LE DINAMICHE DI GRUPPO
Scuola di formazione per catechesti A cura di Francesco Gori
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LE DINAMICHE DI GRUPPO
NOI E’ MEGLIO. Essere in gruppo per crescere Il gruppo è una risorsa educativa troppo importante per essere trascurata, e quando lo si fa non si riesce più a comprendere ed agire in modo efficace nemmeno sulla crescita e l’accompagnamento dei singoli. 1+1=3: un gruppo non è la semplice somma delle parti ma un organismo ben più complesso e articolato, caratterizzato dalla sua dimensione, dai ruoli che in esso inevitabilmente e informalmente si vanno a definire e dalle dinamiche interne. Ad ogni educatore è chiesto di tenere gli occhi bene aperti sul gruppo e sulle sue dinamiche se vuole ottenere dei risultati soddisfacenti dal suo servizio educativo, ma allo stesso tempo deve anche aiutare i bambini ed i ragazzi ad essere consapevoli della realtà che essi formano ed allenarli nel collaborare e nel sapersi integrare e rispettare. La vita di gruppo non è sempre facile, anzi, presenta sempre delle difficoltà e delle contrapposizioni. Un gruppo in cui non c’è conflitto non è un buon gruppo! Perché l’assenza di conflitto molto probabilmente è determinata da una gestione autoritaria delle persone da parte del responsabile o del leader, e i componenti non sono liberi di esprimersi e confrontarsi tra loro; oppure è dovuta ad una aggregazione di persone che si limitano a stare insieme ma senza il desiderio di confrontarsi e mettersi realmente in gioco tra loro, impedendo una piena crescita delle persone e un arricchimento reciproco. Esistere
significa
ricevere
da
altri
l’esistenza,
ma
significa
anche,
uscendo
dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile, la presenza di altre libertà. Chi sfuggisse da questo faccia a faccia, non per questo eviterebbe la paura, inseparabile da ogni scontro, ma rinuncerebbe ad essere, affermando al vento un diritto che sarebbe incapace di far riconoscere. Pretesa o resa che sia, la sua fuga solitaria lo escluderebbe dal gruppo, lo esilierebbe dal mondo reale e non farebbe altro che condurlo nel ‘deserto’ mitico dove l’inseguire miraggi è già un suicidio. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro.1
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M. de Certeau, Mai senza l’altro, Qiqajon, 2007, Magnano (BI), pp. 42-43.
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IL GRUPPO Tenendo conto di quanto scritto finora “si comprende quanto sia limitato un modello pedagogico individualistico, centrato sul singolo soggetto, e quanto sia necessario ricercarne uno orientato al contesto più ampio della relazione”2. Ogni educatore si trova a relazionarsi non tanto con singoli ragazzi ma con un gruppo. Il gruppo è un organismo dotato di caratteristiche e dinamiche proprie che non si possono ridurre alla semplice somma dei singoli componenti. In particolare, il comportamento di un ragazzo all’interno di un gruppo è fortemente determinato dal gruppo stesso, per cui non si può prescindere da queste relazioni se si vuole agire efficacemente su di lui. “Il comportamento di ciascun allievo è in stretto rapporto a quello degli altri, perché dipende dal gioco di rispecchiamenti reciproci e dal ruolo che il gruppo assegna al singolo. Quindi l’insegnante quando è in classe osserva come ogni allievo si comporta in una situazione di gruppo, che può essere in modo molto diverso da quello che manifesta in altri contesti. Questa prospettiva è interessante in quanto aiuta l’insegnante a osservare quanto succede in classe non come responsabilità dei vari Piero, Giovanni, Teresa, ma come fenomeno dove è il gruppo ad esprimere una dinamica emotiva o pensieri di fuga rispetto al compito