E43
Cosimo Schirano
La ristrutturazione edilizia Il recupero del patrimonio edilizio esistente Il problema del riuso urbano Casi pratici
Edilizia
Rassegna di giurisprudenza e legislazione regionale
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Professionisti, tecnici e imprese Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
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Cosimo Schirano
La ristrutturazione edilizia Il recupero del patrimonio edilizio esistente Il problema del riuso urbano Casi pratici Rassegna di giurisprudenza e legislazione regionale
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Prima edizione: novembre 2005 E43 - La ristrutturazione edilizia ISBN 88-513-0323-1
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Questo volume è stato stampato presso: Grafitalia - Via Censi dell’Arco, 25 - Cercola - Napoli
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Coordinamento redazionale: Stefano Minieri Redazione: Vittoria Passarelli Impaginazione: Susy Grosso
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Prefazione Fra gli interventi finalizzati al recupero del patrimonio edilizio esistente, la “ristrutturazione edilizia” è certamente il più realizzato, fino a divenire ormai un vero e proprio fenomeno di costume. Il recupero del patrimonio edilizio, nei nostri Comuni, riflette in pieno le istanze sociali più frequenti: possibilità di modificare i solai e le coperture per un più idoneo adattamento dei fabbricati esistenti alle tecniche costruttive correnti; necessità di sostituire in toto edifici realizzati in epoca remota, spesso con scarsi mezzi e materiali inidonei alla conservazione duratura della casa preservata da umidità, infiltrazioni ed altri fenomeni negativi che rendono malsane ed igienicamente irrecuperabili le abitazioni; necessità che si possa garantire la sopraelevazione a misura dell’aumento del nucleo familiare. Ma è chiaro che tutto ciò si riflette positivamente anche nella economia della collettività, cioè della p.a. che deve così far fronte ad uno sviluppo dell’abitato di minore estensione, in conseguenza della ridotta migrazione degli abitanti dal centro ambientale, già “urbanizzato”, verso la periferia, ove sono necessarie tutte le urbanizzazioni primarie e secondarie. L’accostamento degli operatori al fenomeno è stato di tipo “intermittente”, ossia addirittura esasperante nell’immediatezza dell’applicazione della legge n. 457/1978 — dal titolo a dir poco enfatico: “piano decennale per l’edilizia” — e successivamente solo episodico, lasciato, come al solito, all’iniziativa di pochi temerari imprenditori, stimolati da alcuni professionisti dell’utopia, e, pertanto, destinata a cadere nel vuoto ed a rimanere elucubrazione isolata. Invero si sono pure registrate lodevoli iniziative da parte di alcune amministrazioni comunali, ma il più delle volte si è trattato di timidi approcci sterilizzatisi nella frastagliosità delle norme, che, a queste latitudini – sembra un fatto mirato – se non sono di impossibile attuazione pratica non possono essere emanate. Mi piace, però, segnalare un provvedimento emesso dal Comune di Pulsano – la delibera di Consiglio Comunale n. 74 del 22 settembre 1984 (p.a. Coreco n. 28280 del 6-10-1984) “Rilascio di concessioni edilizie: direttive e precisazioni per i competenti organi comunali” – in cui veniva stabilito che, nell’ambito del territorio di cui alla Tavola n. 2 “Centro Urbano” del vigente PdF, «il rilascio delle concessioni edilizie per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia o di sostituzione edilizia singola (demolizione oppure crollo e ricostruzione) di cui Excerpt of the full publication
alle lettere c), d), e) dell’art. 31 della legge 5-8-1978 n. 457 potrà avvenire in tutte le zone edificate, anche in assenza di strumentazione urbanistica esecutiva qualora vi sia il mantenimento della destinazione d’uso». È del tutto evidente l’individuazione dell’attuale “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma” nella più estesa “sostituzione edilizia singola (demolizione oppure crollo e ricostruzione)”. E c’è da sottolineare che mentre la prima espressione è l’esito di ricerche, affermazioni e sedimentazioni dottrinarie e giurisprudenziali susseguitesi nell’ultimo ventennio, la seconda è semplicemente l’applicazione pratica dell’esperienza del campo che, in modo schietto ed esplicito, sintetizza sia le istanze sociali che le soluzioni più convenienti sotto il profilo economico-finanziario per i Comuni. Il presente lavoro si prefigge la disamina circostanziata delle possibilità legali ed operative del recupero del patrimonio edilizio esistente attraverso la ristrutturazione edilizia, nella consapevolezza che — come già rilevato da oltre un ventennio — la nuova pianificazione urbanistica comunale può essere rivolta solo al “riassetto del territorio”. Taranto, Ottobre 2005 Cosimo Schirano
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1.1
Il problema del riuso urbano
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Dalla legge urbanistica ai “contratti di quartiere”
L’originario art. 31 della legge 17 agosto 1942, n. 11501 — legge urbanistica principale — assoggettava a licenza edilizia anche la modifica della struttura e dell’aspetto delle costruzioni esistenti. L’elencazione degli interventi riportata nella norma suddetta – nuove costruzioni, ampliamenti, modificazioni strutturali od estetiche — era certamente esemplificativa, per cui l’espressione testuale “modificarne la struttura o l’aspetto” era notevolmente densa di significato, giacché doveva ritenersi comprensiva di ogni ulteriore attività edilizia diversa da quella individuata negli altri interventi ivi indicati. Già all’epoca la struttura e l’aspetto individuavano quelle parti delle costruzioni in qualsiasi modo sottoposte a regole di tecnica edilizia, per cui la norma in questione si prefiggeva anche la regolamentazione di ciò che, in embrione, può considerarsi antesignano dell’intervento di “ristrutturazione edilizia”. Per la giurisprudenza più risalente, la licenza edilizia era richiesta anche per lavori che alterassero la struttura interna di un edificio2, per qualunque modificazione dello stato di fatto non dipendente dall’esecuzione di un manufatto che avesse carattere di assoluta precarietà3, nonché per lavori di trasformazione interna e per il rafforzamento delle fondazioni4. Il provvedimento comunale non era ritenuto necessario per la costruzione di manufatti in muratura sul tetto di un fabbricato non visibili dal piano stradale e che non modificassero l’aspetto esterno del fabbricato5, né per il caso di distruzione di un vecchio edificio e di pedissequo rifacimento con la conservazione delle strutture preesistenti e delle linee essenziali6. L’evoluzione del concetto di “ristrutturazione edilizia” ha comportato radicali cambiamenti dapprima nell’applicazione delle specifiche norme di legge, poi nella gestione pratica della pianificazione effettuata in base alle stesse leggi e, infine, nelle leggi stesse. I piani urbanistici della prima generazione, tutti notevolmente sovradimensionati, hanno incentivato la politica dell’espansione, facendo così passare inosservata l’esigenza — che nel contempo cresceva almeno di pari passo a quella delle “nuove case” — di regolamentare più specificatamente la definizione e l’attuazione degli interventi comportanti modificazioni strutturali ed estetiche nelle costruzioni esistenti. 1 Il comma 1 di detto articolo prevedeva: «Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l’aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell’art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune». 2 Tribunale di Perugia, 23.11.1967, De Giorgio. 3 Cass. Pen., 3 giugno 1968, Grida. 4 Cass. Pen., 21 ottobre 1972, Pellissier. 5 Pretura di Roma, 23 aprile 1968, Santamaria. 6 Tribunale di Venezia, 18 ottobre 1972.
