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THE JOURNAL OF
CLINICAL AND
APPLIED RESEARCH AND
EDUCATION NUMERO TRENTASEI
Diabetes Care EDIZIONE ITALIANA A CURA DELL’ASSOCIAZIONE MEDICI DIABETOLOGI
Selezione di articoli da Diabetes Care
SETTEMBRE 2009
DIABETES CARE, JANUARY 2009
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DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 36 - SETTEMBRE 2009
Diabetes Care
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Diabetes Care EDIZIONE ITALIANA
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Terapia antipiastrinica nel diabete: efficacia e limiti delle attuali strategie di trattamento e prospettive future
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Inibizione del cotrasporto sodio-glucosio con dapagliflozin nel diabete di tipo 2
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Confronto fra una e due somministrazioni giornaliere di insulina Detemir, associata con insulina Aspart ai pasti, in terapia basal-bolus per il diabete di tipo 1 Trial ADAPT - Assessment of Detemir Administration in a Progressive Treat-To-Target Trial JEAN-PIERRE LE FLOCH, MD1 MARC LÉVY, MD2 ELEN MOSNIER-PUDAR, MD3 FRANK NOBLES, MD4 SYLVIE LAROCHE, MD5 SOPHIE GONBERT, MD, PHD5
EVELINE ESCHWEGE, MD, PHD6 PIERRE FONTAINE, MD7 THE ASSESSMENT OF DETEMIR TREAT-TO-TARGET TRIAL (ADAPT) STUDY GROUP
OBIETTIVO – Confrontare l’effetto di una e due somministrazioni giornaliere di insulina detemir in un regime basal-bolus. DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – In questo studio open-label della durata di 7 mesi pazienti affetti da diabete di tipo 1 sono stati assegnati a random per ricevere insulina detemir una o due volte al giorno in associazione a insulina aspart ai pasti. Le dosi di insulina venivano titolate nell’arco di un mese, e si effettuava il follow-up dei pazienti nell’arco dei 3 mesi successivi. Trascorso tale periodo i pazienti potevano passare da un regime all’altro, con un ulteriore follow-up non randomizzato di 3 mesi, fino a un totale di 7 mesi. L’end point primario era l A1C a 4 mesi e la non inferiorità era definita con una differenza < 0.4% tra i gruppi.
RISULTATI – L’A1C a 4 mesi per una e due somministrazioni giornaliere di insulina detemir era rispettivamente 8.1 ± 0.9 contro 8.0 ± 1.0%, con una differenza aggiustata tra i gruppi di 0.12% (95% CI –0.01 to 0.25%), evidenziando non inferiorità per una somministrazione giornaliera. Risultati simili si sono riscontrati nella popolazione per protocollo. Il miglioramento della A1C era analogo per entrambi i gruppi (–0.4 ± 0.8 vs. –0.5 ± 0.8%; P = 0.09, NS) ma con differenze nel profilo glicemico ricavato da 7 controlli. I dosaggi di detemir erano più bassi (29 ± 18 vs. 39 ± 20 units/die, P < 0.001), ma quelli di aspart più alti (34 ± 17 vs. 26 ± 14 IU/die, P < 0.001) con la monosomministrazione di detemir una volta al giorno. A 7 mesi, l’A1C diminuiva lievemente nei pazienti che passavano da una a due somministrazioni giornaliere (8.2 ± 0.8 vs. 8.0 ± 0.8%; P = 0.34, NS) in associazione con dosaggi complessivi di insulina aumentati (P < 0.05), e aumentava nei soggetti che passavano da due a una somministrazione giornaliera (7.2 ± 0.9 vs. 7.6 ± 0.8%, P < 0.05), in associazione con dosaggi diminuiti (P < 0.05). CONCLUSIONI – Sebbene alcuni soggetti traggono beneficio da uno schema che prevede due somministrazioni giornaliere, per il diabete di tipo 1 la terapia basal-bolus iniziale più indicata per la detemir è quella con una somministrazione giornaliera. Diabetes Care 32: 32-37, 2009
1Medical Clinic, Villecresnes, France; 2Max Fourestier Hospital, Nanterre, France; 3Cochin Hospital, Paris, France; 4OL Vrouwziekenhuis Hospital, Aaslt, Belgium; 5Novo Nordisk Pharmaceutics, Paris, France; 6Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale U780, Villejuif, France; 7Clinique Marc Linquette, Lille, France. Corresponding author: J.P. Le Floch,
[email protected].
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’analogo dell’insulina basale detemir differisce dall’insulina umana per l’eliminazione di un singolo aminoacido e per l’acilazione dell’acido miristico nel terminale B della molecola. Tali variazioni influiscono sulla farmacocinetica dell’insulina, prolungando l’assorbimento dal deposito sottocutaneo attraverso un meccanismo unico che prevede l’autoassociazione di molecole di detemir e un legame reversibile con l’albumina (1). Il risultato è un assorbimento prolungato, con meno picchi rispetto a quello dell’insulina NPH (2). Un’altra proprietà della detemir, che si ritiene derivi dal legame con l’albumina, è la ridotta variabilità intra-soggetto del profilo farmacodinamico (3) rispetto sia alla NPH (4,5) che all’insulina glargina (4, 6). La ridotta variabilità intra-soggetto dovrebbe teoricamente ridurre il rischio di ipoglicemia (4, 7). Tale teoria ha avuto conferma clinica nei trial comparativi con la NPH in terapia basal-bolus nel diabete di tipo 1, in cui la detemir dimostrava simile efficacia ma notevole riduzione della frequenza di ipoglicemia durante la notte, quando l’assenza del bolo di insulina che viene somministrato durante i pasti rivela le differenze nella farmacodinamica delle insuline basali (8). Rispetto all’insulina NPH, la detemir è stata anche frequentemente associata a un ridotto aumento del peso corporeo (9). Gran parte dei primi studi effettuati sull’insulina detemir nel diabete di tipo 1 prevedevano due somministrazioni giornaliere, ma da recenti analisi farmacologiche (6, 7) si ritiene che la detemir abbia un profilo farmaco-dinamico simile a quello della insulina glargina, un’insulina basale che viene abitualmente iniettata una volta al giorno. Utilizzando una definizione standard per la durata dell’azione, per la detemir è stato riportato che questa è prossima alle 24 h nel diabete di tipo 1 e più lunga nel diabete di tipo 2 (7). Inoltre, i dati ottenuti da un’osservazione effettuata su vasta scala, nello studio Predictable Results and Ex-
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perience in Diabetes through Intensification and Control to Target: An International Variability Evaluation (PREDICTIVE) si osserva che sono in maggioranza i pazienti che hanno assunto detemir una volta al giorno ad avere ottenuto miglioramenti clinicamente importanti nel proprio controllo glicemico (10), sebbene non si trattasse di un trial comparativo. Una recente analisi effettuata da parte di DeVries et al. (11) suggerisce che, sebbene una percentuale di pazienti possa trarre beneficio da due somministrazioni giornaliere di insulina basale, a lungo andare le terapie basali con due somministrazioni giornaliere tendono a fare aumentare il dosaggio totale di insulina senza che vi siano corrispondenti benefici sul controllo glicemico. Tali osservazioni mettono in discussione la routine delle due somministrazioni giornaliere di detemir per la maggior parte dei pazienti. Questo è il primo studio ad avere lo specifico disegno di stabilire se una terapia basal-bolus di routine con due somministrazioni giornaliere di detemir nel diabete di tipo 1 offra dei vantaggi clinici rispetto ad un’unica somministrazione giornaliera.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI Il trial Assessment of Detemir Administration in a Progressive Treat-to-Target (ADAPT), uno studio open-label, è stato effettuato presso centri in Belgio (6) e in Francia (193). Lo studio, della durata di 4 mesi, randomizzato, a gruppi paralleli, metteva a confronto una e due somministrazioni giornaliere di detemir, ed era poi seguito da un periodo non randomizzato di tre mesi all’inizio del quale si poteva effettuare il crossover. Lo studio comprendeva pazienti diabetici di tipo 1 diagnosticati da > 1 anno e con livelli di A1C 7.5–10%, a prescindere da qualsivoglia fosse la loro terapia insulinica prima dello studio. Tra i criteri di esclusione vi erano possibile gravidanza, utilizzo di farmaci antidiabetici orali, mancata consapevolezza di eventi ipoglicemici, gravi complicanze degenerative o malattie associate e associazioni di farmaci o condizioni tali da alterare il controllo glicemico. I criteri per il ritiro dallo studio comprendevano eventi indesiderati gravi, gravidanza, la necessità di interrompere il trattamento oggetto di studio e gravi deviazioni dal protocollo, secondo il giudizio di una commissione di studio. Per la parte randomizzata dello studio, ai pazienti venivano assegnate o una somministrazione giornaliera (prima di coricarsi) o due somministrazioni al giorno (prima di colazione e prima di cori12
carsi) di detemir, con un bolo di insulina aspart somministrato ad ogni pasto. La lista di randomizzazione è stata creata dal computer impostando una funzione aleatoria prima dell’inizio del trial e e le telefonate sono state randomizzate utilizzando il sistema Interactive Voice Response. Entrambi i tipi di insulina sono stati forniti in penne tipo FlexPen da 100 unità/3 ml (Novo Nordisk, Copenhagen, Denmark). Dopo un periodo di intensa titolazione della durata di 1 mese, vi era un follow-up di oltre tre mesi e gli end point primari venivano valutati alla fine di tale periodo. Venivano elaborate delle linee guida riguardanti i dosaggi per facilitare la titolazione e per aiutare i pazienti a passare dalla precedente terapia insulinica a quella nuova. I dosaggi iniziali di insulina detemir dovevano corrispondere ai precedenti dosaggi basali, somministrati o prima di coricarsi (gruppo con una somministrazione giornaliera) o per metà a colazione e per metà prima di coricarsi (gruppo con due somministrazioni giornaliere). Il dosaggio iniziale di insulina aspart ai pasti doveva corrispondere ai dosaggi precedentemente assunti ai pasti. Se in precedenza venivano somministrate < 3 iniezioni ai pasti, il dosaggio iniziale per le nuove iniezioni era di 4 IU. La titolazione successiva era a discrezione di medici e pazienti, ma venivano fornite delle linee guida: i dosaggi di detemir andavano titolati sulla base dei valori glicemici a digiuno nel gruppo sottoposto ad una sola somministrazione giornaliera e sulla base dei valori a digiuno e pre-cena nel gruppo sottoposto a due somministrazioni giornaliere. I dosaggi di insulina detemir dovevano essere aumentati di 6 unità se nell’arco degli ultimi 3 giorni la concentrazione glicemica media nei suddetti orari era > 180 mg/dl, di 4 unità se corrispondente a 180-165 mg/dl, di 3 unità se 165-145 mg/dl, e di 2 unità se 145-120 mg/dl. La detemir veniva diminuita di 4 unità se si osservavano livelli glicemici < 50 mg/dl e di 2 unità se i livelli erano tra 50-72 mg/dl. I dosaggi di insulina aspart dovevano essere aumentati di 6 IU se durante gli ultimi 3 giorni i livelli glicemici postprandiali medi, misurati 1-1.5 h dopo i pasti, erano > 270 mg/dl, di 4 IU se 200270 mg/dl e di 2 IU se 180-200 mg/dl. Al termine dei quattro mesi di randomizzazione, a discrezione di medici e pazienti si potevano variare i dosaggi, sebbene vi fossero le seguenti linee guida: il passaggio da una a due dosi giornaliere di detemir era consigliato se i livelli di A1C al quarto mese risultavano > 7.5% (target conforme alle linee guida europee al periodo della registrazione del trial) o
se i valori glicemici pre-cena erano frequentemente > 120 mg/dl. Il passaggio da due a una dose giornaliera di detemir era consigliato solo quando i livelli di A1C erano < 7.5%, il dosaggio di detemir a digiuno era <6 unità e i valori glicemici pre-cena erano frequentemente < 120 mg/dl. I pazienti venivano visitati al loro ingresso nello studio (basale) e a 4 e 7 mesi. I contatti telefonici avvenivano settimanalmente durante il primo mese e poi a 7, 10, 19 e 22 settimane. I livelli di A1C venivano determinati (Focus Bio-Inova Europe) mediante cromatografia liquida ad alta definizione (Bio-Rad Variant II kit). Per poter definire un profilo glicemico in sette punti, negli ultimi 14 giorni del periodo di followup di 4 mesi, si richiedeva ai pazienti di effettuare tutti i giorni l’autiomonitoraggio glicemico prima e dopo (1–1.5 h) i pasti e prima di coricarsi. Gli episodi di ipoglicemia venivano classificati come “importanti” se era necessaria assistenza, come “minori” se si osservavano livelli glicemici < 2.8 mmol/l (0.5 g/l) ma i pazienti erano in grado di gestire tali episodi da soli, o come “solo sintomi” se si avvertivano sintomi di ipoglicemia senza che vi fosse la conferma data da una misurazione della glicemia. L’ipoglicemia veniva documentata nell’arco delle 24 h e l’incidenza di ipoglicemia si basava su eventi riportati nel corso degli ultimi 14 giorni precedenti ogni visita programmata. Analisi statistiche L’end point primario era l’A1C a 4 mesi, effettuando un’analisi di non inferiorità utilizzando il metodo ANCOVA con gli aggiustamenti per i valori basali. La non inferiorità veniva definita precedentemente allo studio utilizzando il criterio concordato tra la Novo Nordisk e la U.S. Food and Drug Administration (FDA) per la fase 3 del programma di studio sull’insulina detemir, e cioè una differenza nei livelli di A1C tra i gruppi < 0.4% (12). Gli end point secondari erano analizzati mediante ANOVA, ANCOVA o il test di Wilcoxon per le variabili quantitative ed un – o test esatto di Fisher per le variabili qualitative. Il software utilizzato era il SAS (versione 8.2; SAS Institute, Cary, NC). Le analisi venivano effettuate utilizzando il metodo dell’ultima osservazione portata avanti. Ove non diversamente specificato, i risultati vengono mostrati come medie ± SD o in percentuale. I dati riguardanti i dosaggi di insulina vengono riportati col totale delle unità, ma si sono avuti simili risultati con calcolo delle unità per chilogrammo. Poiché il periodo di estensione (4–7 2
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mesi) non era controllato e i numeri delle coorti non corrispondevano, i risultati ottenuti a 7 mesi vengono presentati senza analisi statistiche tra i gruppi. I confronti intra soggetti (4 vs. 7 mesi) vengono presentati per il loro interesse clinico da un punto di vista pratico ma andrebbero considerati con la dovuta cautela.
RISULTATI Disposizione I pazienti inseriti nello studio ed assegnati a random erano in totale 520, di cui 8 non aderivano al trattamento; pertanto, la popolazione dello studio disposta a partecipare comprendeva 512 pazienti (250 con una somministrazione giornaliera di detemir e 262 con detemir somministrato due volte al giorno). Si osservavano importanti deviazioni dal protocollo in 29 dei pazienti che assumevano detemir una volta al giorno (12%) e in 26 pazienti appartenenti al gruppo che riceveva due somministrazioni giornaliere (10%) (P = 0.34, NS). Le deviazioni più comuni erano la mancata aderenza alla randomizzazione (16 pazienti; 3.1%), ritardata misurazione basale dei livelli di A1C (14 pazienti; 2.7%), e livelli di A1C che non rientravano nel range di inclusione (4 pazienti; 0.8%). Cinque pazienti (1.0%) assegnati a random a una somministrazione giornaliera di detemir passavano a due somministrazioni senza consultazione. 23 pazienti si ritiravano dal trial per via dello scarso controllo glicemico (10 vs. 5 con una somministrazione giornaliera vs. due somministrazioni di detemir, rispettivamente, P < 0.05) o disagio (2 con una somministrazione giornaliera vs. 6 con due somministrazioni di detemir, rispettivamente, P < 0.05). Tutti pazienti che effettuavano deviazioni importanti dal protocollo venivano esclusi dalla popolazione dello studio. Dati demografici All’inclusione non vi erano differenze nel gruppo sottoposti a una somministrazione di detemir rispetto al gruppo sottoposto a due somministrazioni per quanto riguarda sesso (53 vs. 52% uomini, rispettivamente, P = 0.74, NS), età (41 ± 13 vs. 42 ± 13 anni, P = 0.32, NS), BMI (25 ± 4 vs. 25 ± 4 kg/m , P = 0.08, NS), durata del diabete (16 ± 10 vs. 17 ± 10 anni, P = 0.40, NS), frequenza di complicanze degenerative (40 vs. 44%, P = 0.41, NS), dosaggi precedenti di insulina (52 ± 20 vs. 51 ± 19 IU/die, P = 0.79, NS), numero e tipo di iniezioni di insulina (due o tre iniezioni 17 vs. 16%, quattro iniezioni 70 vs. 72%, cinque o sei iniezioni 13 vs. 12%, P = 0.88, NS), A1C (8.5 ± 0.8 vs. 8.5 ± 1.0%, P = 0.71, NS) e frequenza degli eventi ipoglicemici nel corso delle 2 setti2
Basale
4 mesi
7 mesi
Basale
4 mesi
7 mesi
Figura 1 – A: Valori di A1C al controllo basale e a 4 e 7 mesi secondo la randomizzazione originale dei gruppi. ●, pazienti originariamente randomizzati ad una somministrazione giornaliera di detemir; ■, pazienti originariamente randomizzati a due somministrazioni giornaliere di detemir. B: Valori di A1C al controllo basale e a 4 e 7 mesi secondo la frequenza del dosaggio basale originale e finale. Le barre di errore mostrano la SD. ❍, pazienti che continuavano ad aderire ad una somministrazione giornaliera di detemir dopo 4 mesi; ●, pazienti che passavano da una a due somministrazioni giornaliere di detemir a 4 mesi; ❑, pazienti che continuavano ad aderire a due somministrazioni giornaliere di detemir dopo 4 mesi; ■, pazienti che passavano da due ad una somministrazione giornaliera di detemir a 4 mesi.
mane precedenti (3.3 ± 3.6 vs. 3.6 ± 4.0, P = 0.60, NS). Le malattie associate erano meno frequenti nel gruppo sottoposto ad una somministrazione giornaliera di detemir (54 vs. 64%, P < 0.05) per una minore frequenza di ipotiroidismo trattato (2.4 vs. 5.4%, P < 0.05). Dopo la randomizzazione, i dosaggi totali di insulina proposti dai medici erano simili per i due gruppi (una e due somministrazioni giornaliere di detemir rispettivamente, detemir 27 ± 12 vs. 27 ± 12 unità/die, P = 0.46, NS; aspart 25 ± 12 vs. 23 ± 12 IU/die, P = 0.64, NS). Nel gruppo sottoposto a due somministrazioni giornaliere i dosaggi di insulina detemir, prima di colazione e al momento di coricarsi, coincidevano (14 ± 6 e 14 ± 6
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unità/die, P = 0.92, NS). I dosaggi di insulina aspart erano lievemente più alti nel gruppo che riceveva una somministrazione giornaliera di detemir (colazione 7 ± 4 vs. 7 ± 4 IU/die, P = 0.06, NS; pranzo 9 ± 4 vs. 8 ± 4 IU/die, P < 0.05; cena 9 ± 5 vs. 9 ± 5 IU/die, P = 0.11, NS). Esiti clinici I dati relativi ai livelli di A1C sono riassunti nella Fig. 1. Trascorsi 4 mesi , i valori della A1C risultavano simili nei due gruppi (8.1 ± 0.9 vs. 8.0 ± 1.0% per una e due somministrazioni, rispettivamente), con una differenza aggiustata tra i gruppi dello 0.12% (95% CI –0.01 a 0.25; potere post hoc 95%), evidenziando così non inferiorità della monosomministra-
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Glicemia capillare
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Prima della colazione
Dopo Prima la colazione del pranzo
Dopo il pranzo
Prima della cena
Dopo la cena
prima di andare a dormire
Figura 2 – Profili glicemici capillari a 4 mesi nei gruppi sottoposti ad una somministrazione giornaliera (OD) e a due somministrazioni giornaliere (BID) di detemir. Sono riportati i valori glicemici medi, con le barre di errore che rappresentano le SD.
zione giornaliera. Risultati simili si sono trovati nella popolazione del protocollo (differenze aggiustata 0.13%, 95% CI –0.01 a 0.26; potere 92%). L’A1C era <7.0% nel 14.2% dei pazienti che assumevano detemir una volta al giorno e nel 15.6% dei pazienti sottoposti a due somministrazioni giornaliere di detemir (P = 0.67, NS). Il miglioramento dei livelli di A1C era analogo nei due gruppi (–0.4 ± 0.8 vs. –0.5 ± 0.8%; P = 0.09, NS). A 4 mesi, i livelli glicemici capillari risultavano più bassi del gruppo con una somministrazione giornaliera di detemir prima di colazione (P < 0.0001) ma più alti prima e dopo gli altri pasti (P < 0.02) (Fig. 2). Per entrambi i gruppi (una e due somministrazioni) vi era una lieve variazione del BMI (0.2 ± 0.8 vs. 0.2 ± 1.0 kg/m , P = 0.83, NS). La frequenza degli episodi di ipoglicemia nell’arco dei 4 mesi di randomizzazione era analoga in entrambi i gruppi (21 ± 16 vs. 24 ± 24 eventi per paziente per 14 giorni, P = 0.47, NS) senza differire per grado di severità. Non si osservavano differenze nei pattern di altri eventi indesiderati tra i gruppi. Entrambi i regimi erano ben tollerati e la maggior parte degli eventi indesiderati non erano considerati correlati ai farmaci monitorati durante lo studio.
liera di detemir (34 ± 17 vs. 26 ± 14 IU/die, P < 0.001 [colazione 9 ± 6 vs. 7 ± 5, P < 0.01; pranzo 11 ± 6 vs. 8 ± 4, P < 0.001; cena 14 ± 7 vs. 11 ± 7, P < 0.001]). Follow-up non randomizzato da 4 a 7 mesi Dopo il periodo di randomizzazione di 4 mesi, molti dei pazienti proseguivano lo studio con due somministrazioni giornaliere di detemir (172 dal gruppo sottoposto a una somministrazione e 226 dal gruppo che riceveva due somministrazioni), con 33 patienti (13%) che continuavano con una sola somministrazione giornaliera di detemir e 10 (4%) che passavano da due a una somministrazio-
ne giornaliera di detemir. Non si riscontravano differenze nei dati demografici basali o riguardanti la malattia tra i pazienti che continuavano con una somministrazione giornaliera di detemir o che passavano a due somministrazioni/die di detemir o tra pazienti che continuavano con due somministrazioni giornaliere di detemir o che passavano a una somministrazione/die di detemir. I livelli di A1C a 4 e 7 mesi di terapia con insulina detemir sono mostrati nella Fig. 1B. Nei pazienti che continuavano a ricevere una somministrazione giornaliera di detemir, l’A1C era 7.2 ± 0.9% a 4 mesi, rimanendo stabile fino a 7 mesi a 7.4 ± 0.9% (P = 0.18, NS, prima vs. dopo il cambio). Per i pazienti che passavano da una a due somministrazioni giornaliere di detemir, l’A1C era rispettivamente 8.2 ± 0.8 e 8.0 ± 0.8%, a 4 e a 7 mesi (P = 0.34, NS, prima vs. dopo il cambio di terapia). L’A1C rimaneva stabile tra 4 e 7 mesi nei pazienti che continuavano con due somministrazioni giornaliere di detemir (8.0 ± 1.0 and 8.0 ± 1.1%, P = 0.89), ma per quelli che passavano da due ad una somministrazione giornaliera di detemir, livelli di A1C aumentavano da 7.2 ± 0.9 a 7.6 ± 0.8% (P < 0.05, prima vs. dopo il cambio di terapia, rispettivamente). I dati riguardanti i dosaggi di insulina a 4 e 7 mesi sono presentati come effettivo regime basale di insulina nella Fig. 3. Si sono osservati lievissimi aumenti nei dosaggi totali di insulina tra i pazienti che continuavano a seguire i propri regimi originali (una somministrazione giornaliera P = 0.76, NS; due somministrazioni giornaliere P = 0.64,
Dosaggi di insulina I dosaggi totali di insulina erano simili sia per il gruppo sottoposto a una somministrazione giornaliera di detemir che per quello sottoposto a due somministrazioni (62 ± 31 vs. 64 ± 29 unità/die, rispettivamente, P = 0.34, NS), ma i dosaggi di detemir erano minori con la monosomministrazione (29 ± 18 vs. 39 ± 20 unità/die, P < 0.001). Le dosi di aspart, invece, erano più alte per il gruppo che riceveva una somministrazione giorna14
Dose di insulina
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Una dose di detemir
Da una o due dosi di detemir a 4 mesi
Due dosi di detemir
Da due a una dosi di detemir a 4 mesi
Figura 3 – Dosaggi di detemir e aspart dopo 4 e 7 mesi in quattro gruppi di pazienti. Si osservavano variazioni significative dei dosaggi totali di insulina (4 vs. 7 mesi; P < 0.05) nei pazienti che passavano da una (OD) a due somministrazioni giornaliere (BID) e da due ad una somministrazione giornaliera di detemir. La significatività rappresenta la variazione del dosaggio totale di insulina. ❒, aspart totale; ■, detemir a colazione; ■, detemir prima di coricarsi. d, giorno.
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NS), un lieve aumento nei pazienti che passavano da una a due somministrazioni giornaliere di detemir (P < 0.05), ed un marcato aumento nei pazienti che passavano da due ad una somministrazione giornaliera di detemir (P < 0.05).
CONCLUSIONI La maggior parte dei trial clinici con insulina detemir somministrata in terapia basal-bolus nel diabete di tipo 1 prevedeva due somministrazioni giornaliere. In uno studio vi erano dosaggi con una e due somministrazioni giornaliere (13), e un altro utilizzava una somministrazione giornaliera di detemir ma in abbinamento con insulina regolare umana invece di un analogo dell’insulina ad azione rapida ai pasti (14). L’adozione della terapia basal-bolus con una somministrazione giornaliera di detemir non è pertanto ben documentata da tali trial; eppure l’evidenza farmacodinamica suggerisce che sia possibile l’adozione di questa più pratica terapia (7). Questo è il primo studio a mettere a confronto una e due somministrazioni giornaliere di detemir come componente basale di una terapia basal-bolus in un disegno di trial randomizzato. I pazienti studiati erano adulti con diabete di tipo 1, diagnosticati da > 1 anno, vale a dire con scarsa o assente secrezione di insulina endogena, rendendo pertanto questo test adatto a valutare le differenze negli end point clinici attribuibili a differenze nei dosaggi di insulina basale. Inoltre il controllo glicemico basale dei pazienti era scarso nonostante il fatto che la grande maggioranza di essi seguissero una terapia basal-bolus; la coorte osservata si può dunque ritenere valida per poter effettuare una valutazione della mono-somministrazione giornaliera di detemir. I risultati a 4 mesi suggeriscono che, in media, una terapia che prevede due somministrazioni giornaliere non porta alcun vantaggio clinico significativo rispetto a una somministrazione. I livelli medi di A1C (Fig. 1A) e la percentuale dei pazienti che raggiungevano livelli di A1C < 7.0% non differivano significativamente tra i gruppi durante questo periodo, mentre i dosaggi basali e (in minor misura) i dosaggi totali di insulina aumentavano nel gruppo sottoposto a due somministrazioni giornaliere, a conferma di quanto osservato da cDeVries et al. (11). Tale incremento del dosaggio risultava evidente anche nel passaggio da una a due somministrazioni giornaliere di detemir (Fig. 3). I dati ottenuti a 4 mesi in nostro possesso suggeriscono pertanto che la routine di due somministrazioni giornaliere di detemir non è necessaria: una somministrazione giornaliera di insulina va considerata come terapia standard. Va tuttavia puntualizzato che vi è sta-
to un certo numero di soggetti che non hanno completato il trial a causa degli scarsi risultati ottenuti, nel gruppo sottoposto ad una somministrazione giornaliera e che si sono osservate delle differenze nelle medie dei profili glicemici diurni a 4 mesi (Fig. 2), con la glicemia tendente al basso prima di colazione ma al rialzo nel corso della giornata dopo la mono-somministrazione serale. Anche queste situazioni coincidono con quanto riportato da DeVries et al. (11) riguardo agli studi effettuati sull’insulina glargina (15-17). Poiché questi profili glicemici mostrano valori medi, l’implicazione è che per alcuni individui sottoposti ad una somministrazione giornaliera di detemir vi sarà un aumento dei livelli glicemici che raggiungerà punte più estreme, e per costoro potrebbe essere meglio passare a due somministrazioni giornaliere. Anche il suddetto scenario è stato precedentemente descritto in studi effettuati sull’insulina glargina (15,17,18). Nel considerare i dati del follow-up a 7 mesi vi sono poche variazioni rispetto ai gruppi originali (Fig. 1B), a sostegno dell’opinione che una somministrazione giornaliera rappresenti la terapia iniziale più appropriata per l’insulina detemir. Questo trial non era tuttavia uno studio crossover randomizzato. I criteri glicemici mediante i quali i crossovers erano consigliati falsano i risultati ottenuti a favore della doppia somministrazione giornaliera, poiché i soggetti che non traevano grandi benefici dalla monosomministrazione preferivano passare alla doppia somministrazione giornaliera, mentre erano soltanto coloro che avevano una buona risposta dalle due somministrazioni giornaliere a voler passare alla singola somministrazione serale. L’evidenza di quanto affermato è riportata nella Fig. 1B, e vale la pena notare che dopo 4 mesi i pazienti che continuavano ad aderire alla singola somministrazione giornaliera avevano livelli di A1C molto più bassi rispetto a coloro che passavano alle due somministrazioni. Invece i pazienti che passavano da due ad una somministrazione giornaliera avevano dopo 4 mesi livelli di A1C molto più bassi di quelli che continuavano con una somministrazione giornaliera. È interessante notare che, sebbene l’A1C tendesse a diminuire nel periodo tra i 4 e i 7 mesi nei pazienti ai quali era stato chiesto di passare da una a due somministrazioni giornaliere, la magnitudo di tale variazione era limitata e (0.2% A1C) al di sotto del criterio concordato a priori con la FDA per la significatività clinica. I pazienti con un buon controllo glicemico trattati con due somministrazioni giornaliere di detemir e che passavano ad una somministrazione giornaliera al 4° mese mo-
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stravano livelli aumentati di A1C, di magnitudo considerata clinicamente significativa (0.4%, P < 0.05). Ciò nonostante, al 7° mese i livelli di A1C in questa coorte (7.6%) erano più bassi rispetto ai pazienti che continuavano ad essere trattati con due dosi giornaliere per l’intero periodo e più bassi di quelli della coorte che passava da una a due somministrazioni giornaliere. Va anche notato un marcato aumento dei dosaggi totali di insulina nei pazienti che passavano da due ad una somministrazione giornaliera di detemir, con l’eliminazione del dosaggio basale del mattino e con la dose serale apparentemente non sufficientemente aumentata per compensare (Fig. 3). Nel complesso, ancora una volta queste osservazioni inducono a considerare la terapia iniziale con una somministrazione giornaliera di detemir come efficace, sebbene la lieve controtendenza nei livelli di A1C in alcuni pazienti dopo il cambio di terapia suggerisce che per una piccola percentuale di pazienti la terapia con due somministrazioni giornaliere possa essere più efficace. Una limitazione del nostro studio è data dal disegno in aperto, scelto per evitare una complicata programmazione di iniezioni in doppio cieco. Tale disegno avrà probabilmente influenzato l’alto numero di pazienti passati da una a due somministrazioni giornaliere di detemir al completamento della fase randomizzata. Dopo avere avuto l’opportunità di cambiare terapia al 4° mese, il 28% dei pazienti trattati con una somministrazione giornaliera di detemir avevano livelli di A1C < 7.5%, eppure solamente il 13% di questi sceglievano di continuare ad aderire a questo regime. È possibile che sia pazienti che medici siano stati influenzati dall’idea preconcetta che una terapia con due somministrazioni giornaliere potesse raggiungere un miglior controllo glicemico; mediamente, tuttavia, il passaggio da una a due somministrazioni giornaliere apportava miglioramenti soltanto marginali. Un altro limite del nostro studio potrebbe consistere nel fatto che i dati andrebbero esaminati nel contesto dei nuovi target consigliati dalle moderne linee guida. Sebbene vi fossero delle linee guida, per la maggior parte la titolazione veniva effettuata a discrezione di pazienti e medici; questo studio non può pertanto essere considerato lo studio di una terapia mirata a raggiungere uno specifico target. Ad esempio, i pazienti che passavano da due ad una somministrazione giornaliera tendenzialmente non compensavano per l’immediata riduzione del dosaggio basale di insulina. Tuttavia la coorte studiata era formata da pazienti diabetici di tipo 1 con scarso controllo glicemico basale
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(A1C 8.5%), nonostante seguissero terapia multi-iniettiva (da quattro a sei iniezioni al giorno), cosicché il miglioramento medio corrispondente allo 0.4–0.5% nell’arco di 4 mesi potrebbe raggiungere aspettative cliniche realistiche. In conclusione, questo studio complessivamente dimostra la non inferiorità della mono-somministrazione giornaliera sulla base di un criterio a priori quando l’insulina detemir è utilizzata in terapia basal-bolus nel diabete di tipo 1. Questi dati suggeriscono tuttavia anche l’esistenza di un sottogruppo di pazienti i quali traggono maggiore beneficio da due somministrazioni giornaliere, fatto dimostrato anche in studi effettuati sull’insulina glargina (15-17). Nei singoli pazienti, dunque, in cui si osserva una scarsa risposta complessiva con alti valori glicemici preprandiali, l’aggiunta di una seconda somministrazione di detemir, fatto che vale anche per tutti gli altri tipi di insulina basale, non è da sottovalutare. Come regime standard, tuttavia, la detemir andrebbe somministrata una volta al giorno nella terapia basal-bolus dei pazienti diabetici di tipo 1 poiché, in media, ciò porta ad analoghi livelli di A1C con un minor numero di iniezioni. Bibliografia
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Controllo glicemico intensivo e prevenzione di eventi cardiovascolari: Implicazioni dei trial ACCORD, ADVANCE e VADT Posizione ufficiale della American Diabetes Association e posizione scientifica dell’American College of Cardiology Foundation e dell’American Heart Association JAY S. SKYLER, MD, MACP1 RICHARD BERGENSTAL, MD2 ROBERT O. BONOW, MD, MACC, FAHA3 JOHN BUSE, MD, PHD4 PRAKASH DEEDWANIA, MD, FACC, FAHA5 EDWIN A.M. GALE, MD6 l diabete è caratterizzato dalla specifica correlazione con le complicanze microvascolari causate da iperglicemia; esso comporta tuttavia anche un rischio aumentato da due a quattro volte di malattie cardiovascolari (CVD). Sebbene le complicanze microvascolari possano essere all’origine di livelli significativi di morbidità e mortalità prematura, certamente le CVD sono la causa di decesso più frequente nei soggetti diabetici. Dai risultati ottenuti da studi clinici controllati randomizzati si evince in maniera inconfutabile che nei soggetti diabetici di tipo 1 (1, 2) e di tipo 2 (3–5) si può ridurre il rischio di complicanze microvascolari effettuando un controllo glicemico intensivo. Nel Diabetes Control and Complications Trial (DCCT), si è osservata una riduzione di ~60% dello sviluppo o dell’aggravarsi di retinopatia, nefropatia e neuropatia nel gruppo sottoposto a controllo intensivo (target A1C < 6.05%, A1C media raggiunta ~7%) rispetto al gruppo standard (A1C ~9%) per un periodo di circa 6.5 anni. La connessione tra controllo glicemico (sulla base del valore medio di A1C del momento) e il rischio di complicanze era log-lineare e andava abbassandosi fino al range normale
I
BARBARA V. HOWARD, PHD6,7 M. SUE KIRKMAN, MD8 MIKHAIL KOSIBOROD, MD, FACC9 PETER REAVEN, MD10 ROBERT S. SHERWIN, MD11
di A1C (< 6%) senza evidenza di livelli di soglia. Nello UK Prospective Diabetes Study (UKPDS), i partecipanti con diabete di tipo 2 sono stati seguiti per 10 anni e si è riscontrato che, rispetto al trattamento convenzionale (mediana A1C 7.9%) col controllo intensivo (mediana A1C 7.0%) vi era una diminuzione delle complicanze microvascolari del 25%. Anche in questo caso le analisi secondarie hanno mostrato una connessione continua tra il rischio di complicanze microvascolari e glicemia che si estendeva fino al range normale di A1C, senza soglia glicemica. Sulla base di questi due grandi trial controllati, oltre che di studi effettuati su scala ridotta e numerosi report epidemiologici, le osservazioni riguardanti l’effettiva connessione tra la riduzione del rischio microvascolare ed il controllo glicemico intensivo hanno portato l’American Diabetes Association (ADA) a raccomandare il target di A1C < 7% per la maggior parte dei diabetici adulti (6), riconoscendo che obiettivi che implicano maggiore o minore rigidità possono essere appropriati per determinati pazienti. Laddove molte meta-analisi e studi epidemiologici (7, 8) hanno chiaramente mostrato una diretta
1University
of Miami, Miami, Florida; 2International Diabetes Center at Park Nicollet, Minneapolis, Minnesota; 3Northwestern University Feinberg School of Medicine, Chicago, Illinois; 4University of North Carolina, Chapel Hill, North Carolina; 5VA Central California Healthcare System, University of California San Francisco, Fresno, California; 6University of Bristol, Bristol, U.K; 7MedStar Research Institute, Hyattsville, Maryland; 8American Diabetes Association, Alexandria, Virginia; 9Mid America Heart Institute of Saint Luke’s Hospital and the University of Missouri-Kansas City, Kansas City, Missouri; 10Carl T. Hayden VA Medical Center, Phoenix, Arizona; 11Yale University School of Medicine, New Haven, Connecticut Autore corrispondente: M. Sue Kirkman,
[email protected]
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connessione tra A1C e CVD, la capacità del controllo glicemico intensivo di ridurre gli eventi di CVD non è stata definita in maniera altrattanto chiara. Nel DCCT sussisteva un trend verso un minor rischio di eventi di CVD con un controllo intensivo (riduzione del rischio 41% [95% CI 1068]), ma ciò era sulla base di un basso numero di eventi. Tuttavia, un follow-up post-DCCT della coorte della durata di 9 anni ha mostrato che per i partecipanti precedentemente randomizzati al braccio intensivo vi era una riduzione del 42% (P = 0.02) nell’esordio di CVD ed una riduzione del 57% (P = 0.02) per il rischio di infarto del miocardio non fatale (MI), stroke o decesso causato da CVD, rispetto ai partecipanti precedentemente inseriti nel braccio standard (9). Nello UKPDS effettuato sul diabete di tipo 2 si è osservata una riduzione del 16% delle complicanze cardiovascolari (MI fatale o non fatale e morte improvvisa combinati) nel braccio del controllo glicemico intensivo, sebbene tale differenza non fosse statisticamente significativa (P = 0.052), e non vi fosse nulla che facesse pensare a dei possibili benefici su altri eventi di CVD come lo stroke. In una analisi epidemiologica della coorte di studio, tuttavia, si è osservata un’associazione costante: per ogni punto percentuale di riduzione della A1C (ad es., 8-7%) vi era una riduzione statisticamente significativa del 18% negli eventi di CVD, sempre senza soglia glicemica. Non avendo la certezza che il controllo glicemico intensivo possa ridurre il rischio aumentato di CVD nei soggetti con diabete di tipo 2, nel corso dell’ultimo decennio sono stati avviati parecchi trial a lungo termine per confrontare gli effetti del controllo glicemico intensivo rispetto ai controlli standard sugli eventi di CVD in partecipanti con diabete di tipo 2 conclamato, relativamente ad alto rischio. Nel corso del 2008 due di questi trial, Action in Diabetes and Vascular Disease–Preterax and Diamicron Modified Release Controlled Evaluation (ADVANCE) ed il Vete-
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Tabella 1– Confronto dei tre trial su controllo glicemico intensivo ed esiti di CVD
Caratteristiche dei partecipanti n Età media (anni) Durata del diabete (anni) Sesso (% maschi/femmine) Anamnesi di CVD (%) BMI (kg/m2) Livelli medi basali di A1C (%) Già trattati con insulina al basale (%) Caratteristiche del protocollo Livelli target di A1C (%) (I vs. S)*
Protocollo per il controllo glicemico (I vs. S)*
Gestione di altri fattori di rischio Caratteristiche dello studio Durata media del follow-up (anni) Livelli medi di A1C raggiunti (%) (I vs. S)* Trattati con insulina al termine dello studio (%) (I vs. S)* Trattati con TZD al termine dello studio (%) (I vs. S)* Trattati con statina al termine dello studio(%) (I vs. S)* Trattati con aspirina al termine dello studio (%) (I vs. S)* Fumatori al termine dello studio (%) Pressione arteriosa media al termine dello studio(mmHg) Gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo Gruppo sottoposto a controllo glicemico standard Variazioni del peso (kg) Gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo Gruppo sottoposto a controllo glicemico standard Ipoglicemia severa (partecipanti con uno o più episodi durante lo studio) (%) Gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo Gruppo sottoposto a controllo glicemico standard Risultati Definizione degli esiti primari
ACCORD
ADVANCE
VADT
10,251 62 10 39/61 35 32 8.1 35
11,140 66 8 42/58 32 28 7.2 1.5
1,791 60 11.5 97/3 40 31 9.4 52
<6.0 vs. 7.0–7.9
≤ 6.5 vs. “in base alle linee guida locali”
Molteplici farmaci in entrambi i gruppi
Molteplici farmaci associati a gliclazide vs. molteplici farmaci non associati a gliclazide Trial su pressione arteriosa
<6.0 (agire se >6.5) vs. separazione pianificata di1.5 Molteplici farmaci in entrambi i gruppi
Trial su lipidi e pressione arteriosa
Protocollo di trattamento intensivo in entrambi i gruppi
3.5 (interrotto precocemente) 6.4 vs. 7.5 77 vs. 55*
5 6.3 vs. 7.0 40 vs. 24
5.6 6.9 vs. 8.5 89 vs. 74
91 vs. 58*
17 vs. 11
53 vs. 42
88 vs. 88*
46 vs. 48
85 vs. 83
76 vs. 76*
57 vs. 55
88 vs. 86
10
8
8
126/67
136/74
127/68
127/68
138/74
125/69
+3.5
_0.1
+7.8
+0.4
_1.0
+3.4
16.2
2.7
21.2
5.1
1.5
9.9
MI non fatale, stroke non fatale, decesso per CVD
Esiti micro e macro vascolari (MI non fatale, stroke non fatale, decesso per CVD)
HR per gli esiti primari (95% CI)
0.90 (0.78–1.04)
HR per riscontro di mortalità (95% CI)
1.22 (1.01–1.46)
0.9 (0.82–0.98); macrovascolare 0.94 (0.84–1.06) 0.93 (0.83–1.06)
MI non fatale, stroke non fatale, decesso per CVD, ricovero ospedaliero per scompenso cardiaco, rivascolarizzazione 0.88 (0.74–1.05)
1.07 (0.81–1.42)
* I farmaci utilizzati dall’ACCORD si riferiscono a qualunque uso nel corso dello studio. I, controllo glicemico intensivo; S, controllo glicemico standard; TZD, tiazolidinedioni.
