Lager – Opere di Michele Piva Udine, Palazzo Morpurgo, venerdì 25 gennaio 2013 con Michele Piva, Furio Honsell, Luigi Reitani e Marco Biscione
Molte cose importanti sono già state dette dal sindaco Honsell, dall’assessore Reitani e del direttore Biscione ed è probabile che voi adesso vi aspettiate da me una presentazione di tipo prevalentemente artistico dell’opera di Michele Piva che è ospitata in queste sale. Ebbene, temo che vi deluderò perché non sono solito presentare mostre d’arte. Sono stato per molti anni caporedattore del settore cultura di un quotidiano, ma, pur se abituato a coordinare e a valutare l’opera dei critici che lavoravano per il Messaggero Veneto, di certo non sono specializzato nell’analizzare opere d’arte. Se questa volta, pur non possedendo i parametri del linguaggio specifico usato per queste circostanze, mi sono lasciato tentare da un’impresa che sento per me inconsueta, questo è accaduto in quanto nell’opera di Michele Piva – che ringrazio molto per avermi invitato a essere qui – ho trovato qualcosa che ha mosso il mio animo, come evidentemente ha mosso gli animi di molti, visto che questa mostra ha continuato a girare per tante città italiane prima di ritornare oggi qui a Udine dove è nata nel 1970, quando dalla fine dei Lager erano passati soltanto venticinque anni. Credo che questa capacità di colpire e commuovere, di evocare e di far pensare, dipenda molto dalla capacità di Piva di combinare sapientemente l’astrattezza della forma con la concretezza di una materia assolutamente non scelta a caso, e seguendo un pensiero limpido, cosciente e deciso nel suo orientamento etico e sociale. Comincerei parlando dell’uso di forme astratte, di tratti essenziali che credo siano gli unici in grado di far intuire cosa davvero possa essere stato un campo di sterminio nazista anche al di là di quelle raggelanti fotografie in bianco e nero scattate sia dagli aguzzini, sia dai liberatori, foto che sono tanto crudeli da diventare quasi incredibili perché, oltre un certo livello, la crudeltà è irrappresentabile, è inesprimibile. Giustamente, parlando proprio di questa stessa mostra, nel 1970 Tito Maniacco aveva scritto che quella che dominava nei Lager «non è la morte come la conosciamo, che è uno spettacolo umano; è la morte come una negazione assoluta che viene poi espressa nella banalità tragicamente borghese dei pedanti rendiconti stesi su fogli accurati. È la contabilità che rende inesprimibile il Lager». Si potrebbe dire che l’arte ha i movimenti del pudore e che non può dire le cose direttamente se vuole davvero penetrare nell’anima di chi guarda, suscitando commozione, dolore, vergogna, per quello che è successo. Credo che l’astratto sia necessario in quanto il realismo mi sembrerebbe del tutto inadeguato a descrivere quello che è accaduto. L’arte – se è davvero tale – non spiega, ma fa capire. Come sono capaci di far capire i quattro soli appesi sotto il porticato esterno, soli malati e squarciati con delle tonalità di rosso scuro e marrone sui bordi degli squarci e con striature di varie intensità sulle tonalità del marrone. Oppure i quadri dell’altra stanza nei quali alcuni semplici tratti sono in grado di evidenziare fili spinati e prigionie all’interno delle quali prorompono con forza drammatica le citazioni di alcune scritte di prigionieri che testimoniano le crudeltà umane
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con l’ineguagliabile forza delle parole. O, ancora, i volti attoniti e scheletrici di morti che ancora rifiutano di sentirsi tali. Se a prima vista sarei stato portato a parlare di opere astratte, in realtà non riesco a considerarle davvero tali, sia perché nel contatto con la nostra anima suscitano emozioni assolutamente concrete, sia in quanto i vari quadri si snodano in un percorso che si basa su una successione temporale (e il tempo di astratto non ha davvero nulla), sia per l’uso di materiali che con la realtà hanno un contatto forte ed evidente, la cui importanza è dimostrata proprio dal confronto con i pur bei disegni preparatori esposti nella sala iniziale nei quali, però, manca la fisicità dei materiali su cui ora vorrei soffermarmi brevemente, parlando, appunto, di legno e di ferro. Un legno che richiama inevitabilmente alla memoria le baracche in cui stavano le vittime e le torrette sulle quali si collocavano alcuni degli aguzzini. E, proprio come quello delle baracche, è un legno graffiato quasi fosse stato aggredito da unghie che si sono consumate cercando di aprire un’impossibile via verso la salvezza. È un legno dipinto di marrone scuro, dello stesso colore della terra nuda di un freddo autunno in cui la vita vegetale è già morta, o di un rigido inverno nel quale quasi svanisce la