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Valentina Valentini
LA SCENA COME MACCHINA DA GUERRA DI IDEE Un doppio sguardo su “Mondi Corpi Materie”, l’ultimo importante saggio della studiosa calabrese. Una riflessione sulla molteplicità dei linguaggi artistici che si sono condensati nel teatro contemporaneo sviluppata attraverso una pluralità di punti di vista critici. Una lettura anche filosofica dei segni del sistema rappresentativo come via alla possibile rifondazione estetica della realtà. ****** di Rossana De Angelis Non accettando come data la sua forma storica, il teatro si è interrogato su se stesso mettendo in scena un rito autoriflessivo che ha significato disvelare la natura oppressiva del linguaggio (…) per il superamento della dialettica e delle contrapposizioni binarie (realismo e astrazione, corpo e testo, immagine e parola) (V. Valentini, Corpi mondi materie, p. 3)
Valentina Valentini affronta in Corpi Mondi Materie (Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 178, € 25,00) una riflessione sul teatro contemporaneo assumendo punti di vista molteplici, proprio come viene preannunciato dal titolo. Sin dalle prime pagine si comprende, infatti, come la scena teatrale contemporanea venga ibridata da una molteplicità di linguaggi che il teatro ha fatto propri, e contemporaneamente come il teatro sia riuscito a trasformare questi stessi linguaggi. Concisione e chiarezza, unite alla ricchezza di esemplificazioni tratte dalla scena teatrale internazionale degli ultimi decenni, rendono il libro leggibile anche a un lettore non specializzato in storia del teatro. Corpi Mondi Materie discute il teatro contemporaneo da più prospettive parallele: innanzitutto, una riflessione sulla revisione dei miti, con la conseguente costruzione di mondi sulla scena, in cui il mito viene smembrato e ricomposto in una forma nuova che lo fa essere altro rispetto a ciò che era in origine; la progressiva presa di distanza dal testo letterario e dalla drammaturgia classica, cui subentra l’intervento di altri linguaggi artistici, dalle arti visive e plastiche ai nuovi media; la scomparsa del personaggio come tradizionalmente inteso, che cede il posto sulla scena al corpo d’artista, diventato esso stesso personaggio. 1. La presa di distanza dal testo letterario, dunque da una drammaturgia classica, si mette in evidenza nella prima parte del libro proprio attraverso la revisione dei miti, come sottolineato nel paragrafo “Dal patetico al fisiologico”: «la drammaturgia dello spettacolo, nella seconda metà del XX secolo, non riscrive le opere del passato (…), per cui è quasi impossibile rilevare, come fa Genette in Palinsesti, le operazioni di escissione, riassunto, concisione in cui “la riscrittura si fa caricatura e la parodia
2 iperpastiche” 1. Nel teatro del secondo Novecento si attinge al mito per dissolverlo, nel senso che il presente della scrittura di scena fagocita il passato del testo classico e quindi elide la relazione fra un’opera anteriore (ipotesto) e quella che la imita, la trasforma (ipertesto)»2. Gli ipotesti appaiono completamente svuotati del loro significato originario, essendo diventati semanticamente indifferenti, dunque completamente altri rispetto all’origine: reinvenzione formale e tematica, costruzione di mondi e quindi ri-costruzione di miti, tra il sublime e il grottesco, con l’ironica distanza dalla storia e dal linguaggio drammaturgico classico; mondi senza confini tra forme animali, vegetali, umane, «in cui il pensiero affonda nel corpo e il corpo è pensiero». Le categorie del teatro classico esplodono: niente parodia, niente pastiche; il tragico diventa altro, cioè catastrofe3, e la catastrofe è quella del corpo e dei codici. 