servendosi dei vari Piero, Giovanni, Teresa.”3 Possiamo da questo comprendere anche l’insuccesso di certi interventi educativi, esempio, quelli contro il bullismo, nel momento in cui seguono una strategia orientata all’individuo. Colpire il bullo con un 5 in condotta, può rappresentare per lui una medaglia all’onore e rinforzare la vittima nel suo ruolo. Ma se il bullismo, per le sue caratteristiche proprie (l’intenzionalità della violenza volta a creare un danno, la ripetizione costante del gesto verso la stessa vittima, l’inferiorità fisica o psicologica della vittima), rappresenta un’incompetenza conflittuale (a stare nel conflitto)4, allora la strategia più efficace è quella di agire sul gruppo-classe, che si assuma il disagio e intervenga ‘smontando’ il bullo e ridando dignità alla vittima. Agire sul gruppo implica capirne i dinamismi e riconoscerne i bisogni che sono differenti da quelli individuali: 2
M. De Beni, Educare all’altruismo, Erikson, 2000, Trento, pag. 15. S. Loos, R. Vittori, Gruppo gruppo delle mie brame… Giochi e attività per un’educazione cooperativa a scuola, Ed. Gruppo Abele, Torino, 2005, p. 12. 4 Vedi D. Novara, L. Regoliosi, I bulli non sanno litigare! L’intervento sui conflitti e lo sviluppo di comunità, Carocci, Roma, 2007. 3
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BISOGNI INDIVIDUALI gli stessi in ognuno, la loro soddisfazione è condizione necessaria per l’esistenza del gruppo. Sono: §
Bisogno di identità
§
Bisogno di stima e autostima
§
Bisogno di sicurezza
§
Bisogno di contribuzione, contributo
BISOGNI DI GRUPPO per sentirsi tali o
Bisogno di appartenenza e coesione, definendo chi appartiene al ‘noi’ fissando
norme, valori, linguaggi e rituali percepiti come propri o
Bisogno di uniformità interna e di differenziazione dall’esterno
Il leader o coordinatore deve riuscire a integrare i bisogni individuali con quelli del gruppo Cosa si può apprendere in un esperienza di gruppo? -
le idee e le conoscenze circolano: condivisione di conoscenze, saperi
-
la propria identità diventa più consapevole: ciascuno si specchia negli altri e può arricchire la
conoscenza di se stesso tramite la dinamica psicologica del ‘mi sento simile a te in…’, ‘mi sento diverso in…’. Gli altri tramite il feedback contribuiscono a rimandare ad ognuno le proprie caratteristiche. -
Gruppo come luogo della molteplicità, della diversità, ci si scopre sempre più simili e diversi dagli
altri, per cui è luogo per apprendere e integrare le diverse posizioni, invece che conformarsi a quelle del più forte. -
Per imparare ad ascoltare ed essere ascoltati, cercare insieme soluzioni a problemi comuni,
costruire risposte a domande importanti con il confronto -
Imparare a prendersi cura reciprocamente e dell’ambiente, sviluppando senso di responsabilità
individuale e collettivo -
Si può imparare come lavorare insieme in modo tale che ognuno raggiunga il suo obiettivo e il
prodotto, ciascuno si senta valorizzato per il proprio contributo.
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CONDIZIONI DI COESIONE DEL GRUPPO Per il buon funzionamento di un gruppo, la soddisfazione dei suoi membri deriva anche dalla consapevolezza di una serie di elementi che costituiscono il setting di lavoro di gruppo stesso. Sono elementi oggettivi e non dipendono dalla buona volontà delle persone : o ci sono o… non ci sono ed allora se ne avverte la mancanza. Ricordiamoci che nella vita di gruppo non è soltanto importante il prodotto ma anche il processo che il gruppo mette in atto nel suo lavoro Le condizioni che influenzano la coesione del gruppo, e che, quindi, ne rappresentano il collante, sono quelle che elenchiamo qui di seguito:
dipendenza, dimensioni, appartenenza omogenea e stabile, comunicazione, isolamento, pressione esterna, competizione, obiettivi, successo
Dipendenza E’ il bisogno di appoggiarsi agli altri. Maggiore é la dipendenza, maggiore é l’attrattiva che il gruppo esercita sul singolo. Il leader deve adoperarsi per sviluppare nei suoi subordinati questo tipo di dipendenza, definibile anche con la frase fatta di “spirito di corpo” e indirizzarla verso lo svolgimento del compito assegnato al gruppo. Di fronte all’emergere di un gruppo informale, deve prima chiedersi come mai i suoi collaboratori, o anche soltanto alcuni di essi, lo ritengano più affidabile di quello formale; poi, vedere se e in quale misura questa nuova dipendenza incida sullo svolgimento del compito; e, finalmente, adoperarsi perché l’affidabilità del gruppo formale divenga a soddisfare le aspettative di tutti i suoi membri. Dimensione Più ampio é il gruppo, minore é la coesione. In un grande gruppo le interrelazioni individuali sono fortemente ridotte. Il leader deve stare molto attento innanzitutto alle dimensioni del suo gruppo di lavoro, eventualmente suddividendolo in due o più sottogruppi. Quindi, nell’eventualità che affiorino segni dell’insorgere di un gruppo informale (per esempio: due o tre componenti il gruppo che seggono sempre
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agli stessi posti, che parlottano frequentemente tra loro), intervenire cautamente, sia inserendo questi personaggi in un gruppo più ampio, sia modificando, poniamo, la disposizione dei posti nel luogo in cui avviene la riunione. Appartenenza omogenea e stabile La condizione è essenziale al perseguimento degli obiettivi del gruppo. Una disomogeneità di appartenenza può tradursi nella nascita di sotto-gruppi. Membri non stabili non si sentono sufficientemente legati al gruppo. Il leader può e deve intervenire per rendere stabile la partecipazione alle attività del gruppo di coloro che tendono ad estraniarsene e che, spesso, danno vita ad un gruppo informale. Comunicazione Per funzionare, il gruppo ha bisogno che i suoi membri comunichino tra di loro. Maggiore è il flusso di comunicazioni, maggiore é la coesione del gruppo. Spesso, il gruppo informale scaturisce dalla capacità di alcuni di trovare e di adottare un linguaggio più facilmente comprensibile. Non di rado, all’origine di questa situazione c’è la incapacità del leader di trovare un linguaggio che sia mediamente comprensibile alla totalità del gruppo. E’ molto facile, in queste circostanze, che emerga un leader informale con migliori e maggiori capacità di comunicazione. Isolamento L’isolamento fisico del gruppo ne aumenta la coesione. Non a caso, i gruppi informali si scelgono il luogo in cui riunirsi e vi restano fedeli. La diversità materiale dagli altri, comunque, é un fattore essenziale d coesione. Non è difficile, per il leader, sempre che l’isolamento sia negativo ai fini del gruppo formale, contrastare la circostanza. Per esempio: evitando che le stesse persone occupino sempre gli stessi posti; oppure, nel caso di riunioni successive, stabilendo a priori i posti che occuperanno i singoli membri. Pressione esterna In situazioni di tensione, gli esseri umani tendono a raggrupparsi. Quando esiste un pericolo esterno, le differenze individuali tendono a minimizzarsi e la coesione del gruppo ad aumentare. Spesso, la fonte della pressione esterna é l’azienda, dalla quale i singoli tendono a difendersi. Il leader deve saper mediare tra le esigenze dell’azienda e quelle del gruppo. Tuttavia, altrettanto spesso, la fonte della pressione è lo stesso gruppo nel quale alcuni membri potrebbero non sentirsi a loro agio. Come abbiamo detto, queste tensioni latenti devono essere portate alla luce e risolte dal gruppo stesso.