speranza che la vita – miracolo sempre ripetuto, ma pur sempre miracolo – possa rinascere. Perché, se ci pensate, nei Lager che ci raffiguriamo nella nostra mente non esistono né primavera, né estate quasi che il gelo del cuore dei nazisti rendesse inevitabile il freddo della natura circostante Il ferro, invece, non può non ricordare quello delle armi, del filo spinato, dei forni crematori. Un ferro, in forma di povera lamiera, che viene lacerato e tagliato dall’artista con il terrificante getto di calore della fiamma ossidrica che lascia i bordi del taglio di un colore grigio che appare vivo e brillante, eppure raggelante, come vivo e brillante è il colore delle cicatrici su un corpo umano; colore capace di far rabbrividire chi lo vede perché la vista di una cicatrice non può essere separata dal pensiero di cosa a quella cicatrice possa essere collegato, in termini di sofferenza fisica e mentale, in termine di terribile confronto tra l’uomo e il dolore; in questo caso, tra l’uomo e la crudeltà. E sul ferro, di tanto in tanto, è sparso quel rosso scuro del sangue delle vittime che è appena stato assorbito dalla terra, ma che non riesce a nascondere quella ruggine creata dal tempo, dalle intemperie, forse dall’inaccettabile annacquarsi dei ricordi. Soltanto in un caso il metallo appare ancora lucido e capace di riflettere la luce, ma è potentemente graffiato e ridotto, come dimensioni, rispetto al dilagare del ferro dolorante. Appare nel primo quadro della serie, quello dedicato ai Pogrom, quando l’antisemitismo stava dando le prime prove della sua ferocia, quando ancora, per piccini desideri di tranquillità, si faceva finta di non vedere quello che era già terribilmente evidente a tutti coloro che non si rifiutavano di guardare. Quella del Pogrom è la prima stazione di una specie di Via Crucis laica, una Via Crucis con undici stazioni soltanto e non con quattordici, ma non per questo meno dolorosa. E Michele Piva segue questo itinerario di strazio e vergogna con rigore e senza la minima intenzione di dissimulare, né di dimenticare. E dal Pogrom si passa alla Prigione, in cui la fiamma ossidrica incide rettangoli chiusi dentro i quali si consuma, nel dolore delle torture e nella disperazione delle privazioni e del buio, la prima tappa verso la morte per milioni di persone. È uno dei quadri in cui il metallo è nettamente pre-
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ponderante rispetto al legno, a ricordare che quella prigione già toglie ogni illusione per quello che accadrà dopo. Dalla Prigione si passa ai Vagoni piombati, la composizione in cui forse di più possiamo sentirci nella posizione dei deportati poiché la nostra vista è bloccata quasi interamente dalla presenza del metallo, tranne che per una fessura irregolare, quella stessa fessura che ogni tanto, pur in diverse forme e dimensioni, era presente nei carri merci che venivano utilizzati in questo disumano tragitto verso una disumanità ancora maggiore. Che poi da quella fessura si possa intravvedere soltanto un mondo scuro e sfregiato, rende ancora più evidente l’impotente disperazione di coloro che furono deportati dai fascisti e dai nazisti. La quarta composizione ci porta nei Lager propriamente detti in cui apparentemente il ferro vede diminuiti dimensione e potere, ma che, invece costituisce una barriera impenetrabile tra il dentro e il fuori con l’aggravante che la speranza cessa completamente di esistere perché gli stessi graffi, le stesse ferite che si vedono all’interno dei campi ci sono anche fuori dove vivono quelli che Daniel Goldhagen ha definito “i volonterosi carnefici di Hitler” e dove la guerra è ancora lontana, come lontane sono ancora le truppe che renderanno possibile la liberazione degli scheletri sopravvissuti a quel Massacro che è descritto con segni decisi e trancianti nella quinta stazione di questo viaggio nella vergogna. E poi le Camere a gas con l’inconfondibile forma delle docce dalle quali non scendeva l’acqua, ma il Ziklon B, il gas venefico più usato per lo sterminio, e con quelle forme montagnose che personalmente vedo come quelle informi cataste di cadaveri che fotografie e filmati hanno impresso nelle nostre menti. E, ancora, i Forni crematori in cui è soltanto il metallo, tagliato e bucherellato a raggelare i sentimenti, quello stesso metallo che raffigura il Fumo che da quei camini usciva, un fumo pesante non soltanto perché portava con sé elementi umani combusti, ma soprattutto perché disperdeva definitivamente, in un’aria graffiata e lacerata, ogni residuo sogno di innocenza che l’umanità poteva ancora cullare. Un Fumo che si condensava, più che disperdersi, in pesanti Nuvole di grasso umano che oscuravano un mondo che non meritava più la