Arnaldo Canciani
Memorie e Ricordi di Albania 1930 – 1950
Il paese ed il campo petrolifero di Devoli, con il fiume sullo sfondo, nel 1934.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Crema 24 maggio2000 Dopo molte insistenze da parte di mia figlia Laura e dei nipoti, mi accingo a scrivere gli episodi salienti che fanno parte delle memorie e ricordi della mia vita. 1
Memorie e ricordi d’Albania 1930 – 1950 PREFAZIONE Questa prima parte delle mie memorie, che riguarda un periodo di venti anni dal 1928 al 1949, la dedico a tutti coloro che l’hanno vissuta e sofferta con me in Albania, ai disumani sacrifici e privazioni dei miei genitori, a tutti i miei famigliari. Estendo la mia dedica anche ai molti friulani costretti ad espatriare alla ricerca di condizioni migliori di vita, a tutti i militari che furono obbligati a combattere in terra straniera per effimeri ideali e, tra questi, a coloro che non hanno più rivisto le loro famiglie e riposano in terra straniera, a tutti gli oppressi dai regimi dittatoriali e da questi condannati ingiustamente alla pena capitale, ai carcerati, a coloro che hanno dovuto subire torture inimmaginabili. Ai troppi che si sono cullati nell’illusione di un avvenire migliore ispirato da dottrine di destra o di sinistra. A don Mario Morandi, insegnante e generoso parroco dei poveri, difensore delle classi meno abbienti. Al dott. Antonio Mandolini, per le cure da lui prodigate ai poveri, agli umili, agli oppressi, anche a coloro che lo avevano torturato. Al mio maestro di lavoro, Silvio Dariol, esempio di serietà, comprensione, intelligenza versatile e di grandi capacità lavorative. A queste persone vorrei poter dire che il loro passaggio in questa vita non è stato inutile. Il loro seme germoglia ancora in tutti i cuori di coloro che hanno avuto la fortuna d’incontrarli, conoscerli ed amarli. A tutti coloro che, con il loro lavoro, hanno fatto grande l’AGIP e poi l’ENI, senza averne in cambio il meritato riconoscimento. . A costoro chiedo comprensione nel giudicarmi se trovano qualche virgola superflua od eventuali errori. Garantisco comunque che è tutta farina del mio sacco, un inno alla verità. Alla tenera età di 78 anni ho imparato ad usare il computer; senza l’aiuto di questo moderno strumento forse non sarei riuscito a portare a termine queste memorie e ricordi, che spero possano essere graditi agli interessati, a mia moglie Rosetta, a mia figlia Laura, che mi ha convinto a scriverle, all’altra mia figlia Mara e ai nipoti Federico, Giulia, Chiara, Irene ed Elena. Arnaldo Canciani Crema novembre 2001.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Sono state inserite alcune pagine ed aggiornamenti nel giugno del 2008. 2
1. – La mia famiglia Mio padre, Giovanni Angelo Canciani (Agnul Centurion), era nato a Gemona del Friuli il 19 Novembre 1885. Come tanti friulani era stato costretto ad emigrare in diversi paesi europei per trovare un lavoro e guadagnarsi da vivere. Nel 1922, in uno dei rari e brevi periodi trascorsi a Gemona, in casa di comuni amici (Boezio) conobbe mia madre, Ida Urbani, nata a Gemona il 28 ottobre 1898. Trascorso il breve periodo di vacanze, mio padre e Pietro Boezio ripartirono di nuovo insieme per la Sardegna, a lavorare sulla diga che stavano costruendo sul fiume Tirso. Dopo diversi mesi, scrisse a mia madre una sola e semplice cartolina, chiedendola in sposa. Nel gennaio del 1923 ritornò a Gemona, il tempo di preparare i documenti, ed il 12 febbraio si sposarono, prima in Municipio, dopo alcuni giorni in chiesa, com'era consuetudine allora. In viaggio di nozze andarono a conoscere i Floreani, parenti materni di mio padre. 10 Km. in treno fino a Maiano e 5 KM. a piedi per arrivare a Farla (frazione di Maiano), dove mia madre, finalmente, riuscì a togliersi le scarpe e curarsi le piaghe ai piedi. Dopo alcuni giorni ritornarono a Gemona dove li attendeva la nuova casa in Via Sottocolle, due stanze in affitto nel cortile dove abitavano i Boezio, confinante con la casa degli Urbani. E qui io nacqui il 25 novembre 1923 (domenica ore 17). Mia sorella Irene nacque l’undici ottobre 1925, io avevo appena due anni e non conservo alcun ricordo di questo lieto evento.
2. – Espatrio In seguito alla situazione venutasi a creare in Italia con il fascismo al potere, mio padre fu costretto ad emigrare; nel 1928 partì per l'Albania, nella capitale Tirana, dove noi 1o raggiungemmo nel gennaio del 1930. Dai racconti di mia madre, mi sembra di ricordare che partimmo da Gemona il giorno 30 mattina in treno, arrivammo a Bari nella mattinata del giorno successivo, la sera c'imbarcammo sulla motonave che, dopo circa dieci ore di traversata, approdò nel porto di Durazzo. Da qui, dopo alcune ore d'attesa., proseguimmo il viaggio in corriera. La distanza da Durazzo a Tirana è di soli 38 Km, ma con i mezzi sgangherati di allora ci vollero parecchie ore per arrivare; il viaggio durò quasi tre giorni. Mia madre non si era mai mossa dal paese natio; partire con due bambini piccoli, valigie, bagagli vari, non riesco ad immaginare quanti e quali disagi abbia dovuto superare. Ambientarsi in un paese straniero, senza una minima conoscenza della lingua, non fu certamente una cosa facile, soprattutto per mia madre. La casa era composta da due stanze al piano terra, alle quali si accedeva attraverso un cortile promiscuo ad altre famiglie mussulmane ed ortodosse; un solo gabinetto nel cortile, all'interno solo una brocca d'acqua ( unica comodità). La casa in cui abitavamo era ubicata in un vecchio quartiere al centro di Tirana, in via Dibra. Delle scuole elementari, che ho frequentato a Tirana fino alla quarta, mi ricordo un solo particolare: una foto che mi ritrae solitario, in un angolo, mentre tutti gli altri bambini giocavano nel cortile. Unico diversivo: uscire la domenica con i miei genitori. I friulani si ritrovavano tutti in un osteria (da Coligi) all’inizio di via Dibra, o in alternativa in una birreria di via Elbasan. Il problema occupazionale non esisteva, poichè mio padre ha sempre lavorato nell’edilizia e, per un certo periodo, anche alla costruzione del palazzo reale della capitale. 3
All'epoca in Albania c'era la monarchia: Ameth Zog si era proclamato Re e governava il paese con pugno di ferro. Tutti i giovedì, sulla piazza del mercato di Tirana, venivano eseguite le condanne a morte per impiccagione. Aveva tre sorelle, molto brutte, che sfilavano di frequente per le vie della capitale. Re Zog aveva sposato la bellissima contessa Geraldina d'Ungheria. Il figlio Lek nacque esule il 9 aprile 1939, giorno dell'occupazione italiana dell’Albania. Chiusa questa parentesi storica, ritorno alle memorie della mia famiglia.
3. – Fiocco rosa Il 10 luglio 1931 nacque a Tirana mia sorella Albina “Albania”. Nelle due stanze fatiscenti e malsane non era più possibile rimanere; dormivamo in cinque in una stanza. Fummo costretti a trasferirci in un’altra casa; costruita su un piano rialzato, più spaziosa della precedente e con un piccolo cortile, ma isolata e distante dal Centro. Mio padre non perdeva una giornata di lavoro, ma il mensile che percepiva era appena sufficiente ai bisogni della famiglia. Una mattina, mia madre uscì per andare a fare la spesa ed i ladri approfittarono per ripulire la casa. Cinque Lek, lo stipendio di un mese, ed altre cose erano sparite. I furfanti furono in seguito arrestati, ma la refurtiva non ci fu restituita. Le conseguenze economiche che ne seguirono furono superate con fatica. Questo fatto indusse mio padre a traslocare in un'altra casa assieme ai coniugi Arduino, una simpatica coppia di triestini, cordiali e di molta compagnia per mia madre, che aveva risentito un po' del precedente isolamento. Loro abitavano al primo piano e noi al piano terra, intorno alla casa un giardino grande con molte piante. Mia sorella Albina, all'età di un anno, si ammalò di gastroenterite; le medicine non si trovavano, o non si potevano comperare, e mio padre, pur avendo un lavoro continuativo, non percepiva lo stipendio con regolarità; per circa sei mesi non gli vennero corrisposte le mensilità . Alcuni negozianti ci fecero credito ed i colleghi di lavoro, amici e compaesani, ci aiutarono. Quello fu un periodo piuttosto critico e difficile per la mia famiglia e durò circa due anni. Fu più o meno in questo periodo che io e mia sorella Irene fummo cresimati. La cerimonia si svolse nella chiesa di un convento di suore ed il mio padrino fu Pietro Boezio, compaesano ed amico di famiglia. Mia sorella fu meno fortunata, poichè la madrina fu scelta dalle suore: una contessa che sparì, senza salutare, alla fine della cerimonia. Erano già trascorsi quattro anni di grandi disagi e sacrifici dal nostro arrivo in Albania; nel 1934 mio padre lasciò Tirana e si trasferì a Kuciova, piccolo paesino sulle rive del fiume Devoli, a 15 Km dalla cittadina di Berat. La società AIPA aveva sostituito le “FFSS Italiane” che avevano ottenuto per prime dal governo albanese in questa zona una concessione per le ricerche petrolifere. Dopo l’annessione dell’Albania, nel 1940, l’AIPA passò sotto il controllo dell’AGIP. Da quel momento il lavoro nel settore petrolifero ebbe un incremento notevole e veloce, mentre parallelamente si sviluppò anche l'edilizia. Mio padre lavorava con l'impresa Stella alla costruzione di case, uffici, capannoni, ecc. Dovemmo attendere qualche mese per riunire la famiglia, dato che non era facile trovare un’abitazione, ma finalmente nel gennaio del 1935 ci trasferimmo anche noi. Ai piedi delle colline scorreva maestoso il fiume Devoli ed anche al paese fu dato dagli Italiani lo stesso nome.
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4. -Costruzione del villaggio di Devoli: la chiesa e la scuola All'inizio delle ricerche petrolifere l'AIPA. (Azienda Italiana Petroli Albania) operava nella zona denominata D4, dove erano stati perforati i primi pozzi; aveva costruito mensa, uffici ed alcune abitazioni in legno. Parte di queste, resesi disponibili, furono utilizzate una per la chiesa, ( Don Criseri fu il primo parroco) ed una per la scuola. Una giovane maestra, Iolanda Silverio, insegnava a tutti gli alunni delle 5 classi elementari. A frequentare la quinta eravamo in tre; Lendaro, Truini ed io.
La maestra Iolanda Silverio Alla fine dell'ultimo anno di scuola fui promosso con ottimi voti, ma non potei proseguire; non c’erano altre scuole! Mio padre, come premio per i voti conseguiti a scuola, mi aveva regalato una carabina Flobert calibro 9. L'Albania all'epoca era un paese selvaggio, con una natura incontaminata, abbondava di caccia e ricco era il patrimonio ittico dei fiumi Per supplire alla mancanza di scuole, il parroco ci dava delle lezioni su alcune materie di maggiore utilità. A me aveva affidato anche il compito di chierico sacrestano; per questo servizio mi dava un piccolo compenso. In sacrestia tenevo sempre pronto il mio fucile e, durante la predica, quando dalla finestra vedevo posarsi qualche uccello sull'albero ricoperto d'edera, uscivo, sparavo e ritornavo in tempo per dire “amen”. Una mattina ero andato a servire messa, avevo fame e feci colazione con tutte le ostie che il parroco teneva in una scatola. Così finì la mia carriera di sacrestano.. Le mie giornate trascorrevano come quelle di un puledro allo stato brado: d'inverno sempre a caccia, d'estate a pesca con mezzi di fortuna, canna di bambù e spago per fissare l’amo. Alle cartucce della carabina toglievo i pallini e riempivo il bossolo di polvere, ma un giorno, caricando i pallini nella carabina dalla parte anteriore della canna, mi partì il colpo e quello fu il mio primo incidente di caccia: impallinata la mano e la fronte, per fortuna senza serie conseguenze. 5
La carabina mi fu sequestrata due volte: la prima dall’ing. Trisolio, che mi sorprese mentre facevo uscire dal recinto i suoi cani da caccia; mi prese la carabina, ma la signora gentilmente me la restituì. La seconda volta avevo sparato ad un’allodola ed i pallini di rimbalzo andarono a finire sul giornale di un signore che stava leggendo, seduto all'esterno di un caffè. Per riavere la carabina, questa volta fu necessario l'intervento di mio padre. Un giorno, di ritorno dalla pesca, avevo lasciato la canna di bambù appoggiata al muro con il verme inserito all’ amo. Il gallo preferito dalla mamma ingoiò tutto ma non mori. Alla domenica, con mio padre, andavamo a pesca con piccole cariche di dinamite. Ogni giorno per me iniziava con una nuova avventura. Così trascorsi più di due anni spericolati e spensierati, fino alla fine del 1937, senza una lira in tasca e senza altri divertimenti.