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rans Affairs Diabetes Trial (VADT), sono giunti al termine, senza mostrare alcuna riduzione significativa per quanto concerne gli eventi cardiovascolari in connessione ad un controllo glicemico intensivo. Lo studio sul controllo glicemico in un terzo trial, Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes (ACCORD), è stato interrotto quando si è constatata un’aumentata mortalità nei partecipanti sottoposti ad un controllo glicemico intensivo che aveva un target di A1C < 6%. Quanto osservato da questi tre importanti trial ha fatto sì che l’ADA, insieme ai rappresentanti dell’American Heart Association (AHA) e dell’American College of Cardiology (ACC), rivedesse le proprie linee guida riguardo al target glicemico nei pazienti diabetici, la maggior parte dei quali di tipo 2.
Cos’hanno evidenziato i trial ACCORD, ADVANCE e VA Diabetes? La Tabella 1 mostra in sintesi caratteristiche basali, strategie e obiettivi del trattamento glicemico, controllo dei fattori di rischio concomitanti, controllo glicemico raggiunto e principali risultati di ciascuno dei tre summenzionati studi. Lo studio ACCORD ha sottoposto a random 10251 partecipanti, i quali avevano o una storia di un evento CVD (età 40-79 anni) o rischio di CVD significativo (età 55–79 anni con CVD anatomica, albuminuria, ipertrofia del ventricolo sinistro, o o almeno altri due fattori di rischio di CVD), ad una strategia di controllo glicemico intensivo (target di A1C < 6.0%) o di controllo glicemico standard (target di A1C 7.0-7.9%). I ricercatori hanno utilizzato molteplici terapie in entrambi i gruppi. I partecipanti all’ACCORD avevano un’età media di 62 anni con diabete della durata media di 10 anni ed il 35% di essi erano già trattati con insulina al momento del controllo basale. La mediana di A1C basale, corrispondente all’8.1% per il gruppo sottoposto a controllo intensivo, raggiungeva un livello del 6.4% entro 12 mesi dall’inizio della randomizzazione, mentre la mediana di A1C del gruppo standard raggiungeva il 7.5%. Gli altri fattori di rischio sono stati trattati in maniera aggressiva e analoga per entrambi i gruppi. Il gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo faceva maggiore uso di insulina in combinazione con diversi agenti ipoglicemizzanti orali, mostrava un aumento di peso significativamente maggiore ed un numero più alto di episodi di ipoglicemia grave rispetto al gruppo standard. Nel Febbraio 2008, lo studio sul controllo glicemico dell’ACCORD veniva interrotto dalla commissione addetta al monitoraggio dei livelli di sicurezza dello studio (continuano gli altri studi su pres-
sione arteriosa e profilo lipidico) quando veniva riscontrata una aumentata mortalità nel gruppo intensivo rispetto al gruppo standard (1.41 vs. 1.14% l’anno; 257 vs. 203 decessi nel corso di un periodo di follow-up della durata media di 3.5 anni; hazard ratio [HR] 1.22 [95% CI 1.01–1.46]); vi era un analogo aumento dei decessi dovuti a eventi cardiovascolari. L’obiettivo primario di ACCORD (MI, stroke o decesso cardiovascolare) risultava ridotto nel gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo, per via di una diminuzione dei casi di MI non fatale, sebbene tali dati non risultassero statisticamente significativi al momento in cui lo studio veniva interrotto (0.90 [0.78-1.04], P = 0.16). Dalle analisi esplorative effettuate sui decessi verificatisi nel corso dell’ACCORD (valutando alcune variabili tra cui l’aumento di peso, l’utilizzo di specifici farmaci o combinazioni di farmaci ed episodi di ipoglicemia) non si è riusciti a trovare cosa potesse spiegare l’eccessivo aumento di mortalità nel gruppo intensivo (10). In entrambi i gruppi di studio, la mortalità risultava maggiore nei partecipanti che avevano avuto episodi di ipoglicemia severa rispetto a coloro che non avevano avuto tali episodi. Risultava esservi una complessa interazione tra ipoglicemia, gruppo di studio e mortalità: tra i partecipanti che avevano avuto almeno un episodio di ipoglicemia severa, la mortalità risultava più alta nel gruppo sottoposto al trattamento standard, mentre tra i partecipanti che non avevano una storia di ipoglicemie severe, la mortalità risultava più alta nei pazienti sottoposti a trattamento intensivo. Altre analisi effettuate su altri aspetti mostravano che i partecipanti senza precedenti eventi CVD e quelli che avevano livelli basali di A1C < 8% riportavano una riduzione statisticamente significativa riguardo ai principali esiti CVD. Lo studio ADVANCE ha sottoposto 11140 partecipanti scelti a random e sparsi in Europa, Australia/Nuova Zelanda, Canada e Asia a controllo glicemico intensivo (la terapia adottata prevedeva la sulfonilurea gliclazide ed altri farmaci necessari per raggiungere un livello target di A1C ≤ 6.5%) o ad una terapia standard (in cui si poteva utilizzare qualsiasi farmaco tranne la gliclazide e il target glicemico veniva fissato secondo le “linee guida locali”). I soggetti che partecipavano all’ADVANCE (che dovevano avere almeno 55 anni di età e o una malattia vascolare nota o quantomeno un altro fattore di rischio vascolare) erano lievemente più anziani e ad alto rischio di CVD, analogamente ai partecipanti dell’ACCORD. Tuttavia la durata media del diabete era inferiore di 2 anni, i livelli basali di A1C erano più bassi (mediana 7.2%) e quasi nessuno
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era trattato con insulina al momento dell’inserimento nello studio. I livelli mediani di A1C raggiunti nel gruppo intensivo e in quello standard erano rispettivamente 6.3 e 7.0% e si sono impiegati anni per raggiungere la separazione massimale tra i gruppi. L’utilizzo di altri farmaci che hanno un impatto favorevole sul rischio di CVD (aspirina, statine, inibitori ACE) era minore nell’ADVANCE rispetto all’ACCORD o al VADT. Il principale esito dell’ADVANCE era una combinazione di eventi microvascolari (nefropatia e retinopatia) e cardiovascolari (MI, stroke e decesso cardiovascolare). Il controllo glicemico intensivo riduceva significativamente l’end point primario(HR 0.90 [95% CI 0.82–0.98], P = 0.01), sebbene ciò fosse dovuto ad una significativa riduzione dell’esito microvascolare (0.86 [0.77–0.97], P = 0.01), principalmente la comparsa di macroalbuminuria, senza alcuna significativa riduzione degli esiti macrovascolari (0.94 [0.84-1.06], P = 0.32). Non risultavano esservi aumenti della mortalità complessiva o cardiovascolare nel gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo rispetto a quello sottoposto al controllo standard (11). Il VADT ha randomizzato 1791 partecipanti affetti da diabete di tipo 2 non controllato e trattati con insulina o dosaggi massimi di agenti ipoglicemizzanti orali (livello mediano di A1C 9.4% all’inizio dello studio) a controllo glicemico intensivo (target A1C < 6.0%) o controllo glicemico standard, pianificando una separazione della A1C corrispondente ad almeno 1.5%. Per raggiungere i targetti glicemici specificati si utilizzavano algoritmi di terapia, con l’obiettivo di utilizzare farmaci analoghi per entrambi i gruppi. Per il gruppo intensivo ed il gruppo standard si sono raggiunti livelli mediani di A1C rispettivamente di 6.9 e 8.5% dopo 12 mesi dall’inizio dello studio. Altri fattori di rischio CVD venivano trattati in maniera aggressiva ed analoga in entrambi i gruppi, con un controllo della pressione arteriosa eccellente, un alto uso di aspirina e statina ed un alto numero di pazienti che smettevano di fumare (12). Il principale esito del VADT era una combinazione di eventi CVD (MI, stroke, decesso cardiovascolare, rivascolarizzazione, ricovero per scompenso cardiaco e amputazione per ischemia). Durante un periodo di follow-up della durata media di 5.6 anni, l’incidenza cumulativa dell’esito primario non risultava essere significativamente più bassa nel gruppo intensivo (HR 0.88 [95% CI 0.74-1.05], P = 0.12). Vi era un maggior numero di decessi dovuti a CVD nel gruppo intensivo rispetto al gruppo standard (38 vs. 29, decessi improvvisi 11 vs. 4), ma tale differenza non era statisticamente significativa. Analisi di
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sottogruppi a posteriori suggeriscono che la durata del diabete abbia interagito con la randomizzazione, cosicché i partecipanti diabetici da meno di 12 anni sembravano avere benefici a livello di CVD con il controllo glicemico intensivo, laddove coloro che erano diabetici da più tempo al momento dell’inserimento nello studio non godevano di effetti benefici, o addirittura avevano effetti negativi con il controllo glicemico intensivo. Altre analisi esplorative suggeriscono che episodi di ipoglicemia severa occorsi durante gli ultimi 90 giorni possano essere fortemente predittivi di esiti importanti e di mortalità dovuta a CVD, anche se l’associazione tra ipoglicemia severa e mortalità per tutte le cause era evidente solo per i partecipanti del gruppo standard. Uno studio secondario inserito nel VADT ha evidenziato che gli score del calcio coronarico o aortico erano predittivi di futuri eventi di CVD e che il controllo glicemico intensivo riduceva significativamente l’end point di CVD nei soggetti con un basso score basale del calcio coronarico ma non nei soggetti con score alti al controllo basale.
2. Quali sono le potenziali spiegazioni per l’aumento dei decessi per CVD correlati al controllo glicemico intensivo nell’ACCORD? Le analisi effettuate a posteriori non hanno dato risultati tali da accertare o escludere determinate cause; il disegno stesso dello studio rende tali “prove” non attendibili. La randomizzazione nel gruppo intensivo è stata associata o ha portato a molti effetti negativi, come una più alta frequenza di episodi di ipoglicemia severa; somministrazione di dosaggi maggiori di insulina, tiazolidinedioni, altri farmaci e combinazioni di farmaci e un maggiore aumento del peso corporeo. Tali fattori potrebbero essere statisticamente associati alla maggiore mortalità nel gruppo intensivo, pur senza esserne la causa. È biologicamente plausibile che l’ipoglicemia severa possa aumentare il rischio di decesso cardiovascolare nei partecipanti ad alto rischio di CVD. Un ulteriore motivo di confusione potrebbe essere una mancata consapevolezza dell’ipoglicemia, particolarmente nei pazienti già affetti da neuropatia autonomica cardiovascolare (un importante fattore di rischio di morte improvvisa). Il decesso dovuto ad un evento ipoglicemico potrebbe essere erroneamente attribuito a malattia coronarica, in quanto potrebbe non essere stata effettuata una misurazione del livello glicemico e poiché da una autopsia non è possibile determinare se il decesso sia avvenuto a causa di un’ipoglicemia. Tra le altre possibili cause dell’aumento di mortalità nell’ACCORD vi sono l’aumento del peso 20
corporeo, effetti o interazioni di altri farmaci non rilevati, o “l’intensità” dell’impatto dell’ACCORD (utilizzo di molteplici farmaci ipoglicemizzanti orali unitamente ad elevati dosaggi di insulina, frequenti aggiustamenti della terapia per portare i livelli di A1C e dell’auto monitoraggio glicemico a livelli di target molto bassi, ed un intenso sforzo per ridurre rapidamente i livelli di A1C dei partecipanti inseriti nel trial, con diabete in stato avanzato e molteplici comorbidità, di ~2%). Poiché nel trial ADVANCE non si osservava alcun aumento della mortalità nel gruppo sottoposto a controllo glicemico intensivo, sono formulabili ulteriori ipotesi esaminando le differenze fra i trial ADVANCE e ACCORD. Nei soggetti inseriti nell’ADVANCE la durata del diabete era mediamente minore di circa 2-3 anni, con livelli di A1C più bassi e minor uso di insulina all’inserimento nello studio. I livelli di A1C si abbassavano più gradualmente, nel trial ADVANCE, e non si riscontravano significativi aumenti di peso. Sebbene la definizione di ipoglicemia severa differisse lievemente fra i tre trial, sembra che questa si sia verificata in meno del 3% dei partecipanti all’ADVANCE sottoposti al trattamento intensivo per l’intera durata dello studio (mediana 5 anni), rispetto a ~16% dei soggetti facenti parte del gruppo intensivo nell’ACCORD ed al 21% dei soggetti nel VADT. È possibile che l’aumento della mortalità nell’ACCORD fosse complessivamente legato alle strategie di trattamento mirate a intensificare il controllo glicemico nella popolazione dello studio – non il livello raggiunto di A1C di per se. Nello studio ADVANCE il gruppo intensivo ha raggiunto una mediana di A1C analoga a quella dell’ACCORD, senza che vi fosse un aumentato rischio di mortalità. La mortalità riscontrata nell’ACCORD non implica pertanto che i pazienti affetti da diabete di tipo 2 che possono facilmente raggiungere o mantenere livelli bassi di A1C modificando il proprio stile di vita con o senza farmacoterapia siano a rischio e debbano “innalzare” il proprio livello di A1C.
3. Perché nessuno dei trial ha evidenziato un significativo apporto benefico del controllo glicemico intensivo sulla CVD nel diabete di tipo 2 – in controtendenza rispetto a molti studi epidemiologici e allo studio di follow-up del DCCT? Sebbene i trial randomizzati controllati spesso confermino le ipotesi fondate sull’evidenza riscontrata o su studi fisiologici di end point surrogati, questa certa-
mente non è la prima volta che tali trial non riescono nel proprio intento. I risultati ottenuti da ACCORD, ADVANCE e VADT mettono in evidenza il bisogno critico di trial randomizzati controllati che diano risultati clinici significativi, come appunto in questi trial, per riuscire a rispondere a quesiti della massima importanza. Nei tre trial mirati all’abbassamento della glicemia, altri fattori di rischio di CVD sono stati trattati a livello moderato o alto e a causa di ciò, probabilmente, nel gruppo standard tutti i soggetti mostravano livelli più bassi di CVD rispetto a quanto originariamente previsto. È ben riscontrabile l’evidenza della prevenzione di CVD con terapia a base di statina, farmaci per la pressione arteriosa, terapia con aspirina per i partecipanti ad alto rischio e altri interventi. Nel diabete di tipo 2, in cui vi è un’alta prevalenza di fattori di rischio di CVD, potrebbe essere difficile dimostrare i benefici aggiuntivi apportati dal controllo glicemico tranne che in trial ancora più estesi o di maggiore durata. È possibile che anche se si potesse dimostrare un vero beneficio apportato dall’abbassamento glicemico sulla CVD nel diabete di tipo 2, questo sarebbe modesto e andrebbe comunque di pari passo col al trattamento di altri fattori di rischio per CVD. In aggiunta a ciò, i tre trial hanno messo a confronto il trattamento dei livelli di A1C osservando la parte più “piatta” delle curve di rischio glicemia-CVD (mediana A1C 6.4-6.9% nel gruppo intensivo rispetto al 7.0-8.4% nel gruppo standard). Tali risultati non andrebbero estrapolati per suggerire che non vi sia alcun beneficio cardiovascolare apportato dall’abbassamento del livello glicemico passando da uno scarso controllo (ad es., A1C > 9%) a un buon controllo (ad es., A1C < 7%). In tutti e tre i trial effettuati i partecipanti avevano diabete conclamato (durata media 8-11 anni) con CVD nota o molteplici fattori di rischio per CVD, facendo ipotizzare la presenza di aterosclerosi conclamata. Da alcune sottoanalisi dei tre trial si è giunti a ipotizzare un significativo beneficio dato dal controllo glicemico intensivo sulla CVD nei partecipanti con diabete diagnosticato più di recente, livelli di A1C più bassi all’ingresso nello studio, e/o assenza di fattori di rischio noti per CVD. Quanto riscontrato dallo studio di follow-up del DCCT, e cioè che il controllo glicemico intensivo avviato in partecipanti relativamente giovani ed esenti da fattori di rischio per CVD era correlato ad una riduzione del 57% delle manifestazioni di CVD, è a sostegno dell’ipotesi esposta sopra. È da notare che per potere riscontrare un beneficio sulla CVD nel DCCT-EDIC (Epidemiology of Diabetes
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Interventions and Complications) sono stati necessari altri 9 anni di follow-up dopo il termine del DCCT perché tale riscontro avesse significatività statistica. Da un recente report (13) a 10 anni di follow-up della coorte dello UKPDS risultano, per i partecipanti originariamente randomizzati al controllo glicemico intensivo rispetto a quelli randomizzati al controllo glicemico convenzionale, riduzioni a lungo termine per MI (15% con sulfonilurea o insulina come farmacoterapia iniziale e 33% con metformina come farmacoterapia iniziale, entrambi statisticamente significativi) e per mortalità da tutte le cause (13 e 27%, rispettivamente, entrambi statisticamente significativi). Quanto evidenziato e a sostegno dell’ipotesi che il controllo glicemico iniziato precocemente nel corso del diabete di tipo 2 possa portare benefici per CVD. Così come per le complicanze microvascolari, è possibile che il controllo glicemico giochi un ruolo di maggior importanza prima che la malattia macrovascolare sia ben conclamata, e che tale ruolo sia minimo o inesistente in presenza di uno stadio avanzato della malattia. Nei soggetti con diabete di tipo 1, nei quali l’insulinoresistenza non è prevalente, vi è tendenzialmente una minore concomitanza di obesità, ipertensione e dislipidemia rispetto ai soggetti con diabete di tipo 2, pur essendo ad alto rischio di CVD per yutta la vita (14). È possibile che per la CVD vi sia una più forte mediazione glicemica nel diabete di tipo 1 e che intervenire sui livelli glicemici potrebbe migliorare la CVD con maggior successo nel diabete di tipo 1 rispetto al diabete di tipo 2. Infine, il fatto che i trial ACCORD, ADVANCE e VADT non siano riusciti a dimostrare una significativa riduzione della CVD in presenza di un controllo glicemico intensivo potrebbe indurre a pensare che le attuali strategie di trattamento dell’iperglicemia nei pazienti con diabete di tipo 2 in stato avanzato potrebbero provocare conseguenze non desiderate per le CVD (come ipoglicemia, aumento del peso corporeo o altri cambiamenti metabolici). I risultati dei trial sull’effetto a lungo termine per la CVD che effettuano il monitoraggio di specifici farmaci anti-iperglicimizzanti, di uno stile di vita intenso (come lo studio Look AHEAD [Action for Health in Diabetes]), la chirurgia bariatrica o altre terapie emergenti, potrebbero aiutare a chiarire le idee su tale questione.
4. Quali sono le implicazioni di questi risultati sulla cura del paziente? I benefici apportati dal controllo glicemico intensivo sulle complicanze micro vascolari e neuropatiche sono ben assodati sia per il diabete di tipo 1 che di tipo 2.
Il trial ADVANCE ha reso tale evidenza maggiormente fondata dando prova di una riduzione significativa del rischio di nuova o peggiorata albuminuria quando la mediana della A1C scendeva al 6.3%, rispetto al controllo glicemico standard che raggiungeva livelli di A1C pari al 7.0%. La mancanza di una riduzione significativa di eventi di CVD in presenza di controllo glicemico intensivo nei trial ACCORD, ADVANCE e VADT non dovrebbe indurre i medici ad abbandonare il target generale di A1C < 7.0% sminuendo in tal modo i benefici di un buon controllo su complicanze microvascolari gravi e debilitanti. Gli Standard di Cura del Diabete dell’ADA (6) e la posizione scientifica ufficiale dell’AHA e dell’ADA sulla prevenzione (15) insistono sul controllo dei fattori di rischio non glicemici (attraverso il controllo della pressione arteriosa, l’abbassamento dei lipidi mediante la somministrazione di statine, la somministrazione di aspirina e l’adozione di un diverso stile di vita ) come strategie primarie per ridurre il rischio di CVD nei soggetti diabetici. I valori relativi alla CVD nei trial ACCORD, ADVANCE e VADT, più bassi del previsto, oltre al recente follow-up a lungo termine dello studio Steno-2 focalizzato sull’intervento sui molteplici fattori di rischio (16), confermano decisamente che il concetto di una cura a 360 gradi per il diabete richieda il trattamento di tutti i fattori di rischio vascolari – non della sola iperglicemia. L’evidenza di un beneficio cardiovascolare dato dal controllo glicemico intensivo rimane maggiore per i soggetti affetti da diabete di tipo 1. Tuttavia, alcune sotto-analisi effettuate nei trial ACCORD, ADVANCE e VADT suggeriscono l’ipotesi che i pazienti affetti da diabete di tipo 2 di recente diagnosi e senza aterosclerosi conclamata potrebbero godere dei benefici cardiovascolari apportati da un controllo glicemico intensivo. D’altra parte, è possibile che i potenziali rischi del controllo glicemico intensivo possono essere più alti dei benefici in altri pazienti, ad esempio coloro che sono diabetici da molti anni, con una storia di ipoglicemia severa, aterosclerosi avanzata e anziani fragili. I medici dovrebbero certamente fare attenzione nel prevenire l’ipoglicemia severa nei pazienti ad uno stadio avanzato della malattia, senza tentare in maniera aggressiva di raggiungere livelli quasi normali di A1C in pazienti nei quali non si può raggiungere un tale target in modo ragionevolmente semplice e senza pericoli. Quanto evidenziato dai trial ACCORD, ADVANCE e VADT non suggerisce tanto la necessità di cambiamenti radicali nei target di controllo glicemico,
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quanto invece ulteriori chiarimenti su quanto è stato costantemente ripetuto riguardo la personalizzazione: • Malattia microvascolare: Si è osservato che l’abbassamento della A1C al di sotto o attorno al 7% riduce le complicanze microvascolari e neuropatiche del diabete di tipo 1 e di tipo 2. Il livello target di A1C per gli uomini per le donne non in stato interessante è generalmente < 7%. ADA, raccomandazione di livello A; ACC/AHA, raccomandazione di I classe (livello di evidenza A). • Malattia macrovascolare: Nel diabete di tipo 1 e di tipo 2, trial randomizzati controllati sul controllo glicemico intensivo rispetto al controllo standard non hanno evidenziato una riduzione significativa degli esiti di CVD nel corso delle fasi randomizzate dei trial. Tuttavia, i follow-up a lungo termine delle coorti del DCCT e dell’UKPDS inducono a considerare che il trattamento con livelli di A1C al di sotto o attorno al 7% durante gli anni immediatamente successivi alla diagnosi di diabete sia associato alla riduzione del rischio a lungo termine di malattie macrovascolari. In attesa di ulteriore evidenza, il valore target < 7% sembra essere ragionevole. ADA, raccomandazione di livello B; ACC/ACC/AHA, raccomandazionedi classe IIb (livello di evidenza A). Per taluni pazienti potrebbero essere appropriati target glicemici pesonalizzati diversi dall’obiettivo generale esposto sopra: • Le analisi dei sottogruppi di trial clinici come il DCCT e lo UKPDS e l’evidenza macro-vascolare fornita dal trial ADVANCE suggeriscono che vi sia un beneficio limitato ma incrementale sugli esiti macro-vascolari con valori di A1C più prossimi al normale. Per determinati singoli pazienti, pertanto, i medici potrebbero ragionevolmente suggerire target di A1C ancora più bassi del target generale < 7% se ciò si può ottenere senza che vi siano ipoglicemia significativa o altri effetti indesiderati. Fra tali pazienti vi potrebbero essere i soggetti con diabete di recente diagnosi, con una lunga aspettativa di vita e senza malattie cardiovascolari significative. ADA, raccomandazione livello B; ACC/AHA, raccomandazione classe IIa (livello di evidenza C). • Di contro, livelli target di A1C meno ambiziosi del livello generale fissato a < 7% possono essere appropriati per pazienti con storia di ipoglicemia severa, aspettativa di vita limitata, complicanze micro- o macrovascolari in stadio avanzato o condizioni di estesa
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comorbidità, o per quei pazienti diabetici da molti anni per i quali è difficile raggiungere il target generale nonostante la autogestione del diabete, adeguato automonitoraggio glicemico ed efficaci dosaggi di vari agenti ipoglicemizzanti, insulina compresa. ADA, raccomandazione livello C; ACC/AHA, raccomandazione classe IIa (livello di evidenza C). Per la riduzione del rischio di CVD primario e secondario nei pazienti diabetici, i medici dovrebbero continuare a seguire le raccomandazioni fondate sull’evidenza per curare la pressione arteriosa, abbassare i lipidi mediante somministrazione di statine, profilassi con aspirina, smettere di fumare e seguire un sano stile di vita, come descritto negli ADA Standards of Medical Care in Diabetes (6) e nelle linee guida AHA/ADA per la prevenzione primaria della CVD (15). Bibliografia
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Gestione dell’iperglicemia nel diabete di tipo 2: un algoritmo di consenso per iniziare e aggiustare la terapia Una dichiarazione consensuale dell’American Diabetes Association e dell’European Association for the Study of Diabetes DAVID M. NATHAN, MD1 JOHN B. BUSE, MD, PHD2 MAYER B. DAVIDSON, MD3 ELE FERRANNINI, MD4
RURY R. HOLMAN, FRCP5 ROBERT SHERWIN, MD6 BERNARD ZINMAN, MD7
L’algoritmo di consenso per la gestione del diabete di tipo 2 è stato pubblicato nel mese di Agosto 2006 con l’idea che sarebbe stato aggiornato, sulla base di nuove terapie e nuove evidenze di notevole rilevanza clinica. Gli autori continuano a seguire i principi adottati per elaborare l’algoritmo e le sue principali caratteristiche. Siamo ben consapevoli dei rischi derivanti dall’apporto di variazioni troppo affrettate o troppo frequenti all’algoritmo, in assenza di nuove importanti informazioni. L’aggiornamento dell’algoritmo di consenso pubblicato nel gennaio 2008 era specificamente incentrato su questioni di sicurezza riguardanti i tiazolidinedioni. In questo lavoro di revisione la nostra attenzione si focalizza sulle nuove classi di farmaci per i quali sono ora disponibili maggiori dati ed esperienza. Diabetes Care 32: 193-203
a diffusione epidemica del diabete di tipo 2 e la consapevolezza che il raggiungimento di specifici target glicemici può notevolmente ridurre la morbidità hanno fatto sì che un efficace trattamento dell’iperglicemia diventasse una questione della massima priorità (1-3). Mentre la gestione dell’iperglicemia, considerata il segno distintivo dell’anormalità metabolica associata al diabete di tipo 2, ha storicamente avuto un ruolo da protagonista nel trattamento del diabete, le terapie mirate ad altri fattori coincidenti, come dislipidemia, ipertensione, ipercoagulabilità, obesità e insulino-resistenza, sono anche state di primario interesse in campo terapeutico e nel settore della ricerca. È stato dimostrato che mantenere i
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livelli glicemici il più vicino possibile al range non diabetico apporta sostanziali benefici sul rischio di complicanze microvascolari dovute al diabete, tra cui retinopatia, nefropatia e neuropatia, all’insorgenza del diabete di tipo 1 (4, 5); analogamente, nel diabete di tipo 2, strategie terapeutiche più intensive si sono dimostrate vincenti nel ridurre le complicanze microvascolari (6-8). Si è anche riscontrato che una gestione intensiva dei livelli glicemici, con livelli di A1C più bassi, è di beneficio per le complicanze dovute alla malattia cardiovascolare (CVD) nel diabete di tipo 1 (9, 10); recenti studi non sono tuttavia riusciti a dimostrare gli effetti benefici di una terapia intensiva sulla CVD nel diabete di tipo 2 (11-13).
1Diabetes
Center, Massachusetts General Hospital, Boston, Massachusetts; 2University of North Carolina School of Medicine, Chapel Hill, North Carolina; 3Clinical Center for Research Excellence, Charles R. Drew University, Los Angeles, California; 4Department of Internal Medicine, University of Pisa, Pisa, Italy; 5Diabetes Trials Unit, Oxford Centre for Diabetes, Endocrinology and Metabolism, Oxford University, Oxford, U.K.; 6Department of Internal Medicine and Yale Center for Clinical Investigation, Yale University School of Medicine, New Haven, Connecticut; 7Samuel Lunenfeld Research Institute, Mount Sinai Hospital, University of Toronto, Toronto, Ontario, Canada Corresponding author: David. M. Nathan,
[email protected]
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Lo sviluppo di nuove classi di farmaci ipoglicemizzanti in aggiunta alle precedenti terapie, come il cambiamento dello stile di vita, insulina, sulfoniluree e metformina, ha aumentato il numero delle opzioni disponibili per il diabete di tipo 2. Utilizzate singolarmente o in combinazione con altri agenti ipoglicemizzanti, queste ulteriori opzioni a disposizione di medici e pazienti hanno causato incertezza riguardo al modo più appropriato di trattare questa malattia così diffusa (14). Sebbene negli ultimi anni siano stati pubblicati molti lavori incentrati sulla gestione del diabete di tipo 2 (1517), spesso i medici rimangono senza un chiaro percorso terapeutico da seguire. Abbiamo elaborato il seguente approccio consensuale per la gestione dell’iperglicemia in adulti non in stato interessante per potere fornire ai sanitari una guida nella scelta della terapia più adatta ai loro pazienti diabetici di tipo 2. Processo Le linee guida e l’algoritmo che seguono derivano da due fonti. Una fonte sono i trial clinici che studiano l’efficacia e la sicurezza delle differenti modalità terapeutiche. Riguardo a questa fonte gli autori hanno esaminato un’ampia varietà di studi incentrati sull’utilizzo di farmaci somministrati in monoterapia o in combinazione con livelli glicemici più bassi. Purtroppo un grosso impedimento è stato rappresentato dalla scarsa quantità di evidenze valide apportate da trial clinici ben controllati che effettuino confronti diretti tra differenti regimi di trattamento del diabete, cosicché è difficile raccomandare una specifica classe di farmaci o una particolare terapia combinata rispetto ad altre. La seconda fonte di materiali sulla quale si fondano le nostre raccomandazioni è rappresentata dal giudizio clinico, cioè a dire la conoscenza collettiva e l’esperienza clinica, che prendono in considerazione benefici, rischi e costi inerenti alla cura del diabete. Come in tutti i casi in cui si devono prendere delle decisioni di carattere medico, è necessaria una let23
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tura attenta dell’evidenza riportata in letteratura associata a un’attenta valutazione, per soppesare in modo soggettivo i benefici dati da un trattamento contro rischi e costi. Pur rendendoci conto che altri possono pensarla diversamente, riteniamo che le raccomandazioni date in quest’iterazione del nostro algoritmo di trattamento saranno di aiuto nella scelta della terapia, con un miglioramento del controllo glicemico e dell condizioni di salute nel tempo. Obiettivi glicemici della terapia I trial clinici controllati, come il Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) (4) e lo Stockholm Diabetes Study nel diabete di tipo 1 (5) e lo UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) (6, 7) e lo studio di Kumamoto (8) nel diabete di tipo 2, hanno contribuito a stabilire quali sono i target glicemici che si accompagnano a miglioramento a lungo termine degli esiti clinici. I trial clinici, combinati con dati epidemiologici (18, 19), giungono alla conclusione che la diminuzione della glicemia è un mezzo efficace per ridurre i rischi di complicanze micro vascolari e neuropatiche a lungo termine. Non sono stati effettuati degli studi sistematici sui livelli target più appropriati per la glicemia, auto-monitorata giornalmente, e l’A1C, come indice di glicemia cronica. Tuttavia l’obiettivo, sia del DCCT (4) che dello UKPDS (6, 7) era quello di raggiungere livelli glicemici che rientrassero in un range non diabetico. Nessuno dei due studi è riuscito a mantenere i livelli di A1C nel range non diabetico, raggiungendo nel tempo livelli medi di ~7%, 4 SD al di sopra della media non diabetica. Il più recente target glicemico raccomandato dall’American Diabetes Association, fissato all’insegna della praticità e di una riduzione delle complicanze nel tempo, è, in generale, un livello di A1C < 7% (1). Il più recente target glicemico raccomandato dall’International Diabetes Federation è un livello di A1C < 6.5%. Il limite massimo del range non diabetico è 6.1% (media ± SD. livello di A1C 5 ± 2%) secondo le analisi standardizzate DCCT/UKPDS, promulgate attraverso il National Glycohemoglobin Standardization Program (NGSP) e adottate dalla grande maggioranza delle metodiche disponibili in commercio (20). Di recente parecchi trial clinici hanno mirato a raggiungere livelli di A1C ≤ 6.5% con una varietà di interventi (11, 12). I risultati ottenuti dallo studio Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes (ACCORD), il cui obiettivo primario era quello di diminuire il rischio di CVD mediante interventi mirati a raggiungere livelli di A1C
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< 6.0% vs. interventi mirati a raggiungere livelli di A1C < 7.9%, hanno evidenziato un’eccessiva mortalità dovuta a CVD nel gruppo sottoposto a trattamento intensivo (11). I risultati ottenuti dal trial Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation (ADVANCE), ed il Veterans Affairs Diabetes Trial, per entrambi i quali terapie e popolazione differivano rispetto all’ACCORD, non evidenziavano alcun valore totale in eccesso di mortalità totale o da CVD con terapie intensive che raggiungevano livelli di A1C sovrapponibili al 6.5% dell’ACCORD (12, 13). Nessuno degli studi ha tuttavia dimostrato che un controllo glicemico intensivo apporti degli effettivi benefici sugli eventi di CVD. Secondo il nostro algoritmo, livelli di A1C ≥ 7% dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme per iniziare o variare la terapia mirando a raggiungere livelli di A1C < 7%. Siamo consapevoli del fatto che detto obiettivo possa non essere appropriato o pratico per determinati pazienti, e che sia necessario effettuare una valutazione clinica basata sui potenziali benefici e rischi apportati da un regime terapeutico più intensivo per ogni singolo paziente. Taluni fattori quali aspettativa di vita, rischio di ipoglicemia e presenza di CVD vanno valutati in ogni singolo paziente, prima di intensificare il regime terapeutico. Si è osservato che un’attenzione costante a tutte le anomalie che, oltre all’iperglicemia, accompagnano il diabete di tipo 2, come ipertensione e dislipidemia, contribuisce a prevenire le complicanze micro- e cardiovascolari. Vi sono linee guida espressamente pubblicate sugli obiettivi della terapia per i fattori di rischio non glicemici, oltre ai dovuti consigli sul come raggiungerli (1, 21, 22). Principi di scelta delle terapie antiiperglicemiche La nostra scelta di specifici agenti anti-iperglicemici è incentrata sulla loro efficacia nell’abbassare i livelli glicemici, sui loro effetti extra glicemici che possono ridurre il rischio di complicanze a lungo termine e su sicurezza, tollerabilità, facilità d’uso e costo. Efficacia nell’abbassamento dei livelli glicemici Tranne che per i loro diversi effetti sulla glicemia, al momento non vi sono dati sufficienti per consigliare una determinata classe di agenti ipoglicemizzanti, o una combinazione di farmaci, al posto di altri, per quanto riguarda gli effetti sulle complicanze. In altre parole, gli effetti benefici di una terapia sulle complicanze a lungo termine sembrano essere
prevalentemente connessi al raggiungimento di un determinato livello di controllo glicemico, anziché su qualsiasi altro aspetto specifico della terapia o terapie utilizzate per raggiungere questi target glicemici. Il trial UKPDS ha messo a confronto tre classi di farmaci ipoglicemizzanti (sulfoniluree, metformina o insulina), ma per quanto riguarda le complicanze dovute al diabete non è riuscito a dimostrare la chiara superiorità di nessuno di tali farmaci sugli altri (6, 7). Le differenti classi di farmaci hanno tuttavia efficacia variabile nell’abbassare i livelli glicemici (Tabella 1), e l’aspetto più importante nel selezionare una particolare terapia sarà la capacità che questa avrà di raggiungere e mantenere determinati target glicemici. Oltre alle analisi intention-to-treat che dimostrano la superiorità delle terapie intensive rispetto a quelle convenzionali, i trial DCCT e UKPDS hanno evidenziato una forte correlazione tra i livelli medi di A1C nel tempo e lo sviluppo e la progressione di retinopatia e nefropatia (23, 24). Riteniamo dunque che sia ragionevole giudicare e confrontare i farmaci anti iperglicemici, e le loro combinazioni, primariamente sulla base della loro capacità di diminuire e mantenere bassi i livelli di A1C ma anche riguardo a sicurezza, specifici effetti collaterali, tollerabilità, facilità d’uso e costo. Effetti non glicemici dei farmaci Oltre agli effetti variabili sulla glicemia, effetti specifici delle singole terapie sui fattori di rischio di CVD, come ipertensione o dislipidemia, sono stati anche considerati. Nelle nostre raccomandazioni abbiamo anche incluso gli effetti di terapie che possono migliorare o peggiorare le prospettive di un controllo glicemico a lungo termine. Esempi di tali effetti sono variazioni inerenti a peso corporeo, insulino-resistenza e capacità di secrezione insulinica nei pazienti diabetici di tipo 2. La scelta di terapie specifiche per il diabete e il loro ruolo nella cura del diabete di tipo 2 Molti lavori scientifici hanno focalizzato la propria attenzione sulle caratteristiche delle specifiche terapie per la cura del diabete qui di seguito elencate (2534). Inoltre meta-analisi e studi retrospettivi hanno sintetizzato e messo a confronto l’efficacia ipoglicemizzante ed altre caratteristiche dei farmaci (35-37). In questa sede lo scopo è quello di fornire abbastanza informazioni per giustificare la scelta dei farmaci, l’ordine in cui essi vengono consigliati e l’uso di terapie combinate. Studi di alta qualità in grado di fornire confronti validi sulla capacità
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Tabella 1 – Sommario delle terapie ipoglicemizzanti Intervento terapeutico
Prevista diminuzione dei livelli di A1C con la monoterapia (%)
Percorso 1: Terapie consolidate Livello 1: terapia iniziale Stile di vita per diminuire il peso e aumentare l’attività fisica Metformina Livello 2: terapia aggiuntiva Insulina
Sulfoniluree Percorso 2: Terapie meno consolidate TZDs
Agonisti GLP-1
Altre terapie Inibitori dell’α-Glucosidasi
Vantaggi
Svantaggi
1.0–2.0
Ampi benefici
1.0–2.0
Non causa aumento di peso
1.5–3.5
Dosaggio senza limiti, azione rapida, profilo lipidico migliorato
1.0–2.0
Agiscono rapidamente
0.5–1.4
Profilo lipidico migliorato Ritenzione di liquidi, CHF, (pioglitazone), potenziale aumento del peso, fratture ossee, diminuzione del rischio di alto costo, potenziale aumento MI (pioglitazone) del rischio di MI (rosiglitazone) Diminuzione del peso Due iniezioni al giorno, frequenti effetti indesiderati GI, sicurezza a lungo termine non accertata, alto costo
0.5–1.0
0.5–0.8
Non causa aumento di peso
Glinidi
0.5–1.5a
Azione rapida
Pramlintide
0.5–1.0
Diminuzione del peso
Inibitori della DPP-4
0.5–0.8
Non causano aumento di peso
Per molti pazienti insufficiente entro meno di un anno Effetti indesiderati gastrointestinali, controindicata se vi è insufficienza renale Da una a quattro iniezioni giornaliere, monitoraggio, aumento del peso, ipoglicemia, gli analoghi sono costosi Aumento del peso, ipoglicemia (specialmente con glibenclamide o clorpropamide)
Frequenti effetti indesiderati GI, tre somministrazioni giornaliere, alto costo Aumento del peso, tre somministrazioni giornaliere, ipoglicemia, alto costo Tre iniezioni al giorno, frequenti effetti indesiderati GI, sicurezza a lungo termine non accertata, alto costo Sicurezza a lungo termine non accertata, alto costo
a La repaglinide contribuisce ad abbassare i livelli di A1C più efficacemente della nateglinide. CHF, scompenso cardiaco congestizio; GI, gastrointestinai; MI, infarto del miocardio.