2. La ri-costruzione del testo letterario mitico smembrato e ricomposto, secondo tecniche che vengono ibridate da altri linguaggi diversi da quello teatrale, porta alla comparsa di un nuovo tipo di testualità, una nuova forma di testo scenico che Valentini chiama testo multiplo. La sottrazione al mito e la completa reinvenzione avvengono grazie a un dispositivo di miscelazione di elementi presi dal mondo dell’arte con altri prelevati dai media: da un lato i riferimenti alle avanguardie storiche e dall’altro alla cultura dei mass media, come i serial televisivi o i film popolari. Il rapporto fra teatro e pittura, ad esempio, può essere compreso a partire dalle riflessioni di Georges Roque4, che introduce la distinzione nel linguaggio pittorico dell’arte astratta fra segno figurativo e segno plastico, intesi entrambi come elementi costituitivi di un linguaggio pittorico che abbandona la rappresentazione mimetica e figurativa senza, però, smettere di essere rappresentazione. Così accade nel teatro contemporaneo. Astrazione è, infatti, liberare i segni dalla loro servitù denotativa. «Un “teatro immagine” che, nel secondo Novecento, ha realizzato pienamente le istanze di una drammaturgia visuale defigurante. (…) Il semplice fare, spogliato da intenti interpretativi di situazioni e personaggi, traduce sulla scena teatrale l’urgenza espressa dall’astrazione di sottrarre convenzioni artistiche e mimetiche: lo spazio scenico è entità dinamica che si forma e si costruisce in tempo reale davanti allo spettatore, non tanto qualcosa da guardare, già fatta, ma una scena in trasformazione, macchina che include, nella propria dinamis, uomini e cose»5. A ciò contribuisce anche la defunzionalizzazione del corpo e degli oggetti, rispetto alle tradizionali funzioni previste dal testo letterario. Nel teatro contemporaneo gli elementi scenici (luci, suoni, gesti, spazio, movimenti, ecc.) assumono ruoli attanziali e, dunque, diventano a pieno titolo segni all’interno delle codificazioni prodotte dai linguaggi della messa in scena. Gli oggetti diventano figure attanziali come i corpi degli artisti, senza però essere soggetti a funzioni narrative prestabilite. Ciò modifica contemporaneamente anche il rapporto con lo spettatore. Si sottolinea, infatti, il rifiuto dell’illusione e la continua proposta di partecipazione. Il teatro ha così affidato allo spazio, al gesto, alla visualità e al suono, il ruolo di dispositivi dominanti. Lo spazio, ma anche il tempo, nella frattura tra tempo del testo e 1
GÈRARD GENETTE, Palimpsestes. La litérature au second degré, Paris, Éditions du Seuil, 1982, p. 282. VALENTINA VALENTINI, Corpi mondi materie, Milano, Mondadori, 2007, p. 14. 3 “La catastrofe senza qualità (tragico sono le ali di pollo)”, ivi, p. 16. 4 GEORGES ROQUE, Qu’est-ce l’art abstrait?, Paris, Gallimard, 2003; trad. it. di L. Schettino, Che cos’è l’arte astratta?, Roma, Donzelli, 2004. 5 VALENTINI, op. cit., pp. 42-45. 2
3 tempo della rappresentazione, diventano i protagonisti di una fase di transizione che conduce dall’elaborazione dei presupposti della pittura astratta fino al teatro contemporaneo. L’happening e poi la performance art esaltano una dimensione processuale, per cui lo spettacolo si trasforma in evento. Caratteristiche di quello stato di transizione, come sottolinea Valentini, sono: a) la desoggettivazione e l’accentuazione dei tratti sensoriali su quelli cognitivi; b) l’azione vs l’opera-prodotto; c) la rarefazione della densità dei segni per favorire l’installarsi dello spettatore come autore dell’opera; d) le forme ibride che conducono il teatro, e non solo il teatro, fuori dalla sua forma storica; e) l’antintellettualità e l’antiprogettualità, per cui ciascun artista si costruiva una propria cultura d’adozione, piuttosto che accogliere la continuità spaziotemporale della sua “tradizione” di appartenenza. Un ruolo importante nel teatro contemporaneo è, infine, l’introduzione sullo spazio scenico dei dispositivi elettronici. Non soltanto la pittura, allora, ma anche il cinema e il video intervengono sulla scena modificando e ibridando i linguaggi teatrali, generando nuove forme testuali come il real time film. Diverse sono le conseguenza di questi “cambiamenti di scena” del teatro contemporaneo: modificazione della narratività aristotelica, del conflitto come movente narrativo, da un lato; ma