COMUNE DI CENTOLA
ASS. PROGETTO CENTOLA
PALINURO: RACCONTI DI GENTE DI MARE Maria Luisa Amendola e Ezio Martuscelli
EDITO DALL’ASSOCIAZIONE PROGETTO CENTOLA
ELOGIO DI PALINURO Ricordo che la primavera arrivava all’improvviso dal mare, un qualche giorno di marzo della metà degli anni Cinquanta, e sapeva di lentischio e ginestra, ma aveva anche una intensa venatura salmastra che ti avvolgeva con l’esuberanza della brezza marina. Aveva le dita rosate dell’aurora la primavera, ma portava con sé, in un impasto di cui non so dire la composizione, anche una luce verde-blu, rapita alle profondità marine. Fiorivano i limoni negli orti sul mare, le quaglie si acquattavano sui cigli erbosi della scogliera, oggi erosi dal cemento, e sfrecciavano nell’ azzurro del cielo brigate multicolori di passeri, cardellini, verdoni, che noi “scugnizzi” acchiappavamo con i “piritangoli”, trappole arcaiche che sistemavamo sulle “spatelle” più alte dei fichidindia, schierati allora come sentinelle a difendere, con gli agavi giganti, le poche case dei pescatori dagli umori del mare aperto. Poi la primavera si ammalò, si fece silenziosa dapprima, e in un breve volgere di tempo scomparve. Molti anni dopo capii che gli uomini l’avevano uccisa. Ma io avevo fatto in tempo a carpirne il segreto, e a vivere il prodigio di un tempo in cui la terra ancora cantava e con essa la vita vibrava. Qui, per me, è il giardino che cerchiamo sempre e inutilmente dopo i luoghi perfetti dell’infanzia come scrive Quasimodo. E che mi accorgo di inseguire ogni volta che torno a Palinuro. Dove, sospesa sopra gli abissi del mare, ritrovo la memoria tangibile di quella voce portentosa che mi scaturì dentro nel momento stesso in cui si forgiò per me la vita e vi fece irruzione la coscienza, che mi sussurrava: tutto, tutto, Raffaele, è un immenso Oceano d’amore. Più tardi compresi che ad entrambe, alla mia vita e alla mia coscienza, aveva fatto da levatrice il mare, con la sua presenza continua e sconfinata, familiare e impenetrabile, come la Grande Madre dei miti antichi, sapienza del paganesimo, che abita ancora il precipizio aereo e gli abissi liquidi del Frontone o le calette più nascoste, dove continuo a inseguire la danza vaporosa delle ninfe e il canto malinconico delle sirene. Quelle creature, intermedie tra l’umano e il divino, che sono le prime interpreti della bellezza carnale delle cose. Palinuro è, in sé, un’esperienza di rivelazione. Basta salire sulla Molpa, in un giorno di maggio, per accorgersene. Seguire il cammino che parte dagli ulivi giganti della piana di Mingardo, e ritrovarsi d’improvviso abbacinati sull’orlo di una delle terrazze naturali più straordinarie al mondo, che si spalanca vertiginosamente sotto i tuoi piedi e ti proietta nell’infinito del mare e del cielo fino all’orizzonte, e oltre. Ricordo l’emozione che mi travolse la prima volta che arrivai lassù. Un’emozione enorme, come la sensazione di fondersi nell’universo, di travasarsi letteralmente nel mondo mentre il mondo prende possesso e dilaga dentro di te. In un attimo, non sai più se quello sconfinato lago di luce in cui annegano mare e cielo, o se la roccia d’argento del Coniglio, e la stessa falesia dolomitica che precipita sotto i tuoi piedi e si schianta su una manciata di piccole spiagge dorate stiano proprio lì, di fronte a te, o non si producano invece dentro te stesso. Come una visione. Qui, dagli spalti selvaggi della Molpa, tra i poveri resti del borgo da cui nacque Centola, si spalanca una visione panica, che abbraccia tutta la Realtà, e che Raimon Panikkar chiamò cosmoteandrica, dove Dio, Uomo e Cosmo con-vivono in un’armonia costitutiva e irriducibile. La poetessa americana Jorie Graham l’ha chiamata “enormità dell’esperienza”, perché capace di cogliere il respiro comune alla totalità della vita: da quella della materia che si intreccia con quella delle piante e degli animali, a quella della storia umana che interseca la vastità delle ere geologiche. Ed è proprio questa “enormità dell’esperienza” che si fa tangibile a Palinuro, con l’incantesimo della poesia. Ma ricordo un altro momento perfetto, vissuto a cavalcioni sul precipizio della Molpa. Si era al tramonto, e sembrava che quella sera il sole avesse deciso di suicidarsi. Il suo sangue rosso fuoco era sparso dovunque nell’immensità circostante, sul mare, in cielo, sul Cilento e su di me. E tutto era assorto, come sospeso in un silenzio profondissimo. In quell’istante ebbi la sensazione di partecipare a una liturgia cosmica, e fui folgorato dalla percezione che la Creazione si stesse compiendo assieme a me e per me. E mi sentii immediatamente portato e sopraffatto da un’armonia grandiosa, turbinante,
come quella, travolgente ed espansiva, che ti possiede nella Terza sinfonia di Mahler. Divina luce mediterranea, insieme apollinea e dionisiaca, che ha turbato tanti cercatori nordici d’infinito di fronte al suo prodigio che nasconde e svela profondità abissali. E a Palinuro cogli quasi con mano quanto sia vero che la profondità si renda visibile dalla superficie e come in essa sia tutta ricapitolata. Come ho appreso in quelle ore benedette passate a inseguire, lungo gli strapiombi sommersi delle cale del Frontone, i fasci di luce che si avvitano ruotando verso un fondo che si allontana sempre, armato di una maschera e di un pugnale. Mi sembrava di regnare sulla vita e sul mare, con una forza misteriosa che respiravo direttamente dalle cose e che mi ha aiutato a vivere e a vincere tante avversità. E da quella prima giovinezza, trascorsa in un segreto di luce e in una povertà calorosa, non sono più guarito. In quei riti solitari ho imparato che la profondità e il senso d’infinitudine di cui sono fatte le cose non annegano nella romantica informalità del dionisiaco, ma che, al contrario, in quella sorta di naufragio nella luce che allora compivo, profondità e infinitudine emergono e si rivelavano precisamente nella superficie, ossia in quell’incantesimo apollineo della misura, nell’armonia dei limiti in cui consiste la grandezza dell’arte classica e rinascimentale. Di quell’arte classica, greco-romana, che risuona, ad esempio, nella mirabile scansione malinconica del verso virgiliano quando scolpisce la morte di Palinuro, nei canti V e VI dell’Eneide. Altissimo esempio, l’episodio del fedele nocchiero di Enea, gettato in mare in una notte serena colma di stelle da un dio maligno, di quella poetica del dolore, già in qualche modo precristiana, che ha lasciato un’impronta indelebile in questa costa e che i pescatori di Palinuro conoscono bene. E proprio il senso del limite, è il dono più grande che la civiltà greca ( che vedeva nell’“hybris”, nella superbia, il peccato peggiore) e quella ebraica e biblica hanno donato al Mediterraneo e al mondo. Lo ricordo qui, perché questi valori, pur se del tutto incogniti, rimangono alla base delle nostre radici culturali Ma torniamo alla bellezza sovrana di Palinuro. Una bellezza che ti ferisce; e da questa ferita, che si fa feritoia, senti dilagare il divino in un’eccedenza che ti esalta e ti atterrisce nello stesso tempo. E’ il “fascinans” e il “ dum” di cui parla Rudolph Otto a proposito del sacro. “Fascinans” è tutto quello che abbiamo evocato finora. Ma la bellezza –canta Rilke- è soltanto l’inizio del do; il bello cioè ha due anime, una luminosa e una opaca, e spesso il “fascinans” si muta in “tremdendum”. Un “ dum”che qui a Palinuro si traduce nello scontro furioso, tra un cielo e un mare lividi, diventati un medesimo micidiale amalgama, che copre l’intero orizzonte, squassato da muraglioni neri, orlati di feroce schiuma bianca, che tutto distruggono, di giorno e di notte, e di cui, con pacificato terrore, ci parlano ancora i tanti ex-voto che impreziosiscono la meravigliosa chiesina di sant’Antonio, sul porto. Di questa eccedenza del divino ho avuto il primo sentore –non avevo tre anni- alla Ficocella. Ero in braccio a mia madre e tenevo i piedi nell’acqua, dove, accanto a noi, una madre di pescatori, vestita di tutto punto con quelle gonne ampie a pieghe e la testa coperta dall’immancabile scialle, aveva steso dell’olio e gettato una pezza bianca tra gli scogli del piccolo fondo, e d’improvviso un polpo abboccò e fu gettato dalla vecchia, con sorprendente prontezza, nel cestino che aveva al braccio. Tutto questo avvenne nella trasognata trasparenza del mare, così puro da ridursi a un velo di cristallo, e nella luce dolce e limpida del cielo, dove il sole aveva sgranato una miriade di scintille impalpabili. Un momento perfetto, in cui senti il tempo e l’eterno intrecciare il loro ritmo, e dove quasi avverti i mille legami che uniscono il visibile all’invisibile. Del resto, non abita lo Spirito i luoghi dove la vita celebra la sua liturgia quotidiana e perenne? ROMA, 23/02/2013
RAFFAELE LUISE
PREFAZIONE Gli autori del presente volume sono tra i fondatori dell’Associazione Progetto Centola, costituitasi formalmente nel mese di luglio 2010. Nell’ambito di quest’Associazione culturale Ezio Martuscelli riveste la carica di Presidente e Maria Luisa Amendola è membro del Consiglio Direttivo con l’incarico di rappresentante di Palinuro. Tra gli obiettivi del Progetto Centola rientra quello di ricostruire la storia culturale e sociale di Centola e delle sue frazioni (Foria, Palinuro, San Nicola e San Severino) attraverso una capillare operazione basata essenzialmente sul recupero di testimonianze derivanti da una rigorosa e dettagliata scelta di fotografie e documenti messi a disposizione da molte famiglie residenti nel Comune. In particolare, nel presente volume sono raccolte storie relative a persone anziane di Palinuro che in gioventù hanno praticato con successo e sacrifici la pesca, attività quest’ultima che rappresentava, insieme all’agricoltura, la principale fonte di sostentamento per molte famiglie del luogo. Il libro, “PALINURO: STORIE DI GENTE DI MARE” vuole essere un tributo e un riconoscimento al coraggio, alla professionalità, alla bravura e all’attaccamento dei palinuresi alla loro terra e all’attività della pesca, sempre espletata nel rispetto della natura, dell’ambiente e del mare meraviglioso che lambisce le coste del Cilento. Le storie riportate sono il frutto del lavoro di raccolta effettuato da Maria Luisa Amendola, che ha registrato fedelmente la narrazione di episodi e fatti, raccontati da familiari di pescatori che non ci sono più e da persone anziane che rivivono, nel ricordo, il tempo vissuto sul mare. Dal racconto di ciascuno emerge una comune considerazione: < la vita di allora, sebbene dura perché economicamente precaria e sacrificata, scorreva in un clima di semplicità e serenità che tutti ora sembrano rimpiangere >.
Vista di Palinuro e delle sue spiagge (anni 1940).
INTRODUZIONE Sulla costa cilentana, fra punta Licosa e punta Infreschi, nell’azzurro cristallino del mare, si allunga un promontorio che visto dall’alto, sembra un grosso cetaceo. E’ attaccato alla terraferma all’altezza della collinetta di Piano Faracchio, alla cui base, lato est sfocia il fiume Lambro, sulla spiaggia della Marinella, e, a ovest, il promontorio digrada dolcemente, finendo con la spiaggia del Porto e della Ficocella. La felice posizione geografica fa di questa terra uno dei luoghi più belli d’Italia. Virgilio volle che si chiamasse Palinuro! Veramente venne Virgilio, intorno al 49 a C, in questa zona e ne fu incantato come lo furono gli antichi greci? E’ probabile! Si è portati a crederlo, perché non poteva sfuggire, alla sensibilità di un poeta, la bellezza di una natura tanto particolare. Così Virgilio: “Aeternumque locus Palinuri nomen habebit” (V libro Eneide). Questa citazione letteraria, raccontata per secoli, da una generazione all’altra, ha segnato tanto l’animo dei palinuresi, che la leggenda ha assunto quasi il valore e il sapore di un fatto vero. Gli abitanti del piccolo borgo marinaro che prese il nome di Palinuro dallo sfortunato nocchiero troiano, erano gente semplice, dedita soprattutto alla pesca; solo quando il mare era agitato, lavoravano la terra. Da notizie più remote, si sa che gli abitanti di Palinuro, con le loro barche a vela o a remi, non si spostavano di molto: raggiungevano le spiagge vicine di Elea (Velia), Pisciotta e Caprioli a Nord, e Marina di Camerota a Sud. La loro attività quotidiana di pesca era limitata lungo la scogliera delle Saline e lungo la costa di Capo Palinuro, fino a “Baddurmino”, odierno Buondormire. Raccogliendo testimonianze da qualche pescatore più anziano, si è cercata di ricostruire la vita dei Palinuresi dalla fine del secolo XIX alla prima metà del secolo XX. Non era certo una vita facile, perché si pescava in condizioni tutt’altro che comode e sicure: non si possedeva nessuno strumento per la navigazione, l’unico punto di riferimento, di notte, era il faro, che funzionava ad acetilene. Più al largo, in mare, ci si orientava solo guardando le stelle che erano bussola e orologio. Dalla fine del 1800 fino a circa il 1915-1920, la pesca era praticata in modo molto primitivo. Di notte si pescava con piccoli gozzi provvisti di lume ad acetilene; di giorno, dagli scogli, con ami, coppi e “u lanzaturu” (fiocina). L’esca era “a trimmulina” (piccoli vermi dal colore rosato, che si trova sotto la sabbia in riva al mare), un po’ di formaggio, impastato con mollica di pane o ancora, qualche resto di pesce prima pescato. I polipi erano pescati quando il mare era calmo e si procedeva versando un poco di olio sull’acqua in prossimità di scogli, dove c’erano dei buchi, delle fessure, in cui i molluschi vivevano. L’olio “stennia” l’acqua, cioè ne appiattiva la superficie, rendendo visibile il fondo. La capacità del pescatore faceva il resto: costui doveva essere velocissimo e di mano ferma nell’infilzare il polipo appena lo avvistava. Sugli scogli era trovata anche un’erba medicamentosa “a simintella”, dall’odore
molto penetrante, con cui si faceva un infuso, molto efficace per pulire l‘intestino da ossiuri e tenie. La “critima” poi era ed è un’erba molto aromatica e dal sapore forte, tuttora usata per insalata, che stimola la digestione e combatte l’acidità di stomaco. Quest’erba si trova lungo la roccia di Capo Palinuro ma è soprattutto buona e richiesta quella che vegeta sullo scoglio del Coniglio, di fronte alla Marinella. Qui di seguito, attraverso documenti, interviste e foto d’epoca gli Autori hanno cercato di ricostruire episodi di vita vissuta, aneddoti, fatti, storie e leggende, relative essenzialmente all’attività della pesca, di un numero espressivo di pescatori di Palinuro che hanno speso buona parte della loro vita sul mare, e questo quando la pesca rappresentava la principale risorsa per la maggiore parte delle famiglie di Palinuro. Le testimonianze (dirette e indirette) raccolte, insieme alla produzione di un’importante collezione iconografica, che riguarda sia le famiglie sia l’ambiente e il territorio, permettono di ricomporre e tracciare le profonde trasformazioni che hanno riguardato, tra gli anni della fine della prima guerra mondiale e gli anni 1960-70, gli aspetti sociali, economici e culturali di Palinuro e della sua “Gente di Mare”.
Palinuro, anni 1940, piazza Virgilio angolo via Indipendenza.
ANTONIO AMENDOLA (insegnante-pescatore) Antonio Amendola, figlio di Alfonso e di Vincenzina Finamore, nato a Palinuro il 5/11/1930, fin da ragazzo, sentì forte la passione per il mare e, ancora oggi, all’età di 82 anni, la coltiva. Infatti, pur risiedendo a Roccagloriosa, luogo di origine degli avi materni e sua sede d’insegnamento, da quando ha finito la sua carriera, vive per lunghi periodi dell’anno, nella sua casa al Porto di Palinuro. Con la sua barca, insieme alla moglie Antonietta Capobianco e a qualche amico, passa intere mattinate sul mare. Pesca con le coffe, con le lenze o a traino. Pescare, solcare l’acqua azzurra di Palinuro, col motore al minimo o fenderla con i remi, non è per lui un hobby ma un piacere grandissimo: è provare un senso di libertà, un sollievo al fastidio che procurano la confusione e la corsa della vita moderna. Sin da quando era studente, s’interessava alla vita di mare, quindi cominciò a seguire le vicende dell’industria della pesca iniziata dal nonno Vincenzo e poi continuata da suo padre Alfonso e dallo zio Nicola. A tal proposito racconta: < Avevo 19 anni e frequentavo il liceo, quando seppi che mio padre insieme al fratello Nicola e al socio Francesco Di Fiore, avevano deciso di montare sulla loro barca, il cianciolo S. Pietro, un motore più grande e quindi più potente. Per fare ciò, bisognava andare a Napoli per prendere un motopeschereccio, il S. Giuseppina, portarlo a Salerno, dove era in attesa il S. Pietro e lì fare lo scambio dei motori. Io, che ero studente liceale in quella città, volli partecipare all‘impresa. In un pomeriggio del mese di febbraio del 1949 partimmo da Napoli diretti a Salerno. Sul S. Giuseppina con me, oltre al motorista Giacomo Belonoskin, c’erano quattro pescatori venuti da Palinuro: Tommaso De Luca, Aniello Romano, Aniello Scarpati e Mauro Calembo. Navigammo spediti fino a Sorrento; poi cominciò a levarsi il vento di scirocco che rallentò molto la nostra andatura: lo avevamo a prua, contrario alla nostra rotta! Arrivati davanti a Positano, vicino all’isola Li Galli, cambiò il vento e infuriò una tempesta fortissima. Non vedevamo le luci dei paesi della costiera, perché era andata via la corrente a causa dei fulmini; non ci orientavamo più in quell’inferno di lampi e tuoni. A bordo nessuno parlava! Eravamo sballottati, impossibilitati a muoverci. D’improvviso, un’onda altissima sollevò il S. Giuseppina e ci trovammo su di una spiaggia. L’urto fu così forte che il motore saltò dal basamento e si spense. Era buio totale! Non sapevamo dove eravamo finiti. Dopo un poco si riaccesero le luci e arrivò in nostro soccorso la guardia di finanza, e così sapemmo che ci eravamo arenati a Positano. Fummo portati in un locale - la buca di Bacco – dove trovammo persone gentilissime che ci accolsero e ci rifocillarono. La mattina seguente, una motovedetta della Capitaneria di porto ci rimorchiò fino a Salerno, dove il motore del S. Giuseppina fu trasferito sul S. Pietro. Dopo qualche
giorno, ritornammo a Palinuro. Ogni tempesta finisce. Era arrivata la primavera e quindi la stagione della pesca che, in quell’anno, fu molto abbondante >. Le lampare furono sostituite dai ciancioli, comparsi in questa zona nella prima metà del ‘900. Il primo cianciolo portato a Palinuro fu il S. Giacomo, comprato in Sicilia da Vincenzo Amendola, ma, dopo pochi anni, fu rivenduto e sostituito da un altro cianciolo, il S. Pietro, più grande e meglio attrezzato. Anche altri imprenditori del luogo comprarono motopescherecci attrezzati a ciancioli: Antonio Rinaldi il “Marco Polo”, Giacomo Polito gestiva il “Pappagallo” di un certo Frangione da Ascea. Antonio Amendola così continua: < Il cianciolo era una rete a piccole maglie (circa un centimetro) lunga 300 metri, che terminava col “ cappuccino“, rete molto più doppia, dove finivano le alici. Sul fondo della rete vi erano i piombi e a intervalli, degli anelli di bronzo, attraverso i quali passava un cavo di acciaio che, tirato, faceva chiudere la rete imprigionando le alici. Con il “ verricello “ si tirava la rete sotto la fiancata del motopeschereccio e si procedeva al recupero del pescato con il “ retino “, grosso coppo fatto con una rete molto robusta, tanto da poter contenere oltre 50 chilogrammi di pesce. Il retino era afferrato da un gancio, appeso a una fune che era legata allo“sbirro” (albero alla cui estremità era posta una carrucola - azionata dal motore – su cui scorreva la corda del retino). Il S. Pietro, dotato di un’esperta ciurma di pescatori e di un’ottima rete, si distinse, all’epoca, per l’abbondante pesca di pesce azzurro. La pesca del pesce azzurro si fa di notte, dalla sera al mattino. Perciò il motopeschereccio partiva, al tramonto, rimorchiando tre gozzi a remi, ciascuno dei quali aveva, a poppa, un lume alimentato a gas di petrolio, che sprigionava una luce pari a diecimila candele, prodotta dall’accensione di otto calzini di seta, fragilissimi. Arrivato al largo, il S. Pietro mollava le cime e i tre gozzi prendevano posto sul mare, a una distanza di circa 500/600 metri l’uno dall’altro. I lumisti (così erano chiamati i pescatori dei gozzi col lume ) erano: Luigi Sacco “U ndringhete “, Tommaso De Luca “Machillo”, Emilio Pepoli “Ddemiliu”. Aniello Romano “ U Pollino “ invece era addetto alla “ lanza “ (piccola barca) che andava da un lumista all’altro per vedere se erano “ assumate alici sott’a u lumu “ (venute a galla alici sotto la luce del lume). Se le alici c’erano, il Pollino, remando piano per non spaventare la “compagna“ (il branco) di pesce, andava a riferire al capobarca quale dei tre lumisti segnalava la presenza delle alici, sotto la luce del suo lume. A questo punto il motopeschereccio era diretto verso il lumista indicato, mentre il capobarca preparava, insieme alla ciurma, “il vuolo” da eseguire. “Il Pollino“ prendeva la stazza, cioè manteneva l’inizio della rete, fermandosi nel punto dove cominciava a essere immersa, e Amodio Sacco o Aniello Scarpati “facevano il vuolo” (immersione della rete) intorno al gozzo che aveva i pesci sotto il lume. Non era facile fare il “ vuolo “, perché bisognava tener conto delle correnti e orientare la rete in modo che non fosse trascinata sotto il motopeschereccio. Amodio e Aniello erano i più esperti nel fare con la rete un cerchio quasi perfetto al centro del quale restava il gozzo con il lumista. Era uno spettacolo veramente straordinario, emozionante, vedere guizzare nell’acqua rischiarata dal lume una massa enorme di alici impazzite che mostravano il loro dorso argento e
blu in un moto frenetico. L’annuncio dell’abbondante pesca era dato col suono della “tufa” (conchiglia alla cui base era stato praticato un foro), in cui un pescatore soffiava energicamente La tufa emetteva un suono tanto forte e profondo da sentirsi a notevole distanza. Era consuetudine avere a bordo del cianciolo una bacinella di lamiera, “a bagnarola”, col fondo pieno di pietre pomici, su cui si accendevano i carboni per arrostire le alici della prima pescata. Io che ho avuto la fortuna di assaggiarle posso affermare che erano di un sapore unico, perché venivano arrostite, appena pescate, senza essere sventrate e senza essere lavate con acqua dolce; quindi conservavano tutto il sapore del mare >. < C’è da dire che fino alla metà del secolo scorso il mare di Palinuro era ricchissimo non solo di pesce azzurro, ma di ogni specie di pesce pregiato. Ricordo che, dopo aver conseguito la licenza ginnasiale, i miei genitori mi regalarono un fucile e una maschera per la pesca subacquea: quel regalo fu ed è stato il dono più gradito che abbia ricevuto nella mia vita! Era il primo fucile per la pesca subacquea che arrivava a Palinuro. Ero ragazzo: sognavo avventure; desideravo scoprire; volevo sapere ciò che nascondeva la lunga scogliera sommersa che va dal porto di Palinuro a Caprioli. E con la maschera e il fucile cominciai a farlo in giovane età. Era per me un divertimento bellissimo osservare gli scogli sommersi, ricchi di vegetazione e brulicanti di pesci d’ogni genere. C’era l’imbarazzo della scelta: si pescavano spigole, cernie, saraghi, cervine a basse profondità, dai tre ai sette metri. Un giorno, quando ancora si viaggiava col calesse e il cavallo, venne a farci una visita inaspettata, un fratello di mio nonno, grande cacciatore di lepri. Mia madre voleva preparare un pranzo a base di pesce allo zio che veniva dai monti; perciò m’incaricò di andare a pescare sugli scogli della Ficocella – spiaggia vicino casa mia – dicendomi di portarle qualcosa di buono. Mi sentii importante per l‘incarico affidatomi e m’imposi un obbligo: devo pescare un bel pesce! Mi tuffai dagli scogli della Ficocella degli uomini (all’epoca vi erano due spiagge divise: una riservata agli uomini e un’altra, separata dalla prima da una scogliera, riservata alle donne) e nuotai per un centinaio di metri verso il largo, raggiungendo la punta della Ficocella delle donne. Tra le due spiagge vi era una scogliera sommersa, ricca di anfratti e buche, nelle cui cavità si trovavano pesci delle migliori specie. Osservando con la maschera il fondale, dopo poco intravidi una spigola molto grande. La seguii e la colpii con la fiocina. Dovetti però risalire in superficie per respirare: io scendevo in apnea. Presa aria, m’immersi immediatamente per non perderla. Intanto una grossa murena, attratta dall’odore del sangue della spigola ferita, era accorsa e cercava di aggredirla. Lottai per difendere il mio bottino e ci riuscii. Portai a casa una spigola di oltre tre chili e mezzo. Lo zio, cacciatore di lepri, nel vederla esclamò: - Questa si che è caccia! Altro che la lepre dietro cui perdo intere giornate. Io, per la mia caccia, avevo impiegato soltanto due ore! >. < Ancora un altro episodio straordinario mi capitò a Porticello, scogliera che si trova a sud della Ficocella degli uomini. Ero con mio fratello Vincenzo e pescavamo a turno: avevamo una sola maschera e un solo fucile. Vincenzo s’immerse per
primo e risalì dopo poco dicendo: qui c’è un polipo enorme, Io non ci provo; se vuoi, scendi tu. Mi passò la maschera e il fucile e mi tuffai, dove mio fratello mi aveva indicato. Dopo poco risalii in superficie con il polipo che avevo colpito fra i due occhi e che era rimasto infilzato al fucile. Aveva tentacoli lunghissimi: con alcuni si avvinghiò al mio braccio destro e al torace, mentre io mantenevo la testa alta, girata verso sinistra, per evitare che i tentacoli mi toccassero il viso. Vincenzo mi aiutò a staccare i tentacoli dal braccio, ma i segni delle ventose restarono sulla mia pelle per diverse settimane. Il polipo, che pesava circa dieci chilogrammi, fu appeso a una baracca, alta più di due metri: i tentacoli sfioravano la sabbia! Purtroppo ora il mare non è più pescoso come un tempo: potrei dire con il mio amico Bartolo che “stu mari è sul’acqua”! (questo mare è solo acqua) >.