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1. Il problema del riuso urbano
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La ristrutturazione edilizia
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Il ricorso alle politiche del “riuso”, nell’ottica del contenimento dell’espansione urbana entro i limiti dovuti, divenne particolarmente sentito ed urgente nei primi anni ’70, in piena “austerity”, allorché la recessione economica causata da un’inflazione galoppante (che arrivava anche al 23%) consigliò il ridimensionamento dell’investimento territoriale urbano. Ma tutto ciò avveniva in un periodo in cui si avvertiva più profondamente il problema della casa7. Negli anni settanta il Parlamento varò importanti provvedimenti di politica urbanistico-edilizia, forse un po’ enfatizzati, ma di indubbia rilevanza. La legge sulla casa, n. 865/1971, viene ritenuta tuttora il più organico tentativo di liberare la pianificazione urbanistica dal pedaggio della rendita parassitaria dei suoli: le aree destinate all’edilizia residenziale pubblica ed ai connessi servizi collettivi dovevano essere espropriate a valore agricolo e cedute successivamente in diritto di proprietà o diritto di superficie. L’applicazione di questa legge ha prodotto effetti tuttavia modesti, per le difficoltà sia economico-finanziarie che politico-sociali incontrate dai Comuni nell’esecuzione degli espropri. Con la legge n. 10/1977 si affrontò in maniera organica la disciplina sulla edificabilità dei suoli, attraverso l’introduzione di importanti novità, fra cui la considerazione del diritto di costruire avocato alla mano pubblica. La questione venne poi risolta dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 5/1980, che ripristinò lo ius aedificandi nel diritto di proprietà, in forza dell’art. 4 della stessa legge Bucalossi. Anche il problema del riuso sconta, in campo urbanistico-edilizio, un adeguamento legislativo flemmatico e per gradi. Sul finire degli anni settanta venne emanata la legge 5 agosto 1978, n. 457, “Norme per l’edilizia residenziale”, il cui intento di disciplinare e gestire finanziariamente il recupero del patrimonio edilizio esistente, avviato e condotto dalla parte pubblica, doveva essere poi proseguito con la legge 17 febbraio 1992, n. 179 sui programmi integrati di intervento e di riqualificazione urbana e con l’art. 11 della legge 4 dicembre 1993, n. 493, sui programmi di recupero urbano, che avrebbero esteso al privato la partecipazione attiva e determinante. La legge 457/1978 ha istituito (art. 28) il Piano di recupero del patrimonio edilizio esistente, con cui il legislatore si propone almeno di avviare a soluzione il problema del “riuso” delle parti edificate più vecchie delle città, in cui si registra il fenomeno dell’esodo della popolazione verso le zone di espansione. Tale fenomeno, dovuto alla esigenza di ambienti in cui vi siano condizioni di vita più favorevoli, negli anni settanta aveva una particolare incidenza sotto il profilo finanziario, poiché comportava il dover investire in opere di urbanizzazione zone sempre più estese del territorio.
7 Invece, il censimento del 1981 e, soprattutto, quello del ’91, insieme ai dati del primo condono edilizio (1985), porteranno alla luce un patrimonio edilizio “sommerso” in grado di collocare l’Italia nei primi posti in Europa per numero di alloggi in rapporto alla popolazione residente.
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8 Occorre però evidenziare che la L.R. n. 33/1980 ha contribuito all’interpretazione più pratica e, nei nostri Comuni, più appropriata delle norme finalizzate al recupero delle abitazioni, laddove, come si vedrà nel prosieguo, gli interventi hanno riguardato “singoli immobili”.
