penetrasse nell'anima sua propria e ritrovasse la sua propria falsità nella falsità di lei; tanta era l'affinità delle due nature. E a poco a poco il disprezzo gli si mutò in una indulgenza ironica, poiché egli comprendeva. Comprendeva tutto ciò che ritrovava in sé medesimo. Allora, con fredda chiarezza, definì il suo intendimento.
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Sensuale. L’utero. 3 Il gusto della bellezza è solo uno strato superficiale. 4 Ingannevole. 5 I rapporti tra gli uomini, secondo D’Annunzio, sono una recita, una finzione. 6 Professione di cortigiana. 7 Celesti, ideali. 2
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Tutte le particolarità del colloquio avvenuto nel giorno di San Silvestro,8 più d'una settimana innanzi, tutte gli tornarono alla memoria; ed egli si piacque a ricostruir la scena, con una specie di cinico sorriso interiore, senza più sdegno, senza concitazione alcuna, sorridendo di Elena, sorridendo di sé medesimo. - Perché ella era venuta? Era venuta perché quel convegno inaspettato, con un antico amante, in un luogo noto, dopo due anni, le era parso strano, aveva tentato il suo spirito avido di commozioni rare, aveva tentata la sua fantasia e la sua curiosità. Ella voleva ora vedere a quali nuove situazioni e a quali nuove combinazioni di fatti Pagina l'avrebbe condotta questo giuoco singolare. L'attirava forse la novità di un amor platonico con la persona | 15 medesima ch'era già stata oggetto d'una passion sensuale. Come sempre, ella erasi messa con un certo ardore all'immaginazione d'un tal sentimento; e poteva anche darsi ch'ella credesse d'esser sincera e che da questa immaginata sincerità avesse tratto gli accenti di profonda tenerezza e le attitudini dolenti e le lacrime. Accadeva in lei un fenomeno a lui ben noto. Ella giungeva a creder verace e grave un moto dell'anima fittizio e fuggevole; ella aveva, per dir così, l'allucinazione sentimentale come altri ha l'allucinazione fisica. Perdeva la coscienza della sua menzogna; e non sapeva più se si trovasse nel vero o nel falso, nella finzione o nella sincerità. Ora, a questo punto era lo stesso fenomeno morale che ripetevasi in lui di continuo. Egli dunque non poteva con giustizia accusarla. Ma, naturalmente, la scoperta toglieva a lui ogni speranza d'altro piacere che non fosse carnale. Ormai la diffidenza gli impediva qualunque dolcezza d'abbandono, qualunque ebbrezza dello spirito. Ingannare una donna sicura e fedele, riscaldarsi a una grande fiamma suscitata con un baglior fallace, dominare un'anima con l'artifizio, possederla tutta e farla vibrare come uno strumento, habere non haberi,9 può essere un alto diletto. Ma ingannare sapendo d'essere ingannato è una sciocca e sterile fatica, è un giuoco noioso e inutile.
Guida alla lettura Nei primi due paragrafi ci troviamo di fronte al fluire dei pensieri del protagonista, ad un suo discorso interiore. Si tratta di un discorso indiretto libero: il personaggio si abbandona ad un monologo in cui i suoi pensieri sono colti in modo immediato e non filtrato. Anche il narratore tuttavia interviene, nella seconda parte del testo, con espliciti giudizi su Andrea. Egli introduce anche la sua prospettiva, prendendo le distanze dal personaggio. In questa analisi psicologica Andrea mette a nudo la menzogna che si cela dietro il suo rapporto con Elena: ne enumera tutti i difetti, ma poi si rende conto che, per ironia della sorte, quelle carenze sono perfettamente sovrapponibili alle sue. Elena quindi non è altro che un suo “doppio”: uno specchio in cui poter vedere riflesse tutte le proprie imperfezioni. Attività 1. Individua gli elementi della personalità che caratterizzano Elena Muti. 2. Perché, a poco a poco, il disprezzo di Andrea si trasforma in una indulgenza ironica? Cosa capisce finalmente?
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Il giorno in cui Andrea e Elena avevano avuto un nuovo incontro, dopo la lunga separazione. “possedere, non essere posseduto”: era il motto di Andrea Sperelli.