5. – 1937- Apprendista a Tirana In quel periodo furono avviati i lavori per la costruzione di una nuova scuola, dell'ospedale, della chiesa, del dopolavoro. Molti operai e molte nuove famiglie arrivarono dall’Italia, soprattutto emiliani. Il paese era diventato un'isola italiana, inserita nel contesto albanese, con molti pregi ed alcuni difetti: la propaganda fascista era molto presente, e la tessera del Partito indispensabile per ottenere agevolazioni e lavoro. Mio padre non si adattava a subire certe imposizioni, per cul si trasferì di nuovo a Tirana. Lo raggiunsi nell'autunno de1 1937. Mi aveva trovato un posto come apprendista in una officina meccanica dove si riparavano auto e moto; c’era anche un tornio e una fonderia. Era la sola officina nella capitale Tirana. I proprietari erano due italiani, Mario Massarini di Piacenza ed un certo Poli, triestino. Abitavamo in casa del sig. Merli, che era stato nostro ospite per un breve periodo a Devoli. Nella sua casa di via Elbasan ci diede in affitto una stanza che condividevo con mio padre; non aveva vetri alla finestra ed avevamo messo dei giornali per proteggerci dal freddo. Tutte le mattine, per raggiungere il posto di lavoro in via Durazzo, percorrevo 2 Km a piedi, transitando per le vie del centro; mi fermavo con l’acquolina in bocca davanti alle vetrine delle pasticcerie, ma non avevo soldi! In piazza Scanderbek, si udivano canzoni italiane trasmesse dai megafoni di radio Tirana. Mi è rimasta impressa una canzone, “Amapola”. Era la prima volta che vivevo lontano dalla famiglia, avevo tredici anni ed ero ancora un bambino. In officina ero molto volonteroso, ma inizialmente, per farmi imparare, mi facevano fare sempre i lavori più umili. Un’esperienza sotto molti aspetti da considerarsi negativa per la mia età, ma che ha contribuito alla formazione del mio carattere ed a prepararmi alle prove successive che avrei dovuto superare. Per fortuna mi rimane solo un pallido ricordo di questo periodo, e non mi è possibile neppure ricordare i luoghi dove andavo a consumare i pasti. Rammento con chiarezza un solo episodio che mi fece soffrire! Era Carnevale, ed incontrai per strada un certo Merla; avevamo frequentato assieme le elementari fino alla quarta, e mi disse che era arrivata a casa sua una lettera di mia madre. Ansioso di leggerla, feci di corsa due km. con una borsa pesante che mi aveva incaricato di consegnare. La lettera era uno scherzo di cattivo gusto di una persona che l’animo non l’aveva certamente buono. Nella borsa c'erano tre mattoni.
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6. – 1938 Assunto dall’AIPA. Avevo trascorso sei mesi a Tirana. Per mio padre la vita che ero costretto a condurre era diventata un problema: non poteva seguirmi, così decise di riportarmi di nuovo a Devoli da mia madre. Non essendoci all’epoca scuole oltre la quinta elementare, la direzione dell'azienda AIPA veniva incontro ai dipendenti che avevano figli in età da potere inserire come apprendisti, offrendo loro un lavoro nei vari reparti; alcuni miei coetanei erano già stati assunti. Da poco avevo superato i quattordici anni, età minima consentita per entrare nel mondo del lavoro. Al dott. Achille, capo ufficio personale, presentai la domanda di assunzione. Non fu cosa facile, mio padre non era diretto dipendente dell’azienda ed inoltre era considerato antifascista. Uscendo dall'ufficio, nell'atrio incontrai l'ing. Trisolio, il Vice Direttore, che era un uomo brusco di carattere, ma dai principi sani. Ascoltò comprensivo le mie richieste, mi riaccompagnò dal capo ufficio e mi fece assumere. Il 30 maggio 1938 iniziai a lavorare in officina come apprendista; mi affiancarono ad uno dei migliori operai specializzati, Silvio Dariol, che lavorava sulla fresatrice. Ottimo aggiustatore meccanico, curava anche la manutenzione di vari impianti sparsi nel cantiere. Lo chiamavo “maestro” per il suo insegnamento sul lavoro, l’esempio di correttezza e di serietà. Per me fu una fortuna averlo incontrato ed aver lavorato al suo fianco per alcuni anni. In questo primo anno d’apprendistato raggiunsi un ottimo affiatamento con il mio maestro Dariol, che era una persona comprensiva, intelligente e disponibile. Il lavoro mi piaceva, seguivo attento gli insegnamenti e progredivo nell’apprendimento, ma non ero pagato. Il primo anno il lavoro degli apprendisti non era compensato in alcun modo dall'azienda e l'orario di lavoro era pesante, dieci ore giornaliere, ma almeno per noi minori il sabato era considerato festivo.
Il mio Maestro Silvio Dariol. L'officina occupava un’area vasta divisa in reparti, portineria, uffici, un vasto cortile. Il capannone di destra, lungo 120 metri, era diviso in reparti: macchine utensili, aggiustaggio e motoristi. A sinistra un capannone identico, suddiviso in falegnami, fabbri e saldatori. Tra i due fabbricati, un 7
corridoio largo portava ad un vasto deposito d’attrezzature varie. Confinanti, sul lato destro, vari altri capannoni adibiti a magazzini. Sul lato opposto della strada che transitava lungo la parte anteriore di queste strutture, si trovava la piccola stazione ferroviaria, con i binari che collegavano i vari reparti e si diramavano raggiungendo tutti i pozzi. Locomotive, vagoni e binari erano di dimensioni ridotte rispetto ai treni normali (scartamento ridotto).
1994 I capannoni dell’AIPA riparati , ma in pratica identici agli originali del 1934. Verso la metà del 1939, la direzione dell’azienda , in base ai meriti acquisiti e ad un suo giudizio insindacabile, mi comunicò l’entità del mio primo salario. (5 Lek). Era forse un decimo del salario di un operaio qualificato, ma per me fu una grandissima soddisfazione. Lo stipendio di mio padre, quando arrivava, era inferiore al mio. Mia madre, lavando e stirando, guadagnava qualche Lek, ed il mio sia pur piccolo aiuto contribuiva al modesto bilancio famigliare.
7.- 7 Aprile 1939: Annessione dell’Albania Nella notte dall’otto al nove aprile 1939, fummo svegliati verso le tre del mattino. Il tempo di vestirci e raccogliere poche cose in una sola valigia, poi salimmo sui camion che partirono veloci per raggiungere il porto di Valona, distante 90 Km. da Devoli; qui c’imbarcarono sull'incrociatore Pola che ci attendeva in rada. Ultimato l'imbarco di tutti i profughi, la nave prese il largo ed in sole tre ore di traversata ci sbarcò a Monopoli, in Puglia. Nella mensa ci servirono la colazione e fummo trattati con molta gentilezza. I militari del battaglione S. Marco, che dovevano sbarcare nel pomeriggio in Albania, ci chiedevano informazioni e notizie sulla situazione locale. L’incrociatore Pola era gemello del Garibaldi, navi da guerra moderne, di recente costruzione: 10.000 Ton di stazza, 1500 marinai d’equipaggio. Furono affondate dagli Inglesi nel 1942 nella battaglia di Punta Stilo. Per l'Italia fu una grossa perdita.
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L’incrociatore Pola mentre esce dal porto di Taranto nel 1941. L'occupazione dell'Albania da parte dell'Esercito Italiano si concluse in pochi giorni; ci furono solo rari casi sporadici di resistenza, ma in breve tutto ritornò alla normalità, e così per noi ebbe termine questo breve periodo di vacanze. A Lecce eravamo ospiti del collegio Tellini, dalle cui finestre si godeva la visuale di tutta la piazza d’armi. Dopo dieci giorni gli uomini rientrarono in Albania e ripresero il lavoro interrotto. Ai famigliari non fu concesso di rientrare subito: mia madre e le sorelle proseguirono il viaggio per Gemona, e trascorsero in Italia un mese. Trascorsi a Devoli un mese solo con mio padre. Il personale che non aveva famiglia, disponeva di mense e camere singole adiacenti, chi aveva una propria abitazione famigliare doveva arrangiarsi. Ma finalmente la situazione locale, dopo l’occupazione italiana, si era del tutto normalizzata e a mettere fine ai nostri disagi ci pensò mia madre, ritornata dall’Italia. Le giornate, settimane e mesi trascorrevano veloci. L'orario di lavoro in officina era molto pesante: dieci ore al giorno, il caldo nei mesi estivi toccava punte di 38-40 gradi. Per gli operai del turno di notte l'orario di lavoro era di 12 ore. Per gli apprendisti di età inferiore ai 18 anni, il sabato pomeriggio era considerato riposo.
8. –Adolescenza a Devoli in espansione Gli svaghi per i ragazzi adolescenti erano pochi, i divertimenti inesistenti; non esiste un paragone tra ieri ed oggi, ma forse si potrebbe definire con due sole parole ”nulla e troppo”. La biblioteca aziendale disponeva di ottocento volumi di vari argomenti, ed alla sera, negli orari bisettimanali di apertura, andavo ad aiutare l'incaricato Angeli, friulano anche lui, nella distribuzione e riordino dei libri: in compenso potevo avere tutti i libri che m’interessavano. Ho letto molto ed in modo disordinato, anche libri che non avrei dovuto leggere per la mia giovane età. I romanzi che trattavano problemi sociali di scrittori francesi, russi, ungheresi e poesie della letteratura italiana, erano i miei preferiti. Verso la fine del 1939 molti edifici di pubblica utilità erano stati ultimati: direzione, foresteria, ospedale, altre costruzioni stavano per essere ultimate, dopolavoro, scuole, chiesa con annessa l'abitazione del parroco. Strade asfaltate ed infrastrutture di collegamento, il paese cresceva in ordine sparso, a ridosso o adagiato sulle colline circostanti. 9
Il ponte di servizio sul fiume Devoli costruito dall’AIPA. Il dott. Rummo fu il primo medico chiamato a gestire l'ospedale, e gli fu dato il soprannome di “Chinino”, era il solo medicinale che prescriveva per tutte le malattie. Alcune suore italiane, con la superiora suor Pasqualina, erano coadiuvanti del medico. Arrivò anche un'altra insegnante per la scuola, dato che il numero degli alunni era cresciuto e la maestra Silverio non poteva più sobbarcarsi il lavoro di cinque classi. In seguito arrivò anche un altro parroco a sostituire don Criseri, d’origine piemontese. Don Mario Morandi, bergamasco, era venuto tra noi a Devoli come parroco ed insegnante. Uomo colto, umile, disponibile, ufficiale nella guerra del 1914-18, aveva combattuto e sofferto con i suoi soldati. Ritornato alla vita civile amareggiato e deluso, era diventato sacerdote esercitando l’apostolato nelle carceri e manicomi. Nella nostra parrocchia, coadiuvato dal suo concittadino sergente Panza, che suonava l'organo in chiesa, aveva riunito tutti i giovani e creato la corale.
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La “Corale” di Don Mario Morandi. Al di là di quelle che possono essere state o sono oggi le mie convinzioni religiose, mi reputo fortunato di averlo incontrato, di aver potuto dialogare e discutere con lui, profondo conoscitore dell'animo umano, mi chiamava benevolmente “ il cittadino che protesta”. Non ricordo bene se fu alla fine del 1940 o nella primavera del 1941 che il tenente medico Antonio Mandolini fu designato supplente del dott. Rummo, rientrato in Italia per un periodo di ferie. All’epoca il dott. Mandolini prestava servizio per i militari italiani stanziati nelle adiacenze dell’ospedale; gli piacque l’ambiente, l’organizzazione e l’ausilio delle suore. Espresse il desiderio di potere prestare la sua opera come medico civile: essendo in corso una pratica per avere un secondo medico, fu proposto il suo nome, che venne accettato dal Ministero dell’Interno ed ai primi di gennaio del 1942 fu assunto regolarmente nell'organico dell'ospedale. Era nato a Recanati nelle Marche, uomo molto religioso, d’animo buono, sempre disponibile verso i poveri, gli umili e gli Albanesi, bravo nella sua professione, in breve si accattivò la simpatia di tutti gli Italiani ed in seguito anche il rispetto dei Tedeschi.
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Il Dottor Antonio Mandolini. Di origini umili, suo padre faceva il calzolaio, era arrivato alla laurea in medicina con le borse di studio. Esercitava la sua professione con spirito di vera missione. Non amava la libera professione per non correre il rischio di scivolare nell’amore del danaro. Si accontentava del solo stipendio per poter vivere decorosamente. Diventato amico del parroco, don Morandi, nella canonica intratteneva periodicamente i giovani su argomenti di salute, medicina, prevenzione. Promosso dall’azienda su richiesta dei genitori, era iniziato in quel periodo un corso triennale professionale. Alcuni professori, laureati e tecnici dell’ AIPA, diedero la loro disponibilità al1'insegnamento serale dei tre corsi, per dare la possibilità ai giovani dipendenti apprendisti, che avevano dovuto interrompere gli studi alla quinta elementare, di continuare gli studi. Per me fu un’occasione da non perdere, anche se, considerando l'orario di lavoro, il sacrificio era grande. Le settimane e i mesi trascorrevano sempre lenti e monotoni, cadenzati solo dal suono della sirena che chiamava al lavoro. A chi timbrava il cartellino di presenza con cinque minuti di ritardo, veniva tolta mezz'ora. Nell'intervallo del pomeriggio, sulla strada di fronte all’ingresso, m’intrattenevo pochi minuti con gli amici a fumare una sigaretta. Un giorno mi sorprese mio padre; al calcio che mi diede nel sedere, seguì un rimprovero che non ho dimenticato! “Avere un vizio non è peccato, ma è peccato non poterlo mantenere”. Avevo iniziato a fumare di nascosto qualche sigaretta, ogni tanto qualcuna me la dava mamma Silverio in cambio di qualche piccola commissione.
9.- La Guerra Ne1 1940 crebbe notevolmente il flusso di militari italiani di tutte le armi in Albania. Grosse nubi nere si addensavano all'orizzonte. A quattro Km dal cantiere fu costruito un aeroporto militare. Il 10 giugno 1940 Mussolini, in un memorabile discorso, disse agli italiani “il dado é tratto” e si unì a Hitler in una guerra che nessun Italiano aveva voluto. L'Italia, già logorata dalle guerre coloniali in Etiopia, Eritrea, dagli aiuti inviati al gen. Franco in Spagna e poi dall'annessione dell'Albania,
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non aveva i mezzi, le risorse per sostenere un nuovo conflitto. Mancavano le materie prime, non esistevano giacimenti di petrolio sul territorio italiano. All’epoca, nel cantiere dell’AIPA dove io lavoravo, si produceva un decimo del fabbisogno nazionale Italiano di petrolio. Per le necessità locali veniva raffinato in loco un minimo quantitativo, il resto della produzione, con un oleodotto lungo 90 km, raggiungeva il porto di Valona. Da qui, con navi cisterna, il greggio veniva trasportato alle raffinerie di Bari.