brillantezza della luce. Infine, gli ultimi due quadri: il Menorot, o Menorah, e la Liberazione sui quali vorrei soffermarmi un momento di più perché sono i due che, a mio parere indagano con più profondità il passato e il futuro. Con la stilizzazione del candelabro ebraico a sette braccia Michele Piva non intende parlare soltanto dei sei milioni di ebrei sterminati dal nazismo. Credo che con la spaccatura tracciata nella stilizzazione della Menorah l’artista, pur non cancellando assolutamente il riferimento a Dio, intenda allargare la sua pietà a tutti coloro che sono stati sterminati dalla disumanità nazista. Perché sarebbe profondamente sbagliato pensare ai Lager e ai delitti nazisti identificando lo sterminio soltanto con la Shoah, con il massacro del popolo ebreo, e dimenticando coloro che per altri motivi sono stati assassinati dai sicari di Hitler. Bisogna pensare a tutti i diversi colori dello sterminio: la stella a sei punte gialla per gli ebrei, e tutta una serie di triangoli: rosa per gli omosessuali, marrone per i rom, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, rosso per i politici, verde per i prigionieri comuni. E nulla per gli handicappati mentali e fisici perché loro neppure arrivavano ai campi di sterminio visto che erano affidati a un fai da te omicida quasi casalingo in teoriche case di cura dove solerti medici e infermieri e fantasiosi spe-
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rimentatori provvedevano a eliminarli, come da poco ha magnificamente raccontato Marco Paolini nel suo “Ausmerzen, vite indegne di essere vissute”. Voglio dire che Piva non intende assolutamente dimenticare e far passare sotto silenzio quello stravolgimento mentale e religioso che Hans Jonas, un grande del pensiero, ha splendidamente descritto nel suo “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” in cui forse non ha istruito un vero e proprio processo, ma ha
messo in piedi nei confronti dell’Entità suprema, colpevole di aver permesso la Shoah, una penetrante requisitoria che contemporaneamente è stata anche una sofferta arringa difensiva. Sicuramente riprendendo quel senso di abbandono che gli internati provavano pensando al Creatore forse anche come reazione esasperata alla bestemmia nazista “Gott mit uns”. E un concetto molto simile è stato ripreso da Elie Wiesel, ne “La Notte” dove, ricordando Auschwitz, dice: «Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...». E lo scrittore, premio Nobel per la pace, si riferisce a un patibolo sul quale invano si rifiutava di morire un bambino impiccato dai nazisti. In questo caso poi difende il Creatore, ma lo stesso Wiesel, con “Il processo di Shamgorod”, ambientato nell’imminenza di un Pogrom che cancellò la popolazione ebraica di quel paesino polacco nel febbraio del 1649, mette in scena un vero e proprio processo a Dio, sempre sul medesimo tema. E in questo caso, pur non assolvendo Dio, Wiesel condanna soprattutto l’uomo, perché, se ad Auschwitz Dio – ammesso che uno creda nella sua esistenza – poteva anche non esserci, l’uomo avrebbe dovuto esserci per forza, avrebbe dovuto intervenire per impedire quella mostruosità, per mantenere la propria dignità di specie e per salvare anche la propria vita, perché nei Lager tutti hanno perduto una parte della propria vita. E in quest’ottica ci appare più chiaro anche il significato di quel “silenzio di Dio” che anni fa Giovanni Paolo II aveva portato all’attenzione generale quando aveva gridato: «Oltre alla spada e alla fame, c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità». Però in realtà il silenzio non è mancanza di parole: il silenzio è mancanza di rumore. E allora, forse, questo silenzio in realtà non esiste, perché il rumore lo sentiamo quasi dappertutto. Lo abbiamo trovato sul Golgota, a Shamgorod, ad Auschwitz, e lo troviamo ancora in ogni luogo in cui un uomo impone la sua violenza su un altro uomo. In questi casi mancano forse le parole, ma il rumore c’è ed è forte e assordante come una sirena d’allarme. Stridente. Anzi, per usare il termine più esatto, lacerante: perché ci lacera cuore, cervello e anima. E questo rumore esiste anche nelle morti dei bambini, nell’infanticidio, nella pedofilia, nel rendere schiavi donne e uomini, nel fare guerre e terrorismi, nell’essere razzisti ed eterofobi, nel rifiutare solidarietà, nell’affamare la gente, nel calpestare i diritti altrui pur di mantenere il potere e di aumentare i propri guadagni. Il male, insomma, è un grande costruttore di rumori e forse, in realtà, questi rumori sono talmente violenti da coprire le parole che in sottofondo, invece, magari continuano a esserci, ma che noi non riusciamo a percepire; forse più per nostra distrazione che per loro debolezza.