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1. Il problema del riuso urbano
Il piano di recupero viene elaborato dopo che, ai sensi dell’art. 27 comma 1, siano state individuate o perimetrate le zone ove, per le condizioni di degrado, si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico esistente mediante interventi rivolti alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso. Dette zone possono comprendere singoli immobili, complessi edilizi, isolati ed aree, nonché edifici da destinare ad attrezzature. Il legislatore ha, quindi, consentito di poter dosare l’intervento di recupero in ambiti più o meno ampi, con intervalli tra singoli immobili e interi isolati o aree ed ha reso estendibile il recupero anche ad edifici da destinare ad attrezzature. La finalità della legge di stimolare il riuso è, quindi, chiara ed inequivocabile. Il piano di recupero può essere sia di iniziativa pubblica, proposto dal Comune, sia di iniziativa privata, proposto da enti, società, o privati cittadini. Tuttavia, dopo i primi enfatici approcci, si è rivelato uno strumento di scarsa incidenza nei programmi delle amministrazioni comunali, poiché, salvo sporadiche appropriate utilizzazioni, è stato considerato alla stregua di un piano esecutivo del PRG, come esplicitamente dichiarato, ad esempio, nell’art. 18 della legge regionale della Puglia n. 56/ 1980. Secondo questo timido e blando accostamento, il piano di recupero deve quindi semplicemente attuare le previsioni dello strumento generale e, soprattutto, rispettarne le prescrizioni e lasciare inalterati i volumi esistenti. La legge regionale della Puglia n. 33/1980, pur senza farne esplicita menzione, lo ha reso apparentemente applicabile in tutte le zone dello strumento urbanistico, ma di fatto — nello stabilire i titoli di preferenza ai fini della concessione di mutui agevolati — ha sostanzialmente consentito il recupero di alloggi nei centri antichi o nelle zone agricole di cui alle lett. A) ed E) dell’art. 2 del D.M. 2 aprile 19688. Inoltre, il coinvolgimento di una pluralità di proprietari rende assai difficoltoso raccoglierne il consenso, poiché la carenza di esperienze di partecipazione nella pianificazione attiva, mediante la cessione volontaria delle aree finalizzata alla proporzionata ed equa ripartizione dei volumi “recuperati”, è ancora, nella cultura dei Comuni (ed anche nelle città), un ostacolo talora assolutamente insormontabile anche solo verso la redazione del piano di recupero di iniziativa privata, quando la stessa non si sia già arenata davanti all’affidamento dell’incarico di progettazione. A ciò si aggiungano la riottosità nell’affidamento del mandato alle imprese costruttrici e la mancanza di risorse finanziarie pubbliche per la realizzazione delle opere di interesse generale. Altrettanto problematico è stato il ricorso al piano di recupero di iniziativa comunale, la cui utilizzazione è stata limitata quasi esclusivamente al recupero di abitazioni, senza prevedere interventi nel terziario o nel direzionale. La sua equiparazione ad un
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piano particolareggiato, nella mancanza di adesione dei proprietari degli immobili interessati, ha comportato l’obbligo degli espropri almeno delle aree e degli immobili necessari alle urbanizzazioni ed ai servizi. L’applicazione dello strumento in parola non è stata pari alle aspettative di tutti: legislatore, Comuni, imprese e cittadini. Il “piano di recupero” si è rivelato, infatti, troppo aderente ad un piano particolareggiato, se non proprio tale, ed in alcune Regioni, come la Puglia (salvo per alcune realtà), è stato privato del tutto della sua qualità essenzialmente prefigurata dalla legge 457/1978, ossia la “flessibilità tecnica, giuridica ed operativa”.
La ristrutturazione edilizia
Dopo il “ripensamento” del legislatore, seguito alle leggi 10/1977 e 457/1978, che ha avuto il suo culmine nella legge “Nicolazzi”9, la produzione legislativa statale ha tralasciato di occuparsi della disciplina del recupero o del riuso urbano. In verità la scossa nicolazziana, mediante l’introduzione estensiva dei concetti del “silenzioassenso”, delle “aree di completamento”, dei “certificati di destinazione urbanistica” o “d’uso” delle aree, ha comportato l’emersione nella consapevolezza generale della caratteristica di “atto dovuto” della concessione edilizia, nella ricorrenza dei presupposti e dei requisiti di legge e soprattutto che questi ultimi possono ben sussistere anche in mancanza dello strumento esecutivo. Si è così assistito alla conseguente rivisitazione — ad ogni livello, dottrinario, operativo e giurisprudenziale — delle norme sul rilascio della concessione edilizia lette ed applicate sulla base di poderose limitazioni alla discrezionalità della p.a., chiamata ad una programmazione e ad una pianificazione più concreta e nel contempo più “permissiva”. La legge “Nicolazzi” (art. 6, comma 3, lett. a) ha inoltre esteso all’intero territorio comunale l’applicabilità delle disposizioni e delle definizioni dell’art. 31, lett. b), c) e d) della legge n. 457/1978. Tuttavia, il problema del “riuso” in questo periodo si è assopito, anche perché sovrastato dal ciclone del primo condono edilizio introdotto con la legge n. 47/ 198510. Sennonché, nei primi anni ’90 la riduzione delle dinamiche migratorie nelle grandi città ed il contemporaneo affievolimento della espansione urbana hanno determinato una forte accentuazione della domanda di riuso urbano, filtrata dalle imprese operanti nel mercato dell’edilizia, caratterizzata altresì da una richiesta specifica di “riconversione urbana”, ossia della possibilità di riutilizzare il patrimonio edilizio e le aree urbane modificandone anche la destinazione d’uso.
9 La legge “Nicolazzi” 25 marzo 1982, n. 94, di conversione del D.L. n. 9/1982 (Norme per l’edilizia residenziale e provvidenze in materie di sfratti). 10 L’assopimento ha radici di ordine estremamente pratico, poiché il versamento dell’oblazione e – nei Comuni più solerti – del contributo di concessione ha assorbito buona parte delle risorse finanziarie delle famiglie, privandole dei mezzi da destinare al recupero.