1940 Campo di Devoli, la ruota centrale di pompamento al servizio di 22 pozzi. Con l'inizio della guerra, Devoli, con inserito il cantiere petrolifero, era diventato un punto d’importanza strategica. Tutto il personale civile alle dipendenze dell’ AGIP fu militarizzato. Questo nuovo status non causò, all’inizio, grossi cambiamenti repentini nella nostra vita, ma eravamo soggetti al codice militare ed era facile prevedere il pericolo incombente d’incursioni aeree nemiche. Per circa un anno ancora, la nostra vita trascorse abbastanza serena e tranquilla, la guerra cruenta con le sue alterne vicende la seguivamo attraverso i bollettini del giornale radio. I generi alimentari non mancavano, continuava ed era aumentato l’afflusso di militari di tutte le armi, segno evidente che qualcosa di grosso si stava preparando, ma in quel periodo non successe nulla di preoccupante che potesse turbare i sonni delle nostre famiglie.
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10. –I benefici (pochi) a favore degli Italiani all’estero Il regime fascista, se così si può chiamare, era una dittatura all'acqua di rose e non si può certo paragonare a quelle dei partiti comunisti. Alcune buone leggi a favore dei lavoratori, ancora oggi in vigore, sono state fatte in quel periodo. Gli Italiani che lavoravano all'estero erano rispettati e godevano di alcuni privilegi; i figli dei lavoratori emigrati, nel periodo estivo potevano trascorrere un breve periodo ospiti in patria in colonie montane e marine. Questa politica non era certo esente da demagogia e propaganda, ma dava comunque l'opportunità di rivedere l'Italia. Io ne approfittai per due anni consecutivi. Il primo anno, trascorsi un mese ad Albavilla, sulle montagne vicino a Como. Un campo organizzato in stile militare, dormire in tenda, rancio con la gavetta, alza bandiera ed ammaina bandiera, come saluto un colpo di cannone da 75. La squadra incaricata al turno di guardia aveva il privilegio di caricare e sparare. Uno dei lati interessanti di questi soggiorni era la possibilità di incontrare altri ragazzi provenienti da paesi diversi. Da non sottovalutare e dimenticare il clima, i boschi, le escursioni e le bevute di latte appena munto nella stalla. L'anno successivo, se non vado errato era il 1936, trascorsi un mese nella colonia marina di Cattolica, stessa organizzazione paramilitare. In base all'età, i ragazzi erano divisi in gruppi di balilla, avanguardisti, ecc. I pasti si consumavano assieme in un refettorio; nelle grandi costruzioni in muratura a forma di nave c'erano le camerate, dormitori e le docce. I bagni in mare e molta ginnastica occupavano gran parte della giornata o, in alternativa, camminate a visitare i dintorni. In una di queste gite fummo portati a visitare il castello di Gradara, dove si svolse la tragedia di Francesca da Rimini.
11.— In guerra contro la Grecia Il 28 ottobre 1940 l’esercito italiano varcò il confine greco; all’inizio sembrò facile, arrivarono fino a Gianina, ma poi dovettero retrocedere. I Greci, equipaggiati dagli Inglesi, occupavano posizioni dominanti sulle montagne ed opposero una forte resistenza; alcune zone strategiche furono perse e riprese diverse volte, con grande eroismo e sacrificio dei nostri soldati. A rendere la situazione più precaria, arrivò l’inverno: su tutto il fronte la neve era caduta abbondante, le nostre truppe indossavano ancora la divisa estiva, tantissimi i congelati. Sulla strada che da Berat saliva verso il fronte, era dislocata la nostra artiglieria pesante, cannoni da 149, e tutte le notti si udivano i loro boati; la distanza che ci separava dal fronte era di circa 30- 40 Km. Di giorno le sirene di allarme suonavano di frequente, ma per fortuna i nostri aerei da caccia G 50 facevano buona guardia e nei diversi duelli aerei i greci hanno sempre avuto la peggio. Al fronte si era creata una situazione di stallo che durò qualche mese. Mia madre era terrorizzata, gli allarmi erano frequenti, non era facile raggiungere i rifugi. Mio padre aveva scavato una grossa buca nello spiazzo sul retro della casa, coperta con grosse tavole, poteva servirci solo per ripararci dalle schegge, ma non per tranquillizzare mia madre, le cui crisi di nervi erano sempre più frequenti. Mio padre, resosi conto che la situazione peggiorava, approfittò della sua conoscenza della lingua tedesca per chiedere al comandante della compagnia addetta ai rifornimenti del vicino aeroporto militare, se poteva rimpatriare la famiglia con uno degli aerei da trasporto che tutti i giorni arrivavano dall'Italia, carichi di materiale per l'esercito. Essendo mio padre in quel periodo alle loro dipendenze, gli fu concessa l'autorizzazione.
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Quello de1 1940 fu un triste Natale, ma lo abbiamo trascorso con tutta la famiglia riunita. A pranzo avevamo invitato anche il “maestro” Dariol. Il giorno successivo, 26 dicembre, mia madre, mia sorella Irene ed Albina salirono su un aereo Junker, in due ore di volo arrivarono a Foggia, da lì proseguirono in treno per Gemona. Mia madre mi raccontò in seguito l'emozione di quel volo. Rimasi nuovamente solo con mio padre; c’incontravamo la sera quando ritornava dal lavoro, la cena non era certo quella che mi preparava la mamma! Nei giorni feriali a pranzo andavo a mangiare in mensa, il pomeriggio del sabato non era lavorativo e lo dedicavo alle pulizie di casa, lavare le lenzuola e biancheria personale. Purtroppo le lavatrici non erano ancora state inventate! Alla domenica andavo a fare quattro chiacchiere con la signora Maria e la figlia Ulda, due friulane che gestivano la sola locanda del paese. Al piano terra avevano bar e sala da pranzo, sopra le camere che in quel periodo erano tutte occupate dai piloti dello stormo da caccia.
. Alloggi del personale italiano AIPA a Devoli. Nel gennaio, o febbraio, de1 1941, (non ricordo bene), rientrando a casa la sera, trovai sul tavolo una bottiglia di vino bianco, due salamini e su un pezzo di giornale due parole scritte a matita: “saluti papà”. Nei giorni precedenti avevo insistito tanto per convincerlo a non accettare il lavoro che gli era stato offerto a Valona da un suo amico, ma non ci fu nulla da fare, aveva nel sangue l’istinto del nomade. In primavera venne Mussolini in visita al fronte, “venni, vidi, vinsi”, scrissero i fascisti, altri corressero ”venni, vidi, recisi il canapo”( tagliai la corda). Per porre fine a quella inutile guerra fu necessario l'intervento dell'esercito Tedesco che prese i Greci alle spalle. La campagna di Grecia si concluse dopo sei mesi, maggio - giugno del 1941. All'Italia era costata 14.000 morti e 38.000 feriti. Un piccolo cenno storico che non compare su tutti i libri di testo: le navi che riportavano in patria il resto dell'eroica divisione degli alpini, la Julia, furono silurate dagli Inglesi. Tra queste la Galilea, che riportava in Patria il Battaglione “Gemona”.
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12. – 1941- Ritorno a Gemona dopo 12 anni Finita la campagna di Grecia, la zona era ritornata relativamente tranquilla ed ai primi di luglio mia madre e le sorelle ritornarono in Albania e la famiglia fu di nuovo riunita. In undici anni trascorsi in questa terra avevo sempre sognato, sperato e desiderato di ritornare in Italia a conoscere la mia gente, i parenti e Gemona, il mio paese natale. Finalmente questo sogno fu realizzato nel settembre 1941. L’entusiasmo era grande, ma ero anche un po' preoccupato, era il primo viaggio che dovevo affrontare da solo, timori comprensibi1i, considerando che non avevo ancora compiuto 18 anni. Alla stazione di Gemona mi attendeva lo zio Giuseppe, fratello di mia madre; fui ospite nella loro casa di via Paludo per tutto il periodo della mia permanenza. Era arrivato il tempo della vendemmia! Una mattina, caricati cesti e recipienti sul carro trainato dall'asinello, partimmo per la campagna; oltre ai famigliari, erano venuti diversi conoscenti ad aiutare lo zio, in queste occasioni i contadini si scambiavano la cortesia. Fu in questa circostanza che ebbi l’opportunità di conoscere ed entrare in rapporti d’amicizia con diverse ragazze: non ero un campione di bellezza, ma mi accorsi di esercitare un certo fascino su di loro; fu così che persi la timidezza e mi trasformai in farfalla volando a cercare il fiore dove posarmi per assaporare il nettare. Era giunto alla fine il periodo di permanenza in Friuli, giornate felici, indimenticabili, trascorse intensamente con spensieratezza assaporando con gioia i frutti che la vita mi offriva, inconsciamente consapevole di quello che mi avrebbe riservato il futuro. Il pensiero di dover ritornare in Albania turbava la mia mente, ma purtroppo nessuno sa se la via che gli indica il destino è quella giusta, spesso non ci è data la possibilità di scelta
13.– Triste ritorno in Albania Uno dei primi giorni d’ottobre ripartii con molta tristezza nel cuore. Il viaggio in treno durò 26 ore; nel tratto Bari - Brindisi si erano sganciate le ultime due carrozze, ma arrivai comunque in tempo per imbarcarmi sulla motonave. In sintonia con il mio stato d'animo: “Il mare, con ritmo uguale mandava un lamento, quasi un singhiozzo, nella notte profonda. Addio, fantasmi di un’ora gioconda, sogni d'amore, dispersi dal vento, care speranze cadute nell'onda.”. Arrivato a casa, abbracciai i miei genitori e dissi loro: ” voglio ritornare in Italia!” Ma il destino lasciò dire impassibile. Ripresi il mio lavoro all’AIPA e la mia vita abituale, con tanta nostalgia nel cuore e nella mente, incancellabile il ricordo di Gemona. L'anno 1941 volgeva alla fine, il rombo del cannone non si udiva più, ma la guerra continuava sempre più cruenta altrove. I primi di Gennaio 1942, con un anno d’anticipo, mi arrivò la cartolina di precetto che mi chiamava al servizio militare di leva. Dovevo presentarmi al distretto di Berati. Mio padre mi accompagnò alla fermata della corriera; quando lo salutai, per la prima volta vidi scorrere lacrime sul suo volto. Era un uomo semplice e rude, capace di controllare i propri sentimenti, ma in quella circostanza non era riuscito a celare la commozione. La distanza da percorrere per arrivare al centro di reclutamento, era di soli 15 km. Appena arrivati ci fu distribuito subito il corredo, il necessario per il rancio, telo da montare sulla branda, vestiario, armi ecc. Al posto degli stivali ci davano le fasce, che richiedevano una certa pratica per arrotolarle alla gamba. Si dormiva in camerate lunghe 50 metri, con due file di letti a castello ai due lati, al 16
centro il corridoio con due porte alle estremità In quel periodo erano stati creati dei reparti di militari albanesi, che avrebbero dovuto contrastare la guerriglia dei partigiani, ma gli ufficiali che li comandavano per le ronde notturne chiamavano sempre i militari Italiani per la loro indubbia affidabilità. Il mio periodo di naia durò solo un mese. Essendo operaio qualificato, già militarizzato, su richiesta dell'azienda mi fu concesso il congedo temporaneo. Con immensa gioia dei miei genitori, ritornai a casa. Essere esonerato dal servizio militare in tempo di guerra era da considerare una grande fortuna, mi consentiva di riprendere la mia vita normale in famiglia. Purtroppo nessun diversivo che mi consentisse di interrompere il quotidiano ritmo ossessivo, nessuna sia pur breve evasione era possibile. Non c'erano ferrovie, ne mezzi propri, che ci consentissero di raggiungere cittadine come Valona, Durazzo o Tirana, anche se la distanza non superava i 100 km. Così ho vissuto l’anno 1942, ed anche il successivo, prigioniero in un paesino di poche migliaia di anime, nella speranza e nell'attesa di un domani migliore. La situazione sui vari fronti era in progressivo peggioramento.
14. – 8 Settembre 1943 Mussolini era stato estromesso dal Gran Consiglio, ed arrivò l'ora più buia della notte. L’8 settembre 1943 l’Italia firmò l’armistizio con gli Alleati, si udì il crepitare delle mitragliatrici, spari di gioia, i soldati speravano che la guerra fosse finita, dopo anni di naia attendevano con ansia di ritornare in patria dalle loro famiglie, ma non sapevano quale brutta sorte li attendeva. Il generale Badoglio, con un proclama ambiguo, li aveva lasciati allo sbaraglio. Non arrivavano più ordini, gli ufficiali non sapevano quali decisioni prendere. Alla cessazione delle ostilità i militari Italiani in Albania erano circa sessantamila, notevolmente superiori in numero alle truppe tedesche. Purtroppo, trascorso un breve periodo d’incertezza ed approfittando del disorientamento del nostro esercito, i Tedeschi disarmarono tutti i soldati italiani. La maggioranza di essi si rifiutò di collaborare e furono fatti prigionieri. Circa un migliaio raggiunsero i partigiani albanesi e combatterono con loro riuniti nella brigata Gramsci. Gli ufficiali di alcuni reparti che si erano ribellati furono fucilati. In pochi giorni, tutta l’Albania passò sotto il comando dei vari reparti tedeschi. Il nostro giacimento petrolifero era diventato per loro l’unica fonte di rifornimento carburanti: molti dei nostri prigionieri furono costretti a scavare grandi gallerie sotto le colline per installare nuove raffinerie al riparo dai bombardamenti. Gli scarti di raffinazione che non potevano essere utilizzati in loco, li scaricavano in un’enorme e profonda buca, scavata nella campagna antistante la mia casa. Fu creata una nuova società, (Albania Oil Company con direzione austriaca). Gruppi di soldati specializzati avevano il compito di controllare i vari reparti del cantiere. Tutti gli operai militarizzati prima dell'armistizio furono raggruppati dai Tedeschi in un reparto denominato “Quinta Compagnia”. Costruirono dei capannoni dormitorio e tutte le mattine ci portavano alle varie sedi di lavoro; alla sera il soldato addetto al reparto aveva il compito di scorta e controllo. Consumavo i pasti a casa, ma il fatto di dover trascorrere le notti in camerate promiscue mi creava disagio, i dormitori erano distanti da casa mia circa quattro km. Dopo non molto tempo si presentò l'occasione per risolvere questo problema: cercavano quattro volontari disposti, dopo un breve addestramento, a svolgere, oltre al normale lavoro, quello saltuario di pompiere. Accettai, pur sapendo che la scelta non era esente da rischi. Ci furono assegnati due locali in una villetta vicinissima a casa mia, in una stanza dormivo io, Enrico 17
Divisionali, Bruno Lucchini e Gambino, un veneziano. Nella camera attigua vi era un militare tedesco di origine polacca, pompiere di mestiere; per tutto il lungo periodo di convivenza con questo soldato, il rapporto non fu certo cordiale. Giudicando con il senno di poi, devo dire che, pur nella sua rigida fredda disciplina, si comportò da padre di famiglia, non mise mai in pratica le minacce di punizioni e rappresaglie, in qualche modo forse anche meritate dalla nostra incosciente arroganza e cattiveria. Una sola volta fummo chiamati di notte a spegnere un incendio nella vicina raffineria, causato da un travaso di carburante. Distese in fretta le manichette, fatti i collegamenti, aperti i rubinetti, ma non c’era una goccia d’acqua: non potemmo fare altro che goderci lo spettacolo.