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Dio, insomma, non può fungere da alibi perché il limitare la malvagità altrui dipende soltanto da noi. Con le norme che ci siamo dati, ma soprattutto con la volontà in un impegno da cui nessuno può sentirsi escluso. Perché l’uomo non è necessariamente in balia del destino, ma è il destino a essere creato dall’uomo, con la sua dignità, il suo libero arbitrio, con la capacità di indignarsi e di dire “no”. Perché il “no” non è quel monosillabo che istintivamente viene considerato come antipatico simbolo della negazione, ma è, invece, parola bellissima perché caposaldo della libertà, base fondante non soltanto di ogni vera democrazia, ma anche dello stesso bene; perché permette il rifiuto di ragione e di coscienza e rende ridicoli quegli alibi che troppe volte nella storia abbiamo sentito provenire dal banco degli accusati dove c’erano persone – come Eichmann a Gerusalemme – che si difendevano ripetendo vacuamente: «Non ho fatto altro che eseguire gli ordini». E non vale neppure dire che si è travolti dalla storia, perché, come dice in modo poetico un cantautore intelligente e sensibile come Francesco De Gregori, «la storia siamo noi. Attenzione. Nessuno si senta escluso». Oppure, se vogliamo andare a cercare una citazione più dotta e anche leggermente più approfondita e complessa, perché, come ha scritto Albert Camus ne “L’uomo in rivolta”, «l’uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia; né del tutto innocente, perché la continua». E sono proprio queste ultime considerazioni a rendere evidentemente comprensibile l’ultimo quadro, quello della Liberazione, che spicca perché è l’unico che presenta un legno chiarissimo sul quale, però, continuano a esserci profondi graffi, o meglio sfregi, e anche due sottili ma pesantissime e cupe strisce di metallo, scuro come quello degli altri dieci quadri. Un metallo scuro che rimane a simboleggiare un ricordo incancellabile, ma che è anche e soprattutto il monito che questo orrore potrebbe ritornare e che – purtroppo lo vediamo spesso – non è mai scomparso. È un colore quasi bianco che Piva non può né ripulire dagli sfregi, né alleggerire dal metallo perché non vuole assolutamente far pensare a un ipotetico, ma irreale, lieto fine e neppure, però, a un’inumana rassegnazione. Piva può sollecitare la nostra attenzione e la nostra coscienza – e lo fa – ma il compito di ripulire lo sfondo e poi di riempirlo degnamente spetta a noi e a coloro che ci seguiranno. In quest’opera spicca, infatti – quasi per contrasto – l’obbligo del riconoscimento della dignità degli altri, la necessità di sforzarsi di conoscere tutti e anche di non limitarsi a definire “razzisti” i razzisti e “assassini” gli assassini, perché effettuando generalizzazioni di comodo rischiamo di diventare razzisti e assassini pure noi. Perché c’è sempre la tentazione di indulgere a quella voglia di generalizzazione che è estremamente comoda, che evita di fare la fatica di dover conoscere, di pensare, di ragionare e di scegliere, ma che finisce per togliere agli “altri” la vita reale, riducendoli ad astrazioni, e finendo per ammassare tutti in grandi, ipotetiche e improbabili, categorie di popoli, di etnie, di religioni, di gruppi linguistici, dimenticando, o facendo finta di non sapere, che anche la categoria in cui ci si vede incasellati è sicuramente vista con disprezzo da qualcun altro e che l’unica specie cui si deve fare riferimento è sempre soltanto quella umana. È la cultura, insomma, unita alla memoria, che deve sforzarsi a tenere vivi gli “altri” e a ricordare che l’umanità è così preziosa proprio perché è una sommatoria di individualità. È la cultura – quella cultura che purtroppo proprio in questi tempi si sta cercando di uccidere facendola morire di inedia – che deve ricordare a tutti che le parole “xenofobia” ed “eterofobia” non sono meno gravi di “razzismo”: ne sono soltanto l’orrenda anticamera.