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11 Norme per l’edilizia residenziale pubblica: Legge 17/2/1992 n.179 art.16 - G.U. 29/2/1992 n.50. — Programmi integrati di intervento al fine di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio e ambientale Capo V - Programmi integrati. Programmi integrati di intervento. — 1. Al fine di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale, i comuni promuovono la formazione di programmi integrati. Il programma integrato è caratterizzato dalla presenza di pluralità di funzioni, dalla integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, da una dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana e dal possibile concorso di più operatori e risorse finanziarie pubblici e privati. 2. Soggetti pubblici e privati, singolarmente o riuniti in consorzio o associati fra di loro, possono presentare al comune programmi integrati relativi a zone in tutto o in parte edificate o da destinare anche a nuova edificazione al fine della loro riqualificazione urbana ed ambientale. 3. I programmi di cui al presente articolo sono approvati dal consiglio comunale con gli effetti di cui all’articolo 4 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 [N.d.A. La Corte costituzionale, con sentenza 07/-19/10/92 n. 393 pubblicata in Gazz. Uff. 21/10/92 n. 44 -serie speciale, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, commi terzo, quarto, quinto, sesto e settimo. Al riguardo rinvio a quanto all’uopo commentato nel mio Pianificazione e vincoli urbanistici, Graphica Sud, 2004]. 4. Qualora il programma sia in contrasto con le previsioni della strumentazione urbanistica, la delibera di approvazione del consiglio comunale è soggetta alle osservazioni da parte di associazioni, di cittadini e di enti, da inviare al comune entro quindici giorni dalla data della sua esposizione all’albo pretorio coincidente con l’avviso pubblico sul giornale locale. Il programma medesimo con le relative osservazioni è trasmesso alla regione entro i successivi dieci giorni. La regione provvede alla approvazione o alla richiesta di modifiche entro i successivi centocinquanta giorni, trascorsi i quali si intende approvato. 5. Anche nelle zone di cui all’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1968, n. 97, qualora il programma contenga la disposizione planovolumetrica degli edifici, la densità fondiaria di questi può essere diversa da quella preesistente purché non sia superata la densità complessiva preesistente dell’intero ambito del programma, nonché nel rispetto del limite dell’altezza massima preesistente nell’ambito. Non sono computabili i volumi eseguiti senza licenza o concessione edilizia ovvero in difformità totale dalla stessa o in base a licenza o concessione edilizia annullata. Nel caso in cui sia stata presentata istanza di sanatoria ai sensi dell’articolo 31 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il comune è obbligato a pronunciarsi preventivamente in via definitiva sull’istanza medesima. 6. La realizzazione dei programmi non è subordinata all’inclusione nei programmi pluriennali di attuazione di cui all’articolo 13 della legge 28 gennaio 1977, n. 10. 7. Le regioni concedono i finanziamenti inerenti il settore dell’edilizia residenziale ad esse attribuiti con priorità a quei comuni che provvedono alla formazione dei programmi di cui al presente articolo. 8. Le regioni possono destinare parte delle somme loro attribuite, ai sensi della presente legge, alla formazione di programmi integrati. 9. Il contributo dello Stato alla realizzazione dei programmi integrati, fa carico ai fondi di cui all’articolo 2.
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1. Il problema del riuso urbano
La risposta del legislatore a tutto ciò è stato il Programma Integrato d’Intervento istituito con l’art. 16 della legge 179/199211. Le novità con esso introdotte rispetto agli strumenti precedenti, in particolare il piano di recupero, sono molteplici e possono essere ricondotti a tre gruppi ben distinti. Riguardo alla natura giuridica, è uno strumento urbanistico, ma non è uno strumento esecutivo di quello generale, poiché può comportarne anche variante e, in conseguenza, può anche non essere previsto da quest’ultimo; la localizzazione delle relative aree non è ristretta a zone predeterminate dallo strumento generale ed è assolutamente libera, ossia non sottoposta ad una apposita e preventiva perimetrazione. In relazione alle finalità, é rivolto alla riconversione di zone in tutto o in parte edificate o da destinare anche a nuova edificazione, attraverso interventi di dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana. Riguardo ai soggetti promotori, consente ed anzi richiede la partecipazione, oltre che del Comune, di altri soggetti, pubblici, ma soprattutto privati, singoli, riuniti in
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consorzio o associati, che, di preferenza, devono pure essere i maggiori finanziatori. Così caratterizzato, il Programma Integrato di Intervento è autonomo rispetto allo strumento urbanistico generale, sia sotto il profilo progettuale che dei contenuti. Esso può prevedere ogni tipologia di intervento edilizio ed urbanistico — su singoli immobili o su interi isolati — quali demolizioni e ricostruzioni, ristrutturazioni con o senza modifiche di destinazione d’uso, adeguamenti dei servizi collettivi (opere di urbanizzazione primaria e secondaria: sottoservizi in rete, verde, parcheggi, attrezzature di interesse comune, scuole, ecc.) viabilità ed anche nuove costruzioni ad uso residenziale, direzionale e commerciale. La proposta di programma integrato di intervento sotto l’aspetto economico deve essere conveniente per i promotori, in correlazione alle ingenti risorse finanziarie che una operazione di tali proporzioni richiede, ma deve altresì essere condivisa dal Comune, l’Ente a cui spetta, oltre che la decisione formale della approvazione del programma, anche la cura del pubblico interesse. E lo strumento in parola di tale interesse riflette la salvaguardia, poiché mira essenzialmente al miglioramento della qualità della vita. «L’incontro degli interessi pubblici e privati significa quindi una formulazione concordata o patteggiata delle prescrizioni urbanistiche, e non a caso il programma integrato di intervento, nella prima prassi applicativa è venuto a rappresentare il principale terreno di coltura per la cosiddetta “urbanistica consensuale”» (Paolo Urbani). Il procedimento di formazione del Programma Integrato di Intervento, una volta valutata positivamente la concreta fattibilità della proposta, si apre con l’adozione dello stesso da parte del Consiglio Comunale. L’eventuale variante allo strumento urbanistico generale — e qui sta un altro aspetto di rilievo – non è obbligatorio che sia assoggettata alla procedura di: adozione, pubblicazione, osservazioni, controdeduzioni ed inoltro alla Regione per l’approvazione, o, nella Puglia, come ora previsto dall’art. 11 della L.R. n. 20/2001, per il “controllo di compatibilità” al DRAG12. La snellezza del nuovo procedimento è rappresentata dalla possibilità di pervenire alla variante per effetto di un “accordo di programma”, stipulato ai sensi dell’abrogato art. 27 della legge n. 142/1990, ora trasfuso nel vigente art. 34 del D.Lgs. n. 267/2000, al quale partecipa anche un rappresentante della Regione. Di “Programmi integrati ed interventi per la riqualificazione urbana” da attuarsi attraverso il coordinamento degli interventi pubblici e privati si occupa anche la legge regionale della Puglia 11 maggio 1990, n. 26. 12 Il DRAG è il Documento Regionale di Assetto Generale che (art. 4, comma 2 della L.R. 20/2001) definisce le linee generali dell’assetto del territorio, nonché gli obiettivi da perseguire mediante i livelli di pianificazione provinciale e comunale. In sua assenza (art. 11, comma 7) la Regione effettua il controllo di compatibilità rispetto ad altro strumento regionale di pianificazione territoriale, ove esistente. Occorre rilevare che secondo la citata L.R. 20/2001, tale controllo deve essere effettuato anche dalla Provincia, qualora detto ente sia dotato del PTCP, ossia del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale.