dei farmaci di raggiungere i livelli glicemici attualmente consigliati sono purtroppo carenti. Ciò nonostante, anche in mancanza di studi completi e svolti accuratamente sul confronto diretto dell’efficacia di tutti i trattamenti ipoglicemizzanti e delle loro combinazioni, siamo dell’idea che vi siano sufficienti dati disponibili riguardo alle caratteristiche delle singole terapie per poter dare le linee guida riportate qui di seguito. Un fattore importante che potrà aumentare le probabilità di un migliore controllo del diabete a lungo termine per un paziente è costituito da una diagnosi precoce, quando le anormalità metaboliche dovute al diabete sono solitamente meno severe. L’abbassamento dei livelli
glicemici al momento dell’inizio della terapia si associa a minori livelli di A1C e a un diminuito rischio di complicanze a lungo termine (38). Interventi sullo stile di vita I principali fattori ambientali che aumentano il rischio di insorgenza del diabete di tipo 2 sono ipernutrizione e vita sedentaria, con conseguenti sovrappeso e obesità (39, 40). È stato dimostrato, e ciò non costituisce una sorpresa, che interventi atti a invertire o migliorare tali fattori apportano un effetto benefico sul controllo glicemico nel diabete di tipo 2 conclamato (41). Purtroppo l’alta incidenza di nuovi aumenti di peso ha limi-
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tato il ruolo degli interventi sullo stile di vita come mezzo efficace per il controllo glicemico a lungo termine. I dati a lungo termine più convincenti che indicano che la diminuzione del peso corporeo abbassa la glicemia in modo efficace provengono dal follow-up di pazienti diabetici di tipo 2 sottoposti a chirurgia bariatrica. Con questa tecnica, con una perdita media di peso corporeo persistentemente > 20 Kg, il diabete verrebbe praticamente eliminato (42-45). Oltre ai benefici apportati dalla perdita di peso sulla glicemia, la diminuzione del peso e l’esercizio fisico migliorano i fattori di rischio CVD concomitanti, come pressione arteriosa e profilo lipidico aterogenico, oltre a diminuire il rischio di altre complicanze do25
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vute all’obesità (41, 46, 47). Pochi sono gli effetti indesiderati degli interventi sullo stile di vita, oltre alle difficoltà nell’inserirli e mantenerli nella propria routine, e i piccoli traumi muscoloscheletrici e i potenziali problemi associati alla neuropatia, come lesioni o ulcere ai piedi, che possono verificarsi in conseguenza dell’aumentata attività fisica. In teoria una decisa diminuzione del peso, coi propri benefici pleiotropici, il profilo di sicurezza e il basso costo, dovrebbe essere il modo di controllare il diabete col miglior rapporto costo-efficacia, se si potesse ottenere e mantenere a lungo termine. Dati tali effetti benefici, che normalmente si riscontrano rapidamente, in termini di settimane o mesi e spesso prima che si sia avuta una perdita di peso sostanziale (47), nella gestione del diabete si dovrebbe sempre, tranne che in rare eccezioni, includere istruzioni per uno stile di vita mirato a perdere peso e ad aumentare l’attività fisica. Anche perdendo soltanto 4 kg, spesso sarà possibile migliorare l’iperglicemia. Tuttavia, nonostante un corretto stile di vita, i diabetici di tipo 2 potranno non riuscire a mantenere un buon controllo glicemico nel tempo, il che implica che molti di essi dovranno anche fare ricorso a farmaci ipoglicemizzanti. Farmaci Le caratteristiche dei farmaci ipoglicemizzanti attualmente disponibili, utilizzati in mono-terapia, sono riassunte nella Tabella 1. L’abbassamento della glicemia ottenuto dei singoli farmaci e dalle loro combinazioni, osservato nei trial clinici, si basa non solo sulle caratteristiche intrinseche del farmaco ma anche su durata del diabete, valori glicemici basali, terapie precedenti ed altri fattori. Quando si inizia o si cambia una terapia, un fattore di fondamentale importanza nel selezionare una classe di farmaci, o uno specifico farmaco appartenente ad una determinata classe, è il livello ambientale del controllo glicemico. In presenza di alti livelli glicemici (ad es., A1C > 8.5%), è bene utilizzare farmaci che abbiano una maggiore e più rapida azione ipoglicemizzante, o iniziare quanto prima una terapia combinata; i pazienti di recente diagnosi, tuttavia, spesso rispondono in maniera adeguata a terapie meno intensive di quelle adottate nel caso in cui la malattia sia insorta da più tempo (48). Nel caso in cui i livelli glicemici siano più vicini ai valori target (ad es., A1C < 7.5%), è possibile prendere in considerazione farmaci con minore o più lenta azione ipoglicemizzante. È ovvio che per ciascun paziente la
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scelta dei target glicemici e dei farmaci da utilizzare per ottenerli debba essere personalizzata, trovando il giusto compromesso tra l’abbassamento dell’A1C con rapido raggiungimento di effetti benefici a lungo termine e condizioni di sicurezza, insieme ad altri aspetti della terapia, tra cui effetti collaterali, tollerabilità, facilità d’uso, adesione a lungo termine, costi ed effetti non glicemici del farmaco stesso. Il diabete di tipo 2 è una malattia progressiva, caratterizzata da livelli glicemici che peggiorano progressivamente; per poter raggiungere gli obiettivi della terapia, nel corso del tempo saranno necessari maggiori dosaggi e ulteriori farmaci. Metformina. Quai ovunque oggi la metformina è l’unica biguanide a disposizione dei pazienti. Il suo effetto principale è quello di diminuire la produzione di glucosio epatica ed abbassare la glicemia a digiuno. Normalmente la monoterapia con metformina abbassa i livelli di A1C di ~1.5 punti percentuali (27, 49). Essa è generalmente ben tollerata e i più comuni effetti indesiderati sono di carattere gastrointestinale. Normalmente la monoterapia con metformina non provoca eventi ipoglicemici e per tale motivo essa viene utilizzata nei pazienti con iperglicemia prediabetica (50). La metformina interferisce con l’assorbimento della vitamina B 12 , ma si associa raramente ad anemia (27). L’effetto non glicemico principale della metformina è o stabilità o lieve calo del peso corporeo, in controtendenza rispetto a molti degli altri farmaci ipoglicemizzanti. Lo UKPDS ha riscontrato un effetto benefico della terapia con metformina sugli eventi di CVD (7), aspetto da confermare. Una controindicazione all’uso di metformina è rappresentata dalla insufficienza renale, poiché è possibile un aumento del rischio di acidosi lattica, complicanza estremamente rara (meno di 1 caso per 100.000 pazienti trattati) ma potenzialmente fatale (51). Recenti studi hanno tuttavia suggerito che la metformina non è pericolosa, a meno che i livelli di filtrato glomerulare stimato non scendano a < 30 ml/min (52). Sulfoniluree. Le sulfoniluree abbassano i livelli glicemici potenziando la secrezione insulinica. In termini di efficacia esse sono simili alla metformina, abbassando i livelli di A1C di ~1.5 punti percentuali (26, 49). Il principale effetto indesiderato è l’ipoglicemia, che può essere prolungata e rappresentare così un rischio di decesso, ma episodi gravi, caratterizzati dalla ne-
cessità di assistenza, fino al coma o ictus, non sono frequenti. Episodi severi possono tuttavia essere lievemente più frequenti in soggetti anziani. La clorpropamide e la glibenclamide (nota come gliburide negli USA e in Canada), sono associate a un rischio di ipoglicemia notevolmente più alto rispetto alle altre sulfoniluree di seconda generazione (gliclazide, glimepiride, glipizide e altri derivati), che sono preferibili (Tabella 1) (53, 54). Inoltre si registra normalmente un aumento di peso di ~2 kg dopo l’inizio della terapia con una sulfonilurea. Sebbene l’effetto ipoglicemizzante della terapia con una sulfonilurea sia relativamente rapido rispetto, ad esempio, ai tiazolidinedioni (TZD), il mantenimento dei target glicemici nel tempo non è altrettanto stabile quanto quello ottenuto da una monoterapia con un TZD o con metformina (55). Nello studio dell’University Group Diabetes Program (UGDP) si è riscontrato che la terapia con sulfonilurea rappresenta una potenziale causa di aumentata mortalità CVD (56). La preoccupazione espressa dall’UGDP che la classe delle sulfoniluree possa aumentare la mortalità CVD nel diabete di tipo 2 non è stata corroborata dai trial UKPDS o ADVANCE (6, 12). Gli effetti benefici apportati dalle sulfoniluree sui livelli glicemici si ottengono pienamente con circa la metà dei dosaggi massimi, e dosaggi superiori andrebbero generalmente evitati. Glinidi. Analogamente alle sulfoniluree, le glinidi stimolano la secrezione insulinica, sebbene all’interno del recettore della sulfonilurea si leghino a un sito diverso (28). Esse hanno un’emi-vita più breve rispetto alle sulfoniluree e vanno somministrate più frequentemente. Delle due glinidi attualmente in commercio negli USA, la repaglinide è efficace quasi quanto la metformina o le sulfoniluree, diminuendo i livelli di A1C di ~1.5 punti percentuali. Rispetto alla repaglinide, la nateglinide risulta essere lievemente meno efficace nell’abbassare i livelli di A1C quando viene utilizzata in monoterapia o in terapia combinata (57, 58). Il rischio di aumento di peso è simile a quello rappresentato dalle sulfoniluree, ma è possibile che gli episodi di ipoglicemia siano meno frequenti, almeno con la nateglinide, rispetto ad altre sulfoniluree (58, 59). Inibitori delle a-Glucosidasi. Gli inibitori dell’α-glucosidasi rallentano la digestione dei polisaccaridi nel piccolo intestino prossimale, abbassando i livelli glicemici postprandiali senza causare ipoglicemia. L’azione ipoglicemizzante è meno efficace della metformi-
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na o delle sulfoniluree, riducendo i livelli di A1C di 0.5-0.8 punti percentuali (29). Poiché i carboidrati vengono assorbiti maggiormente a livello distale, non si verificano malassorbimento e perdita di peso; un aumentato apporto di carboidrati al colon, tuttavia, provoca una aumentata produzione di gas e di sintomi gastrointestinali. A causa di tali effetti, nei trial clinici il 25-45% dei partecipanti interrompeva l’assunzione di inibitori dell’α-glucosidasi (29,60). Un trial clinico mirato ad esaminare l’acarbosio come strumento di prevenzione del diabete negli individui ad alto rischio con ridotta tolleranza glucidica ha evidenziato un’inaspettata riduzione di eventi CVD gravi (60). Tale potenziale effetto degli inibitori dell’α-glucosidasi necessita di ulteriori conferme. Tiazolidinedioni. I tiazolidinedioni (TZDs o glitazoni) sono modulatori dei recettori γ attivati dai proliferatori perossisomiali; aumentano la sensibilità di muscoli, grasso e fegato all’insulina endogena ed esogena (sono detti anche “sensibilizzatori dell’insulina”) (31). I dati riguardanti l’effetto ipoglicemizzante dei TZDs utilizzati in monoterapia hanno evidenziato una diminuzione nei livelli di A1C corrispondente a 0.5–1.4 punti percentuali. Sembra che l’effetto sul controllo glicemico dato dai TZDs sia di maggiore durata, in particolare rispetto alle sulfoniluree (55). Gli effetti indesiderati più comuni dei TZDs sono aumento del peso corporeo e ritenzione di liquidi, con edema periferico e un rischio raddoppiato di scompenso cardiaco congestizio (61, 62). Alcuni studi evidenziano un aumento dell’adiposità, prevalentemente sottocutaneo, con riduzioni del grasso viscerale. I TZDs hanno un effetto benefico (pioglitazone) o neutrale (rosiglitazone) sui profili lipidici aterogenici (63, 64). Parecchie metaanalisi hanno portato ad ipotizzare un aumento di rischio relativo del 30-40% di infarto del miocardio (65, 66) col rosiglitazone. D’altra parte, il Prospective Pioglitazone Clinical Trial in Macrovascular Events (PROactive) non ha evidenziato effetti significativi del pioglitazone rispetto al placebo sugli eventi clinici (mortalità dovuta a tutte le cause, infarto del miocardio non fatale e silente, stroke, amputazioni, sindrome coronarica acuta, bypass coronarico o intervento coronarico percutaneo e rivascolarizzazione delle arterie degli arti) dopo 3 anni di followup (67). Il pioglitazone è stato associato ad una riduzione di decesso, infarto del miocardio e stroke del 16%, un end point secondario controverso con significatività statistica marginale (67). Alcune me-
ta-analisi hanno ipotizzato un possibile effetto benefico del pioglitazone sul rischio di CVD (68). Sebbene ancora non vi siano dati conclusivi riguardo al rischio di CVD col rosiglitazone o di beneficio col pioglitazone, abbiamo precedentemente consigliato cautela (69) nell’utilizzare i suddetti TZD, essendo entrambi associati ad aumentato rischio di ritenzione di liquidi e di scompenso cardiaco congestizio, oltre ad un’incidenza aumentata di fratture ossee nelle donne e forse anche negli uomini (55, 61, 62, 70). Sebbene le meta-analisi sopra discusse riguardo al potenziale rischio cardiovascolare associato al rosiglitazone non sono conclusive, i membri del gruppo sconsigliano unanimamente l’assunzione di rosiglitazone. Attualmente negli USA la prescrizione di TZDs è approvata in combinazione con metformina, sulfoniluree, glinidi e insulina. Insulina. Tra i farmaci attualmente in uso l’insulina è il più “anziano”, dunque quello col quale si ha la maggiore esperienza clinica. Esso è anche il più efficace per abbassare i livelli glicemici. Dosata adeguatamente, l’insulina può far scendere qualsiasi livello elevato di A1C fino a o in prossimità dei valori terapeutici. A differenza di altri farmaci ipoglicemizzanti, non vi sono dosaggi di insulina al di là dei quali non vi sarà un effetto terapeutico. Dosaggi relativamente alti di insulina (≥ 1 unità/kg), rispetto a quelli necessari per il trattamento del diabete di tipo 1, potranno essere necessari per superare l’insulino-resistenza del diabete di tipo 2 ed abbassare i livelli di A1C fino ai valori target. Sebbene inizialmente la terapia miri ad aumentare la quantità di insulina basale, solitamente con analoghi di insulina a rilascio lento o intermedio, per alcuni pazienti può essere necessaria una terapia prandiale con somministrazione di insulina ad azione breve o rapida (Fig. 1). Non si è osservata con gli analoghi di insulina ad azione rapida o lenta un abbassamento dei livelli di A1C migliore rispetto alle formulazioni ad azione rapida o intermedia della precedente generazione (71-73). La terapia insulinica ha effetti benefici sul triacilglicerolo e sul colesterolo HDL, specialmente nei pazienti con scarso controllo glicemico (74), ma è associata a un aumento di peso di ~2–4 kg, probabilmente proporzionato alla correzione dei livelli glicemici e fondamentalmente conseguenza della riduzione della glicosuria. La somministrazione di insulina è anche associata alle ipoglicemie, sebbene in maniera molto meno frequente rispetto al diabete di tipo 1. Nei trial clinici mirati a raggiungere livelli normo-
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glicemici, con livelli medi di A1C di ~7%, gli episodi di ipoglicemia severa (definendo come tali la necessità dell’intervento di un’altra persona) si verificavano in 1-3 su 100 pazienti/anno (8, 75-77), rispetto ai 61 su 100 pazienti/anno del DCCT, nel gruppo sottoposto a terapia intensiva (4). Gli analoghi di insulina con profili più prolungati e senza picchi diminuiscono lievemente il rischio di ipoglicemia rispetto alla NPH e gli analoghi ad azione breve riducono il rischio di ipoglicemia rispetto alla insulina regolare (76, 77). Agonisti del peptide-1 simil-glucagone (exenatide). Il peptide-1 simil-glucagone (GLP-1) 7-37, un peptide naturale prodotto dalle cellule-l del piccolo intestino, potenzia la secrezione di insulina stimolata dal glucosio. L’exendina-4 è omologa alla sequenza umana GLP-1, ma ha una più lunga emivita. Essa si lega al recettore GLP-1 della β-cellula pancreatica e aumenta la secrezione di insulina mediata dal glucosio (32). L’utilizzo dell’exendina-4 sintetica (exenatide) è stato approvato negli USA nel 2005, con somministrazione due volte al giorno mediante iniezione sottocutanea. Sebbene ancora non vi siano molti dati pubblicati su questo nuovo composto rispetto ad altri farmaci ipoglicemizzanti, sembra che l’exendina-4 sia in grado di abbassare i livelli di A1C di 0.5-1 punti percentuali, principalmente abbassando i livelli glicemici postprandiali (78-81). L’exenatide sopprime inoltre la secrezione di glucagone e rallenta la motilità gastrica. Essa non si associa a ipoglicemia ma è piuttosto frequentemente causa di disturbi gastrointestinali, con il 30-45% dei pazienti trattati che riferiscono di aver avuto uno o più episodi di nausea, vomito o diarrea (78-81). Tali effetti indesiderati tendono a diminuire col tempo. Nei trial pubblicati, l’exenatide è associata a una perdita di peso corporeo di ~2-3 kg in un periodo di 6 mesi, probabilmente come risultato dei suoi effetti gastrointestinali. Recentemente è stato segnalato un rischio di pancreatite associato all’uso di agonisti del GLP. Il numero dei casi interessati è tuttavia alquanto limitato e non è ancora chiaro se vi sia un rapporto causale o se si tratti semplicemente di una coincidenza. Attualmente l’exenatide è approvata negli USA in associazione a una sulfonilurea, metformina e/o un TZD. Parecchi altri agonisti e formulazioni di GLP-1 sono in via di elaborazione. Agonisti dell’amilina (pramlintide). La pramlintide è un analogo sintetico dell’amilina, un ormone β-cellulare. Essa
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Iniziare con una somministrazione serale di insulina ad azione intermedia o con somministrazione al mattino o serale di insulina ad azione lenta (si può iniziare con 10 unità o 0.2 unità/Kg)
Controllare la glicemia a digiuno (mediante puntura del dito) ed aumentare i dosaggi, normalmente di 2 unità ogni 3 giorni, finchè i livelli glicemici a digiuno non siano costantemente entro il target (3.9-7.2 mmol/ [70-130 mg/dl]). La dose può essere aumenta di più, ad es. di 4 unità ogni 3 giorni, se la glicemia a digiuno è > 10 mmol/l (180 mg/dl)
A1C ≥ 7% dopo 2-3 mesi Se si verificano episodi di ipoglicemia, o i livelli glicemici a digiuno sono < 3.9 mmol/l (70 mg/dl), ridurre il dosaggio serale di 4 unità o del 10%
No
Si Se la glicemia a digiuno rientra nel target (3.9-7.2 mmol/ [70-130 mg/dl]), ricontrollare i livelli prima di pranzo, prima di cena e prima di coricarsi. Secondo i risultati ottenuti, aggiungere una seconda iniezione come indicato sotto. Normalmente si può iniziare con ~4 unità e aggiustare di 2 unità ogni 3 giorni, finché i livelli glicemici non rientrano nel target
Continuare la terapia. Controllare il livello dell’A1C ogni 3 mesi
Livelli glicemici prepranzo al di fuori del range. Somministrare insulina ad azione rapida a colazionea
Livelli glicemici pre-cena al di fuori del range. Somministrare insulina NPH a colazione o insulina ad azione rapida a pranzo
Livelli glicemici prima di coricarsi al di fuori del range. Somministrare insulina ad azione rapida a cenaa
No
A1C ≥ 7% dopo 3 mesi Si Ricontrollare i livelli glicemici preprandiali e, se non rientrano nel target, potrà essere necessaria un’altra iniezione. Se i livelli di A1C continuano ad essere fuori dal target, controllare i livelli dopo i pasti ed effettuare l’aggiustamento con insulina preprandiale ad azione rapida
Figura 1 – Inizio e aggiustamento della terapia. insulinica. La terapia insulinica va prescritta tenendo conto dello stile di vita e delle abitudini alimentari dei soggetti. L’algoritmo può fornire soltanto le linee guida fondamentali per iniziare ed aggiustare la terapia insulinica. Per maggiori istruzioni vedi riferimento 90. aLe insuline premiscelate non sono consigliate per le difficoltà ad effettuare aggiustamenti dei dosaggi; possono tuttavia essere utilizzate in modo pratico, di solito prima di colazione e/o cena, se la proporzione dell’insulina ad azione rapida e ad azione intermedia è simile ai quantitativi fissi presenti nei prodotti in commercio. bg, glicemia. 28
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TITOLAZIONE DELLA METFORMINA 1. Iniziare con un basso dosaggio di metformina (500 mg), una o due volte al giorno ai pasti (colazione e/o cena) o 850 mg/die. 2. Dopo 5-7 giorni, se non si saranno manifestati effetti gastrointestinali, incrementare la dose a 850mg o a due compresse da 500 mg, due volte al giorno (da assumere prima di colazione e/o cena). 3. Se all’aumento del dosaggio dovessero manifestarsi effetti gastrointestinali, ripristinare i dosaggi precedenti, tentando di incrementarli nuovamente in un secondo tempo. 4. La dose massima consigliata può arrivare a 1000 mg due volte al giorno, ma spesso si somministrano 850 mg due volte al giorno. Si è osservata un’efficacia lievemente maggiore con dosaggi attorno ai 2500 mg/die. È possibile che nel caso di effetti gastrointestinali indesiderati i suddetti dosaggi vadano diminuiti. 5. Sulla base di considerazioni di carattere economico, la metformina generica rappresenta la scelta terapeutica più ovvia. In alcuni paesi viene commercializzata una formulazione con azione prolungata, che va somministrata una volta al giorno.
viene somministrata per via sottocutanea prima dei pasti, rallenta lo svuotamento gastrico, inibisce la produzione di glucagone in base ai livelli glicemici e diminuisce principalmente le escursioni glicemiche postprandiali (33). Negli studi clinici i livelli di A1C diminuivano di 0.5–0.7 punti percentuali (82). I principali effetti indesiderati di questo farmaco sono di natura gastrointestinale. Nei trial clinici ~30% dei pazienti hanno riferito episodi di nausea, ma col tempo quest’effetto tende a diminuire. La perdita di peso osservata con l’assunzione di questo farmaco corrisponde a ~1-1.5 kg nell’arco di 6 mesi; come per l’exenatide, è possibile che la perdita di peso sia dovuta agli effetti gastrointestinali. Attualmente l’assunzione di pramlintide è approvata negli USA solamente come terapia associata ad insulina regolare o ad analoghi dell’insulina ad azione rapida. Inibitori della dipeptidil peptidasi 4. Il peptide-1 glucagone-simile (GLP-1) ed il peptide insulinotropico glucosio-dipendente (GIP), i principali peptidi insulinotropici di origine intestinale (incretine), sono soggetti a rapida degradazione da parte della dipeptil-peptidasi 4 (DPP4). La DPP-4 appartiene ad una famiglia di proteine della membrana cellulare che trovano espressione in molti tessuti, tra cui le cellule immunitarie (34). Gli inibitori della DPP-4 sono molecole che aumentano gli effetti di GLP-1 e GIP, aumentando la secrezione insulinica mediata dal glucosio e sopprimendo la secrezione di glucagone (83, 84). La sitagliptina, il primo inibitore della DPP-4 per via orale, è stata approvata negli USA dalla Food and Drug Administration nel mese di ottobre 2006, per l’uso in mono terapia o in combinazione con
metformina o TZDs. Un altro inibitore della DPP-4, la vildagliptina, è stato approvato in Europa a febbraio del 2008, e sono in via di produzione parecchi altri composti. Nei trial clinici finora effettuati, gli inibitori della DPP-4 contribuiscono ad abbassare i livelli di A1C di 0.6–0.9 punti percentuali, non incidono sul peso corporeo e sono relativamente ben tollerati (83, 84). Se usati in mono terapia non causano ipoglicemia. È disponibile in commercio una combinazione a dosaggio fisso con metformina. Il potenziale rischio di interferenza col sistema immunitario da parte di questa classe di farmaci causa una certa preoccupazione; sono state riferite infezioni del tratto respiratorio superiore (34). Come iniziare e implementare la terapia Tranne che in rare circostanze, come la chetoacidosi diabetica o nel caso di pazienti con forte stress catabolico o in coma iperosmolare o che non siano in grado di curarsi in maniera adeguata (vedi osservazioni/pazienti particolari sotto) non è richiesto il ricovero ospedaliero per iniziare o aggiustare la terapia. Nel team addetto alla cura del diabete quello del paziente è un ruolo chiave, ed è questi che andrebbe addestrato e messo in grado di aggiustare la propra terapia con la guida di medici esperti per raggiungere i propri target glicemici e prevenire e curare l’ipoglicemia. Con la monoterapia si possono gestire molti pazienti in maniera efficace; tuttavia, vista la natura progressiva di questa malattia, nel tempo saranno necessarie per la maggior parte dei pazienti terapie combinate, per poter raggiungere e mantenere livelli glicemici entro il target desiderato. I livelli glicemici a digiuno e pre-
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prandiali rappresentano gli elementi della valutazione giornaliera. L’auto monitoraggio glicemico (Self-monitoring of blood glucose - SMBG) costituisce un elemento importante per aggiustare o aggiungere nuovi interventi terapeutici e, in particolare, per titolare la dose di insulina. Sul numero di misurazioni SMBG necessarie non vi è ancora chiarezza (85); esso può cambiare secondo i farmaci che si assumono. Per gli agenti ipoglicemizzanti orali che non causano ipoglicemia, come invece fanno le sulfoniluree o le glinidi, di solito l’SMBG non è necessaria (86). La SMBG può tuttavia essere utilizzata per determinare se si stiano raggiungendo i target glicemici o per aggiustare le terapie senza che il paziente debba ricorrere alle analisi in laboratorio. La terapia insulinica richiede un monitoraggio più frequente. I livelli glicemici plasmatici o capillari (la maggior parte degli apparecchi che effettuano le misurazioni al dito sono regolati per dare valori equivalenti alla glicemia plasmatica) a digiuno e preprandiali dovrebbero essere tra 3.9 e 7.2 mmol/l (70 e 130 mg/dl). Se i livelli di A1C permangono al di sopra del target desiderato nonostante i livelli glicemici preprandiali rientrino nel range, sarà bene controllare i livelli post-prandiali, misurati solitamente 90-120 min dopo ogni pasto. Essi dovrebbero essere < 10 mmol/l (180 mg/dl) per ottenere livelli di A1C entro il target. È possibile che nel tentativo di raggiungere livelli glicemici target con terapie a base di sulfoniluree o insulina si manifestino episodi di lieve ipoglicemia, con livelli glicemici entro il range 3.1–3.9 mmol/l (55-70 mg/dl). Tali episodi sono generalmente ben tollerati, facilmente trattati con carboidrati assunti oralmente, come glucosio in tavolette, o con 120180 ml (4–6 oz) di succo di frutta o di una bevanda non dietetica, e raramente degenerano in ipoglicemia severa con perdita di conoscenza o convulsioni. Algoritmo L’algoritmo (Fig. 2) tiene conto delle caratteristiche dei singoli interventi terapeutici, delle loro sinergie e costi. L’obiettivo è quello di raggiungere e mantenere livelli di A1C < 7% e, nel caso in cui tali obiettivi non vengano raggiunti, di modificare la terapia entro i limiti consentiti. Risulta da più parti evidente che un abbassamento aggressivo della glicemia, specialmente con l’insulino-terapia, nei soggetti con diabete di nuova diagnosi può produrre una remissione sostenuta, vale a dire livelli normo-glicemici senza dovere assumere farmaci ipoglicemizzanti (87,88). Il diabete di tipo 2 è
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Percorso 1: terapie consolidate Alla diagnosi: Stile di vita + Metformina
Stile di vita + Metformina + Terapia insulinica intensiva
Stile di vita + Metformina + Insulina basale Stile di vita + Metformina +
sulfonilureaa
Livello 1
Livello 2
Livello 3
Percorso 2: terapie meno consolidate Stile di vita + Metformina + Pioglitazone Assenza di ipoglicemia Edema/CHF Fratture ossee Stile di vita + Metformina + Agonista del GLP-1b Assenza di ipoglicemia Diminuzione del peso Nausea/vomito
Stile di vita + Metformina + Pioglitazone + Sulfonilureaa
Stile di vita + Metformina + Insulina basale
Figura 2 – Algoritmo per la gestione metabolica del diabete di tipo 2; intensificare ad ogni visita gli interventi mirati a migliorare lo stile di vita e controllare i livelli di A1C ogni 3 mesi finché non siano < 7% e poi ogni 6 mesi. Se i livelli di A1C sono ≥ 7% sarà necessario apportare modifiche alla terapia. aSulfoniluree diversa dalla glibenclamide (gliburide) o dalla clorpropamide. bUtilizzo clinico insufficiente per poter esprimere un giudizio riguardo alla sicurezza. Vedi box intitolato Titolazione della metformina. Vedi Fig. 1 per iniziare e aggiustare il trattamento insulinico. CHF, scompenso cardiaco congestizio.
una malattia progressiva (89), e i pazienti dovrebbero essere informati sulla necessità di assumere nuovi farmaci ipoglicemizzanti nel tempo. Agonisti dell’amilina, inibitori dell’αglucosidasi, glinidi e inibitori della DPP4 non rientrano nei due percorsi suggeriti da questo algoritmo, per via della loro minore o equivalente efficacia ipoglicemizzante rispetto ai farmaci del primo o del secondo percorso e/o dei limitati dati clinici o relativi costi (Tabella 1). Per taluni pazienti essi potranno tuttavia rappresentare delle scelte appropriate. Percorso 1: terapie fondamentali consolidate. Queste terapie sono le più consolidate ed efficaci per il raggiungimento dei target glicemici. L’algoritmo del percorso 1 rappresenta il più indicato per molti pazienti con diabete di tipo 2. Livello 1: intervento sullo stile di vita e metforminaa. Sulla base dei numerosi benefici a breve e a lungo termine riscontrati, che aumentano quando si riesce a perdere peso e a svolgere attività fisica, mantenendo poi tale condizione, e sul rapporto costo-efficacia dato dallo stile di vita, vi è consenso sul fatto che il mutamento dello stile di vita debba essere il primo passo nel trattamento del diabete di tipo 2 di nuova diagnosi (Fig. 2). Tali interventi terapeutici andrebbero implementati da personale medico esperto – di solito dietologi qualificati con esperienza nel cam-
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po comportamentale – e dovrebbero tener conto delle differenze etniche e culturali tra una popolazione e l’altra. L’adozione di un nuovo stile di vita deve essere comunque sempre presente nella cura del diabete di tipo 2 per migliorare glicemia, pressione arteriosa e livelli lipidici, incoraggiando la perdita di peso o quanto meno il mantenimento del peso. Per il 10-20% dei pazienti con diabete di tipo 2 non obesi o in sovrappeso, una dieta adeguata accompagnata da attività fisica potrà giocare un ruolo fondamentale, anche se poi sarà necessario ricorrere a farmaci (vedi osservazioni/pazienti particolari sotto). Gli autori sono consapevoli che per la maggior parte dei soggetti con diabete di tipo 2 lo stile di vita non riesce a raggiungere o mantenere gli obiettivi metabolici desiderati, a causa della difficoltà nel perdere peso, dell’aumento di peso, della progressione della malattia o di una combinazione di più fattori. La nostra opinione comune, pertanto, è che si debba iniziare la terapia con metformina assieme alle modifiche della vita immediatamente dopo la diagnosi. La metformina viene raccomandata come terapia farmacologica iniziale, in assenza di specifiche controindicazioni, per il suo effetto sulla glicemia, l’assenza di aumento del peso corporeo o di ipoglicemia, gli effetti indesiderati generalmente lievi, elevata tolleranza e i costi relativamente bassi. La terapia con metformina dovrebbe essere titolata fino al suo massimo dosaggio per un periodo di 1-2 mesi, se tol-
lerata (vedi box, sotto la voce Titolazione o Metformina). Nel caso di iperglicemia sintomatica persistente si dovrebbe prendere in pronta considerazione l’aggiunta di un altro farmaco ipoglicemizzante. Livello 2: aggiunta di un secondo farmaco. Se pur avendo modificato il proprio stile di vita ed avere assunto il massimo dosaggio tollerato di metformina non si riesce a raggiungere o mantenere i target glicemici desiderati, entro 2-3 mesi dall’inizio della terapia o in qualunque altro momento, se e quando non si siano raggiunti i livelli desiderati di A1C si dovrebbe prescrivere un altro farmaco. Ciò anche nel caso in cui la metformina sia controindicata o non tollerata. L’opinione consensuale riguardante il secondo farmaco da aggiungere alla metformina prevedeva la somministrazione di insulina o di una sulfonilurea (Fig. 2). Come già ribadito sopra, il livello di A1C permetterà in parte di determinare su quale agente ipoglicemizzante cadrà la scelta, prendendo in considerazione l’agente più efficace, l’insulina, per pazienti con livelli di A1C > 8.5% o con sintomi secondari all’iperglicemia. La terapia insulinica può essere iniziata con un’insulina basale (ad azione intermedia o lenta) (vedi Fig. 1 per le terapie insulinica iniziali suggerite) (90). Tuttavia, anche in presenza di sintomi di iperglicemia, molti pazienti diabetici di tipo 2 di solito rispondono anche ai farmaci per via orale (48). Livello 3: ulteriori aggiustamenti. Se stile di vita, metformina e sulfoniluree o insulina basale non dovessero riuscire a raggiungere il target glicemico desiderato, il passo successivo dovrebbe essere quello di iniziare o intensificare la terapia insulinica (Fig. 1). Intensificare la terapia insulinica vuol dire effettuare un maggior numero di iniezioni, somministrando possibilmente insulina ad azione rapida prima dei pasti per ridurre le escursioni glicemica postprandiali (Fig. 1). Quando viene dato inizio alla terapia insulinica, la somministrazione di secretagoghi (sulfoniluree o glinidi) andrebbe interrotta, o diminuita e poi interrotta, poiché non vi è sinergia con l’attività dell’insulina. Nonostante si possa considerare l’aggiunta di un terzo agente ipoglicemizzante orale, specialmente se i livelli di A1C sono prossimi al target (A1C < 8.0%), tale approccio normalmente non è consigliato, in quanto non è più efficace per abbassare la glicemia e presenta costi maggiori a quelli dati dall’inizio o dall’intensificazione della terapia insulinica (91).
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Percorso 2: terapie meno consolidate In determinate condizioni cliniche è possibile prendere in considerazione l’algoritmo alternativo. Nel caso specifico in cui l’ipoglicemia sia particolarmente indesiderata (ad esempio nei pazienti che svolgono un’attività rischiosa) sarà possibile prendere in considerazione farmaci come l’exenatide o il pioglitazone. Il rosiglitazone non è consigliato. Nel caso in cui la perdita di peso sia di importanza primaria e i livelli di A1C siano prossimi al target (< 8.0%), l’exenatide rappresenta una valida opzione. Se le suddette terapie non riusciranno a raggiungere i livelli target di A1C, o non saranno tollerate, si potrà prendere in considerazione l’associazione di una sulfonilurea. In alternativa, si potranno interrompere questi interventi terapeutici e dare inizio alla somministrazione di insulina basale.
no aggiungere altri agenti ipoglicemizzanti orali, potendo anche interrompere la somministrazione di insulina.
Criteri di selezione di combinazioni specifiche Nel tempo, per molti pazienti, sarà necessario fare ricorso a più di un farmaco. La scelta dei singoli agenti ipoglicemizzanti andrebbe effettuata in base alla loro efficacia ipoglicemizzante e ad altre caratteristiche elencate nella Tabella 1. Associando un secondo agente anti iperglicemizzante, sarà bene tuttavia prendere in considerazione le sinergie create da particolari combinazioni o altre interazioni. Generalmente parlando, i farmaci anti iperglicemizzanti che danno la sinergia migliore saranno quelli che hanno meccanismi di azione differenti. L’insulina associata alla metformina (92) rappresenta una combinazione particolarmente efficace nell’abbassare i livelli glicemici limitando nel contempo l’aumento di peso.
Sommario Le linee guida e l’algoritmo di trattamento qui presentati sottolineano quanto segue: • Raggiungimento e mantenimento di valori glicemici prossimi al normale (A1C < 7.0%) • Terapia iniziale con stile di vita e metformina • Associazione di nuovi farmaci in tempi brevi e passaggio a nuovi regimi, ove non si riesca a raggiungere o mantenere i target glicemici desiderati • Associazione di insulina in tempi brevi nei pazienti che non riescono a raggiungere i valori target.
CONCLUSIONI Il diabete di tipo 2 è una malattia epidemica. A lungo andare le sue conseguenze si traducono in grandi sofferenze e alti costi; è possibile tuttavia ridurre sostanzialmente la morbidità associata alle complicanze micro vascolari e neuropatiche a lungo termine, mediante interventi mirati al raggiungimento di valori glicemici entro il range non diabetico. Sebbene si sia riscontrata l’efficacia di nuove classi di farmaci e delle loro combinazioni nell’abbassare i livelli glicemici, ancora oggi è difficile per i diabetici raggiungere e mantenere livelli tali da garantire una condizione di salute ottimale.
Bibliografia
Osservazioni/patienti particolari Nel caso di diabete gravemente non controllato con stress catabolico, con livelli glicemici plasmatici a digiuno > 13.9 mmol/l (250 mg/dl), livelli glicemici random costantemente al di sopra di 16.7 mmol/l (300 mg/dl), A1C al di sopra del 10%, o presenza di chetonuria, o diabete sintomatico con poliuria, polidipsia e perdita di peso, il trattamento da attuare è la terapia insulinica associata ad uno stile di vita adeguato. È possibile che alcuni pazienti che presentino le suddette caratteristiche abbiano un diabete di tipo 1 non riconosciuto; altri avranno un diabete di tipo 2 con severa insulino deficienza. L’insulina potrà essere titolata rapidamente e potrà con grande probabilità far tornare i livelli glicemici ai valori target. Quando i suddetti sintomi non saranno più evidenti e livelli glicemici saranno diminuiti, spesso si potran-
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Autoimmunità β-Cellulare nella malattia celiaca in età pediatrica: è necessario lo screening di routine? GIUSEPPE D’ANNUNZIO, MD1 ALESSANDRO GIANNATTASIO, MD1 ELENA POGGI, MD1, EMANUELA CASTELLANO, MD2
ANGELA CALVI, MD2 ANGELA PISTORIO, MD3 ARRIGO BARABINO, MD2 RENATA LORINI, MD1
OBIETTIVO – Valutare la prevalenza dell’autoimmunità β-cellulare e l’utilità dello screening del diabete di tipo 1 nei pazienti affetti da malattia celiaca.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – È stata effettuata la misurazione di anticorpi anti-acido glutammico decarbossilasi (GADAs), anti-antigeni associati alla proteina dell’insulinoma 2 (IA-2As) e autoanticorpi anti-insulina (IAAs) in 188 pazienti italiani di giovane età affetti da malattia celiaca (66 maschi [35.1%]). L’età media alla diagnosi di malattia celiaca era di 5.4 anni (0.5–17.1) e la durata media della malattia celiaca era di 4.2 anni (0-28.8). La malattia celiaca veniva diagnosticata mediante biopsia digiunale dopo la conferma delle positività per anticorpi endomisio e anti transglutaminasi tissutale. RISULTATI – I GADAs risultavano positivi in sette pazienti (3.7%) e vi era positività per IA-2As in due pazienti. In nessun caso si riscontravano IAAs. La valutazione metabolica era normale e durante il follow-up non vi era insorgenza di diabete in nessuno dei pazienti. Non si evidenziavano significative associazioni tra autoimmunità β-cellulare e sesso, età, fase puberale, anamnesi familiare o coesistenza con altri disordini del sistema immunitario; la compliance verso una dieta senza glutine era confermata.
CONCLUSIONI – I nostri risultati dimostrano una bassa prevalenza di
autoimmunità β-cellulare e non supportano la necessità di uno screening precoce per autoimmunità β-cellulare in giovani pazienti affetti da malattia celiaca. Diabetes Care 32: 254-256, 2009 a malattia celiaca, la cui prevalenza nella popolazione generale occidentale si aggira attorno all’1%, è associata ad altri disordini del sistema autoimmunitario (1). Il diabete di tipo 1 e la malattia celiaca hanno un periodo prodromico che li accomuna, con anticorpi rivolti contro gli antigeni delle cellule beta delle isole pancreatiche o della mucosa intestinale. Gli anticorpi anti-acido glutammico-decarbossilasi (GADAs), gli antigeni associati alla proteina 2 dell’insulinoma (IA-2A) e anti-insulina (autoanticorpi anti-insulina [IAA]) sono utilizzati per lo screening del diabete di tipo 1; gli anticorpi anti endomisio (EMAs) e anti transglutaminasi tissutale (tTGAs) sono consigliati per lo screening della malattia celiaca (2,3). Sono
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stati effettuati pochi studi sull’autoimmunità β-cellulare nei pazienti affetti da malattia celiaca (4,5). Abbiamo esaminato la frequenza dell’autoimmunità β-cellulare e la utilità dello screening del diabete di tipo 1 nei pazienti di giovane età affetti da malattia celiaca.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI Si è effettuata la misurazione degli anticorpi β-cellulari in 188 pazienti di nazionalità italiana affetti da malattia celiaca diagnosticata mediante biopsia digiunale, adottando i criteri di classificazione in fase di Marsh dopo avere ottenuto conferma con la positività di EMA e tT-
1Department of Pediatrics, University of Genoa, IRCCS G. Gaslini Institute, Genoa, Italy; 2Department Service of Gastroenterology, IRCCS G. Gaslini Institute, Genoa, Italy; 3Epidemiology and Biostatistics Unit, IRCCS G. Gaslini Institute, Genoa, Italy. Corresponding author: Giuseppe d’Annunzio,
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GA e con eventuali sintomi. La compliance verso la dieta senza glutine (Gluten-free diet - GFD) era valutata mediante EMA e tTGA. La presenza di IgA tTGA era rilevata utilizzando il test di immunoassorbimento enzimatico e quella di IgA EMA mediante immunofluorescenza indiretta. Tutti i campioni venivano analizzati per GADA, IA-2A e IAA mediante tecnica di radiobinding (6). Veniva presa debita nota di anamnesi personale e familiare per altri disordini del sistema autoimmunitario. Veniva effettuato un confronto dei dati qualitativi tra i vari gruppi mediante test χ2 test o test esatto di Fisher. Tutti i test erano bilaterali; un valore di P < 0.05 era significativo. Metodi statistici (release 6; StatSoft, Tulsa, OK) sono stati utilizzati per tutte le analisi. Il confronto tra i due gruppi di pazienti per quanto riguarda la durata della malattia celiaca (positivo vs. negativo per gli autoanticorpi β-cellulari) veniva effettuato mediante test U di Mann-Whitney.