15. – I bombardamenti degli Alleati Pippo il “Bombardiere”, con il suo aereo da ricognizione, veniva a farci visita quasi tutte le notti. Il rumore delle squadriglie di bombardieri in transito si udiva di frequente, le batterie contraeree tedesche da 88 mm entravano spesso in azione. Venne il giorno del battesimo del fuoco anche per noi. Il 12 novembre 1943, decine d’aerei inglesi da bombardamento, ad ondate successive, sganciarono centinaia di spezzoni. lo ed il mio maestro Dariol, a causa del rumore delle macchine in officina, non avevamo udito il segnale d'allarme; fuggimmo di corsa verso la portineria e ci buttammo a terra. Quando cessarono gli scoppi, si vedeva del fumo in direzione della casa di Dariol; uno spezzone gli aveva ucciso la moglie, una figlia e ferita la madre. Questa prima incursione causò diversi morti e tanti feriti.
Effetto dei primi bombardamenti a Devoli. A metà dicembre, un primo scaglione di famiglie italiane ottenne l'autorizzazione per rientrare in Italia. Il nuovo anno, il 1944, fu salutato dai militari tedeschi con raffiche di mitraglia e razzi di vari
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colori. Noi guardavamo il cielo sperando d'intravedere tra i bagliori un cenno di pace. I primi di marzo, un secondo gruppo di famiglie riuscì ad ottenere il permesso per rimpatriare. Continuarono con maggior frequenza le incursioni aeree sul vicino aeroporto; l’artiglieria contraerea era sempre più spesso obbligata ad intervenire; anche di notte, contro i partigiani che sparavano dalle colline circostanti. Qualche lettera, che arrivava saltuariamente dall’Italia, ci procurava un po’ di sollievo e contribuiva a mantenere accesa quella piccola fiammella che si chiama speranza.
16. – NO! I Tedeschi, il 12 marzo 1944, ordinarono a tutti gli Italiani che erano stati inquadrati nella Quinta Compagnia di presentarsi ad una adunata. Era una giornata nuvolosa, il vento sembrava volesse scatenare una tempesta, camminavamo lesti per la lunga via fiancheggiata da pioppi. Nessuno parlava! Ognuno meditava sulle tristi condizioni che ci aveva causato la guerra. Giunti sul piazzale dove si svolgeva il raduno, trovammo i nostri compagni schierati in quadrato in attesa del capitano. Sessanta soldati tedeschi, in assetto di guerra, occupavano il quarto lato del quadrato. Sui nostri visi era evidente l'inquietudine ed una malcelata preoccupazione. Mille pensieri turbinavano nelle nostre menti, i cuori avevano accelerato i battiti, il sangue affluiva ai cervelli con ritmo sempre crescente: una collera impotente invadeva noi tutti. Se un estraneo avesse, per un solo istante, fissato le nostre pupille piene di rabbia e di odio, tra questi due sentimenti avrebbe letto chiaramente una ferrea volontà, una sola unanime, irremovibile decisione: non giurare fedeltà allo straniero, che ci considerava schiavi facendoci lavorare per 10 Lek al giorno ed un unico e magro pasto, calpestando i più santi e sacri diritti dell'uomo, gettando centinaia di esseri umani in un indescrivibile abbattimento morale e fisico. Dopo vari minuti di attesa, su una grossa macchina apparve il capitano: uomo basso e tarchiato, sulla cinquantina, dai lineamenti ed espressione volgari. Con passo lento e cadenzato si diresse verso il centro del quadrato, dove per l’occasione era stato posto un tavolino coperto dalla bandiera con la croce uncinata. Dopo il comando di attenti dato dal comandante della compagnia, il capitano iniziò la lettura della formula del giuramento di fedeltà ai tedeschi: alla fine di questo le nostre labbra si mossero quel tanto per lasciare passare un secco e tonante monosillabo: No! che l’eco moltiplicò e disperse con il vento di quella grigia mattinata. Ad un ordine del capitano, i soldati tedeschi scaricarono le armi, che la stolta certezza dei prepotenti aveva caricate per salutare con una salve i nuovi volontari. I sacri diritti ed i sentimenti dell’uomo calpestati per tanto tempo avevano avuto ed avranno sempre la loro rivincita, anche al prezzo di maggiori sacrifici. In seguito i Tedeschi cercarono di convincerci singolarmente ad aderire alla loro richiesta, ma su 250, solo quattro accettarono e furono anche fortunati, rimpatriarono tre anni prima di noi. Non ci furono rappresaglie contro chi non aveva aderito.
17. – Continuano le incursioni dei bombardieri Da aprile a giugno 1944, si notò un notevole incremento di attività aerea. I quadrimotori da bombardamento alleati transitavano in continuazione, probabilmente diretti in Romania. I1 23 luglio arrivò anche per noi il terrore dal cielo, decine d'aerei a ondate successive sganciano centinaia di bombe da una tonnellata. Io e Camoni eravamo intenti a riparare un compressore nella fabbrica del ghiaccio; ci rifugiammo nella buca del grosso volano in ghisa.
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La bomba più vicina cadde a meno di cento metri e sollevò un ponte in cemento che univa le due sponde del torrente. Il corpo dell'Italiano che si era rifugiato sotto il ponte fu dissotterrato dal parroco dopo parecchi giorni. Un'altra bomba cadde nel bacino dove venivano scaricati i residui di petrolio non raffinato, incendiandoli. Una grossa zolla di terra di oltre un quintale, sollevata dall'ordigno, cadde sulla mia casa e sfondò il tetto. Per evitare furti, io e mio padre per diverse notti fummo costretti a dormire in queste condizioni.
I capannoni dell’AIPA parzialmente distrutti dai bombardamenti. Al mattino ci alzavamo con il volto da africani, intossicati dal fumo nero causato dall'incendio dei residui di petrolio. Con una portantina a mano, io e mio padre riuscimmo a portare in salvo in una rimessa le cose più importanti. Mia madre e le sorelle, tutte le mattine si allontanavano di tre o quattro km in aperta campagna e trascorrevano la giornata all'ombra d'un albero. Il corvo che mia sorella Albina aveva ammaestrato, le seguiva sempre volando. L’incursione aerea non aveva causato gravi danni ai punti nevralgici del cantiere: centrale elettrica, raffinerie e depositi di carburante, erano sfuggiti per pochi metri alle enormi buche, disseminate per la larghezza di un km. e la lunghezza di tre. Dalla ricognizione aerea, probabilmente si erano accorti che i bersagli principali non erano stati centrati! Tre giorni dopo, il 26 luglio 1944, riapparvero nel cielo a completare l'opera. Ero entrato in un rifugio buio, costruito a ferro di cavallo, con una lunga panca per sedersi, mentre le bombe cadevano a poca distanza; allungando le mani mi resi conto che tutti si erano accovacciati sotto i sedili. Un soldato tedesco, all'ingresso del rifugio, aveva il viso cadaverico e la divisa tutta sporca di bitume nero. Di fronte al pericolo, io sono sempre riuscito a mantenere la calma: la paura la conservavo per il giorno successivo.
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Effetto dei bombardamenti sugli impianti. Pochi giorni prima dei bombardamenti, un terzo gruppo di famiglie aveva avuto la fortuna di rimpatriare. I primi di settembre mi fu data una casa decente in cima alla collina, vicino al centro direzionale e foresteria. Dopo aver radunato le nostre povere masserizie, ci trasferimmo in questa casa che a me sembrava una reggia. Non avevo mai avuto la fortuna di abitare in una casa confortevole ed accogliente. Erano case bifamigliari molto belle e comode, in precedenza abitate da personale tecnico impiegatizio. Nella precedente abitazione, dove avevano abitato i Silverio, avevano aperto una specie d'osteria: un pomeriggio, a fine lavoro, mi ero fermato a bere un grappino con Wilcon, il soldato tedesco capo del mio reparto. All'improvviso degli spari! Era stato ucciso un suo commilitone. Estrasse la pistola e si precipitò fuori urlando: ( alles kaput ), tutti morti. Continuava ad urlare chiamandomi per nome, ma io ero fuggito a casa a nascondermi sotto il letto
18. –La ritirata dei Tedeschi e l’arrivo dei partigiani Negli ultimi due mesi si erano intensificate le sparatorie notturne e gli agguati diurni dei partigiani. Il cerchio degli Alleati si restringeva nei Balcani intorno ai Tedeschi; uno dopo l’altro si arrendevano i paesi satelliti, anche da noi si notavano preparativi di fuga. Un giorno l'ufficiale comandante di zona convocò l’assemblea di tutti i capi famiglia italiani: spiegò che le truppe tedesche, per non correre il rischio di essere accerchiate, avrebbero dovuto in breve ritirarsi. Noi Italiani, considerati degli occupatori e fascisti, saremmo rimasti alla merce delle brigate partigiane, senza che alcuno potesse proteggerci e difenderci. Valutata la situazione considerammo che per seguire le truppe in ritirata bisognava affrontare l'incognita di tanti rischi, attraversare tutta l'Albania e la Yugoslavia, senza avere la certezza che la meta fosse l’Italia. Devo dare atto che in questa circostanza i dirigenti austriaci dell’azienda si comportarono correttamente. 21
La maggioranza delle famiglie decisero di rimanere: nel dubbio, allora ci sembrò la soluzione migliore. Nessuno sapeva o poteva immaginare quale sarebbe stato il comportamento dei partigiani albanesi nei nostri confronti. L’autocolonna Tedesca partì la mattina de1 17 ottobre 1944; due soli soldati in motocicletta rimasero e fecero saltare tutti i macchinari, innescando le micce alle cariche esplosive collocate in precedenza. Senza incorrere in alcun rischio, un tempestivo intervento dei partigiani avrebbe evitato queste inutili distruzioni. Alle sei pomeridiane discesero dalle colline a centinaia, come cavallette, questi eroi della guerriglia. Furono accolti bene da tutta la popolazione, anche da parte nostra. Chiuso il periodo fascista, finita l'occupazione, cessate le ostilità nella nostra zona, speravamo che la situazione in generale potesse migliorare. Questi nuovi paladini della libertà, abbagliati da ideologie marxiste, staliniste, sovietiche, si preoccupavano solo di instaurare una nuova dittatura. Pochi di noi conoscevano il vero significato della parola comunismo; gli antifascisti come me pensavano che potessero portare riforme in favore della classe operaia, libertà, rispetto e migliori condizioni di vita per le classi meno abbienti. L'eguaglianza per loro consisteva nel portare il più ricco allo stesso livello della classe più povera. Ben presto il sogno svanì, mi venne in mente il titolo di una canzone, allora molto in voga: “illusione, dolce chimera sei tu”.
19. – Sopravvivere Chiusa questa parentesi, il lavoro riprese normalmente, temporaneamente alle dipendenze dei precedenti dirigenti dell'Agip. Riportammo in officina varie macchine utensili, che avevamo sottratto e nascosto ai Tedeschi con il pretesto di salvarle dai bombardamenti, e questo ci consentì di riparare e recuperare parecchie attrezzature. Non esisteva all'epoca manodopera locale specializzata, la ricostruzione dell'Albania fu opera, merito e sacrificio degli Italiani. In compenso, per sei mesi non ci fu data una lira di stipendio. Con vari pretesti iniziarono le perquisizioni nelle nostre case, che in seguito ad una dimostrazione di protesta furono poi sospese. Il primo dicembre 1944 fu liberata Scutari, l'ultima città del Nord ancora in mano ai Tedeschi: questa data coincise con la morte di un soldato italiano, disceso dai monti dove era stato schiavizzato e fatto oggetto di mercato da parte di alcuni contadini. La salma di questo milite ignoto fu messa nel corridoio d'ingresso della casa d'isolamento attigua all'ospedale. Poche ore dopo il morto fu spostato in una stanza attigua per lasciare posto alla cassa. Il giorno successivo partecipai al funerale in rappresentanza degli operai, il cimitero era vicino e la bara fu portata a spalle. Tre giorni dopo mori il fratello del mio amico Neri, che era stato ferito nel corso di un rastrellamento; la salma fu portata nello stesso luogo della precedente e fu così che si accorsero che tre giorni prima era stato fatto il funerale ad una cassa vuota. Dopo la ritirata delle truppe tedesche, l'ossessione dei bombardamenti era finita, ma preoccupava molto la situazione economica: a fine mese non venivano più pagati gli stipendi. Per garantirsi l’indispensabile giornaliero di viveri, bisognava ricorrere a quella che molti chiamano l'arte di arrangiarsi. I giorni festivi andavo ad aiutare mio padre a ristrutturare le case danneggiate dalle incursioni aeree. Erano case fatiscenti, costruite con sistemi primordiali, pareti con rami d’albero intrecciati e uniti col fango. Il compenso, pochi denari o pagamento in natura con prodotti ortofrutticoli.