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Competizione La competizione può essere considerata sotto due prospettive: quella tra i membri del gruppo e quella tra il gruppo e gli altri gruppi. La prima prospettiva può distruggere la coesione del gruppo. La seconda,invece, la rafforza. Espediente classico è quello di creare una situazione “tutti-noi-contro-tutti-gli-altri” invece che “alcuni-di-noi-contro-tutti-gli-altri”. Spesso, in fase di gestione delle risorse umane, si tendea mantenere stabili alcuni sono-gruppi che evolvono fatalmente verso l’informalità e, quindi, versol’estraniazione dal gruppo formale. Obiettivi La comunanza di obiettivi consolida la coesione del gruppo. Viceversa, un divario di valutazione individuale degli obiettivi comuni può distruggere la coesione. Il leader deve stare attento a che gli obiettivi perseguiti siano compresi e condivisi da tutti i componenti il gruppo. Qui può riaffiorare l’idea dell’ordine del giorno personale”, nel senso che alcuni dei membri del gruppo informale potrebbero perseguire obiettivi propri o anche semplicemente l’obiettivo di sabotare il lavoro del gruppo. Successo Il successo del gruppo ne rende l’appartenenza più motivante, così come l’insuccesso suggerisce ai suoi membri di allontanarsene. Il gruppo informale tende a conquistarsi un successo in contrapposizione al gruppo formale. E’ una eventualità negativa che il leader deve contrastare o adoperandosi perché il gruppo formale raggiunga il successo o evitando che sia quello informale a raggiungerlo. IL GRUPPO COME SISTEMA COMPLESSO Non basta proporre dei lavori collettivi perché il gruppo impari a lavorare insieme. GRUPPO è un sistema complesso. K. Lewis per primo invita ad osservare il gruppo non come un insieme di membri ma come un entità con una propria struttura e modalità di funzionamento a volte indipendente dalla volontà dei singoli, cioè come un sistema (Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, il Mulino, 1972). Qualità essenziale è l’INTERDIPENDENZA dei suoi membri, per cui basta assenza o arrivo di qualcuno che le dinamiche interne cambiano. La vita in gruppo porta alla definizione di una visione della REALTA’ condivisa. Chi non la condivide, il ribelle, viene poco per volta rifiutato. Inoltre, in un gruppo ognuno mostra solo alcuni aspetti della sua personalità. IL GRUPPO E’ UNA TOTALITA’: ognuno influenza gli altri e viene influenzato dal gruppo, in un rapporto di circolarità e non di relazione causa-effetto. Il comportamento di ciascuno è in stretto rapporto a quello degli altri, dipende dal gioco di rispecchiamenti reciproci e dal ruolo che ognuno ha nel gruppo. Per questo il comportamento in gruppo può risultare diverso da quello che il singolo tiene fuori. Per cui il
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comportamento di uno (Giacomo, Teresa,..) non va visto solo come responsabilità del singolo ma come fenomeno dove è il gruppo ad esprimere una dinamica emotiva e pensieri di fuga rispetto al compito servendosi dei singoli (Giacomo, Teresa,…). Spesso il gruppo incanala su dei singoli la sua aggressività facendoli apparire come i ‘cattivi’, oppure li mette alla berlina o li isola. Questo fa riflettere per cui sul livello degli interventi educativi! IL GRUPPO E’ UNA PLURALITA’ IN INTERAZIONE. Nel gruppo le persone comunicano in modo circolare per produrre significati comuni. Il clima in cui avviene la relazione è determinante per il processo di apprendimento: in esso si intrecciano sentimenti legati al valore della propria identità e sentimenti legati al processo di apprendimento inteso come lavoro. Il primo e il secondo rispondono alle stesse domande: ‘chi sono io per gli altri? Quanto valgo?’ IL GRUPPO COME SISTEMA APERTO E DINAMICO. Ogni gruppo è in constante relazione con l’ambiente esterno modificandolo e modificandosi a seconda dei cambiamenti del contesto. Questo significa che alcuni fattori di contesto possono influenzare anche le dinamiche relazionali e organizzative: orari, spazi, numero, disposizione,… FASE DI VITA DEL GRUPPO 1 - INTERAZIONE dove tendono ad emergere soprattutto somiglianze, creando legami che fanno percepire il vantaggio di stare in gruppo à si sviluppa così la COESIONE, primo collante che permette condivisione delle regole: sentimento di appartenenza a un insieme che si manifesta come ‘noi’ 2 - l’INTERDIPENDENZA: si inizia a percepire l’importanza dello scambio reciproco e dell’apporto degli altri nella vita del gruppo. Emergono anche le differenze tra i membri, tra bisogni individuali e di gruppo, tra interessi particolari e obiettivo comune. Presuppone l’elaborazione dei confini e dei limiti. à porta alla NEGOZIAZIONE per arrivare alla fase successiva attraverso la COOPERAZIONE 3 – INTEGRAZIONE, dove le singole competenze vengono messe in atto per raggiungere l’obiettivo
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LE TECNICHE D’ANIMAZIONE DI GRUPPO Che cos’è una tecnica di animazione? Una tecnica di animazione non è soltanto un espediente per attirare l’attenzione, per vivacizzare un po’ una lezione noiosa. Non è un intervallo per rendere più accettabile un lavoro troppo serio. Una buona tecnica, inserita in una programmazione ragionata, può diventare un elemento di mediazione, un ponte tra le teorie pedagogiche e la prassi educativa quotidiana. Il successo della tecnica di animazione ha inevitabili ripercussioni positive sul clima di gruppo. Ogni membro ne rimane gratificato nei suoi bisogni fondamentali, mentre tutto il gruppo riconosce di aver realizzato qualcosa e di aver raggiunto un obiettivo.