RISULTATI Le caratteristiche della popolazione dello studio sono riportate nella Tabella 1. La malattia celiaca era stata diagnosticata nel 78.7% dei bambini con i classici sintomi, nel 7.5% con sintomi atipici e nel 13.8% in seguito alla procedura di screening. Abbiamo riscontrato malattia tiroidea autoimmune (ATD) concomitante nel 5.6% dei pazienti. Nessun paziente aveva artrite idiopatica giovanile, gastrite atrofica, morbo di Addison o vitiligine. Si riscontrava una storia positiva per uno o più disordini autoimmunitari nel 35.6% delle famiglie (malattia celiaca nel 26.6%, ATD nel 9.6% e sia diabete di tipo 1 che artrite idiopatica giovanile nel 2.3%). Nove pazienti sono risultati positivi per anticorpi correlati al diabete (4.8% [95% CI 2.2–8.9]): in sette pazienti si riscontrava positività per GADA (3.7% [1.5–7.5]) e in due pazienti per IA-2A (1.1% [0.1–3.8]) mentre nessun paziente mostrava IAA o risultava positivo per due anticorpi. Tutti e nove i pazienti positivi avevano normale glicemia plasmatica a digiuno, normali livelli di HbA1c e glicemia plasmatica + 1202, dopo aver effettuato il test di tolleranza glucidica. Il test di
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Tabella 1 – Caratteristiche cliniche dei pazienti affetti da malattia celiaca (n = 188) Sesso Maschile Femminile Fase puberale – Classificazione di Tanner I II III IV V Età alla diagnosi della malattia celiaca (anni) Età registrata al controllo basale (anni) Durata della malattia celiaca (anni)
66 (35.1) 122 (64.9) 103 (54.8) 26 (13.8) 18 (9.6) 10 (5.3) 31 (16.5) 5.4 ± 4.2 10.4 ± 6.8 4.2 ± 5.9
4.0 (0.5–17.1) 9.0 (1.5–48.2) 2.1 (0.0–28.8)
I dati sono n (%), medie ± SD, o mediane (minima–massima) ove non diversamente specificato. tolleranza al glucosio endovenoso evidenziava una prima risposta insulinica al di sotto del primo percentile soltanto in tre dei nove pazienti. Dopo tre anni di followup non vi era insorgenza di diabete di tipo 1 in nessuno dei pazienti. Non si sono riscontrate associazioni significative tra autoimmunità β-cellulare e sesso, età alla diagnosi (< 10 vs. ≥ 10 anni), anamnesi familiare di disordini del sistema autoimmunitario, ATD concomitante, compliance verso GFD e fase puberale di Tanner. Non si osservava alcun rapporto tra durata della malattia celiaca e positività agli autoanticorpi verso le β-cellule (P = 0.79). La tipizzazione molecolare degli alleli HLA di classe II (alleli DQ2 and DQ8) veniva eseguita su 80 dei 188 pazienti affetti da malattia celiaca (42.5%). Tra i nove pazienti con autoanticorpi verso le β-cellule, la tipizzazione HLA veniva effettuata in otto casi. Si sono osservati HLA-DQ2 in sei casi, HLA-DQ8 in un caso e HLADQ2/DQ8 in un caso. Tra i rimanenti 72 pazienti senza autoanticorpi anti β-cellule, si sono osservati HLA-DQ2 in 69 casi, HLA-DQ8 in due casi e HLA-DQ2/DQ8 in un caso.
CONCLUSIONI Nel nostro studio abbiamo trovato una bassa prevalenza di anticorpi correlati al diabete e nessuna associazione con altri disordini del sistema autoimmunitario. Negli adulti la malattia celiaca è associata a parecchi disordini del sistema autoimmunitario (in primo luogo il diabete di tipo 1 e malattie della tiroide). Nei pazienti affetti da malattia celiaca in età pediatrica, invece, si sono osservati risultati contrastanti riguardo alla presenza e la significatività di anticorpi correlati al diabete (7). Di Mario et al. (8) hanno valutato IAAs e anticorpi anti-citoplasma delle cellule insulari (ICAs) in bambini con malattie celiaca di nuova diagnosi che seguivano una dieta contenente glutine, in pazien-
ti con malattia celiaca conclamata che seguivano una GFD ed in gruppi di controllo, e si sono chiesti se i suddetti fattori siano predittivi di diabete subclinico o se possano indicare una generale diatesi autoimmunitaria. Karagiozoglou-Lampoudi et al. (9) non hanno riferito alcuna positività per ICA in pazienti celiaci in età pediatrica. Galli-Tsinopoulou et al. (10) hanno riscontrato GADA e IA-2A nel 23% dei pazienti celiaci, raccomandando lo screening per l’immunità β-cellulare. In uno studio retrospettico effettuato su 90 celiaci italiani di giovane età, la prevalenza di anticorpi correlati al diabete era dell’11.1% ed era correlata all’esposizione al glutine (7). Analogamente, in un alto numero di casi di pazienti celiaci adulti in Italia si osservava un’alta prevalenza (9%) di un anticorpo correlato al diabete (ICA, IA-2A, or GADA), a prescindere dalla compliance verso una GFD (11). Nonostante quest’alta percentuale di auto-immunità correlata al diabete, non si sono riscontrati casi incidenti di diabete, a sostegno del ruolo di una comune suscettibilità genetica ad entrambe le malattie e di fattori coinvolti nella permeabilità intestinale (7). I dati contrastanti riguardo alla prevalenza di anticorpi correlati al diabete nei pazienti affetti da malattia celiaca potrebbe essere dovuti al miglioramento delle tecniche di laboratorio, che hanno escluso dati falso-positivi. Nei pazienti celiaci di giovane età, la durata dell’esposizione al glutine potrebbe influenzare l’evolversi di altri disordini del sistema autoimmunitario (7). Bonamico et al. (12) hanno identificato almeno un anticorpo sierico di origine endocrina (ICA, oppure un anticorpo antitiroideo) nel 50% degli adolescenti con malattia celiaca non diagnosticata ma soltanto nel 12% dei pazienti celiaci che seguivano una GFD, inducendo a ritenere che i suddetti anticorpi potrebbero essere parzialmente glutine-dipendenti. Un’anormale regolazione della per-
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meabilità intestinale ed un’aumentata produzione di anticorpi all’esordio di un’infiammazione intestinale cronica costituiscono fattori scatenanti l’evolversi di una risposta autoimmunitaria (12). È stato recentemente evidenziato che la sovraregolazione indotta dal glutine della zonulina, un peptide intestinale coinvolto nella regolazione delle giunzioni strette intestinali, potrebbe essere responsabile dell’aumento aberrante di permeabilità intestinale che si riscontra nel diabete di tipo 1 (13). Il sistema immunitario dell’intestino comprende gran parte del tessuto linfoide umano; dunque, una risposta nociva a determinati componenti della dieta avrebbe ripercussioni in tutto l’organismo, attraverso le cellule immunitarie o mediatori immunitari rilasciati dall’intestino (14). Laadhar et al. (4) non hanno riscontrato differenze nella prevalenza di autoanticorpi β-cellulari tra pazienti in età pediatrica con malattia celiaca di nuova diagnosi e gruppi di controllo, concludendo che non è giustificato lo screening per gli anticorpi correlati al diabete. Tale opinione è condivisa anche da Fanciulli et al. (5), che non consigliano lo screening per l’autoimmunità β-cellulare per tutti pazienti affetti da malattia celiaca, per via della bassa prevalenza di autoimmunità correlata al diabete nei pazienti celiaci in età pediatrica. Bibliografia
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Iperglicemia e mortalità da ictus Confronto fra glicemia a digiuno e a 2-h MARJUKKA HYVÄRINEN, MSC1 QING QIAO, MD, PHD1,2 JAAKKO TUOMILEHTO, MD, PHD1,2 TIINA LAATIKAINEN, MD, PHD2 ROBERT J. HEINE, MD, PHD3 COEN D.A. STEHOUWER, MD, PHD4
K. GEORGE M.M. ALBERTI, MD, PHD5 KALEVI PYÖRÄLÄ, MD, PHD6 BJÖRN ZETHELIUS, MD, PHD7 BIRGITTA STEGMAYR, MD, PHD8 PER IL DECODE STUDY GROUP*
OBIETTIVO – Abbiamo studiato la mortalità da ictus in individui appartenenti a differenti categorie glicemiche, mettendo a confronto gli hazard ratios (HRs) corrispondenti a un aumento di 1SD per la glicemia plasmatica a 2h e per la glicemia plasmatica a digiuno (FPG).
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – Abbiamo esaminato i dati ottenuti da un test di tolleranza glucidica a 2h dopo un carico orale di 75g di glucosio, ottenuti da 13 coorti europee che comprendevano 11844 (55%) uomini e 9862 (45%) donne, il cui follow-up ha avuto una durata media di 10.5 anni. È stato utilizzato un modello a rischi proporzionali di Cox multivariato e aggiustato per stimare gli HR per la mortalità da ictus. RISULTATI – In uomini e donne senza una precedente storia di diabete, gli HR multivariati aggiustati per mortalità da ictus corrispondenti a un aumento di 1SD della FPG erano 1.02 (95% CI 0.83–1.25) e 1.52 (1.22-1.88) e quelli della glicemia plasmatica a 2h erano rispettivamente 1.21 (1.06-1.38) e 1.31 (1.06-1.61). L’aggiunta della glicemia plasmatica a 2h al modello basato sulla FPG migliorava in modo significativo la predittività di ictus negli uomini (χ2 = 10.12; P = 0.001) ma non nelle donne (χ2 = 0.01; P = 0.94), mentre l’aggiunta della FPG alla glicemia plasmatica a 2h migliorava la mortalità da ictus nelle donne (χ2 = 4.08; P = 0.04) ma non negli uomini (χ2 = 3.29; P = 0.07). CONCLUSIONI – Il diabete definito da FPG o da glicemia plasmatica a 2h aumenta il rischio di mortalità da ictus. Negli individui senza una storia di diabete, elevati Livelli glicemici post-carico a 2h rappresentano un fattore con maggiore predittività rispetto a elevati livelli glicemici a digiuno negli uomini, mentre questi ultimi sono maggiormente predittivi per le donne. Diabetes Care 32: 348-354, 2009 arecchi studi epidemiologici hanno indicato che il diabete è un principale fattore di rischio di ictus (1) e di ricorrenza di ictus (2). Alcuni studi hanno anche evidenziato un’aumentata incidenza di ictus con elevati livelli glicemici in individui non diabetici (3,4). Eppure, non tutti gli studi hanno confermato tali riscontri (5, 6), né hanno evidenziato una
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simile associazione per le sole donne (7). Da un recente riesame sistematico di studi epidemiologici e di studi effettuati in 52 paesi diversi si è osservato che il 13% dei casi di mortalità da ictus erano associati ad elevati livelli di glicemia plasmatica a digiuno (FPG) (4). L’associazione tra iperglicemia ed eventi ischemici non è tuttavia espressa in maniera inequivo-
1Department of Public Health, University of Helsinki, Helsinki, Finland; 2Diabetes Unit, Department of Health Promotion and Chronic Disease Prevention, National Public Health Institute, Helsinki, Finland; 3Institute for Research in Extramural Medicine, Vrije Universiteit Medical Center, Amsterdam, the Netherlands; 4Department of Medicine, Maastricht University Medical Centre, Maastricht, the Netherlands; 5Imperial College, St Mary’s Campus, St Mary’s Hospital, London, U.K.; 6Department of Medicine, University of Kuopio, Kuopio, Finland; 7Department of Public Health/Geriatrics, Uppsala University Hospital, Uppsala, Sweden; 8Department of Public Health and Clinical Medicine, University of Umeå, Umeå, Sweden. Corresponding author: Marjukka Hyvärinen,
[email protected]
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cabile, come invece è il caso per iperglicemia e malattia cardiaca coronarica (CHD). Il Gruppo di Studio Diabetes Epidemiology: Collaborative analysis Of Diagnostic criteria in Europe (DECODE) ha dimostrato che livelli iperglicemici post-carico a 2h sono più fortemente correlati a CHD rispetto a livelli iperglicemici a digiuno. Non si è tuttavia evidenziata una simile correlazione per la mortalità da ictus, probabilmente a causa del numero esiguo di eventi (8). Con un follow-up esteso ed un aumento del numero di partecipanti, si è riusciti a totalizzare un certo numero di eventi ischemici nello studio DECODE. Abbiamo dunque nuovamente esaminato il rapporto tra iperglicemia e mortalità da ictus, confrontando la differenza tra glicemia plasmatica a digiuno e glicemia plasmatica a 2h, per poterne valutare la predittività per mortalità da ictus.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI La popolazione dello studio comprendeva 21706 individui, 11844 (55%) uomini e 9862 (45%) donne di 13 diverse coorti europee. Alla valutazione basale l’età andava dai 25 ai 90 anni e l’età media variava dai 45 ai 76 anni nelle differenti coorti. Il follow-up aveva una durata che andava da 3.8 ad un massimo di 27.9 anni secondo le varie coorti, con una durata mediana di 10.5 anni. Nella popolazione studiata, a 1196 (5.5%) individui era già stato diagnosticato il diabete. Gli individui senza una precedente diagnosi di diabete venivano classificati o secondo la glicemia plasmatica a 2h (≥ 11.1 mmol/l per il diabete, 7.8–11.0 mmol/l per ridotta tolleranza glucidica [IGT] e < 7.8 mmol/l per normale tolleranza glucidica [NGT]), o secondo i livelli di FPG (≥ 7.0 mmol/l per il diabete, 6.1-6.9 mmol/l per ridotta tolleranza glucidica [IFG] e < 6.1 mmol/l per normale tolleranza glucidica [NFG]). Erano in nostro possesso i dati riguardanti glicemia plasmatica a 2h, FPG, BMI, colesterolo serico totale, pressione arteriosa sistolica e diastolica, trattamento antipertensivo e fumo, per ognuna delle popolazioni di studio incluse in questa analisi. Si è presa nota delle condizioni di salute e della causa del decesso per i partecipanti di tutti gli studi. I nominativi dei partecipanti che erano emigrati in un altro paese e dei quali non si aveva una conferma dello stato di salute venivano cancel37
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Tabella 1 – Dati demografici basali e numero di eventi ischemici durante il follow-up in ciascuno studio Ictus Finlandia, Est-Ovest* FINRISK-1987 FINRISK-1992 FINRISK-2002 Helsinki Policemen Study* Vantaa Cremona, Italia Paesi Bassi, Hoorn Study Zuthpen Study* MONICA, Svezia Uppsala* U.K., Goodinge Newcastle Totale
Uomini
Donne
Età (anni)
Uomini
Donne
Fallow-up massimo anni
405 1,261 877 1,786 1,136 271 799 1,087 479 1,733 1,164 448 398 11,844
— 1,440 1,041 2,055 — 335 1,003 1,282 — 1,760 — 570 376 9,862
76.2 ± 4.5 54.0 ± 5.8 54.1 ± 6.0 57.9 ± 7.8 44.7 ± 8.0 65.2 ± 0.4 58.4 ± 10.8 61.7 ± 7.3 75.8 ± 4.5 48.9 ± 13.4 71.0 ± 0.6 54.6 ± 10.3 54.8 ± 12.5 56.8 ± 11.3
29 (7.2) 25 (2.0) 6 (0.7) 3 (0.2) 79 (7.0) 5 (1.8) 5 (0.6) 12 (1.1) 9 (1.9) 18 (1.0) 27 (2.3) 8 (1.8) 5 (1.3) 231 (2.0)
— 24 (1.7) 7 (0.7) 2 (1.2) — 9 (2.7) 2 (0.2) 11 (0.9) — 8 (0.5) — 1 (0.2) 4 (1.1) 68 (0.7)
16.2 19.0 14.0 3.9 36.8 13.9 6.9 10.2 4.8 20.6 12.4 9.7 10.6 36.8
I dati sono n, medie ± SD, o n (%), ove non diversamente specificato. Lo studio include solo uomini. lati. La morte cerebrovascolare veniva classificata come end point e codificata secondo l’ICD coi codici 430-438 (8a e 9a revisione) e coi codici I60-I69 (10a revisione). I criteri di reclutamento dei partecipanti per le coorti del DECODE sono stati precedentemente descritti (8,9). In breve, il database veniva acquisito dai ricercatori che avevano effettuato studi epidemiologi in Europa, misurando i livelli glicemici 2h dopo un carico gucidico orale di 75 g. I dati delle diverse coorti europee partecipanti venivano inviati alla Diabetes and Genetic Epidemiology Unit of the National Public Health Institute di Helsinki, Finlandia, per le analisi. Ogni studio veniva approvato dal comitato etico locale, e l’analisi dei dati veniva approvata dal comitato etico del National Public Health Institute. Metodi statistici È stato adottato un modello lineare generalizzato di analisi della varianza ANOVA per calcolare le medie aggiustate per età e centro. Si è inoltre utilizzato un modello a rischi proporzionali di Cox per stimare gli HR e il loro intervallo di confidenza (CI) del 95% per mortalità da ictus ai diversi livelli glicemici plasmatici, FPG e a 2h. I modelli erano aggiustati per età, centro, livello di ipertensione (≥ 140/90 mmHg o in trattamento), BMI, colesterolo sierico totale, fumo e sesso. Il BMI era calcolato come il peso espresso in chilogrammi diviso l’altezza in metri quadrati, e per il fumo i pazienti erano classificati come fumatore, ex-fumatore o non fumatore. le curve cumulative di mortalità erano tracciate utilizzando la stessa analisi multivariata dei rischi proporzionali di Cox. Si utilizzavano i quozienti di probabilità χ2 per determinare le differenze tra FPG e glicemia plasmatica 38
a 2h. Per l’analisi dei dati si è utilizzato il programma SPSS (versione 15; SPSS, Chicago, IL).
RISULTATI Il numero dei partecipanti, le loro caratteristiche demografiche basali ed il numero finale di eventi ischemici in ogni coorte del DECODE dopo anni di followup sono riportati nella Tabella 1. La mortalità da ictus era più alta negli individui diabetici rispetto ai non diabetici. Gli individui senza una precedente diagnosi di diabete con livelli di glicemia plasmatica a 2h ≥ 11.1 mmol/l o livelli di FPG ≥ 7.0 mmol/l erano più anziani ed avevano BMI e livelli di colesterolo più alti rispetto agli individui con glicemia plasmatica a 2h < 11.1 mmol/l o FPG < 7.0 mmol/l. Si riscontravano risultati analoghi sia negli uomini che nelle donne (Tabella 2). L’HR multivariato, aggiustato per eventi ischemici fatali, era più alto negli uomini con diabete rilevato da screening definito dai livelli di glicemia plasmatica a 2h rispetto agli uomini con NGT o IGT. Si riscontrava un aumento significativo degli HR nelle donne con diabete rilevato da screening definito o dalla FPG o dalla glicemia plasmatica a 2h rispetto alle donne con NGT o IGT (Tabella 2). I rischi cumulativi risultavano più alti negli individui con una precedente diagnosi di diabete e con diabete rilevato da screening definito dai suddetti criteri (Fig. 1A-B e Fig. 2A-B); il rischio di IFG risultava moderatamente aumentato nelle donne (Fig. 1B) e il rischio di IGT negli uomini (Fig. 2A). Il rischio di eventi ischemici fatali era più basso negli uomini con NFG o IFG (Fig. 1A) e nelle donne con NGT o IGT (Fig. 2B). Dunque, la classificazione basata sulla glicemia pla-
smatica a 2h era maggiormente predittiva di eventi ischemici fatali per gli uomini, mentre per le donne migliore predittività era espressa dai livelli di FPG. Gli HR corrispondenti a un aumento di 1SD della glicemia plasmatica a 2h o della FPG sono riportati nella Tabella 3. I quozienti di probabilità mostravano che l‘aggiunta della glicemia plasmatica a 2h al modello che già teneva conto della FPG migliorava significativamente la predittività (χ2 = 10.45; P = 0.001) per gli uomini (χ2 = 10.12; P = 0.001) ma non per le donne (χ2 = 0.01; P = 0.94). L’aggiunta dell’FPG al modello che già adottava la glicemia plasmatica a 2h migliorava la predittività di mortalità ischemica per le donne ma non per gli uomini (Tabella 3). Si è riscontrata significatività nell’interazione del sesso con la FPG (P = 0.05) ma non con la glicemia plasmatica a 2h (P = 0.53). Poiché circonferenza vita e trigliceridi non sono stati misurati in tutte le coorti incluse nell’attuale analisi dei dati, questi non sono stati aggiustati nel modello finale. I loro effetti sono tuttavia stati testati in un sottogruppo di 9010 (42%) uomini e 8900 (41%) donne con misurazioni della vita ed un sottogruppo di 10379 (48%) uomini ed 8235 (38%) donne con i trigliceridi. Gli aggiustamenti effettuati o per la vita o per i trigliceridi non hanno cambiato i risultati per la glicemia plasmatica a 2h negli uomini o per la FPG nelle donne, ma diminuivano i rischi per la glicemia plasmatica a 2h per le donne e per le FPG per gli uomini. Gli HR aggiustati per la vita corrispondenti ad un aumento di 1SD della glicemia plasmatica a 2h erano 1.23 (95% CI 0.99-1.52) per gli uomini e 1.07 (0.78-1.48) per le donne; quelli corrispondenti a un aumento di 1SD della FPG erano 1.08
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Tabella 2 – Caratteristiche basali e hazard ratio (HR) multivariato e aggiustato (95% CI) per decesso dovuto a ictus secondo le categorie di FPG e glicemia plasmatica a 2-h FPG Glicemia plasmatica a 2h –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Diabete <6.1 6.1–6.9 ≥ 7.0 < 7.8 7.8–11.0 ≥ 11.1 conclamato Uomini n (%) Età (anni) BMI (kg/m2) Colesterolo (mmol/l) SBP (mmHg) DBP (mmHg) Fumo Ictus n (%) n per 1000 persone-anni HR (95% CI) Donne n (%) Età (anni) BMI (kg/m2) Colesterolo (mmol/l) SBP (mmHg) DBP (mmHg) Fumo Ictus n (%) n per 1000 persone-anni HR (95% CI) Totale n (%) Età (anni) BMI (kg/m2) Colesterolo (mmol/l) SBP (mmHg) DBP (mmHg) Fumo Ictus n (%) n per 1000 persone-anni HR (95% CI)
8,540 (72.1) 56.9 ± 0.1 26.3 ± 0.0 6.04 ± 0.01 140 ± 0.2 83 ± 0.1 2,507 (29.4)
2,043 (17.2) 57.2 ± 0.3 27.4 ± 0.1 6.09 ± 0.03 145 ± 0.4 85 ± 0.3 637 (31.2)
537 (4.5) 62.4 ± 0.5 29.0 ± 0.2 6.11 ± 0.05 148 ± 0.9 87 ± 0.5 157 (29.2)
9,065 (76.5) 55.8 ± 0.1 26.3 ± 0.0 6.07 ± 0.01 140 ± 0.2 83 ± 0.1 2,835 (31.3)
1,558 (13.2) 63.2 ± 0.3 27.7 ± 0.1 5.99 ± 0.03 147 ± 0.5 86 ± 0.3 360 (23.1)
141 (1.7) 1.46 1
45 (2.2) 1.90 1.05 (0.74–1.49)
15 (2.8) 3.24 1.37 (0.79–2.38)
153 (1.7) 1.43 1
35 (2.2) 2.47 1.43 (0.97–2.11)
8,169 (82.8) 54.9 ± 0.1 26.5 ± 0.1 6.22 ± 0.01 137 ± 0.2 80 ± 0.1 1,650 (20.2)
969 (9.8) 59.0 ± 0.3 28.6 ± 0.2 6.27 ± 0.04 141 ± 0.7 81 ± 0.4 237 (24.5)
252 (2.6) 61.1 ± 0.6 30.6 ± 0.3 6.32 ± 0.07 143 ± 1.3 82 ± 0.7 67 (26.6)
7,766 (78.7) 54.5 ± 0.1 26.4 ± 0.1 6.22 ± 0.01 137 ± 0.2 80 ± 0.1 1,712 (22.0)
1,281 (13.0) 59.6 ± 0.3 28.6 ± 0.1 6.27 ± 0.03 144 ± 0.6 83 ± 0.3 184 (14.4)
37 (0.5) 0.44 1
10 (1.0) 1.25 2.04 (0.99–4.21)
7 (2.8) 3.35 4.73 (2.00–11.18)
36 (0.5) 0.46 1
9 (0.7) 0.72 0.90 (0.43–1.90)
16,709 (77.0) 56.0 ± 0.1 26.4 ± 0.0 6.12 ± 0.01 139 ± 0.2 82 ± 0.1 4,157 (24.9)
3,012 (13.9) 57.6 ± 0.2 27.9 ± 0.1 6.20 ± 0.02 144 ± 0.4 83 ± 0.2 874 (29.0)
789 (3.6) 61.8 ± 0.4 29.5 ± 0.1 6.20 ± 0.04 146 ± 0.7 85 ± 0.4 224 (28.4)
16,831 (77.5) 55.2 ± 0.1 26.4 ± 0.0 6.14 ± 0.01 138 ± 0.2 82 ± 0.1 4547 (27)
2,839 (13.1) 61.6 ± 0.2 28.1 ± 0.1 6.11 ± 0.02 145 ± 0.4 85 ± 0.2 544 (19.2)
178 (1.1) 0.98 1
55 (1.8) 1.74 1.19 (0.87–1.64)
22 (2.8) 3.27 1.83 (1.16–2.89)
189 (1.1) 1.02 1
44 (1.5) 1.65 1.30 (0.92–1.84)
497 (4.2) 65.1 ± 0.5 28.9 ± 0.2 6.04 ± 0.05 151 ± 0.9 87 ± 0.5 106 (21.3)
724 (6.1) 62.8 ± 0.4 28.3 ± 0.1 5.78 ± 0.04 145 ± 0.7 84 ± 0.4 166 (22.9)
13 (2.6) 30 (4.1) 3.50 5.57 1.82 (1.01–3.29) 3.32 (2.16–5.12) 343 (3.5) 62.4 ± 0.5 30.0 ± 0.3 6.21 ± 0.06 147 ± 1.1 84 ± 0.6 58 (16.9)
472 (4.8) 60.8 ± 0.5 30.1 ± 0.2 5.86 ± 0.05 147 ± 1.0 81 ± 0.5 67 (14.2)
9 (2.6) 14 (3.0) 3.03 3.93 3.33 (1.55–7.14) 5.60 (2.86–10.96) 840 (3.9) 63.9 ± 0.4 29.3 ± 0.1 6.12 ± 0.04 149 ± 0.7 86 ± 0.4 164 (19.5)
1,196 (5.5) 61.9 ± 0.3 29.1 ± 0.1 5.83 ± 0.03 146 ± 0.6 82 ± 0.3 233 (19.5)
22 (2.6) 44 (3.7) 3.29 4.92 2.31 (1.46–3.67) 3.85 (2.68–5.53)
I dati sono n (%) e medie ± SE ove non diversamente specificato. I dati sono aggiustati per età, studio e sesso (ove uomini e donne erano in combinazione). FPG e glicemia plasmatica a 2h sono espressi in mmol/l. DBP, pressione arteriosa diastolica; SBP, pressione arteriosa sistolica.
(0.86-1.35) per gli uomini e 1.38 (0.95-2.00) per le donne. Gli HR per aggiustamento dei trigliceridi erano per la glicemia plasmatica a 2h 1.24 (1.03-1.50) negli uomini e 0.98 (0.65-1.49) nele donne, mentre per la FPG erano rispettivamente 0.87 (0.691.10) e 1.50 (0.90-2.48). Ulteriori aggiustamenti o per la vita o per i trigliceridi nei sottogruppi non variavano i risultati basati sull’intera popolazione dello studio.
CONCLUSIONI Abbiamo confermato in quest’analisi che il diabete definito o dalla FPG o dalla glicemia plasmatica a 2h esprime un’aumentata mortalità ischemica. Gli individui con IFG definita secondo i soli criteri
della FPG risultavano avere una mortalità ischemica più bassa dei soggetti diabetici ma più alta di quelli con NFG nelle donne e non negli uomini, mentre si riscontrava l’opposto per IGT e NGT. La mortalità ischemica era più alta negli uomini con IGT che non in quelli con NGT, ma nelle donne tale differenza non si riscontrava. È stato osservato che il diabete conclamato (1, 10), così come il diabete definito in base ai livelli glicemici 1h dopo carico di glucosio (11), livelli di FPG (12, 13), o livelli glicemici non a digiuno (7, 14), è predittivo di un rischio ischemico aumentato. Eppure gli studi effettuati su un test da carico orale di glucosio a 2h e che hanno confrontato il rischio ischemi-
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co tra i livelli glicemici 2h dopo carico di glucosio e livelli glicemici a digiuno sono rari. Poiché, inoltre, la categoria delle IFG è stata introdotta solo di recente (15), sono molto pochi gli studi che effettuano una valutazione del rischio ischemico negli individui con IFG rispetto a quelli con IGT. Il Gruppo di Studio del DECODE (8) aveva precedentemente evidenziato che il rischio di decesso dovuto a ictus risultava più alto nelle donne con IFG rispetto a quelle con IGT (8), ma in conseguenza del basso numero di decessi dovuti ad ictus, non si era effettuato un confronto diretto fra FPG e glicemia plasmatica a 2h separatamente per uomini e donne. Con l’aumentato numero di decessi dovuti ad ictus accumulatisi nelle 39
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Rischio cumulativo
DM noto
Anni di follow-up
Rischio cumulativo
DM noto
Anni di follow-up Figura 1 – Curve cumulative di mortalità da ictus derivate dall’analisi di regressione di Cox per FPG (mmol/l) e per soggetti con una precedente anamnesi di diabete (DM conclamato) negli uomini (A) e nelle donne (B). L’analisi è aggiustata per età, studio, BMI, colesterolo totale, fumo e ipertensione.
coorti del DECODE, in questa analisi dei dati è stata riesaminata in dettaglio la relazione glicemia-ictus. Riguardo alla 40
mortalità CHD, avendo analizzato insieme i dati relativi a uomini e donne, quanto evidenziato da questo studio (ri-
sultati non riportati) era in accordo con quanto precedentemente riscontrato (8). In questo studio, inoltre, che esaminava
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Rischio cumulativo
DM noto
Anni di follow-up
Rischio cumulativo
DM noto
Anni di follow-up Figura 2 – Curve cumulative di mortalità da ictus derivate dall’analisi di regressione di Cox per glicemia plasmatica a 2h (mmol/l) e per soggetti con una precedente anamnesi di diabete (DM conclamato) negli uomini (A) e nelle donne (B). L’analisi è aggiustata per età, studio, BMI, colesterolo totale, fumo e ipertensione.
uomini e donne congiuntamente, la relazione glicemia plasmatica a 2h-ictus rimaneva più forte di quella FPG-ictus. Quando, tuttavia, i dati venivano analizzati separatamente, si riscontrava che per
gli uomini la glicemia plasmatica a 2h aveva una migliore predittività di ictus rispetto alla FPG, ma tale ruolo per le donne risultava essere inverso. Analizzando i dati per uomini e donne insieme,
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la maggioranza dei decessi dovuti a ictus si osserva è negli uomini, e sono stati i risultati relativi agli uomini ad imprimere la direzione presa dall’analisi; le differenze relative al sesso, dunque, riguardo a
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Tabella 3 – HR (95% CI) decesso dovuto a ictus corrispondente a un aumento di 1SD dei livelli di FPG o glicemia plasmatica a 2h inseriti separatamente nel modello Aggiustamento* n Modello 1† FPG glicemia plasmatica a 2h Modello 2† FPG glicemia plasmatica a 2-h Modello 3† FPG glicemia plasmatica a 2h χ2 per FPG, 1 df (P) χ2 per PG a 2h, 1 df (P)
Uomini
Donne
Totale
11,120
9,390
20,510
1.04 (0.85–1.27) 1.21 (1.06–1.38)
1.54 (1.26–1.90) 1.31 (1.07–1.61)
1.18 (1.03–1.35) 1.25 (1.12–1.40)
1.04 (0.86–1.27) 1.23 (1.08–1.40)
1.56 (1.26–1.92) 1.34 (1.09–1.65)
1.27 (1.14–1.42) 1.18 (1.03–1.36)
1.02 (0.83–1.25) 1.21 (1.06–1.38) 3.29 (0.07) 10.12 (0.001)
1.52 (1.22–1.88) 1.31 (1.06–1.61) 4.08 (0.04) 0.01 (0.94)
1.16 (1.00–1.33) 1.25 (1.12–1.40) 0.57 (0.45) 10.45 (0.001)
Età, studio, BMI, colesterolo totale Modello 1 + fumo Modello 2 + ipertensione
χ2 indica le variazioni di predittività del modello quando la FPG o la 2hPG venivano tolte dal modello laddove erano state inserite entrambe simultaneamente. I soggetti a cui il diabete era stato diagnosticato venivano esclusi. * Aggiustato per sesso quando uomini e donne sono in combinazione. † SD = 1.3 per FPG e SD = 2.7 per glicemia plasmatica a 2h. FPG e glicemia plasmatica a 2h restano ancora non ben chiarite. Il diabete aumenta il rischio di eventi CHD (16). Tra i soggetti diabetici tale rischio risulta più evidente nelle donne anziché negli uomini (17). Ciò si è riscontrato anche nell’attuale popolazione di studio per tutte le fasce di età: il quoziente di mortalità maschile per CHD rispetto alla mortalità per CHD femminile nei soggetti con normali livelli glicemici (sia NFG che NGT) e nei soggetti diabetici (diagnosticato o non diagnosticato) era rispettivamente 5.94 e 2.53. La fisiopatologia a monte di IFG ed IGT è differente. L’IFG viene prevalentemente associata all’insulino-resistenza epatica e ad una diminuita prima fase della secrezione insulinica, mentre l’IGT è associata ad insulino-resistenza periferica e ad una scarsa risposta insulinica sia nella fase precoce che in quella tardiva (18). In una popolazione di Mauritius si è riscontrato che gli uomini avevano una ridotta funzione β-cellulare ed una maggiore prevalenza di IFG rispetto alle donne e le donne avevano ridotta sensibilità insulinica e maggiore prevalenza di IGT rispetto agli uomini (19). Dunque, la mortalità da ictus in relazione alle due categorie glicemiche può anche differire tra i due sessi, il che potrebbe in parte spiegare le differenze riscontrate tra uomini e donne in questo studio. Si è visto che l’adiposità addominale, misurata come circonferenza vita o come rapporto vita-fianchi, può aumentare il rischio di eventi ischemici sia negli uomini che nelle donne (20) o nei soli uomini (21). Si è anche visto che i livelli plasmatici dei trigliceridi sono associati ad un aumentato rischio di ictus in alcuni (22) ma non in tutti gli studi (23) o si è visto che indicano un aumentato rischio 42
ischemico solo per le donne (24). Poiché le due variabili, circonferenza vita e trigliceridi, non sono state misurate in tutte le coorti inserite nel presente studio, non si sono effettuati aggiustamenti per tali variabili nell’analisi finale dei dati. Quando, tuttavia, il loro effetto è stato testato in un sottogruppo di individui, i risultati non cambiavano, indicando che la glicemia plasmatica a 2h migliora la predittività della mortalità da ictus negli uomini rispetto alla sola FPG, mentre quest’ultima è maggiormente predittiva della prima nelle donne. Il diabete conclamato è più strettamente correlato all’ischemia rispetto allo stroke emorragico (25). A prescindere dalla notevole entità del campione, per molte delle coorti la durata del follow-up di questo studio resta sempre breve, essendo pochi gli eventi ischemici verificatisi e, a causa del basso numero di eventi ischemici nelle donne, non è stato possibile effettuare un’ulteriore classificazione tra ischemia e stroke emorragico. Ciò costituisce uno dei limiti di questo studio. Nello studio DECODE, inoltre, alcune coorti erano composte da soli uomini, rendendo dunque le coorti formate da uomini e donne di questa analisi non del tutto sovrapponibili. Si potrebbe ipotizzare che la relazione glicemia-ictus specifica secondo il sesso sia dipendente dallo studio. Quando, tuttavia, ci limitiamo ad analizzare i dati riguardanti sia uomini che donne, i risultati sostanzialmente non cambiano. Un punto di forza di questo studio sta nel fatto che tutte le coorti dello studio avevano disponibili i dati sia per la FPG che per la glicemia a 2h. Questo è il primo studio che tenta di verificare se vi sia una relazione tra i livelli glicemici ed il rischio di ictus nel quale tutti i partecipanti effettuavano un test di tolle-
ranza glucidica a 2h con un carico orale di 75 g. L’analisi dei dati collaborativi, non essendo stata effettuata in diversi centri, ha maggiore valore statistico, poiché si evitano i risultati spuri ottenuti da uno studio limitato. Per prendere in considerazione la differenza tra gli studi, nell’analisi di tutti i dati messi insieme, la “coorte” veniva aggiustata. In conclusione, dal presente studio si evince che il diabete, definito sia da livelli glicemici a digiuno che post-carico, è predittivo di mortalità da ictus per entrambi i sessi. Nei soggetti diabetici, elevati livelli glicemici post-carico a 2h sono maggiormente predittivi rispetto ad elevati livelli glicemici a digiuno per gli uomini, mentre la glicemia plasmatica a digiuno è maggiormente predittiva rispetto ai livelli glicemici post-carico a 2h per le donne. Bibliografia
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Effetti a confronto della glicemia post-prandiale e di quella a digiuno sugli eventi cardiovascolari nel diabete di tipo 2: lo studio HEART2D ITAMAR RAZ, MD1 PETER W.F. WILSON, MD2 KRZYSZTOF STROJEK, MD, PHD3 IRINA KOWALSKA, MD4 VELIMIR BOZIKOV, MD, PHD5 ANSELM K. GITT, MD6
GYÖRGY JERMENDY, MD7 BARBARA N. CAMPAIGNE, PHD8 LISA KERR, MSPH8 ZVONKO MILICEVIC, MD8 SCOTT J. JACOBER, DO8
OBIETTIVO – Lo studio Hyperglycemia and Its Effect After Acute Myocardial Infarction on Cardiovascular Outcomes in Patients With Type 2 Diabetes Mellitus (HEART2D) è un trial multinazionale, controllato e randomizzato concepito per mettere a confronto gli effetti del controllo della glicemia postprandiale rispetto al controllo della glicemia a digiuno sul rischio cardiovascolare in pazienti con diabete di tipo 2 dopo un infarto miocardico acuto (AMI). DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – I pazienti (diabete di tipo 2, di età 30-75 anni) entro 21 giorni dopo un AMI venivano inseriti a random o al gruppo 1) strategia prandiale (PRANDIAL) (tre dosi di insulina lispro prima dei pasti per mantenere i livelli glicemici postprandiali a 2h < 7.5 mmol/l) o al gruppo 2) strategia basale (BASAL) (NPH due volte al giorno o insulina glargina una volta al giorno per mantenere i livelli glicemici a digiuno o preprandiali < 6.7 mmol/l). RISULTATI – In totale 1115 patienti venivano inseriti a random nel trial (PRANDIAL n = 557; BASAL n = 558) e la durata media di partecipazione da parte dei pazienti sopo la randomizzazione era di 963 giorni (range 1–1687 giorni). Il trial, rivelatosi inefficace, è stato interrotto. Il rischio di eventi cardiovascolari combinati nei gruppi PRANDIAL (n = 174, 31.2%) e BASAL (n = 181, 32.4%) risultava simile (hazard ratio 0.98 [95% CI 0.8–1.21]). Nel corso dello studio i livelli medi di HbA1c non risultavano differenti tra i gruppi PRANDIAL e BASAL (7.7 ± 0.1 vs. 7.8 ± 0.1%; P = 0.4). Il gruppo PRANDIAL mostrava livelli glicemici postprandiali medi più bassi (7.8 vs. 8.6 mmol/l; P < 0.01) le minori escursioni glicemiche postprandiali a 2-h (0.1 vs. 1.3 mmol/l; P < 0.001) rispetto al gruppo BASAL. Il gruppo BASAL mostrava più bassi livelli glicemici a digiuno (7.0 vs. 8.1 mmol/l; P < 0.001) e analoghi livelli glicemici preprandiali (7.7 vs. 7.3 mmol/l; P = 0.233) rispetto al gruppo PRANDIAL.