Il porto di Palinuro anni 1930, con i pescherecci all’ormeggio.
Antonio e Vincenzo Amendola, figli di Alfonso Amendola. 10
Alfonso Amendola.
Vincenzina Finamore moglie di Alfonso Amendola. 11
Palinuro, spiaggia della Ficocella degli uomini, anni 1930.
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VINCENZO AMENDOLA (un amalfitano a Palinuro) Vincenzo Amendola, nato ad Amalfi nell’anno 1872, da Rosa Coppola e Nicola Amendola, era il terzo di sette fratelli. Verso la fine del 1800, ancora giovanissimo, animato da spirito d’intraprendenza non comune, decise di navigare verso la costa del Cilento. Sbarcò nella piccola rada, protetta dal promontorio di Capo Palinuro, su cui troneggiava e troneggia il faro. Il giovane Vincenzo, - più tardi, il cavaliere -, restò forse stupito per la bellezza del posto, per gli strapiombi della roccia su un’acqua azzurrissima, trasparente, quale ancora è. Non poteva certamente sfuggire alla sua vivace intelligenza e al suo intuito, che quella era la terra adatta per rimanervi tutta la vita. Il borgo di Palinuro era formato da poche case di pescatori e contadini, da una piccola chiesa dall’architettura povera, con le mura bianche e il tetto rosso, che ora non c’è più! Nella rada, chiamata da tutti “il porto”, vi erano solo sei case e la cappella di S. Antonio. I colori, la luce dell’alba e del tramonto, la semplicità della gente, la quiete e la serenità che regnavano nella zona dovettero dare al giovane amalfitano l’idea del paradiso terrestre. Da quel paradiso, infatti, Vincenzo non si allontanò più. A 22 anni, nel 1894, sposò Maria Luigia Gambardella, una giovane palinurese, figlia di un’agiata famiglia del posto. Comprò e ristrutturò una vecchia casa, rendendola comoda e bella, e lì visse con la sua famiglia. S’interessò di far aprire a Palinuro il primo ufficio postale, di cui fu direttore. Promosse l’agricoltura e creò, in loco, la prima industria della pesca. Infatti, prima del suo arrivo, i palinuresi pescavano, in maniera tradizionale, ciascuno con la sua barca. Vincenzo organizzò i pescatori in ciurme, comprò imbarcazioni e reti adatte per la pesca del pesce azzurro – in particolare alici e sarde – che faceva salare in appositi barilotti, detti “terzarole” che spediva alla ditta Cirio. Uomini e donne trovarono lavoro: venivano anche dalla vicina Marina di Camerota molte persone a lavorare presso la ditta Amendola. Il commercio fiorente gli permise di comprare terreni e ruderi, che ristrutturò facendone case e locali, dove si riunivano a lavorare folti gruppi di donne, che divennero molto esperte nell’arte di salare le alici. Il cavaliere, da tutti conosciuto e stimato 13
come un uomo attivo e intraprendente, teneva ottimi rapporti con operai, pescatori e con le donne addette alla salagione delle alici. Non era il padrone che sorvegliava e comandava: era un amico, una persona ricca di umanità e comprensione, che cercava di dare lavoro e promuovere l’economia locale. Era allegro, facile alla battuta ironica, alle osservazioni sagaci. Intelligente e furbo, seppe guadagnarsi, in breve, non solo la stima ma anche l’affetto di chi viveva intorno a lui. Dopo un anno dal matrimonio con Maria Luigia, nacque il primo figlio, Nicola; in seguito nacquero Rosa, Alfonso e Teresa. Era una bella famiglia e, quindi, c’era bisogno di aiuto. A quel tempo, a Palinuro, non esisteva l’acquedotto che distribuiva l’acqua nelle case: bisognava attingerla alla fontana pubblica. Il cavaliere, bene pensò, di andare ad Amalfi, a prendere una donna di sua fiducia, ancora abbastanza giovane, che potesse aiutare la moglie, e provvedere, sopratutto, al trasporto dell’acqua, dalla fontana a casa, con “le quarte”, anfore di terracotta con due manici. La donna si chiamava Maddalena, nella parlata familiare e dialettale “Matalè”; ormai zitella, non aveva conosciuto uomini: ne aveva avuto sempre un sacro timore, timore che, con l’età, era aumentato. Era venuta a Palinuro, col cavaliere, solo perché lo conosceva da quando era nato, e sapeva di andare in una casa dove c’erano solo bambini e la signora Maria Luigia. Si affezionò alla famiglia, dalla quale era trattata benissimo, e vi restò per sempre. Maddalena aveva una sua stanzetta, al primo piano con una finestra che si apriva sul giardino, dove c’erano piante di aranci, limoni e un pollaio. Sotto la stanza di Maddalena, al pianterreno, c’era un locale, adibito a deposito per le reti da pesca, che erano usate solo in determinati periodi dell’anno. Le reti erano arrotolate in modo da formare dei grossi gomitoli, dette”balle di reti”, posti l’uno sull’altro, su un ripiano, in gergo“spasario”, fatto con travi di agavi secche, appoggiati su cavalletti di ferro. Maddalena, ogni sera, andando a dormire, prima di chiudere la finestra e posizionare la “pannula” dietro agli scurini, negli appositi buchi del muro, guardava nell’orto, per assicurarsi che non ci fossero estranei. Una sera, Maddalena, nel fare la solita ispezione, notò qualcosa che si muoveva vicino alla rete del pollaio e corse a “dare la voce” in famiglia. La signora Maria Luigia andò subito a vedere e rassicurò Maddalena, spiegandole che la “cosa” che vedeva muovere, era una gatta che, dopo aver partorito, aveva sistemato proprio lì, sotto un mucchietto di frasche, i suoi gattini. “ Matalè, stai tranquilla – le disse poi il cavaliere - “i malintenzionati non vengono qua, quelli sanno, dove andare, sanno, dove sono le femmine allegre e belle; sicuramente non cercano te! Se poi hai paura degli spiriti, sient’a mme, quelli stanno meglio all’altro mondo: qua non ci tornano più!” Detto questo, il cavaliere e sua robusto paletto che veniva posto orizzontalmente dietro gli infissi.
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moglie si avviarono verso la loro camera da letto, non lontana da quella di Maddalena. Spensero il lume a petrolio e si addormentarono subito, favoriti dal silenzio e dal buio. Per la povera Maddalena non fu così: il buio e il silenzio erano per lei terrificanti. Con gli occhi spalancati, cominciò a pensare: E se quella non era una gatta, ma un uomo che voleva nascondersi nel pollaio? Ohi, mamma mia! Che faccio? Sant’Andrea, aiutami tu! Zitta, immobile, Maddalena invocava il bel santo lasciato ad Amalfi, e respirava appena, con la testa mezza dentro e mezza fuori dalle coperte. Era una notte calma, senza vento, ma buia come “la bocca dell’inferno”, diceva Maddalena quando raccontava alle amiche ciò che era successo. In quel silenzio, in quel buio pesto, a un tratto Maddalena cominciò a sentire dei tonfi cupi, come fossero uomini, che saltavano, uno dietro l’altro. E allora, per tutta la casa, riecheggiarono le sue urla disperate. Maddalena era sicura di non essersi sbagliata: “la cosa” che aveva visto muoversi nell’orto non era una gatta. Perciò gridava: “Cavalié, venite, venite, i diavoli” zompano! Venite, correte, i’ mo moro! Moro, moro !”. Il cavaliere e la moglie, svegliati da tali disperate invocazioni, si alzarono per correre in soccorso della loro domestica; ma non era facile, all’epoca, accendere velocemente un lume a petrolio e correre. Oltretutto il cavaliere, nel buio, cercava le sue brache: non poteva correre nudo da Maddalena; sarebbe morta davvero! Quindi, sia lui che la moglie, risposero ripetutamente: “Matalè, veniamo subito, stiamo venendo, aspetta; stiamo accendendo il lume!” Maddalena non sentiva assolutamente niente, continuava a gridare senza sosta, mentre il cavaliere cercava di infilare le gambe nel mutandone. In effetti, i tonfi li avevano sentiti anche il cavaliere e la moglie che avevano immediatamente capito cosa era successo. I rumori – terribili, per Maddalena - venivano dal locale, dove erano sistemati i rotoli di rete, proprio sotto la sua stanza. I rotoli erano appoggiati l’uno sull’altro, senza essere legati con corde: evidentemente, per il precario equilibrio, il rotolo, che stava più in alto, precipitò; dopo di questo, ne precipitarono altri e perciò il rumore era ripetuto, uguale, proprio come un tonfo di qualcuno che salta. Maddalena, pertanto, presa dalla disperazione, visto che il cavaliere non arrivava, mandò un urlo altissimo. Meditò il suicidio! “Cavalié, cavalié, i’ mo me menghe !” Maddalena non ragionava più: voleva lanciarsi dalla finestra, perché era certa che vi erano uomini in casa. Il cavaliere, mentre cercava di ricomporsi alla meglio, continuava a gridare quanto lei: “Matalè, nun fa’ a’ pazza! Aspetta, aspetta; n’avé paura! Sono le balle che stanno cadendo una appriess’a l’ata. N’avé paura, Matalè. Vengo, vengo! N’avé paura!” Per risposta, Maddalena: “Nooo....i’ me menghe!” Il cavaliere che, finalmente, era riuscito a tirar su le brache, visto che Maddalena non si calmava, rispose: “Matalè, menate e futtete!” Maddalena non si tolse la vita. Il mattino seguente, l’episodio passò di bocca in bocca, suscitando non poca ilarità. E’ rimasto, ancora oggi, famoso “il detto” del cavaliere: “Menati e futtete!” 15
Vincenzo Amendola nato ad Amalfi nel 1872, a 18 anni (a sinistra) e nel 1907 a destra.
I figli di Vincenzo Amendola, Alfonso, Nicola, Rosa e Teresa, nel 1903.
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Maria Luigia Gambardella, moglie di Vincenzo Amendola, con le figlie Teresa (sinistra) e Rosa (Destra).
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Palinuro, 1930- Terrazza di casa Amendola. Matrimonio di Rosa Amendola , prima da destra, e Francesco Di Fiore, terzo da destra.
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Palinuro, Nicola Amendola con la moglieTeresa Bortone, 1935. Terrazza di casa Amendola su via Indipendenza.
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Palinuro 20-ottobre-1939, il Battesimo di Maria Luisa Amendola. Corteo in via Indipendenza.
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Manifesti attraverso cui la ditta Amendola di Palinuro pubblicizzava i prodotti della trasformazione del pesce. 21
UN RUSSO-COSACCO A PALINURO: JAKOV BELONOZKIN (Giacomo Belonoskin) Giacomo Belonoskin nacque a Ostraskàja, cittadina del sud della Russia, il 24 dicembre 1886. Durante la rivoluzione d’ottobre del 1917 si arruolò nella cavalleria ma, poiché la sua famiglia fu perseguitata, per la guerra civile scatenatasi in Russia, Giacomo, per salvarsi, fu costretto a lasciare il padre Arcadij (Arcadio), la madre Daria, i fratelli Eugenio, Giacomo 1° e Pascoida; s’imbarcò su una nave che lo portò in Grecia. Dalla Grecia, avventurandosi nel Mediterraneo, raggiunse la Francia; entrò nella Legione straniera e andò a combattere in Libia. Dopo poco disertò, insieme con altri amici russi e, coraggiosamente, con una piccola imbarcazione, ancora una volta si affidò alle onde del mare. Giacomo e i suoi compagni navigarono per quattro giorni e quattro notti, col vento non sempre favorevole, senza viveri e col fuoco nemico in agguato. La mattina del quinto giorno, la barca, con i profughi russi, finalmente incrociò un bastimento, il cui capitano indicò a Giacomo la rotta per raggiungere la terra; seguendo le indicazioni avute, approdò a Lampedusa. Giacomo e i suoi compagni si accorsero che erano arrivati in Italia e, arrampicandosi sulla scogliera, raggiunsero il faro dell’isola. Furono soccorsi dagli abitanti e le autorità del posto li mandarono a Roma, presso il consolato russo da cui ottennero nuovi documenti. Più tardi fu loro concesso asilo politico dallo stato italiano. A Roma Giacomo dovette separarsi dai suoi amici. Questa separazione fu, per lui, un gran dispiacere che si aggiunse a quello che lo aveva già segnato, quando fu costretto a fuggire dalla sua terra. Giacomo, ormai avanzato negli anni, quando raccontava la fuga dalla Russia, fatta attraverso il Mar Nero, era preso da una grande tristezza. Diventava molto serio, parlava a voce bassa e, mischiando il dialetto palinurese all’italiano, creava una lingua tutta sua, segnata da una forte inflessione russa. Era un uomo alto, forte, robusto, dal volto duro, solcato da profonde rughe, ma diventava fragile, gli si arrossavano gli occhi, gli tremava la voce nel raccontare la sua avventura. < Sette giorni – diceva – sette giorni di fuga, senza mangiare né bere, attraverso il Mar Nero, tra lo spettacolo terrificante dei cadaveri di tanti cosacchi, più sfortunati di noi, che pendevano dai pali della linea elettrica …> e non era più capace di continuare il racconto. Ma ritorniamo a descrivere i fatti in ordine cronologico. Il profugo russo fu mandato dal consolato a Napoli, dove lavorò per due anni in un’officina meccanica, mentre i suoi amici restarono a Roma. A Napoli cominciò a sentirsi più sicuro, perché conobbe una nobildonna russa, Baranoskaja Maria 22
Dohrn, che prese a proteggere il suo conterraneo e lo raccomandò al giornalista e scrittore Michail Nikolaevic Semenov, anch’egli russo, trasferitosi in Italia, a Positano, dove si dedicò alla pesca. Semenov, infatti, comprò un battello a vapore che fece arrivare da Amburgo a Napoli. A riparare e a mettere in mare quel battello, che era molto rovinato, pensarono Giacomo Belonoskin e un certo Edoardo, rinomato meccanico napoletano. La capacità di Giacomo a intervenire sul motore e la perizia che dimostrava nella navigazione, non sfuggirono all’attenzione di Semenov, per cui lo assunse come motorista. Messo in mare il battello, Semenov, Giacomo e Edoardo arrivarono a Sorrento. Provata la barca, Edoardo se ne tornò a Napoli.Giacomo e Semenov si diressero a Positano e da qui al porto di Amalfi. Ma la barca aveva bisogno di riparazioni allo scafo, per cui Giacomo la portò a Salerno, dove un bravo carpentiere la riparò perfettamente. Finito questo lavoro, Semenov ordinò a Giacomo di ritornare a Positano, dove lui e la sua amica presero alloggio in un albergo; Giacomo invece restò a vivere sulla barca, la “Carlo Scarfoglio”, dove finalmente poteva mangiare e bere, quando, come e quanto voleva! Rimase per alcuni anni a lavorare, come motorista, con lo scrittore russo, che comprò altre barche e mise su una vera e propria industria della pesca. Con i pescherecci di Semenov, Giacomo si spinse sulla costa cilentana, fino a Marina di Camerota, approdando sia alla Molpa sia al porticciolo di Palinuro. Finalmente, a Palinuro, dopo tante avventure, per il profugo russo, sorse un’alba nuova: un’alba, propria un’Alba! Una bella ragazza, di nome Albina, rischiarò la sua vita. Si sposarono e, per i primi due anni di matrimonio, vissero a Napoli, perché Giacomo ritornò a lavorare presso l’officina di Edoardo, a Santa Lucia. Intanto l’amico di Semenov, il ballerino russo Massine aveva acquistato l’isola Li Galli, davanti a Positano e cercava una persona di fiducia, che facesse il custode. Michail Semenov gli propose Giacomo Belonoskin che accettò e si trasferì, con la moglie Albina, nell’isola Li Galli dove visse per quattro anni, facendo il custode fanalista. Intorno al 1934, per controversie sorte con il ballerino Massine, lasciò l’isola e andò a vivere a Positano. Da Giacomo Belonoskin e Albina Pepoli nacquero tre figli: Maurina, a Palinuro, nel 1928; Daria, nell’isola Li Galli, nel 1929; Artemio, a Palinuro, nel 1931. A Positano Giacomo conobbe il maresciallo Lagoria che lo indirizzò presso il cantiere Bonifacio di Salerno, per l’acquisto di una vecchia imbarcazione da passeggio. Il bravo motorista russo la modificò interamente e ne fece una barca per trasporto merci: con questo battello lavorò molto, trasportando merci da Salerno a Capri. Dopo qualche anno si trasferì definitivamente a Palinuro, dove la moglie Albina comprò da donna Angelica Rinaldi una casa, sulla spiaggia del porto, che Giacomo ristrutturò. Nella nuova casa abitò, con la famiglia, per tutta la vita. A Palinuro continuò il suo lavoro, navigando lungo la costa calabra e spingendosi 23
fino in Sicilia, per trasportare merce di ogni genere. Nel decennio tra il 1930 e il 1940, a Palinuro cominciò a svilupparsi l’industria della pesca del pesce azzurro. In quell’epoca il mare tra Pisciotta e la collina di Molpa era pescosissimo: le vecchie lampare a vela e a remi furono sostituite da motopescherecci a motore, veloci e più sicuri. Vi fu in loco una vera propria corsa all’attività peschereccia, avviata e diretta da un uomo di intelligenza e volontà non comuni, che, da Amalfi, si era stabilito a Palinuro: era Vincenzo Amendola che organizzò i pescatori palinuresi in ciurme. La sua ciurma era diretta dal capobarca Amodio Sacco ,“u capitano”, e dal motorista Giacomo Belonoskin, “u russo”, responsabili del San Pietro, un barcone, dalla prua alta e superba, che faceva bella mostra di sé nel porto di Palinuro. Il San Pietro era dotato di una rete, “il cianciolo”, capace di contenere diversi quintali di alici, che veniva tirata a bordo meccanicamente. Aveva un motore diesel, di notevole potenza, che consentì a Giacomo di affrontare la tempesta del 25 settembre 1949, rimasta nella storia dei palinuresi. Al mattino di quel 25 settembre il tempo era bello, per cui molti pescatori, proprietari di barche a remi, si spinsero al largo, per la pesca del pesce spada. Nulla faceva prevedere che nel pomeriggio si sarebbe scatenato l’inferno! Verso le ore 15 il cielo improvvisamente si rabbuiò, il vento prese a soffiare dal nord e le onde del mare si sollevarono, spumeggiando senza sosta. Lampi e tuoni si impadronirono dell’aria. Le barche che erano al largo di Capo Palinuro non si videro più: furono ore di panico! Molti palinuresi scesero sulla spiaggia del porto, insieme ai familiari dei pescatori che non erano riusciti a raggiungere la riva. Era quasi buio e una barca con a bordo due uomini non era ancora rientrata. Erano Mauro Pepoli “Ciucculatera” e Salvatore Del Gaudio “U zitu”. Sacco Amodio si recò dai proprietari del S. Pietro e chiese il permesso di uscire nella tempesta, con il loro motopeschereccio, sperando di ritrovare la barca dispersa. Nicola Amendola disse che valeva la pena di rischiare la barca, per salvare delle vite umane, purché Giacomo, il motorista, fosse disposto a farlo. Giacomo era già pronto: aspettava solo il consenso dei padroni; quindi fece tirare gli ormeggi e partì dal porto, beccheggiando terribilmente sulle onde. Il S. Pietro scomparve dietro la punta di Capo Palinuro, mentre i familiari e gli amici dei pescatori dispersi, si riversarono nella cappella di S. Antonio, che si trova sulla spiaggia. Cominciarono a tirare ininterrottamente la corda della campana, al cui suono si unì il pianto disperato delle madri e delle mogli. Successe allora una strana cosa, “un fenomeno strano” direbbe la Chiesa, quando non osa pronunciarsi. Artemio Belonoskin, figlio di Giacomo, dice che il padre così raccontava: < affacciatosi dalla zona sottocoperta, dove era il motore, vide in quel buio, una luce occhieggiare sul mare in tempesta e gridò ad Amodio di raddrizzare il S. Pietro nella direzione in cui aveva visto il segnale luminoso. Amodio ruotò il timone nella 24
direzione indicatagli, e Giacomo spinse al massimo il motore. Chiamarono, gridarono il più forte possibile, sfidando gli spruzzi violenti dell’acqua, nella speranza di ritrovare i dispersi >. La rotta indicata da Giacomo e seguita da Amodio, nelle tenebre, senza alcun mezzo di orientamento, li portò sulla meta. Incontrarono i pescatori dispersi che, perduti i remi, stremati dalla violenza del mare, si reggevano a stento nella barca piena d’acqua. Giacomo, appena li vide, esclamò: “Meno male che avete acceso quella luce, altrimenti non vi avremmo trovati.” Mauro Pepoli rispose: “Ma di quale luce parli? Di quale segnale? Noi non abbiamo niente. Siamo bagnati dalla testa ai piedi; non potevamo accendere nulla, anche se avessimo avuto qualcosa per farlo”. Tirati a bordo i due naufraghi, con non poca difficoltà, il S. Pietro puntò verso il faro di Palinuro, unico segnale che si poteva seguire in quella notte di tempesta. Raggiunto il porto e raccontato l’accaduto, si gridò al miracolo ottenuto per intercessione di S. Antonio. Artemio Belonoskin, nel raccontare questo fatto, aggiunge: < La luce la vide solo mio padre. Lui non bestemmiava mai! >. ( Palinuro 12/04/2012)
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Palinuro, Giacomo Belonoskin (Jakov Belonozkin) con la moglie Albina Pepoli ed i figli Artemio e Maurina, anni 1930.