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Mi è rimasta impressa una di queste casupole, abitata da due vecchi; il marito cieco con la barba incolta, la moglie, con un rasoio, senza sapone, cercava di raderlo, ma alla fine il viso di quel poveruomo si era trasformato in una maschera di sangue. Un'altra piccola fonte di guadagno mi veniva dalla vendita d’accendini che io costruivo in officina, eludendo la sorveglianza. Mi procuravo il duralluminio, materiale necessario, smontando le pale delle eliche d'aerei abbattuti. Era un articolo molto richiesto, non si trovavano fiammiferi in commercio. Un altro espediente mi consentì di scambiare con vari contadini fiaschi di gasolio, che utilizzavano per lampade ed altri usi, in cambio di polli e uova. Un fusto di carburante da 160 litri, che avevo sottratto ai Tedeschi, si rivelò un furto provvidenziale, poiché serviva ad integrare quel poco cibo che ci davano razionato. L'anno 1944 volgeva al termine ed in occasione delle festività di fine anno ci fu dato un acconto sul salario di 14 napoleoni, 10 dall'azienda AIPA e quattro dai nuovi dirigenti comunisti. Questo contribuì a farci trascorrere un Natale più sereno e la notte di S. Silvestro fu organizzato il primo ballo nei locali del dopolavoro.
20. – Prigionieri del regime comunista albanese Le prospettive per l'anno nuovo 1945 non si presentavano rosee. I1 14 gennaio fu indetta una riunione sindacale congiunta Albanesi ed Italiani per eleggere i rappresentanti sindacali locali: a rappresentare gli Italiani fu dato l'incarico a Lino Zanni, genovese, ed al sottoscritto per la buona conoscenza della lingua albanese. I sindacati in teoria avrebbero dovuto tutelare gli interessi dei lavoratori, ma in pratica, sotto i regimi comunisti, servivano solo a controllare i lavoratori e farli accettare passivamente le buone o cattive leggi imposte dal governo; all'interno della struttura non erano consentite correnti diverse da quelle dalla dottrina marxista. Ci fu l'intervento del neo eletto albanese, Lambi Machina, ex ciabattino. Il tenente Bona, assieme a due sergenti dell'esercito italiano passati nelle brigate partigiane, prese la parola in difesa del nuovo regime. I loro interventi non furono accolti con molta simpatia da parte nostra. Il 10 febbraio ci recammo a Tirana, passando da Elbasan, per partecipare al congresso ed eleggere i rappresentanti sindacali nazionali. Tra i vari discorsi, parlò anche Zanni, che illustrò la situazione e le speranze degli Italiani. Non ci facevamo molte illusioni, consapevoli che il nostro compito non era facile, il solo desiderio era quello di ottenere la libertà e ritornare in Italia. Il giorno 13 gennaio, chiusa la parentesi congresso, si riprese la strada di ritorno a casa. Tanti problemi ci attendevano e non s'intravedeva neppure uno spiraglio di luce per la loro soluzione. Non ricordo più di chi fu l'iniziativa di organizzare la gioventù antifascista italiana, molti erano i giovani sparsi in tutto il cantiere, alcuni non avevano la famiglia, e ci fu concessa una stanza nei locali del dopolavoro. L'inaugurazione avvenne il 4 marzo, con partecipazione dì alcune autorità, rinfresco e discorso di Bona. In questo circolo ci ritrovavamo di frequente a parlare, discutere e sognare il ritorno a casa. La carica di presidente fu data a Mario Truini ed io accettai quella di vice. Ma presto ci accorgemmo di essere sorvegliati, esprimersi con critiche nei confronti del regime era sconsigliabile, pericoloso. I processi alle intenzioni, ai pensieri, alle idee diverse, per loro costituivano reato. Ritengo che il tenente Bona e i due sergenti non fossero estranei a tanti fatti verificatisi in seguito. Erano iscritti al partito comunista albanese e ne seguivano le direttive. Iniziarono verso la metà di febbraio gli arresti di alcuni Italiani, sempre con futili motivi. Nessuno poteva, o voleva, fare nulla contro gli Albanesi. 23
Il direttore dell'azienda Tarasconi ed il vice Cati furono incarcerati a Berat. il 28 febbraio. Con il pretesto di trasferirli a Tirana per un regolare processo, furono caricati su un camion e dopo pochi chilometri fatti scendere e fucilati sulla strada con l’accusa di sabotaggio (incendio di deposito di carburante). Mostruoso pretesto creato di proposito! La verità è che si era ripresentato il problema della buca scavata dai Tedeschi per scaricare i residui di petrolio; per eliminarli, avevano pensato di travasarlo in una buca più piccola, da scavare poco distante, e bruciarlo in minime quantità. Le autorità albanesi crearono di proposito questa messa in scena per eliminarli: volevano gestire il personale Italiano senza che i precedenti dirigenti dell'azienda AIPA potessero interferire nelle loro decisioni. Riprese la caccia agli Italiani, delazioni e denunce per molti costituivano un trampolino di lancio nel partito, o per raggiungere posizioni migliori nell’ambito professionale e lavorativo. Seguirono gli arresti di Bellocchio, Zanni, Profili, ed altri ancora, di cui non ricordo i nomi.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Una lapide all’interno della chiesa di Metanopoli, dedicata a Santa Barbara, ricorda il direttore dell’azienda Andrea Tarasconi, Mario Cati e Giorgio Saggiotti, torturati e poi fucilati dai comunisti albanesi
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21.– Gioventù antifascista ( GAI Gioventù Antifascista Italiana) L'organizzazione della gioventù antifascista iniziava a dare i suoi frutti. All'interno di essa gli iscritti potevano esprimere la loro creatività. Alcuni si dedicarono al teatro; la prima rappresentazione fu data il primo aprile con una commedia di De Filippo, “Il povero Camillo”. Molti Italiani parteciparono a questa prima rappresentazione, data nella sala teatro del dopolavoro: io interpretavo la parte di Camillo; marito più volte tradito. Devo dire che non mi aspettavo tanti applausi. A questa recita ne seguì un'altra in tre atti; il soggetto, scritto da Valter Azzali, narrava alcuni episodi della recente occupazione; io interpretavo la parte di un ufficiale tedesco. Il 15 maggio uscì la prima gazzetta murale dei giovani antifascisti ed un altro giornalino scritto dagli anziani iscritti al circolo “Garibaldi”: così era stato rinominato il dopolavoro. Sul giornale delle vecchie glorie scriveva Giovanni Fiorì, da Viareggio, attrezzista, figura caratteristica di repubblicano, con lunghe basette alla Mazzini. Tutti i suoi articoli cominciavano con: “Esco dal mio romitaggio e mi avvio alla diuturna fatica, ma di botto mi fermo, di fronte alla bellezza della natura”. Ci furono schermaglie scritte su diversi argomenti, tra le vecchie glorie e le giovani speranze, ma bisognava essere molto cauti e non entrare in polemiche che potessero urtare la suscettibilità degli Albanesi in politica, o su problemi locali. La libertà di stampa per loro consisteva nel continuo omaggio al regime comunista. Non erano ammessi pareri discordi. Malgrado tutto, la vita continuava anche se costretti a viverla con sofferenze morali e paura, ma la fiammella della speranza era sempre accesa!
22. – Rimpatrio di militari Italiani A Ferruccio Parri del Partito d'Azione, fu dato l'incarico di formare il primo governo italiano dopo la fine della seconda guerra mondiale. Una delle prime iniziative dell’esecutivo fu il sollecito interessamento per accelerare il rimpatrio di tutti i militari rimasti in vari paesi dopo l'armistizio dell’8 settembre 1943. I soldati rimasti in Albania erano circa 25.000; la maggioranza lavorava sulle strade, malnutriti, vivendo in condizioni disumane. AI deputato Palermo, del partito comunista, fu dato l'incarico di trattare con il governo albanese. Fu concessa l'autorizzazione al rimpatrio di quasi tutti gli ex militari considerati prigionieri, ma le condizioni dettate dalle autorità locali furono pesanti. Chiesero ed ottennero di trattenere tutto il personale civile specializzato nei vari rami dell'industria, ex dipendenti di varie aziende che operavano in loco, da loro ritenuti indispensabili alla ricostruzione del paese. Per giustificare in qualche modo il loro arbitrio, ci assicurarono che avrebbero mandato in breve tempo dall'Italia altre maestranze a darci il cambio, ma questa promessa si rivelò in seguito una pietosa menzogna. Ai primi di giugno iniziarono le partenze dei militari, il 29 partì anche un gruppo di civili che ricoprivano mansioni, nell'ambito lavorativo, che potevano essere svolte anche dal personale albanese. Il 2 Agosto, si svolse nella sede della GAI un facsimile di processo a carico di Giuseppe Monaldi, voluto dal ten. Bona per costringere il Monaldi ad un'autocritica, poiché era considerato elemento sovversivo, sorvegliato dalla polizia. Una farsa, una messa in scena! Un processo alle intenzioni. Monadi non usava certo mezzi termini nelle sue critiche e giudizi. Il suo carattere gli aveva procurato antipatie anche nell'ambito impiegatizio del suo ambiente di lavoro, dove Bona aveva fatto qualche adepto. Matteo, Andenna e Dosi vivevano assieme nella casa dei coniugi Del Core. Furono i primi ad entrare nella cellula comunista. Io non accettai; il clima di terrore instaurato da 25
questa dottrina era in antitesi con i miei principi e ideali e con gli interessi dei lavoratori. Vi partecipò Truini, per mettersi al riparo, non per convinzione. Dopo diversi mesi, in un casuale incontro avuto a Tirana, il mio ex compagno di scuola Mario Merola mi rivelò che era lui che teneva i rapporti tra i comunisti albanesi e le cellule italiane e aveva avuto frequenti contatti con Matteo, Andenna e Dosi. Così fu chiaro il motivo dei loro frequenti viaggi nella capitale. Il 28 agosto il ten. Bona pronunciò un discorso di commiato a tutti gli Italiani; il giorno successivo rimpatriò assieme ai partigiani del battaglione Gramsci, che aveva combattuto con la prima brigata albanese e liberato Tirana dall'occupazione tedesca. A Brindisi consegnarono le armi alle autorità di frontiera. I1 20 settembre Valter Azzali, inquisito dalla polizia, fu rimpatriato assieme ad altri connazionali.. Il gennaio1946 iniziò con l'arrivo da Tirana del segretario generale dei sindacati. Ci fu una riunione ed approfittammo dell'occasione per chiedere di poter discutere personalmente con il ministro dell'industria i problemi che interessavano il personale italiano, non risolvibili a livello sindacale. L'incontro fu fissato per il giorno 16 gennaio. Io e Francesco Teodorani, che aveva sostituito Zanni a rappresentare gli Italiani, ci recammo nella capitale dal ministro Cristo Femelco, ex operaio falegname. Il colloquio fu cordiale e Femelco promise il suo interessamento alla nostra richiesta di sollecitare il rimpatrio degli Italiani cagionevoli di salute. Per tutti gli altri la risposta non fu molto incoraggiante: il rimpatrio era condizionato alla necessità di trovare elementi qualificati idonei a sostituirci. Questa era sempre la loro risposta alle nostre richieste di rimpatrio. Ma in realtà lo sfruttamento continuava, l'Italiano che poteva essere sostituito da un operaio locale era trasferito altrove in altri cantieri. Uno dei primi a lasciare Devoli il 3 marzo 1946, fu Fernando Parmigiani, costretto a partire per Rubik a lavorare come tornitore in una miniera di rame, altri seguirono in varie riprese la stessa sorte. Il 23 febbraio, anniversario della fondazione della GAI., festeggiammo con una festa danzante ed una recita. Fu l'ultima occasione che ci consentì di ritrovarci uniti. Il 28 marzo fummo convocati dalle autorità politiche, che imposero di sciogliere l'organizzazione e di entrare a far parte dei giovani comunisti albanesi. Nessuno accettò! Consegnammo la chiave del locale ed uscimmo in silenzio, senza alcun commento: in segno di protesta ci lasciammo crescere la barba. Non si poteva fare di più! Ci rimaneva la nostalgia ed il ricordo di tante belle serate trascorse in compagnia con l'amico Attilio Zuliani, che ci divertiva facendo, in lingua albanese, la parodia ai discorsi dei politici locali, mentre Antonio Spagnoletto faceva la guardia nel corridoio; essendo l'unico astemio aveva il compito di somministrare abbondanti dosi di liquori agli eventuali intrusi. Ci proibirono di partecipare alle feste danzanti organizzate da loro. Una sera riuscimmo ad entrare nel dopolavoro da una porta sul retro e facemmo irruzione in sala saltando dal palcoscenico. I quarantuno connazionali che ebbero il permesso di rimpatriare in seguito al nostro interessamento al ministero, lasciarono Devoli il 3 aprile, ma furono trattenuti per 25 giorni a Durazzo, in attesa d'imbarco. I primi di maggio arrivò un nuovo commissario a sostituire il direttore Koco, destinato ad altro incarico. Prima di partire, passò a salutare tutti gli Italiani. Il nuovo arrivato, più politico che tecnico, non lasciava presagire nulla di buono. In giugno venne in visita al cantiere il ministro Femelco, con il quale ebbi un ultimo colloquio. Fu alla fine di questo mese che mi fui imposto di traslocare in un'altra casa; le famiglie Boselli e Monari i nuovi vicini. I primi di luglio fu inoltrato un rapporto a carico mio e di Truini. Ho sempre 26
avuto il sospetto che provenisse da casa Del Core. Così ebbe termine la mia carica di rappresentante sindacale.
