Francesco Ranucci
RICORDO E MEMORIA DEGLI AMICI DEFUNTI
Domenico Cruciarli Sacerdote di Cristo Valentano: Collevalenza - Todi (PG):
1 marzo 1912 6 novembre 2001
Francesco Ranucci
RICORDO E MEMORIA DEGLI AMICI DEFUNTI
INDICE Dedica
pag.
5
Premessa
pag.
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Mons. Giuseppe Ricci
pag.
9
Titta Bartolaccini
pag. 13
Prof. Giuseppe Mariotti
pag.
Alvaro Canestri
pag. 19
Hans Schoen
pag. 23
Albertina Urbani - Lembo
pag. 29
Maresciallo Peppino Lembo
pag. 31
Angelo Ripa
pag. 35
Prof. Mario Cruciani
pag. 37
Don Domenico Cruciani
pag. 41
Mons. Antonio Patrizi
pag. 45
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Dedica Questo libro è dedicato alla memoria di tutti gli amici qui ricordati ma specialmente a quella di mio zio ^os/irsi/cr*
^ S W c S f f / t t
Parroco nel Santuario delle Grazie a Montefiascone e nella Comunità di S. Giovanni in Grotte di Castro; Capppellano nell'ospedale di Montefiascone; professore emerito di materie letterarie nel Seminario di Montefiascone.
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Premessa Mi è capitata spesso l'occasione di partecipare al funerale di qualche parente morto precocemente o di un amico al quale ero legato da particolari vincoli di amicizia e di simpatia. In alcune di quelle luttuose occasioni sono stato invitato a prendere la parola, in Chiesa, alla fine del rito funebre, per commemorare il defunto: per dargli l'estremo saluto, per ricordarne brevemente, insieme, i meriti, le benemerenze, le sofferenze, le preoccupazioni, i momenti salienti di vita. Ho accettato spesso di fare la richiesta commemorazione non senza qualche dichiarata difficoltà. E ciò non perché il defunto non meritasse una mia parola di commiato ma perche' mi sono sempre ritenuto poco adatto a quel ruolo. Tuttavia, commisurando le mie deboli forze culturali ed espressive con i meriti del defunto, pur non nascondendo la mia innata ritrosia, mi son lasciato convincere trovandomi particolarmente a disagio, però, nel dover sintetizzare in pochi minuti tutta la vita spesa al servizio della Famiglia e della Comunità: finalizzata alla disponibilità, alla partecipazione, alla commiserazione. Comunque, non ho mai rifiutato la mia parola e l'ho fatto sempre con particolare commozione sia per la mia vicinanza alle persone commemorate sia per il luogo sacro ~ la Chiesa ~ dove quelle parole dovevano essere dette. Mi son meravigliato, poi, di trovar tanto consenso in coloro che le mie parole avevano ascoltato. E ~ sorpresa tra le sorprese ~ qualcuno dei miei amici più burloni, meno disincantati, più fervidi di fantasia si è prenotato perché io inserissi tra i miei impegni del futuro anche quello di recitare il suo elogio funebre (ohibo!) in occasione del funerale che entrambi (ovviamente) auguravano molto lontano nel tempo. Mi ha meravigliato ancor di più il fatto che qualcuno di quei miei amici burloni ha sollecitato la stampa di quelle commemorazioni perché dei comuni amici defunti rimanesse memoria e ricordo a testimonianza della comunità degli affetti e degli ideali. 9
Ed io, riflettendo al fatto che da questi amici defunti ho avuto tanto bene nella vita (e cioè: da loro ho imparato a pensare , a parlare, a scrivere e a commisurarmi con la realtà quotidiana) ma soprattutto perché essi hanno arricchito e nobilitato la mia povera esperienza umana, mi sono lasciato convincere in quanto mi è sembrato quasi un tradimento rifiutare la mia attestazione di gratitudine. Le parole volano ~ si dice ~ tutte: così come son volate le mie: ma gli scritti rimangono. E allora? Ho accettato la provocazione e ho accolto l'invito. Ho chiamato il tipografo e gli ho dato i testi da stampare così come io li ho detti nelle varie cerimonie funebri. E metto adesso tutto a disposizione dei miei amici perché, così stimolati, trovino talora il momento propizio per ricordare chi ci ha preceduto nel viaggio verso l'eternità. Ho una sola ambizione: che chi ha conosciuto quelle persone si trovi in consonanza con quanto io ho detto: ma specialmente perché trovi nella sua intimità tanti altri e più validi motivi di ricordo. E sia questa anche l'occasione per raccomandare ancora quei defunti alla benevolenza Divina, recitando tutti insieme una preghiera di suffragio. Roma, 10 marzo 2003
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Ricordo di Vicario Generale della Diocesi di Viterbo Mi costa non poca fatica scrivere un pensiero in memoria di Don Giuseppe; e non perché abbia scarsità di elementi su cui concentrare la mia attestazione di affetto e di simpatia per lui ma perché temo di non riuscire a dir tutto quanto vorrei o comunque sarebbe giusto e corretto che dicessi. Temo anche che la più che quarantennale amicizia che a lui mi legò non faccia velo alla verità dei miei sentimenti. Io però, bene o male che possa esprimermi, Don Giuseppe lo ricordo così, e così ne esalto, nel ricordo, la vicenda umana e l'impegno sacerdotale: 1) Quando lo incontrai la prima volta, lo vidi ragazzo molto intelligente; riusciva, cioè, bene negli studi, si impegnava, andava sempre alla ricerca del meglio. I suoi interessi non si esaurivano nelle discipline scolastiche ma allargava il campo delle sue conoscenze anche ai problemi di attualità e specialmente di socialità, finalizzandole alla ricerca di un più cosciente impegno morale e comunitario. 2) Era un ragazzo molto serio e tale si è conservato per tutta la vita. Rifuggiva quasi per istinto dalle chiassate, schivava i pettegolezzi, badava al sodo delle cose. Particolarmente ricettivo, era attento ai fatti e alle persone che lo circondavano dimostrando una accentuata obiettività e onestà nei giudizi e scarsa attenzione alle circostanze marginali dei fatti. 3) Aveva una grande ricchezza interiore. Viveva il messaggio Evangelico e ci credeva veramente! Le azioni della sua vita erano quindi logiche e coerenti, sempre ispirate alla stessa filosofia. Vedeva in tutto la mano di Dio e tutti i fatti in cui, volente o nolente, era immerso, li interpretava come manifestazioni della Sua volontà. 4) Era, quasi a completamento della sua maturità umana e della sua innata predisposizione al colloquio, sempre disponibile: attento e compartecipe 9 delle sofferenze altrui ma soprattutto capace di dare qualcosa di suo per facilitare il superamento della crisi.
5) Fu anche ragazzo fortunato in ciò quasi guidato per mano dalla DivinaProvvidenza ~ perché ebbe in Mons. Leopardo Venturini non solo il Maestro di Filosofia nella scuola ma anche la guida sicura e il prototipo cui ispirarsi nelle azioni e nei problemi concreti della vita. 6) Come Sacerdote lo conobbi persona di Fede; sapeva interpretare bene il suo ruolo non negli atteggiamenti esterni ma nella coscienza della sua missione finalizzata ad affratellare gli uomini nel nome di Dio. Lo manifestò non solo nella sua Parrocchia dei SS. Martiri di Tuscania ma soprattutto a Capodimonte tra quei giovani cui le tristi circostanze della vita avevano molte cose negato e in particolare l'affetto dei genitori. Ricordo che, poco prima che morisse, nel corridoio antistante la sua camera nell'ospedale di Montefiascone, a piangere la sua fine ormai imminente, quel giorno, eravamo in pochi ma tra tutti il più triste era un giovane ex~alunno della casa del S. Cuore che piangeva "La morte imminente ~ diceva lui - di mio padrel". 7) Come uomo aveva un gran dono e una gran forza: non faceva pesare su nessuno le sue intime sofferenze che pur molte gli gravavano le spalle, ma pazientemente sopportando persone e situazioni, cercava di coglier sempre il meglio da tutto e da tutti per l'attuazione di un programma di perfezionamento dell'esistente e per l'impostazione di progetti proiettati in un avvenire visto con l'occhio dell'ottimismo. Così ho ricordato Mons. Ricci. Ma soprattutto ne ricordo la bontà d'animo. E così vorrei che tutti gli amici che lo conobbero, lo ricordassero e facessero riviverne la memoria in quanti non ebbero la fortuna e la felicità di frequentarlo. Cosa che mi sono sforzato - con impegno certamente, ma con risultato forse impari alla dignità e al merito di questo grande Sacerdote - di fare io, scrivendone agli ex-alunni del Collegio Barbarigo, per la costituzione della cui Associazione Don Giuseppe fu, con me, promotore e animatore. -
Mons. Giuseppe Ricci:
Tuscania: Montefiascone: 10
19 dicembre 1921 2 febbraio 1983
CURIA VESCOVILE VITERBO
Piazza S. Lorenzo, 9a - Tel. 0761/341124 01100 VITERBO C.E 90013460564
Viterbo 24.05.2002 Carissimo Francesco, in risposta alla Tua sono a dirti che sentii un gran piacere quando, durante il periodo del Sinodo Diocesano 1993~1995, indetto da Mons. Tagliaferri, in una riflessione sulla spiritualità del presbiterio diocesano, ascoltai Mons. Paolo Rabitti, oggi vescovo di S. Marino, affermare che tra il clero c'era un minor riscontro di santi, al confronto per es. dei Religiosi, perché, una volta morto, il sacerdote secolare non avrebbe più chi si prenda premura della sua memoria. Anche in base a questo, che tu voglia scrivere sul conto dei Sacerdoti da te conosciuti mi fa un grande piacere e ti aggiungo il mio compiacimento. Sul conto di Mons. Ricci io non ho nulla da suggerirti perché devo confessare di averlo conosciuto poco. Lui era di un'altra generazione e quindi nel tempo degli studi non c'è stato contatto fra me e Lui. Da sacerdoti impegnati nel ministero, Lui era di Viterbo ~ Tuscania e noi di Montefiascone ~ Acquapendente e quindi senza contatti. Nella gestione Boccadoro, quando fu eletto come Vicario Generale, furono pochi gli incontri personali, anche perché la sua vita ebbe termine in breve tempo. Ma non dimenticherò mai la circostanza che mi fece intuire la sua umanità. A Gradoli, nel 1966, ebbi la cura della Parrocchia e non ti dico quale situazione logistica trovai e riguardo alle Chiese e alla Casa canonica e alle opere Parrocchiali. C'era tutto, ma tutto da rifare. Avevo un beneficio che era letteralmente un maleficio. Se volevo fare il Prete Parroco avrei dovuto fare l'amministratore fesso. Se facevo il padrone avrei dovuto rinunciare a fare il parroco. Ho preferito la prima soluzione e ne sono contento ancora oggi. Si dette il caso che mi piovesse addirittura sul letto e andai da Mons. Boccadoro a chiedere che, per riparare il tetto, si vendesse il campo sportivo: un bene del beneficio come lo era anche la casa canonica. Mons. Boccadoro mi disse che potevo dormire "ad ombrello aperto". Sono parole testuali! Potrai arguire in quale stato d'animo lasciai il Palazzo Vescovile ed andai a Capodimonte, presso la Casa S. Cuore, che Mons. Ricci gestiva dopo Mons. Venturini. Gli esposi la mia amarezza e Lui, senza alcuna esitazione, mi suggerì di proporre la vendita del campo sportivo alla Prefettura per ricavarne le risorse economiche per provvedere allo stato della casa 11