Perché funziona? I motivi per cui le tecniche di animazione funzionano sono veramente tanti. Proviamo a elencarne alcuni: sono quelli che abbiamo potuto constatare nella nostra esperienza. Le tecniche di animazione… permettono di esprimere il proprio parere senza esporsi immediatamente alle critiche altrui; salvaguardano il diritto di chi parla ad essere ascoltato; sfruttano le energie di gruppo legate tanto alla competizione quanto alla cooperazione; sono divertenti come un gioco; aiutano a sospendere i giudizi; hanno regole precise; tutelano i timidi; incuriosiscono; rendono il gruppo protagonista; sorprendono; limitano i tentativi di monopolizzare la discussione; mirano a un preciso risultato; coinvolgono tutti; regolano i conflitti; creano nuove associazioni mentali; limitano gli sprechi di tempo In una parola: sono efficaci! Soddisfano i bisogni individuali e migliorano il clima di gruppo. Ogni tecnica è un corroborante che esalta dinamiche positive, cercando di imbrigliare quelle negative.
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GESTIRE I CONFLITTI Possiamo ben distinguere tre diversi modi di intendere il conflitto. Analizzarli ci sarà utile per comprendere come certi interventi siano efficaci e altri no, in base al paradigma culturale che abita la nostra mente rispetto a questo tema. Il conflitto come esperienza negativa In questo caso il conflitto è una piaga, una malattia da sanare, un’erbaccia da estirpare ed eliminare, altrimenti ne può derivare solo il contagio o l’infestazione delle parti buone che ne vengono investite mortalmente. Le strategie che questa visione suggerisce sono basate sull’opposizione netta e dura al conflitto e la proposta di un modello di vita armonica e felice: bloccare duramente ogni tensione richiamando all’attività che si sta svolgendo; richiamare i ragazzi con un discorso sul rispetto reciproco, l’amore vicendevole, il perdono; intervenire in modo autoritario, individuando i colpevoli e punendoli come esempio per tutti e disincentivo per gli altri. Il conflitto come esperienza naturale Da che mondo è mondo gli uomini litigano sempre tra loro! Da Caino e Abele in poi, chi è che non litiga o bisticcia per grandi (vedi le guerre) o piccole cose. Anche due innamorati che si sono scelti e non si sono ritrovati insieme per caso, hanno i loro problemi di coppia! Il conflitto c’è, per cui non si può far altro che accettarlo come evento inevitabile e naturale. Anzi… più si discute e ci si sofferma, più lo si alimenta e gli si da importanza! Meglio lasciar correre, tanto prima o poi passa. In fondo si tratta di ragazzi e sono problemi che devono affrontare e chiarirsi tra loro, come abbiamo fatto anche noi alla loro età. Il conflitto come opportunità di cambiamento Questa è la prospettiva da noi proposta come opportunità educativa. Nell’illustrarla partiamo da un confronto con le altre due: il conflitto può avere un suo lato negativo, come conseguenza di un processo mal gestito che sfocia in violenza (verbale e/o fisica) o divisione; il conflitto è un dato ineliminabile all’interno delle relazioni sociali, ma proprio perché è dentro il linguaggio delle dinamiche interpersonali, il processo che ne deriva può essere
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guidato intenzionalmente in chiave educativa, per trarne dei cambiamenti o acquisire nuovi significati utili al gruppo. Il conflitto, allora, pur essendo un elemento naturale insito in ogni relazione sociale, può (se ben gestito) divenire un’opportunità educativa. Non si tratta di eliminarlo, di fare discorsi moralistici, usando termini ed espressioni che i ragazzi già conoscono, oppure di far finta di nulla, ma di guidare e gestire la situazione di scontro da parte degli educatori, intenzionalmente verso un obiettivo di crescita. Non eliminare ma gestire il conflitto