anche impossibilità di leggere il teatro attraverso le attuali metodologie di analisi semiotica (ad esempio, quelle della semiotica greimasiana, ovvero come stati e trasformazioni di stati). Le interferenze fra teatro e arti visive si mostrano come reciproca codificazione, muovendo così verso una vera e propria drammaturgia visuale. Considerare questa doppia relazione consente, inoltre, di rintracciare quegli aspetti sensoriali comuni. Ciò è possibile tenendo presente che non si tratta più soltanto di pittura, ma di un’articolata serie di forme espressive in cui le arti visive, nel secondo dopoguerra, si sono declinate (happening, performance art, land art, installazioni), e a loro volta sono state ricodificate, negli ultimi decenni del Novecento, dalle immagini in movimento del cinema e del video. Una drammaturgia visuale implica, dunque, che lo spazio scenico si carica di proprietà temporali e tattili, rendendo densa e palpabile l’esperienza percettiva, mediante sovrimpressioni e simultaneità di azioni. Significa anche mettere in questione l’atto del guardare: si sperimentano nuovi modi di guardare, incluso il non-poter-vedere, l’ostruzione e il disturbo della visione. L’ibridazione tra arti visive e teatro si trasforma in una metodologia costruttiva antifigurativa e con una diversa narratività. 3. I mutamenti della testualità e della narratività del teatro contemporaneo esaltano il momento percettivo e la dimensione sensoriale, sottolineando il distacco dal testo letterario, dalla sua progettualità e dalla sua chiusura, fulcro della drammaturgia classica, riportando il teatro innanzitutto alla sua dimensione di evento e a nuove forme di testualità. Tutto ciò si realizza, infine, attraverso la frattura fra attore e personaggio. «Occultare la dimensione di dicitore/interprete dell’attore»6 significa due cose: distaccarsi dal testo letterario; esaltare il corpo dell’artista (performer): l’artista diventa il personaggio. «In questa prospettiva, che coglie pienamente le trasformazioni della scena teatrale del secondo Novecento, la dominanza del corpo, di un teatro-corpo, non configura più soltanto la supremazia di un codice (che sottomette la parola), ma segnala un cambiamento di paradigma che porta con sé i suoi specifici modi costruttivi: l’agglutinamento, il continuo vs discontinuo-discreto, le sconnessioni, le posture del 6
Ivi, p. 72.
4 corpo in quanto tali e non un attore che compie le azioni previste dalla fabula»7. Infatti, «includere strutturalmente la dimensione del vissuto personale come materia espressiva, non sottotesto, è diventata una strategia che ha provocato il depotenziamento della macchina attoriale; sottrarre centralità alla tradizione del testo letterario a favore del performance text, quella del personaggio a favore del performer, ha avuto come conseguenza la dismissione di un terreno fertile e contraddittorio»8. In conclusione, una riflessione sul teatro contemporaneo non può prescindere dalla molteplicità dei punti di vista dell’indagine e dal considerare la scena teatrale come il continuo rinnovarsi di riti di autoriflessione. Questi, infatti, comportano una necessaria revisione della categorie tradizionali con cui abitualmente si considera e analizza il teatro. ******
di Antonello Romano
Instancabile studiosa del teatro contemporaneo, Valentina Valentini dopo anni di analisi della varietà e variabilità dell’universo scenico e drammaturgico del ’900, sezionato con maestria in tutte le sue sfaccettature particolari, riesce in Mondi Corpi Materie a riportare una eterogeneità centrifuga, sfuggente alla categorizzazione, ai suoi elementi primitivi, essenziali: l’estensione si trasforma in intensità primigenia. Un compito arduo nella selva incontrollata delle rappresentazioni del presente. Un titolo scelto con cura, che, per quanto scarno, laconico, riesce ad esprimere in modo sintetico contenuti amplissimi: la successione paratattica di concetti Mondi Corpi Materie non si ferma solo all’ambito descrittivo, al tentativo di rendere evidente la tripartizione