canonica. Nel 1973 riuscii a rifare completamente quella casa rendendola decente e funzionale. Questo mi bastò per rendermi conto dello "spessore" della sua persona di uomo e di prete, a parte il fatto che poi, indirettamente, dai suoi parrocchiani dei SS. Martiri in Tuscania seppi che era il migliore dei preti di quella città e tutto il clero, chi per un motivo chi per un altro, al momento della sua morte, espressero stima e riconoscenza per il suo servizio e di parroco e di Vicario. Non ho altro da aggiungere, e quanto da te scritto per delinearne la figura, mi pare bastante ed adeguato al compito. Ti ringrazio, comunque, per quello che farai per quanti, assieme a Mons. Ricci, hai conosciuto e stimato. Con fraterno abbraccio Don Pietro Condoli (Vicario Generale della Diocesi di Viterbo)
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Commemorazione del Funerale nella Chiesa di Pescia Romana (VT) 4 maggio 1989 Prendo la parola davanti a voi qui riuniti nella vostra Chiesa Parrocchiale dove tutti insieme ci troviamo per dare l'estremo saluto al nostro amico, Titta Bartolaccini, e per raccomandare alla Divina Benevolenza la sua anima di uomo giusto , di persona corretta, di lavoratore indefesso. Titta si era qui trasferito molti anni fa partendo da Valentano per trovare in Maremma una speranza di vita migliore. Ed io che son di Valentano ed insieme a tanti di voi ho vissuto l'esperienza della Riforma Agraria ed insieme a voi ho sofferto e gioito per questa grande innovazione economica e politica, ogni volta che sorte e ventura mi consentono di stare in mezzo a voi, mi sento quasi di ritornare a casa, in famiglia, e rivivo giovinezza, ambiente paesano, comunanza di ideali religiosi, morali, politici. Rare volte però capita di venire a far festa in casa vostra; capita più spesso di venire a darvi testimonianza di simpatia e di affetto nei momenti di lutto e di sofferenza. Come capita adesso, in occasione di questo funerale che riempie il nostro spirito di tristezza in una sofferenza indescrivibile. Diamo anzitutto un attestato di fratellanza verso i membri della famiglia di Titta che oggi piange la perdita del suo capo: diamo a ciascuno di essi i sentimenti delle nostre più vive condoglianze e l'attestazione della partecipazione al loro lutto. E ricordiamo velocemente chi era Titta perche' il suo ricordo rimanga a lungo impresso nel nostro cuore e nella mente. Titta aveva alcune caratteristiche salienti che ne delineavano la personalità: quelle stesse che connotarono noi tutti, quanti siamo partiti da Valentano per correre la nostra avventura nella vita e che mi auguro continuino a connotare i nostri discendenti nelle future generazioni. Titta era anzitutto uomo di Fede. La sua era una Fede semplice, ancorata 13
alla sua tradizione Familiare e comunale: convinta, tuttavia, salda e incrollabile; una convinzione vissuta senza dubbi né tentennamenti. Titta è stato anche un buon marito e un ottimo padre di famiglia: generoso, disponibile, sempre pronto. Aveva voce pacata , mai si adirava, ragionava per linee essenziali, attento alla sostanza dei discorsi. E sapeva difendere le sue idee, con coraggio e decisione pur rispettando le altrui. Uomo di poche parole, era più portato al fare che al dire. La sua era una personalità chiara, netta, senza infingimenti: sempre coerente ai valori cui ispirava la sua vita: carattere di ferro, non suggestionabile. Era sempre lui, senza variazioni, senza dubbi; era facile leggergli dentro e lui non aveva mai nulla da nascondere: carattere serio, poco propenso alle evasioni, al riso, allo scherzo. Era poi, e soprattutto, un grande lavoratore. I suoi campi sembravano giardini; forte, instancabile: indifferente al caldo, così come lo era stato al freddo nella gioventù passata a Valentano. Una torre, una fortezza! Così io ricordo Titta: uomo saggio, prudente, onesto, giusto. Ricordatelo così anche voi: uno dei migliori prodotti delle generazioni Valentanesi. E tutti insieme ispiriamoci a quei valori che hanno guidato la sua vita ed hanno reso serena la sua esistenza. Bartolaccini Giovanni Battista:
Valentano: Pescia Romana:
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19 marzo 19M 2 maggio 1989
Commemorazione del Funerale nella Chiesa dell'Ospedale S. Camillo ~ Roma 27 dicembre 1990 Chi di voi conosce il Lago di Bolsena sa che, sulle colline che lo circondano, esistono molto paesi: tutti belli e fascinosi. Due tra di essi, però, sono più noti e conosciuti anche oltre i confini regionali per le loro produzioni enologiche: Gradoli e Montefiascone. In questi due paesi è trascorsa la fanciullezza e la giovinezza del nostro comune amico che una malattia imprevedibile e incurabile ha velocemente strappato al nostro affetto e che noi, qui riuniti, commiserandolo, accompagniamo con la nostra preghiera nel suo ultimo viaggio: quello più importante, quello verso l'eternità. Esprimiamo tutti insieme anche i nostri sentimenti di condoglianza ai suoi familiari che ancor più di noi vivono questo momento di dolore, immersi nella tristezza e nel rammarico. A Gradoli e a Montefiascone è passata la fanciullezza e la giovinezza del nostro amico ed io che prendo la parola per questa veloce commemorazione, do la mia testimonianza autentica, in qualità di Presidente dell'Associazione degli ex-alunni del Seminario Barbarigo, e anche perche' la mia vita l'ho vissuta pressoché' nelle stesse, identiche condizioni storico - ambientali. Peppino era nato a Gradoli e di là non si era mosso fino a 12 anni. Era cresciuto in un ambiente moralmente sano: povero di mezzi materiali ma ricco di valori, circondato dalle premure e dall'affetto dei suoi genitori, avvinto dall''esempio dei parenti e degli amici. A quei tempi a Gradoli non c'era niente; solo case, piazze, strade, piccoli negozi. Non c'era alcuna occasione di divertimento né di evasione. Le donne stavano in casa e accudivano alle faccende domestiche. Gli uomini erano tutto il giorno in campagna, in mezzo alle vigne che producevano aleatico e grechetto: i migliori vini del Lago. Lavoravano di vanga e zappa per produrre anche patate ma soprattutto fagioli di seconda 15
raccolta e cipolle che tanta gente, dai paesi vicini, accorreva a "cagnare" nei campi adiacenti le rive del Lago. I bambini e i ragazzi di Gradoli avevano (come del resto anche noi che nascemmo nei paesi vicini) pochi punti di riferimento: la Scuola, la Strada, la Chiesa. La "Scuola era quella "dell'obbligo": l'elementare, ciclo inferiore e ciclo superiore: cinque anni in tutto e poi la "Pagella attestante il compimento dell' obbligo scolastico. Quel tipo di scuola, essendo scuola destinata alla gente di campagna, aveva i suoi pregi e i suoi limiti: aveva un solo fondamentale obiettivo, legalizzato dai programmi scolastici dell'epoca: insegnava a leggere, a scrivere, a fare i conti. Spazio per la cultura ce n'era poco. Solo qualche raro Maestro apriva ai suoi scolari uno spiraglio sul mondo dei libri e degli scrittori. La "Strada" era il luogo dove tutti i bambini passavano la maggior parte del tempo quando la stagione era buona: piccoli giochi; piccoli, consueti, monotoni divertimenti: qualche fuga attraverso i campi, corse per le strade e le piazze e, in estate, qualche veloce e furtivo bagno nel lago. E poi la "Chiesa" la quale era punto di riferimento non solo per motivi di Fede e di Culto ma anche per il mondo della cultura. Era la Chiesa, infatti (e non solo per i giovani) il mondo della cultura, appunto, dove tutti avevano occasione di ascoltare la "predica" del Parroco, persona colta, che usava un linguaggio superiore, per contenuto e forma; diverso, comunque, da quello utilizzato nelle famiglie contadine, dove povero era il vocabolario e molto limitati gli argomenti. Nella Chiesa il nostro amico trovò il punto privilegiato dei suoi interessi: affascinato dal mistero della Fede, avvinto dalle cerimonie liturgiche. In Chiesa incontrò S. Maria Maddalena, la protettrice del paese, alla quale i Gradolesi offrono la ricchezza della loro Fede e la spontaneità dei loro sentimenti ed alla quale si rivolgono nel momento del bisogno. A quell'ombra, Peppino, crebbe e maturò: assimilò i principi e i valori della Religione e si lasciò guidare dal suo Parroco, uomo saggio e prudente. Qui ricevette i primi Sacramenti e si rivelò ragazzo devoto, attaccato alle tradizioni religiose della sua gente. 16