23. – Trasferimenti dei lavoratori italiani. Il 24 luglio entrò in vigore una legge che regolava il nuovo corso della moneta, per ogni 5 Lek vecchi, ne davano uno nuovo. Questo era il sistema comunista per combattere l'inflazione. Il 27 luglio chiesi di poter parlare con il nuovo direttore, mio padre aveva ricevuto l'ordine di trasferimento a Peshcopia. All'epoca aveva 61 anni; chiesi di revocare l'ordine, ma la sua risposta fu no! Mi lasciai trasportare dal mio carattere impulsivo e commisi una grossa imprudenza, con conseguenze imprevedibili replicai, in lingua albanese, che si comportavano come mercanti di schiavi. Il 3 ottobre mio padre e Primo Pecorari dovettero raggiungere la nuova destinazione, ai confini con la Yugoslavia, dove si stava costruendo una strada che avrebbe dovuto collegare la cittadina di Kukes a Peshcopia. Era chiamata la strada della gioventù: la maggioranza dei lavoratori erano giovani volontari che lavoravano senza percepire stipendio, al solo scopo di evitare rappresaglie da parte del regime, sorvegliati, sospettati, o parenti di persone inquisite. Mio padre, muratore, e Primo Pecorari, carpentiere, erano addetti alla costruzione dei ponti. Le condizioni disumane, la zona montagnosa, l'inverno freddo: dormivano in tenda ed il rancio non era abbondante, cucinato da cuochi improvvisati.. Il giorno successivo fui chiamato dal capo ufficio personale, Dimitri Lashka, ex fattorino, che mi diede la lettera di trasferimento a Rubik. Tre giorni di tempo per lasciare libera la casa ed abbandonare il paese di Devoli, dove avevo trascorso dodici anni della mia vita. Mi fu concesso di lasciare temporaneamente mia madre ed Albina, mia sorella, in casa di mio cognato Camoni. Dopo la discussione avuta con il direttore, non avevano tardato molto i provvedimenti a mio carico. La mattina dell'8 ottobre, caricato su un camion il minimo indispensabile di masserizie, partivo verso l'ignoto. Nel vocabolario comunista non esiste la parola umanità! Arrivai a destinazione nel tardo pomeriggio; l'amico Fernando Parmigiani mi aiutò a scaricare e depositare nell'infermeria tutto l'occorrente per la casa, in attesa che mi fosse assegnato un locale. Rubik non si poteva considerare un vero e proprio paese, poche case, una valle stretta tra due montagne, un ponte sul fiume Drin univa le opposte sponde. La strada costeggiava la riva sinistra, proseguendo a nord verso Scutari. Su questo versante, in salita, erano sparse tutte le case e le infrastrutture che facevano parte della miniera. La distanza dall'officina, dove io lavoravo alla mensa, era di 157 gradini da salire e scendere più volte al giorno. Nelle gallerie del sottosuolo lavoravano decine di operai all'estrazione della calcopirite, minerale che veniva fuso nell'altoforno e trasformato in rame. I lingotti ricavati dalla fusione venivano lavorati in Italia. L'attività estrattiva, sospesa dopo l'armistizio dell'otto settembre 43, fu ripresa dagli Albanesi con l'ausilio del personale italiano rimasto in loco. All'ufficio personale incontrai Andrea, un impiegato albanese che aveva lavorato per diversi anni nelle segherie con Silverio. Conosciuto a Devoli nella loro casa, non lo vedevo da anni. Fu lui a ricordarsi di me e mi sussurrò in friulano di stare in guardia, perchè considerato soggetto da sorvegliare dal commissario politico. Costui pochi mesi prima aveva istruito un processo sommario a carico di un tecnico albanese accusato di sabotaggio. Condannato a morte, fu impiccato e lasciato per tre giorni, appeso alla forca, sulla strada. La corda fu recisa in presenza di tutto il personale convocato per la macabra circostanza. La popolazione del Nord Albania era in prevalenza di religione cattolica; gli ultimi sacerdoti rimasti furono eliminati con l'accusa di fornire armi a presunti ribelli. Accuse false e prefabbricate.
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Pur non essendo ancora completati tutti i lavori, il 24 ottobre era stata inaugurata la strada della gioventù, il primo novembre arrivò mio padre proveniente da Kukes. Rubik era sulla strada che doveva percorrere per andare a Tirana. Si fermò con me tre giorni, l'otto novembre proseguì il viaggio per la capitale, dove lo raggiunse un telegramma con l'ordine di trasferimento a Kraba; 38 Km. da Tirana, sulla strada per Elbasan. In questo luogo era stata riattivata una miniera di carbone fossile, e si era resa necessaria la costruzione di una teleferica per il trasporto del minerale a valle in prossimità della strada. Per mio padre la situazione da un punto di vista logistico era peggiorata, ed inoltre era solo; Pecorari, con il quale aveva lavorato in coppia a Peshcopia, era stato trasferito altrove. Anche la mia permanenza nella miniera di Rubik volgeva al termine, i lavori più urgenti si erano conclusi, il forno aveva ripreso a funzionare regolarmente ed ero in attesa che mi comunicassero la nuova destinazione. Speravo di poter ritornare a Devoli, dove mia madre e mia sorella erano in attesa, ma purtroppo i disagi erano appena iniziati. Lasciai Rubik il 14 dicembre, dovevo presentarmi a Tirana alla direzione delle miniere, ma ottenni alcuni giorni di ferie per recarmi a salutare i miei famigliari. Fui costretto ad una sosta di due giorni al crocevia di Ura Zez (ponte nero) per trovare un luogo dove depositare tutte le masserizie che mi ero portato appresso. Ripresi il viaggio per Devoli dove trascorsi due giorni con i miei famigliari. Ripartii i118, pernottai a Durazzo ed arrivai a Tirana il 20 dicembre. Il giorno successivo mi recai al ministero dall'ing. Zeca, che mi comunicò che non dipendevo più dal ministero delle miniere, ero stato trasferito all'officina di via Durazzo dove veniva eseguita la manutenzione delle centrali elettriche. Trascorsi il Natale con mio padre ed i1 26, giorno di S. Stefano, iniziai a lavorare nella nuova sede. L'ultimo giorno di quest'anno infelice, ed il primo giorno del 1947, 1i trascorsi a meditare, da solo, nella camera dell'albergo Nazionale che aveva in precedenza occupato mio padre. Si era chiuso un anno che mi aveva dato seri guai e sofferenze, ed era d'obbligo chiedersi quali sarebbero state le vicissitudini e i disagi che avrei dovuto superare nel prossimo futuro! Interrogativi ai quali non era facile dare una risposta.
24. - Riunire la famiglia Trovare il modo per riunire di nuovo la famiglia era il problema che più mi assillava. Con mio padre, venuto a Tirana da Kraba, ci accordammo con Sotir, padrone dell'albergo, che ci diede in affitto una stanza al piano terra con ingresso privato in un cortile che dava sulla strada. Il 25 gennaio 1947 ritornò mio padre, che proseguì il viaggio per recarsi a Devoli a prendere mia madre. Pensavamo di utilizzare temporaneamente la camera d'albergo in attesa di trovare una sistemazione migliore. Alla fine di gennaio mi recai a Ura Zez a prendere quello che era rimasto delle masserizie che avevo lasciato. L'undici febbraio mio padre e mia madre ritornarono da Devoli,. Ci mettemmo subito al lavoro per sistemare quattro letti, un tavolino, la cucina economica, che serviva anche a riscaldare la camera, quattro sedie e due mobiletti. Gli abiti appesi agli attaccapanni, gli indumenti nelle valige, sotto i letti. I servizi, nel corridoio, senza accessori, in comune con la famiglia del proprietario. Questa era la situazione, alla quale purtroppo abbiamo dovuto adattarci per oltre due anni, fino al giorno del rimpatrio. Di Devoli, avevo un grande rimpianto: la casa! Nel periodo che aveva preceduto l'arrivo di mia madre, ed anche in seguito, avevo bussato a molte porte per ottenere un'abitazione decente, senza ottenere alcun risultato, per cui dovemmo rassegnarci ad una sola fatiscente camera d'albergo. In compenso parte della famiglia si era di nuovo riunita. Mio padre veniva a trovarci con una certa frequenza, anche se doveva percorrere 38 Km. a piedi, per mancanza di mezzi di comunicazione. 28
Abitare in città, offriva qualche vantaggio in più rispetto alla vita condotta in piccoli agglomerati urbani, dove il paese si fondeva con il cantiere. Finita la giornata lavorativa, avevo l'impressione di respirare più liberamente, non sentivo la cappa oppressiva sul mio capo; percorrevo le strade e incontravo tanta gente che non conoscevo ed ero certo di non essere riconosciuto, avevo la sensazione d'essere più libero, ma forse era soltanto un’illusione. La mia stanza era diventata un punto di riferimento per tutti gli amici di Devoli e di Rubik che occasionalmente venivano a Tirana. C’incontravamo, in un locale, sul boulevard, chiamato “la grotta”, per scambiarci notizie, ricordi, speranze. Alla sera, ma soprattutto la domenica, questo locale diventava luogo di ritrovo di tutti gli Italiani. Il padrone avvertiva, con una parola convenzionale, quando entrava qualche persona sospetta e questo ci consentiva di interrompere discorsi compromettenti. La situazione alimentare era critica; i generi di prima necessità erano razionati, mezzo litro d'olio al mese per quattro persone, idem zucchero, pasta, carne ecc. La coda davanti ai negozi iniziava alle quattro del mattino, alle otto mia sorella dava il cambio alla mamma. Il pane era fatto con farina di mais, non setacciata, cotta con acqua in forme rotonde e piatte. (babanaz). Ho visto più volte mia madre privarsi della minestra per darla a me. I dirigenti comunisti ed i tecnici yugoslavi e sovietici, avevano negozi esclusivi solo per loro, provvisti di tutto e il popolo stringeva la cinghia. I Russi esportavano tutto ciò che produceva l'economia albanese in cambio di armi. La popolazione allora era di circa un milione di persone: 100.000 sotto le armi ed altrettanti nelle varie prigioni.
25. – Torture, Processi, Esecuzioni Il 10 settembre 1947 iniziò il processo a carico di 25 imputati. Questa tragica farsa non si svolgeva in un'aula di tribunale, ma in una sala del cinema Nazionale, attigua all'albergo dove abitavo. Durante le udienze la zona era sorvegliata dalla polizia; altoparlanti trasmettevano all'esterno le varie fasi del dibattito. Alle torture subite in carcere nessuno riusciva a resistere. Ognuno doveva recitare in questa tragedia la parte che gli era stata estorta. Tutti si dichiararono rei confessi; la sentenza venne pronunciata dai fanatici presenti in sala, che ad ogni imputato chiamato a deporre urlavano: “A morte! A morte! “ Ho udito le ultime parole pronunciate dal ing. Paolo Saggiotti. “mi affido alla vostra giustizia”. Nella sua voce, mi è sembrato di cogliere una punta d'ironia. Era una persona colta, sapeva che la giustizia non poteva coesistere con la dottrina comunista. Il 22 ottobre del 1947 fu eseguita la sentenza, sedici condanne a morte su 25 imputati. Tre condanne all'impiccagione, 13 alla fucilazione; tra questi anche Saggiotti. A Monaldi e Andenna fu inflitta una pena di 15 anni. Non sapevo esattamente dove fossero state erette le forche per i tre condannati al capestro; quel giorno, casualmente, transitando in Piazza della Legna con la nipotina Nina, mi si presentò all'improvviso una scena agghiacciante! Tre corpi che penzolavano, un gruppo di bambini li afferravano dai piedi, li giravano, la corda si attorcigliava e poi lasciavano che si sciogliesse per vedere i poveretti girare su se stessi. Fuggii, trascinando la bimba per mano, in un vicolo adiacente. Un giorno, con mia sorella Albina, andai a trovare Monaldi nel carcere di via Scutari; mi fu concesso di vederlo per pochi minuti e scambiare poche parole. Il parlatorio consisteva in due file di sbarre in ferro, distanti tre metri, che dividevano i carcerati dai visitatori. Lasciai un pacchetto con del cibo, ma gli fu sottratto dalle guardie.
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Il 28 ottobre del 1947 l'Albania aveva depositato a Parigi la ratifica del trattato di pace con l'Italia; ma la nostra situazione rimase immutata. Ero già stato trasferito da Devoli, quando il dott. Mandolini, suor Pasquina e padre Scalvini furono arrestati, non mi è pertanto possibile precisare la data dell'arresto. Rinchiusi in carceri diverse, per molto tempo di loro non si seppe più nulla, ma seguito mi fu riferito che Mandolini era stato trasferito a Tirana. Non fu cosa facile rintracciarlo! La capitale allora era divisa in 14 quartieri, con altrettanti distretti di polizia, provvisti di celle di detenzione, dove i carcerati subivano i primi interrogatori, ed in seguito trasferiti in una delle due carceri principali. Nella birreria che avevo frequentato con l'amico Battani, mi era stato presentato un giovane ufficiale albanese d’Argirocastro, Lo incontravo saltuariamente e scambiavo con lui, in Albanese, quattro parole e convenevoli. C’era solo una reciproca simpatia, ma mi azzardai, intimorito, a chiedergli se poteva aiutarmi nella ricerca. Lo rividi dopo alcuni giorni e mi fornì alcune indicazioni sulle sezioni di polizia dove avrei avuto più probabilità di trovarlo. Era una domenica, il 14 novembre 1947, e dopo vari tentativi in diverse sedi di polizia riuscii a trovare il carcere dove era rinchiuso il dott. Mandolini. Mi presentai alla guardia chiedendo di poterlo vedere; dovetti rispondere a parecchie domande e spiegare i motivi della mia richiesta. Alla fine mi risposero che, trovandosi in cella d'isolamento, non erano consentiti i colloqui. Lasciai un pacchetto con delle vivande, lo aprirono per controllarlo e mi assicurarono che gli sarebbe stato consegnato. Da allora, fino alla fine dell'anno successivo, non mi fu più possibile avere sue notizie. L'anno che stava per concludersi era stato difficile e movimentato. All'orizzonte non scorgevo neppure uno spiraglio di luce. Mio padre era stato di nuovo trasferito, prima a Corcia, poi ad Elbasan. Aveva già compiuto 63 anni e mi chiedo ora come abbia potuto superare tanti disagi. Il lavoro in officina era pesante: oltre all'orario normale, obbligavano a fare un'ora in più di straordinario non retribuito. lo fui l'unico degli operai italiani a non ubbidire a questo sopruso. Non mi permetto di giudicare gli altri: si viveva in un clima di terrore, ed assumere certe posizioni poteva costare caro. Fui accusato di sabotaggio per un guasto verificatosi alla macchina su cui lavoravo, la conoscenza della loro lingua mi aiutò a convincerli della mia buona fede. Vicino al nostro capannone ne fu costruito un altro, adibito a fonderia di ghisa, dove lavoravano tecnici ed operai venuti dalla Yugoslavia. Tito, in base ad un trattato di aiuto reciproco, ne aveva mandati diversi a lavorare in Albania e percepivano stipendi quattro volte superiori ai nostri, anche se non erano all'altezza degli Italiani. 1o, per arrotondare il magro stipendio che percepivo, la sera riparavo delle macchine in varie tipografie. In quel periodo ho avuto la percezione che qualcosa stava cambiando.
