Fabio Massimo Parenti
Mutamento del sistema–mondo Per una geografia dell’ascesa cinese Prefazione di Claudio Cerreti
Copyright © MMIX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it
[email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065
ISBN
978–88–548–2635–9
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: luglio 2009
INDICE
PREFAZIONE
Claudio Cerreti ...............................................................................
11
Capitolo 1 Geografie emergenti e transcalarità ......................................
21
1.1 Sul concetto di globalizzazione ......................................... 1.2 Il dibattito sulle scale ........................................................ 1.3 La teoria del spatial–temporal fix ......................................
Capitolo 2 La Cina nella geoeconomia globale
23 28 31
.....................................
35
2.1 Le cause dell’ascesa cinese ................................................
37 41 45
2.2 Le conseguenze dell’ascesa cinese .................................... 2.3 Cina e USA nell’ambito della dinamica capitalistica ...........
Capitolo 3 La Cina nella geopolitica globale
.........................................
3.1 Cina/USA: interdipendenza o contrapposizione geostrategica ........................................................................... 3.2 L’ASEAN e la SCO ............................................................. 3.3 Cina, Russia e India: una triplice alleanza possibile? .........
9
53 55 64 70
10
Indice
Capitolo 4 L’impatto “energetico” della Cina ........................................
77
4.1 Premessa ..........................................................................
79
4.2 Il mercato petrolifero mondiale: riserve, produzione e consumo ........................................................................
80
4.3 Il Medio Oriente e la valenza geopolitica del mercato petrolifero .................................................................... 4.4 La struttura del fabbisogno cinese ..................................... 4.5 Le imprese del settore energetico ...................................... 4.6 Le riserve strategiche ....................................................... 4.7 La geografia degli approvvigionamenti e le alleanze geopolitiche ..................................................................... 4.8 L’asse sino-indiano: per un’alleanza rivoluzionaria ........... 4.9 La conquista dei poli energetici, casi studio ...................... 4.10 La contrapposizione energetico-monetaria con gli USA ..........
Capitolo 5 Verso una rappresentazione del sistema–mondo
83 86 89 91 93 99 103 115
.............
121
5.1 Interpretare, rappresentare, immaginare ............................
123
5.2 Per una proposta di rappresentazione del sistemamondo .............................................................................. 5.3 In sintesi ..........................................................................
126 137
CONCLUSIONI .....................................................................................
141
BIBLIOGRAFIA ....................................................................................
145
CAPITOLO 1 GEOGRAFIE EMERGENTI E TRANSCALARITÀ
I mutamenti degli equilibri di potere sono spesso associati a una profonda riarticolazione delle scale o a una generale produzione di un nuovo “mosaico scalare”. Le trasformazioni socio–spaziali che hanno caratterizzato all’incirca gli ultimi due decenni sono la testimonianza di tali ristrutturazioni attraverso le quali le relazioni di potere precedenti vengono trasformate. Erik Swyngedouw, Globalization or ‘Glocalization’?, 2003, p. 32
21
1.1 Sul concetto di globalizzazione Presentata comunemente come un processo inarrestabile e quasi naturale, “la globalizzazione” è diventata una parola chiave del nostro linguaggio quotidiano, un termine passepartout da utilizzare ogni volta che si voglia far riferimento ai mutamenti dell’organizzazione economico–politica mondiale. Non mancano quindi ambiguità e contraddizioni nell’uso corrente di questo termine, declinato di volta in volta in maniera diversa — globalizzazione neoliberista, finanziaria, produttiva, culturale e così via — in base all’oggetto del proprio discorso. Esisterebbero allora molteplici globalizzazioni, il cui studio sistematico è però carente, anche a causa delle ben note implicazioni ideologico–politiche1. In questa riflessione introduttiva, il nostro intento non è tanto quello di fornire una sintesi dell’ampio e articolato dibattito sull’argomento, bensì di sottolineare l’interconnessione fra alcune caratteristiche della cosiddetta “globalizzazione”, che, in qualsiasi modo la si intenda, rimane un fenomeno storicamente determinato, reso possibile da istituzioni e regole internazionali che celano interessi particolari e relazioni di potere (Coe, Kelly, Yeung, 2007, pp. 51–52). In primo luogo essa è incardinata nelle ristrutturazioni del modo di produzione capitalistico ed in quanto tale è contraddistinta dalle geografie della 1
Tra i tentativi volti a indagare la natura polivalente della globalizzazione ci si può rifare a Globalizations, recente rivista scientifica internazionale edita da Routledge. Per un’analisi che combina approccio geografico, sociologico ed economico si veda F.M. Parenti (a cura di), Gli spazi della globalizzazione. Migrazioni, flussi finanziari e trasferimento di tecnologie, Reggio Emilia, Diabasis, 2004.