Quel Parroco saggio e prudente avviò lui (ed insieme a lui anche altri ragazzi) verso il Seminario di Montefiascone perche' lì, nello studio, nella preghiera, nel silenzio, nella riservatezza.... ciascuno chiarisse a se stesso la propria vocazione nella vita. Il Seminario fu il secondo punto di riferimento nella vita di Peppino: punto fascinoso, affidabile: per serietà, correttezza, valori e ideali: punto, però, avvolto anche da una certa patina di mistero. L'immagine del Card. Marcantonio Barbarigo che due secoli prima aveva fondato il Seminario, aleggiava sulla vita degli alunni mostrando loro se stesso come modello di una civiltà fondata sui valori dello spirito. In Seminario c'era l'ordine, la disciplina, la preghiera, lo studio. C'era il silenzio ma c'era anche la ricreazione. C'erano i Professori (e che professori!): libri, quaderni, penne e pennini per molte ore della giornata. Qui Peppino cominciò a diventare uomo. Si trovò immerso in un mondo nuovo e cominciò a confrontarsi con la cultura. Furono anni gioiosi e festosi da un lato: difficili e sofferti dall'altro. Bisognava però fare le scelte definitive per la vita. E Peppino scelse la sua strada. La scelse liberamente e responsabilmente. Ritornò in famiglia e propose a se stesso un'avventura diversa: il mondo di una professione liberale fondata sulla cultura. Continuò i suoi studi, si dipi omo, si laureò. Trovò un buon lavoro nella scuola e mise sù famiglia: una moglie saggia e prudente, un figlio. Furono anni di vita serena, tranquilla. La famiglia, la scuola, la Parrocchia: la disponibilità verso i bisogni di tutti. Ho finito. Poche cose ho detto, insufficienti certamente a delineare la figura del nostro amico. Completate voi le cose che non sono stato capace di dire io. E preghiamo per lui. Giuseppe Mariotti:
Gradoli: Roma:
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25 ottobre 1937 25 dicembre 1990
Commemorazione del f ^ y ^ fW ^ f Y s f / S é f ' j / / ' / Funerale nella Chiesa del SS. Sacramento in Frascati 24 marzo 1981 Nessuno di noi avrebbe mai creduto, fino a poche ore fa, di trovarci tutti insieme qui riuniti, per dare l'estremo saluto al nostro amico, collega di ufficio e di lavoro, Alvaro Canestri, prematuramente e imprevedibilmente scomparso per aneurisma dell' aorta. Siam qui convenuti, anzitutto, per raccomandare alla benevolenza del Signore la sua anima buona e candida, ma anche per esprimere, con voce corale, i nostri sentimenti più intimi di condoglianza ai suoi familiari che come noi, ed ancor più di noi, piangono, soffrono e sono affranti dal dolore. Ricordiamo adesso, brevemente, la figura del nostro amico. Mi assumo, io l'onere di farlo: io che sono il Direttore del Servizio della Propaganda Generale dell'ENPl e sono stato il suo diretto superiore. E il mio, un onere gravoso e non nascondo l'emozione che provo nel prender la parola: timoroso di non sapere trovare quelle adatte e comunque adeguate ed esprimere i nostri sentimenti nei confronti del comune amico che è vissuto al nostro fianco, nella stanza vicina, nello stesso piano, nello stesso corridoio ; con il quale ci siamo incontrati tutti i giorni, a quelle determinate ore per decine e decine di anni: tutti impegnati a svolgere lo stesso lavoro, pur nella diversità dei compiti, finalizzati alla sicurezza e all'igiene di quanti operano nel settore della produzione e di quanti si preparano a svolgere analoghe attività in futuro. La morte ci è passata vicina: ci ha quasi sfiorati: ci ha commosso, ci ha anche spaventati.. Ed ora siam qui: non mossi da un atto di doverosa presenza: ma per testimoniare amicizia, simpatia e affetto. Alvaro Canestri, come uomo, era persona straordinaria, irrepetibile: unico come tipo, come carattere, come umanità: allegro, festoso, gioviale; pronto allo scherzo, sorridente. Sempre rispettoso di tutti, non ho mai sentito dalla sua bocca parola 19
indecorosa; ligio al dovere; cordiale, schietto. Non era capace di dir di no. Non si risparmiava in nulla ed era sempre pronto a dare la sua opera perché ogni nostra iniziativa avesse positivi risultati. Io lo ricordo ancora in giro per tutta Italia, nelle Fiere più importanti organizzate nelle varie città Italiane (Milano, Torino, Verona, Bologna, Roma, Ancona, Bari, Foggia) come anche in quelle organizzate nei piccoli centri (Grottaferrata, Bastia Umbra). I nostri stands erano sempre belli, accoglienti, festosi. Al momento opportuno tutto era pronto. Ricordo ancora la settimana della Sicurezza nelle "cave organizzata in provincia di Grosseto in collaborazione con gli organismi pubblici e le forze sindacali. Fu una settimana terribile per il gran freddo. Io andai da Montalcino in una cava di gesso dove il gruppo dei tecnici dell'ENPI stava lavorando. La temperatura era alcuni gradi sotto lo zero, la tramontana fischiava da tutte le parti, i tecnici erano ricoperti in tutti i loro vestiti da una patina di gesso una cui nuvola bianca era sollevata dal vento. Io proposi di sospendere le attività e di rinviarle di qualche giorno in attesa che l'ondata di freddo passasse: io, come Direttore responsabile, non potevo sottoporre i miei dipendenti e quelli degli altri servizi, al rischio di prendersi una polmonite. Erano tutti d'accordo ma Alvaro si oppose: lui, che fisicamente era il meno prestante, si rivelò il più resistente al freddo e alla sofferenza. Discutemmo a lungo ma Alvaro mi convinse a continuare il nostro lavoro. Ed ebbe ragione lui. Tutto andò bene e tutti furono poi gratificati per la decisione presa. Alvaro era uno di quegli uomini che non fanno mai pesare sui loro vicini le proprie sofferenze: che non rattristano mai nessuno, che spandono intorno a sé serenità e allegrezza. Era sempre pronto a dare una mano a chi ne avesse bisogno: disponibile, generoso, discreto. Io che sono cresciuto e vissuto in ufficio al suo fianco per tanti anni: prima come collega e poi come Superiore diretto, ho avuto sempre per lui 20
grande stima, tanta considerazione, straordinaria ammirazione e molto affetto. Come impiegato, faceva parte del piccolo gruppo della Divisione artistica dell'ENPI: era un eccellente tecnico delle immagini, dei colori, delle ideazioni fieristiche e congressuali, della cartellonistica, della stampa. Aveva spiccata vocazione per le cose belle. Fantasia creatrice, ordine, pulizia realizzatrice, fascino erano le doti sue più evidenti. Ma soprattutto lavorava sempre in allegria: ridendo, scherzando Questo era Alvaro Canestri. Uomo e tecnico di grande prestigio, di grande valore: degno di elogio: figura di persona degna di essere ricordata nel tempo; amico carissimo. Alvaro Canestri:
Roma: Frascati:
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7 febbraio 1927 22 marzo 1981
Ricordo di ^Sristsè-
» Sr A r r s t
Hans è stato una delle meteore più luminose della mia vita. L'ho visto poco e l'ho poco frequentato; meglio: l'ho appena intravisto e l'ho conosciuto appena. Sapevo bene, però, quel che faceva: leggevo le sue relazioni: condividevo quasi sempre le sue osservazioni e le proposte: venivano da una mente mai appagata, tendenzialmente portata all'innovazione: critico, da un lato; costruttore , dall'altro. Gli leggevo nell' ìntimo: più filosofo che storico, era, nel suo intimo, combattuto e macerato dalle contraddizioni e dalla conseguente sofferenza: logorato spesso dalle aspirazioni nobili, contrastanti con la triste realtà della vita quotidiana. Uomo di cultura e di saggezza politica, viveva la sua vicenda umana mortificato e insoddisfatto perché quel fuoco che gli bruciava dentro finalizzato al bene, non poteva esplodere all'esterno. Apparteneva a quel partito (la D.C.) che, pur avendo in mano il potere politico a livello nazionale, era emarginato, in Umbria, a livello di Amministrazioni territoriali. Era, la sua, una battaglia sui valori, sui principi; non immiserita dalle piccole cose: lui, la combatteva con intimo convincimento: voleva portare la sua testimonianza sui contenuti caratteristici di un mondo migliore basato sui valori etico-morali. Quando, per le mutate condizioni politiche, entrò a far parte di una nuova maggioranza al Comune di Foligno e gli fu affidato l'incarico di Presidente dell'Ospedale, mi telefonò subito per dirmi la sua intima gioia e per dichiararmi il suo impegno civile nel nuovo incarico. Se parlavano gli altri, teneva sempre in mano un foglio di carta e una penna per prendere appunti. Quando camminava, alto come era, se ne andava mezzo dinoccolato, a capo chino, pensieroso. Quando parlava lui, iniziava sempre con tono dimesso, bassi gli occhi, parole lentamente pronunciate: poi, man mano, il tono della voce cresceva, la 23
testa si alzava, la voce si faceva più ferma e veniva una cascata irrefrenabile di idee, di critiche, di suggerimenti, di proposte. Faceva piacere ascoltarlo: era un piacere intellettuale: se ne ammirava il gesto misurato; il sorriso gli illuminava spesso la faccia che si faceva, però, talora, arcigna e severa; lo si seguiva facilmente nello sviluppo delle idee: se ne ammirava la forma, il contenuto, lo stile. La prima volta che ci siamo visti di persona è stata una piacevole, reciproca sorpresa: eravamo fatti della stessa pasta: estroversi, talora invadenti, spesso accattivanti. Lui conmisceva facilmente serietà e sorriso: pronto allo scherzo e alla battuta. Io, fino a quel momento, sapevo solo della sua esistenza: ne conoscevo le attività e le iniziative: ma non ci eravamo mai visti. C'era una certa soggezione in chi veniva a Roma dalla periferia: la Direzione Generale incuteva rispetto, metteva quasi paura! Quel primo incontro avvenne, tanti anni fa, nel teatrino della Direzione Generale, in occasione di uno dei periodici incontri tra Dirigenti Centrali e operatori periferici del Servizio. Fu un incontro piacevole; o meglio, festoso: ci trovammo subito in perfetta armonia di ideali, di sentimenti, di lavoro. Io, allora, ero Direttore della Divisione "Educazione alla Sicurezza" nel Servizio della Propaganda Generale presso l'ENPI: lui era il (cosiddetto) "Propagandista" di Perugia. A quel convegno, io parlai a lungo sui problemi dell'Educazione e tenni banco per mezz'ora: ma non feci colpo perché tutti mi conoscevano e tutti conoscevano le mie idee. Chi fece colpo fu Hans: fu lui, l'uomo nuovo, la rivelazione: fiore profumato scoppiato all'improvviso in un arido campo pieno di non poche erbacce. Fece colpo un po' per le cose che disse e per i temi che trattò, ma soprattutto per il bel garbo con cui si espresse, per la semplicità e la facilità dell'eloquio. Insomma, fu il suo un successo personale che convogliò, sulla sua persona, la generale simpatia dei colleghi e l'apprezzamento dei superiori. "Però ~ disse alla conclusione dell'incontro l'Avv. Ghidini che era allora il Direttore
del Servizio ~ però
hai visto il "Propagandista"di Perugia 24
con quel
nome Tedesco
quanto è bravo!".