CONCLUSIONI – Il trattamento di soggetti diabetici sopravvissuti a un AMI con i due regimi, prandiale e basale, ha evidenziato differenze nei livelli glicemici a digiuno, meno evidenti differenze nei livelli glicemici postprandiali, livelli analoghi di HbA1c e nessuna differenza riguardo al rischio di nuovi eventi cardiovascolari. Diabetes Care 32: 381-386, 2009
1Internal
Medicine, Hadassah Hospital, Jerusalem, Israel; 2Cardiology, Emory University, Atlanta, GA; 3Internal Diseases, Diabetology and Nephrology, Silesian Medical University, Zabrze, Poland; 4Endocrinology, Diabetology and Internal Medicine, Medical University of Bialystok, Bialystok, Poland; 5Endocrinology, Diabetes and Metabolic Diseases, University Hospital Dubrava, Zagreb, Croatia; 6Cardiology, Herzzentrum Ludwigshafen, Ludwigshafen, Germany; 7Medical Department, Bajcsy-Zsilinszky Teaching Hospital, Budapest, Hungary; 8Lilly Research Laboratories, Eli Lilly and Company, Indianapolis, Indiana. Corresponding author: Scott Jacober,
[email protected] Corresponding author: Marjukka Hyvärinen,
[email protected]
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a malattia cardiovascolare (CVD) è la principale causa di morbidità e mortalità nei soggetti diabetici, in cui ~65% dei decessi sono attribuibili a malattia cardiaca o stroke (1, 2). Tra i soggetti affetti da diabete di tipo 2, quelli con un precedente infarto del miocardio hanno un rischio di ulteriori eventi cardiovascolari particolarmente alto (3). La maggiore prevalenza dei classici fattori di rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 2 spiega solo in parte il rischio cardiovascolare aumentato associato al diabete (2, 3). L’iperglicemia cronica aumenta tale rischio (4-7) e l’iperglicemia postcarico/postprandiale è stata associata a CVD indipendentemente dai livelli di HbA1c o dai valori glicemici a digiuno (FBG) (8, 9). Si è ipotizzato un aumentato stress ossidativo come meccanismo fisiopatologico per spiegare il suddetto rapporto (10). In un trial per la prevenzione del diabete si è osservato inoltre che l’acarbosio, un inibitore dell’α-glucosidasi che riduce in particolare l’iperglicemia postprandiale, riduceva la mortalità cardiovascolare (11). Il trial Diabetes Mellitus, Insulina Glucose Infusion in Acute Myocardial Infarction (DIGAMI) (12) ha evidenziato una riduzione della mortalità nei pazienti diabetici di tipo 2 con un recente infarto miocardico acuto (AMI) dopo un trattamento insulinico intensivo, e lo scopo di questo studio era quello di determinare l’impatto dell’iperglicemia post-prandiale sulla CVD in una simile popolazione ad alto rischio. Dunque il principale obiettivo del trial Hyperglycemia and Its Effect After Acute Myocardial Infarction on Cardiovascular Outcomes in Patients With Type 2 Diabetes Mellitus (HEART2D) era quello di dimostrare la differenza tra due terapie insuliniche, una mirata a controllare l’iperglicemia postprandiale e l’altra avente come target l’iperglicemia a digiuno ed interprandiale, sull’insorgenza di un evento cardiovascolare combinato (essendo l’esito primario definito come decesso cardiovascolare, infarto miocardico non fatale, stroke non fatale, rivascolarizzazione coronarica o ricovero in ospedale per sindrome coronarica acuta).
L
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DISEGNO DELLA RICERCA E METODI L’HEART2D, un trial clinico prospettico, open-label, randomizzato, con due gruppi paralleli, è stato condotto presso 105 centri di studio in 17 paesi. Il protocollo ed il documento del consenso informato venivano approvati dalle commissioni etiche dei centri. I pazienti davano il proprio consenso informato scritto per partecipare in accordo con la Dichiarazione di Helsinki e le linee guida della Good Clinical Practice. Durante il trial i gruppi di trattamento erano ignoti allo sponsor. Le prime visite ai pazienti sono state effettuate il 25 Ottobre 2002 e l’ultimo paziente veniva inserito nello studio il 6 Luglio 2005. Disegno dello studio e metodi sono stati precedentemente descritti (13). In breve, i pazienti (di età 30-75 anni) con diabete di tipo 2 (durata ≥ 3 mesi non ben controllato con la sola dieta, né trattato con terapia insulinica intensiva) venivano inseriti nel trial entro i 18 giorni successivi ad un AMI (senza severi danni miocardici). Entro 21 giorni dal ricovero ospedaliero per il recente AMI, i pazienti venivano assegnati a random ad uno dei due seguenti gruppi di trattamento: 1) il gruppo che seguiva la strategia PRANDIAL, mirata a compensare la glicemia post-prandiale mediante la somministrazione di insulina lispro, tre volte al giorno, ai pasti (Humalog, Eli Lilly and Company, Indianapolis, IN) o 2) il gruppo che seguiva la strategia BASAL che aveva come target la glicemia a digiuno o interprandiale mediante la somministrazione di NPH (Humulin, Eli Lilly and Company) due volte al giorno o insulina glargina (Lantus, sanofi-aventis, Paris, France) una volta al giorno. La somministrazione di agenti anti iperglicemizzanti orali veniva interrotta. Entrambi i trattamenti miravano a raggiungere livelli di HbA1c < 7.0% ed il gruppo PRANDIAL aveva un target glicemico postprandiale auto monitorato < 7.5 mmol/l, (< 140 mg/de) mentre il target del gruppo BASAL era un livello glicemico a digiuno o prima dei pasti <6.7 mmol/l (< 126 mg/de). Quando il livello di HbA1c risultava > 8.0% in due visite consecutive nonostante fossero stati raggiunti i due terzi dei target glicemici, il trattamento del gruppo PRANDIAL veniva intensificato con l’aggiunta di NPH somministrata prima di coricarsi, e la terapia del gruppo BASAL veniva sostituita con due somministrazioni giornaliere di insulina ad azione bifasica (insulina umana 30/70). I pazienti venivano seguiti dopo l’end point primario per un periodo fino a 7 anni. Una commissione formata da 10 membri tenuti all’oscuro valutava tutti
gli eventi primari riportati, ogni decesso e tutti gli esiti cardiovascolari secondari secondo criteri predefiniti. Gli eventi non erano considerati come effetti indesiderati gravi (serious adverse events - SAEs) a meno che non fossero correlati a un farmaco oggetto di studio, a una procedura di studio o ad un’apparecchiatura sotto osservazione. Se il SAE era anche un esito dello studio, allora esso veniva giudicato tale solo a discrezione del ricercatore. Determinazione dell’entità dei campioni I dettagli riguardanti la determinazione della grandezza del campione studiato sono stati precedentemente pubblicati (14). In breve, per raggiungere l’80% di potere, 490 pazienti dovevano avere avuto uno degli esiti primari combinati per poter individuare una differenza tra i gruppi presumendo quanto segue: una differenza di 2.5 mmol/l tra i gruppi nei livelli glicemici postprandiali (che corrisponde ad una riduzione del 18.5% nell’incidenza degli esiti a 2 anni), 18 mesi per l’inserimento dei pazienti nello studio, 18 mesi di follow-up dei pazienti dopo l’assegnazione a random dell’ultimo paziente, percentuale annuale del 10% di soggetti che abbandonavano lo studio, livelli di incidenza degli esiti in due anni corrispondenti ad almeno il 40% per i pazienti appartenenti al gruppo terapeutico meno efficace ed un livello di significatività bifacciale nominale corrispondente a 0.045. Venivano dunque selezionati 1355 pazienti per l’assegnazione a random, con 678 pazienti in ciascun gruppo. Lo schema di randomizzazione utilizzava una tecnica di minimizzazione per assicurare che vi fosse equilibrio tra gravità della malattia e strategie terapeutiche per ogni centro di studio, frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) (≤ 50%, > 50%), somministrazione parenterale di insulina entro le prime 24 h presso l’unità coronarica ed un’angiografia programmata. Metodi statistici Ove non diversamente specificato, sono state effettuate analisi statistiche per la popolazione “intent-to-treat” (tutti i pazienti dello studio), che comprendeva tutti i pazienti assegnati a random cui veniva somministrata almeno una dose del farmaco sotto osservazione. Tutti i confronti venivano effettuate utilizzando test a due vie con un livello di significatività nominale di 0.05. Tutti gli intervalli di confidenza venivano calcolati a due vie utilizzando una copertura del 95%. Ove non diversamente specificato, le statistiche descrittive sono riportate come medie ± SD. Le variabili di categoria so-
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no riportate come frequenze e proporzioni. L’analisi della misurazione tempoevento si basava sul numero di giorni a partire dalla randomizzazione fino al riscontro del primo evento cardiovascolare per ciascun paziente. I confronti venivano effettuati utilizzando un log-rank test a due vie. L’hazard ratio (HR) era calcolato come rischio per il gruppo PRANDIAL in relazione al rischio del gruppo BASAL. Nel corso dello studio venivano analizzate le misurazioni di HbA1c, automonitoraggio glicemico, lipidi, rapporto albumina-creatinina, LVEF e segni vitali utilizzando un modello a schema misto per le misurazioni ripetute. Il modello comprendeva effetto del trattamento, misurazioni basali, fattori di randomizzazione e un ulteriore fattore per il pattern (definito come ≤ 30, > 30 e ≤ 42, e > 42 mesi). Le dosi di insulina erano analizzate come valore di end point utilizzando l’ultima valutazione effettuata per ciascun paziente. I confronti delle variabili continue sono stati effettuati utilizzando un modello ANCOVA che teneva conto di effetti fissi per strategia basale e fattori di randomizzazione. La frequenza delle ipoglicemie veniva analizzata mediante test non parametrico dei dati, e tutte le altre misurazioni continue venivano analizzate come test parametrici. I confronti delle variabili di categoria venivano effettuati utilizzando il test χ2 di Pearson. Gli eventi indesiderati emersi durante il trattamento comprendevano tutti i nuovi eventi osservati e le condizioni preesistenti la cui severità aumentava dopo la randomizzazione. Quando il 20, 28, 53 e 67% degli eventi erano stati osservati, venivano effettuate quattro analisi ad interim. Un gruppo esterno effettuava le analisi che venivano poi sottoposte a una commissione esterna per il monitoraggio dei dati. Le prime tre analisi valutavano l’efficacia della gestione della glicemia riguardo target e sicurezza, valutando gli effetti del trattamento che motivavano una precoce terminazione dello studio. L’ultima analisi includeva ulteriori linee guida per valutare la futilità dello studio ad un cutoff del 40% per il condizionamento presumendo il trend osservato durante l’interim. Venivano utilizzati livelli di significatività dello 0.001 e 0.0085 per tutte le analisi ad interim, per valutare rispettivamente superiorità ed inferiorità del gruppo PRANDIAL.
RISULTATI Distribuzione dei pazienti In totale 1227 pazienti venivano inseriti nello studio (Fig. 1 supplementare, disponibile in un’appendice online su http://dx.doi.org/10.2337/dc08-1671). 45
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Tabella 1 – Caratteristiche basali della popolazione “intent to treat” per gruppo di trattamento Variabile
PRANDIALE
n 557 Sesso Femmine 201 (36.1) Maschi 356 (63.9) Età (anni) Media 61.1 ± 9.7 Di età ≥ 65 202 (36.3) Origine Caucasica 484 (86.9) Asiatica occidentale 61 (11.0) Discendenza africana 1 (0.2) Altro 11 (2.0) Paese Durata del diabete (anni) 9.3 ± 7.2 Fumatori* 93 (16.7) Ex-fumatori (anni)* 13.7 ± 16.5 Peso (kg) 81.12 ± 15.17 BMI (kg/m2) 29.0 ± 4.6 Sovrappeso (BMI ≥ 25 kg/m2) 449 (80.8) Pressione arteriosa sistolica (mmHg) 126.88 ± 16.63 Pressione arteriosa diastolica(mmHg) 76.60 ± 9.06 Precedente infarto del miocardio* 99 (17.8) Trombolisi (recente AMI)* 97 (17.4) Infusione di insulina per via 160 (28.8) endovenosa (AMI recente) HbA1c (%) 8.42 ± 1.40 Trigliceridi (mmol/l) 1.89 ± 1.15 Colesterolo totale (mmol/l) 4.45 ± 1.25 Colesterolo HDL (mmol/l) 0.96 ± 0.25 Colesterolo LDL (mmol/l) 2.68 ± 1.02 Rapporto albuminuria-creatinuria (mg/g) 115 ± 430 Intervallo QTc (ms) 435 ± 33 LVEF (%) 50.54 ± 10.05
BASALE
Valore P
558 0.680 208 (37.3) 350 (62.7) 60.9 ± 9.8 220 (39.4)
0.724 0.277 0.302
483 (86.6) 58 (10.4) 6 (1.1) 11 (2.0) 9.0 ± 7.3 81 (14.5) 12.3 ± 15.4 81.86 ± 15.86 29.2 ± 5.0 447 (80.3) 127.76 ± 17.75 76.87 ± 9.56 101 (18.1) 98 (17.6) 160 (28.8)
>0.999 0.518 0.316 0.143 0.513 0.380 0.832 0.346 0.542 0.858 0.970 0.807
8.27 ± 1.52 1.77 ± 0.95 4.45 ± 1.25 0.96 ± 0.23 2.71 ± 1.02 163 ± 610 434 ± 34 50.97 ± 10.08
0.089 0.074 0.871 0.607 0.556 0.171 0.428 0.829
I dati sono medie ± SD o n (%). * Sconosciuto < 1.5%.
tanza clinicamente rilevante (Tabella 1). Entrambi i gruppi erano inoltre simili per precedenti anamnesi di CVD (ad esempio, precedente infarto del miocardio e ictus) e per interventi effettuati su arterie coronariche occluse in seguito a recente infarto acuto del miocardio (AMI). Fra i due gruppi non vi erano differenze per quanto riguarda la terapia per il diabete (Tabella 1 supplementare, disponibile appendice on-line). Per il 9% dei pazienti erano sufficienti dieta ed esercizio fisico. I più comuni agenti ipoglicemizzanti orali utilizzati erano sulfoniluree (26%) e sulfoniluree associate a metformina (15%) ed il 22% dei pazienti erano trattati con insulina basale/premiscelata una o due volte al giorno. Tra le altre terapie con insulina vi era insulina basale/premiscelata associata a terapia orale (7%) e terapia multi iniettiva combinata giornaliera (≥ 3 iniezioni/die) (6%). End point cardiovascolari primari e secondari Il 7 giugno 2007, dopo la quarta analisi ad interim, da parte del Data Monitoring Committee si raccomandava di terminare il trial in quanto non ritenuto utile. Dallo sponsor veniva richiesto che tutti pazienti attivi fossero sottoposti a un’ultima visita, e l’ultimo paziente veniva visitato il 26 ottobre 2007. Il numero medio dei giorni di partecipazione al trial da parte dei pazienti dopo la randomizzazione era di 963 (2.7 anni) (1-1687 giorni). Il numero di pazienti del gruppo PRANDIAL che aveva un evento cardiovascolare primario combinato era simile al numero dei pazienti del gruppo BASAL (n = 174 [31.2%] vs. n = 181 [32.4%]; HR 0.98 [95% CI 0.8–1.21]) (Fig. 1). Dei 51 decessi verificatisi in ciascun gruppo, nel gruppo PRANDIAL si verificavano 44 decessi cardiovascolari e
sovrapponibili per età, sesso, origine, paese di residenza, BMI e durata del diabete, oltre che per altre misurazioni di impor-
Caratteristiche basali I gruppi PRANDIAL e BASAL erano
Figura 1 – Frazione dei pazienti che non avevano un evento cardiovascolare primario vs. giorni nel trial per strategia di trattamento (PRANDIAL vs. BASAL).
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Frazione di pazienti che non avevano un evento primario combinato
Di questi, 1115 pazienti venivano assegnati a random e veniva somministrata loro almeno una dose del farmaco studiato (PRANDIAL n = 557; BASAL n = 558). Di questo gruppo, 723 (64.8%) provenivano dall’Europa centrale o orientale (Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Federazione Russa, Slovacchia e Slovenia), 84 (7.5%) provenivano dall’Europa occidentale (Germania, Spagna e Regno Unito) o Canada, 149 (13.4%) dall’Asia occidentale (Israele, Libano e Turchia), 70 (6.3%) provenivano dall’India e 89 (8.0%) dal Sudafrica. Nel gruppo PRANDIAL, 338 terminavano lo studio rispetto ai 346 del gruppo BASAL. In ciascuno dei due gruppi si verificano 51 decessi. Dei pazienti che venivano esclusi dallo studio prima del termine del protocollo, per 38 del gruppo PRANDIAL rispetto a 44 del gruppo BASAL vi era stato un esito primario.
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livelli di FBG erano 8.1 ± 0.2 vs. 7.0 ± 0.2 mmol/l (P < 0.001) e la media giornaliera dell’FBG/glicemia preprandiale era 7.7 ± 0.2 vs. 7.3 ± 0.2 mmol/l (P = 0.233) rispettivamente per i gruppi PRANDIAL e BASAL. Circa il 47% dei pazienti del gruppo PRANDIAL raggiungevano il target glicemico di < 7.5 mmol/l per i livelli medi di glicemia postprandiale e il 46% del gruppo BASAL raggiungeva livelli medi di FBG/glicemia preprandiale < 6.7 mmol/l.
Glicemia (mmol/l
Basale
tra i trattamenti
di gi un o a
D ce opo na
Pr im ce a na di
pr dop an o zo
co do la po zi on e pr i pr ma an d zo i
a
di gi un o
Dopo la randomizzazione
Figura 2 – Misurazioni glicemiche. A: Media ± SD HbA1c in ciascuna visita per strategia di trattamento (PRANDIAL vs. BASAL). B: Profili glicemici automonitorati in sette punti al controllo basale (linea trattegiata) e nel corso dello studio (postrandomizzazione, linea piena) per strategia di trattamento (PRANDIAL vs. BASAL).
3 dovuti ad ictus fatale rispetto ai 42 decessi cardiovascolari e 2 ictus fatali nel gruppo BASAL. L’HR stimato per i singoli eventi cardiovascolari (Tabella 2 supplementare, disponibile in appendice on-line), eventi combinati (alternativi all’end point primario) (Tabella 3 supplementare, disponibile in appendice on-line), o eventi combinati per quei pazienti che raggiungevano gli obiettivi glicemici (Tabella 4 supplementare, disponibile in appendice on-line) non raggiungeva significatività statistica. Neanche l’HR stimato per le analisi post hoc per il tempo intercorso fino al primo esito primario riusciva ad avere significatività statistica per le sottopopolazioni (quelle che raggiungevano livelli di HbA1c < 7%, HbA1c ≥ 7%, valori glicemici target ottimali, valori glicemici target borderline e valori glicemici target non ottimali) e con gli aggiustamenti del modello di regressione di Cox per glicemia basale ed esposizione glicemica (dati non riportati).
Misurazioni glicemiche I livelli di HbA1c non differivano tra i gruppi PRANDIAL e BASAL (media ± SEM 7.7 ± 0.1 vs. 7.8 ± 0.1%; P = 0.4) nel corso dello studio. Si è effettuata l’analisi dei valori di HbA1c registrati a ciascuna visita per tutta la durata dello studio e all’end point (ultima osservazione effettuata) (Fig. 2A). All’end point, nel 28% dei pazienti del gruppo PRANDIAL si raggiungevano livelli di HbA1c < 7.0% rispetto al 31% dei pazienti del gruppo BASAL (P = 0.236) (HbA1c < 8.0%: PRANDIAL 63% e di BASAL 61%; P = 0.375). I profili risultanti dall’automonitoraggio glicemico (Fig. 2B) osservati come media giornaliera ± SEM nel corso dello studio erano per la glicemia postprandiale a 2h di 7.8 ± 0.3 vs. 8.6 ± 0.2 mmol/l (P < 0.01) con escursioni glicemiche postprandiali di 0.1 ± 0.2 vs. 1.3 ± 0.1 mmol/l (P < 0.001) rispettivamente per i gruppi PRANDIAL e BASAL. Analogamente, i
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Fattori di rischio e terapie cardiovascolari I livelli lipidici risultavano simili tra i gruppi (PRANDIAL vs. BASAL) per l’intera durata dello studio; trigliceridi 2.21 ± 0.16 vs. 2.18 ± 0.16 mmol/l (P = 0.89); colesterolo totale 4.65 ± 0.11 vs. 4.65 ± 0.11 mmol/l (P = 0.997); colesterolo HDL 1.14 ± 0.02 vs. 1.11 ± 0.02 mmol/l (P = 0.523); e colesterolo LDL 2.65 ± 0.09 vs. 2.70 ± 0.09 mmol/l (P = 0.719). La pressione arteriosa era simile tra i gruppi (PRANDIAL vs. BASAL) sia per la pressione sistolica (131.8 ± 1.7 vs. 132.4 ± 1.6 mmHg; P = 0.782) che diastolica (77.4 ± 0.9 vs. 77.5 ± 0.9 mmHg; P = 0.978). Erano inoltre simili frequenza cardiaca (71.4 ± 1.0 vs. 71.1 ± 1.0 beats/min; P = 0.817), LVEF (54.3 ± 1.30 vs. 52.39 ± 1.22%; P = 0.257) e intervallo QT corretto (423.8 ± 3.43 vs. 424.1 ± 2.91 ms; P = 0.952). La frequenza di assunzione di un farmaco cardiovascolare era alta e analoga tra i due gruppi (PRANDIAL vs. BASAL: 95.0 vs. 95.9%; P = 0.478). Fatta eccezione per i β-bloccanti (PRANDIAL vs. BASAL: 83.7 vs. 78.9%; P = 0.046), gli altri farmaci cardiovascolari erano usati in modo analogo tra i gruppi: ACE inibitori o antagonisti dei recettori dell’angiotensina (86.3%), statine (76.4%) e aspirina (88.1%). Peso corporeo e dosaggi di insulina All’end point, rispetto al gruppo BASAL il gruppo PRANDIAL registrava un lieve aumento di peso (4.8 ± 8.0 vs. 3.1 ± 7.1 kg; P < 0.001) ed assumeva maggiori dosaggi di insulina (0.60 ± 0.39 vs. 0.52 ± 0.35 unità/kg; P < 0.001). L’intensificazione del regime si verificava più frequentemente nel gruppo PRANDIAL (28%) ristretto al gruppo BASAL (21%) (P = 0.005). Sicurezza: ipoglicemia ed eventi indesiderati L’incidenza dell’ipoglicemia (complessiva) rimaneva simile tra i gruppi fino alla visita numero 8 (quando queste informazioni venivano registrate) (PRANDIAL vs. BASAL: 55.3 vs. 55.2%; P = 0.367) e l’incidenza dell’ipoglicemia 47
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severa era simile per tutto il trial (PRANDIAL vs. BASAL: 12.9 vs. 9.5%; P = 0.071). L’incidenza dell’ipoglicemia notturna (fino alla visita numero 8), tuttavia, risultava più alta nel gruppo BASAL rispetto al gruppo PRANDIAL (10.6 vs. 6.1%; P = 0.007). A prescindere dal trattamento, eventi indesiderati erano riferiti complessivamente dal 63.6% dei pazienti: 366 patienti (65.7%) e 343 patienti (61.5%) rispettivamente nei gruppi PRANDIAL e BASAL. Nel complesso, i tre eventi indesiderati più comuni (utilizzando la terminologia preferita dal Medical Dictionary for Regulatory Activities) erano rinofaringite (6.5%), ipertensione (4.9%) ed edema periferico (4.6%). Si è riscontrata una significativa differenza di trattamento per lo scompenso cardiaco e nei pazienti del gruppo PRANDIAL lo scompenso cardiaco si verificava più frequentemente rispetto ai pazienti del gruppo BASAL (2.3 vs. 0.7% rispettivamente; P = 0.030); lo scompenso cardiaco congestizio, tuttavia, si verificava in modo simile (2.2 vs. 2.3%; P > 0.999), e pertanto non vi era differenza tra le terapie quando le categorie erano combinate. Si sono verificati effetti indesiderati gravi (SAEs) complessivamente in 289 patienti (25.9%): 144 (25.9%) e 145 (26.0%) rispettivamente nei gruppi PRANDIAL e BASAL. I quattro SAEs più comuni, a prescindere dal gruppo di trattamento, erano scompenso cardiaco congestizio (1.5%), ipoglicemia (1.3%), polmonite (1.1%) e dolori al torace (1.1%). Una notevole differenza di trattamento si notava nell’incidenza di sepsi (P = 0.038), con maggiore frequenza di eventi nel gruppo PRANDIAL rispetto al gruppo BASAL (5 vs. 0, rispettivamente).
CONCLUSIONI Lo studio HEART2D è il primo a prendere in esame l’effetto di una riduzione della glicemia postprandiale su mortalità e morbidità cardiovascolare. L’analisi ad interim non ha dimostrato differenze tra i trattamenti dei gruppi PRANDIAL e BASAL riguardo al rischio di evento cardiovascolare primario combinato in pazienti con diabete di tipo 2 con un recente infarto miocardico acuto (AMI), ed il trial è stato interrotto perché ritenuto non più statisticamente utile dietro consiglio del Data Monitoring Committee. Nel complesso, il controllo glicemico tra i gruppi, misurato mediante HbA1c, era analogo ed era raggiunto da entrambi i gruppi del trial, ma nel gruppo PRANDIAL i livelli di glicemia postprandiale risultavano costantemente più bassi rispetto al gruppo BASAL,
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mentre in quest’ultimo si registravano livelli glicemici costantemente più bassi a digiuno. Da un punto di vista epidemiologico, risulta fortemente evidente che i livelli glicemici plasmatici postcarico/postprandiali sono predittivi di eventi di CVD, mentre è molto più debole l’evidenza della predittività dei livelli plasmatici a digiuno (8,9). Tali fatti implicano che è importante raggiungere i livelli target di HbA1c e della glicemia postprandiale, non solo per ridurre il rischio di complicanze micro vascolari, ma anche per ridurre il rischio di morbidità e mortalità CVD nei soggetti diabetici. L’iperglicemia postprandiale è stata associata ad aumento dello stress ossidativo, infiammazione, disfunzione endoteliale, diminuita fibrinolisi, instabilità della placca aterosclerotica ed eventi cardiaci (10). Esiste una correlazione proporzionale e diretta tra iperglicemia postprandiale, malattia coronarica ed eventi cardiaci. L’ipotesi dell’iperglicemia postprandiale è stata sostenuta da studi di intervento che hanno dimostrato che ridotti livelli glicemici e lipidici postprandiali diminuiscono la infiammazione, migliorano la funzione endoteliale (15) e sono associate ad una progressione aterosclerotica di grado minore (14, 16, 17). Lo studio HEART2D è riuscito a creare due gruppi con livelli sovrapponibili di HbA1c e con proporzioni simili di pazienti che raggiungevano i livelli glicemici target, nonostante le evidenti differenze fra glicemia postprandiale e glicemia a digiuno. Cosa più importante, tuttavia, i valori di HbA1c non raggiungevano il livello target di < 7.0%. È possibile che vi sia stata una certa riluttanza ad ottimizzare i livelli glicemici in maniera intensiva in una popolazione ad alto rischio di eventi cardiovascolari. Inoltre non si è raggiunta né una differenza di 2.5 mmol/l nella glicemia postprandiale tra i gruppi, né il tasso di frequenza degli eventi del 40% come presunto per i calcoli di potere statistico. Il trial DIGAMI (12), che comprendeva pazienti diabetici sia di tipo 1 che di tipo 2 con un recente AMI, ad un anno di follow-up ha riscontrato una significativa riduzione della mortalità tra i gruppi ed una separazione corrispondente a ~0.5% nei livelli di HbA1c. Una simile separazione nel controllo glicemico era riscontrata nello studio PROspective pioglitAzone Clinical Trial In macroVascular Events (PROactive) (18), in cui l’end point primario composito non riusciva a raggiungere livelli significativi tra le terapie, mentre vi era significatività per l’end point composito secondario. D’altra parte, il successivo studio DI-
GAMI-2 (19) non riusciva a stabilire alcuna separazione glicemica tra i gruppi di trattamento e non si riscontrava alcuna differenza negli esiti cardiovascolari. Si è ipotizzato che i risultati dei due trial DIGAMI possano essere spiegati dalla diversa esposizione glicemica durante la cura del diabete in cronico, rispetto all’intervento glicemico in acuto (20). È significativo che i recenti risultati di tre grandi trial clinici ben progettati, mirati a riscontrare se intervenendo sui livelli glicemici si potessero migliorare gli esiti cardiovascolari nel diabete di tipo 2, non siano riusciti a dare risultati conclusivi. Il trial Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Study Group (ACCORD) (21) ha riscontrato un’aumentata mortalità con target glicemici intensivi (HbA1c 6.4%), il trial Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation (ADVANCE) (22) ha riscontrato esiti cardiovascolari analoghi raggiungendo target glicemici simili e i risultati del VA Diabetes Trial (VADT) (23) hanno evidenziato che i pazienti con diabete di tipo 2 di recente diagnosi possono avere dei benefici cardiovascolari con un controllo intensivo, ma nei diabetici di tipo 2 di più lunga diagnosi vi è un maggiore rischio di esiti indesiderati nel caso di terapie intensive. Sebbene l’esposizione glicemica media misurata dall’HbA1c nel trial HEART2D possa essere stata simile a quella delle terapie standard nei suddetti trial, un’analisi post hoc basata sull’esposizione glicemica complessiva (HbA1c) ha evidenziato gli stessi risultati dell’analisi primaria. I risultati nulli del trial HEART2D possono trovare una spiegazione nell’avanzato stato della CVD nei pazienti studiati. Ritardare il progresso dell’aterosclerosi avanzata può essere alquanto difficile, così come nel caso di complicanze micro vascolari avanzate. Molti eventi cardiovascolari si sono manifestati presto nel corso dell’HEART2D, indicando estensione o progressione di una malattia preesistente. Studi recenti differiscono dal DIGAMI e suggeriscono che nel caso di livelli glicemici più bassi e iperglicemia postprandiale con o senza un precedente evento cardiovascolare possono essere necessari molti anni perché si possano produrre effetti benefici riguardo ad eventi cardiovascolari (5, 21-24). Inoltre, gli effetti della riduzione degli altri fattori di rischio (ipertensione e lipidi, specialmente LDL), che risultavano simili tra i gruppi, potrebbero essere maggiori rispetto a quelli ottenuti dalla correzione della glicemia sugli esiti cardiovascolari. Bisogna notare che vi era una maggiore prevalenza di una concomitante terapia medica cardiovascolare (ad esempio,
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aspirina, statine ed ACE inibitori) nel trial HEART2D rispetto al DIGAMI. L’avere corretto, pertanto, i fattori di rischio con farmaci cardiovascolari e con interventi migliorati da un punto di vista tecnico (rispetto al DIGAMI) durante il corso di questo trial potrebbe aver oscurato l’effetto dell’intervento glicemico sugli esiti cardiovascolari. Alcune di queste terapie potrebbero anche controbilanciare gli effetti indesiderati della glicemia postprandiale sullo stress ossidativo (25). La differenza raggiunta nel controllo glicemico tra i gruppi, inoltre, era minore di quanto previsto all’inizio del trial clinico. Potrebbe essere necessaria una maggiore separazione nella glicemia postprandiale (il target era una differenza tra le terapie di 2.5 mmol/l nella glicemia postprandiale) rispetto a quanto osservato nell’HEART2D. E ancora, i target glicemici complessivi non sono stati pienamente raggiunti e potrebbe essere necessario avere livelli più bassi di HbA1c o un campione di pazienti molto più grande per poter differenziare meglio le componenti del profilo glicemico. Il trial HEART2D mirava al controllo dei livelli glicemici a digiuno/preprandiali o postprandiali nei pazienti con diabete di tipo 2 sopravvissuti a un infarto del miocardio. Nel corso dello studio le differenze raggiunte tra glicemia postprandiale e a digiuno erano modeste, ma si sono ottenuti livelli relativamente simili di HbA1c con entrambe le strategie di trattamento. La magnitudo delle differenze nella glicemia postprandiale era minore di quanto previsto e il rischio di eventi CVD era analogo tra i gruppi di trattamento. Bibliografia
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RASSEGNA
Impatto delle differenti procedure di chirurgia bariatrica su azione insulinica e funzione β-cellulare nel diabete di tipo 2 ELE FERRANNINI, MD1 GELTRUDE MINGRONE, MD2 a prevalenza dell’obesità sembra avere raggiunto una fase statica negli U.S.A. tra il 2003 ed il 2007 (1), ma l’epidemia dell’obesità è ancora imperante in molti paesi – specialmente nel mondo in via di sviluppo (2) – sia negli adulti che nei bambini (http://www.who.int/topics/obesity/en/). Da una recente analisi di un ampio studio prospettico su una coorte di età fra i 50 ed i 71 danni (3) si è ricavato un preciso gradiente dose-risposta per l’associazione positiva tra BMI e rischio relativo di decesso, indipendentemente da altri fattori di rischio (in particolare fumo e malattie preesistenti, che causano perdita di peso). Peraltro da studi di osservazione a lungo termine si è visto che la perdita di peso, spontanea o voluta, è associata ad un’aumentata, e non diminuita, mortalità complessiva (rev. in 4). Gli interventi sullo stile di vita (dieta ed esercizio), gestione comportamentale e terapie farmacologiche per l’obesità ottengono una perdita di peso solitamente modesta (e dunque non allettante per i pazienti) e di breve durata (al massimo da 6 mesi a un anno), oltre ad avere notevoli effetti indesiderati. Inoltre, nonostante la riduzione di fattori di rischio come diabete e dislipidemia, nessuno studio ha finora fornito evidenza dell’effetto dei suddetti approcci mirati al controllo del peso corporeo sulla riduzione della malattia cardiovascolare o dei decessi (rev. in 5). D’altra parte, e forse di conseguenza, gli interventi chirurgici effettuati nei casi di obesità severa guadagnano favore sempre crescente. Negli USA la frequenza annuale di pazienti dimessi per interventi di chirurgia bariatrica è aumentata di sette volte (da 3.5 a 24.0 per 100000) tra il 1996 e il 2002 (6). Riesaminando i casi di 85048 pazienti obesi gravi (7), la mortalità precoce (≤ 30 giorni) e tardiva (da 30 giorni a 2 anni) dovuta a chirurgia bariatrica è in diminuzione (rispettivamente 0.28 e 0.35%). Il trattamento chirurgico dell’obesità grave viene ora esteso agli adolescenti, apparentemente, rispetto agli adulti, con analogo successo e percentuali di ri-
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schio (8-10). Recentemente il follow-up della durata di 10.9 anni effettuato dallo Swedish Obese Subjects Study ha riscontrato una riduzione di rischio del 30% per la mortalità complessiva in 2010 pazienti obesi sottoposti ad intervento di chirurgia bariatrica (11). Analogamente, in una coorte retrospettiva di 7925 pazienti sottoposti ad intervento chirurgico (12), la mortalità per tutte le cause era il 40% in meno rispetto ad un altro gruppo di 7925 pazienti obesi non sottoposti ad intervento chirurgico. Tali osservazioni risultano sorprendenti, particolarmente se si considera l’alta percentuale di insuccessi data da altri trattamenti, come la restrizione calorica (13) ed i farmaci (14), aprendo così nuove prospettive per la chirurgia bariatrica (15). Sorgono tuttavia diverse domande. La questione che affronteremo in questa sede sarà l’impatto della chirurgia bariatrica sul diabete di tipo 2, analizzandone portata e dinamiche. Chirurgia bariatrica e diabete di tipo 2 Una revisione sistematica ed una meta-analisi della letteratura inglese comprendente > 22000 pazienti (73% donne, BMI medio 47 kg/m2) riscontrava una completa guarigione dal diabete di tipo 2 (definita come interruzione di tutti i farmaci correlati al diabete e livelli glicemici entro il normale range) nel 77% dei casi. Questa percentuale aumentava all’85% se si contavano i pazienti che riferivano miglioramento del proprio controllo glicemico e la suddetta guarigione dal diabete si verificava in concomitanza con una perdita di peso media di 41 kg (~65% del sovrappeso) (16). Nell’analisi effettuata da Adams et al. (12), i decessi attribuiti al diabete si riducevano del 92%, cifra straordinaria. Vi possono dunque essere ben pochi dubbi che nei pazienti fortemente obesi affetti da diabete di tipo 2 la chirurgia bariatrica sia generalmente un mezzo altamente efficace per la cura del diabete di tipo 2. La tipologia più frequente di diabete di tipo 2, tuttavia, e cioè a dire l’iperglicemia
of Internal Medicine and C.N.R. (National Research Council) Institute of Clinical Physiology, University of Pisa School of Medicine, Pisa, Italy; 2Department of Medicine, Catholic University, Rome, Italy Corresponding author: Ele Ferrannini,
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che affiora dopo i quarant’anni nei soggetti moderatamente obesi è una malattia progressiva (17), dalla quale raramente si guarisce, sia spontaneamente che terapeuticamente. Una possibilità è che l’iperglicemia nei casi di obesità grave (con BMI tra 35 e 70 kg/m2) abbia una patogenesi differente da quella dell’iperglicemia di soggetti con diabete di tipo 2 moderatamente obesi (con BMI tra 27 e 34 kg/m2) o magri. Un’altra possibilità è che la chirurgia bariatrica di per sé interferisca col metabolismo glucidico in maniera differente da tutti gli altri trattamenti antidiabetici. Poiché i livelli glicemici risultano quantitativamente dalla sensibilità insulinica dalla captazione di glucosio (nei tessuti periferici) o dal rilascio di questo (da parte del fegato) e dalla dinamica (quantità e tempo) dell’insulina resa disponibile da parte delle β-cellule, prenderemo in esame la relazione tra la perdita di peso ottenuta chirurgicamente e le variazioni riscontrate nella sensibilità insulinica e nella funzione β-cellulare. Verranno poi discusse altre potenziali interazioni. Interventi di chirurgia bariatrica Sono stati messi a punto diversi approcci chirurgici per ottenere perdita di peso, e parecchi di questi sono di uso corrente (cf. rif. 18 per una descrizione dettagliata). Tali interventi sono generalmente catalogati come procedure puramente restrittive, prevalentemente restrittive e malassorbitive. La procedura più comune per il primo gruppo è il bendaggio gastrico aggiustabile per via laparoscopica (LAGB), che consiste nel collocare una benda attorno alla parte superiore dello stomaco, creando in tal modo una piccola sacca che si svuota nella parte inferiore dello stomaco senza bypassare l’intestino prossimale (vedi Figura A1 nell’appendice online disponibile su http://dx.doi.org/10.2337/dc08-1762). Nella meta-analisi sopra citata (16), l’LAGB era associata ad una perdita di peso del 32-70%. La gastroplastica verticale è una variante dell’LAGB, che normalmente ottiene una perdita di peso che va dal 48 al 93%. Con una delle suddette due tecniche la dinamica è essenzialmente quella di generare segnali di effettiva sazietà avendo ingerito quantità di cibo contenute. Riguardo alla perdita di peso, probabilmente l’intervento chirurgico più comune è il bypass gastrico Roux-en-Y (RYGB), nel quale lo stomaco viene ridotto a una
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piccola sacca (< 30 ml) collegata mediante uno stretto passaggio al digiuno appena dopo il duodeno, mentre per il moncone digiunale viene realizzato un collegamento per anastomosi a forma di Y al digiuno inferiore (Fig. 1). Qui un livello di restrizione gastrica simile a quello dell’LAGB (ma non aggiustabile) è associato al bypass del duodeno e del digiuno superiore, rendendo l’RYGB una procedura prevalentemente restrittiva. La percentuale di peso eliminabile con la RYGB varia tra il 33 ed il 77% (16). Mediante il bypass digiuno-ileale, il contenuto gastrico viene svuotato direttamente nell’ileo terminale, inducendo così un forte malassorbimento senza restrizione dell’ingestione di cibo. Adesso abbandonata, questa procedura ha portato all’elaborazione dell’attuale approccio verso il malassorbimento il cui prototipo è la diversione biliopancreatica (BPD). Qui una resezione gastrica distale del 60% con sutura del moncone duodenale risulta in uno stomaco residuo del volume di ~300 ml. L’intestino piccolo viene sezionato a 2.5 m dalla valvola ileocecale e la sua estremità distale è anastomizzata alla rimanente parte dello stomaco. La terminazione prossimale dell’ileo, comprendente la parte rimanente di piccolo intestino che porta con sé il succo biliopancreatico ed è esclusa dal passaggio di cibo, è anastomizzata all’intestino a 50 cm di distanza dalla valvola ileocecale. Di conseguenza, la lunghezza totale del tratto intestinale assorbente è 250 cm, gli ultimi 50 cm del quale rappresentano il sito in cui si combinano il cibo ingerito ed i succhi biliopancreatici (Fig. 1). Questo approccio di prevalente malassorbimento dà la massima resa (6275%) (16) e la maggiore durata (19) nel tempo della perdita di peso in eccesso. Perdita di peso e sensibilità insulinica: considerazioni preliminari L’adiposità è uno dei fattori fisiologici determinanti la sensibilità insulinica (20). Si è osservato che la perdita di peso migliora la sensibilità insulinica in ogni circostanza (rev. in 21) tranne che in casi di forte stress o infezione HIV (22-24). La riduzione del peso ottenuta chirurgicamente sembra generalmente non fare eccezione (vedi sotto). Tuttavia, la rimozione chirurgica selettiva di tessuto grasso da depositi sottocutanei non migliora l’insulina resistenza. In uno studio ben controllato di 15 donne obese (7 delle quali diabetiche), la rimozione di 9-10 kg di grasso addominale sottocutaneo mediante liposuzione non variava l’utilizzazione del glucosio mediata dall’insulina (mediante clamp euglicemico-iperinsulinemico) nonostante il previsto abbassamento dei livelli di leptina circolante (25). Sebbene altri studi in cui è stata adottata la liposuzione abbiano osservato miglioramenti della sensibilità insulinica a lungo termine (26), quest’osservazione implica chiaramente che fattori
diversi dalla sola massa di tessuto adiposo sottocutaneo hanno un impatto sull’azione insulinica. I grandi adipociti, infatti, come quelli depositati nel sottocutaneo quando il peso aumenta, sono meno sensibili all’insulina rispetto ad adipociti più piccoli (27); l’entità della loro mancata reattività all’insulina in vitro è correlata all’insensibilità all’insulina in vivo (28). Il grasso ectopico, accumulato in depositi viscerali addominali, muscoli scheletrici e fegato, è stato specificamente associato alla presenza di insulino-resistenza a prescindere dall’adiposità totale. A sostegno di tale osservazione la rimozione chirurgica del grasso viscerale, ma non sottocutaneo, nei ratti diabetici o in età avanzata ripristina la sensibilità insulinica e la tolleranza glucidica (29). Negli esseri umani obesi i cambiamenti metabolici indotti dalla perdita di peso, cioè a dire la sensibilizzazione insulinica sia del metabolismo glicemico che della lipolisi, sono stati associati all’eliminazione delle quantità accumulate di grasso ectopico (30-35). È importante notare che mentre un digiuno della durata di 3 giorni deprime l’azione dell’insulina nei soggetti obesi (36), la restrizione calorica l’aumenta (37), agendo sia sulla sensibilità insulinica che sulla perdita del peso (38). Infine, parecchi peptidi espressi e rilasciati dal tessuto adiposo sono metabolicamente attivi. Ad esempio, l’adiponectina sovraregola l’azione dell’insulina nel fegato e nei muscoli scheletrici, mentre alti livelli di alcune adipocitochine in circolo (ad esempio, il fattore di necrosi tumorale alfa e la proteina 4 legante il retinolo) sono in correlazione con l’insulino resistenza in vivo (39). Complessivamente, tali osservazioni portano alle seguenti considerazioni, nell’interpretare l’evidenza che mette in correlazione la perdita di peso indotta chirurgicamente (o comunque, qualsiasi variazione di peso) e la sensibilità insulinica: • qualità e sito hanno la stessa importanza del grasso accumulato o eliminato; • l’equilibrio energetico influisce sull’azione dell’insulina indipendentemente dalle variazioni del peso corporeo; • l’attività endocrina dello stesso tessuto adiposo può interferire con la relazione tra cambiamento dell’adiposità e sensibilità insulinica; • variazioni coordinate di peso corporeo e sensibilità insulinica possono differire tra soggetti diabetici e non diabetici; • è possibile che si verifichino anormalità metaboliche a soglie di BMI diverse in individui di diversa provenienza etnica (40); • particolarmente per quanto concerne la chirurgia bariatrica, comprendere come il transito gastrointestinale sia alterato dall’intervento chirurgico può essere la chiave per interpretare gli effetti metabolici dati da qualsiasi perdita di peso.
