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Stefano Strazzabosco A strange fruit, indeed La poesia di Fabio Morabito*
Fanno uno strano effetto i fusti delle palme tropicali presso i pini, i lecci e i platani dei nostri climi temperati. Vederne uno, per esempio a Vicenza, significa essere presi dall’incantamento di trovarsi altrove, magari sentendo aleggiare nella testa un pigro bolero di Paolo Conte. Allo stesso modo, e contrario, può risultare straniante leggere queste poesie di Fabio Morabito: cresciuto a Milano, Italia, e trapiantato adolescente in terra d’oltremare, Morabito è un poeta che sogna in italiano, e scrive in messicano. Forse per questo s’intuisce nel suo dire una continua sfasatura, un doppio fondo a scomparsa: qualcosa come lo scorrere simultaneo di due tempi diversi, o l’affondare le radici in differenti suoli. A strange fruit, indeed. Per di più, Morabito è nato ad Alessandria d’Egitto (al pari di Ungaretti e Marinetti): e questo lo induce a trasformare il suo luogo natale in segno metafisico, una città della psiche più che un insieme concreto di strade, di case, d’acque e di sabbie. L’autore direbbe che tutti, prima o poi, nasciamo ad Alessandria. Anche la sua poesia sembra puntare verso il medesimo luogo astratto e insieme geograficamente
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preciso, intrecciando dati reali con altri del tutto fittizi. E parrebbe non solo normale, ma ovvio, se non fosse che il peso accordato alla realtà è in questo caso maggiore che in altri poeti, quasi a ten146 tare un radicamento estremo. Perciò la poesia di Morabito è stipata di presenze, e si basa in gran parte sull’osservazione del reale, compresi i suoi frammenti più triti e quotidiani: perché è il modo d’osservare che conta, è vero, ma ciò che si osserva è l’ancora che impedisce alla barca di andarsene. Attraversando i paesaggi metropolitani e i deserti di Città del Messico, apparendo nei paesi che si affacciano su laghi sorti da vulcani, solcati da barche con reti come ali di farfalla, vasti come diVWUHWWL VHQWHQGR OD VDEELD H OH OHJJHUH IRVIRUHVFHQ]H GHOO¶DFTXD GHO 3DFLILFR ILVVDUVL QHJOL RFFKL camminando sulla terra battuta dai muli e dalle donne che vanno al mercato e in chiesa, mangiando una fetta di torta alla frutta in un bar giallo limone: Morabito cerca nelle cose la stessa pregnanza che cercava Montale ma, più cordialmente di lui, sa riconoscere in ognuna sia il frutto sia la pianta, con l’umiltà di chi chiede al mondo di parlare, e si dispone ad ascoltarlo. Da qui il desiderio di aderenza alle cose, o di dar loro voce, che si esprime attraverso l’uso di una lingua trasparente, un lessico piano e colloquiale, in cui la testa vigila sul cuore, e lo slittare verso la prosa è frenato quasi solo dalla metrica e i suoni. Ma anche in questa lirica sobria e raziocinante, se non proprio ragionevole, è sufficiente scavare un po’ per ritrovare le tracce narrative più proprie dell’autore: che infatti è anche un eccellente scrittore di racconti. Morabito ama rallentare il corso della propria scrittura (e prima ancora dei pensieri), per far sì che le cose di tutti i giorni, svestiti i panni dell’abitudine, assumano l’aspetto sgargiante di una nuova scoperta. Non è dunque l’indecifrabilità ciò che lo attira: al contrario, la sua felicità consiste nel saper decifrare, nel portare alla luce, nel dire e non nel nascondere. Siamo così lontanissimi da qualsiasi esperienza orfica (e a maggior ragione da qualsiasi post-ermetismo), e molto più vicini a un modo di fare poesia che non dimentica il confronto col lettore, la voglia di chiarezza, le minime cose da cui nascono le grandi. Anche se poi, naturalmente, dietro l’apparente “facilità” dei testi si muove uno scenario fratturato, sfaldato in più punti, mai cicatrizzato: come l’immacolato biancore della benda che protegge una ferita. Buona parte della tradizione poetica italiana ha inteso la poesia come un magnifico uccello variopinto da tenere in gabbia, appannaggio di pochi. Come Prévert, Morabito cancella le sbarre, sbianca la gabbia. I suoi testi precisi ed affabili battono un’altra via: la stessa che percorre il loro autore nel suo viaggio quotidiano dalla notte al dì, o dalla lingua originaria a un idioma conquistato con pazienza, a forza di splendore.