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26. – Rimpatrio di connazionali. Si accende la speranza Verso la metà di gennaio del 1948, diversi connazionali furono avvertiti di tenersi pronti alla partenza. Dopo un'attesa a Durazzo di parecchi giorni, il primo scaglione di 205 Italiani s'imbarcò l'11 Febbraio, seguito da un altro gruppo il giorno 24. Venni a conoscenza in seguito che, tre giorni prima della partenza, li chiudevano in un capannone dove controllavano le feci per recuperare eventuali oggetti d'oro ingoiati in precedenza. Passavano la dogana in costume adamitico, ed i bagagli subivano un minuzioso controllo e venivano requisiti vari oggetti. In giugno l'officina dove io lavoravo fu trasferita in un nuovo capannone, attrezzato con macchinari avuti dalla Germania come risarcimento danni di guerra. A questa nuova fabbrica fu dato il nome di “Uzina Enver Hoxa” in omaggio al Presidente. La distanza da percorrere a piedi per andare al lavoro era raddoppiata. Allora non c’erano servizi di tram, bus e non si trovavano neppure biciclette. A pranzo dovevo accontentarmi della brodaglia che passava la mensa. La domenica unico giorno di riposo. Non ricordo la data esatta, ma se non vado errato fu verso la metà dell'anno 1948 che la Yugoslavia fu espulsa dall'unione dei paesi comunisti.(Cominform). Il maresciallo Tito, pur accettando e praticando la dottrina comunista, rivendicava un ruolo d'indipendenza nei rapporti con i paesi dell'Occidente. Questo comportamento gli causò la scomunica e conseguentemente la rottura dei rapporti diplomatici con l' Albania, rimasta fedele a Mosca. Tutti i cittadini yugoslavi furono espulsi dall'Albania. Questi fatti; ed altri ancora, determinarono alcuni piccoli cambiamenti di comportamento del governo albanese nei rapporti con gli Italiani. Per prima cosa ci fu riconosciuto un trattamento economico pari a quello percepito dagli ex Yugoslavi e dagli altri lavoratori stranieri; questa maggiore disponibilità, di danaro ci consentì di frequentare l'albergo Daitj, riservato solo agli stranieri. Il Daiti, ed il Volga di Durazzo appartenevano alla “Società dei Grandi Alberghi”, costruiti dagli Italiani prima della guerra. Un'oasi di benessere in un mare di miseria. Se mi fosse concesso fare un processo alle intenzioni, ritengo di non sbagliare affermando che questo mutamento di trattamento verso gli Italiani era in qualche modo frutto di calcolo. Il nostro status di semi prigionia non poteva durare all'infinito, ed al momento tanto atteso del rimpatrio qualcuno poteva essere invogliato a rimanere. Nei mesi che seguirono, la situazione in generale poteva considerarsi leggermente migliorata. Due volte la settimana ci ritrovavamo nella sala da ballo del Daitj, un'ottima orchestra rallegrava le nostre serate. A richiesta, suonava rapsodie ed altri motivi di musica classica; la quadriglia chiudeva alle ore piccole la festa. In questa sala ho imparato a muovere i miei primi passi di danza. Ho visto nascere nuovi amori e la fine d’alcuni matrimoni: quando il periodo di lontananza dalla famiglia supera certi limiti, non si può vivere solo di speranza Non era consentito alle donne avere rapporti illegali, potevano essere accusate di prostituzione e condannate al lavoro coatto di rieducazione. Le vedevo spesso, inquadrate, che si recavano al lavoro, scortate dalla polizia; ma queste povere meretrici erano state sostituite da molte madri di famiglia che avevano il marito in prigione ed erano costrette a farlo per sopravvivere. Gli incauti, contagiati da malattie veneree, per avere la possibilità di curarsi erano costretti a denunciare la donna che gli aveva trasmesso il male. Questi severi provvedimenti, imposti dal regime comunista, non hanno ottenuto il desiderato effetto d’eliminare il mestiere più vecchio del mondo. Nell'unico giorno festivo settimanale la gente non aveva molte alternative su come trascorre il tempo; al mattino riposo e nelle ore pomeridiane passeggiare, immergersi nella folla sul boulevard 31
a due corsie di marcia che divideva la città, attraversando il grande snodo di piazza Scanderbeg e raggiungere i ministeri al capolinea. La chiesa ortodossa si trovava in prossimità dello svincolo centrale; di fronte, sul Iato opposto, il vecchio albergo ristorante London. Qui venivo spesso a degustare il caffè alla turca, bollito in piccoli recipienti di latta su un braciere ricavato nel muro dietro il bancone. I pochi sfaccendati benestanti rimasti non frequentavano molto i locali pubblici, sovente la polizia li prelevava e li obbligava al lavoro coatto di manutenzione stradale. L’anno 1948 trascorse abbastanza velocemente, gli intrattenimenti settimanali al Daitj, in compagnia di tanti amici, contribuivano ad alleviare la tensione e creare un velo d'oblio sui problemi che ci assillavano quotidianamente. lo e mia sorella Albina eravamo frequentatori assidui delle sale da ballo dell'albergo. Dopo la rivalutazione degli stipendi, le possibilità economiche non mancavano, ma non esistevano negozi e merci da acquistare per spendere il danaro in modo diverso.
28.- Il dottor Mandolini Non so più chi fu ad informarmi della sorte toccata al dott. Mandolini! Condannato a morte, ci fu un intervento del governo italiano e la pena gli fu commutata a centoun anni, successivamente ridotta a venti anni in seguito all'interessamento dell'On. Di Vittorio, allora segretario della CGIL. Quando mi recai la prima volta a trovarlo, nel tredicesimo padiglione malattie infettive dell'ospedale civile di Tirana, dove, pur di uscire dal carcere, aveva accettato di esercitare la sua professione di medico. Mi venne incontro, ma non 1o riconobbi, vestiva un paio di pantaloni e giacca sbrindellati, le scarpe di colore diverso, sul viso si notava tanta sofferenza. Ritornai alcuni giorni dopo a portargli degli indumenti che mia madre aveva recuperato dal misero guardaroba di mio padre. Non gli era consentito allontanarsi dal reparto. Nei mesi successivi trascorsi con lui alcune domeniche pomeriggio e mi raccontò i particolari di tutte le torture che aveva dovuto subire. Estenuanti interrogatori, minacce per fargli dire ciò che a loro interessava, legato in permanenza ai polsi, tenuto per lunghe ore in piedi, scalzo, nell'acqua. Diversi giorni senza cibo, l'indicibile solletico degli scarafaggi posti in bicchieri imbevuti d'alcol e fissati sul petto nudo a forma di coppette, turni di diversi giorni per pulire con le mani i gabinetti intasati. Il suo peggiore aguzzino fu ricoverato nel suo reparto, e quando lo vide si coprì il volto con il lenzuolo, ma lui lo rassicurò e lo curò come gli altri. Aveva un animo troppo nobile per coltivare sentimenti di vendetta. Erano affidati alle sue cure anche i feriti, sostenitori del comandante Marcos, nella guerriglia in corso in Grecia per abbattere il governo e sostituirlo con uno comunista. Due ufficiali tedeschi che avevano per un periodo condiviso il carcere con Mandolini, avevano il compito di donare il sangue necessario all’ospedale .nelle trasfusioni. Uno di questi mi disse un giorno: “hanno bisogno del sangue dei barbari “, una chiara allusione alle barbarie degli Albanesi.. I primi d’aprile del 1949, in occasione della festività di Pasqua, il dott. Mandolini riuscì ad ottenere un permesso speciale e partecipò con noi al pranzo ed alla festa organizzata nelle sale dell'albergo Daitj, con la partecipazione di tanti connazionali. Dopo il periodo di carcere, era la prima volta che gli concedevano la possibilità di ritornare a vivere. Rammento che, a sua richiesta, l'orchestra suonò un brano da lui prediletto: “polvere di stelle”. Alla sera ci salutammo con la promessa di rivederci in breve, non avrei mai potuto immaginare che sarebbero trascorsi diversi anni prima di incontrarlo di nuovo. Lo rividi l’ultima volta alla stazione FS. di Pesaro nel 1968. Mi recavo a Sinigallia per lavoro “cementazione colonna in un impianto a mare”. Approfittai di un’ora di attesa per la coincidenza e gli telefonai; corse subito ad abbracciarmi. Mori nel 1972, ma vive sempre nella memoria di tutti coloro che lo hanno conosciuto!!! 32
29. –Possiamo ritornare in Patria ! Il 18 aprile avvertirono mio padre di partire subito per Durazzo e presentarsi al porto per l'imbarco. Per noi fu come un fulmine a cielo sereno, nessuno si aspettava una decisione cosi repentina, con soli tre giorni di preavviso. La lista dei partenti era composta da 56 nomi, non figurava il mio e quello della mia nipotina Nina. Ottenni in fabbrica un permesso di pochi giorni; preparammo in fretta tutto quello che si poteva trasportare nelle valigie, il resto fu abbandonato. Dopo aver tentato inutilmente di ottenere un mezzo di trasporto, assieme ad altri fummo costretti a noleggiare un carro agricolo trainato da un cavallo striminzito. Partimmo da Tirana la sera del 19 Aprile, non ci fu il tempo di avvertire, ne di salutare nessuno degli amici. Un solo compagno di lavoro albanese, Petrit Toptani, ex nobile, ridotto dal regime ad operaio, mi accompagnò per un tratto di strada, correndo a fianco del carro; ”Racconta agli italiani la verità sul comunismo “, furono le ultime parole che mi disse urlando. Il viaggio prosegui nella notte, cadenzato dagli zoccoli del cavallo. A circa metà strada, a metà di una salita, fummo costretti a scendere dal carro e spingerlo; il carico era troppo pesante per un cavallo denutrito. Arrivammo a Durazzo nella mattinata del giorno 20: avevamo impiegato dodici ore per percorrere 38 Km. Ad attenderci c’era mio cognato Camoni, avvertito con telegramma. Era venuto a salutare la figlia Nina e concedere l’autorizzazione per includerla nella lista dei partenti. Per quanto mi concerneva direttamente, il problema fu risolto senza imprevisti, in quanto appartenente allo stesso nucleo famigliare. Trascorremmo la notte all’albergo Volga, che si affacciava sul mare nelle vicinanze del porto. La mattina del 21 ci alzammo riposati e subito ci affacciammo alla finestra, da dove si potevano vedere le navi ancorate in porto, ma non distinguere la nazionalità. Avevamo il timore che l'attesa dell'imbarco si prolungasse per giorni, forse settimane; era già successo ad altri gruppi rimpatriati in precedenza. Poche ore dopo la nostra incredulità fu smentita ed i timori all'improvviso svanirono; non riuscivamo a capire come alcuni miracoli potessero accadere in uno spazio di tempo così breve. A mezzogiorno pranzammo in albergo e subito dopo vennero a prenderci e ci accompagnarono alla dogana. Camoni non aveva il permesso per entrare all'interno del porto, dall'ingresso continuava a salutarci sventolando un fazzoletto. Nel tardo pomeriggio c'imbarcammo sulla nave Laura che ci attendeva alla banchina. Il cavo d'ormeggio di una grossa nave sovietica impediva alla nostra di usare i mezzi di bordo per caricare i nostri bagagli e fummo costretti a trascinarli, usando una passerella per salire a bordo, con il rischio di cadere in mare. Dall'alto alcuni marinai russi si godevano lo spettacolo burlandoci. Il comandante e l'equipaggio del Laura ci accolsero con molta cordialità, provvidero subito a distribuire bevande, pane bianco e mortadella; da tempo non eravamo più abituati a vederli sui nostri tavoli. Finalmente riuscimmo a dare una risposta ad una serie di eventi che per noi erano incomprensibili. Il capitano c'informò che eravamo oggetto di uno scambio con una decina di Albanesi naufragati sulle coste pugliesi, sbarcati il mattino. Li avevamo notati alla Dogana, isolati su una terrazza e sorvegliati dalla polizia. Non seppi mai se si trattò di vero naufragio o di un tentativo di fuga. La nave che ci ospitava era adibita al trasporto merci, non erano previste cabine per passeggeri; ci sistemarono alla meglio nella stiva su dei pagliericci. A notte inoltrata, sdraiati sui giacigli, udimmo il rumore delle eliche ed il rullio della nave ci avvertì che era giunta l'ora tanto attesa, avevamo lasciato per sempre l'Albania. Penso che quella notte nessuno abbia potuto dormire. Al mattino presto tutti eravamo sul ponte. La corvetta Scimitarra, della Marina Militare, ci aveva atteso al limite delle acque territoriali e passò veloce accanto a noi; il comandante, con il megafono, 33
ci diede il primo saluto della Patria. Ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, mi commuovo rievocando l'episodio. Erano circa le dieci del mattino, quando vedemmo spuntare all'orizzonte “quel suolo benedetto e sospirato e la brezza natia, sull'arsa fronte il bacio ci donò del bentornato”. La nave gettò l'ancora nel porto di Brindisi: la nostra gioia era immensa, anche se velata dal pensiero dei tanti rimasti in attesa di ritornare in patria. “Ma poiché sempre nei tuoi occhi, o libertà, risplende quella grande luce che salva il mondo. In te avremo fiducia anche se tu uccidi.”