23
Capitolo I
24
ineguaglianza rinvenibili nella dialettica inclusione/esclusione e accumulazione/svalutazione tipica di tale sistema (Castells, 2000; Glassman, 2006; Harvey, 2006). Ciò non ha niente a che fare quindi con una certa mitologia mercatistica della globalizzazione, che enfatizza l’appiattimento del mondo e il presunto aumento di opportunità economico–sociali grazie alla diffusione del capitalismo 2. In secondo luogo, la globalizzazione è intrinsecamente legata ad alcune importanti trasformazioni tecnologiche e geopolitiche, emergenti tra il XX e il XXI secolo (v. box 1.1), che implicano tra le altre cose un rapporto organico tra guerra e globalizzazione. In questo complesso insieme di mutamenti è ad esempio possibile rintracciate le origini dell’“attuale crisi economico–finanziaria”. Secondo Michel Chossudovsky, guerra e globalizzazione sono processi intimamente correlati. La crisi economica globale, precedente agli eventi dell’11 settembre, affonda le proprie radici nelle riforme del “libero mercato” del “nuovo ordine mondiale”. Fin dai giorni della “crisi asiatica” del 1997 abbiamo visto mercati finanziari crollare, economie nazionali sconquassate, interi Paesi (per esempio l’Argentina e la Turchia) “rilevati” dai propri creditori internazionali e milioni di persone precipitare in condizioni di povertà abissale. La “crisi del dopo 11 settembre” per molti aspetti annuncia sia il fallimento della “democrazia sociale” occidentale, sia la fine di un’epoca. La legittimità del sistema di “libero mercato” globale ne è uscita rafforzata e ha aperto una nuova ondata di deregolamentazione e privatizzazioni, che in definitiva consegna tutti i servizi pubblici e le infrastrutture statali (comprese sanità, energia elettrica, acqua e fognature, autostrade ed emittenti pubbliche, tanto per citarne alcune) nelle mani di compagnie private (2002, pp. 21–22). Militarizzazione, operazioni segrete di intelligence e guerra vera e propria supportano l’espansione dell’economia del “libero mercato” a nuove frontiere. Lo sviluppo della macchina da guerra americana favorisce un’accumulazione senza precedenti della ricchezza privata nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, che minaccia il futuro dell’umanità (ivi, p. 132).
Le analisi sul ruolo degli organismi internazionali (soprattutto IMF, sulla nascita o consolidamento di numerosi blocchi macro-
WB e WTO),
2
Per quanto queste posizioni siano temporaneamente silenti a causa della crisi economico–finanziaria in corso, non si intravedono in realtà significative inversioni di tendenza rispetto al modello di sviluppo dominante.