Ci siamo frequentati con maggiore assiduità in una settimana di aggiornamento e di qualificazione che io, nella mia nuova funzione di Direttore del Servizio, organizzai qualche anno appresso per dotare ciascun "Propagandista di idonea documentazione in vista di una migliore sistemazione dei singoli nel Servizio Sanitario Nazionale che stava allora nascendo contemporaneamente allo scioglimento dell'ENPI. Fu una settimana memorabile, intensa: approfondimenti operativi, incontri con personalità altamente qualificate nel mondo della cultura accademica. Ricordo un episodio significativo. Eccolo. Alla fine del corso, tutti i colleghi sostennero un esame cui fece poi seguito il rilascio di un Diploma. Io, che facevo parte della Commissione esaminatrice, quando venne il turno di Hans, volli fare prezioso il suo esame e cominciai così:
"Cari colleghi esaminatori: la persona che abbiamo qui davanti è uno dei più validi operatori periferici del Servizio; è, per di più, anche Consigliere di minoranza nell'Amministrazione Provinciale di Perugia. A lui voglio fare una domanda iniziale che non rientra fra le materie oggetto del corso, che, però, si inquadra nel contesto della problematica prevenzionale. Questa: che cosa prevedono gli ordinamenti dei Consigli Provinciali in fatto di Educazione alla sicurezza: di igiene e di sicurezza nel lavoro?" ~ Mi vidi addosso lo sguardo
assassino di Hans
che così rispose: "Guardi,
Professore, quegli ordinamenti non prevedono proprio niente sul merito: ciechi e muti sono"
Io feci una risata: e risero anche gli atri tre Docenti Universitari, membri della Commissione Esaminatrice. Hans, però, non rise!!!! Tuttavia ebbe un improvviso lampo di genio che ristabilì la situazione: " Vedi, caro Direttore,
- mi disse - non ho potuto rispondere alla domanda improponibile. Però accetto la tua provocazione. Vuol dire che, nelle prossime riunioni del Consiglio Provinciale di Perugia, porrò il problema e vedremo quali iniziative si possono prendere" ~ Poi l'esame continuò ed Hans fece sfoggio della sua cultura e della vivacità intellettuale. i".
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Hans è morto giovane. Quando seppi che le sue condizioni di salute erano ormai irrecuperabili, partii da Roma una mattina presto e andai a salutarlo in quella piccola casa deliziosa e tutta fiorita, che lui e Rita, sua moglie, possedevano su una delle colline che sovrastano Foligno donde si gode un panorama a perdita d'occhio. Hans stava male: veramente male. Lui che era stato combattente indomito per tutta la vita, se ne stava in quel piccolo letto, pressoché immobile, pallido, voce lenta e fioca. Io ero emozionato, lui ormai rassegnato. Parlammo un po'. Vedevo che la stanchezza e l'emozione per l'incontro lo avevano sopraffatto: il suo sguardo si era fatto sfuggente. Gli feci un grande augurio e gli portati l'ultima parola di conforto che il suo Direttore era venuto a dirgli sul letto della sofferenza. Ci scambiammo un bacio, ci stringemmo la mano: la sua era fredda, senza forze. Morì pochi giorni dopo. }'» 'fi
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Conservo tra le mie cose più preziose un ricordino: ce Hans con la sua immagine giovanile, sorridente, c'è anche uno dei suoi pensieri più meditati. Lo tengo lì, sul tavolo della mia biblioteca, al mare di Lavinio. Quando mi siedo per leggere o per scrivere, lui mi fa compagnia, mi sorride, mi stimola a scrivere. Ed io scrivo: così come lui mi dice di fare e come faccio adesso, velocemente, commosso, ricordandolo; per me, per i miei figli, per Rita e per i loro figli: per tanti comuni amici. Hans Schoen:
Reggio Calabria: Foligno:
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9 settembre 1933 15 ottobre 1982
Commemorazione del Nel ventunesimo anniversario dalla morte: Foligno 12 ottobre 2002 Carissimi: voi tutti qui presenti eravate amici di Hans, certamente. Permettetemi una domanda preliminare: voi, come lo chiamavate, Hans, quando parlavate con lui o di lui? Hans, sicuramente. Io pure era amico di Hans, anche se in maniera diversa da come lo eravate voi: però non lo chiamavo Hans: ma Schoen Direte: e perché? La risposta è semplice. Io era il Superiore di Hans a livello gerarchico nel settore dell'attività, diciamo così, impiegatizia. E cioè: io lavoravo in Direzione Generale, a Roma, e, all'epoca ero il Direttore di una Divisione e successivamente fui il Direttore del Servizio della Propaganda Generale presso l'ENPI. Io, cioè, insieme al gruppo dirigente centrale, formulavamo i programmi, impartivamo le disposizioni e verificavamo i risultati. Schoen era uno dei cosiddetti Propagandisti di periferia: colui, cioè, che, nella vostra provincia, svolgeva le funzione di educazione alla sicurezza nel mondo del lavoro e in ambito scolastico. Io, quindi ero il superiore: Schoen il dipendente. Era allora consuetudine, che, nella Pubblica Amministrazione, ci si chiamasse tutti con il cognome. Ed anche noi, presso l'ENPI, avevamo analoga abitudine. I rapporto gerarchici venivano sempre e comunque rispettati. Schoen era uno dei tanti che lavoravano nelle Provincie italiane: Schoen era, semplicemente, il "Propagandista di Perugia". Io leggevo le sue relazioni mensili: ne controllavo la qualità e la quantità. Più spesso avevo occasione di complimentarmi con lui: talora (anche se raramente) lo richiamavo all'ordine. E sì, perché sulla qualità del suo lavoro "nulla quaestio": qualche "quaestio" nasceva sulla quantità. 27
PerchéSchoen aveva nel sangue la politica e spesso privilegiava questa a quella. Quel che ho scritto sull'argomento (anche se "velociter scribendo") lo troverete in una comunicazione che, se avrete interesse a leggerla, è a vostra disposizione presso Rita. Ad integrazione di quel documento vorrei, adesso, raccontare un piccolo episodio che avvenne quando l'On. Radi era Sottosegretario della Presidenza del Consiglio dei Ministri: Presidente Forlani. Stava scadendo il Consiglio di Amministrazione dell'ENPl ed era imminente la nomina dei successori. Io, e con me tanti altri amici, avevamo una candidatura da portare avanti: Direttore Generale avrebbe dovuto essere il Prof. Ghezzo, titolare della cattedra di Igiene dell'Università Cattolica. Misi in moto molti Propagandisti della periferia, specialmente quelli che sapevo avere forti rapporti di amicizia con Deputati e Senatori. Tutti si interessavano, tutti ottenevano promesse ma non se ne cavava ~ come si dice ~ un ragno da un buco. Telefonai allora a Schoen: gli esposi il problema e ci demmo appuntamento alla Segreteria di Radi per il quarto giorno successivo. In Segreteria conobbi Nieri: un vulcano, un programmatore, un realizzatore: efficientissimo. Gli illustrammo il problema - due-tre minuti in tutto; lui capì e ci disse semplicemente: "aspettatemi in anticamera". Quel che lui fece subito dopo non so. Ci richiamò dopo mezz'ora e ci comunicò: secco: "Il Direttore Generale dell'ISPESL sarà Ghezzo, il Presidente sarà " e disse un nome che ho dimenticato. Ho finito. Ma dopo questo episodio capii chi era Hans: e da allora fu Hans anche per me; e capii chi erano i suoi amici. Tutti bravi!! Bravissimi1!