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Palinuro, Belonoskin Giacomo e la moglie Albina.
Palinuro, Nazareno Pepoli (a sinistra) con Giacomo Belonoskin.
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Ciurma di pescatori al porto di Palinuro, anni 1930s, in attesa di imbarcarsi.
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Antonio Rinaldi (il Duegno), al porto di Palinuro, anni 1930-40.
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ANGELINA CALEMBO E’ nata l’8 settembre 1922 ed è una testimone vivente, in perfetta salute mentale, che ricorda e racconta come vivevano i palinuresi nel ventennio 1930-1950. Angelina, nonostante i suoi novant’anni, conserva un bell’aspetto fisico e il brio e l’umorismo che nascono da un’intelligenza pronta e da un’intuizione vivace. Ancora ragazza cominciò a lavorare nell’industria della salagione delle alici, messa su da Vincenzo Amendola. Ricorda le compagne di lavoro: Anella Troccoli, Assunta Calembo - dotata di particolare forza fisica, che le consentiva di zappare con vigore maschile – Donata Calembo, Antonietta Passarelli, Giuseppina Diotaiuti, Filomena Scarpati e Angelina Granito, che teneva allegre tutte, con un linguaggio “forbito e colorito”. Delle sue compagne, sono viventi Giuseppina Diotaiuti e Filomena Scarpati. < Anche se erano tempi duri – dice Angelina – e sentivamo spesso i morsi della fame, eravamo felici, perché ci accontentavamo di poco, di tanto poco! Un giorno la mia compagna di lavoro, Angelina, prese dalla salamoia un bel po’ di alici, senza farsi scorgere dal proprietario, le lavò per farne cadere il sale, corse a friggerle a casa sua e le portò a noi altre. Le mangiammo con gusto, anche se assai salate, e ci divertimmo molto perché nessuno si era accorto della marachella. Eravamo tutte amiche, ci riunivamo per andare a lavorare insieme: non c’era gelosia, non c’era invidia tra noi! Ora abbiamo tutto, ma ognuno vive “ per conto suo “, ognuno vive isolato nella propria casa. Non ci conosciamo più! Dov’è Palinuro di una volta? Dov’è? Allora Palinuro era tutta una famiglia: quando il tempo era buono, gli uomini andavano a pescare; quando il tempo era cattivo, coltivavano la terra; mentre noi donne, oltre a salare le alici, eravamo addette a trasportare i vari raccolti stagionali nei cesti, che portavamo, in equilibrio, sul capo. E ricordo che le donne di Marina di Camerota, sempre in testa, trasportavano alici e sarde, in cesti rivestiti di tela cerata, camminando lungo la spiaggia del Mingardo, fino a Palinuro. Quando arrivavano da noi, portando il pesce da salare, erano sporche e “puzzolenti” per il sangue che, filtrando dai cesti, scorreva loro sulle spalle e sul petto. Il cavaliere Amendola apprezzava il loro duro lavoro e, nel vederle così conciate, si dispiaceva a tal punto che, spesso, faceva loro qualche regalo, oltre la normale paga. Un giorno riuscì a prendere dalla cantina di casa, all’insaputa dei familiari, un prosciutto e lo diede alle donne di Marina. Noi palinuresi restammo deluse: ci aspettavamo che avesse detto di mangiarlo in30
sieme con noi. Se lo portarono tutto intero le camerotane! A noi il cavaliere portava i fichi secchi - preparati in modo particolare dalla moglie e dalle figlie - ma senza farsi scorgere da chi li aveva confezionati con tanta accortezza! Durante il lavoro, talvolta s’intratteneva con noi, raccontando fatterelli divertenti nel suo dialetto amalfitano. Quante risate, quante battute, a mezza voce, su chi, più ingenuo, si faceva burlare! Mentre una di noi “ scapava “ (toglieva la testa) le alici e le passava alla vicina, che le disponeva in fila nelle terzarole (barilotti da un terzo di quintale) con sveltezza e perizia, c’era sempre chi aveva da raccontare qualcosa. A quei tempi non avevamo né radio né televisione, ma a Palinuro c’era un quintetto che ci faceva divertire: era formato da Carmelantonio Pepoli (Minghiarro), Antonio Diotaiuti (Misurieddo), Giuseppe Raimondo (u papa), Luigi Sacco (u ndringhete) e Angioletto. Il quintetto, dotato di una fisarmonica e qualche altro strumento improvvisato, portava serenate e, nella notte di Capodanno, faceva il giro del paese, sostando casa per casa, e augurava buon anno, cantando così: Te venga lu buonio e lu buon anno. Buone feste e buonu capurannu! ‘A ‘mberta crammatina e pe cient’anni! (Ti auguro la buona salute e il buon anno. Buone feste e buon Capodanno. Il regalo domattina e per cent’anni). Al mattino seguente l’allegro quintetto ripercorreva il tragitto fatto la notte per ricevere, da ogni capo famiglia, il consueto regalo (‘a ‘mberta) >. Angelina parla poi di sé, della sua vita: si sposò a venti anni, il 15 ottobre 1941, col falegname Antonio Troccoli ed ebbe tre figlie, Teresa, Anna e Anella. E così continua: < Non ho avuto una vita facile, però i dolori passavano perché in famiglia c’era accordo e serenità. Ho festeggiato i 50 anni di matrimonio: 50 anni di lavoro, gioia e dolori. Ho fatto anche da mamma ai miei nipoti, rimasti orfani dei genitori in tenera età: il giudice tutelare mi convocò in Pretura, a Pisciotta, e mi affidò Aniello, Franco e Anna Maria, figli di mio cugino. Mi hanno chiamato mamma e, per me, sono stati figli. 31
Sono contenta della mia vita, di quanto ho fatto, di quanto ho avuto! Ora tutto è cambiato: in verità poco mi piace questo mondo moderno; non riesco ad accettare come “la pensano ora”! E’ vero che tante cose sono migliorate; ci sono comodità che, ai miei tempi, non sognavamo neppure, però certe cose non si dovevano cambiare! Anche alcune particolari tradizioni religiose non sono state conservate. Ricordo, ad esempio, com’era festeggiata la Pasqua, com’erano commoventi le funzioni del Venerdì Santo. In quel giorno, le campane tacevano e i fedeli venivano raccolti in chiesa dal rumore della “ troccola “ (attrezzo di legno che, ruotando, produceva un particolare suono roco). La processione si svolgeva in due tempi: prima usciva dalla chiesa la statua di Gesù morto, portata da quattro uomini, che indossavano tonache bianche e avevano una corona di spine di rovo in testa. Il corteo percorreva, in silenzio, un tratto di Via Indipendenza; poi ripercorreva la stessa strada per incontrarsi con il secondo corteo, che, intanto, era partito dalla chiesa, ed era composto da donne che accompagnavano la statua della Madonna Addolorata. Si calcolava il tempo in modo che la Madre e il Figlio morto si incontrassero a, metà percorso, all’altezza dell’attuale ristorante Sirenella, dove un sacerdote commentava il doloroso incontro di Maria con Gesù deposto dalla Croce. Era un momento di altissima commozione e le prediche, talvolta, erano così toccanti che piangevamo tutti. Un Venerdì Santo, non ricordo di quale anno, una mia amica, Caterina Troccoli, cadde svenuta per la forte emozione. Allora si viveva la passione del Signore; ora... non capisco più niente. Abbiamo perduto la bussola! Io dico sempre al Signore: Levami ‘a vita, ma nun me levà ‘a capu! (Levami la vita, ma non togliermi la testa!) >. Io credo che il Signore abbia ascoltato la preghiera di Angelina, perché le ha concesso di ragionare con tanta saggezza e precisione, anche in tarda età. Il nostro incontro così si conclude: < Angelina, scusatemi, - le dico – se vi ho disturbato. Vi ringrazio >. Risponde: < Scusarvi? No, signora... non dovete dire grazie. Sono io che debbo ringraziare voi! >.
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Angelina Calembo
Filomena Scarpati (a sinistra) e Giuseppina Diotaiuti (a destra).
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Palinuro le funzioni del Venerdì Santo, anni 1950.
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Giuseppe D’Acquisto, farmacista, (campione di pesca subacquea) Giuseppe D’Acquisto – per gli amici Peppino – nacque a Palinuro il 20 ottobre 1930; laureatosi in farmacia presso l’Università degli studi di Napoli, esercitò la sua professione in una farmacia della stessa città, fino al 1998. Si dedicò anche all’insegnamento di matematica e scienze presso l’istituto Cimarosa di Aversa. Queste, le professioni ufficiali che gli consentirono i suoi studi, ma la sua professione-passione fu, ed è stata fino a qualche anno fa, la pesca subacquea. Il dottor Peppino racconta: < Nell’anno 1949 vidi, per la prima volta, degli occhialini per la pesca subacquea. Vennero a Palinuro due giapponesi che ebbi modo di conoscere: erano provvisti di questa lente speciale - maschera – per guardare sott’acqua e di una robusta canna di bambù, ben appuntita, che fungeva da fiocina. Rimasi meravigliato nel vedere la loro capacità di immergersi e ritornare in superficie, con grossi pesci infilzati
alla canna. Per uno come me, che amava e ama il mare in modo particolare, fu lo spunto per iniziare la mia stupenda avventura della pesca subacquea. A Palinuro, a quei tempi, gli attrezzi per questo genere di pesca, erano assolutamente scono35
sciuti. Comprai la prima maschera e il primo fucile a Salerno e, insieme agli amici Vincenzo e Antonio Amendola, che si fornirono anch’essi di maschera e fucile, diventammo i padroni della scogliera di Palinuro. Allora il mare era ricchissimo di pesce: pescavamo cernie enormi, dentici, spigole e polipi giganteschi. Ma io non ero spinto a immergermi, solo per il piacere di pescare; ero preso da una voglia irresistibile di esplorare il fondale marino, le grotte ricche di gorgonia e godere dello spettacolo indescrivibile che offre la scogliera sommersa di Capo Palinuro. Volevo vedere la flora e la fauna, i giochi di luce, i colori che si trovano laggiù. Sono vissuto a Napoli, per tanti anni, ma le mie radici erano a Palinuro: ogni volta che ne avevo la possibilità, sia da studente sia da professionista, ritornavo qui, per andare a mare. Immergermi era un’emozione sempre nuova, perché nuovo era, ogni volta, lo spettacolo che il fondale mi offriva. Con la mia barca a remi, passavo intere giornate sul mare, dietro al frontone: ne ero il padrone! Partivo al mattino dal porto, accompagnato spesso dall’amico Gerardo Scarpati, detto “U stocco” e, insieme, restavamo in mare fino al tramonto. Gerardo mi aspettava sulla barca, mentre io facevo le mie immersioni. A bordo non mancavano, per bere. “a mmummola” (anfora di terracotta a due manici, che manteneva l’acqua fresca) e, per mangiare pane, pomodori, soppressata e fichi, a panieri. Questa frugale colazione consumata all’ombra della roccia di Capo Palinuro o sulla spiaggetta del Buondormire, aveva un sapore particolare: il sapore del mare e l’odore dell’erba degli scogli… non lo so! Credetemi, non sono ricordi, sono cose rimaste vive nell’anima! Ero instancabile: il mio fisico me lo permetteva. Un giorno, spinto dalla voglia di esplorare, commisi un’imprudenza che poteva essermi fatale: sapevo che l’interno della Grotta Azzurra era il covo delle cernie, detto in gergo palinurese – mamma delle cernie - e pertanto la prima tappa per l’immersione era nella grotta, proprio nello specchio azzurro. Immergendomi e avanzando nel grosso arco, percorso dal fascio di luce che si rifrangeva dall’esterno, vedevo brulicare le cernie tra una prateria di gorgonie. Tra queste una color rosso carminio, mi colpiva in modo particolare. Dalla grotta, a nuoto, doppiavo il Capo e mi portavo all’esterno, nel punto, dove la falesia forma l’arco attraverso il quale si rifrange la luce che illumina la volta interna, Rifeci questo percorso per alcuni anni e, avanzando nell’esplorazione dell’arco, mi trovavo sempre di fronte alla stessa gorgonia rosso carminio, che vedevo anche dall’interno. Prendendo come punto di riferimento la gorgonia rosso carminio, valutai che avrei potuto percorrere, in apnea, il tragitto tra l’interno e l’esterno della grotta. Un dubbio: la gorgonia poteva non essere la stessa! Come fare? M’immersi portando con me un pezzo di sacco bianco, che avevo in barca, e lo legai alla pianta. Verificai che, immergendomi all’interno della grotta, vedevo la gorgonia segnalata con lo straccio bianco. Dopo qualche giorno, accompagnato dal fido Gerardo, tentai l’attraversamento dell’arco. Mi tuffai con la maschera, all’interno della grotta e scomparvi agli occhi dell’amico. Dopo pochi minuti ero all’esterno. Fu per me un trionfo! 36
Intanto il povero Gerardo, non vedendomi riemergere, dopo il solito tempo, cominciò a preoccuparsi seriamente. Non sapeva cosa fare. Comunque decise di restare ai remi e aspettare ancora qualche minuto, all’interno della grotta. Non sospettava che io avessi potuto raggiungere l’esterno! Mentre era preso da ansia e paura, io riapparvi sull’ingresso della grotta, nuotando tranquillamente. “U stocco”, nel vedermi, ebbe un moto di sollievo e di rabbia insieme, che sfogò così: imprecò terribilmente, sganciò un remo dallo scalmo e lo lanciò verso di me. Non mi colpì. Capii la sua reazione e cercai di rabbonirlo, raccontandogli quello che avevo fatto e che, tuttora, ritengo sia la mia più bella avventura di mare. Sarebbe lungo raccontare tutte le abbondanti pescate da me fatte: il mare mi ha dato grandi soddisfazioni! Ho partecipato a vari campionati di pesca subacquea e, nel 1951, a Palinuro, mi classificai primo in una gara, pescando tanto pesce che bastò per preparare, nel ristorante S. Caterina, un pranzo per i concorrenti e gli organizzatori. La rinomata ditta Cressi Sub voleva darmi la rappresentanza e l’esclusiva di vendita dei suoi prodotti, ma dovetti rinunciare per ultimare gli studi universitari. Girai la proposta a un commerciante di Palinuro che, con la vendita di quegli articoli, realizzò ottimi guadagni. Ora sono anziano, amo sempre tanto il mare: non riesco a vivere senza guardarlo ogni giorno, dalla mia terrazza. D’estate, vivo la maggior parte della giornata, al porto di Palinuro, dove possiedo una piccola casa e una barca, sempre la stessa. Non pratico più pesca subacquea, ma sono il punto di riferimento, per i miei cinque nipoti (Anna Rita, Teresa, Valeria, Vincenzo e Giuseppe), che seguono, con interesse e attenzione, il racconto delle mie avventure, mentre io, soddisfatto, mi accorgo di aver dato loro una grande eredità: l’amore per il mare >. Palinuro 19/04/2012
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Palinuro, 1955, Giuseppe D’Acquisto di ritorno da una battuta di pesca in apnea.
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Palinuro, anni 1950s Giuseppe D’Acquisto di ritorno da una battuta di pesca in apnea.
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Peppino D’Acquisto mostra una cernia di 12,50 chilogrammi arpionata in tre riprese a Caprioli settembre 1955.
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Il promontorio di capo Palinuro; si intravede l’ingresso della famosa grotta azzurra.
Palinuro, l’ingresso della grotta azzurra. 41
Gerardo Scarpati, che accompagnava Peppino D’Acquisto nelle sue battute di pesca subacquea. 42
ANIELLO ESPOSITO (Mastro Ciccio) Sulla collina di Carminella, località dal panorama mozzafiato, di fronte alla Molpa e allo scoglio del Coniglio, si trova la casa di Aniello Esposito, per tutti mastro Ciccio, nato e vissuto a Palinuro dal 1909 al 1995. Mastro Ciccio era un personaggio tra i pescatori. Sposò Giuseppina Granito e dal loro matrimonio nacquero due figli, Antonietta e Mauro, che, parlando del padre, rivivono storie antiche, esperienze vissute in tempi in cui la pesca era l’unica fonte di guadagno a Palinuro. Mastro Ciccio era intelligente e furbo e gli piaceva vivere allegramente: infatti, spesso suonava una fisarmonica a orecchio, improvvisando, con chi si trovava presente, tarantelle, balli e canti cilentani. Per questo era conosciuto e benvoluto da tutti. Molti dei turisti che venivano abitualmente a Palinuro, negli anni ‘60, andavano alla spiaggia della Marinella a cercare mastro Ciccio, per fare, con la sua barca, passeggiate lungo il promontorio e, soprattutto, per ascoltare le simpatiche storie che sapeva raccontare, con spiccato umorismo, mischiando dialetto palinurese e italiano. Si racconta che l’onorevole Scarlato - la cui villa è molto vicina alla casa di Mastro Ciccio - ogni anno, per S. Francesco – 4 Ottobre - era solito regalargli una bottiglia di whisky. L’onorevole gli faceva questo regalo, perché era convinto che, in quella data, ricorresse l’onomastico del simpatico pescatore, suo vicino. Un anno, mastro Ciccio ricevette il solito dono, alla presenza di un suo cognato. Appena l’onorevole si allontanò dai due, il cognato chiese a mastro Ciccio: ” Perché Vincenzo Scarlato ti fa questo regalo, tutti gli anni, il 4 ottobre?” Mastro Ciccio, stringendo la bottiglia sotto il braccio, rispose: < L’ onorevole sa che oggi è S. Francesco: io per lui mi chiamo mastro Francesco. Ngià avissa j a ddici mò ca’ mi chiamu Aniello? Nun sia mai! A buttiglia, a S.’Mbranciscu, nun a viru cchiù! >. (Dovessi dirglielo che mi chiamo Aniello? Non sia mai! Se tu glielo dici, a S. Francesco la bottiglia non la vedo più!) Ma la vita di mastro Ciccio, come quella di tutti i pescatori, non fu sempre facile. Nel secolo scorso, le previsioni del tempo erano approssimative, mai certe, quindi anche a lui, per due volte, capitò di trovarsi a lottare con il mare. Il figlio Mauro racconta che il padre pescava molto con i “filaccioli”. Una sera di aprile in cui il mare era calmo e l’aria tiepida, mastro Ciccio decise di andare a “ mettere i filaccioli” dietro Capo Palinuro, nella cala della Lanterna. Fissati i filaccioli alla roccia, mastro Ciccio tornò a casa. All’alba del giorno seguente, nulla faceva pensare che quel mare, calmo e invitante, sarebbe diventato una bolgia di onde spumeggianti. Perciò Filacciolo: corda di una ventina di metri, alla cui estremità si applica un amo di circa sei centimetri, che viene fissata alla roccia; è segnalata da un galleggiante e una tavoletta con le iniziali del pescatore proprietario.
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Mastro Ciccio prese la sua barchetta e, remando dalla spiaggia della Marinella, si avviò verso la cala della Lanterna. In breve tempo, si levò un “ vento di Canale “ - vento di sud-est simile allo scirocco – che solleva onde altissime. Il poveretto si trovò, da solo, in balia delle onde. Non fu facile rientrare alla Marinella, perché il vento, soffiando da sud, era contrario alla sua rotta. I suoi figli, la moglie e altri amici, corsero sulla spiaggia, nella speranza di vederlo ritornare. Intanto il vento continuava a infuriare e la barca non si vedeva. La figlia Antonietta, poco più che bambina, presa dalla disperazione, non sapendo cosa fare, mentre piangeva, cominciò a scavare nella sabbia, e continuò finché il padre non approdò: la buca diventò grandissima, perché mastro Ciccio, lottando con le onde, impiegò un’intera mattinata per tornare a riva. Anche un’altra volta mastro Ciccio rischiò la vita in mare, insieme al figlio Mauro, allora ragazzo, e a un altro pescatore: mise le reti al largo della Molpa e tirò la barca sulla spiaggia del Buondormire. La mattina seguente il tempo non sembrava cattivo, quindi decise di andare insieme al figlio a levare le reti. Arrivato in direzione della Molpa, il cielo diventò di piombo: le onde del mare sollevavano la barca, che rischiò di capovolgersi. Mauro racconta: < La pioggia e i violenti spruzzi di acqua salata invasero la barca! Remando disperatamente, impiegammo ben due ore per fare il breve tratto dalla Molpa a Buondormire. Mia sorella Antonietta, preoccupata per la nostra sorte, corse a chiamare altri pescatori e, con loro, scese sulla spiaggia. Appena la barca fu vicina alla riva, i pescatori amici si buttarono nelle onde, l’afferrarono con tutta la loro forza e, in pochi minuti, la trascinarono sotto la costa di Buondormire, dove il mare non poteva arrivare. Col passare degli anni le condizioni di noi pescatori migliorarono molto: insieme ai remi, sulla barca, s’installò il motore e ci si attrezzò meglio per la pesca. Cominciò a svilupparsi il turismo e la Marinella diventò una spiaggia fra le più belle e frequentate. Avemmo il piacere di conoscere persone importanti, fra cui il regista Ermanno Olmi. Un giorno mio padre doveva tirare la barca sulla spiaggia e doveva disporre, in fila, “le falanghe” (pezzi di legno sagomati e ingrassati nel cui centro si fa scorrere la carena della barca). Il regista Olmi voleva aiutare ma, non essendo abituato a fare tali cose, perdette la presa della falanga che finì su un piede di mio padre. La falanga, che era pesante, gli schiacciò l’alluce facendo saltare l’unghia. Fu una corsa a cercare bende e disinfettanti e, poiché sulla spiaggia fu impossibile trovarne, il regista prese una bottiglia di whisky e ne versò abbondantemente sul piede di papà. Per Mastro Ciccio fu uno spreco! Ma non parlò. Parlò solo quando, finita la medicazione, Olmi stava portando via, fra le altre cose, anche la bottiglia. Mio padre disse: - Purtatevi tutto, ma a buttiglia no! -Vi fu una risata generale >. Mauro Esposito parla del padre con tanta affettuosa ironia. Questo e altri simpatici episodi della vita di Mastro Ciccio sono ricordati da pescatori anziani di Palinuro che li raccontano per rievocare un tempo sereno che non può più ritornare.
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Palinuro, la Marinella, Aniello Esposito (Mastro Ciccio) con Ioccia, anni 1950.