L’uso delle strategie suggerite dalle prime due concezioni di conflitto non porterà a nulla, se non a effetti controproducenti: impossibilità di proseguire l’incontro, aumentare la tensione reciproca e rinforzare i ruoli di vittima e aggressore. Infatti, ritenere di risolvere tutto con un 5 in condotta o punire in altro modo esemplare chi riteniamo il colpevole di una situazione di scontro, spesso porta il ragazzo punito a rinforzare questo suo lato negativo. Sfoggerà il suo 5, o la sua nota, come atto di forza, come ultima ratio usata dal corpo decente per piegarlo, per cui, una vera e propria «medaglia al valore incivile»; allo stesso tempo il ruolo della vittima sarà rimarcato agli occhi del gruppo. Il ruolo dell’educatore nella situazione di conflitto L’educatore deve tenere presente che il conflitto che si genera nel gruppo è un problema che riguarda i ragazzi tra loro ed è bene che mantenga un ruolo super partes. Solo in questo modo potrà attivare un processo reale di risoluzione e crescita. Se assumiamo la posizione di una delle due parti in conflitto, perdiamo il nostro ruolo di facilitatore e ci screditiamo agli occhi di alcuni dei ragazzi che potrebbero accusarci: «Ecco, te la prendi sempre con noi! È sempre colpa nostra! Non è giusto!». Partiamo dal presupposto che è difficile risalire all’origine di un conflitto per definire chi è il vero colpevole: quando si litiga, tutti ne sono in parte responsabili. Una strategia per gestire il conflitto Proviamo allora a seguire la seguente strategia: creiamo un contesto in cui ognuna delle parti possa esprimersi liberamente e narrare la sua versione. Per fare questo è necessario comunicare con chiarezza che per un tempo determinato, 15-20 minuti (per evitare che alcuni se ne approfittino vedendo in questa disponibilità una scusa per bypassare la lezione o l’incontro), interrompiamo l’attività che si stava svolgendo, per chiarire cosa è avvenuto;
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sottolineiamo questo stacco, dove possibile, anche con una diversa disposizione nella stanza, ad esempio sedendoci in cerchio; specifichiamo che si ascolteranno le versioni delle parti in conflitto, senza commenti o interruzioni. È richiesto ai ragazzi di parlare in prima persona e di non generalizzare. Questo aiuterà i presenti a comprendere cosa c’è stato dietro una reazione, un certo comportamento, quali sentimenti o emozioni lo hanno mosso; capire che ognuno ha la sua versione di una situazione e, per crescere, è necessario saper assumere anche il punto di vista dell’altro, se vogliamo comprendere gli effetti che una nostra azione può provocare; raccolte le versioni, ascoltati gli interventi di alcuni compagni per aiutarci a capire meglio e descrivere la situazione (e non interventi giudicanti o svalutanti), si chiede ai ragazzi come risolverla. Perché il conflitto è il loro! Il nostro compito, per generare un vero processo di appropriazione del problema, non è tanto il dare una risposta preconfezionata, quanto quello di guidarli verso una soluzione autonoma; se poi la soluzione risulterà in futuro insoddisfacente, si tornerà sul problema e si cercherà un’alternativa. Educare è attivare dei processi di crescita e, per fare questo, è richiesto del tempo e anche la possibilità di sperimentare tentativi ed errori. Teniamo però presente un aspetto del conflitto: non sempre è possibile giungere a una soluzione ottimale per tutti. Certi conflitti sono complessi e complicati e la soluzione risulta difficile da determinare in un dato momento. Questo ci permette di ribadire il concetto che l’educatore mira più ai processi che hai prodotti. Se anche una soluzione non è stata trovata come avremmo voluto, l’aver portato i ragazzi a confrontarsi, ad ascoltare le reciproche esigenze, bisogni ed emozioni, ha prodotto un processo di crescita e di rinforzo delle relazioni interpersonali e di maggiore maturità e consapevolezza nella loro gestione.