Geografie emergenti e transcalarità
25
Box 1.1 – Mutamenti Contrariamente a chi sostiene che non ci sia una grande differenza tra l’attuale globalizzazione e il livello d’integrazione dell’economia mondiale raggiunto tra il 1870 e il 1914, riteniamo utile sottolineare tre principali indicatori di mutamento: il paradigma tecnologico, il sistema monetario e la geopolitica mondiale. Il paradigma tecnologico è mutato in seguito a innovazioni di prodotto e di processo, derivanti dalla cosiddetta “rivoluzione informatica”. Questa ha consentito la creazione di un sistema monetario globale dotato di un grado di integrazione finanziaria di gran lunga superiore a quello del periodo 1870– 1914, in cui vigeva un sistema monetario comune basato sul gold standard (a eccezione di Cina e Persia)3. Si è così passati da una maggiore stabilità finanziaria a un sistema più volatile e instabile, anche perché incardinato intorno a un’unica moneta, il dollaro statunitense. Le trasformazioni geopolitiche nei periodi considerati riflettono peraltro una dinamica “verticistica” radicalmente diversa. L’espansione coloniale dell’America, dell’Europa e del Giappone ha forgiato, tra il XIX e il XX secolo, una geografia mondiale dominata dal Regno Unito, in crescente competizione con gli USA. Diversamente, l’attuale sistema–mondo ci parla della rivalità fra gli Stati Uniti d’America, potenza egemone in declino, e la Cina, potenza asiatica in costante ascesa. Una dinamica che implica nuovi sistemi di alleanze, in cui si sta rafforzando anche il ruolo regionale e globale della Russia e dell’India. Benché grandi cambiamenti in tutti e tre gli ambiti elencati siano stati registrati in entrambi i periodi considerati, ciò non vuol dire che la dimensione spazio–temporale della competizione interstatuale e dei processi di accumulazione capitalistica sia rimasta immutata (Arrighi, 2005; Harvey, 2006). L’individuazione di cicli storici necessita di studiare le nuove forme assunte da fenomeni che sono solo parzialmente comparabili col passato. Ogni ciclo storico è infatti sottoposto, costantemente, a processi “evolutivi” e di trasformazione.
regionali (tra i quali EU, ASEAN, NAFTA, SCO, BIMST, ecc.) e sulla vulnerabilità del sistema finanziario globale hanno messo in discussione l’efficacia delle interpretazioni incentrate esclusivamente sul rapporto
3 Il gold standard è stato poi ripreso, con alcune differenze sostanziali, nell’ambito del processo avviato a Bretton Woods nel 1944 e conclusosi nel 1971. In seguito, con il passaggio da un sistema a cambi fissi a uno a cambi variabili si sono intensificati i flussi monetari reali e/o virtuali (Panizza, 2004, pp. 77–91).
26
Capitolo I
fra Stati nella comprensione del mutamento dell’ordine mondiale. Le varie scale, tuttavia, non si escludono a vicenda. Benché lo Stato continui a giocare un ruolo fondamentale, come dimostra tanto l’ascesa cinese quanto le manovre strategiche degli USA in giro per il mondo, esso va configurandosi sempre di più come regione mobile, diventando un’infrastruttura più o meno attiva del capitalismo globalizzato, anziché essere la sua struttura politica esclusiva. In altre parole, la multipolarizzazione economica sta determinando anche quella geopolitica, in cui alcuni Stati rimangono ovviamente più forti e influenti di altri. Ma non si tratta di un mondo più eguale, nuove gerarchie e disuguaglianze si dischiudono di fronte a noi. La questione che più divide gli studiosi sul concetto di globalizzazione è quale sia l’ambito temporale entro cui circoscrivere tale fenomeno. Da questa prospettiva si possono rilevare due macroposizioni. C’è chi sostiene che la globalizzazione sia già esistita tra il XIX e il XX secolo (Hirst e Thompson, 1999; Frieden, 2006, pp. 3–36), oppure che sia in perfetta continuità con l’imperialismo e il colonialismo europeo sin dalla fine del XV secolo (Swyngedouw, 2003; Harvey, 2000; Shiva, 1997). Altri autori, sociologi e politologi, sostengono invece che si tratti di un fenomeno nuovo (Held e McGrew, 2000; Scholte, 2005), prodotto dalla radicale riorganizzazione delle attività umane in senso transnazionale e sovraterritoriale. Questa seconda posizione è a nostro avviso corretta sul piano metodologico, la delimitazione temporale, ma non su quello analitico: nonostante la diversità di analisi, la maggior parte di questi studiosi offre infatti un’immagine del mondo ageografica, fluida e piatta, segnata dai processi di deterritorializzazione ed extraterritorialità4. Un’immagine che si è fatta strada anche in geografia (si veda, in particolare, Marston, Woodward e Jones, 2005). Se la globalizzazione è un concetto emerso negli ultimi 30 anni, nel corso dei quali il capitalismo si è riorganizzato sul piano produttivo e finanziario (Harvey, 2006, 2001, 1990; Brenner, 1999; Brenner e Theodore, 2002), il suo significato va per noi rintracciato nella ridefinizione delle geografie economico–politiche. Esse non riguardano solo l’espansione del capitalismo su scala globale, ma anche l’azione i4 Per una critica della geoeconomia del senso comune neoliberale si veda, tra gli altri, Sparke (2004, pp. 777–794) e Smith (2005, pp. 887–899).