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13 Il riferimento alla L.R. 56/1980 è tuttora valido, anche dopo l’intervenuta L.R. 20/2001, poiché nell’art. 15, comma 4 di quest’ultima è riportato espresso richiamo all’art. 21 e seguenti della L.R. 56/1980, in merito all’approvazione dei programmi integrati.
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1. Il problema del riuso urbano
I contenuti del programma sono quelli volti al recupero ed al riuso dell’edilizia residenziale, pubblica e privata, definiti all’art. 31, lett. b), c), d) ed e) della legge 5 agosto 1978, n. 457, nonché, ove ammessi, ad interventi di nuova edificazione. L’ambito territoriale di riferimento va preliminarmente individuato nelle zone di degrado urbano, la cui perimetrazione segue le modalità previste dall’art. 27 della stessa legge anzidetta. La particolarità che si coglie nella legge regionale in parola è dovuta ad una concezione del recupero e del riuso inteso non limitato esclusivamente alle “case” ed alle urbanizzazioni primarie e secondarie, ma esteso anche alle “opere di sostegno delle attività produttive fisicamente e funzionalmente connesse alla residenza”, con esclusione di quelle rumorose, nocive e moleste. L’operazione di recupero assume in tal modo una rilevanza sociale più incisiva ed offre l’interesse al riuso dei centri abitati ad una fascia di popolazione più vasta, stimolando l’apertura (o la riapertura) di negozietti di generi di prima necessità o di negozi di vicinato, come definiti dal D.Lgs. 31-03-1998, n. 114, art. 4, che, in virtù della attuale possibilità di introdurre parcheggi nel sottosuolo anche in (eventuale) deroga allo strumento urbanistico vigente, riduce se non elimina del tutto, i disagi dovuti all’elevata circolazione veicolare urbana. Il privilegio attribuito dalla Regione a questo nuovo strumento urbanistico viene sottolineato dalla maggior quota (“non inferiore al 60%”) di finanziamenti in materia di edilizia residenziale e di riqualificazione urbana che possono essere utilizzati col “piano integrato”, oltre che da una procedura di adozione ed approvazione più snella rispetto ai normali piani attuativi. Stante il rinvio all’art. 28 della L. n. 457/1978, l’approvazione avviene con delibera del consiglio comunale con la quale vengono decise le opposizioni presentate al programma. Questo ha efficacia già dalla data di esecutività della delibera consiliare. La preventiva adozione deve però intervenire entro 90 giorni dalla presentazione del programma, ed oltre tale termine, nel silenzio dell’A.C., può essere attivato il procedimento sostitutivo regionale, previa notifica di apposito ricorso al Sindaco ed ai Consiglieri comunali e diffida da parte del Presidente della Giunta Regionale. Trascorsi trenta giorni da tale ultimo adempimento la Giunta Regionale approva il programma integrato con proprio decreto, sentito il Comitato Urbanistico Regionale. I programmi integrati d’intervento ex L.R. Puglia n. 26/1990 sono equiparati ai piani di recupero di cui all’art. 28 della L. n. 457/1978 e producono gli effetti di cui all’art. 37 della L.R. Puglia n. 56/1980; vanno cioè attuati in dieci anni e la loro approvazione equivale a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste13. In aderenza al principio sancito dalla legge n. 457/1978, i soggetti attuatori del programma possono essere enti pubblici (innanzitutto l’IACP) e privati, in particolare imprese e società cooperative.
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I Programmi di recupero urbano sono stati istituiti dall’art. 11 del decreto legge 510-1993, n. 398, convertito in legge 4-12-1993, n. 493 e successive modifiche ed integrazioni. Si tratta di un nuovo strumento urbanistico esecutivo che consente interventi di recupero mediante l’impiego simultaneo di risorse pubbliche e private. L’art. 11, comma 2 della legge n. 493/1993, ricorrendo alla terminologia già utilizzata dalla legge 457/1978, definisce il programma di recupero urbano «un insieme sistematico di opere finalizzate alla realizzazione, alla manutenzione ed all’ammodernamento delle urbanizzazioni primarie, con particolare attenzione ai problemi di accessibilità degli impianti e dei servizi a rete, e delle urbanizzazioni secondarie, alla edificazione di completamento e di integrazione dei complessi urbanistici esistenti nonché all’inserimento di elementi di arredo urbano, alla manutenzione ordinaria e straordinaria, al restauro e al risanamento conservativo e alla ristrutturazione edilizia degli edifici». Il campo di applicazione di questo istituto si estende anche alla edificazione di completamento e di integrazione dei complessi urbanistici esistenti. Il riferimento all’edilizia consentita nelle zone omogenee di tipo “B” e di tipo “C” non è limitato ad aree così individuate dallo strumento urbanistico generale, ma anche a quelle che ne abbiano comunque le rispettive caratteristiche ex D.M. 1444/1968. Tutto ciò viene confermato dal comma 4, ai sensi del quale l’approvazione dei programmi di recupero urbano contenenti proposte non conformi allo strumento urbanistico generale può avvenire attraverso la conclusione di un accordo di programma ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. 18-08-2000, n. 267. Promotori dei programmi di recupero urbano possono essere Comuni, IACP imprese, cooperative, consorzi pubblici o privati in possesso dei richiesti requisiti tecnici, economici, finanziari e morali. Particolare modello di programma di recupero urbano è il “contratto di quartiere” istituito con decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 22-10-1997, pubblicato sulla G.U. n. 24 del 30-01-1998. Ai sensi dell’art. 3, i contratti di quartiere sono finalizzati, per quanto riguarda la componente urbanistico-edilizia, a rinnovare i caratteri edilizi ed incrementare la funzionalità del contesto urbano assicurando, nel contempo, il risparmio nell’uso delle risorse naturali disponibili ed in particolare il contenimento delle risorse energetiche; ad accrescere la dotazione dei servizi di quartiere, del verde pubblico e delle opere infrastrutturali occorrenti; a migliorare la qualità abitativa ed insediativa attraverso il perseguimento di più elevati standard anche di tipo ambientale. Strumento dotato di particolare flessibilità, il contratto di quartiere non è assimilabile né ai piani particolareggiati, di cui può essere un mezzo di attuazione, né ad un semplice intervento edilizio diretto, giacché riguarda per definizione un “quartiere”, cioè un complesso articolato del tessuto urbano14. A ciò si aggiunga che, quale programma di recupero urbano, nell’ipotesi in cui comporta previsioni non conformi allo strumento generale, può essere approvato attraverso un accordo di programma. 14 Cfr. G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Guffré, Milano 1999, pag. 204.
