Lissa 1866 di Patrizio Rapalino
È
Lo scontro che vide contrapposti soldati e contadini contro barcaioli e marinai
indubbio che l’unificazione d’Italia è avvenuta grazie a una serie di battaglie terrestri, combattute per lo più in Val Padana, molte delle quali raffigurate nei magnifici dipinti di Giovanni Fattori. Nella storia militare d’Italia, ma del resto anche nella letteratura, sono presenti fiumi, boschi, monti, mentre il mare è pressoché inesistente. Anche il fatto che Garibaldi fosse un marinaio nizzardo che aveva condotto la guerra di corsa in America latina è soltanto una curiosità. Garibaldi è prima di tutto un generale raffigurato a cavallo alla testa di uomini che muovono lungo vie di comunicazioni terrestri. In effetti, Torino poteva essere considerata la capitale di un piccolo Stato continentale senza nessun reale interesse marittimo. Il porto militare di Villefranche offriva al regno il minimo sostegno logistico per allineare qualche imbarcazione strettamente necessaria a esercitare la propria sovranità e presenza sulle brevi coste della contea di Nizza e, saltuariamente, in Sardegna, un’isola abitata da una popolazione di pastori e non di marinai. Soltanto dopo l’annessione della Repubblica di Genova, avvenuta nel 1815, la marina sarda cominciò, con gradualità, a muovere i primi passi, realizzando dal nulla la prima moderna marina dell’Italia preunitaria a cui si aggiunsero tutte le altre, sotto la guida di colui che è considerato il padre della marina sarda, l’ammiraglio Giorgio Des Geneys. Se in Piemonte la maggiore importanza dell’Esercito rispetto alla Marina trovava una giustificazione nella geografia, la stessa cosa non poteva dirsi per il Regno delle Due Sicilie. Infatti, sebbene sulla carta Napoli possedesse una delle flotte più importanti del Mediterraneo, nella realtà dei fatti tale strumento ri-
sultò inadeguato ai compiti per cui era stato costruito. Non soltanto la Marina napoletana non fu in grado di impedire alle due navi mercantili Lombardo e Piemonte, di sbarcare i garibaldini in Sicilia, ma nemmeno il trasferimento delle truppe in Calabria attraverso lo Stretto di Messina. Confrontando le attività condotte dal 1815 al 1860 dalle Marine sarda e napoletana, ci si accorge che nonostante lo Stato sabaudo non avesse cultura e tradizioni marittime, a differenza del Regno delle Due Sicilie, cercava di recuperare il divario con le altre Marine, soprattutto quella francese, inviando le proprie navi in lunghe crociere fuori dal Mediterraneo. Il Governo di Torino aveva deciso di mantenere unità navali in modo stabile in America latina, decisione che sarà poi confermata dal Regno d’Italia, fin dal 1841. In altri termini, i piemontesi, pur carenti di cultura e esperienza marinara, compresero ben presto l’importanza della Marina militare nel sostegno della politica estera e nella promozione dell’immagine della nazione, ossia in quello che era e che è ancora il principale ruolo delle Marine: la “diplomazia navale”. Mentre buona parte degli antichi Stati italiani riteneva che le flotte servissero, più che altro, al contrasto della pirateria che da secoli infestava le nostre coste, i governanti piemontesi, con in testa Cavour, intuirono che il piccolo Piemonte, grazie al mare, confinava con tutto il mondo, compresa l’Argentina e il Brasile. Cavour, grazie alla conoscenza che aveva del sistema economico britannico, afferrò l’importanza dell’ambiente marittimo anche nel settore commerciale. La legge del mercato e la concorrenza tra le vecchie potenze europee, che si stavano accaparrando spazi vitali in tutto il mondo, imponeva al piccolo Regno di
gennaio-febbraio 2013
21
“Il campo italiano dopo la Battaglia di Magenta”, olio su tela del 1861 di Giovanni Fattori, conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze è una delle tante splendide tele del grande pittore toscano che ci hanno tramandato le vicende del Risorgimento italiano. In apertura, lo stemma della Regia Marina
Sardegna di prendere il mare per procurarsi le materie prime necessarie alla sopravvivenza. Quindi, per non dipendere dalle flotte di altri Paesi, era necessario realizzare anche una grande marina mercantile. Appoggiò con sovvenzioni statali alcune società di navigazione in grado di mantenere delle linee di comunicazione stabili oltre oceano, anche se viaggiavano in perdita, con pochi passeggeri e non a pieno carico. Ma anche una grande e moderna marina mercantile non è sufficiente per promuovere il prestigio dello Stato. In caso di crisi o guerre le linee di comunicazione marittime devono essere difese da navi militari. Il commercio e la guerra marittima erano due facce della stessa medaglia. Inoltre, le unità navali potevano offrire protezione alle comunità di emigranti italiani, (importanti, con il denaro guadagnato in America e inviato alle famiglie di origine in Patria, al benessere generale). La presenza quasi continua-