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Sopra, Mastro Ciccio mette le reti. Sotto, Mastro Ciccio con una turista. 46
Mastro Ciccio con un turisti, sopra, e con il figlio in barca, sotto.
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Il figlio di Mastro Ciccio, Mauro, a pesca.
Palinuro, lo scoglio del Coniglio visto dalla “Carminella”. 48
LEONARDO FUSCO (esploratore degli abissi) Il 21 giugno del 1931, da Alba Garzilli e Procopio Fusco, nacque Leonardo, a Ceraso, piccolo e ridente borgo cilentano, a circa 30 km da Palinuro. Fino all’età di 8 anni non conobbe il mare, ma già a quell’età il piccolo vivacissimo Leo, eludendo la sorveglianza dei genitori, si cimentava in imprese, ardite per un bambino, nelle acque del fiume Palistro. Il Palistro, fiume a carattere torrentizio, forma un’ansa chiamata “il pozzetto”, profonda circa un metro e mezzo, e proprio nel pozzetto del Palistro, Leonardo si tuffava e imparava a nuotare sott’acqua, con gli occhi aperti. Quel ragazzino, dai riccioli biondi e dagli occhi azzurri, non temeva l’acqua fredda del fiume, né aveva paura della profondità. Il suo piacere era conoscere, scoprire. Il suo rifugio era il capanno di un contadino, dove nascondeva il lenzuolo, per asciugarsi dopo le nuotate, e la bicicletta con cui tornava a casa. Il padre aveva capito che era un ragazzo particolare, ne seguiva con ansia le avventure e, nel segreto del suo cuore, ne era orgoglioso. Per le imprudenze, non riusciva a rimproverarlo, se non in modo affettuoso, concludendo: < che Dio me la mandi buona con te, guagliò ! >. Gli promise che lo avrebbe portato a mare, a Palinuro, dove aveva comprato la torre saracena del porto, che ristrutturò, facendone la sua seconda casa. Il fascino che il mare esercitò sul piccolo Leonardo fu enorme. La voglia di conoscere il mare ed esplorarne gli abissi cresceva in lui ogni giorno di più. A quattordici anni vide, per la prima volta, dei pescatori subacquei, provenienti da Capri, con maschere e fucili. Rimase ammirato e sbalordito nel vedere gli attrezzi di cui erano dotati. E i sub capresi rimasero, a loro volta, sbalorditi per la conoscenza delle scogliere e delle grotte di Capo Palinuro che Leonardo, sebbene giovanissimo, dimostrava di avere. Nel libro “Corallo rosso”, di cui egli stesso è autore, racconta la sua meravigliosa e avventurosa vita, vissuta sul mare e sotto il mare. Da quel che descrive, pare che sia stato diretto sempre da eventi e incontri fortuiti, che lo indussero a non seguire la carriera che il diploma di Capitano di Lungo Corso gli avrebbe permesso di fare, ma a dedicarsi completamente all’esplorazione degli abissi sottomarini. La scogliera sommersa di Capo Palinuro fu il suo banco di prova: a diciotto anni 49
Leonardo scendeva a profondità notevoli, attratto dalla bellezza superba dei fondali. Superava, in apnea, l’arco della falesia, - sospeso sul fondale - attraverso cui avviene il fenomeno della rifrazione dei raggi solari all’interno della grotta azzurra. Le scogliere sommerse di Capo Palinuro, all’epoca ( anni cinquanta ), erano completamente sconosciute. I pescatori del luogo, ignari della vita del mondo sommerso, erano tuttavia affascinati dall’imponenza della parete rocciosa a picco sul mare, dalla bellezza delle forme e dei colori, dal misterioso silenzio dei luoghi e delle grotte, per cui avevano creato racconti e leggende di sirene, di divinità marine e pesci strani che avevano dimora negli anfratti. Leonardo, durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ascoltò i racconti di quella gente di mare, ne assorbì il linguaggio, le abitudini, passando insieme a loro intere giornate a pescare. Tutto ciò gli conferì un enorme bagaglio di esperienze, utile per affrontare la sua avventurosa vita di uomo di mare. Intanto improvvisamente veniva a mancare il padre; i tempi erano difficili e Leonardo fu costretto a lavorare. Si recò a Napoli, dove si dedicò alla pesca subacquea, traendone un buon profitto. Esplorò quelle acque , non solo per pescare pesci pregiati, ma anche per recuperare una quantità enorme di fauna bentonica, bellissima - presente in quel tratto di mare che arricchì la stazione zoologica marittima di Napoli e gli acquari di molte città europee. Intanto, nel 1953, si apriva a Palinuro il villaggio turistico francese, il “Club Mediterrané” dove, fra gli altri sport, era praticato anche la “plongée” (immersione in libertà, senza attrezzatura da palombaro). Leonardo non vide di meglio che diventare amico del capo istruttore, Jean Pierre Broussard, per conoscere e approfondire le tecniche d’immersione. Da Jean Pierre ebbe, infatti, le prime lezioni per l’immersione con l’autorespirazione ad aria compressa (ARA) e divenne immediatamente padrone della nuova tecnica. Ben presto raggiunse i venti metri di profondità e fu proprio, a quella profondità che, per recuperare una cernia arpionata il giorno prima, Leonardo scoprì il corallo a Palinuro. Con un suo amico, ritornò sulla tana, dove aveva colpito la cernia, che era rimasta incastrata tra due rocce; s’immerse con tecnica di respirazione ARA e ritrovò la cernia ormai morta. La trasparenza dell’acqua di Capo Spartivento lo indusse a proseguire oltre e a esplorare quella scogliera sottomarina. Sicuro di avere abbastanza aria nelle bombole e, sostenuto dal suo coraggio, senza sapere a che profondità si trovasse (non possedeva profondimetro né orologio su50
bacqueo), si spinse più avanti. Ai suoi occhi apparve un nuovo mondo: su una parete di roccia verticale viveva una città di corallo! Era un’infinità di rami rossi brulicanti di piccolissimi polipi bianchi. Capì che aveva scoperto qualcosa di particolarmente importante, per cui abbandonò il fucile e la cernia e, con l’aiuto di un sasso, staccò dalla roccia alcuni di quei meravigliosi rami. Risalì lentamente come l’istruttore francese gli aveva raccomandato. Arrivato in superficie, accanto al gozzo, mostrò all’amico quello che aveva pescato. L’amico, che era un gioielliere, nel vedere quella meraviglia, esclamò: < campione, lo sai cosa hai portato su ? > “Veramente no, spiegamelo!”. < Sono rami di Corallo rubrum. Con questo si fanno i migliori gioielli! >. Da quel momento Leonardo capì che in quel luogo, a Capo Spartivento, lo aspettava “l’oro rosso”, al cui recupero avrebbe dedicato tutta la sua vita, esplorando, anche, i mari di molte parti del mondo. La stampa dell’epoca diffuse la notizia della scoperta del banco di corallo, fatta a Palinuro: il settimanale “ Tempo” dedicò la copertina dell’8/11/1956 all’esploratore degli abissi (vedesi foto di seguito riprodotta). La direzione dell’acquario di Napoli lo chiamò per fargli eseguire altre immersioni nel golfo; ma, dopo alcuni mesi, Leonardo lasciò la Campania per recarsi, con l’amico Ennio Falco, ad Alghero, in Sardegna, alla ricerca di corallo. I primi tempi furono duri perché non trovarono subito il corallo, pertanto i due amici si dedicarono alla pesca subacquea e al recupero di materiale bellico – giacente sui fondali - che vendevano ad un rigattiere. Era un lavoro duro, perché non era facile portare a bordo i cesti pesanti con i bossoli di ottone, recuperati a profondità notevoli! Un giorno uno di questi cesti si sganciò dalla corda, mentre era tirato in superficie, e ricadde sul fondo del mare. Leonardo, per recuperarlo, si tuffò immediatamente a circa 30 metri di profondità. Spinto sempre da quello spirito di avventura e di curiosità, che ne ha fatto un personaggio unico, esplorò con lo sguardo il fondale circostante. La trasparenza delle acque gli permise di vedere, non molto distante, un enorme scoglio a forma di capanno. Lo raggiunse: era una grande caverna, rivestita interamente di “corallum rubrum”, dalla volta alle pareti. Senza pensarci un attimo, Leonardo si liberò dei bossoli, svuotando il cesto, che riempì di “oro rosso” , in pochi minuti. Era il primo corallo trovato in Sardegna - Alghero, Capo Caccia. Da Alghero passò all’arcipelago della Maddalena, approdando a Santa Teresa di Gallura, accompagnato dalla futura moglie, Vera. 51
Dopo una breve sosta a Santa Teresa, raggiunse l’Isola Rossa, fantastico isolotto dalla roccia rosso sangue e dalla natura incontaminata. La stupenda isola non offriva nessuna comodità all’epoca, ma Leonardo e Vera superarono ogni disagio, felici di vivere in un luogo così bello. Comunque le ripetute immersioni, a 40 metri di profondità, permisero la raccolta di diversi chilogrammi di corallo. Il suo vagare per il Mediterraneo era appena cominciato: dalla Sardegna si spostò all’Argentario. Comprò uno scandaglio che gli permetteva di individuare il punto giusto per eseguire immersioni mirate. Aveva capito, dall’esperienza fatta in Sardegna, che il corallo di pregio non si trova sui bassi fondali: i successi ottenuti a Palinuro, a Capo Caccia e all’Isola Rossa non si ripeterono più. Era scoraggiato, ma ancora una volta il caso gli fu d’aiuto: un pescatore ponzese che pescava aragoste vicino all’Isola di Montecristo, gli assicurò che, a circa 15 metri dalla costa, aveva trovato nelle nasse diversi rametti di corallo. Le immersioni cominciarono subito. A ben 85 metri, l’audace esploratore trovò un banco di corallo enorme, di ottima qualità. Leonardo racconta, in “Corallo Rosso”, di essere rimasto sul fondale per ben 6 minuti, a riempirne un cesto!. Nonostante fosse emozionato, riuscì ad avere un notevole autocontrollo, e riemerse piano, con cautela, per compiere una lunga decompressione, prima di arrivare in superficie. La padronanza di sé e la capacità di autocontrollo furono le doti peculiari che fecero di Leonardo Fusco uno dei più grandi sub a livello mondiale. Dall’isola di Montecristo, si diresse a Civitavecchia, dove arrivò a notte fonda e attraccò accanto ai gozzi dei pescatori. Com’è consuetudine della gente di mare, fece subito amicizia con un anziano pescatore napoletano, che era sulla prua del gozzo, ormeggiato accanto alla sua barca. Il napoletano diede tutte le informazioni possibili sui fondali della zona, assicurando che, a Montalto di Castro, il corallo si trovava a 35 metri e non a 85, come a Montecristo. Il giorno seguente il napoletano lo accompagnò sul posto in cui aveva trovato il corallo nelle reti. Le prime immersioni nelle acque di Montalto furono infruttuose; tuttavia la tenacia e la costanza di vagare nei silenzi delle scogliere sommerse, premiarono questo straordinario uomo di mare. In quel mare, infatti, Leonardo raccolse un’enorme quantità di corallo. Proprio quest’esperienza positiva gli fece decidere di dedicarsi completamente alla vita di mare, insieme alla moglie Vera, che lo seguì, per 30 anni, in giro per il Mediterraneo. Con il ricavato della vendita di quel corallo, comprò le attrezzature e gli strumenti necessari per affrontare, in sicurezza, immersioni ad alte profondità. 52
Commissionò a Meta di Sorrento la sua prima imbarcazione, “Il Paguro”, che dotò di doppio compressore, doppi eco-scandagli, camera di decompressione e di ogni mezzo necessario all’assistenza di un sub in immersione e in risalita. All’epoca le scogliere di corallo molto profonde erano devastate e sconvolte, nell’habitat di riproduzione, dall’“ingegno” o “croce di S. Andrea”, attrezzo rudimentale tirato a strascico dalle “coralline”, imbarcazioni di Torre del Greco, che cercavano corallo lungo le coste del Mediterraneo. Leonardo, prendendo atto dello scempio che era procurato dalle coralline nel mondo sommerso, si recò a Zurigo e collaborò con alcuni studiosi svizzeri per realizzare un sistema d’immersione, con miscele di gas e nuove attrezzature, che consentissero ai sub di scendere a notevoli profondità (fino ai 120 metri), restare sui fondali più a lungo per raccogliere a mano il corallo, senza alterarne l’habitat naturale e il processo di sviluppo e di riproduzione. In seguito si dotò anche di un minisommergibile, con cui ritornò nelle acque in cui si era immerso 20 anni prima e rimase sconvolto e addolorato nel vedere quel mondo sommerso, per lui meraviglioso, brutalmente stravolto. Pensò quindi di provare a ripopolare le scogliere di corallo, procedendo all’impianto di rami giovani in un habitat idoneo al loro attecchimento e sviluppo. Fino al 1984 Leonardo ha praticato la pesca del corallo in tutto il Mediterraneo (Marocco, Libia e Tunisia) arrivando anche in Giappone. E nel mare della Tunisia ebbe termine la sua attività di pescatore di corallo. Ma non vennero meno la sua audacia e la sua intraprendenza. Con coraggio e fatica, superando infinite difficoltà burocratiche e senza avere una profonda conoscenza di medicina iperbarica, mise su un’azienda sanitaria privata, il “Cemsi”, a Salerno, che ha riscosso notevoli successi nel campo dell’ossigenoterapia, per la cura di molte malattie. Purtroppo questo personaggio, vanto del Cilento, sua terra di origine, e orgoglio di Palinuro, luogo che elesse come sua definitiva dimora, come tutti i grandi, è andato via in un baleno. E’ mancato a noi tutti il 16 giugno 2012. L’Accademia Internazionale di Scienze Tecniche Subacquee gli ha conferito, post mortem, il premio “Tridente d’oro 2012” il cui attestato recita così: < Alla memoria di Leonardo Fusco, uomo che ha fatto del mare e del corallo la sua ragione di vita. Primo a raccoglierlo con l’immersione autonoma, primo ad usare la camera iperbarica a bordo della sua imbarcazione, primo ad usare le miscele per le ultime immersioni con il sommergibile e primo a cercare di fermare la raccolta indiscriminata di questo prezioso e nobile organismo marino >.
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Palinuro, Porto,1939, l’antica torre saracena che, restaurata, divenne la casa della famiglia Fusco.
Palinuro, la pesca in apnea. Da sinistra, Leonardo Fusco, il Conte Malvasia e il Conte Rasini di Castel Campo ( i primi turisti ). 54
Primo corallo a palinuro: Leonardo Fusco ha l’onore della copertina del settimanale “Tempo” dell’8 novembre 1956.
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Il primo corallo pescato in Sardegna da subacquei nelle grotte di Capocaccia.
Vera, berlinese doc, moglie di Leonardo Fusco.
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ANIELLO GRANITO (u’ Spaccone) Personaggio unico, tra i vecchi pescatori palinuresi, è Aniello Granito, u’ Spaccone, nato a Palinuro il 25/12/1910. Alto e magro, con occhi piccoli e vivaci, dallo sguardo ironico e interrogativo, Aniello lavorava poco e si divertiva molto facendo lo “Spaccone”; infatti, la sua arguzia e la sua intelligenza gli permettevano di inventare e raccontare cose fantastiche, in maniera così seria e convincente, da prenderle per vere. Era socievole e loquace e, quando riteneva opportuno, non si esprimeva in dialetto, ma si sforzava di “spaccare” l’italiano. I suoi amici ancora viventi, Antonio Gabriele “Pirichè” e Aniello Granito, suo omonimo, detto “u’ Pordu”, parlando di lui, ridono nel ricordare alcuni simpatici episodi. Antonio Gabriele racconta: < Un giorno u’ Spaccone si trovò all’Arco naturale con un turista di Monza. Fecero amicizia, e il monzese gli chiese se fosse di Palinuro. Lo “Spaccone”, pronto, rispose: - No, noo, io sono di Terni. Mi trovo qui per una disavventura capitatami in guerra: pilotavo un aereo Savoia-Marchetti, che fu attaccato da un caccia inglese. L’aereo fu colpito alla coda ed io dovetti fare un pericoloso ammaraggio, in prossimità di Capo Palinuro. Fui soccorso dagli abitanti del posto e vi rimasi. Conobbi una bella ragazza palinurese e la sposai -. Il turista seguì attentamente il racconto, credendo di aver conosciuto un eroe. Lo Spaccone, la mattina seguente, come il solito, andò alla Marinella e si divertì molto a raccontare ai suoi amici pescatori quanto aveva fatto credere al turista di Monza >. Aniello Granito (u’ Pordu) si diverte a raccontare l’episodio del dentice. < Era una bellissima mattinata di agosto - dice u’ Pordu - e Aniello u’ Spaccone era andato a pescare a Buondormire. Calate a mare le reti, riprese i remi per raggiungere la spiaggia. Ma si sentì chiamare da qualcuno che era sulla prua di un yacht poco distante dalla sua barca. Si fermò e vide un signore, probabilmente il proprietario della lussuosa imbarcazione, che gli disse: - Se pescherai un dentice, portalo a me. Lo comprerò a qualunque prezzo! - Aniello rispose: - Sì, sicuramente: se lo pescherò, sarà vostro! Tornato a riva, Aniello cominciò a pensare come doveva fare per procurarsi un 57
dentice. Non impiegò molto ad architettare il piano: andò in pescheria e comprò un grosso dentice surgelato. Appena il buio della notte gli garantì di non essere visto, si recò, dove aveva calato la rete e, con una “porpara” (arnese uncinato per pescare i polipi), tirò in superficie la rete e mise dentro il dentice. Calò di nuovo in acqua la rete e, remando piano piano, raggiunse la spiaggia. Alle prime luci dell’alba, lo Spaccone andò alla Marinella: doveva portare a termine l’impresa! Era impaziente di pescare il meraviglioso dentice e consegnarlo fresco fresco a chi glielo aveva commissionato. Tirò la rete dalla quale estrasse il dentice e lo diede al cuoco dello yacht. Il cuoco era un pescatore siciliano e capì immediatamente che il dentice era scongelato, quindi si rivolse ad Aniello dicendo: - Amico, il figlio di chi pescò questo dentice, morì di vecchiaia! Lo Spaccone di rimando: - Ma pecchè non te vuò fa i cazzi tuoi?! Pare ca t’ara mangià tu?! Statte cittu!- (Perché non vuoi farti gli affari tuoi!? Forse lo devi mangiare tu?! Stai zitto!) Il cuoco, intimorito dal tono perentorio di queste parole, tacque. Lo Spaccone si affrettò a mettere in tasca i soldi per la vendita del dentice, afferrò i remi e fece scorrere sull’acqua il piccolo gozzo come se a poppa avesse avuto un motore fuori bordo! >. Un’altra volta, Aniello u’ Spaccone organizzò una marachella a tre: eravamo io, lui e Mauro Aprea – continua u’ Pordu. < Un signore di Ascea, un certo Frangione possedeva una bella menaica che affidò a noi tre, per pescare durante tutto il mese di maggio e dividere poi il pescato a metà. Presa in consegna la menaica, cominciammo il nostro lavoro sotto la direzione dello Spaccone. Decidemmo di fare il “vuolo” (calare in mare la rete) e tirarla a bordo dopo poco. In questo modo pescavamo una quantità di alici che era sufficiente a noi tre, non solo per fare i vasetti di acciughe,ma anche vendere alici fresche, e sbarcare il lunario quotidiano. Al proprietario della menaica pensammo di dire che pescavamo solo pochi chili di sarde. Un giorno u’ Spaccone dalla barca vide arrivare Frangione sulla spiaggia, dove noi eravamo diretti per approdare. Aniello immediatamente si rivolse a me e a Mauro intimandoci così: - Nu parlati vui. Aggia parlà sulu io!- (Non parlate voi. Devo parlare solo io!) Gli andò incontro e, con la massima serietà e sconforto, recitò la parte: - Ma chi 58
tà bennuta sta rizza? Chista piglia sulu sardi. Pigliatella e portatella; è maliritta!- (Ma chi ti ha venduto questa rete? Pesca solo sarde. Prenditela e portatela; è maledetta!) Il povero Frangione gli credette, tanto erano accorate e convincenti le sue parole. Appena si allontanò, Aniello ci fissò, per qualche minuto, con i suoi occhietti penetranti, poi disse: - Ate vistu? S’ adda fatià poco e guaragnà buonu. Frangione ha ammuccatu!- (Avete visto? Si deve lavorare poco e guadagnare molto. Frangione ha abboccato!) >. Questi e tanti altri episodi sono stati vissuti fuori dall’ambito familiare, ma sono da ricordare anche le scenette tragi-comiche vissute in famiglia. Aniello aveva stabilito con la moglie, Carmela Esposito un rapporto unico, direi stravagante. Carmela - “Melina ru Spaccone”- era una bella donna, alta e robusta, con i capelli neri e crespi, raccolti a tuppo sulla nuca. La forza e l’aggressività di Melina erano iperboliche in confronto a quelle del marito, alto e magro da far paura. Il povero Spaccone sapeva bene della superiorità della moglie in quanto a potenza fisica, perciò quando Melina lo aggrediva, prima a parole e poi con i fatti, cercava di difendersi scappando. Agli amici diceva sempre che Melina ne aveva prese tante. In effetti, le prendeva sempre lui dalla moglie. La figlia da tutti chiamata, ancora oggi, “Nelluccia ru Spaccone”, dice: < E’ vero, mamma e papà spesso andavano alle mani, ma in realtà si volevano bene. Mamma non sopportava che papà rifuggisse da ogni responsabilità e vivesse spensierato. A papà più che lavorare, piaceva andare in giro, divertirsi e far divertire gli amici. Mamma invece lavorava molto, in casa e fuori di casa: andava, a piedi, nei paesi vicini a vendere le alici, che portava in testa in una “bagnarola” (bacinella di zinco). Tornava stanca e sudata, e andava su tutte le furie, vedendo papà che fumava tranquillo, seduto su un gradino. Dopo dieci minuti di grida e minacce, tutto finiva! Queste ripetute scenette erano il divertimento del vicinato >. Chi ha conosciuto lo Spaccone ne parla con simpatia e affetto, ricordandolo come un personaggio unico. Per il suo particolare carattere Aniello Granito ha lasciato una chiara impronta di sé, nella storia dei pescatori palinuresi.
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Aniello Granito, detto “U Spaccone”.
Aniello Granito, detto “U Pordu”. 60
Antonio Gabriele.