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nome Tedesco
quanto è bravo!".
Ci siamo frequentati con maggiore assiduità in una settimana di aggiornamento e di qualificazione che io, nella mia nuova funzione di Direttore del Servizio, organizzai qualche anno appresso per dotare ciascun "Propagandista di idonea documentazione in vista di una migliore sistemazione dei singoli nel Servizio Sanitario Nazionale che stava allora nascendo contemporaneamente allo scioglimento dell'ENPI. Fu una settimana memorabile, intensa: approfondimenti operativi, incontri con personalità altamente qualificate nel mondo della cultura accademica. Ricordo un episodio significativo. Eccolo. Alla fine del corso, tutti i colleghi sostennero un esame cui fece poi seguito il rilascio di un Diploma. Io, che facevo parte della Commissione esaminatrice, quando venne il turno di Hans, volli fare prezioso il suo esame e cominciai così:
"Cari colleghi esaminatori: la persona che abbiamo qui davanti è uno dei più validi operatori periferici del Servizio; è, per di più, anche Consigliere di minoranza nell'Amministrazione Provinciale di Perugia. A lui voglio fare una domanda iniziale che non rientra fra le materie oggetto del corso, che, però, si inquadra nel contesto della problematica prevenzionale. Questa: che cosa prevedono gli ordinamenti dei Consigli Provinciali in fatto di Educazione alla sicurezza: di igiene e di sicurezza nel lavoro?" ~ Mi vidi addosso lo sguardo
assassino di Hans
che così rispose: "Guardi,
Professore, quegli ordinamenti non prevedono proprio niente sul merito: ciechi e muti sono"
Io feci una risata: e risero anche gli atri tre Docenti Universitari, membri della Commissione Esaminatrice. Hans, però, non rise!!!! Tuttavia ebbe un improvviso lampo di genio che ristabilì la situazione: " Vedi, caro Direttore,
~ mi disse ~ non ho potuto rispondere alla domanda improponibile. Però accetto la tua provocazione. Vuol dire che, nelle prossime riunioni del Consiglio Provinciale di Perugia, porrò il problema e vedremo quali iniziative
si possono prendere" ~ Poi l'esame continuò ed Hans fece sfoggio della sua cultura e della vivacità intellettuale. # C" V V V V V £ V V V V V V C" V V 25
PerchéSchoen aveva nel sangue la politica e spesso privilegiava questa a quella. Quel che ho scritto sull'argomento (anche se "velociter scnbendo") lo troverete in una comunicazione che, se avrete interesse a leggerla, è a vostra disposizione presso Rita. Ad integrazione di quel documento vorrei, adesso, raccontare un piccolo episodio che avvenne quando l'On. Radi era Sottosegretario della Presidenza del Consiglio dei Ministri: Presidente Forlani. Stava scadendo il Consiglio di Amministrazione dell'ENPl ed era imminente la nomina dei successori. Io, e con me tanti altri amici, avevamo una candidatura da portare avanti: Direttore Generale avrebbe dovuto essere il Prof. Ghezzo, titolare della cattedra di Igiene dell'Università Cattolica. Misi in moto molti Propagandisti della periferia, specialmente quelli che sapevo avere forti rapporti di amicizia con Deputati e Senatori. Tutti si interessavano, tutti ottenevano promesse ma non se ne cavava ~ come si dice ~ un ragno da un buco. Telefonai allora a Schoen: gli esposi il problema e ci demmo appuntamento alla Segreteria di Radi per il quarto giorno successivo. In Segreteria conobbi Nieri: un vulcano, un programmatore, un realizzatore: efficientissimo. Gli illustrammo il problema - due-tre minuti in tutto; lui capì e ci disse semplicemente: "aspettatemi in anticamera". Quel che lui fece subito dopo non so. Ci richiamò dopo mezz'ora e ci comunicò: secco: "Il Direttore Generale dell'ISPESL sarà Ghezzo, il Presidente sarà " e disse un nome che ho dimenticato. Ho finito. Ma dopo questo episodio capii chi era Hans: e da allora fu Hans anche per me; e capii chi erano i suoi amici. Tutti bravi!! Bravissimi.
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Commemorazione del »
r/st/ Funerale nella Chiesa di Lavimo Mare Anzio 23 ottobre 1993
Ricordiamo la Signora Albertina che è ritornata nella casa del Padre per godere la pace dei giusti. Ha sofferto molto in questi ultimi anni e ha dedicato la sua sofferenza al Signore. Martoriata nel corpo ma vigile nello spirito, ha offerto a tutti quelli che andavamo a farle compagnia, una immagine di se' dolce, pur nella sofferenza. Dalla sua bocca non sono mai uscite parole di rammarico ne' di recriminazione. Per tutti aveva un mesto sorriso e una parola dolce: una parola di gratitudine per l'attestazione di stima e di simpatia che le veniva manifestata. Nell'ospedale, dove è stata ricoverata per qualche tempo, si è offerta come modello di ammalata paziente e come testimone di spiritualità fondata sulla rinuncia e sul sacrificio. Quanti adesso siamo qui riuniti per darle l'estremo saluto e per rivolgere al Signore una preghiera di suffragio, soffermiamoci un momento a riflettere sulla sua storia personale e sulla vicenda umana. Essa è vissuta sempre al fianco del suo marito, il Maresciallo Peppino Lembo, seguendolo ovunque nei suoi spostamenti là dove lo sviluppo della carriera e la stima dei superiori di volta in volta lo trasferivano e lo comandavano. Giovane sposa, intelligente e devota, ha passato buona parte della sua giovinezza nei vari paesi della Tuscia estrema Viterbese dove contrasse numerose e sincere amicizie e dove si fece stimare e ammirare per la saggezza, la prudenza, la perspicacia. Era donna capace di conmiscere confidenza e riservatezza con quello stile che contraddistingue le mogli dei Carabinieri. Aveva sempre occhi attenti e orecchi pronti per comprendere i fatti e le realtà delle situazioni emergenti: vedeva i movimenti delle persone, ne ascoltava i 29
discorsi e ne desumeva notizie e informazioni. Andava spesso per strada, a passeggio, tra le Piazze e il Mercato e con tutti parlava. Se necessario, offriva una confidenza per averne altre in contraccambio; significative e sintomatiche. Aveva, però, innato il senso di riservatezza nel parlare che le consentiva di non commettere imprudenze né errori. Ma soprattutto era donna capace di ascoltare. Chi aveva bisogno di lei, chi aveva una qualche informazione da far pervenire alle forze dell'Ordine sapeva dove trovare la Signora Lembo perché lei era precisa e metodica nei movimenti, nelle attività quotidiane. Ed era sempre e soprattutto donna di gran cuore; disponibile, generosa, pronta al soccorso. A Valentano è rimasto un piacevole e festoso ricordo di Lei perché si era fatta voler bene e si era procurata molte conoscenze e qualche preziosa amicizia. A Valentano aveva lasciato una parte del suo cuore e tutte le occasioni erano buone per un veloce ritorno a confrontarsi con gli ambienti ben noti, con le persone conosciute, con le abitudini, con le peculiarità della cucina paesana. Io personalmente, che ho conosciuto la Signora Albertina da ragazzo, non posso dimenticare la sua figura: esile nel corpo, ma forte e indomita nello spirito. Era saggia e prudente contemporaneamente; fortemente legata al marito e al figlio al cui servizio ha dedicato l'intera sua vita. Che è stata, sostanzialmente, tranquilla, serena, vissuta con intendimenti di facile condiscendenza verso le persone che le vivevano vicine. La sua ospitalità era festosa e lei stessa, nelle visite che faceva in casa altrui, era sempre discreta, mai invadente: segno di un carattere equilibrato. Sorrideva poco, la Signora Albertina, ma quando lo faceva manifestava tutta intera la ricchezza a la spontaneità dei suoi sentimenti. Così io ricordo la Signora Albertina: ricordatela così anche voi: donna saggia e prudente. E tutti insieme raccomandiamo ancora la sua anima alla misericordia del Signore. Urbani Albertina:
Terni: Lavinio - Anzio: 30
12 aprile 1916 21 ottobre 1993
Commemorazione del Funerale nella Chiesa di Lavinio Mare Anzio 10 marzo 1999 Ho conosciuto Peppino Lembo tanti anni fa, quando lui era ancora Brigadiere. Io ero allora poco più di un ragazzo mentre lui già svolgeva la sua attività di Sottufficiale dei Carabinieri nel mio paese, a Valentano. Era un bell'uomo, ben messo, aitante: la divisa con i gradi conferiva alla sua persona una ulteriore connotazione di splendore. Sempre ben vestito, inappuntabile, lo si vedeva in giro per il paese a svolgere i suoi compiti di istituto con precisione, con correttezza: ligio al dovere, responsabile, incorruttibile. Aveva carattere dolce ma forte contemporaneamente e, al momento opportuno, sapeva tirare fuori quella grinta che incuteva rispetto e quel tono della voce che smorzava le animosità. Sapeva gestire bene il suo ruolo e sapeva imporsi come uomo che la legge faceva rispettare. La legge penale la conosceva tutta e bene. Valentano era rimasto nel suo cuore. Lui era siciliano ma soleva dire che la sua Patria era la Sicilia mentre il suo Paese era Valentano. Lo amava per l'ambiente, per il clima, per le persone che conosceva e frequentava, per la simpatia che godeva, per la stima che lo circondava. A Valentano andava spesso, anche quando era diventato vecchio, a ricercarvi la giovinezza, per ricaricare la sua vita. Qui trovava i suoi amici più veri, sinceri, disinteressati con i quali era piacevole per lui passar le ore conversando, ricordando. Lembo era l'uomo di fiducia dei suoi Superiori i quali ne stimavano il carattere e ne apprezzavano la capacità operativa: a lui affidavano spesso compiti di particolare delicatezza che lui sempre risolse con intelligenza e saggezza. Io posso testimoniare il piacevole e grato ricordo che ha lasciato al mio 31 paese: tutti gli volevano bene, lo ammiravano, lo rispettavano.