Geografie emergenti e transcalarità
27
nedita di vari attori politico–economici orientali, tra i quali spicca il ruolo della Repubblica Popolare Cinese. Con questa affermazione non si intendono negare le profonde continuità storiche della globalizzazione con le epoche coloniali e imperiali (nessun fenomeno è generato dal niente), quanto piuttosto asserire l’importanza di analizzare le discontinuità spazio–temporali più recenti al fine di sviluppare un discorso geografico più incisivo, che sappia rappresentare il mutamento del sistema–mondo (v. Cap. 5) sulla base dell’analisi delle trasformazioni materiali in atto (v. Cap. 2, 3 e 4). Dalla nostra prospettiva è quindi possibile attribuire alla globalizzazione una precisa legittimità e unicità storica, senza disconoscere il fatto che il suo significato polivalente abbia favorito discorsi ideologici funzionali all’espansione finanziaria e militare degli Stati Uniti5. Lungi dal considerare la globalizzazione come il traguardo di un mondo più giusto e privo di radici storiche, non dovremmo però trascurare i nuovi connotati spaziali del sistema–mondo a causa delle distorsioni concettuali prodotte dall’ideologia del “libero mercato” di matrice anglosassone. Le dinamiche asiatiche ci mostrano ad esempio una più ampia competizione tra Occidente e Oriente, le cui implicazioni, oggetto di questa ricerca, necessitano un’attenzione maggiore. L’attuale (dis)ordine mondiale risulterebbe infatti dalla combinazione fra un assetto geopolitico e geoeconomico sempre più multipolare, che, indebolendo il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, spiegherebbe sia il loro “neoliberalismo militarista” che informa il New American Century Project6, sia la nuova pervasità del Beijing Consensus in Asia come in Africa (Ramo, 2003; Arrighi, 2007). Tenendo a mente tali considerazioni, da questo momento in poi ci riferiremo al concetto di globalizzazione con l’espressione più neutra di “mutamento del sistema–mondo”, la quale richiede in ogni modo un’ulteriore riflessione teorica sulle scale e sui fondamenti del capitalismo. 5
Si considerino ad esempio le politiche del FMI, della WB e del WTO (Stiglitz, 2002, 2006; Wallach e Sforza, 1999), nonché la militarizzazione del Mediterraneo e di diverse regioni asiatiche attraverso l’espansione delle attività della NATO (Chossudovsky, 2002). 6 Si vedano i lavori di R. Kagan e W. Kristol, i fondatori del “New American Century Project”, www.newamericancenturyproject.org.
28
Capitolo I
1.2 Il dibattito sulle scale La scelta della “scala giusta” per indagare il mutamento del sistema–mondo non è una cosa facile e scontata. La scala globale non può ad esempio essere scissa completamente dagli altri contesti scalari — luoghi, regioni, stati–nazione — che si riferiscono alle parti che compongono il tutto. Peraltro, la stessa definizione del concetto di scala risulta problematica. Nell’ampio dibattito scientifico sull’argomento è infatti possibile rinvenire tesi molto critiche sul significato e il ruolo delle scale geografiche. C’è chi ha avanzato l’idea della non utilità delle scale, come categoria ontologica, per giungere a una più efficace comprensione dei problemi (Marston et al., 2005, 2007), e chi ha dimostrato quanto questo concetto, spesso usato in modo indeterminato e ambiguo, richieda quantomeno una parziale definizione dell’accezione prescelta in un dato ragionamento geografico (Howitt, 1998). Se la prima posizione è dal nostro punto di vista fuorviante (v. box 1.2), la seconda risulta più che fondata. Il significato di scala che assumiamo nei nostri ragionamenti deve essere innanzitutto in grado di rispondere al paradigma della mobilità degli spazi antropici (Harvey, 2006; Swyngedouw, 2003), e non all’imperativo geometrico–matematico tipico della logica cartografica. Deve cioè concepire un dato contesto spaziale come il prodotto dinamico dell’interazione dei processi sociali che connettono più luoghi, e non come un qualcosa di precostituito una volta per tutte (O’Lear e Diehl, 2007)7. «Processi sfuggenti caratterizzano i mutamenti del territorio contemporaneo. I confini geografici e sociali appaiono incerti. Il fenomeno urbano è tra quelli che materializzano tale sensazione … L’effetto città in spazi che tradizionalmente non sono considerati urbani è un tema che è stato al centro di molte riflessioni …» (SGI, p. 23). Con queste parole si apre il primo capitolo del Rapporto della Società Geografica Italiana 2008 dedicato alle città italiane, che affronta i fenomeni e i problemi legati alla “città diffusa” e alla dispersione insediativa, rinvenibili peraltro nella maggior parte dei Paesi del mondo. Date 7 Analogamente al concetto di globalizzazione, anche quello di scala non può essere considerato alla stregua di “una cosa” che esisterebbe “là fuori”.