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MAURO PALMIERI (Fecatieddu o Civittula) Mauro nacque a Palinuro il 19 novembre 1918. La sua infanzia non fu facile, perché la grande guerra aveva sconvolto la precaria economia di Palinuro. Mauro, perciò, come gli altri bambini palinuresi, suoi coetanei, sentì anche i morsi della fame. Tutto ciò non incise negativamente sul suo carattere: da adulto si rivelò una persona socievole, estroversa, allegra e disponibile. Era intelligente e arguto, piccolo di statura, con la pelle bruciata dal sole e due occhietti vivaci che, luccicando sotto la visiera nera dell’inseparabile “coppola bianca”, lasciavano intendere il pensiero del loro padrone, prima ancora che lo traducesse in parole. Il figlio Pompeo così racconta: < Mio padre aveva col mare un legame viscerale. Non riusciva a stare lontano dall’acqua salata. Una volta mi disse che desiderava andare a Roma, perché voleva vedere il Papa. Volli accontentarlo. Il primo giorno, preso dalla straordinaria grandezza e bellezza della capitale, non mostrò segni d’inquietudine. Il secondo giorno cominciò ad agitarsi, fremeva, non era più contento. Allora gli chiesi cosa avesse. Mi rispose: - Mi sento male. Domani mattina voglio rivedere il mare. La nostra gita, quindi, ebbe breve durata. Più che i monumenti romani e la confusione della città, mio padre preferiva vedere i colori del suo mare e godere della pace e della libertà che gli offriva la sua barchetta. Restava, infatti, intere giornate, al largo, per pescare. Un mattino d’autunno – non ricordo di quale anno – papà uscì per la pesca dei tonni. Il tempo era buono, ma nel pomeriggio si scatenò un temporale: si levò un forte vento e il mare si agitò. Intanto papà non rientrava al porto. Cominciammo a preoccuparci; andammo a chiedere ai pescatori di Pisciotta e di Camerota se avessero visto approdare un gozzo sulle loro spiagge; ma la risposta fu negativa. Noi figli pensammo di chiedere a un parente, Ciro Palmieri, di uscire in mare col suo motopeschereccio, alla ricerca di mio padre. Ci spingemmo al largo, dietro Capo Palinuro, ma non lo trovammo. Eravamo disperati e cominciavamo a pensare al peggio quando, sulle onde, vedemmo beccheggiare una barca. Era proprio lui e lo raggiungemmo! Attraccammo al porto che era quasi notte. Gli domandammo, dove si era riparato, come aveva fatto a reggere alle onde, con i soli remi. Tentennò il capo e, con un sorriso sornione, rispose: - Io non sono fesso, 62
quando mi sono accorto che il temporale era vicino, sono entrato nella Grotta Azzurra e, nell’attesa che il cattivo tempo si attenuasse, ho sventrato e lavato i tonni che avevo pescato!. Era coraggioso, pronto nelle decisioni, sempre attrezzato di quanto gli potesse occorrere a bordo. Sapeva anche cucinare molto bene: una volta pescò un pesce spada di otto chili, e improvvisò un pranzo a mare. Eravamo in quattro: io, papà e altri due pescatori. Quel pesce spada era tanto saporito che, in quattro, lo mangiammo tutto! Ricordo che da una canna ricavammo le forchette; una di esse è custodita ancora dall’amico Antonio Scarpati, “zi Marco”. Mio padre, anche se piccolo fisicamente, era molto forte. Quando fu fatto prigioniero dagli inglesi, in Africa, s’improvvisò pugile: riusciva a essere sempre vincitore, non perché addestrato al pugilato, ma perché stancava l’avversario colpendolo a ripetizione e riuscendo a mantenersi sempre in piedi. Gli amici dicevano che Palmieri aveva le gambe di ferro! Fu proprio nel deserto africano che, grazie alla resistenza delle sue gambe, riuscì a salvare un amico. Mauro Scarpati, suo coetaneo e commilitone, fu colpito da dolori addominali con una forte febbre. Non potendo prestargli soccorso nel posto dove si trovavano, mio padre decise di caricarsi l’amico sulle spalle e, in compagnia di un africano, percorse sei chilometri per raggiungere il più vicino ospedale. Per questa sua generosità e prontezza l’amico Mauro fu salvato e gliene fu sempre grato. Quando tornò dall’Africa, seppe che la sua ragazza, Assunta, stava per fidanzarsi con un altro pescatore, Eugenio Sacco. Restò sorpreso, ma non perdette la speranza di recuperarla. Infatti, chiamò Eugenio e gli disse: - Come vedi, io non sono morto! Sono tornato! Se non la finisci di corteggiare Assunta, io “ te mangiu ‘u fecatieddu! “ (Io ti mangio il fegatino!) Ecco il primo nome d’arte: “Fecatieddu”! Il secondo, “Civittola” (civetta), lo guadagnò perché si era proposto di addomesticare una civetta, che aveva eletto per sua dimora una grotta, sotto la collina di Molpa. Papà ripeteva, in modo perfetto, il verso della civetta e, per questo, fu ribattezzato “Civittola” >. Ormai dal 1998 Mauro Palmieri non c’è più: ha lasciato il suo mare e la sua barca; ma la sua piccola, forte figura è presente nella mente e nel cuore di chi lo conobbe.
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Mauro Palmieri.
Mauro Palmieri e Assunta Gorga celebrano le nozze d’oro. 64
ANIELLO PEPOLI (Buonomo) Aniello Pepoli nacque a Palinuro il 22 marzo 1911 da Francesco e Giuseppina Scarpati ed era il secondo di 7 figli. Visse al Porto, nella casa paterna, fino a quando sposò Carmela Granito e andò ad abitare sulla panoramica strada che dal paese porta al mare. Lo avevano soprannominato “Buonomo” perché veramente era un uomo buono. Passò tutta la sua vita sul mare: era uno di quei pescatori che vivono scandendo il tempo e rispettando abitudini e tradizioni: una persona tranquilla, che non amava la confusione e il chiasso. Più che parlare, gli piaceva ascoltare o leggere quando poteva. La figlia Maria racconta: < Mio padre cominciò a pescare, sin da bambino, con nonno “Ngicco”. Si alzava presto il mattino, per andare a mettere le reti, e faceva di tutto per non arrivare tardi a scuola; infatti, costringeva il padre ad approdare alla spiaggia della Ficocella, da cui poteva raggiungere la scuola più velocemente. Nonno lo faceva scendere e poi continuava con la sua barca fino al porto. Ultimata la scuola elementare, mio padre non poté proseguire gli studi ma, pur dedicandosi alla pesca, coltivò la passione per la lettura. Leggendo, imparò anche a scrivere abbastanza bene e, da militare, diventò “lo scrivano” dei commilitoni che non sapevano farlo. Diceva con orgoglio di aver visto da vicino il re e la regina che andarono a fare visita ai militari del piroscafo Quarto, sul quale lui era imbarcato. Finito il servizio militare, ritornò a Palinuro e si sposò. Papà ha lavorato sempre. Tanto! Quando tornava, il mattino, dopo aver pescato l’intera notte sulla lampara, prendeva il paniere con la sua colazione e andava di nuovo al porto per continuare a lavorare con le “reti chiare”, per la pesca di pesci pregiati. Ricordo che quando non esistevano ancora le reti di nylon, papà si faceva spedire il cotone da Brescia, e “sarciva” (tesseva) lui stesso la rete, alcune volte di notte, al lume di candela. La faceva a maglie piccole, per la pesca della menaica e della sciabica, a maglie più grandi (reti chiare), per la cattura di pesci pregiati. La rete per le triglie era più spessa, e quella per i tonni era di cotone abbastanza doppio. Per la tessitura delle reti a maglie piccole si adoperavano “i cannuoli” che erano delle canne di vario diametro; per quelle a maglie grandi, si usavano “i tavuledde”, tavolette di legno. Questi rudimentali attrezzi erano costruiti, all’occorrenza, da ciascun pescatore. Ultimata la “sarcitura”, occorreva tingere la rete, perché “u furese” (il cotone) era chiaro e le reti dovevano essere di colore marrone. Per ottenere la tintura, si adoperava la corteccia secca dei pini che noi bambini, insieme ai grandi, andavamo a raccogliere nella pineta di Mingardo. Una volta raccolta, bisognava pestarla per ridurla in una polvere che chiamavamo “u zappinu”. Per la tintura della rete si procedeva così: si adoperavano dei fusti di ferro che erano sistemati su un tripode costituito da tre pietre 65
sfaccettate, in mezzo alle quali si accendeva il fuoco. Nel fusto si metteva l’acqua e la polvere di “zappinu” sufficiente per la quantità di rete da tingere e si portava a ebollizione. Quando l’acqua diventava marrone - rossiccio, si ripuliva da qualche scoria e vi s’immergeva la rete. L’immersione della rete nella tintura bollente durava pochi minuti. Si tirava via la rete tinta e, nella stessa acqua, s’immergeva altra rete da tingere. Poi le reti erano sistemate su assi di legno, coperte con teloni e si lasciavano scolare, per tutta la notte. Al mattino seguente si appendevano allo“spasario” (stenditoio fatto con travi di agave secche) per farle asciugare al sole. Questo lavoro era fatto sulla spiaggia di cui, all’epoca, i pescatori potevano servirsi senza prescrizioni e limitazioni. Il dopoguerra fu un periodo abbastanza difficile perché eravamo cinque figli, tutti bambini, e papà doveva lavorare per tutti: l’unica fonte di guadagno era la pesca e non sempre si riusciva a vendere il pesce; spesso si faceva il baratto con prodotti alimentari che noi non avevamo. Le cose cominciarono a migliorare negli anni cinquanta, con l’arrivo a Palinuro del Club Mediterranée. Papà trovò lavoro fisso nel Club accompagnando i turisti francesi con la barca, lungo la costa e fino alle spiagge di Marina di Camerota. Il turismo migliorò l’economia della nostra famiglia, perché trovarono lavoro anche i miei fratelli. Mio padre fu eletto anche consigliere comunale e ricoprì questa carica presso il nostro Comune, come rappresentante dei pescatori, per circa un ventennio. Comunque, anche se partecipava alla vita politica, non abbandonò mai il suo lavoro: andò a pescare finché le forze glielo consentirono. L’impegno di andare quotidianamente a mare lo aiutò a sopportare i dolori che colpirono la nostra famiglia: due miei fratelli, Franco e Antonio, morirono ancora giovani. Dopo la loro morte mio padre diventò taciturno, passava intere giornate al Porto, a fare il “rammaggio” alle reti. L’unico suo piacere era passare il tempo con i nipoti che rallegrarono un poco gli ultimi suoi anni, quando perdette anche la compagnia di mia madre. Mio padre, senza fare discorsi, senza metodi speciali, ci ha educato ad essere persone serie: il suo esempio di uomo giusto, il suo attaccamento al dovere e la sua saggezza ci parlano ancora >.
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Aniello Pepoli, in marina, è il sesto da destra. la signora che passa in rassegna il picchetto d’onore è Maria Josè, la moglie del principe Umberto di Savoia (ultimo re d’italia).
1966, Aniello Pepoli con la moglie Carmela Granito.
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Aniello Pepoli (buonuomo) con il figlio Antonio e il fratello Francesco. Porto di Palinuro, anni 1950s.
Aniello Pepoli esegue il rammaggio sulla barca (anni 1970s).
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Aniello Pepoli, con la nipotina Donatella (sopra) e con la moglie Carmela Granito (sotto), addetto alla preparazione delle reti.
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Aniello Pepoli, in barca mentre si prepara a lanciare la rete, con il figlio Antonio.
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FRANCESCO PEPOLI (Ciccio ri Tririci) Francesco è il penultimo dei sette fratelli Pepoli, nato a Palinuro il 15 luglio 1921. Dal 1998 non c’è più, ma è ancora ricordato, perché era uno di quei pescatori che, senza fare grandi cose, ha lasciato il segno di sé. Riservato, garbato nel rispondere, disponibile. Era piuttosto solitario, infatti, preferiva andare a pescare sempre da solo. Conosceva bene i fondali del tratto di mare che va da Marina di Camerota a Pisciotta. Sapeva qual era il periodo e la zona di mare più adatta per la pesca di determinate qualità di pesce. È ricordato, infatti, come uno dei più bravi pescatori dell’epoca: era cosa rara che “tornasse da mare” col paniere vuoto! Difendeva con forza, insieme agli altri pescatori, il tratto di mare in cui non era consentita la pesca alle paranze. Solo per questo motivo, Francesco Pepoli perdeva la sua calma e rischiava di ingaggiare anche liti con i “paranzuoti”. Nella seconda metà del secolo scorso le paranze di Torre del Greco e di S. Maria di Castellabate venivano spesso a pescare lungo le coste cilentane e, infrangendo ogni legge, arrivavano a pescare anche a profondità non consentita. Con le loro reti a strascico, distruggevano la fauna marina, impoverendo la zona di mare riservata ai pescatori proprietari di piccole barche e di “reti chiare”, apposite per la pesca di pesce pregiato. Nelle basse profondità i pescatori palinuresi posizionavano “il tremaglio”, rete che restava in mare per tutta la notte. Qualche volta capitava che i “divergenti” della rete della paranza, avvicinandosi alla costa, s’impigliassero nel tremaglio e lo trascinavano a bordo, insieme al pescato, arrecando un notevole danno al pescatore proprietario di quella rete. Si racconta che, una mattina di primavera, Francesco era andato verso le Saline a togliere le reti che aveva messo in mare la sera precedente. Come il solito era solo e remava tranquillamente verso i galleggianti che segnalavano la sua rete. A un tratto si accorse che una paranza, di notevole stazza, avanzava in prossimità della costa: si fermò e stette a guardare. La paranza pescava a strascico, come il solito, in zona non consentita. Francesco remando, si diresse verso la paranza e, pur essendo solo, affrontò i pescatori napoletani protestando energicamente. Agli improperi e alle grida di Ciccio, i “paranzuoti” risposero canzonandolo e continuarono a pescare a strascico, molto 71
vicino alla costa. Ciccio perdette la pazienza: s’innervosì e non avendo pietre a bordo, cominciò a lanciare alcuni piombini, che conservava in un canestro, contro la cabina della paranza mandandone i vetri in frantumi. Il capitano reagì brutalmente e cominciò a inseguire la piccola barca. Ma Ciccio, che conosceva bene l’andamento del fondale del posto, si diresse, remando con tutte le sue forze, verso la spiaggia, seguendo un percorso dove la profondità era bassa. Questo perché, se la paranza avesse continuato a inseguirlo, si sarebbe arenata. La paranza fu così costretta a rinunciare all’inseguimento e drizzò la prua verso Punta Licosa. Ciccio rientrò al porto e raccontò quanto gli era accaduto ai pescatori palinuresi. Tutti si proposero di far valere i loro diritti, anche con modi forti. Infatti, da allora furono più attenti a sorvegliare la navigazione dei motopescherecci forestieri. Intorno agli anni 50’ capitò un fatto che ancora e oggi è raccontato e ricordato dai pescatori più anziani. Aniello Graniti, detto “Poldo”, racconta:< Era settembre. Il tempo si manteneva buono, per cui le paranze del golfo di Napoli erano tutti i giorni lungo la costa di Palinuro per la pesca a strascico. La paranza, trascinando la sua rete a piccole maglie, imprigiona anche i pesci piccolissimi, (le famose fragaglie di triglie, ottime per la frittura mista), impedendone la crescita, e quindi la riproduzione. Vi fu un periodo in cui noi pescatori palinuresi non pescavamo più triglie di “morsa”, cioè triglie grandi ricercate dai ristoranti per arrostire o per cucinare alla livornese. Perciò Francesco Pepoli, uomo tenace e costante, era particolarmente attento a sorvegliare se le paranze si avvicinassero alla nostra costa. Una sera di settembre, infatti, Ciccio vide una paranza che pescava a poca distanza dalla spiaggia, di fronte alla costa di Buondormire. Chiamò altri pescatori, tra cui Antonio Calembo, “Nghingotto”, uomo molto deciso, e con una barca a remi si diressero verso la paranza. Vi si accostarono e chiesero con decisione ai paranzuoti di spostarsi a pescare più al largo. I pescatori della paranza, come il solito, incuranti della protesta dei palinuresi, continuarono a trascinare la rete. Ciccio e Nghingotto si fecero giustizia da soli: passarono con la barca a poppa della paranza, sotto i due cavi di acciaio che tiravano la rete. Fecero in modo che uno dei due cavi strisciasse sul bordo della loro barca e, con un gesto fulmineo, lo tagliarono con un colpo di accetta. Ne tagliarono uno solo, per impedire ai pe72
scatori della paranza di inseguirli, dovendo recuperare la rete, rimasta in mare, sorretta da un solo cavo. Fu un atto di coraggio: ma in quell’epoca non c’era altro modo per far valere le proprie ragioni. Da quando, poi, c’è stata una sorveglianza seria da parte dello Stato, le acque del nostro mare si sono ripopolate di triglie e, ancora oggi, ve ne sono in abbondanza>.
Francesco Pepoli, detto “Ciccio ri tririci”.
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MAURO PEPOLI (Il “Quartigliere”) C’era nel porto di Palinuro un piccolo uomo vestito di nero. Eri sempre sulla spiaggia attento “a tenere pulito”, come dicevi. Il sole non bruciava più la tua pelle, era troppo scura e troppo “segnata” (dal commento scritto dalla prof. Anna Maria Amendola, per la morte Di Mauro Pepoli). Questo era il Quartigliere: un uomo piccolo con la pelle bruciata dal sole e dal vento. Era attento, disponibile; cordiale nell’intrattenersi con la gente. Parlava a modo suo, cercando di tradurre il dialetto palinurese in lingua italiana. Dal suo esprimersi, veniva fuori quella saggezza spicciola, ma tanto incisiva che hanno gli uomini di mare. Il suo “ habitat”preferito era il porto: lo sentiva come prima casa. Ne aveva fatto il suo angolo di terra preferito che curava ogni giorno, spazzando la spiaggia “ devo tenere pulito” – diceva – a chi, guardandolo, faceva qualche commento. Era nato il 30 ottobre 1914 ed era il quarto di sette fratelli. Faceva parte di quella numerosa famiglia Pepoli creata da Francesco e Giuseppina Scarpati. Dal loro matrimonio nacquero: Nazareno (1910), Aniello (1911), Antonio (1913), Mauro (1914), Emilio (1917), Francesco (1921) e Assunta (1926). Il Quartigliere, ancora bambino, com’era regola allora per i figli maschi, seguì il padre “Ngicco” nell’attività della pesca. Visse al porto, nella casa paterna, fino a quando sposò Maura Panetta, nel 1938. La figlia Rosa, che ha assistito i suoi genitori negli ultimi loro anni di vita, dandone notizia, si commuove e così si esprime: < Papà e mamma erano una coppia felice, serena, perché il loro rapporto era sincero, dolce. Spesso, anche da vecchi, erano soliti scherzare tra loro. Quando papà saliva dal Porto, ogni sera, cominciava a chiamare: Maura, Maura, dal piazzale che c’è davanti casa. Mamma, di proposito, non rispondeva subito; e papà, allora: Addù sì? Nun mme fa appaurà! (Dove sei? Non farmi prendere paura !). Allora mamma gli andava incontro e, spesso, si salutavano con un bacio. Questo finché papà è andato al Porto, cioè fino a 93 anni. Hanno festeggiato i 70 anni del loro matrimonio. Forse, proprio perché avevano vissuto insieme quasi tutta la vita, nel loro ultimo inverno, seduti accanto al focolare, progettavano di fare insieme anche l’ultimo viaggio. Una sera, infatti, sentii mamma che diceva: io sono malata, me ne vado prima. Papà rispose: – No, Maura, la strada te la faccio io! – E così fu. Papà morì il 13 maggio 2009; e mamma lo seguì solo 24 giorni dopo, il 6 giugno. Papà era un uomo cordiale, facile a fare amicizia con i turisti, cui, spesso, non fittava, ma “ prestava “ le sue barchette. Tutti gli volevano bene: era il punto di riferimento al Porto per i turisti abituali e anche per quelli occasionali. Verso le 6 del mattino, o anche prima, nella stagione estiva, prendeva la sua colazione e, a piedi, scendeva al Porto. La prima sosta era nella cappella di S. Antonio. Aveva un rapporto confi74
denziale e forte con il suo Santo, cui raccontava i suoi pensieri, le sue ansie, i suoi progetti. Era solito dire: – Io non prego, parlo con S. Antonio –. Dopo la sosta nella piccola cappella, andava sulla spiaggia, prendeva la sua “lanza” e faceva il primo giro nel porto per osservare le barche che aveva in custodia. Tornato a riva, prima che arrivasse la gente, provvedeva a raccogliere carte e alghe, perché “ sembravano brutte “ – diceva – su quella bella spiaggia bianca. Poi passava la giornata, spostandosi dalla spiaggia alla banchina, accompagnando con la “ lanza “ chi doveva raggiungere la barca, ormeggiata nella rada. Era tanto avvezzo a remare, che lo faceva senza alcuno sforzo: scivolava con la sua barchetta, sull’acqua, senza far rumore: il suo remare aveva una cadenza calma e uguale. I pescatori del porto avevano stima e fiducia in mio padre, che, col suo buonsenso, riuscì a organizzare i turni fra i pescatori per accompagnare i turisti a vedere le grotte; così tutti lavoravano equamente e, a sera, Giacomino Polito, che faceva il cassiere, divideva l’incasso. Andò avanti così, per diversi anni, finché non fu costituita una regolare cooperativa. Intanto, per le leggi del demanio marittimo, papà, ormai novantenne, dovette togliere dalla spiaggia la sua “flotta” – così chiamava le sue barchette di plastica -; dovette anche abbattere quella che tutti chiamavano “la baracca del Quartigliere” che aveva costruito, tra la strada e la spiaggia. All’ombra di quella baracca, fatta con tronchi di agavi secche e canne, si riunivano molti pescatori, per riposarsi, per mangiare la colazione, per fare “ il rammaggio “ e chiacchierare tra loro. La rimozione delle barchette e l’abbattimento della baracca furono, per mio padre, un dispiacere che soffrì in silenzio, com’era solito, ma che segnarono profondamente gli ultimi anni della sua esistenza, già rattristata dalla morte prematura del figlio Antonio. Da quando perdette Antonio, papà, portava sempre una maglietta nera, d’inverno e d’estate, che lo faceva distinguere dagli altri pescatori. Forse con quella maglia intendeva dire che, ogni giorno, portava con sé il suo grande dolore. Ci disse che, anche da morto, dovevamo mettergli una maglia nera. Alcuni mesi prima di morire, espresse un desiderio: – Sentite, vi devo raccomandare una cosa; quando muoio, dopo il funerale, prima di accompagnarmi al cimitero, fatemi fare l’ultimo giro sulla banchina del porto –. E noi lo accontentammo: papà salutò ancora una volta il suo mare >.
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Palinuro, anni 1950s, Mauro Pepoli, il Quartigliere, accompagna con la barca a remi i turisti a visitare le grotte.
Mauro Pepoli, detto il “Quartigliere”, devoto di Sant’Antonio la cui statua è conservata nella chiesetta al porto di Palinuro.
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Palinuro, spiaggia della Ficucella, processione di S. Antonio (1957), barca con la statua del Santo e ragazze con abito lungo del gruppo “Associazione del Sacro Cuore”.
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Vincenzo Amendola e il Quartigliere.
Veduta di Palinuro dalla terrazza dell’Hotel S. Caterina, con sullo sfondo il porto, anni 1950s. 78
Palinuro, festa di S. Antonio al porto. Processione di ringraziamento dei pescatori.