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Credo sinceramente che dal mio cuore e dalla mia mente non vi sia cosa più lontana del razzismo. Eppure la lettura di certi libri, la visione di certi film e di mostre come queste mi lasciano con il groppo in gola e mi fanno sentire quasi colpevole. Colpevole di appartenere a quello stesso genere umano da cui sono usciti coloro che sono stati capaci di inventare i lager di Auschwitz, Dachau, Buchenwald e altri, ma anche le foibe, i cappucci del Ku Klux Klan e l’apartheid sudafricana, o le vecchie e sanguinose pulizie etniche staliniste e quelle più moderne e non meno tremende della ex Jugoslavia, o l’odio etnico strettamente intrecciato all’insofferenza religiosa che insanguina il Medio Oriente. Colpevole di appartenere a quello stesso genere umano che non è stato capace di estirpare da sé il seme dell’odio razziale e religioso e che continua a tramandarlo, per incuria, oltre che per criminale calcolo, ai più giovani. Colpevole, in prima persona, di aver fatto comunque troppo poco per oppormi alla negazione dell’uomo da parte di chi si sente superuomo. Sono convinto che la Giornata della Memoria debba servire a commemorare le vittime, ma anche che la pietas nei loro confronti non possa bastare a mettere in pace la nostra coscienza. In questa giornata, invece, la cosa fondamentale, necessaria, irrinunciabile – come sottolinea con forza Piva – è evitare che in noi si attenui fino a scomparire il ricordo dei carnefici, dell’aberrazione dello sterminio, del razzismo, della generalizzazione quotidiana che tutti noi, anche inconsciamente, facciamo. Altrimenti è inevitabile che si possa tornare a quella banalità del male sottolineata da Hannah Arendt, che ha fatto dimenticare che la razza umana non può, né deve essere rappresentata da triangoli di vario colore, ma, eventualmente, soltanto da cerchi vuoti, senza colore, possibilmente anche senza frecce rivolte all’insù, o croci rivolte all’ingiù. Perché è ora che cessino le differenze e le discriminazioni anche tra uomini e donne. Se non riusciremo a fare questo, ogni giornata della memoria sarà una specie di “Memento mori” rivolto all’intera umanità affinché guardi con preoccupazione al proprio futuro. James Baldwin in “Nessuno sa il mio nome”, ha scritto: «Esiste un solo miglioramento possibile per un ghetto: eliminarlo». E allora, se vogliamo davvero eliminare i tanti ghetti che ancora oggi resistono, non basta svellerne i cancelli e abbatterne le mura: occorre distruggerne anche i simboli, mantenendo, però, ben visibili, a monito continuo, i loro frammenti. E per simboli non mi riferisco soltanto a quelli beceri, alzati da imbecilli fascisti, come quelli di Casa Pound arrestati ieri mentre progettavano di violentare una ragazza perché ebrea, nazisti, razzisti e aliofobi in genere, ma anche da quelli, non meno pericolosi, edificati da gente che non si sente razzista e che, anzi, ritiene di essere timorata di Dio. Perché un ghetto, se ci pensate bene, non imprigiona soltanto chi vi è rinchiuso, ma contemporaneamente esclude anche chi ne è fuori creando una frontiera che in questo caso divide senza mettere minimamente in contatto, senza permettere alcuna osmosi, neppure culturale. Questo pomeriggio siamo stati qui a riportare a galla brutte cose, pessimi ricordi. Anche perché, pur se ormai sono passati quasi settant’anni, la ferita è ancora aperta. Per farla guarire non bisogna dimenticare; occorre, invece, pulirla e medicarla ancora. Anche se può bruciare, se può fare ancora molto male. E anche per questa sottolineatura credo che dobbiamo ringraziare Michele Piva che ha ideato e creato questa per niente astratta Via Crucis. Gianpaolo Carbonetto
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