Geografie emergenti e transcalarità
Box 1.2 – Per una critica dell’ontologia piatta Se è vero che la costruzione dello spazio geografico dipende dall’evoluzione delle gerarchie socioeconomiche e politiche, ciò non può essere ignorato nell’ambito delle teorie geografiche. Da questa prospettiva, il tentativo di Marston, Jones e Woodward (2005) di proporre un’ontologia piatta che superi i modelli gerarchici e definisca una “geografia umana senza scale” è piuttosto fuorviante e per nulla convincente. Questi autori asseriscono di poter rimuovere le categorie alto/basso, che invece costituiscono un tratto intrinseco dell’azione umana nello spazio geografico. La geografia umana libera da scale e modelli gerarchici sarebbe possibile solo quando cessasse di esistere una geografia del potere o, per essere più precisi, quando l’inclinazione degli esseri umani verso il potere venisse meno. Questa condizione può trovare fondamento solo in una sfera ideale, poiché è empiricamente, teoricamente e, soprattutto, ontologicamente infondata. Il fatto che la realtà abbia reso molti concetti obsoleti non invalida l’efficacia degli studi sull’interdipendenza (v. box 5.1) e, in particolare, la necessità di riproporre semplificazioni basate su analisi scalari. Molte categorie sono infatti concepite come un artefatto per interpretare la realtà e solo con il passare del tempo il loro uso le rende più rigide di quanto non fossero in origine. Peraltro, le fallacie teoriche non riducono il bisogno o l’esigenza di definire – per astrazione – le forme degli spazi di azione umana e le loro dimensioni scalari, funzionali a rappresentare il mondo (v. Cap. 5). I limiti dell’analisi di Marston et al. riguardano più nello specifico la loro valutazione della letteratura sulle scale (Leitner e Miller, 2007), che viene liquidata come troppo rigida e astratta. Questi autori sostengono ad esempio che gli studi di Swyngedouw, Brenner, Harvey e altri siano da superare poiché rimangono troppo legati alla “strutturazione scalare” e alle correlate astrazioni binarie verticale/orizzontale, locale/globale e rete/gerarchia. Marston et al. sembrano tuttavia dimenticare che Swyngedouw, Brenner e Harvey sono più che consapevoli della limitatezza del rapporto binario locale/globale, che, dalla loro prospettiva, deve essere interpretato sempre in termini dialettici e mai lineari. «Geographical scale are not only a product of political–economic processes but serve at once as their presupposition and their medium» (Brenner, 1999). Benché ai proponenti della “ontologia piatta” vadano riconosciuti alcuni meriti, secondo la nostra lettura le loro tesi farebbero scivolare la disciplina geografica nell’antropologismo e nello psicologismo, allontanandola dalla sua funzione di sintesi spaziale–rappresentativa. Dovremmo forse smettere di immaginare lo spazio — secondo quest’approccio — nelle sue articolazioni gerarchiche, eliminando le categorie alto/basso?