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NAZARENO PEPOLI Esperta nel cercare e raccogliere la “simintella”era una donna, Filomena, - da tutti chiamata zia Mena-, che fece da mamma ai suoi tre nipoti, dopo la morte prematura della figlia. Zia Mena fece sacrifici infiniti per tirare avanti i piccoli orfani, vendendo la “simintella” e i pesci che pescava il genero Nazareno. La figlia, morta a soli 26 anni, si chiamava Rosalia, moglie di Nazareno, uno dei pescatori più longevi di Palinuro (nato nel 1910, morto nel 1999). Nazareno Pepoli, perduta la moglie nel 1940, chiuso nel suo dolore, parlava poco e lavorava molto. Visse tutta la sua vita sul mare. Comprò una piccola barca, che chiamò Rosalia, come la moglie, e, con questa barca, passò la sua gioventù, intessendo col mare un rapporto unico. Io ricordo Nazareno al porto, rassettare le reti o la barca, a piedi nudi, con le gambe del pantalone arrotolate fin sotto il ginocchio. Nazareno, finito il suo lavoro, prendeva il paniere, e tornava a casa, all’ora del tramonto. Questo tutti i giorni d’inverno e d’estate. Quando per l’età avanzata non poté più andare a pescare, faceva il “rammaggio”, seduto su di uno sgabello, sulla spiaggia o davanti casa sua. Il “ rammaggio” è il rammendo della rete, che era fatto con un ago particolare, a “crucella” che è una forcina di legno, su cui si arrotola il cotone e viene passata tra le maglie rotte della rete, facendo i nodi, per riparare lo strappo. Nazareno, espertissimo nel fare “u rammaggio”, teneva tesa la rete, incastrando il pezzo che doveva riparare, nell’alluce del piede destro, con la mano sinistra tirava l’altra estremità della rete e, con la destra, passava la crocella nelle maglie da riparare. Quando aveva bisogno di avere libera la mano destra, appoggiava tra le labbra la crocella. Chissà cosa pensa un pescatore quando, in silenzio, sulla spiaggia, ricuce la rete, guardando più il mare, che il filo che sta annodando! Antonietta Pepoli, la seconda figlia di Nazareno, così racconta:< Non avevo neppure due anni, quando perdetti la mamma. Mio fratello, Mauro aveva solo 22 giorni, mia sorella Peppina era la più grande. Nonna Mena fu nostra madre. Ricordo che, quando avevo nove dieci anni, a piedi scalzi o al massimo con un paio di zoccoli di legno, andavo con nonna a vendere i pesci. Anch’io avevo la mia “bagnarola” – bacinella di alluminio – che portavo in testa; andavamo a piedi, a Centola, a vendere le alici, le sarde e i “cicinielli”- bianchetti-. Io ero la cassiera: la nonna mi affidava l’incasso. Un giorno riuscimmo a vendere tutto in breve tempo, ed io contai i soldi: erano in tutto duecento lire! Mi sentii tanto felice e dissi a nonna: - Siamo ricche, nonna, siamo ricche, abbiamo fatto duecento lire!- Rivivo ancora oggi quel momento di gioia >. Ora Antonietta ha settanta anni e vive con la sorella, Peppina e il fratello Mauro. Hanno ereditato dal padre Nazareno, la passione per il mare. Sono, infatti, tra quelli rimasti più legati alla vita di mare. In tutti i periodi dell’anno frequentano la spiag80
gia del porto, dove hanno la loro barca. Peppina, la sorella maggiore così racconta: < Erano tempi duri, ma eravamo più contenti, eravamo sereni, ci accontentavamo di poco e non avevamo tanti problemi. Si camminava sempre a piedi e per lunghi tratti. Si raggiungevano i paesi vicini, Camerota, Caprioli, sempre con l’inseparabile “bagnarola” in testa, piena di pesce da vendere. Ricordo che zia Peppina, la moglie di “zi Ngicco” (Francesco Pepoli) lasciava il figlio, ancora in fasce, addormentato, in mezzo al letto, e andava di buon mattino a Caprioli a vendere pesce. All’ora del ritorno, ”zi Ngicco”andava incontro alla moglie per mare; partiva dal porto, con la sua barca a remi, e la raggiungeva verso “ Capo d’arena”- spiaggia che si trova tra Palinuro e Caprioli- Zi Ngicco faceva tutto questo per alleviare il faticoso cammino di ritorno di zia Peppina che, da poco era diventata madre. Ricordo, in modo particolare, quando “scendevano a terra” le lampare: se la pesca era stata abbondante, dalla prua della lampara, un pescatore suonava la “tufa”, -grossa conchiglia forata alla punta, - che mandava un suono tanto forte che si sentiva da terra. Quando sentivamo il suono della “tufa”, andavamo al porto, dove approdava la lampara. Sulla spiaggia, il capobarca pesava le alici per darle a noi donne, che andavamo a venderle nei paesi vicini. Nonna Mena era sempre pronta ad andare a Centola, con la sua “bagnarola” per vendere alici o sarde. La maggior parte però del pescato era portato nei locali del cavaliere Amendola, dove c’erano altre donne esperte nell’ arte della salagione. Sistemati i pesci, i pescatori asciugavano la rete sullo “spasario” (sostegno fatto con travi di agavi secchi, legati l’uno all’altro in modo da fare una specie di spalliera), su cui si appendeva la rete. Stesa la rete, i pescatori la “panniavano”, cioè la scuotevano con le mani, per sistemarla, farne cadere l’acqua, le alghe, le erbe, le stelle marine che vi si erano impigliate. Mentre la piccola ciurma faceva questo lavoro, un pescatore più bravo a cucinare, faceva “u tiano” (grossa padella in cui cucinava il pesce appena pescato, con olio, aglio e peperoncino). “Panniate” le reti, tutti i pescatori si avvicinavano al “tiano” e mangiavano infilando il boccone con una forchetta di canna che ognuno aveva preparato per sé. Il proprietario della lampara mandava il vino >.
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Nazareno Pepoli sul suo gozzo.
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Nazareno Pepoli mentre esegue il “rammaggio” (notasi la “crocella” trattenuta tra i denti).
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ANTONIO POLITO (Zi Pietro) Antonio, figlio di Giacomo Polito e Antonietta Scarpati, è nato a Palinuro il 20 novembre 1940. E’ un pescatore in pensione e conserva integre le caratteristiche dell’uomo di mare: dapprima timido e schivo, poi cordiale e loquace, parla del passato, del nonno, del padre, di sé. Dice che suo nonno Pietro Polito, originario della vicina Pioppi, all’inizio del XX sec. fu mandato, in qualità di capo fanalista, presso il faro di Palinuro. Il faro, all’epoca, funzionava ad acetilene: fu acceso ogni sera e spento al mattino, per molti anni, da nonno Pietro che, a Palinuro, conobbe e sposò Carmela Graniti. La giovane coppia prese alloggio nell’appartamento sotto la torre del faro, da cui si ammira un panorama stupendo. Guardando a ovest, lo sguardo abbraccia l’immensa distesa azzurra, che va da Punta Licosa a S. Nicola Arcella in Calabria. A nord domina il monte Gelbison, a est il Monte Bulgheria che digrada in una catena di colline fino alle spiagge di Marina di Camerota e di Scario. E proprio nella casa del faro, in quel nido di serenità e di pace, nacquero nove bambini, quattro maschi e cinque femmine, tra cui, nel 1914, suo padre Giacomo, ottavo fra i nove. Tempo di guerra e di briganti, quando venne al mondo Giacomo! Papà Pietro e mamma Carmela dovettero impegnarsi molto per mantenere una così numerosa famiglia. Nonno Pietro era un uomo paziente e prudente: aveva saputo guadagnarsi il rispetto di tutti, anche dei briganti che erano in zona. I nipoti del fanalista Pietro sanno ancora che nonna Carmela, quando faceva il pane, riservava una pagnotta e le “freselle“ per il brigante Cola Marino che, con la sua banda, aveva anche un nascondiglio in una grotta sotto il faro. Pietro metteva il pane fresco e i biscotti in un apposito paniere e lo faceva scendere, dall’alto della roccia, con una corda, fino all’antro di Cola Marino. Per questo ripetuto gesto di generosità, il brigante era molto grato al fanalista, per cui gli offriva la sua protezione. Gli anni passarono veloci e i nove bambini diventarono giovani: Antonio e Gennaro impararono a gestire il faro, per cui Antonio, il maggiore, prese il posto del padre a Capo Palinuro, mentre Gennaro fu mandato in Calabria presso il faro di Scalea. Aniello s’imbarcò e seguì la carriera militare. Giacomo, invece, diventò uno dei più bravi ed esperti pescatori del posto. Antonio Polito, “ zi Pietro “, così racconta: < So che mio padre, sin da ragazzo, scendeva al Porto, per un sentiero molto ripido, che ora non c’è più, ma che permetteva di salire e scendere dal faro in breve tempo. Chissà quante volte papà percorse quel sentiero; specialmente quando scoprì che al Porto c’era una bella ragazza, dai capelli neri, che gli piaceva tanto. Tante volte scese finché “Antonietta di Rosaria” gli disse di “sì”. Antonietta Scarpati era mia madre e visse con papà, qui, in Via Porto, per oltre sessant’anni. Mio padre, come 84
tutti i pescatori, aveva stretto col mare un rapporto molto forte, perciò quando, da vecchio, non poteva scendere più al Porto, sedeva davanti casa a guardare il mare e, spesso, ricordava e raccontava avventure e storie antiche da lui vissute. Una sera partì con la lampara a remi, insieme con altri pescatori e si allontanò abbastanza (oltre un miglio) da Capo Palinuro. Con lui c’erano cinque pescatori, Mauro Scarpati, “Catina”, Aniello Palmieri, “u Tappu”, Giuseppe Raimondo, “u Papa”, e Giorgio Troccoli, “zi Giorgio”. Il lumista era Vincenzo Scarpati, “Cenzo”. Era una di quelle serate di primavera limpide ma fredde e, per riscaldarsi, accesero a bordo il fuoco in una bacinella di ferro zincato. Si raccolsero tutti al centro della barca, accanto al “focone”, tranne zi Giorgio, che stava disteso con la testa sotto la prua e i piedi verso la bacinella. Si addormentò e, improvvisamente, cominciò a gridare e a scalciare, colpendo la bacinella che si capovolse. Un tizzone finì sul cappotto di Giuseppe Raimondo bucandolo. “U papa” teneva molto a quel cappotto, di lana verde, che aveva portato dal servizio militare, perciò comincio a gridare: - ma che te vene, ne zi Gio? Si sciutu pacciu? Finiscila! - (che ti prende zio Giorgio, sei diventato pazzo?) . Zio Giorgio - che agiva e pensava come un bambino, e talora suscitava l’ilarità di chi gli stava vicino - con la sua solita bonomia, rispose: - noni, noni, bell’a zi Giorgio, nun su paccio; mm’aggiu sunnatu nu crapuni ca mi stia ncurnannu - (no, no, bello di zio Giorgio, non sono pazzo; ho sognato un caprone che mi voleva incornare). Tutti risero da morire! Solo “u papa” imprecava maledettamente, guardando il suo cappotto bruciacchiato. Allora non esistevano divertimenti e passatempi e i pescatori riuscivano a stemperare il loro duro lavoro, vivendo insieme la vita di mare e colorandola di episodi ridicoli e umoristici che poi raccontavano tra loro. Ricordo che mio padre si divertiva ancora, dopo tanti anni, a dire il fatto capitato ad Aniello Granito, “u pacciarieddu”. Una sera Aniello, u pacciarieddu, Domenico Scarpati “Micco”, e i figli Mauro, “u tirrazzanu” e Aniello “Joccia” erano tornati a tarda sera da pescare e, poiché dovevano ritornare in mare nella notte, decisero di fermarsi a dormire nel “magazeno” (casotto), che avevano a loro disposizione, sulla spiaggia della Marinella. Sistemati i pesci della prima pescata nelle “sporte” (cesti di giunco e cannucce), si distesero sui sacchi. Intanto, trai pesci pescati, c’erano anche un “ruongo” (grongo), una specie di grossa anguilla, viscida e liscia, che non muore subito fuor d’acqua, quindi era l’unico pesce ancora capace di muoversi. Aniello e i due fratelli Scarpati, vinti dalla stanchezza, si addormentarono subito, mentre Micco non riusciva a prendere sonno, perché sentiva che “u pacciarieddu”, mentre dormiva, faceva uno strano verso: era un lamento cupo, in crescendo. Micco che era deciso nell’esprimersi, non potendo più sopportare, gli gridò: -Ma ti vuò sta cittu o no? Iu aggia rormi! - (Stai zitto! Io devo dormire). Svegliato dall’imperativo di Micco, Aniello rispose urlando: -Ma iu tengu na cosa liscia ‘ nde spaddi !- (Io sento una cosa liscia nelle spalle). Al grido di Aniello si svegliarono gli altri due e, pensando che “ la cosa liscia “ fosse un serpente, saltarono in piedi e andarono a buttarsi in mare. Anche Micco e “u 85
pacciarieddu” li seguirono. Si trovarono a mare, di notte, tutti e quattro, mentre il “ruongo”, fuor d’acqua, continuò la sua passeggiata fra i sacchi e le sporte. Ora papà non c’è più; sono io a raccontare al posto suo e devo anche dire che i pescatori dell’epoca di mio padre, non essendo provvisti di alcuno strumento di navigazione, affrontavano seri rischi sul mare. Papà, per un periodo, fece il capobarca sul cianciolo S. Antonio, motopeschereccio di otto metri, con una ciurma di otto persone. Il lumista era Vincenzo Scarpati, ”Cenzo”. Una sera mio padre e la sua ciurma salparono dal porto e si diressero al largo. A poco più di un miglio dalla costa, papà ancorò il motopeschereccio e, nell’attesa che Cenzo chiamasse per fare il “vuolo” (per recingere le alici), consentì che i pescatori potessero distendersi sotto la prua. Tutti si addormentarono. Solo Cenzo era sveglio perché doveva guardare se “assumavano “ (salivano a galla) alici sotto la luce del lume. Il mare era calmo. Nel silenzio della notte, cominciò a sentire il rumore di un motore, che si avvicinava sempre più. Cenzo si allertò e ascoltò con attenzione, guardando verso levante, direzione da cui proveniva il rumore. In quel buio, intravide una vela bianca: era un bastimento a vela e a motore, che navigava dritto verso di loro. Cenzo capì che li avrebbe sicuramente investiti! Afferrò istintivamente i remi e gridò con quanto fiato aveva in gola. Mio padre lo sentì subito, salì sulla prua e si rese conto di quanto stava per accadere. I pescatori che dormivano, al grido di mio padre, saltarono fuori, ma non si poteva fare nulla per evitare l’urto. Il bastimento, che navigava verso ponente, prese di striscio la fiancata sinistra del S. Antonio, che si girò sul fianco destro imbarcando acqua. Per fortuna il motopeschereccio, che era di legno di quercia, resse all’urto e si evitò una tragedia. Alcuni pescatori riportarono lievi contusioni, ma tutti, insieme a mio padre, furono fortemente spaventati. Forse il capitano del bastimento da carico, per evitare il gozzo del lumista, investì il moto peschereccio che, nel buio, non aveva visto. Mio padre, oltre allo spavento e all’angoscia, provò tanta rabbia per l’assurdo e disumano comportamento del capitano del bastimento investitore. Infatti - diceva - si dileguò velocemente nel buio, omettendo di soccorrere l’imbarcazione investita >. < Anch’io avrei da dire tante cose della mia lunga vita di pescatore cominciata a sei anni, quando in prima elementare, imparai a remare. A nove, andavo a pescare insieme agli adulti. Avevo imparato le leggi del mare, qualche segreto per pescare, ma ero sempre un bambino e ricordo ancora ciò che mi capitò a quell’età. Intorno al 1950 ritornò dall’America un compaesano, Antonio Granito “u Russu”. Aveva fatto fortuna, quindi comprò una casa al porto e una bella barca che affidò a dei giovani tra cui ero anch’io. Con me c’erano: Antonio Scarpati, “zi Marco”, Fioravanti Scarpati, “Juro”, Antonio Pepoli, “Zilacchio” e, unico adulto, Angelo Granito “u paisanu”. Un giorno d’estate prendemmo la barca e con Angelo ”u paisanu”, andammo dietro il Capo a fissare i “filaccioli” alla roccia. Il tempo era bello, era una serata calma e tiepida, perciò decidemmo di andare a Buondormire, invece di ritornare al porto. A Buondormire incontrammo Gerardo Scarpati “u stocco” che convinse noi 86
ragazzi a restare a dormire sulla spiaggia, insieme con lui, mentre Angelo Granito ritornò in paese salendo per la stradina della Marinella. Angelo se ne andò “diritto a casa sua” senza avvisare le nostre famiglie che eravamo rimasti a Buondomire, con Gerardo. Si fece buio e noi non eravamo rientrati. I nostri genitori preoccupati scesero al porto. Il buio aveva avvolto ogni cosa: solo il faro occhieggiava dall’alto del promontorio. Al porto il silenzio era rotto dal pianto dei nostri parenti che pregarono ‘Ngicco di uscire con la sua barca, per cercarci. Andarono con lui, Maria, sorella di Antonio Pepoli e Maurina, sorella di Fioravanti. Al loro ritorno, senza alcuna notizia, vi furono scene di disperazione perché si pensò al peggio: s’ipotizzò che un masso, caduto dalla costa sulla nostra barca, ci avesse affondato, mentre eravamo sottocosta per legare i “filaccioli”. Era l’unica spiegazione probabile, perché il mare era calmo.Intanto noi eravamo a Buondormire con Gerardo “u’ stocco” che ci terrorizzava raccontando fatti di spiriti e fantasmi. Non ho mai potuto dimenticare lo spavento di quella notte! I miei compagni si addormentarono, ma io non potetti chiudere occhio. Sullo scoglio di fronte a noi vedevo quella benedetta vecchia, piccola e bianca, che Gerardo ci aveva descritta. Comunque neppure “u’ stocco” dormì perché, terrorizzato com’ero, lo chiamavo continuamente e lo scuotevo se non mi rispondeva. Quella notte fu la più lunga della mia vita, forse come fu lunga per mia madre che piangeva credendomi morto. Al mattino papà ritornò dalla pesca col cianciolo e, saputo che noi non eravamo ritornati, non scaricò neppure le alici che aveva a bordo, riaccese il motore e raddrizzò la prua verso fuori. Con lui c’erano Mauro Scarpati “catena” e altri pescatori. Arrivati sulla punta di Spartivento, riconobbero da lontano la barca del “Russo”. Si avvicinarono, e videro noi ragazzi che, tranquillamente, levavamo i “filaccioli”. Ci sgridarono, ma capirono che noi non avevamo alcuna colpa. Il responsabile di aver provocato ansia e sofferenze alle nostre famiglie, era stato Angelo “u’ paesano” >. < In quel periodo mi capitò di vivere un episodio di paura indimenticabile: nella famosa tempesta, che si abbatté su Palinuro il 29 settembre 1949, anch’io mi trovai con Mauro Scarpati e Antonio Scarpati di fronte a Pisciotta per la pesca del pescespada. Nel pomeriggio sembrava che fosse calata improvvisamente la notte, tanto il cielo si rabbuiò. I fulmini guizzavano sulle nostre teste, da ponente a levante. Il vento sballottava la barca e non riuscivamo a reggerci in equilibrio. La disperazione ci diede la forza di remare e S. Antonio ci aiutò a raggiungere il porto >. < Come mio padre, ora vivo anch’io di ricordi. Abito con mia moglie Antonietta nella casa che lui costruì di fronte al mare e passo dei momenti felici con i nipoti, che i nostri due figli, Anna e Giacomo, ci hanno dato >. Antonio racconta con emozione le storie della sua vita di pescatore; le rivive e riesce a coinvolgere, nel suo stato emozionale, chi lo ascolta. Mentre racconta, arriva il suo ultimo nipotino Antonio, di tre anni, che gli salta sulle ginocchia e nasconde il visino sulla sua spalla. Il nonno lo abbraccia, gli passa una mano sui capelli e lo bacia dicendo: “Si chiama come me!”. Il piccolo solleva la testa e guarda in giro, poi si rannicchia di nuovo sul cuore del nonno: è un abbraccio senza parole. 87
Giacomo Polito con la moglie Antonietta Scarpati, anni 1920.
Palinuro, luglio 1957, i figli di Giacomo Polito. Da sinistra: Mauro, Gennaro e Antonio.
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Palinuro, porto anni 1960s, Giacomo Polito mentre osserva una tartaruga presa nella rete.
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Palinuro, pesca con la lampara, da destra: Gerardo Palmieri (Muschilla), Antonio Scarpati (zi Marco), Antonio Polito (zi Pietro).
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Giacomo Polito con la moglie Antonietta Scarpati mentre fa il rammaggio delle reti da pesca.
Giacomo Polito con Luigi Sacco (Ndringhete). 91
Giacomo Polito con la Moglie e il figlio Antonio.
Giacomo Polito, con la moglie Antonietta Scarpati innanzi alla loro abitazione.