Ahora, después de casi veinte años 147 lo voy sintiendo: como un músculo que se atrofia por falta de ejercicio o que ya tarda en responder, el italiano, en que nací, lloré, crecí dentro del mundo - pero en el que no he amado aún -, se evade de mis manos, ya no se adhiere a las paredes como antes, desierta de mis sueños y de mis gestos, se enfría, se suelta a gajos. Y yo, que siempre vi ese vaso lleno, inextinguible, plantado en mí como un gran árbol, como una segunda casa en todas partes, una certeza, un nudo que nadie desataría (un coto inaccesible, un refugio), descubro una verdad que por demás siempre he sabido: el que conquista se descuida siempre y por la espalda y la memoria cojean los nómadas y los advenedizos. Hay que voltear atrás tarde o temprano, soldarse a algún pasado, pagar todas las deudas - de un sólo golpe si es posible. Así, si tú te vas, idioma de mi lengua, razón profunda de mis torpezas y de mis hallazgos, ¿con qué me quedo?, ¿con qué palabras recordaré mi infancia, con qué reconstruiré el camino y sus enigmas? ¿Cómo completaré mi edad?
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Adesso, dopo quasi vent’anni me ne accorgo: come un muscolo che si atrofizza quando non viene esercitato o reagisce fin troppo lentamente, l’italiano, in cui sono venuto al mondo, ho pianto, sono cresciuto, ma non ho mai amato, mi sfugge dalle mani, ormai non aderisce alle pareti come prima, diserta i miei sogni e i gesti, e raffreddandosi perde i suoi pezzi. Ed io, che ho sempre visto questo vaso traboccante, inesauribile, piantato dentro me come un grandioso albero, una seconda casa onnipresente, una certezza, un nodo che non si sarebbe mai sciolto (una riserva inaccessibile, un rifugio), scopro una verità che in fondo mi era nota: chi muove alla conquista trascura la difesa, la schiena e la memoria sono il punto debole degli sradicati. Bisogna pur girarsi prima o poi, saldarsi ad un passato, pagare tutti i debiti – d’un colpo solo, magari. Così, se tu mi lasci, idioma mio più vero, intima molla dei miei errori e dei miei slanci, cosa mi resta?, con che parole ricorderò chi ero, con quali rifarò la strada che ho percorso? Come potrò compire la mia età?
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148 Puesto que escribo en una lengua que aprendí, tengo que despertar cuando los otros duermen. Escribo como quien recoge agua de los muros, me inspira el primer sol de las paredes. Despierto antes que todos, pero en alto. Escribo antes que amanezca, cuando soy casi el único despierto y puedo equivocarme en una lengua que aprendí. Verso tras verso busco la prosa de este idioma que no es mío. No busco su poesía, sino bajar del piso alto en que amanezco. Verso tras verso busco, mientras los otros duermen, adelantarme a la lección del día. Oigo el ruido de la bomba que sube el agua a los tinacos y mientras sube el agua y el edificio se humedece, desconecto el otro idioma que en el sueño entró en mis sueños, y mientras el agua sube, desciendo verso a verso como quien recoge idioma de los muros y llego tan abajo a veces, tan hermoso, que puedo permitirme, como un lujo, algún recuerdo.
Siccome scrivo in una lingua che ho imparato, devo svegliarmi quando gli altri dormono. Scrivo come chi cava dell’acqua dai muri, m’ispira il primo sole sulle pareti. Mi sveglio prima di tutti, ma in alto. Scrivo prima che faccia giorno, quando forse sono l’unico sveglio e posso sbagliarmi in una lingua che ho imparato. Verso dopo verso cerco la prosa di un idioma che non mi appartiene. Non cerco la sua poesia, ma scendere dal piano alto in cui mi sveglio. Verso dopo verso cerco, mentre gli altri dormono, di prevenire la lezione del giorno. Sento il rumore della pompa che fa salire l’acqua alle cisterne e mentre sale l’acqua e inumidisce l’edificio, scollego l’altro idioma che nel sonno qHQWUDWRQHLPLHLVRJQL e mentre l’acqua sale, io scendo verso a verso come chi cava un idioma dai muri e arrivo così in basso, a volte, così bene, che posso permettermi il lusso di qualche ricordo.