29
30
Capitolo I
le interrelazioni e compenetrazioni fra territori e ambiti spaziali diversi, le scale geografiche che prendiamo in considerazione non possono che essere contestualmente locale–regionale–globale. Il mutamento del sistema–mondo dipende infatti dalla evoluzione/trasformazione dei rapporti fra città, regioni e stati, come si evincerà concretamente dai capitoli successivi. Se poi consideriamo come gli attori urbani che più modificano il territorio travalicano la scala nazionale, collegandosi ai flussi internazionali, riteniamo sia ancora più sensato non perdere di vista una dimensione transcalare, anche quando affrontiamo la descrizione di casi territorialmente circoscritti. Tali dinamiche transcalari, alla base dell’emergere di nuove geografie economico-politiche, sono peraltro conflittuali nella misura in cui dipendono da attori dotati di mezzi differenti e capacità di azione variabile. L’attivismo di Beijing nel mondo determina ad esempio nuove alleanze e/o attriti internazionali per il controllo di regioni strategiche, ricombinando alcuni assetti di potere e producendo in ultima istanza nuove gerarchie spaziali. Uno schema interpretativo molto utile che tiene conto della complessità spaziale è stato sviluppato da Kevin Cox (1998). Questo geografo dell’Ohio State University sostiene che a ogni scala esista una spazialità socioeconomica e politica duale: quella della dipendenza e quella dell’impegno/resistenza. La prima sarebbe caratterizzata dalla organizzazione di relazioni socioeconomiche e politiche funzionali alla riproduzione del sistema da cui ciascuno dipende. La seconda sarebbe invece costruita da quelle pratiche che tentano di sovvertire e riorganizzare le reti di dipendenza, per rinforzarle o, al contrario, per liberarsene. I due spazi sono l’uno dentro l’altro ed entrambi sono prodotti da attori tra loro molto differenti. Con la sua proiezione all’estero la Cina è ad esempio in grado di trasformare la struttura socioeconomica di una data regione subnazionale, costruendo infrastrutture, prestando soldi e trasferendo manodopera in Angola, Congo, Pakistan, Russia e in molti altri Paesi, e di alterare per questa via gli equilibri di potere al livello globale. In tal modo essa produce uno spazio dell’impegno funzionale a dati interessi — approvvigionamento energetico, scambi commerciali e alleanze politico–militari. All’estremo opposto si colloca invece l’azione di protesta, sensibilizzazione e resistenza di coloro, potenti e gente comune, che potrebbero subire gli
Geografie emergenti e transcalarità
31
effetti negativi di queste trasformazioni. Non si tratta dunque di spazi contenuti in un locale confinato e chiuso, bensì di spazi prodotti da reti di relazioni che, partendo dal locale, coinvolgono altri livelli scalari. Le geografie economico-politiche del capitalismo sono mutevoli e non garantiscono, al livello locale, la stabilità nel tempo di quelle condizioni di riproduzione sociale che si formano quasi sempre in un contesto transcalare. Nell’ambito di tali incertezze spazio–temporali si mobilitano attori di varia natura per riorganizzare le fonti del loro guadagno e più in generale i meccanismi di riproduzione dei vari interessi in gioco. Ciò sta accadendo nell’attuale fase di ristrutturazione del sistema capitalistico, caratterizzata per di più da sempre nuove tensioni geopolitiche. Se immaginare il mondo è in primis un’inclinazione/facoltà umana, sul piano scientifico, professionale e politico, si tratta di un obiettivo precipuo dei geografi. I contributi di Cox, Harvey, Swyngedouw, Brenner e altri, che si sono focalizzati sulla natura delle gerarchie socio–politiche e sulla mobilità degli spazi umani nella costruzione delle scale, sono quindi utilissimi a tal fine.