La sua vita di Brigadiere l'ha vissuta tutta nei paesi posti nell estremo lembo del Lazio settentrionale, verso la Toscana: Capodimonte, Marta, Valentano, Piansano, Ischia di Castro, Montefiascone: e poi, indimenticabile, l'Isola Bisentina. Ha vissuto gli anni antecedenti la guerra del 1940 45 tra quei Paesi, in un ambiente sereno, tranquillo, dove non succedeva mai niente, dove non c'era delinquenza. I Carabinieri vivevano quasi una continua vacanza tra Caserma, Piazza e strade, frequentando Sindaco, Parroco, Medico, Farmacista, bottegai, artigiani e contadini. Accorreva talora a pacificare qualche piccolo litigio fra donne o qualche scambio di insulti tra uomini: solo parole, tuttavia, mai azioni né fatti disdicevoli. Tante che le udienze settimanali Pretorili penali passavano monotone, inoffensive: tra pacificazioni extra - giudiziarie e qualche piccola ammenda. Le carceri Mandamentali erano sempre vuote. Solo in qualche caso, raro e particolare, vi si trovava agli arresti una persona in attesa di giudizio. Quegli anni furono vissuti dal Brigadiere Lembo in pace, in armonia con tutti, partecipando spesso alle piccole feste familiari. Poi venne la guerra e le cose cambiarono: cadde il Regime Fascista, i Tedeschi occuparono militarmente l'Italia, non ci fu più sicurezza. Ogni vita era in pericolo mentre si aspettava la liberazione e la fine della guerra. Venne il momento in cui bisognò fare una scelta di campo: o con la Repubblica Sociale o con il Governo legittimo che, in quel frangente, si trovava lontano. Il Brigadiere Lembo non ebbe esitazioni né dubbi: scelse la libertà, la Democrazia: rifiutò la Dittatura e fu per qualche mese partigiano. Poi la guerra finì: nacquero i partiti e la vita nei piccoli paesi si trasformò. Finì la monotonia della vita incolore e le subentrò un genere di vita più partecipato e ardente. Vennero i Comizi in Piazza e poi le elezioni: si affermarono gli schieramenti ideologici diversi e contrastanti, le insofferenze, le competizioni, le baruffe, la lotta politica. I Carabinieri passarono da una vita tranquilla, vacanziera, ad una più 1
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impegnata. Il controllo delle persone, dei gruppi, delle piccole masse .... si fece più attento e vigilante. Il Brigadiere Lembo si adattò subito a questo ribollimento di ideali politici. Controllava tutto, verificava tutto: mai la situazione gli sfuggì di mano. Prevedeva gli eventi e metteva in atto gli strumenti di prevenzione. Era sempre informato di tutto e sapeva correre, al momento opportuno, là dove c'era bisogno della sua presenza. Quei primi anni di vita democratica erano caratterizzati da una vivacità eccessiva di parole e di linguaggio, talora incandescenti; da atteggiamenti prepotenti e provocatori ma non furono mai connotati da violenza né da scarso rispetto per le persone. In questo contesto, l'opera del Brigadiere Lembo fu sempre saggia e prudente, caratterizzata da imparzialità, finalizzata a dirimere le controversie e a pacificare gli animi. »•» jJ» 'fi
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Il mio secondo incontro con Peppino Lembo avvenne molti anni dopo, a Lavinio. Lui era diventato uomo maturo: io pure ero diventato uomo. Lui nel frattempo aveva fatto una splendida carriera. Era diventato Maresciallo Maggiore e aveva comandato le Stazioni più importanti della Compagnia di Anzio: Anzio Centro, appunto, e poi Lavinio. Aveva dato prova anche qui, in un ambiente più evoluto, della sua efficienza e della attitudine al comando. Aveva acquisito, quasi incoscientemente, l'abitudine a tener d'occhio tutto quanto accadeva intorno a lui: una deformazione professionale della quale anche lui rideva. Lasciato l'impegno attivo come Comandante dell'Arma era andato in pensione. Ma lui, che aveva dentro di sé uno stimolo insopprimibile al lavoro, aveva trovato una nuova occupazione nell'Agenzia Immobiliare che aveva creato dal nulla e dalla quale otteneva notevole gratificazione. Cominciarono anche i problemi: non per lui, che aveva salute di ferro. Si ammalò e, dopo lunghe sofferenze, morì sua moglie: la Signora 33
Albertina. Erano stati una coppia felice per decine e decine di anni: affiatati, irreprensibili: alla sua morte venne il silenzio, la solitudine, la tristezza medicata dalle visite quotidiane al Cimitero. In quegli anni di solitudine ci siamo riscoperti e abbiamo trovato l'amicizia. I nostri incontri erano frequenti e prolungati. E finalmente ho scoperto chi era veramente, nel suo intimo, Peppino Lembo. Era anzitutto uomo di Fede, ancorato saldamente ai valori della Religione, devotissimo alla Madonna del Tindari, quella della sua Patria: Patti, in Sicilia. Era chiara anche la sua ideologia politica: moderata nella forma e nella sostanza: ma incrollabile e indefettibile: rispettoso, tuttavia delle idee e dei convincimenti altrui. Fortemente attaccato al figlio e ai nipoti: li amava con amore intenso e delicato. Ma era soprattutto un uomo serio e responsabile che sapeva conciliare, in sapiente sintesi, intransigenza e indulgenza, generosità e parsimonia. Lembo Giuseppe:
Patti (ME): Lavinio - Anzio:
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9 ottobre 1910 8 marzo 1999
Commemorazione del Chiesa di S. Giuseppe alle Frattocchie di Marino (Rm) 9 febbraio 2002 A conclusione di questa cerimonia funebre, che ci vede qui riuniti per ricordare il Sig. Angelo Ripa, per rivolgergli l'estremo saluto, per raccomandare la sua anima alla misericordia e alla bontà Divina, vorrei richiamare la comune attenzione su qualche particolare aspetto della sua vita che serva a mantenere, nel nostro cuore, duratura, nel tempo, la sua memoria. Angelo Ripa, è stato un uomo che ha vissuto intensamente la sua vita centrandola, sui due più grandi valori che segnano ogni esperienza umana: la
famiglia, il lavoro.
Ai suoi figli, ai nepoti Egli ha dato tutto il suo bene; la sua benevolenza, l'affetto, l'amore, il consiglio, il conforto. Ha dato tutta la sua ricchezza interiore. E molta ne aveva: perché il Sig. Angelo era uomo buono, fondamentalmente: sereno, festoso. Era una di quelle persone schive e riservate con gli estranei: ma affabile e generoso con i suoi. Sempre disponibile, sempre pronto. Attento ai bisogni, prevedeva le singole necessità. Ma soprattutto non faceva pesare sugli altri le sue pene, le sofferenze, i dolori. Era uomo dolce di carattere e simpatico che si faceva voler bene per la sua semplicità e la generosità. E poi il lavoro. Ha fatto grandi esperienze: in Italia e all'Estero. La sua vita è cominciata lavorando in Italia, nell'edilizia; è proseguita in Francia e si è conclusa qui a Roma dove ha continuato a lavorare attivamente finché le forze gli hanno consentito vita produttiva. Ha provato tutte le pene dell'emigrante: le difficoltà di vivere in un mondo diverso, le incomprensioni, la lingua sconosciuta, il clima, le abitudini, la gente Questa lontananza dall'Italia è durata lunghi anni: una vita non facile, costellata da sofferenze morali e fisiche. Una vita, però, vissuta sempre nella correttezza, nella serietà, nella disponibilità. Il rispetto che aveva verso gli altri gli hanno conciliato ovunque simpatia 35
e affetto. Lo ricorderemo cosi: ottimo padre di famiglia, grande lavoratore: attento, preciso, scrupoloso. Un saluto affettuoso, Signor Angelo: starà sempre nel nostro cuore: con nostalgia e vivissimo rammarico. Angelo Ripa:
Montegrimano (PS): Ospedale di Frascati (RM):
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18 aprile 1909 7 febbraio 2002
Commemorazione del y / s ' r / ^ . //jrs/'/r> Y ^ m r / r / s t / Chiesa Collegiata di Valentano 30 gennaio 2000: ore 10,00 Siamo qui riuniti per ricordare insieme, nel trigesimo della morte, un comune amico che ci ha prematuramente lasciato. Abbiamo perduto un amico qui in terra ma abbiamo un amico di più in Cielo. Io che vi parlo ero legato a Mario Cruciani da vincoli di parentela (era mio zio) ma ancor più da amicizia, da comunanza di ideali religiosi, politici, culturali. E vi confesso che mi sento particolarmente commosso nel prendere la parola, per questa triste circostanza, in questa Chiesa Collegiata, dove abbiamo imparato a vivere la nostra vita cristiana fin da "fanciulli. La prendo, la parola, non per dovere né per convenienza sociale ma per un intimo sentimento di testimonianza, di stima, di affetto, e poi anche per dar voce a quanti Mario hanno conosciuto, gli hanno voluto bene e, al suo fianco, hanno vissuto un esaltante momento della loro vita. Ricordiamo insieme adesso chi era Mario: l'uomo, e cioè, l'uomo di Fede,
l'uomo politico, l'amministratore pubblico, l'uomo di cultura., il padre di famiglia.