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2.1
Esperienze nei piccoli Comuni
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Difficoltà applicative della legge n. 457/1978
In verità, nella maggior parte dei casi, a causa di tali fastidiosi problemi, l’applicazione delle norme di recupero ex L. 457/1978 ha riguardato singoli immobili, di singoli proprietari, ed infatti i piccoli Comuni, specie nel meridione, si sono per lo più limitati esclusivamente ad individuare le zone di recupero senza formulare alcun piano. Va peraltro rilevato che, specie in materia urbanistica, l’intensità di applicazione di una legge che coinvolge interessi diretti fino ad intaccare la sfera personale dei soggetti — come nel caso dell’abitazione — è direttamente collegata al livello culturale medio ed agli usi e costumi locali1. La legge 457/1978, in molte realtà locali, è servita esclusivamente al piccolo proprietario che ha potuto rifarsi la propria abitazione sfruttando la derogatoria consentita dall’art. 31 ultimo comma ed evitando le norme più restrittive dello strumento generale vigente.
1 Le norme, in fondo, servono anche – se non soprattutto – a fissare dei limiti e delle direttive nel cui rispetto ciascuna associazione di uomini deve poter esprimere le proprie potenzialità, senza dover necessariamente spingersi ad attuare iniziative al di fuori della sua portata innanzitutto culturale, purché, nell’ambito delle attività perseguite, come già osservato in altre circostanze, siano sempre rispettati due principi in campo urbanistico oltremodo fondamentali: il fine di interesse pubblico e l’equa ripartizione utili ed oneri.
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2. Esperienze nei piccoli Comuni
Nella pianificazione urbanistica comunale si fa sempre più accentuata la tendenza all’introduzione, anche mediante specifiche varianti normative, di strumenti finalizzati al riuso urbano, e più specificatamente alla “riconversione urbana”. Non sono molte tuttavia le amministrazioni comunali che hanno fatto ricorso agli istituti del “programma integrato di intervento” o ai “contratti di quartiere”. Fino ad ora i nuovi strumenti di “urbanistica consensuale” sono stati formati solo in ambiti di particolare rilevanza sociale. L’attuazione dei piani o programmi di recupero in genere contempla, infatti, oneri e difficoltà organizzative maggiori rispetto ad un altro tipo di piano particolareggiato, poiché si tratta di intervenire in realtà sociali particolarmente complesse, all’interno delle quali vanno salvaguardate le posizioni di coloro che occupano gli alloggi da recuperare, sovente appartenenti a categorie meno abbienti. Ed in tal senso la possibilità del ricorso a finanziamenti statali è finalizzata a garantire che gli alloggi risanati siano poi messi a disposizione, innanzitutto, di tali utenti a prezzi sociali concordati. Sotto l’aspetto prettamente pratico, inoltre, i Comuni si sono trovati spesso di fronte all’impossibilità di individuare ed assegnare alloggi-parcheggio ai proprietari interessati dal piano (specie se oppositori od inadempienti), nelle more della realizzazione del piano stesso.
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Il discorso coinvolge anche la diversa modalità di utilizzazione dei volumi esistenti, un tempo necessari a conformare strutture particolari dovute a determinate tecniche costruttive, ormai superate, per cui in molti casi si tratta di operare un ammodernamento strutturale da cui consegue direttamente una maggiore disponibilità volumetrica sfruttabile a fini insediativi. Inoltre, la difficoltà di dare attuazione al recupero dell’esistente è sovente determinata da prescrizioni vincolistiche dei piani, talora veri e propri ostacoli al riuso o alla “riconversione urbana” delle parti più degradate dei vecchi centri abitati. Va al riguardo osservato che — a parte la necessità di salvaguardare con vincoli “attivi” (ad un tempo, cioè, conservativi di testimonianze storiche di rilievo e produttivi di attività, ossia inseriti a tutti gli effetti nelle dinamiche sociali, economiche e culturali) immobili seriamente ed effettivamente di interesse storico artistico — la riutilizzazione volumetrica può, anzi deve, essere prevista quale normale intervento già nello strumento urbanistico generale, senza dover ricorrere a deroghe con piani costosi ed onerosi, non solo sotto il profilo economico ma anche sociale. Il concetto di risanamento conservativo, ad esempio, è applicabile solo teoricamente a costruzioni del passato, nelle nostre zone realizzate per la maggior parte con scarsi mezzi e materiali inidonei alla difesa da umidità, infiltrazioni ed altri fenomeni negativi che rendono malsane ed igienicamente irrecuperabili le abitazioni. “Risanare” e “conservare” attraverso interventi effettuati, spesso a causa delle prescrizioni vincolistiche, solo allorché gli immobili presentino segni di avanzato degrado, è del tutto impossibile2. Del resto, la L. 457/1978, per le costruzioni in condizioni di degrado individuabili ormai, ai sensi dell’art. 6, comma 3 lett. a) della legge n. 94/1982, in tutto l’abitato, consente il recupero del patrimonio edilizio esistente mediante interventi rivolti non solo alla conservazione ed al risanamento, ma anche alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso. Le possibilità così delineate sono caratterizzate da un’ampia discrezionalità della p.a., per cui la finalità di stimolare il riuso in qualsiasi modo è chiara ed inequivocabile. Il legislatore, infatti, non ha precisato cosa intendere per condizioni di degrado, né ha definito i termini della opportunità del recupero, né ha stabilito alcun vincolo in ordine alla tipologia edilizia da porre in essere per le operazioni di recupero. Pertanto, per edilizia degradata «può intendersi quella originariamente abitabile, nel senso della sua legalità urbanistico-edilizia, e che successivamente, soprattutto per il decorso del tempo, ha perduto il requisito della rispondenza igienico-sanitaria: o per motivi di carattere statico-costruttivo o per non essere stata adeguata alle nuove esigenze e quindi munita dei necessari servizi igienici e tecnologici»3. Ed è un dato di fatto che in molti casi le condizioni di degrado possono essere eliminate o risolte solo attraverso la demolizione e ricostruzione degli edifici, e che non sempre il restauro ed il risanamento conservativo conducono alla migliore utilizzazione del patrimonio edilizio. 2 Bisogna però ammettere che si possono ammirare esempi di perfetta conservazione del patrimonio edilizio esistente – storico e non – in paesi come Ostuni e Martina Franca, in cui i cittadini sono per tradizione abituati ad operare piccoli ma costanti interventi di manutenzione, in ciò agevolati dalle caratteristiche peculiari del territorio, quali la natura del terreno e le condizioni climatiche. 3 Così si esprime Sticchi-Damiani: cfr. A. Fiale, Diritto urbanistico, Simone, 2002, Napoli, pag. 764.