1.3 La teoria del spatial–temporal fix Ragionare sulla metamorfosi dei rapporti di forza nel sistemamondo esige un’attenzione particolare sulle caratteristiche fondamentali del capitalismo. La spatial–temporal fix theory di David Harvey (1982, cap. 8 e 13; 2001, cap. 14) ci fornisce al riguardo un’importante griglia interpretativa, nella quale possiamo cominciare a mettere in relazione l’ascesa cinese con la dinamica geoeconomica e geopolitica globale (v. Cap. 2 e 3). Secondo la teoria di Harvey, l’elemento costitutivo dello sviluppo capitalistico è rappresentato dalla continua produzione e riproduzione di spazio per garantire condizioni favorevoli all’accumulazione di capitale. Nel fare ciò il capitalismo soffre tuttavia di una contraddizione spazio–temporale che deriva dalla sua duplice necessità di velocizzare continuamente la circolazione di merci e capitali e di creare, nel contempo, strutture e infrastrutture materiali ancorate al territorio. La costruzione di spatial fixes, funzionali ad assorbire il capitale accumula-
Capitolo I
32
to, richiede infatti progetti di investimento di lungo periodo che rallentano e limitano la rigenerazione e il ricambio del capitale. L’esito di questa contraddizione è il sopraggiungere di una crisi di sovraccumulazione8, il cui superamento temporaneo dipende dalla capacità del sistema di ricorrere all’intervento pubblico statale, in momenti di recessione, all’innovazione tecnologica, alla creazione di nuovi mercati e/o alla speculazione finanziaria. Quest’ultima opzione si è estesa oltre misura negli ultimi due decenni, divenendo così la causa principale dell’“attuale” crisi capitalistica a guida USA, che, oggi, in fase di recessione, viene tamponata da nuovi aiuti di Stato. Tramite questi meccanismi la crisi di sovraccumulazione si allontana nel tempo, ma non si risolve definitivamente. Essa dà però nuovo impulso alla competizione politica ed economica e contribuisce per questa via al mutamento della geografia del potere. La fase attuale potrebbe allora essere sintetizzata nel modo seguente. Dopo trent’anni di crescita sostenuta in Cina e di contestuale peggioramento delle condizioni macroeconomiche in Europa e negli USA, la crisi di quest’ultimi sembra aver trovato nello spazio asiatico (prevalentemente in Estremo Oriente) le condizioni strutturali e infrastrutturali per il suo temporaneo superamento. Una situazione, quindi, in cui le dinamiche fondamentali del capitalismo stanno determinano il cambiamento dei rapporti di forza al livello mondiale (v. box 1.3). Il primo passo per l’espansione di un processo di accumulazione è quello di acquisire/espropriare risorse naturali, conoscitive e patrimoni di ogni genere9 all’interno e poi all’esterno di un determinato spazio geografico. Tutto ciò necessita però di grandi investimenti in infrastrutture per ampliare i mercati esistenti o crearne di nuovi. L’afflusso consistente di capitali occidentali in alcuni poli asiatici, soprattutto dagli 8
Quando il capitale non può essere investito profittevolmente si creano alti livelli di merci invendute, di capacità produttiva sottoutilizzata e di liquidità senza opportunità di investimento. Solo con la realizzazione di nuove combinazioni produttive (in spazi costituiti da infrastrutture fisiche e sociali) è possibile trovare forme diverse di valorizzazione del capitale. Questi concetti sono stati elaborati originariamente da K. Marx (Das Capital. Kritic der politischen Ökonomie, 1867), e in seguito reinterpretati con un approccio geografico da Harvey (The Limits to Capital, Blackwell, Oxford 1982). 9 Si pensi alla mercificazione della terra e dell’acqua, ai brevetti sui geni e sulla creatività intellettuale. Il capitalismo si insinua in tutto ciò che è gratuito, impone i propri marchi e pedaggi sui beni comuni che trasforma in merci da vendere sul mercato.
Geografie emergenti e transcalarità
33
Box 1.3 – Cina e USA: tra competizione e interdipendenza La Cina sta ampliando la sua influenza in ogni parte del globo e in modo sempre più spinto in quelle aree strategiche regionali dove meglio è possibile individuare il mutamento del sistema–mondo. La macroregione che dal Corno d’Africa giunge fino all’Asia centrale è ancora oggi l’Heartland dei cambiamenti globali. A differenza del passato, però, queste regioni non rappresentano solo aree ricche di risorse strategiche da sfruttare, ma spazi su cui si sta costruendo il modello di sviluppo cinese. Tutto ciò crea tensioni fra Washington e Beijing, che sono però attenuate, non annullate, dalle interdipendenze economico–finanziarie. La massiccia penetrazione della Cina in Medio Oriente e in Africa non può essere direttamente ostacolata dagli USA, poiché è proprio grazie alla sicurezza energetica cinese che i consumatori statunitensi possono godere di merci a prezzi competitivi. La crescita cinese è inoltre alla base dell’accesso statunitense a una porzione significativa di credito estero sicuro e costante. Si tratta in sintesi di condizioni strutturali che permettono sia una buona parte della performance economica cinese, sia gli alti livelli di indebitamento degli Stati Uniti. Peraltro, una quota dei dollari americani cumulati dalla Banca Centrale della Repubblica Popolare Cinese viene reinvestita negli USA per mezzo della State Administration for Foreign Exchange (SAFE), controllata dal Partito Comunista Cinese. Il rapporto tra queste due potenze continuerà in ogni modo a oscillare tra compromessi e contrapposizioni.