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LUIGI SACCO A Palinuro c’è ancora un uomo “all’antica”: Luigi Sacco, un anziano pescatore, nato il 2 gennaio 1933, nel rione Piano Faracchio. E’ uno dei figli del pescatore Amodio; ed anche lui, da bambino, è stato pescatore. E’ un uomo di bell’aspetto, paziente, dalla voce calma e suadente, preciso e saggio nel raccontare. Ascoltiamolo: < Avevo sette anni quando cominciai ad andare a pescare con lo “sciavichiello” di mio zio Vincenzo Sacco. Erano gli anni della seconda guerra mondiale e anche a Palinuro se ne sentirono gli effetti: infatti, dovemmo lasciare le nostre case e rifugiarci nelle grotte sotto la collina di Molpa. Noi avevamo preso posto nella grotta della “ Sciavica “ che si trova vicino a quella di “ Scitto “ e, dopo qualche settimana, il cibo cominciò a scarseggiare. Un giorno, tornando da pescare, corsi da mamma che stava nella grotta, con i miei fratelli più piccoli. Mamma, premurosa, mise la mano in una tasca e mi disse: prendi Luigi, mangia, ti ho conservato un pezzetto di pane. Affamato com’ero, addentai quella scorzetta dura, senza guardare e masticai: non era pane, era sapone! Mamma aveva sbagliato tasca: in una aveva messo il pane, nell’altra aveva conservato un pezzo di sapone che, all’epoca, si faceva in casa. Ora raccontando, posso pure sorridere, ma allora piansi! Insieme con me, anche altri ragazzini venivano a lavorare, a bordo, con i grandi; c’erano Giuseppe Palmieri, “u Scinicola”, che aveva dodici anni; Mauro De Luca, che aveva undici anni; io ne avevo 10. Ero il più piccolo e sono ancora qui. I miei compagni non ci sono più! Quando tiravamo “a sciavica” (sciabica) nel periodo invernale, era veramente un lavoro duro. A noi ragazzi mettevano addosso “u collare” (il collare), che era una cinghia piatta, fatta di spago intrecciato, cui era legata “a saula” (la corda) che era agganciata alla rete. La cinghia passava trasversalmente, sulle spalle, partendo dal lato destro al fianco sinistro o viceversa. Così noi ragazzi, insieme ai pescatori, tiravamo la sciabica con l’aiuto del collare. Finito questo lavoro, dovevamo arrotolare “le cime” rimaste sulla sabbia. A volte, per il freddo, piangevamo: facevamo a turno a riscaldarci le mani intirizzite, vicino al fuoco che i pescatori accendevano nella grotta della “Sciavica”. Purtroppo non potevamo andare a scuola tutti i giorni: eravamo molto impegnati ad aiutare i nostri padri a pescare. A mio fratello Antonio non piaceva venire a pescare e, una volta, fece una cosa che è rimasta memorabile nella nostra famiglia: ebbe il coraggio di infilarsi, nel palmo delle mani, tante piccole schegge di canna. Quando mio padre lo chiamò per andare a pescare, lui disse: guarda come ho le mani, non posso remare! Papà capì che Antonio si era fatto quel ricamo per non andare a mare e, con la severità e l’autorità che avevano i padri in quell’epoca, lo portò lo stesso. Io invece avevo provato gusto ad andare con zio Vincenzo, “u ngignieri” – così chiamato perché meticoloso e saccente - a pescare a Infreschi – zona tra Marina di Camerota e Scario – famosa per una speciale qua93
lità di alici, dal dorso blu, che si trovavano solo in quel tratto di mare. Mi piaceva andare con zio Vincenzo perché portava anche i suoi figli, Ciro “u tuscanu”, Luigi “u ndranghete”, Eugenio “ u mangione” e Alfredo “u mazzitiello”, che erano più grandi di me e fumavano. Appena zio Vincenzo si metteva a poppa, a guardare fisso la rete, volgendo le spalle alla barca, i miei cugini mi mandavano, sotto la prua, ad accendere le loro sigarette. Questa cosa mi piaceva molto, e così cominciai a fumare: ero ancora un ragazzo. Il tempo passa molto veloce, quando si lavora: mi trovai grande, all’improvviso, con una lunga esperienza di mare alle spalle. Da bambino avevo imparato a pescare con la sciabica, dopo con la lampara, infine imparai a pescare con il cianciolo. Io e mio padre lavorammo, per diversi anni, con le barche del cavaliere Amendola, che ne comprava sempre più grandi e più attrezzate. Dopo la lampara, “il Masaniello”, che aveva fatto venire da Amalfi, comprò in Sicilia “il S. Giacomo”, in società con un signore di Salerno. In quel periodo, però, nel mare di Palinuro si pescava poco, mentre a Salerno la pesca era più abbondante. Così il socio volle farci trasferire a Salerno. Intanto, dopo poco tempo, anche a Palinuro la pesca migliorò, perciò il cavaliere Amendola, tutti i giorni, faceva telegrammi per farci ritornare. Il socio salernitano li riceveva, ma non ne informava mio padre che era il capobarca. Un giorno zio Mauro, detto “Arturo”, trovandosi a casa del socio di Salerno, lesse per caso, un telegramma e tutti venimmo a conoscenza del contenuto. Saputa la notizia, la maggioranza di noi pescatori volle tornare in paese, presso le proprie famiglie. Solo tre decisero di restare a Salerno. Tornammo in treno a Palinuro e continuammo a pescare con “la S. Rosa”, una lampara, perché il “S. Giacomo” era rimasto a Salerno e poi fu venduto. Dopo qualche mese, il cavaliere comprò un altro motopeschereccio, il “S. Pietro” di cui mio padre fu sempre il capobarca e Giacomo “u russu”, il motorista. La pesca andava molto bene e tutte le sere, al tramonto, si usciva dal porto. Una notte, mentre eravamo al largo, ci sorprese una tempesta. Non fu facile governare il “S. Pietro”, sotto la furia del vento. Ricordo ancora, con spavento, che la luce dei lampi era così intensa, che l’acqua del mare si vedeva azzurra! Riuscimmo, però, a superare la punta della Quaglia, guidati dall’amico faro, ed entrammo nel porto. Il S. Pietro aveva un bel motore: infatti, fu adoperato per salvare i pescatori sorpresi, al largo, dalla tempesta del 25 settembre 1949. Mio padre e Giacomo, in quell’occasione, riuscirono a portare a riva due barche: una con mio zio Mauro Sacco “Arturo” e Francesco Raimondo, “Ciccio” e una seconda con a bordo Artemio Belonoskin e Antonio Pepoli, detto “D’arcelo”. Un’altra, la terza, non erano riusciti a vederla. Intanto il carburante stava per finire, quindi furono costretti a scendere a terra per fare rifornimento e riavventurarsi nel buio della notte. In questa seconda uscita, si unirono a mio padre e a Giacomo altri due pescatori: Emilio Pepoli, che minacciava di buttarsi a mare, se non fosse riuscito a salvare il figlio Mauro “Ciccolatera” e Mauro Pepoli “il Quartigliere”. Fu molto difficoltoso navigare nella tempesta: mio padre e gli altri avevano quasi perduto la speranza di ritrovare i naufraghi, quando videro sull’acqua un segnale luminoso, verso cui si diressero. Cosa strana, navigando verso il punto dove ave94
vano visto la luce, trovarono Mauro, il figlio di Emilio e Salvatore Del Gaudio, “u Zitu”, con la barca piena d’acqua e senza remi. Il prodigio del ritrovamento fu attribuito a S. Antonio >. < La vita dei pescatori è fatta così: ci sono momenti di paura e momenti di serenità, in cui si lavora insieme e ci si diverte pure. Ricordo ancora qualche episodio divertente capitato sul S. Pietro. Una volta, eravamo al largo ed era una serata “ri carmaria” (calma assoluta del mare); nell’attesa che qualcuno dei lumisti chiamasse per fare il “vuolo”, un pescatore della ciurma, Antonio, che tutti chiamavano “u Macantuono”, si era disteso sui “cuortici”(galleggianti di sughero) e si era addormentato. Dormiva così profondamente che non sentiva né il vociare di noialtri né il rumore del motore, acceso per raggiungere il gozzo del lumista, che aveva le alici sotto il lume. Mio padre, capobarca, si avvicinò al Macantuono e, con voce ferma e decisa, come sapeva fare papà, gridò: - Ma ti vuò scetà o no? Spicciati! – (Ma ti vuoi svegliare o no? Sbrigati!). Macantuono, poverino, investito da quest’ordine, si svegliò di soprassalto e, non riuscendo a orientarsi – chissà cosa sognava !-, si buttò a mare. Per tutta la serata ci divertimmo a “sfottere” il Macantuono. Ancora oggi, mi viene da ridere, quando racconto questo fatto. Un divertimento quotidiano, per noi pescatori più giovani, fu dato dall’arrivo, nella nostra ciurma, di Giovanni Russo, soprannominato “u Mussutu”. Costui era il più anziano, analfabeta e balbuziente. Faceva quello che poteva a bordo; noi lo trattavamo con affettuosa bonomia. Non conosceva sandali o zoccoli: camminava sempre scalzo e senza guardare dove poggiava i piedi. Eravamo partiti dal porto, al tramonto, per andare al largo. La serata era bellissima: non c’era vento e l’aria era tiepida; in cielo si vedeva già qualche stella. Forse Giovanni voleva fare come Palinuro, voleva osservare il cielo, e si avviò verso poppa, camminando come il solito, con la testa per aria. Scivolò sul fondo bagnato e cadde a mare. Attirati dal tonfo, accorremmo tutti a poppa e vedemmo una chiazza di bollicine bianche sotto la “murata” – fiancata – del S. Pietro. Dopo qualche secondo riapparve a galla u Mussutu e fu subito tirato a bordo. Appena fu in grado di parlare disse: - quant’è vera a Maronna, mm’a ghiettatu a mmari u Buonomo. Mm’a pigliatu a ruocchio! (Giuro sulla Madonna che sono stato buttato a mare dal Buonomo. Lui è malocchio!). Aniello Pepoli, detto il Buonomo, sul S. Pietro non c’era! >. < Erano gli anni del dopoguerra e cominciava la rinascita economica anche a Palinuro, grazie soprattutto alla pesca del pesce azzurro. Alcune notti la pesca era davvero abbondante: riuscivamo a pescare fino a trenta/quaranta quintali di alici che erano salate nei locali del cavaliere Amendola e spedite, poi, a grandi ditte che confezionavano le acciughe in vasetti e barattoli. Nel 1954 il S. Pietro fu venduto e la ciurma si sciolse: molti di noi ritornarono alle vecchie lampare. Ma poiché il pesce azzurro andava sempre più diminuendo, ci dedicammo alla pesca dei pesci pregiati con le “rezze ri funno” – cioè col tremaglio, sistema di pesca, ancora oggi molto usato >. 95
< Ora non vado più a pescare; vivo con mia moglie Giuseppina a Piano Faracchio, zona non ancora raggiunta dal chiasso e dalla corsa della vita moderna. Di qui vedo il mare, tutta la spiaggia del Mingardo, fino a Marina di Camerota; di fronte ho la collina di Molpa, a picco sull’acqua. Guardo il mare sempre, quando è calmo, con sfumature dal celestino all’azzurro intenso, e quando, sotto la furia dello scirocco, assume diverse tonalità di verde e assale la roccia, con onde spumeggianti. Vivo ricordando il passato e aspettando la visita dei miei due figli, Aniello e Donatella, che mi hanno fatto diventare nonno. Sono contento. Ciò mi basta! >.
Amodio Sacco, capobarca del peschereccio S. Pietro.
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Palinuro, Agosto, 1960, Luigi Sacco.
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Palinuro, porto, anni 1950, ciurma del peschereccio S. Pietro. Amodio Sacco raccoglie la rete.
Palinuro porto, ricordi dal peschereccio S. Antonio. Amodio Sacco è il capo ciurma (1955-56). 98
Palinuro, 1955-56, gente di mare. Mauro Pepoli (sinistra), Luigi Sacco (centro), Aniello Pepoli (destra).
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Palinuro matrimonio di Luigi Sacco con Giuseppina Pepoli, figlia del Buonomo, 1957.
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La famiglia di Luigi Sacco: Giuseppina Pepoli (moglie), Donatella e Aniello, figli.
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Palinuro, agosto, 1980, Luigi Sacco in barca
Palinuro porto, 1954. Notasi, sulla spiaggia, lo “spasario” (fatto di pali di agave disposti in fila) su cui venivano stese le reti ad asciugare. 102
Luigi Sacco (U ndringhete o Sandokan) Luigi Sacco nacque a Palinuro nel 1914 e morì nel 1997. “U ndringhete”, più tardi ribattezzato Sandokan, fu un personaggio tra i pescatori del luogo. Già dall’infanzia, insieme ai suoi fratelli Ciro ed Eugenio, seguì il padre Vincenzo nel mestiere di pescatore. Ne apprese la tecnica e i segreti. Da adulto, avendo visto a Salerno la rete per la pesca dei cicinielli (bianchetti), pensò che sarebbe stato opportuno provare quel tipo di pesca nel mare di Palinuro. Non esitò a procurarsi uno “sciavichiello” adatto e cominciò così, per primo, la pesca dei piccolissimi pesci. Gli piaceva vestire alla moda, e “acconciare” la sua folta chioma, nera e ricciuta. Infatti, tutti lo ricordano con i capelli lunghi, che gli coprivano il collo, sfiorando le spalle; d’estate, coperti con un’eccentrica paglia dalla falda larga. Era un tipo unico: si sentiva protagonista e attore; era soddisfatto di essere chiamato Sandokan. Gli piaceva divertirsi, cantare e suonare la fisarmonica. Come tutti gli uomini di mare, anch’egli ebbe dal mare, gratificazione e momenti d’incertezza e di paura. Un giorno, da giovane, mentre camminava sulla spiaggia delle Saline, fu investito dallo scoppio di una bomba, residuo bellico, sepolta nella sabbia. Le schegge lo colpirono in viso, ferendolo a un occhio che rimase menomato della capacità visiva. Ma questo non sconvolse la vita di Luigi: con quell’occhio rovinato dalla scheggia, si sentiva un pirata! Il figlio Armando racconta: < Mio padre fu, per parecchi anni, uno dei lumisti del cianciolo di Vincenzo Amendola, ed era uno dei migliori, nel posizionarsi col suo gozzo, per l’avvistamento dei banchi di alici. Tuttavia una notte gli capitò di respirare, troppo da vicino, i gas del motorino che aveva a bordo e ne rimase intossicato. Il capobarca Amodio, insospettito dal silenzio del lumista Ndringhete, si accostò al suo gozzo e vide che mio padre era riverso sul fondo. Amodio abbandonò tutto, fece legare il gozzo a rimorchio, e si avviò velocemente verso il porto. Papà fu soccorso in tempo e si salvò. Ancora, in un’altra occasione, fu assistito dalla fortuna: si trovava ad Acciaroli, in compagnia di un meccanico, suo amico, per comprare un nuovo motore. Era inverno, faceva freddo in barca, quindi aveva indossato un giaccone e gli stivali. Attraccato il gozzo, papà camminava sul fianco della barca, per scendere sulla banchina, quando scivolò e cadde nell’acqua gelida. Gli stivali, pieni d’acqua, 103
facevano da zavorra e il giaccone diventò un ingombro enorme e pesante. Il povero papà, facendo uno sforzo immane, riuscì a emergere appena col capo. L’amico, che era sul fianco della barca, lo afferrò per i capelli, permettendogli di aggrapparsi alla barca. Ancora una volta fu salvo! Queste e altre disavventure non scalfirono il suo carattere: si distinse per il suo modo di parlare, quieto, senza urlare e sicuro di quanto diceva. Gli piaceva intrattenersi con le belle turiste che accompagnava a vedere le grotte. D’inverno si divertiva suonando e cantando, a ogni occasione; faceva parte del famoso quintetto di Capodanno >. Questo singolare pescatore ora non c’è più. Ha lasciato tuttavia non solo il ricordo di se, ma l’immagine della sua particolare figura nella memoria dei pescatori più giovani e dei turisti abituali di Palinuro che ebbero modo di conoscerlo. Armando Sacco, anch’egli pescatore da bambino fino a 20 anni, ora racconta con evidente commozione la tempesta del 25/9/1949. < Ero un bambino di sette anni e andavo a pescare sempre con zio Ciro. Anche quel 25 settembre zio Ciro mi portò. Era una mattinata di sole e “carmaria” (grande calma mare piatto) bellissima. Intanto l’altro zio, Eugenio, insisteva con il fratello Ciro, per venire anche lui sul gozzo, perché sosteneva che non era prudente uscire in mare da solo con un bambino. Ma zio Ciro non volle saperne: ci avviammo da soli io e lui. Zio Eugenio non era tranquillo, perciò, dopo qualche ora, pregò il vecchio Nazareno di accompagnarlo a raggiungerci, dietro capo Palinuro. Nazareno lo portò. Dopo poco, d’improvviso, si scatenò una delle più brutte tempeste che i palinuresi ricordino. I miei zii mi fecero mettere sotto la prua della barca, che presto si riempì d’acqua, e loro lottarono, a forza di remi, per reggere il gozzo sulle onde. Era ormai notte quando io bagnato e infreddolito gridai -guardate lassù c’è una luce! C’è uno che ci tira!- e additavo il promontorio di capo Palinuro. I miei zii impiegarono dodici ore per vincere la forza del mare e spingere la barchetta fino al porto. Mia madre, il giorno seguente, mi portò in chiesa e lì ancora gridai:-mamma, guarda, quello era il monanco che ci tirava!- e indicai la statua di Sant’Antonio. Ora, da anziano, racconto quei momenti e mi stupisco di ciò che mi accadde. Penso di aver avuto la visione del Santo nel momento in cui, mia madre e altri palinuresi, pregando e piangendo, disperati, presero la statua di Sant’Antonio e la portarono in riva al mare su uno scoglio che era vicino alla chiesetta. E’ dura la vita del pescatore, però credo che nessuno abbia tanto da ricordare e raccontare come chi è vissuto col mare >.
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Foto sopra: il pescatore Luigi Sacco, detto “U ndringhete o Sandokan”. Foto sotto: il figlio Armando. 105
DOMENICO SCARPATI (Totoccio) Domenico Scarpati, per tutti “Totoccio”, è nato a Palinuro il 29, 09, 1937: Giovanissimo, emigrò in Venezuela, per raggiungere il padre Aniello. Fine nel portamento, riservato e serio, cauto e saggio: così è Totoccio. Parla con calma, a voce bassa. E’ preciso nelle descrizioni dei fatti che, ricordando, rivive con malcelata emozione. Così racconta: < Quando avevo dieci anni, cominciai ad andare a pescare con mio nonno Micco (Domenico), di cui porto il nome, con mio padre, Aniello e con mio zio, Antonio. Andavo spesso anche con Biagio Calembo, che era tornato dalla Cina, dove era stato prigioniero di guerra. Con Biagio pescavamo col “ tremaglio”. Partivamo dalla Molpa con la barca a vela, la sera, col vento di ponente, che ci spingeva verso Marina di Camerota. Avevo solo tredici anni quando imparai a navigare con la barca a vela! Arrivati a Marina di Camerota, e fatta la prima pescata a triglie, io prendevo posto sotto la prua della barca, dove dormivo tranquillo tutta la notte. Verso le cinque del mattino, Biagio mi svegliava, perché dovevamo completare la pesca della nottata: si calavano di nuovo le reti, poi puntavamo su Palinuro, verso la Molpa. Il vento di levante era il nostro motore che ci spingeva verso Ovest. Avevo imparato a sfruttarlo bene con la vela. Arrivati alla Marinella, tiravamo la barca ed io correvo per il sentiero in salita, verso il paese, per non fare tardi a scuola. Il sole già alto, mi diceva che la scuola era cominciata. Ricordo che il mio maestro era molto comprensivo, non mi rimproverava per i miei soliti ritardi, sapeva che andavo a pescare con mio padre o con Biagio. Ma la pesca non dava un guadagno sufficiente per assicurare alla famiglia una vita decorosa, per cui mio padre emigrò in Venezuela e, quando avevo solo quattordici anni, lo raggiunsi. Partii da Napoli con la nave “Urania II” e fui affidato, per il viaggio, a un’amico di famiglia, Carmelo Panetta, che andava anche lui a Caracas. Ero uno dei più giovani su quella nave! Spesso andavo sul ponte e restavo lì a guardare il mare. Un giorno mi vide un marinaio e mi chiese se soffrivo il mal di mare. Io scuotendo la testa gli risposi: “A me, mal di mare! Io vengo dal mare, sono cresciuto sul mare !” Facemmo amicizia e mi chiese se volevo lavorare. Gli risposi: ”Volentieri!” Mi portò nella cambusa e mi disse che il mio lavoro era distribuire la frutta sui tavoli. Lo feci con piacere perché così avevo la possibilità di prendere arance e limoni e darli a chi veramente soffriva di mal di mare. Diventai il mozzo più benvoluto. Arrivato in America, fui accompagnato da papà all’ufficio, dove si presentavano gli stranieri per essere assunto per qualche lavoro. Sul mio foglio c’era scritto- Do106
menico Scarpati, bracciante agricolo. L’impiegato addetto al collocamento degli immigrati mi guardò in faccia e disse: “Non è possibile! E’ un ragazzino!” e scrisse sul foglio: Studente. Andai a scuola un anno e imparai lo spagnolo, poi cominciai a lavorare in un’officina meccanica e feci il meccanico per alcuni anni. Intanto l’immagine del mio mare, della mia terra non mi abbandonò mai: una parte di me era a Palinuro; c’erano mia madre, mio fratello, le mie sorelle e quelli che mi avevano insegnato a pescare. Così, a trent’anni, decisi di ritornare al mio paese. Allora non c’erano cellulari per comunicare il giorno e l’ora del ritorno, perciò arrivai quasi all’improvviso. Antonio, mio fratello era militare, non sapeva che ero ritornato dall’America. Quando ebbe la licenza e venne a casa, andai io ad aprirgli la porta. Mi guardò e, dopo un attimo di stupore, gridò: “Tu si Totoccio”. E ci abbracciammo. Ero diventato un uomo, lui mi ricordava ragazzino. Anche papà ritornò e, con il guadagno fatto in Venezuela, ristrutturò la casa. Io mi sposai e ripresi a passare le mie giornate sul mare. Con papà e con mio fratello ritornai alla Molpa, sulla spiaggia della Marinella, dove ho vissuto tutta la vita. Ora che sono in pensione, non mi è consentito di andare a pescare; e ciò non è giusto! Comunque io non smetto di andare a”Morba” e di rivivere, con il ricordo, il tempo passato. Ora tutto è cambiato, si pesca con sistemi moderni, le barche non solo hanno motori veloci, ma anche ogni attrezzo utile per la pesca e per la navigazione. Ai miei tempi, di notte ci orientavamo guardando le stelle e di giorno facevamo le previsioni del tempo osservando la natura, le nuvole. Ora basta aprire la Tv o un computer e ti dicono tutto: pioggia, vento, temporali, regione per regione. Mio padre era espertissimo nella previsione del tempo. Infatti, la sua lunga esperienza di pescatore, gli permetteva di capire dall’andamento delle nuvole, dal colore del cielo al tramonto, dalla posizione della falce di luna, come sarebbe stato il tempo. Ad esempio “luna curcata” (luna coricata ) indicava cattivo tempo. Quando papà o nonno Micco dicevano – E’ aria di terra, “ esce u Monte Stella”- si poteva andare a pescare , era buon tempo. Se dicevano “– trase u Monte Stella, su arie di mare - “ cioè le nubi venivano da mare e coprivano la cima del monte, era in arrivo il cattivo tempo. Se poi le nubi, salendo dal mare verso il cielo “ammasciavano” cioè si abbassavano nel loro cammino, il cattivo tempo non aveva forza, quindi si poteva uscire con la barca. Noi “morbaiuoli” cioè pescatori del versante “Morba” temevamo molto lo Scirocco, che batte forte la costa sud est di capo Palinuro. Anche questo vento, però, era previsto in tempo utile, guardando la costa Calabra. Un giorno, infatti, mio nonno, salendo dalla Marinella incontrò qualcuno di Palinuro che gli disse: “ne Micco, con questo bel tempo, come mai te ne sali dalla Molpa e non vai a pescare?” Nonno serio rispose: “Ngè a Calabria ca nge stai currennu appriessu” (C’è la Calabria che ci sta correndo dietro). Dopo poco si levò un forte vento di scirocco come il nonno aveva previsto. Infatti, quando la costa Calabra si vede nitida e sembra vicina, è sicuro che arriva lo Scirocco anche a Palinuro. Così tutti noi “morbaiuoli”, quando soffiava lo Scirocco, ci ritiravamo a Palinuro, quando invece c’erano lunghi periodi di tempo favorevole, restavamo finanche a 107