30. – Sbarco a Brindisi. Benvenuti in Italia ! Mentre eravamo in attesa di scendere a terra, sulla banchina si era radunata gente che sventolava bandiere rosse ed inneggiava al comunismo. Alcuni di noi risposero, urlando, di andare in Albania a verificare i frutti della loro dottrina! Il diverbio verbale aumentò ulteriormente di tono e, quando scendemmo a terra dalla scaletta d'approdo, si trasformò in rissa. Intervenne la Celere a dividerci e fummo rinchiusi nel grande ingresso dell' Albergo Internazionale. Alcuni agenti del servizio informazioni c’interrogarono su vari argomenti, volevano essere aggiornati sulla reale situazione albanese. Erano già a conoscenza di tanti particolari che noi ignoravamo. Alla fine fummo divisi in due gruppi, quelli che vollero partire subito per raggiungere le loro famiglie ed altri che decisero di rimanere, in attesa di essere trasferiti in un centro profughi per avere la qualifica che dava diritto ai sussidi e benefici previsti dalla legge. Prima di partire avevamo depositato in banca a Tirana i pochi risparmi, accumulati nell'ultimo periodo di permanenza. Non era consentito esportare valuta, né cambiarla con altra, anche se ci avessero consentito di tenere i frutti del nostro lavoro la moneta albanese non aveva corso in Italia. Il fatto di non avere mezzi di sostentamento, né un lavoro per procurarceli, non ci concedeva soluzioni alternative. Questo ci costrinse a rimanere ed attendere l'iter burocratico che alla fine ci dava la possibilità di avere un aiuto per i primi mesi, consentendoci un reinserimento graduale per affrontare la situazione italiana del dopoguerra. Rispetto ad altri, noi potevamo considerarci fortunati, la nostra casa di Gemona, agognata meta finale, rappresentava per noi un sicuro punto di riferimento. L' Albergo Internazionale a Brindisi era ubicato sulla banchina del porto, di fronte ormeggiavano tutte le navi, sulla sinistra la zona residenziale di Casale. Alla mia famiglia era stata assegnata una sola spaziosa camera da letto. Di giorno lunghe passeggiate a visitare la città. La gente ci guardava incuriosita, come se fossimo arrivati da un altro pianeta. Visi incavati, sguardi impauriti; il vestiario non era certo alla moda, le donne a Brindisi portavano le vesti lunghe alla caviglia, mia sorella Albina le aveva ancora sopra il ginocchio, il disagio era inevitabile. Lunghe ore le passavamo seduti al caffè del porto, davanti a noi grandi navi e piccole imbarcazioni e, fino all'orizzonte, quell'immenso mare che per tanti anni avevamo atteso di attraversare. Il sig. Vito, padrone del bar; come la maggioranza dei pugliesi era una persona comprensiva e di buon cuore, non esigeva da noi l'obbligo di consumazioni, sapeva che la nostra disponibilità di danaro era molto limitata.
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31.—Il campo profughi a Latina La permanenza a Brindisi durò quindici giorni. La sera del 7 Maggio ci accompagnarono alla stazione ferroviaria e la mattina del giorno successivo arrivammo a Latina. La cittadina dista 9 Km. dalla stazione, il centro che ospitava i profughi era ubicato in periferia, nei pressi dello stadio. Lo chiamavano “palazzo M,” forse in omaggio a Mussolini. Si trattava di una grande struttura con i soli muri perimetrali, l'interno era vuoto, ai vari pilastri di sostegno avevamo teso delle corde legate ad un'altezza di due metri, con appese le coperte che sostituivano i muri divisori e delimitavano gli spazi occupati dalle varie famiglie, con solo le brande per dormire. Di giorno bisognava parlare sottovoce per preservare la nostra privacy, di notte si udiva il concerto dei russatori. Eravamo caduti dalla padella nelle braci! Rassegnati e convinti che questa era l'ultima prova da superare prima di ricominciare a vivere. La maggioranza degli ospiti di questo centro erano profughi istriani provenienti dalla Yugoslavia, dove avevano abbandonato tutto ciò che possedevano per fuggire dal regime comunista di Tito. Tutti si ponevano lo stesso interrogativo: quando, come, dove avrebbero potuto ricostruire la loro vita. Io mi ero recato due volte a Roma alla direzione dell'AGIP per sollecitare un lavoro, ma ottenni solo vaghe promesse. Finalmente, dopo circa due mesi, ricevemmo dal Ministero degli Interni l'attestato con la qualifica di profughi che ci consentiva di lasciare il centro, con le garanzie previste dalla legge. Il giorno 8 1uglio 1949 partimmo da Latina per il Friuli..
32. – Arrivo a Gemona Il 9 luglio del 1949, dopo ventidue anni trascorsi in Albania, mio padre rivide il suo paese “Gemona del Friuli”. Quando arrivammo alla stazione, guardai in alto verso la montagna e rammentai alcuni versi d’un poeta anonimo: “Bella Gemona, candida sul lento declivio de la verde alpe adagiata, sul tuo capo fantastico di fata, coronano le rupi e bacia il vento, lambendo, del suo chiaro argento, la veste, per la valle abbandonata, ti mormora con lena infaticata la leggenda dalle Alpi al Tagliamento.” La casa dei miei avi era molto vecchia, costruita in tempi successivi; c’erano diverse stanze, ma non molto grandi. Durante la nostra assenza era stata affittata alla famiglia Maria Ferragotto, che aveva due figlie, una sposata con prole, che raggiunse il marito in Argentina pochi mesi dopo il nostro arrivo. Con un minimo di sacrificio riuscimmo a sistemarci senza ricorrere allo sfratto, che avrebbe creato seri problemi agli inquilini.. Per me stava per iniziare una nuova vita, in un paese libero dove si era instaurato un nuovo sistema democratico. Purtroppo le difficoltà da superare erano molte; la guerra aveva lasciato profonde ferite, la ricostruzione non dava cenni di ripresa, l’economia era in crisi. Una delle conseguenze più gravi era il problema occupazionale. Erano oltre due milioni i disoccupati e nelle regioni con poche industrie, come il Friuli, le possibilità di trovare un lavoro erano quasi inesistenti. Tanti furono costretti a seguire le orme dei padri ed emigrare. Io avevo fatto molte domande, a varie industrie, bussato a tante porte, ma, nonostante i miei dodici anni d’esperienza in officina, non avevo ottenuto nessun risultato. Inizialmente il sussidio che davano ai profughi era un aiuto, ma poi fu sospeso e le poche risorse accumulate non durarono a lungo. Mio padre fu costretto a vendere un terreno che aveva ereditato da sua madre. Anche mia madre dovette cedere una piccola proprietà terriera nella zona Taboga di 35
Gemona. Per un periodo di circa due mesi mio padre accettò un lavoro per la sua età molto pesante, la pulizia dei canali d’irrigazione. Anche a me, grazie all’aiuto del mio vicino Antonio Collini, con cui era nato un buon rapporto di amicizia,. fu offerto un lavoro temporaneo di tre mesi nell’ospedale, dove stavano ristrutturando alcuni padiglioni. Questo mi confortò e contribuì a risollevare un po’ il mio morale, ma le prospettive non mutavano. “Guarda fratello, come vanno languendo tristi, soli e vuoti i giorni miei.”
33- L’ultima speranza Vani erano stati fino allora tutti i tentativi per trovare un lavoro. Nel luglio del 1950, approfittando degli sconti praticati dalle ferrovie in occasione dell’Anno Santo, mi recai a Roma alla Direzione generale dell’AGIP. Nei tre mesi della mia permanenza a Latina, mi ero recato varie volte a sollecitare i superiori per ottenere una riassunzione, ma in quel periodo il governo succeduto a Parri aveva dato l’incarico ad Enrico Mattei di liquidare tutte le attività della società, in Italia ed all’estero. All’epoca l’AGIP era l’unica azienda petrolifera statale che operasse in Italia ed in alcuni paesi esteri. In seguito agli eventi bellici, tutte le attività di ricerca erano state sospese ovunque. I vecchi dirigenti si opposero a queste decisioni; le precedenti esperienze e gli argomenti documentati consentivano di avere buone speranze in prospettiva. A Mattei va riconosciuto il merito di avere dato il consenso per effettuare un ultimo tentativo, prima della chiusura. Il suo passato di partigiano, le sue conoscenze nell’ambito del partito democristiano e di alcuni membri del governo, gli facilitarono il compito. All’ing. Zanmatti, Trisolio ed alcuni altri esperti veterani, fu affidato il compito di iniziare nuove ricerche: materiale, macchinari ed un impianto di perforazione recuperato, consentirono di iniziare, appena finita la guerra, a perforare un secondo pozzo esplorativo a Caviaga, nei pressi di Lodi, che risultò produttivo, confermando i risultati del primo pozzo. Si era scoperto il primo giacimento con riserve cospicue di gas metano in Pianura Padana. Ritornai a casa dal mio viaggio a Roma più fiducioso, con qualche speranza in più, da tanto tempo attendevo una schiarita! Trascorrevo le mie giornate nell’illusione che qualcosa di nuovo potesse accadere, evitavo di pensare al passato, cercando in tante brevi avventure di lenire il tormento causato dall’incertezza e dalle delusioni. Stanco di attendere una lieta novella, ero rassegnato ad emigrare in Venezuela, dove mi avevano preceduto alcuni compaesani; la documentazione era quasi pronta, quando mi giunse la notizia da mio cognato Camoni, che alcuni ex colleghi erano stati ripresi in servizio. L’AGIP aveva iniziato ad assumere, con criteri selettivi, una parte del suo ex-personale.
34. -Dicembre 1950: assunto dall’Agip a Crema All’epoca, nel comune di Gemona, ricopriva la carica di sindaco il senatore democristiano Fantoni. Mi recai da lui, che era già al corrente della mia situazione, e lo pregai di scrivere una lettera all’Ing. Mattei. Le raccomandazioni non mi sono mai piaciute, ma questo era l'ultimo disperato tentativo e fu l’inizio di un mutamento radicale della mia vita. Il destino, all’improvviso, mi apparve con un nuovo volto. Il 25 Novembre, giorno del mio compleanno, ricevetti una lettera dalla direzione dell’AGIP che mi comunicava l’assunzione, nel cantiere di Caviaga, a partire dal primo dicembre 1950. Il 30 novembre trascorse in preparativi per il viaggio, in uno stato d’animo agitato da sentimenti contrastanti, felice che fosse finalmente arrivato il giorno tanto atteso di riprendere a lavorare e costruirmi un avvenire, ma anche intimorito dall’ignoto che mi attendeva. 36
Malgrado le sofferenze e l’esperienza acquisita, mi sentivo come un uccello che esce dal nido e spicca il suo primo volo, consapevole che avrei dovuto affrontare la vita da solo. Mi sarebbe mancato il supporto della famiglia, i consigli e l’aiuto nelle difficoltà da superare, il conforto nelle ore più buie, gli affetti più cari. Accompagnato dai genitori e parenti, mi recai la sera alla stazione; era consuetudine allora, dare l’ultimo saluto ed augurio al bar “la di Rosute” (Rosina), davanti alla stazione, dove l’emigrante offriva l’ultimo bicchiere di commiato a tutti gli amici. Alle otto di sera salii su quel treno, che molte volte avevo visto passare accompagnando a casa colei che non avrei più rivista, un sogno mai realizzato. In quell’istante mi apparve la verità di un vecchio detto “Partire è un po’ morire”. Il Manzoni, nei Promessi Sposi, ha descritto alla perfezione i sentimenti che agitano l’animo di chi è costretto a lasciare il proprio paese e quanto vi è di più caro: “Addio monti sorgenti dall’acque, cime ineguali elevate al cielo ed impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto dei suoi più famigliari. Torrenti, dei quali si distingue lo scroscio, come il suono di voci domestiche. Ville sparse e biancheggianti sul pendio come un branco di pecore pascenti…”. Questi erano i pensieri che passavano nella mia mente allora e riaffiorano ora, dopo cinquanta anni, mentre sto scrivendo queste memorie. Il convoglio, entrando al mattino nella stazione di Milano, interruppe il filo dei miei pensieri. Cambiai treno e prosegui il viaggio per Lodi. Da qui raggiunsi in corriera il piccolo paesino di Caviaga. Negli uffici, sistemati provvisoriamente in una baracca, incontrai un impiegato all’ufficio personale, conosciuto a Devoli in Albania con la mansione di bibliotecario. Mi comunicò che avrei dovuto presentarmi l’indomani a Crema, dove era in allestimento un nuovo cantiere. Mi rammentai che, un giorno lontano, mentre facevo le parole incrociate, alla domanda: “Dolce città in quel di Lombardia” apparve la parola Crema, era la prima volta che ne venivo a conoscenza. Mi sono chiesto spesso se era un segno del destino o una semplice coincidenza! Arrivato finalmente a destinazione il 2 dicembre iniziai a lavorare. I capannoni erano ultimati, ma vuoti, in officina non erano ancora state installate le macchine. La mensa ed i dormitori erano in allestimento. Fui costretto a cercare una sistemazione logistica provvisoria. Mi fu d’aiuto Oreste Curzel, già collega di lavoro in Albania, che mi aveva preceduto all’AGIP. A consumare i pasti andavamo in piazza Duomo, in una trattoria che si chiamava Bellomo; Ermelinda, figlia del gestore, fu la prima amica conosciuta a Crema. Trascorse il primo mese, con disagi e molte difficoltà d’inserimento. A Natale fui ospite a Milano dei Floreani, parenti di mio padre. Avrei desiderato tanto ritornare a Gemona e trascorrere le festività con i miei, ma mancavano i mezzi e non avevo maturato giornate di ferie. Le ore di viaggio in ferrovia erano troppe. Così trascorsi il Capodanno solo, in una camera d’albergo a meditare. Il possesso di un’auto, allora era un sogno. Il benessere si conquistava gradualmente al prezzo di rinunce e sacrifici. Per i giovani d’oggi la vita è facile. Hanno tutto! Hanno troppo! Sono trascorsi da allora 57 anni, nella mia valigia di cartone restano soltanto cianfrusaglie, foto sbiadite ed ingialliti scritti. Attendo solo che mettano il lucchetto alla mia vita stipata in un cassetto……
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35. – Conclusioni E’ trascorso oltre un anno da quando ho iniziato alcune ricerche documentali, indispensabili prima di iniziare a frugare nei cassetti della mia mente alla ricerca di ricordi che risalgono agli anni venti, e fino agli anni cinquanta dello scorso secolo. La maggior parte delle persone che hanno vissuto con me le vicende di questo periodo narrate in queste memorie, sono scomparse. Avrei voluto inserire in questo quaderno di ricordi anche le foto di tanti amici, vissuti in varie città d’Italia, dei quali conservo le sembianze dei loro volti impresse nella mia mente. Molti altri riconosco in alcune foto, ma i loro nomi sono scomparsi nel limbo della memoria e non figurano nelle didascalie delle mie foto. Le immagini sbiadite sono il risultato di fotografie risalenti a cinquanta – settanta anni fa. I risultati di questo volume sono interessanti per le memorie storiche narrate, ma con il “fai da te” non mi è stato possibile rispettare i canoni della stampa e dell’editoria. Le foto menzionate sopra sono inserite solo nei volumi originali che, per ovvi motivi di riservatezza, sono disponibili solo ad esclusivo uso dei famigliari. Questa prima parte delle mie memorie è stata stralciata dall’originale, una copia consegnata per sola lettura e divulgazione alla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, (Comune di Pieve S. Stefano, Arezzo), da conservare per la memoria degli Italiani. Arnaldo Canciani
Crema 19 novembre 2001
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