22
gennaio-febbraio 2013
tiva di navi militari, chiamate stazionarie, nelle aree di maggior flusso migratorio e ovunque ci fossero interessi commerciali da tutelare, venne mantenuta con l’unificazione per molti anni, addirittura un secolo, se si considera che in Estremo oriente l’attività delle navi stazionarie cessò soltanto l’8 settembre 1943. Così non fu a Napoli. La presenza nel Regno delle Due Sicilie di cantieri moderni, come quello di Castellamare di Stabia, la realizzazione di un grande bacino di carenaggio e il possesso di un cospicuo numero di unità navali, anche a vapore, tale da rendere la Marina napoletana, sulla carta, una delle più importanti europee, sono fattori ben poco importanti se si considera che la flotta non veniva impiegata nel sostenere la politica estera del proprio Paese; infatti, di rado le navi visitavano porti stranieri e, come si può vedere in tabella, in due sole occasioni affrontarono navigazioni oceaniche:la prima volta quando, nel
Nonostante disponesse di buone unità e notevoli strutture arsenalizie, il Regno delle Due Sicilie non curò mai la proiezione della propria immagine all’estero tramite la flotta. Nell’immagine “Varo del vascello Partenope”, di Jacob-Philipp Hackert, olio su tela del 1786, Reggia di Caserta
1843, il vascello Vesuvio e le fregate Amalia, Partenope e Isabella trasferirono a Rio de Janeiro la principessa Teresa Cristina, sposa di Dom Pedro II, Imperatore del Brasile; la seconda quando tra il 1844 e il 46 la fregata Urania effettuò un viaggio di istruzione per gli allievi della Regia Accademia Navale a Rio de Janeiro, Montevideo, Sant’Elena, New York, Dieppe, Portsmouth e Brest. Eppure non mancavano uomini di genio. Fu, infatti, Giulio Rocco, ufficiale della marina borbonica, il primo a scrivere, nel lontano 1814, un trattato sul concetto moderno di “potere marittimo” e non lo statunitense Alfred Thayer Mahan che pubblicò The influence of Sea Power upon History, 16601783 soltanto nel 1890. Tra l’altro la definizione di Rocco di potere marittimo quale “forza somma risultante da quella di una bene ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio” è molto più sintetica e moderna delle lunghe elucubrazioni del più noto pensatore americano. Tuttavia, saper navigare è soltanto una condizione necessaria ma non sufficiente per essere vittoriosi sul mare. Persano, comandante in capo della flotta italiana a Lissa, così come Albini e a maggior ragione il napoletano Giovanni Vacca, non avevano alcuna esperienza di combattimento in mare, fatta eccezione per le ope-
razioni di bombardamento antecedenti alla formale unificazione. Agli inizi del XIX secolo passare lo Stretto di Magellano e veleggiare al comando di una nave tra le isole del Pacifico, così come fece Persano, poteva comportare qualche rischio, ma mai quanto quelli che si assumono nel portare in combattimento un’intera flotta, risolvendo in pochi secondi complessi calcoli cinematici e balistici. La responsabilità è così grande che anche un abile comandante rischia di entrare in uno stato di panico se non abituato dall’infanzia all’esercizio del comando.
Al contrario il piccolo Regno di Sardegna utilizzò molto la propria Marina per estendere i propri rapporti internazionali, in particolare con l’America del Sud. Questo olio su tela del 1898 di Eduardo De Martino, che rappresenta “L’incendio del vapore America”, fa parte della Collezione Armada Argentina, Buenos Aires
gennaio-febbraio 2013
23
L’ammiraglio Carlo Pellion, conte di Persano (nella foto), pur essendo uno dei massimi esperti di Marina, in Italia, poco poté, a Lissa, contro il più dinamico e moderno avversario, l’ammiraglio austroungarico Wilhelm Teghettoff
L’ammiraglio Teghettoff, formatosi nel Marine Cadetten Kollegium di Venezia, seppe brillantemente, e a nostre spese, mettere a frutto la maggior coesione, ma soprattutto la ben più antica “marittimità”, dei suoi equipaggi a fronte di quella degli italiani, come evidenziò il risultato di Lissa
L’ammiraglio Persano, anche se sulla carta era il maggior esperto di questioni navali della Marina sarda (divenuta Regia Marina nel 1861), non era sufficientemente addestrato a portare in combattimento una flotta variegata come quella italiana, messa insieme alla meglio con parti delle Marine pre-unitarie. La sconfitta di Lissa era prevedibile anche perché i vertici della Marina, nonostante gli sforzi effettuati per rinnovare il naviglio ordinando la costruzione di nuove corazzate, non avevano compreso che la strategia dei mezzi non è sufficiente a fornire la vittoria se non si ha anche una strategia di impiego degli uomini, a prescindere dai mezzi disponibili. In altri termini, il materiale non è sufficiente per vincere se gli ammiragli non sono in grado di condurre le navi in battaglia e i sottoposti non sono addestrati a eseguire i loro ordini. Molti hanno scritto che se un Esercito non si improvvisa, non si improvvisa certo una flotta. Mentre una divisione di fanteria annientata in combat-