interna dei contenuti del testo, ma si allarga dall’angustia della scena, o meglio, della varietà infinita della scena della seconda metà del ’900, per espandersi ed inscriversi nella parabola entropica di una realtà umana tendente all’indistinto dell’inerte indicando qualcosa di non limitato all’aspetto eventuale dell’opera ed infine trasformandosi in metafora del contemporaneo. Per esso cercherò di offrire due interpretazioni. D’altronde, come è facile da riconoscere, il termine “teatro” non compare come era comparso in altre produzioni della Valentini, ma si scinde nei suoi elementi immediati e sensibili, descrivendo attraverso giustapposizione, ma non identificando l’oggetto in modo univoco. Sono le fessure esistenti tra le tre componenti che delineano il territorio teatrale (ed in seconda istanza quello del reale): identificazione per differenza. Seguendone il decorso si assiste ad una graduale perdita di qualità della sostanza, partendo da una cosmografia onnicomprensiva, dal concetto di mondo, sia esso il mondo simbolico perpetuo rappresentato dal mito e dalle sue riletture nella modernità, sia le sue possibili declinazioni frammentarie, passando poi alla biopsia della potenza sensuale-sensibile del corpo polimorfo che infesta la scena con la sua presenza e con la sua assenza, per approdare all’inorganico, all’ultimo stadio, quello dell’informe plasmabile e virtualmente capace di dar vita a partire dalle rovine delle strutture gerarchiche della materia tradizionale. 7 8
Ivi, p. 88. Ivi, p. 96.
5 Il teatro contemporaneo ha eliminato infatti il panegirico giustificatorio dell’agire sociale per sottomettersi allo choc del continuum catastrofico. Da un’altra prospettiva lo spectator viene privato della dimensione dell’attesa: viene confrontato sin dal primo momento con l’ossessione della propria scomparsa e del suo mondo in toto, una distruzione che si manifesta anche negli oggetti e nelle situazioni più familiari. Il principio strutturale di questa drammaturgia è costituito da attese mancate: al termine della narrazione rimane il fatto, come azione già conclusa, che racchiude in sé la contrazione dei tempi e la vastità atomizzata degli spazi. Fine della narrazione: fine delle storie. Fine della Storia. Il nuovo pensiero teatrale offre quindi la controparte alla tradizionale attesa della decompressione della climax, alla decantazione dell’attimo nel passaggio attraverso l’azione. È la contemplazione del reale penetrato sulla scena sotto un’unica insegna: quella della morte quotidiana, o meglio dell’impulso liberatorio della morte (la necessità della morte improduttiva, direbbe Baudrillard) che si cela dietro ogni manifestazione. È questo trasporto del quotidiano e dei suoi linguaggi, la sua manipolazione estetica, che rende evidente (auffällig, risaltante) il naturale (riprendendo le finalità dell’ars dramatica brechtiana), che riafferma paradossalmente il teatrale come più reale del reale: la simulazione come sostituto del magma non interpretabile al di là della rappresentazione ricostruisce il rappresentabile tradizionale in maniera iperreale, in un rapporto di attrazione e repulsione per l’oggetto palesemente in estinzione. Così la scena si espande oltre quei limiti imposti dalla storia e dalla sua funzione (finzione) diventando evento, fenomeno che oscilla derubando il mondo, che ingurgita questa sostanza restituendola potenziata sensorialmente, eliminando la narcosi dell’inform-azione subita nella realtà anestetizzata. Solo il teatro può definirsi sostituto della realtà, ponendosi come realtà effettuale essa stessa. L’arte depura la realtà dal surplus delle sensazioni e le rende intense nella loro molecolarità, le risemantizza, si propone come rinascita sconvolgente della percezione. È questa la discesa verso il punto zero che delinea quella “catastrofe senza qualità”, pensiero espresso dal filosofo Massimo Cacciari e ripreso dalla Valentini già in due occasioni, per descrivere l’indifferenza delle dinamiche dell’arte contemporanea nel trattare elementi