anni Ottanta fino alla prima metà degli anni Novanta e dal 2001 fino a oggi, è una conseguenza di tale logica. Ma non è stato un processo unidirezionale (Ovest–Est), come in epoca coloniale. Nel frattempo altri processi di accumulazione endogeni sono stati avviati in diverse aree asiatiche in via di sviluppo, che da alcuni anni tendono a loro volta a espandersi verso altre regioni del globo. Lo sforzo cinese rivolto a una massiccia produzione di nuovi spazi, funzionali sia all’accumulazione capitalistica, sia al consolidamento del suo ruolo geopolitico, ha già generato ad esempio un’amplissima quantità di infrastrutture all’interno e all’esterno del Paese (dighe, ferrovie, strade, porti, metropolitane, ecc.)10. L’azione in Medio Oriente, in Asia centrale e in Africa mira al controllo e/o all’acquisizione di risorse (soprattutto petrolio e gas naturale), di compagnie straniere e di 10 Un’attività che è considerata complessivamente superiore a quella intrapresa dagli negli anni Cinquanta e Sessanta.
USA
Capitolo I
34
aree strategiche, per mezzo di ingenti investimenti pubblici e privati. Si tratta di quello che Micheal Mann ha definito “potere infrastrutturale” e che in questo caso esprime la modalità con cui lo Stato mobilita il surplus di capitale generato al livello domestico e persegue contemporaneamente obiettivi geostrategici al livello globale. L’espansione del capitalismo determina quindi una crescita dell’antagonismo fra diversi attori che cercano di acquisire o distruggere i patrimoni dei rivali attraverso la competizione commerciale e finanziaria, oppure le manovre geopolitiche. La creazione di nuovi spazi per “l’accumulazione senza fine” implica pertanto anche la svalutazione e/o la distruzione di alcuni patrimoni preesistenti (si pensi alla Russia, all’Argentina o all’Iraq). Durante una crisi di sovraccumulazione certi asset economici vengono infatti svalutati per mezzo di operazioni finanziarie (o militari), in condizioni ad esempio di scarsa concorrenza e di corruzione politica, aprendo così a un’aspra competizione per il loro accaparramento a prezzi bassissimi, in cui vince il più forte. La conseguenza di tali situazioni di crisi capitalistiche si manifesta, dunque, anche nell’incremento della rivalità geopolitica, nell’ambito della quale si decide quali territori dovranno sopportare l’attacco della svalutazione. L’accumulazione di capitale può infatti essere valorizzata al massimo solo in condizioni di concorrenza limitata e concentrazione geografica di ricchezza/potere, altrimenti prevarrebbe la distribuzione e lo scambio equo sull’accumulazione e lo scambio ineguale11. Nella realtà effettuale l’evoluzione del sistema mondo è pertanto segnata da uno sviluppo geografico sempre più ineguale (UNDP, 1998, 1999, 2007; Frieden, 2006, pp. 3–34)12, che è alla base della competizione geopolitica, ovverosia delle tensioni e dei conflitti fra grandi potenze. Ne discende che le dinamiche geoeconomiche del modo di produzione dominante sono intrinsecamente legate a quelle geopolitiche. 11
Per una teoria alternativa a quella neoclassica mainstream si rimanda a Orati, 2003. L’espansione dei flussi di merci, servizi e capitali, solo per fare un esempio, è avvenuta seguendo una dinamica estremamente diseguale. Nonostante le numerose misure adottate dalla maggior parte dei Paesi in Via di Sviluppo (PVS) a favore degli Investimenti Diretti Esteri (IDE), questi si sono concentrati in pochi Paesi (Cina, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Messico, Malaysia, Tailandia, Brasile, India, Indonesia e Turchia) (ILO, 2004). Col passare del tempo la situazione non è mutata significativamente: nel 2005 il 70 per cento degli IDE ricevuti nella macroregione asiatica è andato alla Cina, seguita a distanza da Singapore, Indonesia, Malaysia e Tailandia. L’Asia meridionale ha invece ricevuto solo il 10 per cento degli IDE. 12