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Chirurgia bariatrica e sensibilità insulinica: risultati La Tabella A1 in appendice online elenca gli studi nei quali sono riportati i dati riguardanti la sensibilità insulinica in pazienti diabetici obesi di tipo 2 sottoposti a intervento di chirurgia bariatrica. Tenendo conto del fatto che alla nostra ricerca effettuata in letteratura sono probabilmente sfuggiti quei pazienti diabetici inclusi in gruppi per i quali non sono stati forniti risultati separati per soggetti diabetici e non diabetici, gli studi menzionati nella Tabella A1 in appendice online includono ~450 pazienti con diabete di tipo 2 esaminati nell’arco di un periodo di ~25 anni. Da ciò si può evincere che tipologia dell’intervento chirurgico, durata del follow-up e metodologia variano alquanto perché si possa quantificare con precisione l’impatto della perdita del peso sulla sensibilità insulinica. Nonostante ciò, da questi dati si possono ricavare alcune informazioni (senza avere le pretese di una meta-analisi). Precedentemente agli interventi chirurgici, il BMI medio in tutti i 423 pazienti corrispondeva a 46.4 kg/m2, il che rispecchia quanto viene attualmente indicato per la chirurgia bariatrica (BMI ≥ 40 kg/m2 o ≥ 35 kg/m2 in casi di obesità complicata). Nei 204 pazienti per i quali veniva utilizzata la stima del modello omeostatico (HOMA) (in questo caso HOMA dell’insulinoresistenza) per valutare le variazioni della sensibilità insulinica ≥ 4 mesi dopo l’intervento chirurgico (media aritmetica ponderata 12 mesi), la sensibilità insulinica migliorava del 51% con un calo medio del BMI del 32% (~40 kg). Vi era scarsa correlazione tra le variazioni percentuali di BMI e HOMA tra i diversi studi. Nei 79 pazienti per i quali veniva stimato l’HOMA < 4 mesi dopo l’intervento chirurgico (media aritmetica ponderata 1.5 mesi), la sensibilità insulinica migliorava del 49% con una diminuzione del BMI del 10% (senza alcuna correlazione tra le rispettive diminuzioni). I pochi studi elencati nella Tabella A1 in appendice, che hanno utilizzato vari metodi per stimare la sensibilità insulinica (test di sensibilità dell’insulina, test di tolleranza dell’insulina, test di tolleranza al glucosio endovena con frequente campionatura e clamp [60–65]), non hanno generalmente dato risultati diversi. Pertanto, con tutte le approssimazioni di questo tipo di analisi, emerge che 1) la chirurgia bariatrica è in grado di migliorare l’insulino-resistenza del diabete di tipo 2 di ~50% contribuendo contemporaneamente ad una diminuzione di ~30% del BMI e 2) questo miglioramento della sensibilità insulinica è già visibile ~6 settimane dopo l’intervento chirurgico, periodo in cui la diminuzione del BMI può corrispondere a circa l’11%. L’ultimo apparente paradosso può risultare dall’utilizzo di misure surrogate della sensibilità insulinica (HOMA). Ciò può essere anche in parte spiegato dal fatto che nel periodo imme51
Sensibilità insulinica
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Figura 1 – I risultati (simboli) sono medie ± SEM in pazienti che hanno perso peso mediante dieta (ref. 69), RYGB, o BPD (ref. 68). Le frecce collegano valori pre- e post-trattamento. La linea nera e i punti neri sono la funzione di adattamento e 95% CIs dei dati nel rif. 68 (come nell’appendice online Fig. A2, grafico in basso). T2DM, diabete di tipo 2.
diatamente precedente all’intervento chirurgico la restrizione calorica in sé (vuoi ottenuta mediante una ridotta assunzione di cibo o per un ridotto assorbimento come quello ottenuto da interventi chirurgici mirati) gioca un ruolo fondamentale nel miglioramento dell’azione dell’insulina. Mesi o anni dopo l’intervento, la perdita di peso si stabilizza; di solito si evidenzia un rapporto quantitativo tra le variazioni nel BMI e la sensibilità insulinica. La debolezza della correlazione tra la perdita del peso e l’aumento della sensibilità insulinica è stata sottolineata più volte. Ad esempio, in uno studio non randomizzato che metteva a confronto LAGB e RYGB in un numero consistente di pazienti non diabetici (66), 30 mesi dopo l’intervento l’HOMA risultava simile ma l’RYGB causava una perdita di peso significativamente maggiore rispetto all’LAGB (–33 vs. –22%). Si dovrebbe considerare che, oltre ai fattori menzionati nella sezione precedente che possono causare confusione, un importante fattore determinante della perdita di peso è il peso corporeo iniziale. Ad esempio, in un follow-up prospettico di 2 anni condotto su 107 uomini e donne sottoposti a BPD presso un centro, vi era una forte correlazione (r = 0.68) tra peso iniziale e perdita di peso, su cui ha fortemente inciso la massa grassa iniziale (r = 0.64) e non la massa magra (FFM) (67). Tale fenomeno ricorda la comune osservazione clinica che con qualsiasi trattamento la risposta è proporzionale al livello iniziale di anormalità (ad es., HbA1c o pressione arteriosa). Per quanto concerne queste altre variabili, non sono chiari gli aspetti biologici su cui si fonderebbe questa presunta regola. Sorge adesso la questione 1) se la sensibilità insulinica sia pienamente ripristinata nonostante il fatto che successivamente all’intervento chirurgico il BMI ri52
mane spesso entro il range dell’obesità, 2) se la migliorata sensibilità insulinica sia da sola responsabile per la guarigione/miglioramento dell’iperglicemia e 3) se i differenti approcci chirurgici differiscano l’uno dall’altro nella loro azione di sensibilizzazione dell’insulina. Dai pochi studi che hanno utilizzato la tecnica del clamp per misurare direttamente la sensibilità insulinica si possono trarre alcune informazioni di rilievo. In due differenti database che utilizzavano analoghe infusioni di insulina endogena, la dipendenza della sensibilità insulinica dell’intero organismo dal BMI è meglio descritta da misurazioni curvilinee (appendice online Fig. A2). Sia nella coorte del European Group for the Study of Insulin Resistance (EGIR) (20) che nello studio condotto da Muscelli et al. (68), una riduzione del BMI del 30% (da 46 kg/m2) è predittiva di un aumento del 50% della sensibilità insulinica. Tuttavia, entrambe le funzioni interpolate sono anche predittive del fatto che la sensibilità insulinica non sarebbe completamente ripristinata da una diminuzione di peso del 30% (a livello di 42 µmol · kgFFM-1 · min-1 in associazione a un BMI di 25 kg/m2). Abbiamo dunque utilizzato queste relazioni cross-sezionali per confrontare i risultati ottenuti da studi di clamp insulinici in soggetti che perdevano peso mediante approcci diversi. In soggetti non diabetici sottoposti a restrizione calorica (69) o a un intervento di RYGB (68), i dati restano bene entro i 95% CIs (Fig. 1) – in altre parole, quando nei soggetti che avevano stabilizzato il proprio peso la sensibilità insulinica migliorava in esatta proporzione al cambiamento di peso. Risultati sorprendentemente simili si sono ottenuti analizzando i dati di altri due studi di clamp, utilizzando restrizione calorica (38) o RYGB (70). Invece in 107 pazienti, 35 dei quali con diabete
di tipo 2, sottoposti a BPD e studiati nuovamente 2 anni più tardi, l’aumento della sensibilità insulinica superava notevolmente il livello predetto; in altre parole, l’insulino resistenza era normale o super normale a livelli di BMI ancora entro il range dell’obesità (67). Inoltre, in uno studio (71) in cui la sensibilità insulinica era stimata ad intervalli di tempo variabili (ma non sequenziali) in seguito a BPD, si riscontravano livelli completamente normali di clearance del glucosio mediata dall’insulina già solo 10 giorni dopo l’intervento chirurgico; in questo periodo una marcata insulinoresistenza era presente in un gruppo di controllo di pazienti obesi gravi sottoposti ad interventi di chirurgia non bariatrica all’addome. Per quanto riguarda l’insulino-resistenza epatica, non siamo riusciti ad identificare uno studio che misurasse la produzione di glucosio endogena in pazienti diabetici obesi prima e dopo l’intervento chirurgico. Tuttavia, dato che insulino-resistenza epatica e periferica sono in correlazione, i pattern dei risultati delineati per l’utilizzazione glucidica mediata dall’insulina possono essere probabilmente estrapolati agli effetti dell’insulina sulla sensibilità insulinica endogena (epatica). Riguardo alla distribuzione del tessuto adiposo, in una numerosa coorte di soggetti (che includeva pazienti con diabete di tipo 2) sottoposti a LAGB, il rapporto tra grasso viscerale e addominale sottocutaneo (misurato mediante ultrasuoni) risultava significativamente ridotto a un anno dall’intervento, in concomitanza con una perdita di peso di 8 unità BMI (43). Tale evidenza conferma il fatto che il grasso si perde più rapidamente dai depositi viscerali che da quelli sottocutanei. Mentre questa ridistribuzione del grasso può contribuire al miglioramento di altre anormalità metaboliche, vi è il dubbio che la rimozione di una specifica parte di grasso in soggetti obesi gravi, che perdono così una percentuale sostanziale del grasso in eccesso, influisca effettivamente sull’azione dell’insulina in misura maggiore di quanto non avvenga con la perdita di peso in sé. Sembra che i pazienti diabetici perdano peso in quantità significativamente minore rispetto a soggetti non diabetici egualmente obesi in seguito a bypass gastrico (72). Se il miglioramento della sensibilità insulinica in pazienti obesi con diabete di tipo 2 sia diverso rispetto a soggetti obesi non diabetici, a parità di perdita di peso, è una questione che non è stata studiata in maniera sistematica. In una serie (71), la sensibilità insulinica era perfettamente ripristinata in soggetti con normale tolleranza glucidica, ridotta tolleranza glucidica, o diabete di tipo 2 in seguito a BPD; poiché i pazienti con diabete di tipo 2 avevano, precedentemente all’intervento chirurgico, livelli più bassi di sensibilità insulinica, i benefici risultavano maggiori.
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Il quadro che emerge da questa analisi è il seguente: gli interventi chirurgici coi quali vi è una forte limitazione dell’assunzione di cibo (RYGB) o dell’assorbimento (BPD) possono contribuire a un certo miglioramento della sensibilità insulinica prima che abbia luogo una notevole perdita di peso. Quando, tuttavia, si effettuano dei controlli in condizioni di equilibrio energetico stabile, l’insulino-resistenza aumenta in conseguenza di una perdita di peso indotta chirurgicamente. A lungo termine, pertanto, in seguito ad un intervento chirurgico, i pazienti obesi gravi (sia diabetici che non diabetici) manterranno un certo livello di insulino-resistenza se il loro BMI continuerà a rientrare nel range sovrappeso/obeso. Viene fatta eccezione per le procedure che inducono malassorbimento, poiché queste possono migliorare la sensibilità insulinica a prescindere dagli effetti causati dalla perdita di peso. Questa fondamentale differenza tra procedure principalmente restrittive e procedure di malassorbimento necessita di ulteriore evidenza da parte di studi prospettici randomizzati. Chirurgia bariatrica e funzione bcellulare La valutazione della funzione β-cellulare risulta problematica perché a tutt’oggi non si è giunti a un accordo su un test clinico che possa rappresentare il gold standard, così come è il clamp per la misurazione della sensibilità insulinica. La secrezione insulinica, inoltre, è di per sé complessa, perché le β-cellule devono adattarsi a stimoli cronici (ad esempio, variazioni del peso corporeo) oltre a dover rispondere a stimoli acuti (ad esempio la successione di digiuno e nutrizione). Nell’interesse della discussione che seguirà, è importante distinguere tra indici di secrezioni che riflettono l’adattamento a lungo termine e indici che risultano dalla dinamica delle βcellule. La secrezione insulinica basale e la produzione insulinica totale in risposta ad uno stimolo standard sono punti fissi della capacità di secrezione, mentre la sensibilità β-cellulare al glucosio (o il gradiente del rapporto dose-risposta secrezione insulinica/glicemia) è la capacità di controllare i livelli glicemici mediante il pronto rilascio in quantità sufficiente dell’ormone. Questa funzione chiave si riflette in indici empirici come la risposta insulinica acuta (AIR) al glucosio per via endovenosa o all’indice insulinogenico o al test di tolleranza al carico orale di glucosio o a un pasto misto. Vi sono pochi dati riguardanti la funzione β-cellulare in seguito a chirurgia bariatrica ma sono relativamente costanti. Le concentrazioni di insulina a digiuno (44, 51) o la quantità secreta (54) e la produzione totale di insulina in risposta al glucosio per via endovenosa (47) o orale (71) o a pasti misti (54) sono tutte diminuite in seguito ad un intervento di chirurgia baria-
trica. Questo è quanto ci si aspetta dalla riduzione della massa adiposa e dalla migliorata sensibilità insulinica (73). Nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 invece, i valori risultanti dall’HOMA della funzione β-cellulare in seguito a LAGB (45), AIR e indice insulinogenico in seguito a RYGB (49, 52), e AIR in seguito a BPD (47) diminuivano tutti con una certa variabilità. La sensibilità gludica β-cellulare derivata dal modello risultava pienamente normalizzata in 10 pazienti diabetici di tipo 2 a 2 anni post-BPD, in parallelo con la normalizzazione delle concentrazioni di glicemia plasmatica nell’arco della giornata (54). Pertanto, la perdita di peso indotta chirurgicamente generalmente abbassa la soglia dell’insulinoresistenza ma aumenta la risposta dinamica delle β-cellule. Se la funzione β-cellulare sia pienamente ripristinata sembra dipendere principalmente dal livello di gravità del diabete (in relazione a durata, livello del controllo metabolico e intensità della terapia antidiabetica) (45, 55). Con procedure puramente o prevalentemente restrittive, la funzione β-cellulare mostra miglioramenti progressivi nel tempo, concomitantemente alla perdita di peso. Dopo essere stati sottoposti a BPD, si è riscontrata la ripresa quasi completa dell’AIR in un piccolo gruppo di pazienti con diabete di tipo 2, un mese soltanto dopo l’operazione (59). Nel complesso, negli obesi gravi la fisiopatologia del diabete non sembra differire dalla più comune varietà di diabete negli individui moderatamente obesi. L’insulino resistenza è chiaramente più severa per via del suo rapporto quantitativo col BMI, e dietro le sorprendenti percentuali di remissione vi sono forti aumenti dell’azione insulinica legati alle perdite di peso. La funzione β-Cellulare viene in gran parte o completamente ripristinata, probabilmente secondo la propria qualità iniziale, geneticamente determinata. Meccanimi Assunzione, transito e assorbimento di cibo sono regolati da una complessa rete che comprende sistema gastrointestinale, fegato e cervello (rev. in 74). Il restringimento chirurgico dello stomaco può variare le concentrazioni in circolo di grelina, un ormone secreto da cellule endocrine nel fundus. Infusa in soggetti volontari sani, la grelina induce insulinoresistenza (75). Non si sono tuttavia riscontrate variazioni costanti nei livelli di grelina in seguito a chirurgia bariatrica, né tali da poterle mettere in relazione certa con le variazioni della sensibilità insulinica (76). Si sono valutati altri ormoni gastrointestinali dopo le procedure bariatriche mirate ad alterare il transito del cibo. Il peptide glucagone-simile 1 (GLP-1) potenzia il rilascio di insulina in base al livello glicemico (74). Le risposte del GLP-1 (al glucosio o a pasti misti) sono scarse sia in associazione col diabete
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di tipo 2 che con l’obesità (77) e i livelli di GLP-1 aumentano in tempi brevi sia dopo RYGB (58, 78) che BPD (53) ma, a quanto sembra, non in seguito a dieta (58). Esiste dunque una possibilità che livelli aumentati di GLP-1contribuiscano al miglioramento della funzione β-cellulare riscontrabile in tempi brevi in seguito a intervento chirurgico. Non è chiaro in base a quale preciso meccanismo il rilascio di GLP-1 sia migliorato da modifiche anatomiche mirate o ad aggirare il duodeno e il digiuno superiore (RYGB) o ad escludere gran parte dell’intero tratto gastrointestinale dal transito di cibo (BPD). In uno studio, tuttavia, alla sesta settimana successiva ad intervento chirurgico il GLP-1 aumentava in soggetti con ridotta o normale tolleranza glucidica ma non nei pazienti con diabete di tipo 2, nonostante simili miglioramenti di insulino resistenza e disfunzione β-cellulare (49). L’infusione, inoltre, di GLP-1 a livello farmacologico non riesce a stimolare l’utilizzazione del glucosio mediata dall’insulina in soggetti volontari sani o in condizioni sperimentali in cui si evitano i suoi effetti sul rilascio di insulina endogena (come per i pazienti diabetici di tipo 1) (rev. in 79). Sulla base del fatto che a tutt’oggi non si sono individuati recettori GLP-1 nel fegato, nei muscoli scheletrici o nel tessuto adiposo, si può concludere che difficilmente il GLP-1 può spiegare la remissione dell’insulino resistenza nei pazienti sottoposti a intervento di chirurgia bariatrica. Il coinvolgimento del polipeptide insulinotropo glucosio-dipendente (GIP) è ancor meno chiaro. La resistenza al GIP è stata ripetutamente descritta nel diabete di tipo 2 (ad es., ref. 77), e l’abbattimento dei livelli di GIP nei topi migliora l’azione insulinica (80). In seguito a intervento di RYGB, tuttavia, si sono osservati livelli aumentati (58) o invariati (81) di GIP in pazienti con diabete di tipo 2. D’altra parte, è stato attribuito al GLP-1 uno ruolo nella sindrome da svuotamento (dumping syndrome) e nell’ipoglicemia reattiva che può verificarsi in seguito a chirurgia gastrica (82). La sua azione trofica sulle β-cellule potrebbe spiegare sei casi di nesidioblastosi post-RYGB istologicamente dimostrati (83). Si è ipotizzato un ulteriore coinvolgimento del tratto gastrointestinale sulla base degli esiti di nuovi approcci chirurgici. Nei ratti Goto-Kakizaki, Rubino et al. (84) hanno riscontrato che escludendo un breve segmento di intestino prossimale dal transito di cibo (mediante bypass duodeno-digiunale) si aveva un miglioramento della tolleranza glucidica, mentre ripristinando il transito duodenale si aveva una ricomparsa dell’intolleranza glucidica. Tale osservazione ha portato a ipotizzare che il contatto dei cibi con la mucosa duodenale generi segnali (ormonali e/o neurali) che interfe53
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riscono col metabolismo glucidico e con l’azione dell’insulina; un bypass del passaggio duodenale (come per RYGB e BPD) rimuoverebbe tale inibizione. Nei ratti, Strader et al. (85) hanno mostrato che effetti analoghi a quelli dell’esclusione del duodeno potrebbero essere prodotti ricollocando un segmento ileale nell’intestino superiore. In studi effettuati su pazienti diabetici di tipo 2 con BMI < 35 kg/m2, DePaula et al. (86) hanno riferito che l’interposizione ileale con gastrectomia a manica (con o senza diversione) dava come risultato perdita di peso e una drastica diminuzione dei livelli di HbA1c, glicemia a digiuno e HOMA-IR 7 mesi più tardi. Un’altra ipotesi, dunque, è quella che il contatto con cibi non digeriti azioni un freno ileale, vale a dire una combinazioni di effetti che influenzano comportamento alimentare e digestione. Nei ratti, infine, la deviazione del flusso della bile nella seconda ansa digiunale porta a una migliorata tolleranza glucidica, sia per via orale che endovena, rispetto ad animali non operati (87). La BPD rappresenta l’unico intervento bariatrico che causa un notevole malassorbimento lipidico, contemporaneamente eliminando i lipidi intramiocellulari e riportando la sensibilità insulinica a livelli normali o sovranormali a lungo termine (88). L’eliminazione dei grassi dalla dieta nei ratti riproduce il quadro metabolico della BPD con sorprendente precisione (89). I lipidi, pertanto, e le molecole di segnale lipidico – e il loro controllo da parte della bile – devono essere tra i messaggeri chiave rilasciati da un tratto gastrointestinale modificato.
re, interazione con precedenti terapie antidiabetiche o evidenza di autoimmunità). Restrizione calorica e perdita di peso sono i meccanismi dominanti di un migliorato metabolismo glucidico. La prima sembra spiegare il miglioramento della sensibilità insulinica e delle dinamiche secretorie in tempi brevi in seguito all’intervento chirurgico; la seconda rappresenta un fattore determinante in fase finale, una volta che peso ed equilibrio calorico si sono stabilizzati. Quando vi è un’alterazione chirurgica del transito del cibo, cambiamenti nel pattern del rilascio degli ormoni gastrointestinali possono contribuire all’adattamento della funzione β-cellulare in tempi brevi, ma difficilmente daranno un contributo rilevante per l’azione insulinica. È ancora da provare se gli interventi di chirurgia bariatrica esercitino, oltre alla perdita del peso, un’intrinseca azione antidiabetica. Ciò che al momento è evidente è che gli interventi chirurgici per il malassorbimento offrono la migliore possibilità di rivelare dinamiche risolutive del diabete indipendenti dal peso, ma un’intelligente manipolazione del transito del cibo può aprire prospettive completamente nuove. Ulteriore evidenza potrebbe essere data dalla sperimentazione in soggetti meno obesi o non obesi, o dal minimizzare la perdita di peso. Per quanto possano essere difficili, sono ancora necessari studi clinici randomizzati controllati e dotati di metodologie all’avanguardia per dimostrare il valore degli interventi di chirurgia metabolica. Bibliografia
CONCLUSIONI La chirurgia bariatrica è un mezzo efficace per indurre la remissione del diabete in pazienti obesi gravi con diabete di tipo 2. Le più comuni procedure chirurgiche vanno, in senso crescente, dalla puramente restrittiva alla prevalentemente restrittiva, fino a quella di prevalente malassorbimento; si stanno tuttavia studiando parecchi nuovi approcci. La remissione del diabete risulta dal miglioramento combinato di insulino resistenza e disfunzione β-cellulare. Una migliore azione dell’insulina sul metabolismo glucidico allevia la pressione secretoria sulle β-cellule, risultando in una ridotta produzione di insulina; le risposte β-cellulari dinamiche, tuttavia sono ripristinate. Le percentuali di completa remissione del diabete o di miglioramento dei livelli glicemici dipendono essenzialmente dalla gravità del diabete (catalogato secondo durata, livelli medi di HbA1c, presenza di complicanze e intensità del trattamento). Non si sono effettuate specifiche analisi su fattori quali anamnesi familia54
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EDITORIALE
Iperglicemia postprandiale e malattia cardiovascolare La risposta è nel trial HEART2D?
el recente studio HEART2D (Hyperglycemia and its Effect After Acute Myocardial Infarction on Cardiovascular Outcomes in Patients with Type 2 Diabetes Mellitus), pubblicato in questo numero di Diabetes Care, Raz et al. (1) tentano di dare una risposta ad una questione alquanto dibattuta nel corso degli ultimi 10 anni: l’iperglicemia postprandiale è un fattore di rischio indipendente di malattia cardiovascolare nel diabete? Tale questione, recentemente tornata in auge, è sorta per via della relazione lineare che è stata identificata ed ampiamente confermata in molti studi, tra il rischio di decesso dovuto a malattie cardiovascolari e i valori ottenuti dai test di tolleranza glucidica a 2h (2). In accordo con quanto sopra citato, un recente studio ha confermato che l’iperglicemia postprandiale costituisce un fattore di rischio indipendente di malattia cardiovascolare nel diabete di tipo 2 (3). Allo stesso tempo, da un end point secondario predefinito nel trial STOP-NIDDM si è osservato che il trattamento dell’iperglicemia postprandiale può ridurre l’incidenza di nuovi eventi cardiovascolari in soggetti con ridotta tolleranza glucidica (4), evidenza confermata nel diabete di tipo 2 da una meta-analisi sull’assunzione di acarbosio (5). Un’altra importante questione è rappresentata dalla regolazione della glicemia prandiale, un nuovo approccio al trattamento del diabete di tipo 2, che sottolinea la necessità di moderare i picchi dei livelli di glicemia plasmatica dopo i pasti (6). Studi meccanicistici ed epidemiologici indicano che la glicemia postprandiale incide significativamente sull’esposizione glicemica complessiva (6). In particolare, l’iperglicemia postprandiale rappresenta il fattore che ha maggiore influenza sull’HbA1c, particolarmente se al di sotto del 7.5% (7). Per raggiungere i livelli target di HbA1c è dunque necessario concentrarsi sull’iperglicemia postprandiale. Sono adesso disponibili numerose terapie prandiali, ampiamente supportate da copiosa letteratura che, oltre a confermarne sicurezza, effica-
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cia e praticità, ne indica i potenziali benefici clinici non riscontrati per i trattamenti focalizzati sulla glicemia basale (a digiuno) (8-9). L’International Diabetes Federation ha di recente riconosciuto, in linee guida specifiche, il significato dell’iperglicemia postprandiale e il bisogno di misurarla e trattarla (8-9). Nelle suddette linee guida, il cutoff per l’iperglicemia postprandiale è indicato come corrispondente a 7.8 mmol/l (140 mg/dl), un valore che, come si è recentemente riscontrato, i soggetti sani non raggiungono mai (10). Lo studio HEART2D non mostra alcun effetto benefico dato dal trattamento dell’iperglicemia postprandiale nella riduzione di eventi cardiovascolari in pazienti diabetici ad altissimo rischio di ulteriori eventi cardiovascolari. È tuttavia importante prendere in considerazione il fatto che i pazienti venivano inseriti nello studio non più di 21 giorni dopo il loro ricovero in ospedale per un recente infarto acuto del miocardio. Devono dunque sorprendere i risultati di questo studio? Date le recenti lezioni impartite dal trial ACCORD (11), dallo studio ADVANCE (12) e dal follow-up a lungo termine dello UK Prospective Diabetes Study (13), ritengo che il risultato negativo ottenuto dallo studio HEART2D sia in effetti in linea con gli altri studi citati: se il controllo dell’iperglicemia (o a digiuno [ACCORD e ADVANCE] o postprandiale [HEART2D]) viene iniziato troppo tardi, si viene a perdere il possibile effetto benefico dato dal trattamento dell’iperglicemia (o a digiuno [UK Prospective Diabetes Study] o postprandiale [STOP-NIDDM]) durante le prime fasi della malattia. Molti aspetti dello studio HEART2D possono essere oggetto di critica. La resa dello studio è chiaramente al di sotto del proprio potenziale, e ciò è confermato dalla bassa percentuale di eventi. D’altra parte, i pazienti sono stati trattati molto bene per la malattia cardiovascolare. Come riferiscono gli autori, “la frequenza di un uso concomitante di un farmaco cardiovascolare era alta e analoga tra i gruppi (prandiale vs. basale: 95.0 vs. 95.9%; P
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= 0.478)”. Ciò significa che, come si evince dagli studi ACCORD e ADVANCE, se da una parte oggi possiamo esprimere soddisfazione poiché riteniamo che i pazienti siano ben trattati, d’altra parte ciò significa anche che, per avere informazioni più attendibili, bisogna rivedere i calcoli riguardanti i campioni per gli studi relativi a malattia cardiovascolare e diabete. Un’altra questione importante è che lo studio non è riuscito a raggiungere nell’iperglicemia postprandiale la differenza predeterminata di 2.5 mmol/l: al termine dello studio la differenza media era di solo 0.8 mmol/l, che, pur rappresentando una differenza significativa tra i due gruppi, corrisponde a meno di un terzo dell’obiettivo prefissato. Dalla considerazione dei dati emergono alcuni punti interessanti. La suddetta differenza sembra troppo esigua per poter realmente avere influenza su esiti successivi, particolarmente in tempi così brevi. A sostegno di questo punto di vista vi è una recente evidenza che suggerisce il perché i benefici dati dalla riduzione dei livelli glicemici sugli esiti macro vascolari impieghino molto più tempo ad insorgere nel diabete di tipo 2 rispetto al diabete di tipo 1. Un aumento dei livelli di HbA1c dell’1% era associato ad un aumento > 50% di rischio di CVD in pazienti diabetici di tipo 1, rispetto a un aumento del 7.5% nei pazienti con diabete di tipo 2 (14, 15). Ciò implica, a mio avviso, che il controllo dell’iperglicemia è importante per la prevenzione di complicanze cardiovascolari nel diabete, ma è necessario del tempo per dimostrare tale effetto, e questo sarebbe naturalmente più evidente se tra i valori glicemici nel tempo vi fosse una differenza più marcata. La vera fonte di preoccupazione, tuttavia, sta nella difficoltà di controllare l’iperglicemia postprandiale. Credo di poter affermare che il controllo dell’iperglicemia, qualsiasi tipo di iperglicemia, sia essa a digiuno o postprandiale, sia ancora un compito difficile, come si evince dai recenti trial, particolarmente dallo Steno-2 (16), ma anche dall’HEART2D. All’end point di questo studio, i livelli medi di
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HbA1c erano 7.7% nel gruppo prandiale e 7.8% nel gruppo basale, e soltanto il 28% dei pazienti nel gruppo prandiale ed il 31% nel gruppo basale raggiungevano livelli di HbA1c < 7.0%. La situazione per la glicemia a digiuno non sembra essere diversa: 8.1 ± 0.2 mmol/l prandiale vs. 7.0 ± 0.2 mmol/l basale. Dall’evidenza ottenuta dai recenti trial, a mio avviso, possiamo trarre un’altra lezione: iniziare il controllo dell’iperglicemia quando vi è già una malattia cardiovascolare conclamata può non avere un effetto benefico sul progresso di questa particolare complicanze del diabete. Nello stesso tempo abbiamo anche visto quanto sia difficile ottenere un controllo ottimale dell’iperglicemia, un obiettivo di primaria importanza sin dalle primissime fasi del diabete. In conclusione, lo studio HEART2D ha confermato questi due aspetti riguardanti la gestione del diabete ma certamente non ha risposto alla domanda chiave: se l’iperglicemia postprandiale sia un fattore di rischio indipendente di complicanze cardiovascolari nel diabete. Certo, mi chiedo se i risultati sarebbero stati diversi se nello studio fossero stati utilizzati altri farmaci postprandiali oltre all’insulina per raggiungere l’obiettivo (ad esempio, acarbosio o pramlintide, la cui associazione con l’insulina è approvata) e se si potrà ripetere lo studio con nuovi farmaci in grado di abbassare più efficacemente i livelli glicemici postprandiali, come i GLP-1 agonisti o gli inibitori della DPP-4 (8). Forse, infine, saremo in grado di ottenere ulteriori informazioni da due studi ancora in corso: 1) il trial NAVIGATOR (Nateglinide And Valsartan in Impaired Glucose Tolerance Outcomes Research) (17), che utilizza nateglinide e che è già stato prorogato proprio a causa del basso numero di eventi e 2) il trial ACE (Acarbose Cardiovascular Evaluation), uno studio molto ampio che viene svolto in Cina. Entrambi questi studi, tuttavia, sono ancora una volta effettuati su soggetti con ridotta tolleranza glucidica e ad alto rischio di malattia cardiovascolare. Nonostante tutto, sebbene la questione chiave sia ancora aperta, e cioè se l’iperglicemia postprandiale sia davvero un fattore di rischio di malattia cardiovascolare, ritengo che l’implementazione di strategie mirate ad abbassare l’iperglicemia postprandiale rimanga una buona scelta terapeutica nella pratica clinica, perché sembra il miglior approccio per
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raggiungere i livelli target raccomandati di HbA1c (8-9). E questo è sempre un bene per i nostri pazienti.
ANTONIO CERIELLO, MD From the Centre of Excellence in Diabetes and Endocrinology, University Hospital of Coventry and Warwickshire, Warwick Medical School, University of Warwick, Coventry, U.K. Corresponding author: Antonio Ceriello,
[email protected]
Bibliografia
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SIMPOSIO CLINICO
Terapia antipiastrinica nel diabete: efficacia e limiti delle attuali strategie di trattamento e prospettive future DOMINICK J. ANGIOLILLO, MD, PHD
a malattia cardiovascolare è la causa principale di morbidità e mortalità nei soggetti diabetici (1). La presenza concomitante di molteplici classici fattori di rischio cardiovascolare nei soggetti diabetici contribuisce a un aumentato rischio aterorombotico (2). Vi possono tuttavia essere altri importanti fattori di rischio, come un’anormale funzione piastrinica (3). Le piastrine giocano infatti un ruolo chiave nell’aterogenesi, nella sua entità e nelle sue complicanze trombotiche, che portano al blocco di una o più vie che modulano l’attivazione piastrinica e i processi di aggregazione, e sono di importanza cruciale per la riduzione del rischio ischemico nei soggetti diabetici (4). In questo articolo vengono passati in rassegna gli attuali agenti antipiastrinici disponibili per i soggetti diabetici in cui si siano manifestati eventi ischemici, i limiti delle attuali strategie di trattamento e gli agenti antipiastrinici ancora in fase di sperimentazione che potrebbero superare le suddette limitazioni.
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Terapia antipiastrinica Vi sono tre differenti categorie di farmaci inibitori della funzione piastrinica: inibitori della cicloossigenasi-1 (COX-1) (aspirina), antagonisti del recettore ADP P2Y12 (tienopiridine) e inibitori delle glicoproteine piastriniche (GP) IIb/IIIa, che sono perlopiù utilizzati per la prevenzione ed il trattamento dei disordini aterotrombotici (4) (Fig. 1). L’aspirina inibisce l’enzima COX-1, così bloccando la sintesi del tromboxano A2 (5). I pazienti che assumono aspirina, tuttavia, particolarmente quelli ad alto rischio, potrebbero continuare ad avere eventi trombotici ricorrenti. Gli inibitori delle GP IIb/IIIa sono agenti antipiastrinici molto potenti, che esercitano il proprio effetto mediante l’inibizione della via finale comune dell’aggregazione piastrinica, e si è riscontrata la loro efficacia nella prevenzione
delle complicanze trombotiche in pazienti ad alto rischio sottoposti a intervento coronarico percutaneo (PCI) (4). Questi agenti sono tuttavia disponibili soltanto per uso parenterale ed hanno una breve durata d’azione, che ne impedisce l’uso per una protezione a lungo termine. La necessità di strategie alternative di trattamento antipiastrinico ha portato a valutare gli effetti ottenuti da una combinazione di agenti antipiastrinici orali che inibiscono altre vie di attivazione delle piastrine. La ticlopidina è una tienopiridina di prima generazione, che blocca il recettore dell’ADP P2Y12 (6). La sua combinazione con l’aspirina è associata ad una potenziata inibizione della funzione piastrinica e a migliori esiti clinici in pazienti sottoposti a impianti di stent coronarico, rispetto alla monoterapia con aspirina o ad aspirina associata a warfarina (6). Avendo tuttavia la ticlopidina un profilo di sicurezza limitato e non avendo un rapido effetto antipiastrinico, l’antagonista del recettore dell’ADP P2Y12 più frequentemente scelto è il clopidogrel, una tienopiridina di seconda generazione (6-7). Aspirina. L’aspirina acetila selettivamente l’enzima COX-1, così bloccando la formazione del tromboxano A2 nelle piastrine (5). Tale effetto è irreversibile, poiché le piastrine sono enucleate e dunque non in grado di risintetizzare il COX-1. Oltre ad essere l’agente antipiastrinico elettivo per la prevenzione secondaria di eventi ischemici in pazienti con malattia aterosclerotica, l’aspirina può essere utilizzata anche per la prevenzione primaria di eventi ischemici. Sebbene, infatti, vi siano opinioni contrastanti al riguardo per la popolazione generale, gli esperti concordano sull’uso dell’aspirina nella prevenzione primaria dei pazienti diabetici. L’aspirina come strategia di prevenzione primaria nel diabete. L’American
From the Division of Cardiology, University of Florida College of Medicine, Jacksonville, Florida. Corresponding author: Dominick J. Angiolillo,
[email protected].