Premetto che Mario in tutta la sua vita è stato sempre corretto, coerente, saldo ai principi, disponibile con tutti in ogni momento ma specialmente verso i poveri, i bisognosi. Mario era uno di quegli uomini meravigliosi quali oggi difficilmente si trovano; riuniva in se tutte le migliori doti di intelligenza, di carattere, di moralità, di affabilità. Sapeva conmiscere serietà, raziocinio, umanità ad allegria e festosità esaltando, al momento opportuno, quella "vis comica" che è una caratteristica irrepetibile, intimamente connessa alla civiltà di quanti qui siam nati all'ombra della nostra Torre e del Campanile. Sempre pronto allo scherzo, alla risata schietta ma contemporaneamente serio, riflessivo, capace di profonde e meditate decisioni. Mario era un uomo di Fede: uomo di Chiesa. Era rimasto fermo alle tradizioni cristiane della sua famiglia e del suo paese; testimoniava la sua 37
Fede apertamente, senza infingimenti: cattolico convinto era: praticante, osservante. La sua Fede l'aveva poi motivata e maturata dagli esempi che aveva ricevuti e dagli studi che aveva avviato nel Seminario di Montefiascone che fu, negli anni intorno al 1940, fucina di grandi uomini per cultura, per civiltà superiore, per somma umanità. Mario viveva la politica come momento di sintesi delle attività umane e come personale impegno al servizio della comunità. Era stato Sindaco del nostro Comune per alcuni anni, in un travagliato momento della storia Valentanese quando una fresca e motivata schiera di giovani subentrò ai vecchi amministratori civici, mossa da ideali rigeneratori e da originali proposte innovatrici per l'affermazione dei valori cristiani di giustizia, di libertà, di solidarietà, di fraterno soccorso. Fu Sindaco attento agli affari correnti ma aveva l'occhio proiettato sul futuro che lui seppe prevedere e di cui pose le basi. Suo capolavoro fu l'acquedotto del Fiora che lui volle con tenacia e con instancabile impegno personale. Chi di voi ha superato i 70 anni e si approssima agli 80, ben ricorda i momenti salienti di quella stimolante avventura che convogliò su Mario la simpatia e la gratitudine della nostra Comunità paesana, non solo, ma anche quella di tutti i Comuni dell'estremo lembo settentrionale della Tuscia Viterbese assetata. Mario fu anche ottimo e apprezzato Dirigente nella Pubblica Amministrazione. Fu Direttore della Cassa Mutua dei Coltivatori Diretti di Rieti e di Siena e successivamente Dirigente Amministrativo del Servizio Sanitario Nazionale presso la USL di Siena Centro. Si impegnò molto nel campo sindacale dove ricoprì la carica di Segretario Nazionale CISL Dipendenti Casse Mutue Coldiretti Aveva taglio, caratura e piglio del Dirigente responsabile, capace della programmazione e della verifica di risultati. Sotto la sua guida venivano celermente raggiunti tutti i traguardi che i vari Consigli di Amministrazione proponevano nei loro programmi annuali e pluriennali: il tutto conseguito con il generale consenso e con il plauso degli utenti. Mario era uomo di cultura. Si era laureato in Lettere alla Sapienza dove 38
aveva vissuto la sua esperienza goliardica a contatto con grandi Maestri e nel confronto con tanti giovani provenienti da ogni parte d'Italia. La cultura l'aveva nel sangue; era l'alimento quotidiano della sua esperienza umana e la guida di ogni sua azione. Fu lui che organizzò la prima Scuola Media in Valentano e i suoi alunni ancora viventi ne ricordano la capacità didattica, ne testimoniano la bontà d'animo, ne esaltano l'impegno e la cultura, l'ordine e la disciplina. Fu, inoltre, ottimo scrittore: penna facile, fantasia spigliata, attento ai problemi sociali e agli eventi storici, narratore acuto, suadente, convincente. Il suo stile era semplice ma efficace: arguto, gioviale. Chi ha letto i libri che lui ha pubblicato ne dia testimonianza; chi non l'avesse ancora fatto ne vada alla ricerca e li legga, quei libri, per poterne poi dare un convincente giudizio di merito. Amava in particolar modo il suo ultimo romanzo "Campane e Cannoni" in cui ha descritto gli eventi dell'ultima guerra. Mario era, infine, un ottimo marito e un padre meraviglioso. Lucetta, la moglie, con la quale ha passato la sua vita, pur nel dolore per la perdita collacrimata e insostituibile, ne testimonia l'attaccamento alla famiglia: alla moglie, alle figlie; e l'assoluta e completa dedizione nella loro educazione, nella crescita, nella maturazione. A Lucetta e alle sue figlie va, in questo momento, una grande e profonda parola di condoglianza, di simpatia, di conforto. Mario è stato sepolto nel piccolo Cimitero di Castelmuzio, nel Comune di Pienza (Siena). Chi da quelle parti passasse, allunghi il suo cammino e si rechi sulla sua tomba a portare un fiore e a dire una preghiera. E una preghiera diciamo insieme noi adesso per la pace eterna di Mario: perché di lassù protegga i suoi cari e vigili sulle sorti della nostra Comunità paesana cui lui è stato sempre intimamente e fraternamente legato. Mario Cruciani:
Valentano: Siena:
21 ottobre 1925 26 dicembre 1999 39
Commemorazione del i X n s / t rst / r r ^ s ' f / r /V/sé / Funerale nella Basilica Cattedrale ~ Montefiascone 7 novembre 2001: ore 11,00 Amici carissimi: fratelli e sorelle in Cristo Gesù. Non vi nascondo il mio disagio e la mia profonda emozione nel ricordare qui, insieme a tutti voi, la figura di Don Domenico. Disagio ed emozione profonda perché Don Domenico non solo è stato il mio vero, primo, grande maestro di vita, di Fede, di civiltà, di cultura, ma anche (e forse soprattutto) perché era mio zio materno; l'ultimo della generazione di quel ramo della famiglia Valentanese dei Cruciani che va sotto il "cognomen" di Maccarano: ultimo di quella generazione, appunto, che numerosa nacque tra la fine del secolo decimonono e i primi del ventesimo: ultimo, che il 6 novembre 2001, a 88 anni, ha lasciato questa terra per il Paradiso: lasciando me, che vi parlo, maximus natu, in prima fila, fra quanti siamo gli eredi naturali di quella vecchia generazione. Con Don Domenico se ne è andato l'ultimo membro di quella sua famiglia carnale; ma se ne è andata anche una buona parte di noi tutti che siamo riuniti per questo estremo saluto: quella parte di noi che è la più nobile perché fondata sull'amicizia, sulla spiritualità, sulla cultura; perché ancorata a quei valori antichi, indelebili su cui i nostri avi fondarono la loro vita e su cui incamminarono la nostra: la Fede in Dio, la famiglia, il lavoro, la fratellanza, la solidarietà. Ho un certo rammarico perché Don Domenico ci ha lasciato vivendo gli ultimi suoi anni non più in mezzo a noi ma lontano di qui, quasi in terra straniera; in quel delizioso complesso architettonico che costruì, in Collevalenza, Madre Speranza, di Santa memoria, che volle riservare, nella sua grande generosità e in profonda spiritualità, un angolo di pace e di serenità, in quella sua struttura, ai sacerdoti anziani. Lì Don Domenico si è trovato bene, ospite gradito, perché assistito e confortato con fraterno amore sacerdotale dal Direttore di quella casa, Padre 41
Franco, dal sorriso delle Suore, dalla generosità degli infermieri, dalla presenza costante della Dottoressa che ha vigilato, con professionalità e squisita umanità, sulla sua salute e sul benessere. A •f
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Don Domenico aveva, però, il suo cuore a Montefiascone: i luoghi dove lui aveva passato la sua vita, le persone che avevano rallegrato la sua esistenza: quelle, cui lui aveva donato la sua ricchezza spirituale, e dalle quali aveva ricevuto, in contraccambio, altrettanta ricchezza di fraternità, di solidarietà, di generosa fratellanza, di amicizia. Io che spesso andavo lassù a fargli visita, a Collevalenza, e che più spesso ancora con lui conversavo al telefono, sentivo quel suo struggente desiderio del Lago e la sua mancanza; ma senza rimpianti, senza recriminazioni, perché a Collevalenza lui stava bene, si trovava bene, aveva raggiunto uno stato di tranquilla serenità in un ambiente amichevolmente accogliente. A t\ ijj
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Don Domenico aveva in fondo al cuore tre grandi ideali, tre grandi esperienze, tre suggestivi ricordi: la Parrocchia, il Seminario, l'Ospedale. Giovane Sacerdote, fu Parroco a Montefiascone, alle Grazie, dove visse, insieme alla sua gente, gli anni difficili della guerra: le sofferenze, le paure, la morte: lui sempre pronto a correre, a portare una parola di conforto, di speranza nelle famiglie visitate dal dolore e dal lutto. Fu Parroco anche a Grotte di Castro dove passò alcuni anni in un'esaltante esperienza di apostolato e di fraternità. La sua più grande esperienza umana e sacerdotale la visse, però, nel Seminario Diocesano, in mezzo ai giovani, dove lasciò il suo cuore insieme ad un solco indelebile del suo passaggio. Qui, in Seminario, fu, ancor giovane e studente di Teologia, Prefetto dei giovani, e poi Sacerdote - Professore di lettere. 42