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LA COMUNICAZIONE NEL GRUPPO Fra i vari atteggiamenti dell’animatore, quelli valutativi sono sicuramente da evitare se si vuole raggiungere una produttiva e gratificante comunicazione nel gruppo. Come dice la parola stessa, consistono nel dare giudizi di valore sulle intenzioni degli altri. <
>: frasi del genere provocano sensazioni di disuguaglianza morale (nel gruppo c’è chi è migliore e chi è peggiore) e inducono nel ricevente un senso di dipendenza oppure di rifiuto. I frutti di questo stile sono: una continua ricerca di approvazione, sensi di colpa, atteggiamenti difensivi, ribellioni, dissimulazioni, paure. Le energie del gruppo disponibili per la discussione vengono assorbite nella domanda: Che cosa devo dire (o non dire) per essere accettato? Proponiamo una tabella di atteggiamenti frequenti che sono recepiti da chi ascolta come una valutazione (o svalutazione) della persona, delle sue capacità, delle sue intenzioni, della sua moralità. Non sono valutazioni in senso stretto, ma mettono la persona sotto pressione e per questo costituiscono una possibile minaccia all’immagine e alla stima che ognuno ha di sé, e che non desidera vedere compromessa. Le cose da non fare comunicando ( barriere ) CRITICARE Non stai attento a..... non capisci nulla GIUDICARE Ti comporti come un bambino IMPORRE Si deve fare così MINACCIARE Se non fai io....tu..... MORALIZZARE Dovresti capire che ....è bene che.... SVALUTARE “ Ma lascia perdere” pensa a… INCALZARE E' così no? Rispondi fammi un esempio. Perché non dici nulla? ACCUSARE Stai polemizzando invece di ascoltare PREVARICARE Lascia stare, faccio io! ISOLARSI Con voi non parlerò più Ecco allora una possibile serie di rimedi a disposizione dell’animatore. Si tratta di atteggiamenti che esprimono fiducia, accoglienza, sostegno: il clima di gruppo ne risentirà positivamente in breve tempo. Le cose da fare comunicando ( facilitazioni ) FARE DIAGNOSI Mi sembra di capire che CONSIGLIARE Se fossi al tuo posto farei RAZIONALIZZARE Tieni conto che ...Cerca di capire che
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RASSICURARE C'è sempre un aspetto positivo APPROVARE …ecco così mi piaci RISPETTARE Prendiamo atto di quello che dici, ...capisco il tuo punto di vista COINVOLGERE Sentiamo il parere di INCORAGGIARE Sarebbe interessante approfondire RICHIAMARE Teniamo presente che… PORRE DOMANDE, RIFORMULARE Raccontami meglio, potrei avere capito male… UN DECALOGO PER LA BUONA COMUNICAZIONE 1. Ciascuno parli per sé e non al posto di un altro Se chiedi ad un giovane di parlare della sua parrocchia, non lasciare che sia l’animatore a rispondere. Quando si chiede a qualcuno di esprimere i propri sentimenti, è facile che incominci a parlare d’altro. 2. Non leggere la mente altrui E’ un processo insidioso presumere ciò che l'altro sente o pensa dentro di sé e agire su questa percezione non verificata. Quando uno interpreta il cuore altrui, chiedi all'altro se si sente interpretato bene. In ogni caso, è meglio non accettare presunzioni non verificate. «Mario ritorna a casa stanco dalla mattinata scolastica e quatto quattro si mette davanti alla TV. La mamma presume che lui sia ancora arrabbiato con lei per la discussione di ieri sera. Di fatto non è così, ma lei non lo ha verificato e si arrabbia con lui perché lui è il solito musone che si lega le cose al dito». 3. Non interrompere l’ altro mentre parla. Se lo si fa, si crea una comunicazione reattiva dove la risposta è basata sulla reazione epidermica suscitata dal dire altrui e non contiene quindi la comunicazione originale del cuore di chi ha interrotto. Procedendo per reazione si arriva dopo un po' alla fuorviante conclusione: «Ma non era questo di cui volevamo parlare!». 4. Evitare i doppi messaggi. Il nuovo catechista è irritato. Quando il parroco gli chiede i motivi ha risponde con un mugolio: «Niente». Il primo messaggio (muso) sconfessa il secondo: se è vero il primo il secondo è falso. Un doppio messaggio frequente: chiedere all'altro di cambiare e poi fargli la lista di tutte le ragioni per cui non può o non vuole cambiare. A parole gli si sta dicendo: «Cambia» e con i fatti gli si dimostra: «Non puoi farlo». Quale dei due messaggi deve essere ricevuto? 5. No agli intermediari. La comunicazione deve essere diretta e non tramite mediatori (il resp.le della Commissione Vicariale che parla al resp.le della PG parrocchiale tramite l’amico che ha in parrocchia). E un segno di crescita parlarsi direttamente. 6. Niente allusioni, ironia, sottintesi. E’ meglio non permettere accuse vicendevoli che servono solo per una reciproca critica e disprezzo.