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Diabetes Association (ADA) raccomanda l’uso di bassi dosaggi di aspirina (75-162 mg/die) come strategia di prevenzione primaria nei pazienti con diabete di tipo 1 o di tipo 2 con aumentato rischio cardiovascolare, compresi quelli > 40 anni di età o che hanno ulteriori fattori di rischio (anamnesi familiare di malattia cardiovascolare, ipertensione, fumo, dislipidemia o albuminuria) (8). Tuttavia, la terapia con aspirina potrebbe non essere raccomandata nei pazienti di età < 21 anni, poiché potrebbe aumentare il rischio di sindrome di Reye. Il ruolo dell’aspirina nei pazienti diabetici di età < 30 anni resta ancora da chiarire, essendo necessari ulteriori studi. Parecchi trial clinici hanno valutato l’efficacia dell’aspirina nei pazienti diabetici (9-12). La maggior parte dei suddetti studi ha mostrato i benefici dell’aspirina per i pazienti diabetici (9-11). I suddetti risultati, tuttavia, erano basati su analisi post hoc, poiché i suddetti trial non erano stati specificamente progettati per pazienti diabetici. Inoltre i risultati ottenuti si basavano su campioni esigui di soggetti, il che potrebbe spiegare il motivo per cui l’aspirina non sia risultata sempre benefica nelle terapie di prevenzione primaria in pazienti diabetici (12). Il trial Japanese Primary Prevention of Atherosclerosis With Aspirin for Diabetes (JPAD) (trial clinico reg. no. NCT00110448) è stato il primo trial prospettico a effettuare una valutazione dell’utilizzo dell’aspirina (81 mg o 100 mg) nella prevenzione primaria di eventi cardiovascolari in pazienti con diabete di tipo 2 (n = 2,539) di età 30-85 anni in Giappone (13). Dopo un follow-up della durata media di 4.37 anni, vi era una differenza del 20% tra il gruppo trattato con aspirina ed il gruppo non trattato con aspirina nell’end point primario (rispettivamente 5.4 vs. 6.7%), che non aveva significatività statistica (P = 0.16). Tra i pazienti di età > 65 anni (n = 1,363), l’aspirina era associata a una riduzione del 32% del rischio dell’end point primario (6.3 vs. 9.2%; P = 0.047). Inoltre, nei pazienti trattati con aspirina, l’incidenza di eventi coronarici e cerebrovascolari fatali (un end point secondario) era significativamente più bassa del 90% (0.08 vs. 0.8%; P = 0.0037); non vi erano tuttavia differen59
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Trombina
Attivazione
Aspirina
Figura 1 – Meccanismi di azione degli agenti antipiastrinici. L’aspirina inibisce la sintesi del tromboxano A2 (TXA2) bloccando l’enzima COX-1. Picotamide, ramatroban e ridogrel inibiscono sia la sintesi che i recettori del TXA2. Tienopiridina, ticlopidina e clopidogrel inibiscono il recettore dell’ADP P2Y12 e bloccano le vie intracellulari, che portano all’attivazione piastrinica. Prasugrel, ticagrelor, cangrelor ed elinogrel sono antagonisti del recettore P2Y12 attualmente sotto osservazione clinica. L’aspirina e gli antagonisti del recettore P2Y12 bloccano in sinergia la via finale comune dell’aggregazione piastrinica rappresentata dal recettore GP IIb/IIIa, che può essere inibito direttamente mediante antagonisti del recettore GP IIb/IIIa somministrati per via endovenosa. Il Cilostazol è un inibitore della fosfodiesterasi (PDE) III, che inibisce le piastrine mediante un aumento delle concentrazioni piastriniche di cAMP. E5555 e SCH 530348 sono antagonisti del recettore per la trombina che bloccano il sottotipo PAR-1. (Adattato da Schafer AI: Antiplatelet therapy. Am J Med 101:199–209, 1996).
ze in eventi coronarici e cerebrovascolari non fatali. L’aspirina era ben tollerata, senza aumenti significativi nella combinazione di stroke emorragico e sanguinamento gastrointestinale grave. Tra i limiti di questo trial vi erano l’assegnazione all’aspirina open-label e il basso numero di eventi. Lo studio potrebbe pertanto avere avuto deboli basi per dimostrare un effetto significativo dell’aspirina sull’end point primario. I risultati di questo trial hanno messo in discussione la validità delle attuali linee guida riguardanti l’adozione dell’aspirina nella prevenzione primaria per i pazienti diabetici. Vi sono tuttavia altri trial in corso, che chiariranno ulteriormente l’adeguatezza dell’utilizzo dell’aspirina per la prevenzione primaria nei pazienti diabetici e cioè A Study of Cardiovascular Events iN Diabetes (ASCEND) (trial clinico reg. no. NCT00135226) e Aspirin and Simvastatin Combination for Cardiovascular Events
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Prevention Trial in Diabetes (ACCEPT-D) (trial clinico reg. no. ISRCTN48110081). Recentemente sono stati riportati i risultati del trial Prevention Of Progression of Arterial Disease And Diabetes (POPADAD) (14). In questo trial, pazienti (n = 1276) con diabete di tipo 1 o di tipo 2 di età > 40 anni con rapporto della pressione arteriosa caviglia/braccio ≤ 0.99, ma senza malattia cardiovascolare sintomatica, venivano randomizzati all’aspirina (100 mg) e ad agenti antiossidanti in uno studio a doppio cieco, con disegno fattoriale 2 χ2, controllato con placebo. Questo trial non è riuscito a dimostrare alcun beneficio apportato da aspirina o antiossidanti nella prevenzione primaria di eventi cardiovascolari. Il basso numero complessivo di pazienti con pochi eventi potrebbe avere influito sui risultati dello studio. Sebbene i pazienti in questo trial fossero asintomatici, non si può considerare questo studio co-
me uno studio di prevenzione primaria perché i soggetti avevano malattia arteriosa periferica (PAD) ad uno stadio più o meno avanzato. L’aspirina come strategia di prevenzione secondaria nel diabete. L’ADA raccomanda l’utilizzo di bassi dosaggi di aspirina (75-162 mg/die) per la prevenzione secondaria di eventi cerebrovascolari e cardiovascolari in tutti i pazienti diabetici (8). Tale posizione è supportata dai risultati di due approfondite metaanalisi dei principali trial sulla prevenzione secondaria effettuate dall’Antithrombotic Trialists’ Collaboration (ATC), da cui si è riscontrato che gli agenti antipiastrinici, principalmente l’aspirina, proteggono i pazienti ad alto rischio di malattie cardiovascolari, diabetici inclusi (15-16). Le meta-analisi comprendevano 287 trial di prevenzione secondaria che esaminavano 212000 pazienti ad alto rischio, con malattia vascolare acuta o pregressa o altra condizione che aumentava il loro rischio di malattia cardiovascolare. L’aspirina, somministrata in dosaggi che andavano da 75 a 325 mg/die, era l’agente antipiastrinico utilizzato più frequentemente. Nei principali gruppi ad alto rischio (infarto del miocardio acuto, anamnesi di infarto del miocardio, anamnesi di stroke o attacco ischemico transitorio acuto e qualsiasi altra anamnesi rilevante di malattia vascolare), la terapia antipiastrinica riduceva l’incidenza di eventi vascolari del 23%. È interessante notare che un basso dosaggio di aspirina (75-150 mg/die) aveva almeno la stessa efficacia di dosaggi giornalieri più alti. Complicanze come il sanguinamento, inoltre, risultavano ridotte con dosaggi più bassi. In più di 4500 pazienti diabetici esaminati dall’ATC, anche l’incidenza di eventi vascolari si riduceva dal 23.5% nel gruppo di controllo, al 19.3% nel gruppo trattato con terapia antipiastrinica (P < 0.01) e dal 17.2% al 13.7% nei ∼42000 pazienti non diabetici (P < 0.00001). Sebbene l’incidenza complessiva di eventi vascolari fosse molto più alta nei pazienti diabetici, il beneficio apportato dalla terapia antipiastrinica sia nei pazienti diabetici che in quelli non diabetici era notevole (con la prevenzione di 42 eventi vascolari per ogni 1000 pazienti diabetici e 35 eventi per ogni 1000 pazienti non diabetici). Antagonisti del recettore P2Y12 Il clopidogrel è attualmente la tienopiridina maggiormente in uso, avendo un migliore profilo di sicurezza rispetto alla ticlopidina (6-7). Il trial Clopidogrel versus Aspirin in Patients at Risk of Ischemic Events (CAPRIE) ha esaminato
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gli effetti del clopidogrel (75 mg/die) rispetto all’aspirina (325 mg/die) in un esteso studio di prevenzione secondaria (n = 19,185) in pazienti con una recente storia di infarto del miocardio, recente stroke ischemico o PAD conclamato (17). L’incidenza annuale dell’end point primario (incidenza combinata di decesso vascolare, infarto del miocardio o stroke ischemico) era del 5.32% con clopidogrel e del 5.83% con aspirina, rappresentando una riduzione di rischio relativo dell’8.7% a favore del clopidogrel (P = 0.043). Bhatt et al. (18) hanno analizzato in retrospettiva i risultati del sottogruppo diabetico del trial CAPRIE, che rappresentava il 20% della popolazione dello studio. L’end point vascolare primario composito si verificava nel 15.6% e nel 17.7% dei pazienti assegnati a random rispettivamente a clopidogrel e aspirina (P = 0.042). Per ogni 1000 pazienti diabetici trattati, ciò ha portato alla prevenzione di 21 eventi vascolari, numero che saliva a 38 tra i pazienti diabetici trattati con insulina. È importante notare che la riduzione dell’end point primario composito con clopidogrel (11.8%) rispetto all’aspirina (12.7%) non era statisticamente significativa nei pazienti non diabetici. L’ADA attualmente raccomanda l’utilizzo della terapia con clopidogrel nei pazienti diabetici ad alto rischio o come terapia alternativa per i pazienti che non tollerano l’aspirina (8). Lo studio Clopidogrel in Unstable Angina to Prevent Recurrent Events (CURE) ha esaminato gli esiti ottenuti da clopidogrel associato ad aspirina rispetto alla sola aspirina in pazienti (n = 12,562) con angina instabile o infarto miocardico senza sopraslivellamento ST (NSTEMI) (19). I pazienti venivano randomizzati al trattamento o con clopidogrel (con una dose di carico di 300 mg e una dose di mantenimento di 75 mg/die) o placebo in aggiunta alla terapia standard con aspirina (75-325 mg/die) per un periodo fino a 1 anno. I pazienti assegnati al trattamento con terapia antipiastrinica doppia (aspirina e clopidogrel) avevano una significativa riduzione del 20% nel primo esito primario (decesso vascolare composito, infarto del miocardio o stroke) rispetto ai pazienti trattati con la sola aspirina (rispettivamente 9.3 vs. 11.4%; P < 0.001). Sebbene l’aumentato grado di inibizione piastrinica associato alla terapia antipiastrinica abbia ridotto gli eventi ischemici, vi era una maggiore incidenza di emorragie importanti (3.7 vs. 2.7%; P = 0.001). Non vi erano tuttavia significative differenze nelle emorragie potenzialmente mortali (2.2 vs. 1.8%; P = 0.13). Nello studio CURE vi erano 2840 pazienti dia-
betici, nei quali vi era una riduzione di ~17% riguardo all’esito primario quando venivano trattati con terapia combinata con aspirina e clopidogrel, rispetto alla sola aspirina (14.2 vs. 16.7%). Tuttavia, il valore di CI 0.70-1.02 mostra che, sebbene la terapia antipiastrinica con aspirina e clopidogrel abbia apportato effetti benefici nel sottogruppo dei pazienti diabetici (così come nella popolazione complessiva dello studio), ciò assumeva significatività statistica borderline. È importante notare che la frequenza degli eventi era molto più alta nel sottogruppo dei diabetici rispetto a quello dei non diabetici nonostante la più intensa terapia antipiastrinica con l’aggiunta di clopidogrel. Infatti, l’end point primario cardiovascolare composito era più alto di quasi il doppio nei pazienti diabetici, rispetto ai non diabetici (rispettivamente 14.2 vs. 7.9%) (19). Quanto riscontrato evidenzia che regimi di trattamento antipiastrinico più specifici, che potrebbero prevedere farmaci più potenti o una combinazione con altri farmaci antipiastrinici, sono necessari per i pazienti diabetici (20). Le attuali linee guida dell’American College of Cardiology (ACC)/American Heart Association (AHA) per il trattamento di angina instabile e NSTEMI raccomandano l’aggiunta di clopidogrel (dose da carico di 300 mg e dose di mantenimento di 75 mg/die) all’aspirina nei pazienti con angina instabile e NSTEMI (21). Di recente, l’utilizzo del clopidogrel in pazienti con infarto miocardico con sopraslivellamento ST (STEMI) è stato approvato dalla U.S. Food and Drug Administration e sostenuto dalle attuali linee guida della ACC/AHA sul trattamento dei pazienti con STEMI (22). Secondo tali linee guida, nei pazienti con sindrome coronarica acuta (ACS) il clopidogrel andrebbe utilizzato a prescindere dalla strategia di trattamento adottata (invasiva o non invasiva), continuandolo preferibilmente per un periodo fino a 1 anno. Le implicazioni prognostiche della compliance con terapia aggiuntiva con clopidogrel sono sottolineate da un aumento evidente di decessi e infarti del miocardio manifestatisi in seguito alla sua interruzione (23). Questo fenomeno risulta particolarmente evidente nei pazienti diabetici e può essere attribuito ad un aumento marcato della reattività piastrinica in seguito all’interruzione del clopidogrel (23-24). In contrasto con gli evidenti benefici mostrati dalla terapia antipiastrinica doppia nei pazienti con ACS, compresi quelli sottoposti a PCI, i risultati dell trial Clopidogrel for High Atherothrombotic
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Risk and Ischemic Stabilization, Management, and Avoidance (CHARISMA) hanno evidenziato che nei pazienti ad alto rischio ma non in condizioni critiche (n = 15603), con malattia cardiovascolare clinicamente evidente (n = 12153) o molteplici fattori di rischio cardiovascolare (n = 3284), il trattamento con clopidogrel associato ad aspirina non era significativamente più efficace rispetto al trattamento con la sola aspirina nel ridurre la frequenza di decesso cardiovascolare, infarto del miocardio o stroke (rispettivamente 6.8 vs. 7.3%; P = 0.22) (25). Sebbene un’analisi di sottogruppo in un gruppo a più alto rischio (n = 9478) con precedente infarto del miocardio, stroke ischemico o PAD sintomatica (popolazione simile al CAPRIE) abbia evidenziato una riduzione del rischio relativo del 17% (P = 0.01) con terapia antipiastrinica (26), si è riscontrata evidenza opposta nei pazienti della coorte a più basso rischio inseriti nello studio sulla base della presenza di molteplici fattori di rischio cardiovascolare, nei quali si osservava un aumento della mortalità. È importante notare che un’alta percentuale dei pazienti inseriti nel suddetto sottogruppo aveva il diabete, poiché la diagnosi di diabete rappresentava uno dei criteri chiave di inclusione. Pertanto, la terapia antipiastrinica doppia con aspirina e clopidogrel non dovrebbe essere implementata a livello di prevenzione primaria nei soggetti diabetici. Antagonisti del recettore GP IIb/IIIa Sono stati effettuati numerosi studi che hanno messo a confronto vari inibitori del recettore GP IIb/IIIa. Sono attualmente tre gli inibitori del recettore GP IIb/IIIa (abciximab, eptifibatide e tirofiban) approvati per utilizzo clinico. In una meta-analisi di sei trial con inibitori del GP IIb/IIIa somministrati per via endovenosa in pazienti con ACS, il 22% dei quali erano diabetici (n = 6458), i bloccanti del GP IIb/IIIa riducevano significativamente la mortalità a 30 giorni da 6.2 a 4.6% (P = 0.007) nei pazienti diabetici (27). Tra più di 22000 pazienti non diabetici in questi trial, gli inibitori del GP IIb/IIIa non innalzavano il livello di sopravvivenza. L’effetto degli inibitori del GP IIb/IIIA nei soggetti diabetici risultava ancora maggiore in 1279 pazienti sottoposti a intervento coronarico percutaneo durante il ricovero indice; in questi individui, gli inibitori del GP IIb/IIIa riducevano la mortalità a 30 giorni dal 4 all’1.2% (P = 0.002). È bene notare che i suddetti trial sono stati eseguiti in un periodo in cui l’uso del clopidogrel era limitato, cosa che ha spinto alla ricerca di
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un antagonista del recettore GP IIb/IIIa nei pazienti diabetici. Infatti, il trial Intracoronary Stenting and Antithrombotic Regimen: Is Abciximab a Superior Way to Eliminate Elevated Thrombotic Risk in Diabetics? (ISAR-SWEET) non ha mostrato alcun effetto dell’abciximab su rischio di decesso a 1 anno e infarto del miocardio in pazienti diabetici (n = 701) sottoposti a PCI dopo pretrattamento con una dose di carico di 600-mg di clopidogrel almeno 2 h prima della procedura (28). Tuttavia, il trial Intracoronary Stenting and Antithrombotic Regimen: Rapid Early Action for Coronary Treatment 2 (ISAR-REACT 2) ha chiaramente evidenziato che l’abciximab riduce senza pericoli il rischio di eventi indesiderati in pazienti con NSTEMI ACS sottoposti a PCI dopo pretrattamento con 600 mg di clopidogrel, somministrato a pazienti con elevati livelli di troponina ma non a pazienti con variazioni dell’elettrocardiogramma (29). I benefici si osservavano in tutti i sottogruppi, compresi i pazienti diabetici. Nel complesso, in accordo con le attuali linee guida, questi risultati continuano a sostenere l’utilizzo degli antagonisti del recettore GP IIb/IIIa nei pazienti con ACS, in particolare i pazienti diabetici (21). L’aumentata frequenza di emorragie rappresenta il grosso limite dei farmaci antagonisti del GP IIb/IIIa. È sempre più evidente che l’emorragia ha un impatto importante sulla prognosi, incluso la mortalità a lungo termine (30). Rispetto agli inibitori del GP IIb/IIIa, si è riscontrato che la bivalirudina (un inibitore diretto della trombina) protegge in maniera analoga da eventi ischemici con minore frequenza di emorragia nei pazienti con ACS, risultando in una riduzione significativa di esiti clinici avversi (31). A corroborare quanto detto vi è una recente analisi di sottogruppo del trial Acute Catheterization and Urgent Intervention Triage Strategy (ACUITY) eseguito sulla coorte diabetica (n = 3852). In particulare, la monoterapia con bivalirudina rispetto all’inibitore del GP IIb/IIIa associato a eparina dava come risultato una simile frequenza di ischemia composita (rispettivamente 7.9 vs. 8.9%; P = 0.39) e minori emorragie (3.7 vs. 7.1%; P < 0.001), diminuendo così gli esiti clinici avversi (10.9 vs. 13.8%; P = 0.02) (32). Limiti dei farmaci antipiastrinici attualmente disponibili L’aspirina e il clopidogrel rappresentano la base di trattamento per la prevenzione secondaria di eventi ischemici nei pazienti, diabetici compresi, che presentano malattia cardiovascolare ateroscle-
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rotica stabile o instabile. Tuttavia, in un considerevole numero di pazienti continuano a manifestarsi eventi aterotrombotici ricorrenti nonostante l’utilizzo dei suddetti agenti antipiastrinici. Nel corso degli ultimi anni queste osservazioni hanno portato all’elaborazione del concetto di resistenza ai farmaci antipiastrinici. Il termine “resistenza” deriva dalla scoperta, avvenuta in laboratorio, del mancato blocco da parte di un agente antipiastrinico del proprio target specifico sulla piastrina (33). Dunque, gli eventi trombotici non possono essere attribuiti alla resistenza al farmaco se l’efficacia dell’agente antipiastrinico non è stata verificata nei pazienti affetti. Per quanto riguarda l’aspirina, in caso di resistenza vi sarà inadeguata o mancata sintesi del tromboxano A mediata dall’enzima COX-1, mentre per il clopidogrel la resistenza coinvolge il segnale recettoriale P2Y12 (33). La resistenza al farmaco antipiastrinico non andrebbe confusa con il fallimento del trattamento, definito dalla ricorrenza di un evento ischemico nonostante il trattamento. La resistenza al farmaco antipiastrinico può in effetti portare alla mancata efficacia del trattamento, ma non si possono attribuire tutti i trattamenti non efficaci alla resistenza al farmaco antipiastrinico. Ciò è in linea con la natura multifattoriale dell’aterotrombosi, il che implica l’esistenza di molteplici meccanismi che possono portare a eventi ricorrenti. 2
Resistenza all’aspirina. Numerosi studi hanno messo in correlazione la resistenza all’aspirina con esiti clinici avversi a lungo termine, non solo in pazienti con malattia arteriosa coronarica ma anche in individui con stroke ischemico o malattia arteriosa periferica (33). La prevalenza della resistenza all’aspirina descritta in letteratura varia considerevolmente (dallo 0% di pazienti in alcuni studi a > 50% pazienti in altri); evidenze talmente diverse tra loro possono essere attribuite a differenze nella definizione di resistenza, tipo di analisi utilizzata, dosaggio di aspirina e popolazione di pazienti sotto osservazione. Molti degli studi hanno utilizzato analisi non specifiche per l’enzima COX1 (ad es., PFA-100, aggregometria a trasmissione di luce che utilizza agonisti diversi dall’acido arachidonico) e i risultati ottenuti possono riflettere le molteplici vie di segnalazione piastrinica. I risultati di questi test portano solitamente a una più alta prevalenza della resistenza all’aspirina, particolarmente nei pazienti diabetici (34). Vi è sempre maggiore evidenza, tuttavia, che quando si utilizzano de-
terminati test per valutare in maniera specifica l’attività dell’enzima COX-1 e determinare la responsività dell’aspirina, la resistenza all’aspirina si riscontra molto di rado (in < 5% dei pazienti) (35-36). Anche se va ancora ben definita la rilevanza di diversi test che hanno messo alla prova la responsività dell’aspirina (specifica e non specifica per l’inibizione del COX-1), da meta-analisi su vari test di laboratorio risultano scarse implicazioni prognostiche di effetti indesiderati indotti dall’aspirina (37-38). Non sono tuttavia stati pubblicati studi specificamente progettati per valutare le implicazioni della resistenza biochimica all’aspirina in pazienti diabetici. La principale ragione della resistenza all’aspirina, quando si effettuano test specifici per la valutazione del COX-1, è la scarsa compliance da parte dei pazienti (33, 35). L’interazione con alcuni farmaci, come l’ibuprofen, che interferiscono con l’acetilazione del COX-1 indotta dall’aspirina può anche essere la causa di un effetto dell’aspirina inadeguato o nullo (39). Ciò può spiegare l’aumentato rischio di eventi ischemici nonostante l’utilizzo di aspirina. Inoltre, la complessiva prevalenza di effetti inadeguati dell’aspirina può essere influenzata dalla popolazione studiata. I pazienti diabetici sono tipicamente caratterizzati da una iperreattività piastrinica. Sebbene l’aspirina possa portare a un completo blocco del COX-1 come riscontrato da alcuni test specificamente mirati a questo target, l’alta reattività piastrinica residua può persistere in questi pazienti come risultato di una sovraregolazione di altre vie di segnalazione, che non sono bloccate dall’aspirina. Ciò diventa ancora più evidente quando si effettuano test non specificamente incentrati sul COX-1, ed è possibile che i pazienti diabetici risultino più resistenti con questi test (34). Sono stati effettuati solo un numero limitato di studi sui potenziali meccanismi della resistenza all’aspirina intrinseci nei pazienti diabetici. I diabetici sono caratterizzati da un’aumentata reattività piastrinica e da un aumentato livello e attività di fattori di coagulazione protrombotici (4), che possono spiegare la loro predisposizione ad effetti inadeguati indotti dall’aspirina. L’iperglicemia può essere considerata un meccanismo specifico del diabete sugli effetti inadeguati indotti dall’aspirina (40). Si è infatti ripetutamente riscontrata l’interazione fra glicosilazione e acetilazione. Inoltre, un’aumentata glicosilazione delle piastrine e delle proteine dei fattori di coagulazione può interferire col processo di acetilazione, contribuendo così ad effetti agli
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Tabella 1 – Meccanismi di variabilità di risposta al clopidogrel Fattori clinici Mancata prescrizione/scarsa compliance Basso dosaggio Scarso assorbimento Interazioni farmaco-farmaco col coinvolgimento della P-glicoproteina intestinale (prodotto del gene MDR1) Interazioni farmaco-farmaco col coinvolgimento del CYP3A4 Sindrome coronarica acuta Diabete/insulino resistenza* BMI* elevato Fattori cellulari Turnover piastrinico accelerato* Ridotta attività metabolica del CYP3A* Aumentata esposizione dell’ADP* Sovraregolazione della via del P2Y12* Sovraregolazione della via del P2Y1* Sovraregolazione delle vie indipendenti dal P2Y* Fattori genetici Polimorfismi del CYP Polimorfismi del GPIa Polimorfismi del P2Y12 Polimorfismi del GPIIIa Polimorfismi del MDR1
Resistenza al Clopidogrel. Il Clopidogrel è uno specifico antagonista irreversibile del recettore piastrinico P2Y12 ADP, che inibisce l’attivazione piastrinica in maniera completamente diversa rispetto all’aspirina. Analogamente all’aspirina, la prevalenza della resistenza al clopidogrel riportata in letteratura varia considerevolmente e dipende dalle differenze riguardo definizioni adottate, tipi di test effettuati, dosaggi di clopidogrel e popolazione dei pazienti (41). Ciò nondimeno, è un fatto conclamato che la risposta clinica al clopidogrel vari notevolmente da individuo a individuo. Cause genetiche, cellulari e cliniche possono tutte contribuire a un’inadeguata responsività al clopidogrel (41). La presenza di diabete può contribuire a vanificare l’azione del clopidogrel mediante vari mec-
Massima aggregazione piastrinica (%) indotta a ADP (20 µmol/L
* Fattori che potenzialmente riducono gli effetti del clopidogrel nei soggetti diabetici. CYP, citocromo P450; MDR1, proteina della farmacoresistenza multipla 1. (adattato da ref. 41.)
anti-piastrinici inadeguati indotti dall’aspirina nei pazienti diabetici. Resta tuttavia da chiarire se il migliorato controllo glicemico migliori l’efficacia dell’aspirina o se aumentate dosi di aspirina apportino benefici in presenza di uno scarso controllo glicemico.
Figura 2 – Aggregazione piastrinica dopo stimolo con ADP (20 µmol/l) in pazienti non diabetici (NDM) (n = 65), pazienti non insulino trattati (NITDM) (n = 133) e in pazienti diabetici insulino trattati (ITDM) (n = 68). L’aggregazione piastrinica è più alta nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici, e i pazienti insulino trattati hanno il maggior livello di reattività piastrinica. L’aggregazione piastrinica aumenta progressivamente tra i pazienti non diabetici, non insulino trattati e insulino trattati, in quest’ordine. (Adattato da ref. 43.)
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% di sopravvivenza libera da eventi
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Mesi Figura 3 – Sopravvivenza complessiva senza eventi cardiovascolari in pazienti diabetici (n = 173) con e senza alta reattività piastrinica. Il valore cutoff per definire l’alta reattività piastrinica era il 62% di aggregazione piastrinica massima indotta da ADP (20 µmol/l) (Aggmax). La frequenza di eventi cardiaci avversi importanti era significativamente più alta nei pazienti con attività piastrinica al di sopra del valore cutoff rispetto a quelli al di sotto del suddetto valore cutoff (rispettivamente 37.7 vs. 13.3%; odds ratio 3.96 [95% CI 1.8–8.7]; P < 0.0010). Le analisi di regressione multivariata di Cox mostravano che l’alta reattività piastrinica (HR 3.35 [95% CI 1.68–6.66]; P = 0.001) era il più forte fattore predittivo indipendente di eventi cardiaci avversi importanti. Adattato da ref. 46.)
canismi (Tabella 1). La non responsività al clopidogrel prevale maggiormente nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici ed è più alta nei pazienti insulino-trattati (42-44) (Fig. 2). Ciò può spiegare perché nei diabetici, particolarmente quelli nella fase più avanzata della propria malattia (ad es., diabete insulino-trattato), continuano a manifestarsi eventi aterotrombotici ricorrenti tra cui trombosi da stent (41, 45). I profili della funzione piastrinica tracciati esclusivamente nei pazienti con diabete di tipo 2 trattati con aspirina e clopidogrel hanno mostrato che anche se questi pazienti hanno una maggiore reattività piastrinica rispetto ai soggetti non diabetici, vi è sempre un alto livello di responsività (46). È importante notare che in questa coorte composta soltanto da pazienti diabetici, i soggetti con alta reattività piastrinica avevano un rischio di eventi avversi a lungo termine tre volte maggiore (Fig. 3) (46). Questi pazienti erano anche caratterizzati da una generale disfunzione piastrinica, evidenziata dalla presenza di un’alta reattività piastrinica utilizzando agonisti per testare molteplici vie di segnalazione. Numerosi meccanismi possono spiegare l’inadeguata risposta al clopidogrel nei pazienti diabetici, particolarmente nei soggetti con diabete di tipo 2. Le pia-
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strine umane sono target dell’insulina, che interagisce csol proprio recettore sulla superficie della piastrina, portando alla perdita di attività Gi. Ciò risulta nella soppressione di cAMP, inibizione della segnalazione di P2Y12 e ridotta attività piastrinica (47-48). Tuttavia, nei pazienti diabetici di tipo 2 le piastrine sono anche influenzate dal fenomeno dell’insulinoresistenza che caratterizza tali pazienti, portando ad una diminuita sensibilità all’insulina (9). Ne conseguono una sovraregolazione della via del P2Y12 e un’aumentata reattività piastrinica. Altri meccanismi collegati alla non responsività al clopidogrel nei pazienti diabetici comprendono l’aumentata esposizione ad ADP, aumentati livelli citosolici di calcio e aumentato turnover delle piastrine. Direzioni future I limiti degli agenti antipiastrinici attualmente disponibili usati per la prevenzione di eventi aterotrombotici, maggiormente importanti per i pazienti diabetici, sottolineano il bisogno di regimi di trattamento antipiastrinico più specifici, particolarmente per i suddetti pazienti. Vengono proposte tre strategie per raggiungere tale obiettivo e cioè modifiche dei dosaggi, utilizzo di ulteriori farmaci antipiastrinici e di nuovi agenti.
Modifica dei dosaggi dei farmaci antipiastrinici. È possibile che aumentando i dosaggi dei farmaci antipiastrinici attualmente disponibili si ottenga un incremento della biodisponibilità del farmaco, aumentando così l’inibizione piastrinica. Il dosaggio dell’aspirina utilizzata nella pratica clinica varia ampiamente (75-325 mg/die). Sebbene non vi siano studi randomizzati che abbiano stabilito quale dei suddetti dosaggi sia il più efficace, l’ATC mostra chiaramente che dosaggi più alti di aspirina non sono associati a migliori esiti clinici (15-16). Al contrario, l’aspirina è associata a un più alto rischio di effetti avversi, principalmente emorragia gastrointestinale (5). Sebbene alcuni studi funzionali abbiano dimostrato che l’aspirina può avere un impatto sugli effetti indipendenti dal COX-1, per motivi attualmente sconosciuti, ciò non influisce sul livello di blocco del COX-1, il che richiede che l’aspirina non sia somministrata in bassi dosaggi (5). Dato che nei pazienti diabetici le piastrine sono caratterizzate da un aumentato turnover (4), si è giunti alla conclusione che la somministrazione di più dosi anziché l’aumento di una singola dose giornaliera possa produrre maggiori benefici per i suddetti pazienti. L’aspirina ha infatti un’emivita molto breve e non è dunque in grado di
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ottenere il blocco di nuove piastrine. Non si conoscono ancora tuttavia le implicazioni funzionali e cliniche di un singolo dosaggio giornaliero di aspirina rispetto a più somministrazioni nell’arco della giornata. Parecchi studi hanno tentato di risolvere il problema della non responsività del clopidogrel aumentando il dosaggio (49-50). Lo studio Optimizing Anti-Platelet Therapy in Diabetes MellitUS (OPTIMUS) ha esaminato selettivamente pazienti diabetici di tipo 2 con alta reattività piastrinica trattati con clopidogrel (50). La somministrazione di un dosaggio di mantenimento di 150-mg di clopidogrel ha dato come risultato una maggiore inibizione piastrinica rispetto al dosaggio di 75 mg. Di recente si è riscontrato che un’aumentata inibizione del P2Y12 ottenuta con un alto dosaggio di clopidogrel in pazienti diabetici riduce anche la generazione di trombina (51). Nonostante questa strategia, tuttavia, un numero significativo di pazienti rimaneva al di sopra della soglia terapeutica di reattività piastrinica posttrattamento adottata in questo studio (50, 52). Nonostante la mancanza di dati ottenuti da trial clinici effettuati su larga scala, sufficienti per confermare la sicurezza e l’efficacia di alti dosaggi di clopidogrel, le linee guida PCI danno una raccomandazione di I classe (livello di evidenza C) per alti dosaggi di partenza di clopidogrel (600 mg) (53). Vi è un livello di evidenza C, classe IIb per dosaggi di mantenimento di 150 mg. Il trial attualmente in corso Clopidogrel Optimal Loading Dose Usage to Reduce Recurrent EveNTs/Optimal Antiplatelet Strategy for InterventionS (CURRENT/OASIS7) stabilirà se alti dosaggi di partenza e di mantenimento di clopidogrel raggiungano i migliori risultati clinici rispetto alle dosi standard in pazienti ACS sottoposti a PCI (trial clinico reg. no. NCT00335452). Tutti i pazienti verranno inoltre randomizzati per ricevere bassi (75-100 mg) o alti (300-325 mg) dosaggi di aspirina. Utilizzo di agenti antipiastrinici aggiuntivi L’adozione di una terapia antipiastrinica in aggiunta alle terapie in atto per la prevenzione secondaria di eventi ischemici può essere un modo per ottenere una maggiore inibizione piastrinica nei pazienti diabetici. Le opzioni per raggiungere tale obiettivo sono tuttavia limitate. L’utilizzo di inibitori del GP IIb/IIIA è limitato alla fase acuta della terapia. Si è riscontrato che questi farmaci sono particolarmente benefici in pazienti ACS sottoposti a PCI, in particolare pazienti diabetici (27). Tuttavia, con l’attua-
le utilizzo di alti dosaggi di clopidogrel, gli inibitori del GP IIb/IIIA non sono riusciti ad evidenziare alcun beneficio clinico in condizioni di non-ACS, pazienti diabetici compresi (28). Recentemente si è ipotizzato che gli inibitori del del GP IIb/IIIA possono tuttavia essere benefici in condizioni di non-ACS in pazienti sottoposti a PCI non urgente con resistenza all’aspirina o al clopidogrel. Ma un’analisi di sottogruppo dello studio Tailoring Treatment with Tirofiban in Patients Showing Resistance to Aspirin and/or Resistance to Clopidogrel (3T/2R) non ha riscontrato differenze significative associate a questa strategia tra i soggetti diabetici (54). Un altro approccio per migliorare l’inibizione piastrinica nei pazienti diabetici e l’uso aggiuntivo di cilostazol, un inibitore della fosfodiesterasi III (Fig. 1). Parecchi studi hanno dimostrato i benefici apportati da una terapia antipiastrinica tripla con aspirina, clopidogrel e cilostazol, particolarmente nei soggetti diabetici trattati con stent di metallo non medicati (cosiddetti stent bare metal) e con stent medicati (55-56). Si può attribuire quanto riscontrato a un maggior livello di inibizione piastrinica ottenuto col trattamento aggiuntivo con cilostazol in pazienti diabetici, come evidenziato dallo studio OPTIMUS-2 (57). Questo studio ha dimostrato che il cilostazol, che aumenta i livelli cAMP intrapiastrinici, aumenta la fosforilazione delle fosfoproteine stimolate da vasodilatatori (VASP), aumentando così gli effetti inibitori del P2Y12 (57). Il maggiore svantaggio della terapia con cilostazol resta comunque l’alta prevalenza di effetti indesiderati (ad es. emicrania, palpitazioni e disturbi gastrointestinali), che inducono frequentemente a interrompere la somministrazione del farmaco (57). Utilizzo di nuovi agenti. L’elaborazione di nuovi agenti antipiastrinici in grado di inibire efficacemente e senza pericoli l’attivazione piastrinica e i processi di aggregazione sembra rappresentare la strategia più promettente, se si guarda a un futuro ipotetico in cui vi potranno essere terapie antipiastriniche personalizzate. Ciò potrebbe implicare l’utilizzo di farmaci aventi come target determinate disfunzioni in una particolare popolazione di pazienti, come i pazienti col diabete. Uno di questi farmaci, la picotamide, è stato proposto come trattamento alternativo all’aspirina (58). La picotamide inibisce infatti sia la sintesi del tromboxano A2 che i recettori del tromboxano A2 ed è pertanto in grado di bloccare l’effetto del tromboxano A2 che è generato dai meccanismi di fuga
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del COX-1, il che nei pazienti diabetici può indurre ad un’efficacia inadeguata dell’aspirina (Fig. 1). Nello studio Drug Evaluation in Atherosclerotic Vascular Disease in Diabetics (DAVID), un totale di 1209 adulti di età tra i 40 ed i 75 anni di età con diabete di tipo 2 e PAD sono stati randomizzati per ricevere picotamide (600 mg b.i.d.) o aspirina (320 mg o.d.) per un periodo di 24 mesi (58). L’incidenza cumulativa della mortalità complessiva a 2 anni era significativamente più bassa tra i pazienti trattati con picotamide (3.0%) rispetto a quelli che assumevano aspirina (5.5%), con una risk ratio relativa per picotamide vs. aspirina di 0.55 (95% CI 0.31–0.98). Tuttavia, sebbene l’end point combinato di mortalità e morbidità aveva un’incidenza lievemente più bassa nel gruppo trattato con picotamide, tale differenza non raggiungeva significatività statistica. Altri inibitori del tromboxano, come ramatroban, ridogrel e S18886 sono attualmente sotto osservazione clinica e potrebbero rappresentare future alternative terapeutiche (59) (Fig. 1). Vi sono parecchi antagonisti del recettore P2Y12 da tempo in osservazione (60). Tra questi prasugrel, ticagrelor (AZD6140), cangrelor ed elinogrel (PRT128) (Fig. 1). Prasugrel e ticagrelor vengono somministrati oralmente, il cangrelor è per uso endovenoso e l’elinogrel può essere somministrato in entrambi i modi. Il prasugrel è un agente irreversibile, mentre ticagrelor, cangrelor ed elinogrel sono reversibili. Tutti questi agenti hanno potenza aumentata e sono associati ad una minore variabilità di risposta rispetto al clopidogrel (60). I profili farmacodinamici e farmacocinetici di questi farmaci e i dati preclinici e iniziali clinici esulano dall’obiettivo di questo studio e sono descritti in dettaglio in altra sede (60). Vi sono dati incoraggianti riguardo gli esiti clinici ottenuti da test sul prasugrel effettuati su larga scala, in fase III (61). Il prasugrel è una tienopiridina di terza generazione che, come il clopidogrel, blocca selettivamente e irreversibilmente il recettore ADP P2Y12 (62). Il prasugrel sembra tuttavia avere un profilo farmacocinetico maggiormente favorevole poiché, rispetto al clopidogrel, si trasforma più facilmente nel proprio metabolita attivo, portando a livelli di inibizione piastrinica più pronti, potenti e prevedibili, come evidenziato da numerosi studi farmacodinamici, anche quando confrontato con l’inibizione piastrinica associata a dosaggi di clopidogrel alti o di mantenimento (62). Le implicazioni cliniche di tali proprietà farmacologiche più favorevoli sono state valutate nel
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strinico, e la generazione di trombina è pronunciata nei pazienti diabetici. Antagonisti del recettore per la trombina bloccano il sottotipo del recettore attivato dalle proteasi (PAR)-1 (E5555, SCH 530348) sono attualmente in fase di studio (64) (Fig. 1). È importante sottolineare che i processi trombotici sono il risultato di fattori non solo piastrinici ma anche plasmatici. Comprendere, dunque, come queste componenti plasmatiche contribuiscano ad esiti avversi in pazienti ad alto rischio, diabetici compresi, è della massima importanza per l’elaborazione di strategie terapeutiche personalizzate (65). Farmaci che hanno come target specifico varie componenti plasmatiche coinvolte nei processi trombotici saranno utili nel futuro.
Conclusioni Figura 4 – Frequenza di eventi avversi cardiaci maggiori (MACE) che rappresentano l’end point primario (decesso cardiovascolare, infarto del miocardio non fatale o stroke non fatale) nel trial TRITON di confronto tra prasugrel e clopidogrel nella popolazione complessiva dello studio, secondo la presenza o assenza di diabete (DM) e utilizzo della terapia con insulina tra i pazienti diabetici.
Trial to Assess Improvement in Therapeutic Outcomes by Optimizing Platelet Inhibition with Prasugrel–Thrombolysis in Myocardial Infarction 38 (TRITON-TIMI 38) confrontando prasugrel e clopidogrel in pazienti (n = 13,608) con ACS da moderato ad alto rischio sottoposti a PCI (62). Dopo una durata media di 14.5 mesi, l’end point primario (composto da decesso cardiovascolare, infarto del miocardio non fatale o stroke non fatale) si aveva nel 12.1 vs. 9.9% dei pazienti trattati rispettivamente con clopidogrel e con prasugrel (hazard ratio [HR] 0.81; P < 0.001). Si osservava tuttavia un aumentato rischio di emorragia importante nel 2.4% dei pazienti che assumevano prasugrel rispetto all’1.8% dei pazienti trattati con clopidogrel (HR 1.32; P = 0.03). Nonostante l’aumentato rischio di emorragia, l’analisi del beneficio clinico netto prespecificata, definita come la combinazione degli end point di efficacia ed emorragia, era ancora a favore del prasugrel (rispettivamente 12.2 vs. 13.9% dei pazienti trattati con prasugrel e clopidogrel; HR 0.87; P = 0.004). È importante notare che i pazienti che traevano maggiore beneficio dalla terapia col prasugrel erano diabetici (63). Vi erano 3146 soggetti con una preesistente storia di diabete, dei quali 776 erano insulino-trattati. L’end point primario si riduceva significativamente con il prasugrel nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici (rispettivamente 12.2 vs. 17.0%,; HR 0.70; 66
P < 0.001). Si osservava un beneficio dato dal prasugrel nei soggetti diabetici trattati con insulina (14.3 vs. 22.2%; HR 0.63; P = 0.009) e in quelli non trattati con insulina (11.5 vs. 15.3%; HR 0.74; P = 0.009) (Fig. 4). Con il prasugrel l’infarto del miocardio si riduceva del 40% nei soggetti diabetici (8.2 vs. 13.2%; HR 0.60; P < 0.001). Simili eventi emorragici si osservavano nei soggetti diabetici trattati con clopidogrel o prasugrel (rispettivamente 2.6 vs. 2.5%; HR 1.06; P = 0.81). Il beneficio clinico netto dato dal prasugrel risultava maggiore nei soggetti diabetici (14.6 vs. 19.2%; HR 0.74; P < 0.001) rispetto ai non diabetici (11.5 vs. 12.3%; HR 0.92; P = 0.16). Il trial OPTIMUS-3 sta attualmente valutando le differenze farmacodinamiche tra prasugrel (dose da carico 60 mg, dose di mantenimento 10 mg) e clopidogrel (dose da carico 600 mg e dose di mantenimento 150 mg), in particolare in pazienti con diabete di tipo 2 (trial clinico reg. no. NCT00642174). Questo studio chiarirà i meccanismi dei benefici clinici ottenuti con il clopidogrel osservati nello studio TRITON-TIMI 38, particolarmente nei pazienti diabetici. In ultimo, agenti antipiastrinici che inibiscono target diversi dalla COX-1 e dal P2Y 12 sono attualmente a livello avanzato di studio. Essi sono intesi a superare i vari stimoli che portano a un’aumentata reattività piastrinica, che caratterizza i pazienti diabetici. La trombina rappresenta il più potente stimolo pia-
I pazienti diabetici hanno un aumentato rischio di eventi trombotici in parte attribuibile alla disfunzione piastrinica che caratterizza questa popolazione. In particolare, i pazienti diabetici hanno un’aumentata reattività piastrinica, che richiede l’uso di strategie di inibizione piastrinica per potere ridurre il suddetto rischio ischemico. Sebbene le strategie di trattamento attualmente approvate si siano dimostrate utili per migliorare gli esiti, nei pazienti diabetici permane un più alto rischio di eventi cardiovascolari avversi rispetto ai pazienti non diabetici. Si è ipotizzato che una ridotta responsività ai farmaci antipiastrinici, considerata anche la resistenza ad agenti antipiastrinici orali attualmente utilizzati, giochi un ruolo in questi esiti peggiori. Quanto riscontrato enfatizza il bisogno di terapie antipiastriniche personalizzate per i pazienti diabetici. Nuovi e più potenti agenti antipiastrinici attualmente in fase di studio potranno servire a raggiungere gli obiettivi terapeutici. Bibliografia
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Inibizione del cotrasporto sodio-glucosio con dapagliflozin nel diabete di tipo 2 JAMES F LIST, MD, PHD1 VINCENT WOO, MD2 ENRIQUE MORALES, MD3
WEIHUA TANG, PHD4 FRED T. FIEDOREK, MD1
OBIETTIVO – Il dapagliflozin, un nuovo inibitore del co-trasportatore 2 sodioglucosio renale, consente un approccio insulino-indipendente per migliorare l’iperglicemia nel diabete di tipo 2. In questo studio si sono valutate sicurezza ed efficacia del dapagliflozin in pazienti diabetici di tipo 2. DISEGNO DELLA RICERCA E METODI – I pazienti diabetici di tipo 2 sono stati assegnati a random ad una delle cinque dosi di dapagliflozin, metformina XR o placebo per 12 settimane. L’obiettivo primario era quello di confrontare la variazione media dal basale dell’HbA1c. Tra gli altri obiettivi, il confronto delle variazioni della glicemia plasmatica a digiuno (FPG), il peso, gli eventi avversi e le misurazioni di laboratorio. RISULTATI – Dopo 12 settimane, il dapagliflozin ha indotto una moderata glicosuria (52-85 g di glucosio urinario/die) e ha dimostrato miglioramenti in termini di compenso glicemico significativi rispetto al placebo (HbA1c -0.55 a -0.90% e FPG 16 a -31 mg/dl). Rispetto al placebo la perdita di peso è stata da 1.3 a 2.0 kg. Non si sono riscontrate variazioni nella funzione renale. I livelli sierici di acido urico sono diminuiti, è aumentato il magnesio sierico, il fosfato sierico è aumentato alle dosi più elevate, e volume delle urine delle 24-h urine ed ematocrito sono aumentati in modo correlato alla dose, anche se in lieve entità. Gli eventi avversi conseguenti al trattamento risultavano analoghi in tutti i gruppi.