dormire alla Molpa. Dormivamo nella grotta di Scitto, chiamata così perché il brigante Cola Marino vi uccise un uomo che chiamavano Scitto. Tale grotta si trova sotto la collina di Molpa, accanto a quella “dei Porci”. Una sera, bagnati e stanchi, cercammo riparo nella grotta di Scitto. Intanto nonno Micco non riusciva a prendere sonno, perché un gatto, forse affamato, gironzolava intorno a noi, miagolando ininterrottamente. Il nonno chiamò Mimmo Palmieri, che era il più giovane, e gli chiese di allontanare il gatto: Mimmo eseguì l’ordine del nonno. Ma dopo neppure mezz’ora il gatto era di nuovo vicino a noi, col suo fastidioso lamento. Nonno, perduta la pazienza, chiamò ancora Mimmo e gli disse: “Piglia stu attu e portalu ra chidda vanna a hiumara, (alla Marinella sfocia il fiume Lambro), senò u ‘ncappo iu e ‘u minu tantu autu ca torna n’terra sabbatu santu” (prendi questo gatto e portalo di là dal fiume, altrimenti lo acchiappo io e lo tiro così alto in cielo, che ritornerà a terra sabato santo). L’espressione di nonno restò famosa tra i pescatori e fu ripetuta e usata quando si voleva dire che un fatto si sarebbe verificato a non breve scadenza. Altra grotta scelta per le ore di riposo era la grotta di Baddurmino di terra (Buondormire di terra), di fronte allo scoglio del coniglio. In quell’epoca, noi pescatori, non avevamo alcuna protezione per l’umidità e per il freddo: non c’erano stivali o tute impermeabili, si andava a piedi nudi, nell’acqua, sia d’estate che d’inverno; perciò per noi, le grotte erano un ottimo riparo. Era un ristoro indescrivibile asciugarci e riscaldarci accanto ai fuochi che accendevamo negli angoli. Desideravamo più il calore del fuoco che il cibo! Il fuoco ci ristorava tanto da ridarci la forza di ritornare in mare. Non avevamo orologio: l’ora della prima pescata ci veniva indicata dalla comparsa nel cielo di tre stelle, che chiamavamo “i tri fratielli” (i tre fratelli); erano tre splendide stelle, ben visibili nel cielo, ad uguale distanza tra loro, e in linea verticale alla punta della collina di S. Cono, a nord di Marina di Camerota. “I tre fratelli” erano il nostro orologio: ci indicavano che, in quel periodo dell’anno, erano le ore 4,30/5 del mattino e dovevamo iniziare il nostro lavoro. Molto presto, quindi, cominciavamo a “mettere le reti chiare”, cioè reti a maglie grandi, per la pesca di pesci piatti, come mormori, sogliole, saraghi e, in primavera, seppie. Usavamo anche “il vollaro” e “la schitta”, che sono reti “di posta”, cioè ancorate fisse. In autunno si pescava con “il palankese”, per la pesca del pesce spada, e la “coffa” che è formata da una serie di ami – da 100 a 500 – che si tengono bene ordinati in appositi cesti. Sistemavamo la coffa in quelle zone di mare, dove sapevamo di poter fare una buona pesca e la “si apperagnava” (si fissava al fondo), per non farla spostare dalle correnti. La pesca di terra era fatta in prossimità della spiaggia, stando con i piedi nell’acqua; si tiravano, quindi, le reti direttamente sull’arenile. La rete usata per questa pesca era “la sciavica” (sciabica). Per tirare questa rete che era di cotone e, bagnata, diventava pesantissima, occorrevano almeno otto uomini (quattro da un capo e quattro dall’altro). “Lo sciavichiello” era una rete più piccola e richiedeva, pertanto, meno pescatori. Dalla spiaggia si usava pescare anche con “u jacchio”, rete di 108
piccole dimensioni, a forma circolare, che era lanciata da una sola persona, con un gesto fulmineo del braccio, per catturare pesci che vivono in acque basse>. La pesca della “nennata”. E’ sempre Totoccio che racconta: < Sul finire dell’inverno, a febbraio/marzo, quando il giorno è più lungo e il freddo cede all’aria mite della primavera, con mio padre e altri pescatori “morbaiuoli” cominciavamo a preparare “u Sciavichiello” per la pesca della “nennata” o “cicinielli”. “Nennata” vuol dire nuova nata ed è un nugolo di pesciolini piccolissimi, di colore bianco-grigio, della lunghezza di tre/quattro centimetri e del diametro di 3/4 millimetri. In effetti, sono alicette o sardine piccolissime, dall’odore e dal sapore particolari. Per catturare pesci tanto piccoli, bisognava modificare la rete dello sciavichiello, che s’immergeva a pochi metri dalla spiaggia. Dalla barca si calava la rete, iniziando da destra, e si delimitava un perimetro a semicerchio, chiudendolo, a sinistra, a circa 20 metri dal punto di partenza. Finito “u vuolu”, cioè la calata della rete, si posava la barca sulla spiaggia, e si tirava la rete da ambo i lati, rimanendo con i piedi nell’acqua, sulla riva del mare. A tirarla eravamo almeno quattro persone che, avvicinandoci verso il centro, creavamo un restringimento della rete, formando un corridoio, la così detta “manica”, nella quale si convogliava “la nennata”, che finiva sul fondo, dove era stata applicato il “pezzale”, rete a maglie piccolissime, come un velo da sposa, che fungeva da filtro, impedendo ai pesciolini di fuoruscire. Questo era un genere di pesca che aspettavamo di fare, sia perché si effettuava solo in primavera, sia perché le frittelle di cicinielli – nennata erano e sono una golosità per tutti. Era una gioia quando tirando la rete, trovavamo, in fondo al pezzale, diversi chili di “nennata”! Ricordo che ognuno prendeva la sua quota, che veniva in parte venduta e in parte regalata agli amici. Ora è proibito pescare i cicinielli; ci vuole un particolare permesso. E’ rimasto solo un bel ricordo di quelle mattinate dall’aria tersa, che il sole inondava di luce, mentre saliva nel cielo ad est della Molpa. Al tramonto, invece, ci si organizzava per un’altra specie di pesca, quella delle ricciole che facevamo col “carmito” davanti a “Baddurminu” di terra. Uscire con la barca al tramonto, mentre il sole tingeva di rosso l’orizzonte, era uno spettacolo meraviglioso. Non posso dimenticare, infatti, quelle serate “ri carmaria” (di mare calmo, piatto), quando davvero il mare non si muoveva e il sole vi spargeva la sua luce dorata. Alla Molpa, a quell’ora, c’era un gran silenzio: sentivo solo il tonfo dei remi nell’acqua, mentre la barca scivolava leggera, sospinta dal ponentino. Alle spalle lasciavo già in ombra Buondormire; davanti avevo lo scoglio del Coniglio che, da ponente, prendeva ancora un po’ di sole, mentre a destra, vicino alla grotta delle “Ciaole”, volavano gabbiani e altri uccelli marini. Sono ricordi che restano dentro, come visioni, e non ti abbandonano per tutta la vita >. 109
La pesca con la “menaica”. A Domenico Scarpati “ Totoccio “, si aggiunge il fratello Antonio che pure racconta le sue esperienze marinare. Parla della pesca che faceva con la menaica, quand’era ancora ragazzo. < La menaica era una rete di posta, cioè una rete che si calava al largo e era spinta dalle correnti marine, Era sostenuta, a galla, da sugheri tondi, galleggianti, che chiamavamo “cuortici”; aveva le maglie di una dimensione tale che le alici, nell’attraversarla, vi rimanevano impigliate. Non potendo più svincolare la testina dalla maglia, si strozzavano e morivano dissanguate. Proprio perché perdevano il sangue erano alici molto richieste per la conservazione sotto sale; erano pregiate anche perché di dimensione più grande di quelle pescate con la lampara. La pesca con la menaica si organizzava con il cammino della luna nel cielo: di solito, partivamo dalla spiaggia, almeno un paio di ore prima del tramonto, e sostavamo nei posti, dove era più probabile il passaggio di alici e sarde. Cercavamo di capire in quale direzione i pesci camminavano: il loro percorso era quasi sempre parallelo alla costa, quindi da nord a sud e viceversa. Raramente venivano verso terra. Individuata la direzione in cui si muovevano, remavamo molto piano per non spaventarli con il tonfo dei remi e calavamo la rete in modo da sbarrarne il cammino. Nel punto d’immersione la rete era segnalata da un grosso galleggiante, “il salamo” cui seguivano, alla distanza di 8/9 passi, “i salamieddi”. Il segnale della quantità di pesce nella rete era dato dal livello di affondamento del “salamieddo” in quel punto. Aspettavamo fermi, finché non si riteneva opportuno tirare a bordo la menaica. Una volta tirata, cominciava per noi un lavoro di pazienza: bisognava togliere le alici, una per una, dalle maglie in cui erano rimaste impigliate. Ricordo – continua Antonio – che una notte la pesca fu così abbondante, che si fece giorno, spuntò il sole, e noi ancora tiravamo alici dalla rete. Questa pesca non era facile, perché, quando non c’era la luna, la rete “fuchiava” (luccicava); i pesci la vedevano e la evitavano. Con la luce della luna, invece, potevamo fare più di una “cala” (immersione della rete), perché la luna, illuminando la superficie del mare, impediva ai pesci di vedere il luccicare della rete, in cui restavano impigliati. A volte queste “compagne” di pesce azzurro attiravano “i fere” (delfini), che erano un pericolo per i pescatori e creavano grossi danni alle reti, sfondandole e strappandole. Ricordo che, nel mese di settembre, io e mio fratello “Totoccio”, eravamo andati un po’ più al largo per la pesca del pesce-spada. Notammo che, non molto lontano dalla nostra barca, galleggiava qualcosa, simile a un tronco d’albero di notevole dimensione. Decidemmo di andare vicino perché sapevamo che all’ombra dei tronchi galleggianti, si riparano i pesci “mbambari” (pesce a strisce verdeblu) e le ricciole. Ma… altro che tronco d’albero: era un capodoglio! Un brivido di paura mi solcò le spalle: Totoccio mi guardò, senza parlare. Ci allontanammo remando con tutte le nostre forze. Era un rischio andare al largo, con le nostre pic Salamo o salamieddo: asticella applicata alla rete che ne indica il pescaggio. Passo: misura marinara che corrisponde a un metro e mezzo circa.
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cole barche, a remi o a vela, proprio perché potevamo trovarci dinanzi ai giganti del mare: bastava un loro colpo di coda o una botta sotto la fiancata e la barca era bella e capovolta >. “Ti ricordi – interviene Totoccio – ciò che successe al pescatore di Pisciotta ?”. “ Sì, risponde Antonio, ricordo che la barca di quel pescatore cui mancava un braccio, fu presa di mira da un pescecane.” Totoccio racconta: < Il pisciottano, sebbene anziano e privo del braccio sinistro, non rinunciava ad andare a pescare. Era solito sedersi a poppa e tenere il timone. Indossava sempre la stessa giacchetta per andare a pescare, la poggiava sulle spalle, infilava il braccio nella manica destra e lasciava la sinistra, penzoloni lungo l’omero. Un giorno, mentre tornava verso terra, insieme con un altro compagno che remava, si sentì tirare per la manica vuota, che sfiorava l’acqua. Siccome lo strattone fu abbastanza forte, il pescatore si girò di scatto e vide “nu canuso” (piccolo pescecane) che seguiva la barca. Aveva lacerato la manica della giacca. Per fortuna il canuso si accontentò dello straccio di manica e s’immerse. Quello che remava versò tutto il suo sudore, per raggiungere presto la spiaggia. Intanto il pescatore cui mancava il braccio, fu terrorizzato a tal punto che, quando arrivò a casa, la moglie gli lesse in viso lo spavento e gli domandò perché la manica della giacca fosse così ridotta. Il pover’uomo, ancora stordito, rispose: - Se sapessi… meno male che non ho il braccio, altrimenti un pescecane lo avrebbe portato via con tutta la manica >. Ridere o piangere? E’ una storia vera. I due fratelli Scarpati, parlando insieme, ricordano fatti e personaggi passati; raccontando, ridono, si divertono, si emozionano, com’è consuetudine di chi ha vissuto sul mare la maggior parte dei suoi giorni. Essi sentono sempre vivo il rapporto con il mare, con il loro mare e rivedono persone e luoghi, mentre porgono il racconto in maniera coinvolgente. Parlano di pescatori che non ci sono più, che avevano creato alla “Morba” un ambiente particolare: gruppi di famiglie organizzati fra loro, che lavoravano insieme, aiutandosi a vicenda. Ricordano un vecchio uomo di mare, un tipo particolare, chiamato “Nghingotto”, tale Calembo Antonio, uomo serio, dalla risposta breve e salace, che, all’alba, arrivava prima di tutti gli altri, sulla spiaggia della Marinella. Preparava le “falanghe” per varare la sua barca; poi metteva in fila, a uguale distanza fra loro, anche quelle occorrenti per varare le altre barche. Spesso i pescatori più giovani lo provocavano per sentire le sue risposte. Un giorno, dopo essere stato in mare molto tempo, ritornò portando un solo pesce: abbastanza grande, ma era uno solo! Allora un giovane gli disse: “Né Nhingotto, e c’ha fattu? Si statu a mari tantu tiempu pi nu pesci solu? Che cosa hai fatto? Sei stato in mare tanto tempo solo per un pesce?”. Nghingotto, guardando il pesce nel cesto, con aria soddisfatta e sorniona, allungò il braccio verso il mare e rispose: “ Emmè, sempe u mari n’ngià persu! (Ebbè, che vuoi? sempre il mare ha perduto)! Un altro giorno Nghingotto, stanco di sopportare che il fratello, Giuseppe, arrivasse sempre tardi Falanga: pezzo di legno sagomato e ingrassato con sego su cui scorre la carena della barca.
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per pescare, gli disse: “A fattu a tiempu a tiempu; si vinivi nu pocu cchiù tardi, n’ancappavi mancu nu pisci ! (Hai fatto giusto in tempo, se fossi arrivato poco più tardi, non avresti avuto neppure un pesce)”. Questo perché i pescatori si riunivano in gruppo per praticare alcune specie di pesca, e poi dividevano il pescato. Il vecchio Nghingotto era molto preciso e rigido nell’applicare le regole: non transigeva neppure con il fratello. Totoccio e Antonio ricordano di aver affrontato anche tempeste in mare; quando all’improvviso si levava il vento di terra. Questo vento spinge da levante a ponente ed è il più pericoloso perché non fa governare la barca. Oggi, con i mezzi moderni di previsione e navigazione, è tutto più facile: si affrontano, con sicurezza, le varie situazioni. In altri tempi, il vento di terra era tanto temuto, che i vecchi pescatori lo chiamavano “Spartifamiglie” (capace di dividere le famiglie procurando il naufragio delle barche). Parlando dei venti contrari, i fratelli Scarpati raccontano un episodio riferito loro dal nonno. Il nonno, Micco, diceva che a Palinuro viveva un contadino, forte, robusto, che non aveva paura di niente. Tutti lo chiamavano Lupo. Un giorno chiese al nonno e ad altri pescatori di portarlo a pescare. Ben volentieri lo accolsero sulla barca, pensando che, forte com’era, avrebbe potuto aiutarli a tirare la rete. Intanto, arrivati al largo, si levò un forte vento e la barca cominciò a beccheggiare. Lupo si accorse di soffrire, terribilmente, il mal di mare. Avrebbe voluto resistere: gli sembrava di non essere forte come tutti credevano. Per un po’ tacque, soffrendo in silenzio, ma stava crepando! Non potendone più, di scatto, si rivolse ai pescatori e implorò: “ Basta ca mme faciti pusà i pieri ‘nterra, ‘ncoppa addà punta, vi rau ‘u megliu piezzu ri terra ca tengu ! (Basta che mi fate posare i piedi a terra, su quella punta, vi darò il miglior appezzamento di terra che posseggo). Gli uomini di mare lo guardarono, con commiserazione e ironia, e uno di loro così si espresse: “ Uè, sienti, ’nterra si nu lupu, a mmari si ‘na pecora”! (Senti, a terra sei un lupo, ma a mare sei una pecora). Il racconto dei fratelli Scarpati è terminato da Totoccio con un commento nostalgico. < Il mare – egli dice – è il più grande amico, ma bisogna conoscerlo per amarlo e viverci. Ti conquista, non perché dà pesce di ogni genere, ma perché è capace di dare una serenità e una pace che trovi in quella luce, in quel silenzio. Il silenzio e la luce che sono solo tra mare e cielo. Infatti, quando da giovani si andava a pescare, anche se la pesca era stata scarsa, pur essendo stanchi, si era sereni: nessuno imprecava, nessuno bestemmiava. E’ una vita dura quella del pescatore, ma tanto vera, tanto intensa. Il mare diventa un compagno di lavoro che vive con te, forse perché la sua acqua si muove sempre, forse perché il suo colore cambia secondo la vegetazione, la profondità, e il soffiare del vento. Il sapore del sale, il profumo delle alghe sono il segno del mare che ti resta dentro per la vita! > 112
Aniello Scarpati, Joccia, mette le reti dal suo gozzo.
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I fratelli Antonio (sinistra) e Domenico Scarpati.
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Palinuro (anno 1958), Aniello Scarpati con amici e figli festeggia la buona pesca.
Aniello Scarpati e figli tirano la loro barca sulla spiaggia della Marinella.
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Antonio e Aniello Scarpati (“Joccia”) portano “nu’ tuono ri rezza”, sulla spiaggia della Marinella.
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Domenico Scarpati, Totoccio, nutre il suo gabbiano (il gabbiano Nicola).
Aniello Scarpati e il figlio Domenico (“Totoccio”) con la barca più antica di Palinuro che apparteneva all’avvocato Giovane di Girasole, autore dell’autobiografia di Giuliano di San Severo il cui terzo volume è ambientato a Palinuro. 117
Aniello Scarpati e il figlio “Totoccio” con la loro barca mentre mettono le reti osservati da una turista.
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LUIGI SCARPATI (Mustafà) La faccia bruciata dal sole e segnata da molte rughe - anche se ancora abbastanza giovane - mani dure e callose, occhi piccoli, sguardo intelligente e scrutatore, un inseparabile berretto calato sulla fronte: questo era Luigi Scarpati, chiamato da tutti “Mustafà”. Nacque a Palinuro nel 1907, da Giuseppe Scarpati e Filomena D’Acquisto e morì nel 1982. Sposò Carmela Troccoli, “Cilla”. La coppia ebbe nove figli. Ora vivono a Palinuro quattro maschi: Aniello, Mario, Antonio e Fiore; e tre femmine: Maurina, Filomena e Anna. Per mantenere la numerosa famiglia, “Mustafà” lavorò come pescatore e come pescivendolo ambulante. I suoi figli Aniello e Mario dicono: < Papà non aveva preferenza per un modo o un altro di pescare: pescava con tutti i “mestieri”, la sciabica, la menaica, e le reti chiare; aveva coffe e filaccioli. Per la pesca del pesce azzurro, lavorò prima sulla lampara, e poi sul cianciolo di Amendola. Fu il primo a comprare, a Palinuro, un furgone a tre ruote, con cui raggiungeva i paesi dell’entroterra per vendere i pesci pescati da lui oppure comprati dalle paranze che, dal golfo di Napoli, venivano a pescare lungo la costa del Cilento. Sul mezzo di nostro padre, sprovvisto di cabina, era un tormento viaggiare nei mesi invernali. Quando si andava a S. Severino, a Poderia, a Celle Bulgheria, il freddo ci ghiacciava la faccia, le mani, i piedi. Noi figli, a turno, lo accompagnavamo e - dice Aniello - ricordo ancora quel vento gelido, nella valle del Mingardo, che mi faceva chiudere gli occhi, mentre cercavo di ripararmi rannicchiandomi e stringendo i lembi della giacca. Il freddo che ho preso da ragazzo, ora “lo pago” con dolori nelle braccia che mi danno tanto fastidio. Ricordo che ci fermavamo nella piazzetta di Poderia, e subito le persone si avvicinavano per vedere quali pesci avevamo portato; qualcuno pagava con i soldi, ma molti ci proponevano i loro prodotti in cambio, perché non avevano la possibilità di comprare. Papà volentieri accettava il baratto. A noi mancavano i fagioli, la farina, l’olio, le castagne, quindi lo scambio era gradito. Ed era una festa quando si tornava a casa con pochi soldi e tante cose buone da mangiare! Eravamo nove ragazzini da sfamare! Appena grandi, alcuni dei miei fratelli emigrarono, mentre papà continuò il suo girovagare per i paesi dell’entroterra con un nuovo furgone cabinato; così era meno duro affrontare il viaggio durante il periodo invernale >. Interviene la figlia Filomena, ed anche lei racconta: < Papà era ritenuto un pescatore che sapeva prevedere con notevole precisione, non solo il tempo, ma gli eventi relativi. Aveva una vista acutissima: riusciva a vedere alcune stelle in cielo anche di giorno. Era solito andare dall’ufficiale postale dell’epoca, Nicola Amendola, e gli indicava la posizione di alcune stelle, che l’altro 119
cercava di individuare col binocolo. Erano amici e don Nicola gli dava i giornali che aveva letto. Papà era molto contento di quel dono, perché gli piaceva leggere. I suoi studi erano finiti con la terza elementare, ma era intelligente e sapeva scrivere e leggere abbastanza bene. Papà era una persona molto socievole: aveva tanti amici. L’unica cosa che lo rendeva vulnerabile era la paura della solitudine e del buio. Ricordo che, di notte, non voleva scendere mai solo dal paese al porto; dovevamo accompagnarlo, perché non passava da solo per la rotonda (sperone di roccia sul mare, a metà strada tra Palinuro e il porto). Diceva che in quel posto si vedevano ombre strane! Non so se papà fosse stato impressionato dalle cose che si raccontavano in quell’epoca, o traumatizzato da qualche fatto che gli era accaduto. So che credeva nell’esistenza di qualcosa di misterioso che suscitava in lui uno strano timore: era devoto della Madonna e, quando andava a pescare, aveva come punto di riferimento la cappella della Madonna del Carmine, che vedeva dal mare sulla collina di Catona. Un giorno volle portare me e mia sorella Maurina a vedere questa chiesetta. Che avventura il viaggio col furgone! Per una strada non asfaltata, io e mia sorella arrivammo a Catona, stanche e impolverate. Papà è morto da parecchi anni, ma noi non possiamo dimenticarlo, anche perché, i nostri compaesani ancora ci chiamano: i figli di “Mustafà” >.
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Luigi Scarpati ( Mustafà ).
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La pesca con la menaica a Palinuro. Pescatori che recuperano le alici. 122
Palinuro, anni 1950, spiaggia della Marinella, pesca con lo “sciavichiello”.
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Palinuro, anni 1950, spiaggia della Marinella, pesca con la “sciabica” (sciavica).
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CONCLUSIONE Le testimonianze raccolte con interviste eseguite mediante “audit” di vecchi pescatori di Palinuro e dei loro figli, integrate e corredate di una ricca e inedita raccolta di fotografie d’epoca - molte di grande valore storico, culturale, ambientale e sociale - hanno permesso di recuperare vicende e storie realmente vissute dalla “genti di mare” di Palinuro. Le interviste fatte a tante persone, che hanno trascorso buona parte della loro vita sul mare e per il mare, ricordano un periodo che parte dall’inizio del secolo ventesimo e va fino agli anni cinquanta ed oltre. Intorno alla metà degli anni cinquanta iniziò la sua attività il Club Mediterranée: questo insediamento fu causa di una profonda trasformazione del tessuto sociale e dell’economia non solo di Palinuro ma di tutte le frazioni del Comune di Centola. Questo cambiamento ha determinato il graduale abbandono della pesca, che diventa, progressivamente ed inevitabilmente, un’attività marginale, esercitata essenzialmente dalle persone anziane che, con determinazione e passione, preferiscono rimanere “Genti di Mare”, rinunciando alle chimere promesse dai tempi nuovi. I giovani, tralasciando la pesca e la trasformazione del pescato, negli ultimi decenni, concentrano sempre di più le loro energie in attività legate al turismo, oppure emigrano alla ricerca di migliori condizioni di vita per sé e le loro famiglie. Le storie che la “gente di mare” di Palinuro ha ricordato alla generazione presente e tramandato alle future, attraverso la pubblicazione di questo libro, lasciano comunque intravedere, anche nei meno anziani, una profonda nostalgia dei tempi passati. Tale rimpianto è legato soprattutto al dissolversi di quel legame potente tra l’uomo e la natura, più precisamente tra l’uomo e il mare, come meravigliosamente descrive Hemingway nel suo libro: “il vecchio e il mare”.
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Ficocella (delle donne) anni 1930.
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La spiaggia delle Saline
Palinuro, anni 1950, splendida vista della costa che va dalla spiaggia della Ficocella a quella delle Saline.
RINGRAZIAMENTI Gli autori desiderano ringraziare tutti coloro che, con le loro testimonianze e con la cortese disponibilità nel fornire foto di famiglia, hanno consentito di ricostruire le vicende e gli aneddoti riportati nel presente volume. 127
INDICE
Elogio di Palinuro...........................................................Pag. Prefazione.......................................................................Pag. Introduzione....................................................................Pag. Antonio Amendola..........................................................Pag. Vincenzo Amendola........................................................Pag. Un russo cosacco a Palinuro: Jakov Belonozkin............Pag. Angelina Calembo..........................................................Pag. Giuseppe D’Acquisto, farmacista...................................Pag. Aniello Esposito..............................................................Pag. Leonardo Fusco...............................................................Pag. Aniello Granito...............................................................Pag. Mauro Palmieri...............................................................Pag. Aniello Pepoli.................................................................Pag. Francesco Pepoli.............................................................Pag. Mauro Pepoli...................................................................Pag. Nazareno Pepoli..............................................................Pag. Antonio Polito.................................................................Pag. Luigi Sacco.....................................................................Pag. Luigi Sacco (u ndringhete)..............................................Pag. Domenico Scarpati . .......................................................Pag. Luigi Scarpati..................................................................Pag. Conclusione.....................................................................Pag. Ringraziamenti................................................................Pag.
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