Qui insegnò a tanti giovani, che poi la vita destinò Chierici o Laici, a pensare, ad esprimersi, a parlare, a scrivere traendo fuori, ciascuno, dal suo intimo, tutte quelle potenzialità di cui la natura lo aveva più o meno generosamente dotato. In questa sua poliennale e proficua attività di docente, seppe esprimere il meglio di sé stesso: uomo colto, trasmise ai giovani l'amore della cultura; sacerdote di grande spiritualità, fece apprezzare i valori della Fede; uomo saggio e prudente, creò intorno a sé simpatia, affetto, consonanza di sentimenti proponendosi come modello di Sacerdote integerrimo, come uomo affidabile e disponibile. Oggi, buona parte dei Sacerdoti Viterbesi e tanti Laici impegnati nelle attività ecclesiali, amministrative e lavorative, piangono in Don Domenico il loro Maestro, lo ricordano con affetto e non nascosta simpatia. Don Domenico fu anche, per lunghi anni Cappellano dell'Ospedale. Viveva notte e giorno tra i malati portando a tutti una parola di conforto, somministrando i Sacramenti: partecipe della comune sofferenza. Era per tutti: pazienti, visitatori, personale medico e amministrativo, l'uomo della Fede, l'uomo di Dio: colui che, con la sola sua presenza, creava momenti di spiritualità, di preghiera, di speranza. a
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Ma chi era Don Domenico, nella sua intimità più profonda? Non è facile dare una definizione sintetica, onnicomprensiva, di un Uomo~Sacerdote che aveva una personalità, sì, complessa: facile, tuttavia, e semplice a leggersi. Sostanzialmente era un uomo buono. Buono per costituzione, per carattere, per educazione: buono nel suo intimo più profondo: incapace perfino di pensare il male: sempre pronto a comprendere e giustificare le azioni altrui, a perdonare: facile a dimenticare, mai odioso: spesso sorridente, ancor più spesso festoso: amico di tutti e con tutti affabile, cortese, cordiale spargeva intorno a sé serenità, gioia, allegrezza. Buono soprattutto perché ha saputo felicemente innestare sulle doti innate, quelle del Sacerdote, animato da spiritualità 43
profonda che lo rendeva uomo di Dio. E così lo ricorderemo. Don Domenico: l'uomo buono; il Sacerdote integerrimo. Dormi in pace, zio Don Domenico; dormi in pace, professor Cruciani: ti avremo sempre nel cuore. Don Domenico Cruciani: Valentano: 1 marzo 1912 Collevalenza - Todi (PG): 6 novembre 2001
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Ricordo di ,/ f l ' f j v s i à . - / y s t / r s é / r / Seminario di Montefiascone Salone delle Feste: 24 agosto 2002 Assemblea generale dellAssociazione degli Ex - Alunni Don Antonio, il nostro carissimo amico, se ne andato il giorno 29.03.2002 a Grotte di Castro, là dove lui era nato il 26.10.1921 da Francesco e da Nicolai Capitolina; se ne andato nella discrezione e nel silenzio: come era la sua abitudine e il suo stile. Ha passato gli ultimi anni della sua vita nella sofferenza e nella solitudine: confortato, però, dalla consapevolezza del bene che aveva fatto per tanti anni nei luoghi dove aveva lavorato e tra le persone che lo avevano frequentato. Commemorarlo, in questo momento, davanti a voi e insieme a voi che lo avete conosciuto e gli avete voluto bene, non mi è facile perché il cuore si commuove e l'intelligenza rivela la sua impotenza nel dover sintetizzare, in pochi minuti, l'opera di tutta una vita. Con Don Antonio se ne andata una parte della vita di noi tutti, quanti fummo suoi compagni di scuola circa 60 anni or sono: rattristati dalla considerazione che anche la nostra vita corre ormai veloce verso l'epilogo. »'»
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E adesso ricordiamo insieme alcuni momenti della sua vita e qualche particolare aspetto della sua personalità. Richiamiamo alla memoria, anzitutto, il nostro amico defunto: facciamolo anche noi sommessamente e raccomandiamolo con una calda preghiera alla misericordia del Creatore perché lo accolga nel suo regno di luce e di serenità. Ma chi era Don Antonio? Dirò anzitutto che la sua vita era una continua sorpresa per noi suoi 45
amici: spesso imprevedibile, raramente ripetitivo. Una personalità semplice era la sua, ma con frequenti picchi di originalità. Ci lasciava spesso ammirati per la saggezza e la prudenza: ci confortava con il tuo esempio e si faceva leggere dentro con facilità. Dirò anche che fu il primo Prete moderno che io ho conosciuto. Fu, cioè, il primo di quei Preti che smise di vivere tra Chiesa, Sacrestia e Canonica; uscì in Piazza, sedette al bar colloquiando con tutti ed entrando (spesso non chiamato) nelle case là dove c'era bisogno dell'opera sua Sacerdotale. E, cioè ancora, lui interpretò il suo ruolo di Sacerdote non solo nella funzione Sacramentale ovvero in funzione quasi ~ direi ~ statica; ma anche (e forse soprattutto), la gestì in funzione dinamica, come missione di vita in favore dei bisognosi e dei sofferenti. Là dove c'era una sofferenza sia morale che materiale, Don Antonio era presente: con la sua parola affettuosa e suadente ma anche con il soccorso economico. Perché lui era una di quelle poche persone che non apprezzava il denaro: e per far del bene spendeva imperterrito ogni sua disponibilità: "Il denaro ~ soleva dire ~ è merce del diavolo: e meno ne abbiamo in tasca, più ci sentiamo vicini al Signore", lo ricordo che, non poche volte , suo padre corse a ripianare, con i suoi piccoli risparmi di coltivatore diretto, certe sofferenze economiche del figlio. Mi piace soffermarmi adesso su due particolari momenti della sua vita:
il Rettore del Seminario, il Parroco.
Fu per molti anni Rettore di Montefiascone e formò una nutrita schiera di Sacerdoti ancor oggi operanti al Servizio delle Comunità Ecclesiali, guidandoli nella loro formazione morale e culturale e aiutandoli a fare, con saggezza e prudenza, le loro scelte per la vita. Fu anche Parroco: e Parroco fuori dagli schemi comuni! A Marta, a Valentano e ad Acquapendente ha lasciato ricordi indelebili ma soprattutto simpatia e affetto per la sua grande umanità. Era l'animatore di tutte le attività religiose e sociali: viveva da vicino (con lo stimolo, col conforto, col paterno rimprovero quando necessario) le attività politiche e culturali dei Cattolici impegnati nelle amministrazioni locali e tutti spronava ad un impegno 46
continuo nella partecipazione attiva e nella correttezza. Aveva nel sangue la malattia del rinnovatore: le Comunità ecclesiali di Marta, di Valentano e di Acquapendente sotto di lui svecchiarono le tradizionali abitudini e si aprirono ad una concezione moderna della vita cristiana. Oggetto delle sue particolari attenzioni furono i ragazzi: li seguiva nella scuola e negli studi, ne curava la formazione religiosa e, quando possibile, li avviava agli studi nel Seminario perché lì saggiassero la loro vocazione al Sacerdozio. Quando lui, ogni pomeriggio, usciva di casa per la quotidiana passeggiata, era sempre circondato da una nutrita schiera di ragazzi che costituivano il premio più prezioso del suo Sacerdozio. Aveva per loro larghe vedute e progetti di vasto respiro: i campeggi estivi, ad esempio, che lui organizzò per alcuni anni in Bolsena in favore dei Chierichetti stanno ancora a testimoniare la sua lungimiranza. •Don Antonio era anche uomo di cultura. Ottimo studente in gioventù, amante dei libri e lettore assiduo, era sempre aggiornato su quanto Religione, Politica e Letteratura producevano nel campo dell'informazione. Era ottimo oratore: le sue prediche, semplici nella loro struttura ma ricche di contenuti morali e di riferimenti culturali, erano sempre finalizzate a proporre un modello di vita cristiana convinta e coerente. E che dire della musica? Amava tutti i generi di musica: quella classica, quella sinfonica.... ma anche le canzonette! Dovunque è andato ha creato la Schola Cantorum: cori polifonici e strumentali che allietavano e deliziavano tutte le cerimonie religiose. La Schola Cantorum della Cattedrale di Montefiascone fu il suo capolavoro non solo per la precisione delle esecuzioni e per il numero dei componenti ma soprattutto per la varietà del repertorio. Quello fu il suo grande orgoglio di Direttore con la bacchetta in mano. I servizi ecclesiali di quella Schola nelle grandi solennità liturgiche destavano ammirazione e facilitavano il colloquio con Dio. Essa si affermò nel campo dei concerti acquistando notorietà in campo regionale e nazionale con ampio repertorio di musica sacra e operistica. 47
Ed infine, Don Antonio era anche un uomo gioviale: aveva certamente anche lui i suoi momenti di tristezza e di sofferenza ma la sua risata aperta, cordiale, spesso fragorosa era coinvolgente e contagiosa. Noi, membri dell'Associazione degli ex-alunni del Seminario, sentiamo in questo momento il dovere particolare di ricordarlo perché fu il primo Assistente dell'Associazione ed uno dei suoi più attivi organizzatori. Ho finito. Molte altre cose bisognerebbe dire per mandare alla Storia il ricordo e la memoria di Don Antonio: poche io ne ho dette a testimonianza dell'amicizia e della consonanza di idee che ci affratellava. Le altre, ditele voi: nel vostro intimo, nella vostra sensibilità. E tutti insieme ringraziamo il Signore che ci ha dato per compagno nel viaggio della nostra vita terrena, un tanto Sacerdote: degno, mirabile, straordinario. Don Antonio Patrizi:
Grotte di Castro: Grotte di Castro:
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26 ottobre 1921 29 marzo 2002