CONCLUSIONI – Il dapagliflozin ha ridotto l’iperglicemia e facilitato la perdita di peso in pazienti diabetici di tipo 2 inducendo una glicosuria controllata con perdita urinaria di 200-300 kcal/die. Il trattamento con dapagliflozin non ha dimostrato variazioni persistenti e clinicamente significative di osmolarità, volume o funzione renale. Diabetes Care 32: 650-657, 2009 l diabete di tipo 2 è caratterizzato dall’iperglicemia, che può portare a complicanze micro- e macro vascolari tra cui retinopatia, nefropatia, neuropatia e malattia cardiovascolare accelerata (1-4). L’iperglicemia promuove la glucotossicità attraverso un’aumentata insulino resistenza ed interferenza con la funzione β-cellulare (5,6). Nonostante varie opzioni terapeutiche, molti pazienti mostrano un inadeguato controllo glicemico e rimangono a rischio di complicanze croniche (7). Il dapagliflozin è il primo di una nuova classe di inibitori selettivi orali del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) studiati per il trattamento del diabete di tipo 2 (8, 9). Il dapagliflozin migliora l’iperglicemia inibendo il riassorbimen-
I
to del glucosio renale attraverso l’SGLT2. L’SGLT2 è una proteina di cotrasporto sodio-glucosio situata nel tubulo prossimale del rene, che riassorbe gran parte del glucosio filtrato a livello glomerulare (10-13). Studiando la florizina, un inibitore Oglucosidico, non specifico del riassorbimento del glucosio da parte dei reni, ed osservando individui che presentavano mutazioni genetiche dell’SGLT2, si è potuto esaminare il valore potenziale di questo approccio terapeutico. Si è visto che la florizina riduce l’iperglicemia inibendo il riassorbimento del glucosio (14, 15); l’applicazione clinica era tuttavia limitata dalla degradazione da parte della glucosidasi e dalla mancata selettività verso SGLT2. Il dapagliflozin è altamente selettivo dell’-
1Global
Clinical Research, Bristol-Myers Squibb, Princeton, New Jersey; 2Department of Internal Medicine, University of Manitoba, Winnipeg, Canada; 3Centro de Investigación Cardiometabólica, Aguascalientes, Mexico; 4Global Biometric Sciences, Bristol-Myers Squibb, Princeton, New Jersey. Corresponding author: James F. List,
[email protected].
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SGLT2 e contiene un C-glucoside con un’aumentata stabilità in vivo, caratteristiche che prolungano l’emivita e producono una consistente attività farmacodinamica (9). Il dapagliflozin induce glucosuria stabile in soggetti sani e pazienti diabetici di tipo 2, con un’escrezione giornaliera di ~70 g di glucosio (16). I soggetti con glicosuria renale familiare, una condizione causata da mutazioni genetiche dell’SGLT2, sono stati catalogati come aventi fenotipi prevalentemente benigni con normali aspettative di vita e senza deterioramento renale a lungo termine o altre conseguenze note per lo stato di salute (17,18). Lo studio del range di dosaggio di questa monoterapia descrive efficacia, sicurezza e dati di laboratorio con il trattamento con dapagliflozin per un periodo di 12 settimane. I risultati sono a sostegno dell’applicazione dell’inibizione dell’SGLT2 come nuovo approccio insulino-indipendente per migliorare l’iperglicemia e il peso corporeo nei pazienti diabetici di tipo 2.
DISEGNO DELLA RICERCA E METODI Dal dicembre 2005 al settembre 2006, pazienti diabetici di tipo 2 mai trattati, di età tra i 18 e i 79 anni, con HbA1c ≥ 7% e ≤ 10%, venivano inseriti nello studio presso 98 centri clinici negli USA, 24 in Canada, 8 in Messico e 3 a Portorico. Tra i criteri di inclusione vi erano C-peptide a digiuno > 1.0 ng/ml, BMI ≤ 40 kg/m2 e le seguenti condizioni renali: velocità di filtrazione glomerulare > 60 ml/min per 1.73 m2, creatinina serica < 1.5 mg/dl (uomini)/< 1.4 mg/dl (donne) e rapporto microalbumina/creatinina urinaria ≤ 300 mg/g. Questo era uno studio prospettico, controllato, della durata di 12 settimane, randomizzato, a gruppi paralleli, in doppio cieco, controllato con placebo, con una fase di lead-in di 2 settimane con dieta/esercizio e un periodo di follow-up di 4 settimane (Fig. 1). I pazienti venivano assegnati a random in parti uguali a una somministrazione giornaliera di dapagliflozin (2.5, 5, 10, 20 o 50 mg), metformina XR (750 mg, titolata forzatamente a 1500 mg la 2ª settimana) (benchmark terapeutico) o placebo. Durante tutte le visite dello studio venivano valutate sicurezza ed efficacia. I pazienti con glicemia plasmatica a digiuno (FPG) > 240 mg/dl a 4 e 6 settimane, > 220 mg/dl a 8 settimane o > 200 mg/dl a 10 settimane venivano esclusi dallo studio e ritenuti eleggibili per la somministrazione di ulteriori agenti antidiabetici. Lo studio veniva con69
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440 pazienti T2DM mai trattati partecipanti allo studio e inseriti nella fase lead-in
51 24 16 4 3 2 1 1
389 erano randomizzati
54 Assegnati al placebo
59 Assegnati a 2.5 mg di dapagliflozin
4 Ritiravano il consenso 3 Mancata efficacia 1 Evento avverso 1 Perduto al follow-up 1 Criteri non soddisfatti
44 completavano
58 Assegnati a 5 mg di dapagliflozin
1 Ritirava il consenso 1 Evento avverso 3 Perduti al follow-up 1 Criteri non soddisfatti
53 completavano
47 Assegnati a 10 mg di dapagliflozin
1 Mancata efficacia 2 Perduti al follow-up
55 completavano
59 Assegnati a 20 mg di dapagliflozin
3 Ritiravano il consenso 3 Eventi avversi 1 Perduto al follow-up
40 completavano
56 Assegnati a 50 mg di dapagliflozin
1 Ritirava il consenso 2 Eventi avversi 1 Perduto al follow-up
55 completavano
Non erano randomizzati Criteri non soddisfatti Ritiravano il proprio consenso Noncompliance Perduti al follow-up Eventi avversi Non trattati Altro
56 Assegnati a metformina XR 750/1500 mg
2 Ritiravano il consenso 2 Eventi avversi 1 Perduto al follow-up 1 Noncompliance
50 completavano
1 Ritirava il consenso 1 Evento avverso 2 Perduti al follow-up 1 Criteri non soddisfatti
51 completavano
Fase di follow-up di 4 settimane
Figura 1 – Disposizione dei pazienti e disegno dello studio. T2DM, diabete di tipo 2. dotto conformemente alla Dichiarazione di Helsinki ed era approvato da commissioni istituzionali o comitati etici indipendenti dei paesi che aderivano al progetto. I pazienti davano il proprio consenso informato scritto prima dell’ingresso nello studio. L’obiettivo primario era quello di confrontare le variazioni dei livelli medi di HbA1c dal controllo basale per ciascun gruppo trattato con dapagliflozin rispetto al placebo dopo 12 settimane. Tra gli obiettivi secondari vi erano il confronto tra dapagliflozin e placebo per variazioni nella FPG dal controllo basale, trend della risposta glicemica a basso dosaggio, numero di pazienti che raggiungevano livelli di HbA1c < 7% e variazioni nel rapporto urinario glucosio-creatinina nelle 24 h. Misurazioni Le visite dello studio erano effettuate durante lo screening; ai giorni –14 e 1; alle settimane 1, 2, 4, 6, 8, 10 e 12; e alle settimane di follow-up 14 e 16. I campioni di urina e i prelievi di sangue venivano raccolti dopo un digiuno della durata minima di 10 ore. Durante il test di tolleranza orale al glucosio si effettuavano prelievi di sangue a 0, 30, 60, 120 e 180 min dopo un carico orale di glucosio (75 g). I campioni venivano analizzati presso un centro (Quintiles 70
Laboratories, Smyrna, GA). L’area della glicemia sotto la curva (AUC) era calcolata mediante metodologia trapezoidale. Ad ogni visita si effettuava un breve esame fisico e una valutazione dei segni vitali e degli eventi indesiderati. Esame fisico completo ed elettrocardiogramma venivano eseguiti al lead-in e alla 12a settimana. Gli eventi avversi erano catalogati mediante termini prestabiliti (Medical Dictionary for Regulatory Activities [MedDRA], versione 10). Gli argomenti di particolare interesse riguardanti la sicurezza erano catalogati sotto “categorie di interesse”. Analisi statistiche Cinquanta pazienti per ogni gruppo di trattamento davano una potenza dell’82% per rilevare una differenza media dello 0.7% nell’HbA1c tra i gruppi trattati con dapagliflozin e con placebo, presumendo una SD dell’1%. I confronti tra dapagliflozin e placebo venivano eseguiti a livello 0.012 utilizzando l’aggiustamento di Dunnett in modo che complessivamente l’errore di tipo 1 fosse controllato ad una significatività di 0.05. Le analisi statistiche erano effettuate su tutti i pazienti assegnati e trattati a random. I valori mancanti venivano attribuiti mediante ultima valutazione portata a termine (LOCF). Alla 12ª setti-
mana le analisi di efficacia primarie e secondarie per HbA1c, FPG e rapporto urinario glucosio-creatinina nelle 24h venivano effettuate mediante ANCOVA col gruppo di trattamento come effetto e il valore basale come covariata. Si effettuavano test per il trend lineare per valutare il rapporto dosaggio-risposta tra i gruppi trattati con dapagliflozin per le variazioni nella HbA1c dal controllo basale alla 12ª settimana. Veniva utilizzato il test esatto di Fisher per verificare quale rapporto vi fosse tra i gruppi trattati con dapagliflozin e con placebo per quanto riguarda i pazienti che raggiungevano livelli di HbA1c <7.0%.
RISULTATI Un numero complessivo di 389 pazienti veniva randomizzato per ricevere dapagliflozin, metformina o placebo (Fig. 1); 348 di questi giungevano al termine della 12ª settimana e 41 interrompevano lo studio. La causa più frequente di interruzione era il ritiro del consenso (per 12 pazienti). Gli aspetti demografici basali e riguardanti la malattia erano analoghi tra tutti gruppi (Tabella 1). Nel periodo dal controllo basale alla 12ª settimana, tutti i gruppi trattati con da-
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27 (48) 29 (52) 7.6 ± 0.8 143 ± 33 42,109 ± 8,554 8 ± 20 6 ± 16 1.9 ± 1.0 88 ± 20 32 ± 5 126 ± 13 78 ± 8 68 ± 10 0.82 ± 0.17 14.4 ± 3.3 137.8 ± 2.2 4.2 ± 0.5 9.2 ± 0.4 1.7 ± 0.2 3.7 ± 0.6 5.0 ± 1.3 30 (56) 24 (44) 7.9 ± 0.9 150 ± 46 43,867 ± 12,832 7 ± 21 6.9 ± 26 2.0 ± 1.0 89 ± 18 32 ± 5 126 ± 16 77 ± 8 72 ± 11 0.85 ± 0.19 14.5 ± 3.2 137.7 ± 2.7 4.1 ± 0.4 9.3 ± 0.4 1.7 ± 0.2 3.7 ± 0.5 5.5 ± 1.4 25 (45) 31 (55) 7.8 ± 1.0 153 ± 42 44,822 ± 10,244 8 ± 25 7.6 ± 23 1.8 ± 0.8 92 ± 19 32 ± 4 126 ± 16 77 ± 9 70 ± 10 0.84 ± 0.2 14.6 ± 4.6 138.0 ± 2.6 4.1 ± 0.5 9.2 ± 0.5 1.6 ± 0.2 3.7 ± 0.6 5.6 ± 1.4
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I dati sono medie ± SD.
25 (53) 22 (47) 8.0 ± 0.8 148 ± 38 44,283 ± 12,071 11 ± 31 6.1 ± 14 1.9 ± 0.9 86 ± 17 31 ± 5 127 ± 16 77 ± 8 69 ± 8 0.85 ± 0.17 14.3 ± 3.6 137.6 ± 1.9 4.1 ± 0.3 9.3 ± 0.4 1.7 ± 0.2 3.6 ± 0.6 5.5 ± 1.2 28 (48) 30 (52) 8.0 ± 0.9 153 ± 48 44,416 ± 9,885 6 ± 14 6.3 ± 20 1.9 ± 0.8 89 ± 17 32 ± 5 126 ± 13 76 ± 8 70 ± 10 0.83 ± 0.19 14.6 ± 4.1 137.7 ± 2.8 4.1 ± 0.4 9.2 ± 0.4 1.7 ± 0.2 3.7 ± 0.6 5.2 ± 1.3
32 (54) 27 (46) 7.7 ± 0.9 149 ± 41 42,625 ± 7,426 10 ± 35 6.7 ± 24 1.8 ± 0.8 88 ± 18 31 ± 5 127 ± 15 77 ± 8 68 ± 10 0.88 ± 0.19 15.6 ± 4.2 137.8 ± 2.5 4.2 ± 0.3 9.3 ± 0.4 1.7 ± 0.1 3.8 ± 0.4 5.3 ± 1.3
54 ± 9 53 ± 11 53 ± 10 55 ± 10 54 ± 9 55 ± 12
Età (anni) 55 ± 11 Sesso Maschi (%) 29 (49) Femmine (%) 30 (51) HbA1c (%) 7.6 ± 0.7 FPG (mg/dl) 145 ± 34 PPG (mg · min/dl) 42,225 ± 9,733 Glucosio urinario nelle 24h (g/24 h) 6 ± 16 Glucosio/creatinina urinaria nelle 24h (g/g) 4.8 ± 12 Volume urina 24h (litri) 2.2 ± 0.9 Peso (kg) 90 ± 20 BMI (kg/m2) 32 ± 5 sBP (mmHg) 127 ± 14 dBP (mmHg) 78 ± 8 Frequenza cardiaca (battiti/min) 71 ± 10 Creatinina (mg/dl) 0.85 ± 0.15 BUN (mg/dl) 15.3 ± 4.2 Sodio (mEq/l) 137.6 ± 2.5 Potassio (mEq/l) 4.2 ± 0.4 Calcio (mg/dl) 9.3 ± 0.4 Magnesio (mEq/l) 1.7 ± 0.1 Fosfato (mg/dl) 3.8 ± 0.6 Acido urico (mg/dl) 5.5 ± 1.2
Dosaggio di dapagliflozin –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 2.5 mg 5 mg 10 mg 20 mg 50 mg Placebo
Tabella 1 – Caratteristiche basali dei pazienti
Metformina
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pagliflozin ottenevano riduzioni significative dei livelli medi di HbA1c rispetto al gruppo trattato con placebo (Fig. 2A e Tabella 2). La riduzione delle medie aggiustate andava dallo 0.55 allo 0.90% (dapagliflozin), 0.18% (placebo), e 0.73% (metformina). Non si dimostrava nessun rapporto log-lineare dose-risposta (Ptrend = 0.41). Riduzioni della FPG erano evidenti nella prima settimana in tutti gruppi trattati con dapagliflozin. Alla 12ª settimana le riduzioni medie aggiustate della FPG andavano da 16 a 31 mg/dl (dapagliflozin), 6 mg/dl (placebo) e 18 mg/dl (metformina), con diminuzioni della FPG legate ai dosaggi e riduzioni statisticamente significative nei gruppi trattati con dosaggi di dapagliflozin da 5 a 50 mg rispetto ai gruppi trattati con placebo (Fig. 2B). Le medie aggiustate delle riduzioni della glicemia plasmatica postprandiale (PPG) nell’area sotto la curva (AUC) dal controllo basale andavano da –7053 a –10149 mg · min-1 · dl-1 (dapagliflozin), –3182 mg · min-1· dl-1 (placebo) e –5891 mg · min-1 · dl-1 (metformina) (Fig. 2C e Tabella 2). Le percentuali dei pazienti che raggiungevano livelli di HbA1c <7% alla 12ª settimana andavano dal 40 al 59% (dapagliflozin), 32% (placebo) e 54% (metformina). Il confronto rispetto al placebo era statisticamente significativo soltanto per il gruppo che riceveva un dosaggio di 50 mg (P < 0.01). L’escrezione urinaria di glucosio aumentava in tutti gruppi trattati con dapagliflozin. Le variazioni medie aggiustate nel rapporto glucosio-creatinina nell’urina delle 24h alla 12ª settimana erano 32-65 g/g vs. –0.2 g/g per il placebo (P < 0.001 per ciascun gruppo trattato con dapagliflozin) (Fig. 2D e Tabella 2). La media del glucosio urinario escreto nelle 24h alla 12ª settimana andava da 52 a 85 g col dapagliflozin (Tabella 2). Vi erano riduzioni del peso corporeo totale in tutti i gruppi (Fig. 3A). Le riduzioni medie in percentuale alla 12ª settimana andavano dal –2.5 al –3.4% (dapagliflozin), –1.2% (placebo) e –1.7% (metformina) (Fig. 3B e Tabella 2). Un maggior numero di pazienti raggiungeva riduzioni > 5% col dapagliflozin (range 15.3-29.1%) rispetto al placebo (7.7%); il rapporto con la metformina era del 16.1%. Le variazioni medie in percentuale per la circonferenza vita andavano dall’–1.6 al –3.5% (dapagliflozin), –1.2% (placebo) e –2.2% (metformina). Gli eventi indesiderati erano generalmente riportati con frequenze simili tra tutti i gruppi (Tabella 2). Non si verificavano decessi o eventi avversi gravi correlati ai farmaci. Eventi ipoglicemici venivano riferiti dal 6–10% dei pazienti trattati con dapagliflozin senza correlazione col dosaggio, dal 4% dei pazienti trattati con placebo e nel 9% dei pazienti trattati con 71
Rapporto urinario glucosio/creatinina
AUC della glicemia post prandiale
Glicemia plasmatica a digiugno (mg/dl)
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Figura 2 – Variazione dei parametri glicemici. A: Variazione media aggiustata dal controllo basale della HbA1c alla 12ª settimana (LOCF). B: Variazione media della FPG nel tempo (valori osservati). C: Variazione media aggiustata dal controllo basale dell’area sotto la curva glicemica (AUC) postprandiale durante un test di tolleranza a carico orale di 75 g di glucosio effettuato alla 12ª settimana (LOCF). D: Variazioni dal controllo basale del glucosio urinario delle 24h (grammi) normalizzato per creatinina urinaria (grammi) alla 12ª settimana (LOCF). Medie e 95% CIs sono evidenziati (A, B, and D). Quando si otteneva la significatività statistica con i gruppi trattati con dapagliflozin rispetto al placebo, si utilizzava l’aggiustamento di molteplicità di Dunnett. Valori di P rispetto al placebo alla 12ª settimana.
metformina (Tabella 2). Non vi erano eventi ipoglicemici sintomatici con livelli glicemici ≤ 50 mg/dl risultanti dall’autocontrollo glicemico. Gli eventi indesiderati rilevanti venivano raggruppati sotto speciali categorie di interesse. Gli eventi relativi a ciascuna categoria erano abbinati (ad es., i termini preferiti “infezione del tratto urinario” e “cistite” venivano entrambi catalogati come “infezioni del tratto urinario”) (Tabella 2). Si osservavano infezioni del tratto urinario nel 5-12% dei pazienti trattati con dapagliflozin senza alcuna chiara relazione col dosaggio rispetto al 6% dei pazienti trattati con placebo ed il 9% dei pazienti trattati con dapagliflozin, nello 0% dei pazienti trattati con placebo e nel 2% dei pazienti trattati con metformina. Si riscontravano eventi ipotensivi nello 0-2% dei pazienti trattati con dapagliflozin rispetto al 2% dei pazienti trattati con placebo ed il 4% dei pazienti trattati con metformina. Una diminuita pressione arteriosa si riscontrava in tutti gruppi trattati con dapagliflozin (Tabella 2). Le variazioni medie dal controllo basale della pressione 72
arteriosa sistolica in posizione supina (sBP) alla 12ª settimana andavano da 2.6 a 6.4 mmHg senza alcuna chiara relazione col dosaggio. Variazioni simili si riscontravano per la sBP misurata in posizione eretta. Le variazioni della pressione arteriosa diastolica (dBP) e della frequenza cardiaca erano lievi e trascurabili tra i gruppi trattati con dapagliflozin. L’effetto diuretico del dapagliflozin veniva valutato in base a volume dell’urina delle 24h, ematocrito, azoto ureico serico (BUN) e creatinina (Tabella 2). Alla 12ª settimana si osservavano lievi aumenti del volume dell’urina delle 24h correlati ai dosaggi (range 107-470 ml al di sopra del basale di 1.8-2.2 l). Anche gli aumenti dell’ematocrito erano correlati ai dosaggi (range 1.5-2.9%). Vi erano lievi variazioni dal basale del BUN serico e non vi erano variazioni della creatinina serica alla 12ª settimana tra i dosaggi di dapagliflozin. Gli incrementi percentuali medi alla 12ª settimana del rapporto BUN-creatinina andavano dal 10.4 al 18.3% senza apparente correlazione col dosaggio. Variazioni nel volume dell’urina, ematocrito e rapporto BUN-
creatinina ritornavano ai valori basali durante il follow-up. Non risultavano esservi variazioni clinicamente significative nei livelli stimati di filtrato glomerulare (Modification of Diet in Renal Disease formula) (19) in nessuno dei gruppi. Per tutti gruppi si osservava una lieve diminuzione della clearance della creatinina nelle 24h. Si riscontrava un lieve aumento di ~0.1 mEq/l al di sopra della media basale (1.7 mEq/l) nel magnesio sierico ed una maggiore riduzione relativa di ~1.0 mg/dl al di sotto della media basale (5.5 mg/dl) nell’acido urico sierico, con ritorno ai valori basali dopo avere interrotto la somministrazione del dapagliflozin. Il fosfato sierico aumentava correlativamente al dosaggio per dosi di ≥ 5 mg (range da 0.01 a +0.24 mg/dl dal valore basale di 3.6-3.8 mg/dl), sebbene tali variazioni non differissero statisticamente dal placebo (0.08 mg/dl) (Tabella 2). Non vi erano variazioni medie clinicamente rilevanti rispetto al controllo basale in sodio sierico, potassio e calcio (Tabella 2). Per quanto concerne il metabolismo osseo, i valori sierici di 1,25-diidrossivita-
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Parametri di efficacia HbA1c (%)*† –0.71 ± 0.09 –0.72 ± 0.09 Valore di P vs. placebo <0.001‡ <0.001‡ FPG (mg/dl)*† –16 ± 3 –19 ± 3 Valore di P vs. placebo 0.03 0.005‡ _1 _1*† PPG AUC (mg · min · dl –9,382 –8,478 95% CI –11,420 to –7,344 –10,200 to –6,756 Proporzione con HbA1c <7.0%§ 26 (46) 23 (40) Valore di P vs. placebo 0.17 0.43 Glucosio/creatinina urinaria delle 24h (g/g)*† 32 ± 3 49 ± 3 Valore di P vs. placebo <0.001‡ <0.001‡ Diminuzione peso corporeo (%)* –2.7 –2.5 95% CI –3.4 to –1.9 –3.3 to –1.8 Glucosio urinario totale delle 24h (g/24 h)§ 52 ± 39 64 ± 34 Eventi avversi (periodo doppio cieco) Totale dei soggetti con eventi avversi 35 (59) 35 (60) Eventi avversi gravi 1 (2) 0 Interruzione per eventi avversi 1 (2) 0 Eventi avversi più comuni (≥10% in ciascun gruppo) secondo la terminologia pèreferita del MedDRA Infezioni del tratto urinario 3 (5) 5 (9) Nausea 3 (5) 4 (7) Emicrania 4 (7) 3 (5) Diarrea 1 (2) 1 (2) Eventi di particolare interesse Eventi ipoglicemici 4 (7) 6 (10) Infezioni del tratto urinario_ 3 (5) 5 (9) Infezioni genitali¶ 2 (3) 1 (2) Infezioni del tratto urinario o dei genitali 4 (6.8) 6 (10.3) Eventi ipotensivi# 0 (0) 0 (0) Segni vitali** sBP (mmHg) –3.1 ± 10.7 –2.9 ± 12.7 Valore di P vs. placebo 0.02 0.04 dBP (mmHg) 0.8 ± 6.4 –0.3 ± 7.0 Valore di P vs. placebo 0.67 0.66 Frequenza cardiaca (battiti/min) –1.4 ± 8.0 –1.0 ± 8.9 Valore di P vs. placebo 0.58 0.45 Urina escreta (ml/24h)** 106.6 ± 606.9 340.0 ± 551.3
DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 36 - SETTEMBRE 2009 40 (68) 1 (2) 2 (3)
4 (7) 2 (3) 3 (5) 4 (7) 4 (7) 7 (12) 4 (7) 10 (16.9) 0 (0) –4.3 ± 12.3 0.008 –0.5 ± 7.1 0.56 1.9 ± 11.2 0.04 374.9 ± 723.1
32 (68) 1 (2) 3 (6)
5 (11) 3 (6) 2 (4) 1 (2) 3 (6) 5 (11) 1 (2) 5 (10.6) 0 (0) –6.4 ± 11.4 0.001 –2.6 ± 7.7 0.07 –0.03 ± 8.9 0.21 374.5 ± 741.6
–0.85 ± 0.11 –0.55 ± 0.09 <0.001‡ 0.007‡ –21 ± 4 –24 ± 3 0.002‡ <0.001‡ –10,149 –7,053 –12,215 to –8,082 –8,913 to –5,194 23 (52) 26 (46) 0.06 0.17 51 ± 3 65 ± 3 <0.001‡ <0.001‡ –2.7 –3.4 –3.5 to –1.8 –4.1 to –2.6 68 ± 38 85 ± 43
–2.6 ± 13.1 0.056 0.1 ± 8.0 0.89 0.1 ± 7.1 0.12 470.3 ± 797.5
4 (7) 5 (9) 4 (7) 9 (16.1) 1 (2)
4 (7) 3 (5) 1 (2) 1 (2)
35 (63) 1 (2) 2 (4)
–0.90 ± 0.10 <0.001‡ –31 ± 3 <0.001‡ –10,093 –12,024 to –8,162 31 (59) 0.01‡ 60 ± 3 <0.001‡ –3.4 –4.1 to –2.6 82 ± 38
–0.73 ± 0.10 –18 ± 3
–6 ± 3
Metformina
–0.18 ± 0.10
Placebo
–0.4 ± 12.4 –0.6 ± 8.0 1.1 ± 9.6 –95.8 ± 75.4
0.3 ± 5.7 –2.3 ± 7.8 –111.5 ± 655.4
5 (9) 5 (9) 1 (2) 6 (10.7) 2 (4)
4 (7) 6 (11) 2 (4) 7 (13)
2.4 ± 11.1
2 (4) 3 (6) 0 (0) 3 (5.6) 1 (2)
3 (6) 3 (6) 6 (11) 4 (7)
38 (68) 1 (2) 1 (2)
–1.7 –2.4 to –0.9 6 ± 21
–1.2 –2.0 to –0.4 6 ± 17 29 (54) 0 1 (2)
–1.4 ± 3
–0.2 ± 3
–3182 –5891 –5,086 to –1,277 –7,775 to –4,008 16 (32) 29 (54)
Dosaggio di dapagliflozin –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 2.5 mg 5 mg 10 mg 20 mg 50 mg
Tabella 2 – Parametri di efficacia, eventi indesiderati, segni vitali e parametri di laboratorio
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73
74 –0.01 ± 0.10 0.73 1.07 ± 3.96 0.004 0.28 ± 2.90 0.26 –0.04 ± 0.34 0.76 –0.11 ± 0.35 0.90 0.07 ± 0.14 0.30 –0.01 ± 0.50 0.35 –1.03 ± 0.81 <0.001 1.51 ± 2.12 0.001
–0.00 ± 0.10 0.98 0.71 ± 3.07 0.006 0.56 ± 2.62 0.50 0.02 ± 0.36 0.71 –0.04 ± 0.47 0.50 0.10 ± 0.13 0.04 0.07 ± 0.50 0.92 SD –1.12 ± 0.84 <0.001 2.03 ± 2.36 <0.001
–0.02 ± 0.08 0.34 2.03 ± 3.72 <0.001 –0.15 ± 2.06 0.05 0.00 ± 0.32 0.88 –0.12 ± 0.44 0.86 0.12 ± 0.19 0.03 0.12 ± 0.58 0.73 –0.98 ± 0.66 <0.001 1.95 ± 2.19 <0.001
–0.01 ± 0.09 0.90 0.87 ± 3.37 0.005 0.56 ± 2.28 0.46 –0.03 ± 0.29 0.84 –0.11 ± 0.37 0.95 0.14 ± 0.12 0.001 0.20 ± 0.43 0.17 –1.13 ± 0.78 <0.001 2.57 ± 2.44 <0.001
0.02 ± 0.11 0.22 1.32 ± 3.61 0.001 0.50 ± 3.51 0.51 0.00 ± 0.45 0.88 0.01 ± 0.48 0.25 0.18 ± 0.16 <0.001 0.24 ± 0.60 0.15 –1.14 ± 1.15 <0.001 2.86 ± 2.75 <0.001
Dosaggio di dapagliflozin –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 2.5 mg 5 mg 10 mg 20 mg 50 mg 0.09 <0.001 0.002 <0.001 <0.001
–0.09 ± 0.55 –0.03 ± 0.16 –0.08 ± 0.54 0.18 ± 0.53 –1.12 ± 2.62
–0.10 ± 0.48 0.04 ± 0.16 0.08 ± 0.47 –0.16 ± 0.75 –0.08 ± 2.16
–0.06 ± 2.35
0.93 ± 2.83
–0.04 ± 0.53
–0.18 ± 2.67
–0.96 ± 2.81
–0.01 ± 0.44
–0.02 ± 0.12
Metformina
–0.00 ± 0.10
Placebo
I dati sono medie ± SD o n (%). *Variazioni dal basale alla 12ª settimana, LOCF. I dati mancanti stimati mediante LOCF variavano dal 5.2 al 13.6% (HbA1c), dall’11.5 al 26.0% (FPG), dal 5.2 al 13.6% (rapporto con l’HbA1c <7.0%) e dal 2.0 all’8.2% (glucosio/creatinina urinaria a 24h). † HbA1c, FPG, PPG e glucosio/ creatinina urinaria a 24h rappresentano variazioni medie aggiustate. ‡Confronti tra gruppi significativi con α = 0.012, applicando l’aggiustamento di Dunnett. §Valore assoluto alla 12a settimana. Le “Infezioni del tratto urinario” comprendevano infezione del tratto urinario, cistite, infezione del tratto urinario da Escherichia, infezione micotica del tratto urinario e infezione micotica [nell’urina]”). Le “Infezioni dei genitali” erano infezione micotica vulvovaginale, infezione vaginale, herpes dei genitali, infezione micotica dei genitali, vaginosi batterica e vulvite. # Gli “Eventi ipotensivi” erano eventi di ipotensione, ipotensione ortostatica e sincope. **Variazioni dal basale alla 12ª settimana.
Valore di P vs. placebo Parametri di laboratorio** Creatinina (mg/dl) Valore di P vs. placebo BUN (mg/dl) Valore di P vs. placebo Sodio (mEq/l) Valore di_P vs. placebo Potassio (mEq/l) Valore di_P vs. placebo Calcio (mg/dl) Valore di_P vs. placebo Magnesio (mEq/l) Valore di–P vs. placebo Fosfato (mg/dl) Valore di–P vs. placebo Acido urico (mg/dl) Valore di–P vs. placebo Ematocrito (%) Valore di–P vs. placebo
Tabella 2 – Continua
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DIABETES CARE ED. ITALIANA - NUMERO 36 - SETTEMBRE 2009
Settimana
Peso corporeo (modifica percentuale)
Peso corporeo (modifica percentuale)
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Figura 3 – Variazioni percentuali del peso. A: Variazione percentuale del peso dal controllo basale per il periodo di trattamento della durata di 12 settimane e per il periodo di follow-up di quattro settimane (valori osservati). B: Medie aggiustate delle variazioni percentuali del peso dal controllo basale dopo un trattamento di 12 settimane (LOCF). Medie e 95% CIs sono riportate.. mina D and 25-idrossivitamina D rimanevano invariati dal basale. Le variazioni medie del rapporto calcio-creatinina nell’urina delle 24h risultavano simili a quelle riscontrate col placebo. Si sono osservati lievi aumenti delle concentrazioni medie dell’ormone paratiroideo (range 0.6-7.0 pg/ml al di sopra del basale di 31.1-35.0 pg/ml), generalmente superiori all’aumento di 0.8 pg/ml osservato per il placebo. Non si è osservato alcun chiaro effetto dato dal trattamento col dapagliflozin sui parametri lipidici a digiuno in questo studio della durata di 12 settimane.
CONCLUSIONI Il riassorbimento del glucosio da parte del rene è necessario da un punto di vista evolutivo per trattenere le calorie ma diventa dannoso nel diabete di tipo 2 perpetuando l’iperglicemia e le calorie in eccesso. Paradossalmente, la capacità del rene di riassorbire il glucosio può aumentare nel diabete di tipo 2 (20). Limitare, pertanto, il riassorbimento di glucosio mediante l’inibizione dell’SGLT2 rappresenta un
nuovo approccio per il trattamento dell’iperglicemia nei pazienti diabetici di tipo 2. Questo studio dimostra che indurre una glucosuria controllata mediante inibizione selettiva dell’SGLT2 migliora notevolmente l’iperglicemia in un periodo di trattamento di 12 settimane nei pazienti diabetici di tipo 2. Il dapagliflozin diminuisce i livelli medi di HbA1c, FPG e PPG dopo 12 settimane, con livelli diminuiti di FPG evidenti fin dalla prima settimana. Le variazioni nella FPG erano correlate alle dosi; vi era tuttavia scarsa evidenza di una risposta al dosaggio per PPG o HbA1c. Queste osservazioni apparentemente riflettono una proprietà intrinseca del dapagliflozin come inibitore dell’SGLT2. L’impatto dato dall’inibizione dell’SGLT2 risultava relativamente maggiore sulla PPG rispetto alla FPG, con l’escrezione di glucosio renale che fungeva da valvola di sfogo per attutire l’iperglicemia postprandiale. Perfino il più basso dosaggio di dapagliflozin (2.5 mg) produceva effetti quasi massimi sulla PPG, coerentemente con le riduzioni osservate in uno studio effettuato in una clinica (16). L’effetto sulla FPG,
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invece dipendeva dalla dose e corrispondeva all’attività farmacodinamica residua minima prevista (16). Il dapagliflozin aveva un effetto diuretico, con lievi aumenti dipendenti dai dosaggi del volume delle urine equivalenti a ~0.3–1.5 minzioni/die, lievi aumenti della BUN e lievi aumenti dell’ematocrito dipendenti dai dosaggi. Non si osservavano segni di disidratazione a livello di sicurezza. La diminuzione osservata della sBP era coerente con l’azione diuretica. La rilevanza di tale diuresi nei pazienti con diabete di tipo 2, che spesso richiedono diuretici per controllare l’ipertensione (21), necessita di ulteriori studi. Sebbene non si sia osservato alcun effetto sulla funzione renale, sono in corso studi più a lungo termine e valutazioni esplorative dei reni mediante biomarker. I pazienti trattati con dapagliflozin vedevano diminuire il proprio peso corporeo. In letteratura veterinaria si è visto che una somministrazione cronica di florizina in mucche in fase di allattamento induce lipolisi (22) e il dapagliflozin nei ratti obesi induce una ridotta adiposità (23). Durante il trattamento, tutti i dosaggi inducevano progressive riduzioni di peso, coerentemente con una costante diminuzione calorica mediante glucosuria. La perdita di peso era più pronunciata durante la 1ª settimana, particolarmente ai più alti dosaggi. Questo riscontro, considerando anche una rapida ripresa parziale del peso dopo aver interrotto la somministrazione di alti dosaggi del farmaco, induce a pensare che la diuresi possa contribuire a una certa perdita di peso. Nel complesso, sembra probabile che la forte riduzione del peso durante la 1ª settimana sia dovuta alla perdita di liquidi, cosa che può anche risultare in una più bassa sBP, mentre una perdita di peso graduale e continua indica una diminuzione della massa grassa. Studi più approfondititi effettuati anche sulla composizione corporea aiuteranno a stabilire il relativo contributo della diuresi riguardo alla diminuzione dell’adiposità nella diminuzione complessiva del peso corporeo. Il dapagliflozin somministrato quotidianamente era ben tollerato, senza differenze significative tra i gruppi riguardo agli eventi indesiderati. Gli episodi di ipoglicemia indicano la potenzialità del dapagliflozin di ottenere una significativa efficacia glicemica con rischi di ipoglicemia relativamente bassi. Il numero di infezioni del tratto urinario che si sono manifestate era simile tra i gruppi trattati con dapagliflozin, metformina e placebo, e coincide con le percentuali riportate per i pazienti con diabete di tipo 2 (24). L’incidenza delle infezioni genitali era più alta per il dapagliflozin rispetto al placebo, specialmente ai dosaggi più alti, ma senza significatività statistica per un effettivo confronto. È da 75
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notare la minore percentuale di infezioni genitali nei pazienti trattati con placebo rispetto a quanto precedentemente riportato nei pazienti diabetici di tipo 2 (25). Ad alti dosaggi il dapagliflozin aumentava i livelli di fosfato sierico, e tutti i gruppi di pazienti, compresi quelli trattati con placebo e metformina, mostravano aumentati livelli serici dell’ormone paratiroideo. Sono necessari ulteriori dati per comprendere gli effetti a lungo termine della glucosuria cronica e del trattamento con dapagliflozin sul metabolismo scheletrico. Questo studio ha dimostrato l’efficacia clinica dell’inibizione del riassorbimento di glucosio da parte dei reni col dapagliflozin nei pazienti con diabete di tipo 2 e una relativa sicurezza riguardo ai vari dosaggi. I risultati da noi osservati portano a concludere che il dapagliflozin, il primo di una nuova classe di inibitori dell’SGLT, può migliorare controllo glicemico e peso corporeo nei pazienti con diabete di tipo 2. Sebbene sia stata effettuata una valutazione della monoterapia, il meccanismo insulino-indipendente del dapagliflozin può essere complementare ad altri farmaci per il diabete di tipo 2 che agiscono mediante le vie del segnale insulinico, in terapia combinata. Nonostante i case report sulla genetica umana siano rassicuranti, gli effetti cronici della glicosuria farmacologicamente indotta sono sconosciuti e richiedono lunghi periodi di valutazione. Sulla base dell’attuale evidenza, per il dapagliflozin sono necessari ulteriori studi per elaborare un profilo benefici/rischi meglio definito. Bibliografia
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Diabetes Care edizione italiana DIRETTORE SCIENTIFICO ED EDITORIALE Prof. Domenico Cucinotta DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO DI MEDICINA INTERNA - UNIVERSITÀ DI MESSINA
DIRETTORE RESPONSABILE Riccardo Bonaventura Registrato Tribunale Milano 28.09.1999 n. 607
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With permission from Diabetes Care. Copyright © 2002 by American Diabetes Association, Inc. The American Diabetes Association takes no responsability for the accuracy of the translation from English. Tutti i diritti di traduzione, adattamento parziale o totale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e xerografiche) sono vietati.
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Traduzioni: Roberto Ricciardi In redazione: Barbara Labate e Luigi Fedele
In copertina : Barbara Labate, Stromboli.
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