timento può essere rimpiazzata richiamando alle armi dei riservisti con tre mesi di addestramento, una flotta richiede anni di tempo ed enormi risorse per essere realizzata, e pertanto le navi perse in battaglia non possono essere rimpiazzate prima della fine della guerra. Ma per fare un ammiraglio che sia vincitore sul mare occorrono generazioni di esperienza e di tradizione marittima. Anche un grande genio non sarebbe stato in grado di portare alla vittoria la flotta italiana, dove esistevano rivalità, gelosie, invidie, razzismo e si parlavano lingue e dialetti diversi. È vero che a Lepanto le navi appartenenti a una coalizione di Stati con obiettivi diversi aveva vinto la flotta turca, ma la tattica navale nel 1571 era molto più semplice. Di fatto si trattava di concentrare il maggior numero possibile di galere su una linea di fronte e di lanciarle verso il fronte nemico. Una volta avvenuto l’urto, tra le navi in linea di fronte, le battaglie navali si trasformavano in battaglie campali condotte a bordo di galleggianti
24
gennaio-febbraio 2013
In questo olio su tela del pittore di marina tedesco Alexander Kirchner conservato nella sezione navale dell’Heeresmuseum di Vienna, vediamo la squadra austriaca ancora impegnata con le navi italiane (al centro sullo sfondo) che passa vicino ai rottami del Re d’Italia
e vinceva chi riusciva a concentrare più soldati in un unico punto. L’avvento delle artiglierie, lo sviluppo della propulsione a vela e poi a motore, richiedeva, invece da parte degli ammiragli e dei singoli comandanti una grande capacità evolutiva. Le battaglie navali si erano trasformate in una sorta di regate in formazioni serrate, in cui era necessario sfruttare il vento in modo da raggiungere il nemico e bombardarlo in posizione di vantaggio. Prima di portarsi all’arrembaggio, occorreva ridurre la velocità dell’avversario, tentando, con scariche di proiettili, di disalberare le navi a vela. Una nave ferma non era più in grado di manovrare e quindi poteva essere affiancata e abbordata, oppure affondata con lo sperone lanciandosi a tutta velocità su uno dei fianchi, così come veniva effettuato durante le guerre puniche. Ma per eseguire queste manovre, l’ammiraglio doveva coordinare i movimenti in formazione di decine di navi, in un epoca in cui non esistevano le comunicazioni radio. Gli ordini venivano dati a bandiere e pertanto tra i comandanti dipendenti doveva esserci un livello di affiatamento molto più spinto di quello necessario a bordo delle galee veneziane. In altri termini, l’ammiraglio, per vincere, doveva disporre di una band of brothers che Orazio Nelson era riuscito a costituire dopo anni di navigazione in tutti i mari del mondo, lavorando sulle solide fondamenta di una tradizione marittima sviluppata nell’arco di almeno due secoli.
A differenza delle Marine sarda e napoletana, gli equipaggi delle navi austroungariche appartenevano all’antico Stato veneziano, il solo a possedere grandi tradizioni marinare, nonostante Venezia ormai da tempo avesse cessato di essere una potenza sia terrestre che marittima, visto che i centri del potere finanziario si erano spostati nell’Europa del Nord da dove si potevano sfruttare le nuove rotte oceaniche per raggiungere l’Oriente, estromettendo l’antico monopolio veneziano nell’attività di scambio tra Oriente e Occidente. Tuttavia, il popolo veneziano continuava a mantenere l’antica tradizione marinara. Costretti a vivere in laguna e a rifornire la città facendo la spola con la terraferma, una miriade di barcaioli, gondolieri e pescatori continuava a trarre il proprio sostentamento dal mare e a credere nell’antica grandezza della Serenissima. Inoltre, gli ufficiali di marina austroungarici venivano formati dai veneziani nel Marine Cadetten Kollegium di Venezia, da cui uscì il vincitore di Lissa, l’ammiraglio Tegetthoff. In conclusione, alla luce di quanto abbiamo detto, possiamo affermare che i contadini-soldati italiani erano era stati vinti a Lissa dai barcaioli-marinai veneziani. Da tale sconfitta, più che dalla formale unificazione del 17 marzo 1861, risorgerà la Marina italiana e, grazie alla graduale riscoperta delle proprie tradizioni marinare, il 10 giugno 1918, Lissa sarà finalmente vendicata. ■
gennaio-febbraio 2013
25