divergenti attraverso un principio unificatore che fa perdere carattere all’eterogeneità degli eventi. «Ciò che sembra segnare la nostra esperienza non è, perciò, la riduzione liberale del conflitto politico a gioco, scambio, mercato – la sua estetizzazione – ma la sua trasformazione dell’antagonismo in senso antideterministico, multidimensionale, al di là di ogni stabile contrapposizione di scelte e valori. Il mondo moderno della catastrofe si presenta come quello di un’apocalisse “senza qualità”. (…) Il termine moderno di catastrofe generalizza e secolarizza insieme il simbolo costruttivo-distruttivo dell’apocalisse, rendendone così indicibile il “valore” proprio: quello della redenzione»9. Etimologicamente il termine qualità deriva da qualis, implicando quindi una determinatezza dell’oggetto, che nell’epoca presente non può più essere stabile: tutto è catastrofe, senza distinzione, o nulla può essere considerato tale. Cosa si può definire catastrofe? Catastrofe è propriamente svolta ed entrambi questi concetti vengono discussi in quest’opera in modo organico. L’affermazione di Cacciari può quindi essere riformulata in questi termini: quale svolta?
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MASSIMO CACCIARI, Catastrofi, in “Laboratorio politico”. Catastrofi e trasformazioni, Torino, Einaudi, 1981, pp. 153-158.
6 L’importanza concessa alle realizzazioni teatrali dei miti/riti di fondazione, alle cosmogonie, alla rinnovata denominazione della realtà, alla costruzione materiale, commiste però alle immagini frante, ferali, grottesche che abbiamo già descritto, rappresentano un’evoluzione fondamentale per la prospettiva di un teatro di nuova concezione, un’esegesi allargata, un piano di conversione dell’artistico in pratico spinto al parossismo già evidenziato in apertura del secondo capitolo di Mondi Corpi Materie del mondo teatralizzato e del suo opposto: il teatro come mondo compresso e polivalente, luogo politico al di là del dualismo, territorio dell’ultima interazione possibile tesa ad eliminare l’isolamento dorato dell’uomo moderno, si pone la questione della problematizzazione della realtà attraverso l’evidenziazione e l’ingigantimento dei suoi elementi, cercando anche di offrire strategie di liberazione. Strategie che passano naturalmente attraverso la funzione centrale del corpo, come prima porzione di realtà sottoposta al cambiamento (il piano di indifferenziazione tra memoria e azione, secondo Bergson) e catalizzatore di influenza rinnovata sul reale. Non un corpo qualunque. Cacciari pone la sua attenzione sull’elemento dell’indicibilità del valore apocalittico. Il corpo nella sua effettività materiale supera di gran lunga la genia ininterrotta dei segni, eppure se ne fa portatore annullandoli nella semplicità della presenza puntuale. È il corpo in-fante, quello che non parla, tabernacolo della sua sensibilità anarchica, della sua semiurgia elementare, refrattario alla spinta simbolica sia dei complessi ancestrali (il mito e le sue ripercussioni psicopatologiche), sia alla smaterializzazione del codice binario del digitale. L’infanzia d’altronde presuppone una continua scoperta di sé, della propria geografia e la formazione della coscienza tattile prima che discorsiva. Il corpo diventa oggetto politico effettuale, di una politica dell’oblio della parola e della necessità esegetica abituale. Il teatro come luogo dei corpi muti e fondanti è la fucina del nuovo agire politico post-ideologico, che si ciba della realtà inglobandola in essa e cambiandola di segno, sovvertendone i valori, allargandosi spazialmente, debordando dal palcoscenico e avvicinandosi minacciosamente alla realtà: salva la carne dalla carneficina metaforica dell’immagine de-oggettualizzata. Rifondare la realtà a partire dal corpo, quindi ipostatizzando la cruenza sanguigna dell’atto sacrificale: René Girard ne La violenza e il sacro riconosce nel corporeo, nel suo smembramento, e contemporaneamente nella sua adorazione, il fulcro della nascita e della rinascita sociale ciclica. Una