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Influenza della legge “Nicolazzi”
La piena utilizzazione del titolo IV della legge n. 457/1978, fondamentale per la riqualificazione dei centri urbani esistenti, comporta, innanzitutto, un’accurata conoscenza del patrimonio edilizio, alla quale si perviene attraverso la sua disamina puntuale e circostanziata, preordinata alla redazione degli strumenti di recupero. Spesso questo importantissimo studio preliminare nei piccoli Comuni è consistito nella sola individuazione e perimetrazione generalizzata delle Zone Omogenee A e B quali zone di recupero, adempimento che, effettuato nella prima applicazione della legge n. 457/1978, e così compiuto, é divenuto sostanzialmente superfluo con l’art. 6 comma 3, lett. a) della legge “Nicolazzi”. E, come ho già accennato, a tale perimetrazione non ha fatto seguito, salvo rare eccezioni, alcun piano di iniziativa pubblica. Soltanto i privati hanno provveduto a redigere piani di recupero per singoli immobili ed è mancato un coordinamento degli interventi tendente a salvaguardare gli effettivi valori urbanistico-architettonici talora presenti nell’edilizia esistente. Sono noti solo pochi casi in cui, alla superflua e generalizzata perimetrazione di zone di recupero “presunte”, è stata preferita — attraverso indagini (svolte “sul campo”) sulla morfologia dell’abitato e sulle relative tipologie edilizie — una puntuale e significativa individuazione di singoli edifici o di piccoli gruppi di edifici in un “perimetro” ristretto, le cui qualità architettoniche definiscono effettivamente i caratteri storico-ambientali del centro urbano, eliminando in radice ogni inutile e pretestuoso lacciolo capace di ostacolare il recupero ed il riuso tanto sospirati. In alcuni Comuni4, per gli isolati compresi nel suddetto “perimetro ristretto”, è stato suggerito di provvedere alla redazione di piani particolareggiati, con la individuazione dei punti nodali e delle singole unità edilizie abbisognevoli di “piani di recupero” (di iniziativa pubblica o privata), adottando però il criterio di limitare quantitativamente le previsioni progettuali di dettaglio, ma nella consapevolezza di dover conciliare l’ineluttabile continua modificazione della struttura urbana con una responsabile tutela delle memorie storico-ambientali. Questa oculata operazione riflette in pieno lo spirito della legge 457/1978, finalizzata alla trasformazione ed al miglioramento della qualità urbana, anche attraverso la forza derogatoria della definizione degli interventi di cui all’art. 31, ma senza trascurare la salvaguardia dei valori storici ed ambientali garantita dalla seconda parte dell’ultimo comma dello stesso citato articolo. All’indomani della legge “Nicolazzi”, nelle realtà comunali in parola si era affermata la convinzione che, da un lato, la formazione dei piani di recupero estesi fosse
4 Cfr. Comune di Pulsano, delibera CC n. 82 del 5.5.1989, con cui venivano meglio specificate le previsioni di recupero già avviate con la delibera consiliare n. 168 del 29.12.1979, ma rimaste inattuate. Al di là del titolo “Legge n. 457/ 1978 – Approvazione piano di recupero edilizio urbano”, quest’ultimo provvedimento si limitava sostanzialmente alla generica individuazione delle Zone A e B del PdF quali “zone di recupero” ed alla formale riproposizione della definizione degli interventi di cui all’art. 31 della legge n. 457/1978.