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7. Non rinvangare il passato. Piuttosto che concentrarsi sugli errori passati è meglio ipotizzare soluzioni future. Il passato non viene rievocato con fedeltà ma estraendo da esso selettivamente ciò che serve a conferma della propria tesi. 8. Un argomento alla volta. Di solito si portano tanti problemi contemporaneamente quando ormai si ha la sensazione di star perdendo la partita. Una strategia di questo genere serve solo a confondere ulteriormente la situazione. 9. Esprimere le richieste in modo positivo. Anziché lamentarsi o criticare, esprimere in modo chiaro e diretto che cosa ognuno vuole dall'altro. 10. Aspettare 5 secondi prima di rispondere. Per evitare risposte reattive o parallele, occorre lasciare decantare in noi il messaggio ricevuto e avere il tempo di dirsi «cosa ha voluto dirmi?». Si riesce così a distinguere la punteggiatura altrui da quella che noi diamo a quel messaggio ricevuto. 11. Parlare in «io» e non in «tu». Un'affermazione in «tu» è una espressione indiretta dei propri sentimenti e un attacco diretto nei confronti dell'altro. Invece un'affermazione in «io» è una espressione diretta dei propri sentimenti senza un attacco all'altro. “Avevo chiesto a Giovanni di farmi un piacere ma lui se ne è dimenticato. Sono delusa.” Affermazioni in «tu»: Sei il solito distratto. Non fai un piacere neanche a morire. Ma le tue cose, quelle no, non te le dimentichi mai... Affermazioni in «io»: La tua dimenticanza mi ha fatto davvero arrabbiare; contavo su di te; per me era importante (si esprime lo stesso rammarico, ma senza accuse). 12. Quando si ascolta con le orecchie dobbiamo usare anche il resto del corpo. Tutto il nostro corpo comunica all’altra persona che lo vogliamo ascoltare e quindi che ci sta a cuore quello che ci sta dicendo. E’ importante quindi avere una postura corretta, leggermente tesa verso l’altro/a, evitando di fare altre cose mentre si ascolta (come sbirciare il giornale o la tele). Lo sguardo deve essere rivolto verso gli occhi dell’altra persona, distaccandolo ogni tanto per evitare di sembrare troppo invadenti. Evitiamo quindi l’incrociare delle braccia sul petto ed altri gesti barriera, oltre che atteggiamenti di supponenza o di distacco.
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PICCOLA BIBLIOGRAFIA UTILE F. Carletti, D. Castellari, G. Carpi, SOS Creatività. Soluzioni creative per casi impegnativi, Paoline 2013. F. Carletti, E. Gatti, D. Simonelli, 1+1=3 La matematica dell’amore, Paoline 2012 Alfredo Cenini, E. Carosio, Accomodati qui si sta bene , Paoline, Milano , 2012 Consuelo Casula, I porcospini di Schopenauer, Francoangeli, 1998 Klaus W. Wopel, Giochi interattivi, vol I-VI, LDC, Leumann, Torino Jerome K. Leiss, La comunicazione ecologica, Ed La Meridiana, Molfetta (BA) 1992. Bonino S., Caprara G. V., Il comportamento prosociale. Aspetti individuali, familiari e sociali, Erikson, Trento, 2006. de Certeau M., Mai senza l’altro, Qiqajon, Magnano (BI), 2007. Loos S., Vittori R., Gruppo gruppo delle mie brame… Giochi e attività per un’educazione cooperativa a scuola, Ed. Gruppo Abele, Torino, 2005. Novara D., Regoliosi L., I bulli non sanno litigare! L’intervento sui conflitti e lo sviluppo di comunità, Carocci, Roma, 2007. Andrea Farioli, Api, leoni, gechi e leprotti, Paoline, Milano 2007 re, EDB, Bologna 2002
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