rinascita come riproposizione di quella differenza che la catastrofe contemporanea non riesce a riscontrare in modo limpido. Il pericolo dell’indifferenziazione viene superato attraverso il corporeo, attraverso la concentrazione dell’agire sociale sulla carne, sezionandola e conferendole significati nuovi. Il corpo sovverte l’ordine, ma ricompone le macerie, come espressione di un patto per il nuovo. La nostra era, quella cristiana, nasce dal suo essere martirizzato e consunto. Il teatro contemporaneo svincolandosi dal suo valore puramente estetico può fungere da nuovo inizio. Percorrere uno spazio, costruire un luogo, la stessa fonazione a-significante, non ferina, ma pre- o post-umana, sono cifre del nuovo rito minimalista di fondazione della realtà scomposta e decomposta. E qui passiamo ad una seconda interpretazione della struttura del titolo del testo. Il corpo è centrale tra due universi simbolici, quello del mito e quello del valore d’uso della reificazione materiale. Il corpo sfugge a questi codici conservando una consistenza ed un’indipendenza quasi totale dal trascendente e dal minerale, vibrando tra questi estremi. Riscoprire l’opera come ente reale, come corpo muto a cui dar voce, non trasmutandola discorsivamente, ma conservandone le opposizioni e le contraddizioni: un corpo da sacrificare per mantenerlo vitale e irrevocabile, come medium plastico da tradurre non in categorie a
7 tenuta stagna a riconferma dello stato delle cose, bensì in modalità di interpretazione che si intreccino con la situazione contingente, che propongano modi di percezione applicabili per il fruitore nell’incontro con il mondo delle sensazioni multiple. Bisogna riappropriarsi del contemporaneo, analizzandone le manifestazioni eterogenee in campo artistico, espressioni del nostro ambiguo Zeitgeist per aprire a nuove vie una critica che non ha più necessità di giudicare oltre se stessa. Il testo (o meglio, i testi) della Valentini corrisponde a questa necessità (naturalmente da non confondere con la militanza ortodossa di Lukàcs, legata a convinzioni aprioristiche, che in questo caso lasciano il posto ai mondi possibili, a zone dell’indeterminato) di raccordo tra l’attività critica di organizzazione dei fatti artistici e la possibilità di superamento del discorso estetico attraverso quello della proposizione di nuove interpretazioni e modificazioni del mondo. Non si rifugia in alcun locus amoenus depotenziato del passato: al contrario, tasta il polso della contemporaneità, mai come in questo testo, attraverso il sistema rappresentativo, eppure non fermandosi ad esso, analizza ciò che sussiste intorno allo spazio-tempo dell’evento: cause ed effetti possibili, traumi input e messaggi output. Un piano di conversione discorsivo dell’enunciabile a-significante. Il corpo, anche in questo caso, l’opera d’arte in generale, come macchina da guerra. Ma che sia guerra di idee, lo scrigno disarticolato della sempre possibile deflagrazione di un modus percipiendi, esplosione come disseminazione al di fuori del territorio tradizionalmente assegnato. La critica, come il teatro, deve riscoprire come in questo caso l’incontro con una realtà che è sempre modello dell’opera (o l’opera come modulazione della realtà), in un sistema di scambi continui con l’ambiente, riconferendo al termine “estetica” il significato originario di per-ceptio, quindi di “presa” attiva, di collisione dialettica con le cose, con la possibile alterità che assume valore più che spaziale e sincronico, temporale, di memoria e di attesa ritrovata. Derrida in Spettri di Marx scriveva: «senza questa desolazione, se proprio si potesse contare su quel che viene, la speranza non sarebbe che il calcolo di un programma. Se ne avrebbe la prospettiva, ma non si attenderebbe più nulla e nessuno. Il diritto senza la giustizia»10.
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JACQUES DERRIDA, Spectres de Marx, Paris, Éditions Galilée, 1993; trad. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx, Milano, Cortina Editore, 1994, p. 211.