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Nota biografica dell’autore
149 Fabio Morabito è nato nel 1955 ad Alessandria d’Egitto, da genitori italiani. Cresciuto a Milano, nel 1969 si è trasferito con la famiglia a Città del Messico, dove attualmente risiede. Lavora come ricercatore presso l’Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM), e scrive in spagnolo. Ha pubblicato i libri di racconti: La lenta furia WUDGWHGHVFD La vida ordenada (2000) e Grieta de fatiga 3UHPLR$QWRQLQ$UWXDG XQOLEURGLSURVHDPH]]DYLDIUDLOVDJJLRHO¶LQYHQ]LRQHCaja de herramientas WUDGRWWRLQ*HUPDQLD*UDQ%UHWDJQDH6WDWL8QLWL GXHURPDQ]LEUHYLSHUEDPELQLGerardo y la cama (1986) e Cuando las panteras no eran negras SXEEOLFDWRDQFKHLQ,WDOLDFROWLWRORQuando le pantere non erano nere, Salani, 2001). Nel 2004, al termine di un soggiorno in Germania, ha dato alle stampe También Berlín se olvida, una sorta di ritratto al bulino della grande città tedesca. Nel 2009 è uscito il suo primo romanzo: Emilio, los chistes y la muerte. Per la poesia, finora sono usciti: Lotes baldíos SUHPLR&DUORV3HOOLFHU7UDGRWWRLQIUDQFHVHQHO De lunes todo el año SUHPLR$JXDVFDOLHQWHV ODSODTXHWWHOcho poemas Alguien de lava ROWUHDOOHDQWR logie pubblicate in Spagna (El buscador de sombra, 1997) e in Venezuela (El verde más oculto, 2002). Sul versante della ricerca, Morabito ha pubblicato un saggio che indaga la persistenza del mito arcadico in letteratura, Los pastores sin ovejas SULPDGLTXHVWRHUDXVFLWREl viaje y la enfermedad (1984). Traduttore (la sua Aminta è uscita nel 2001) e docente di traduzione all’UNAM, ha curato la prima versione spagnola di tutte le poesie di Eugenio Montale.
Queste due poesie di Morabito parlano delle lingue del poeta: la lingua 1, l’italiano in cui è nato, in cui è cresciuto, e la lingua 2, lo spagnolo, quella del suo vivere quotidiano e del suo dire poetico. Sono intense perché ci parlano di un’esperienza di una costruzione del sé che viene da una decostruzione del sé. L’appropriazione di una lingua che diventa anche, inevitabilmente, disappropriazione dell’altra. La lingua madre, che sembrerebbe un’inamovibile certezza identitaria, cede invece spazio e tempo alla nuova lingua, si atrofizza la prima perché si sviluppi il muscolo della seconda. In che lingua sogni? Quante volte viene domandato a chi vive fra più lingue? Cosa significa questa domanda? Forse che nello spazio intimo del sogno si rivela anche il cuore della nostra identità? E nello spazio del sogno si parla una lingua, o il film è muto e le parole le mettiamo noi solo quando raccontiamo il sogno a qualcuno? L’italiano di Morabito diserta nei sogni, a volte. Altre volte, li abita. Allora, forse non si tratta di cercare identità in una lingua, neppure nella prima lingua, ma nella memoria del migrante, nella memoria di anni fa, come nella memoria di due giorni fa. La memoria, che ci inganna e ci tradisce, ma che ricostruisce anche i nostri brandelli, che ci rende individui unici e irrepetibili, non assimilabili al dominio di un’identità rigidamente monolinguistico-monovalente. La memoria è, forse, la traduzione al mondo del nostro sé? E la poesia? È sua figlia, come volevano i greci antichi?
* Presentiamo qui A strange fruit, indeed, l’introduzione di Stefano Strazzabosco alla raccolta Poesie di Fabio Morabito (AUIEO, Trento 2005), da lui curata e superbamente tradotta, e due poesie del poeta in spagnolo Fabio Morabito, tratte dalla stessa raccolta. Anche la nota biografica di Morabito è di Stefano Strazzabosco. Ringraziamo il blog Sur da cui abbiamo ripreso questi contributi, pubblicati il 26 maggio 2011, con il titolo “La poesia di Fabio Morabito”, in: http://blog.edizionisur.it/26-05-2011/la-poesia-di-fabio-morabito/. Ringraziamo anche Fabio Morabito e Stefano Strazzabosco per la gentile concessione.