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2. Esperienze nei piccoli Comuni
2.2
La ristrutturazione edilizia
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necessaria solo in ambiti urbani molto circoscritti dell’abitato, e che, dall’altro, occorresse incentivare, al di fuori dei centri storici e delle zone di recupero, il ricorso all’attuazione degli interventi di cui all’art. 31 suddetto su singoli immobili, spesso ricadenti in zone omogenee diverse. Cominciava a profilarsi il concetto — col tempo divenuto sempre più vivo e concreto — secondo cui il recupero, il riuso e la riconversione sono perseguibili e realizzabili soprattutto, e non soltanto, edificio per edificio. La suddivisione in senso verticale della proprietà – ossia la sostanziale assenza di immobili in condominio — qui lo permette, senza l’inutile imbarcarsi in procedure a dir poco “avventurose” (con esiti incerti, se non negativi) in cui coinvolgere più soggetti privati. La fondatezza di tale assunto sarebbe stata comprovata dall’art. 15 della legge n. 179/1992, con cui veniva ridotta ai rappresentanti del 50% (anziché dei 3/4) del valore dell’edificio la maggioranza dei condomini necessaria e sufficiente a disporre gli interventi di recupero relativi ad un unico immobile composto da più unità immobiliari. In effetti nemmeno questa norma ha stimolato sostanzialmente il ricorso al piano di recupero di iniziativa privata per immobili eccedenti la singola proprietà5. L’allargamento nicolazziano all’intero territorio comunale della possibilità di operare interventi di recupero edilizio si sposava, inoltre, con l’incontestabile fenomeno della acquisita trasformazione delle Zone Omogenee di tipo C del D.M. 1444/1968 in “aree di completamento”, ossia in quelle parti dell’edificato (alias “abitato”) aventi ormai tutte le caratteristiche ed i parametri planovolumetrici delle Zone Omogenee di tipo B dello stesso DM. In alcuni Comuni la dotazione di strumenti urbanistici generali, per lo più PdF, avvenuta in epoca risalente agli anni immediatamente successivi alla legge ponte n. 765/1967, aveva già determinato il formarsi, anche per mezzo dell’abusivismo edilizio di necessità6, di “nuclei edificati” bisognosi di recupero, non sempre e non solo strutturale, ma anche in relazione alle destinazioni d’uso. Occorre infatti considerare che le trasformazioni sociali dell’ultimo trentennio sono state più rapide, più numerose e talora anche più frenetiche rispetto alle precedenti, comportando ripercussioni anche sull’assetto urbanistico-edilizio degli abitati, specie nei Comuni piccoli e, perciò, fisiologicamente in evoluzione oltre che in espansione. Basta qui pensare alle innovazioni tecnologiche in materia di elettronica che hanno prodotto la riconversione commerciale di molti negozietti, nonché l’apertura di nuovi esercizi di tipo inesistente, quale la computeristica, anche solo dieci anni fa. A ciò vanno aggiunti il fenomeno dell’aumento dei nuclei familiari costituiti solo dalla coppia di coniugi o addirittura monocomponenti e quello della immigrazione straniera di provenienza extracomunitaria, che comportano l’esigenza di nuovi alloggi e mini-alloggi dalle tipologie costruttive ed organizzative completamente estranee
5 Essa – verosimilmente – sarà servita a sbloccare situazioni impantanate in calcoli di maggioranze condominiali che impedivano la realizzazione del piano per volontà di impercettibili esiguità. 6 Ossia dell’abusivismo dovuto a parziali difformità, costituite dall’aggiunta di stanze in proporzione allo accrescimento del nucleo familiare.
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agli usi e costumi locali tradizionali. Il “riuso” assume quindi i contorni di una “riconversione sociale e culturale”.
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7 Si tratta dell’abusivismo edilizio, argomento su cui non è possibile intrattenersi in questa sede, poiché merita un approfondimento esclusivo e particolareggiato. 8 Al riguardo si citano, per tutte, CGA Sicilia 10-4-1980, n. 27: “Ai fini edilizi, il concetto di «lotto intercluso» si riferisce all’area posta in zona prevalentemente edificata e dotata delle opere di urbanizzazione, i cui preesistenti fabbricati circondano il lotto ancora inedificato”, C.S., V, n. 417/1986: “la preventiva adozione di un piano di lottizzazione, pur se contemplata dagli strumenti urbanistici, non costituisce presupposto necessario per il rilascio di una concessione edilizia, allorché il relativo fabbricato risulti progettato su un’area integralmente circondata da edifici e in zona pressoché totalmente dotata di urbanizzazioni primarie. In tale evenienza, infatti, viene meno la ragione del piano che è, in buona sostanza, quella di assoggettare ad urbanizzazione un comparto territoriale privo di aggregati abitativi”. 9 L’abusivismo edilizio, come è noto, ha prodotto seri danni soprattutto economici alle Amministrazioni Comunali, private dei mezzi finanziari che potevano costituirsi con i versamenti dei contributi di concessione. Il gettito dei contributi di concessione proveniente dal condono edilizio, già sostanzialmente dimezzato per effetto della legge statale 47/1985 e di quella regionale (per la Puglia, la L.R. 26/1985 e s.m.i.), è stato infatti notevolmente inferiore alle aspettative, e in ogni caso di importo insufficiente a garantire anche solo la realizzazione delle urbanizzazioni primarie. A ciò si è aggiunta l’inerzia delle amministrazioni nel varare i piani di recupero degli insediamenti abusivi, col risultato che in moltissimi casi l’obbligo del versamento dei contributi stessi è svanito anche in conseguenza della prescrizione ordinaria decennale.
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2. Esperienze nei piccoli Comuni
La “liberalizzazione” nicolazziana è intervenuta in un periodo in cui nei piccoli comuni – specie del meridione — le zone di espansione del PdF erano già state interessate da un processo edilizio spontaneo7 che ne rendeva impossibile l’assoggettamento ad un piano urbanistico esecutivo, poiché in massima parte già urbanizzate. Sui lotti ancora liberi, “interclusi” tra costruzioni preesistenti o posti a completamento di isolati o collegati funzionalmente con le opere di urbanizzazione comunali, anche col conforto di espressioni giurisprudenziali favorevoli8, è stato ritenuto legittimo il rilascio di concessioni edilizie nel rispetto delle norme del PdF. In tali circostanze, secondo l’orientamento di molte Amministrazioni Comunali, lo stato di fatto veniva a configurarsi quale vero e proprio piano particolareggiato – almeno per quanto concerne la parte privata dello stesso — e consentiva di non entrare nel merito delle relative procedure di formazione, le cui fasi endoprocedimentali venivano considerate già avvenute. In alcune circostanze, allo scopo di completare il reticolo stradale in via di formazione o di definizione, era richiesto l’impegno del concessionario a garantire lo spazio all’uopo necessario attraverso la relativa cessione gratuita al Comune. Tutto ciò, oltre che conforme allo spirito della legge Nicolazzi, era finalizzato a disincentivare il dilagante fenomeno dell’abusivismo edilizio9, nonché a tentare di rimuovere la stasi dell’edilizia di quegli anni che procurava danni per l’economia e più direttamente per gli operatori del settore. Non andava peraltro sottovalutato il fatto che, per il rifiuto nel rilascio delle concessioni edilizie in un tale contesto territoriale, il Comune era destinato a risultare soccombente nei più che probabili contenziosi amministrativi, in quanto la giurisprudenza riteneva, e ritiene costantemente, illegittimo il diniego di concessione edilizia motivato con la mancanza del piano particolareggiato o di lottizzazione se l’area interessata dal progetto sia già dotata delle opere di urbanizzazione primaria, e
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riconosceva altresì in tale ipotesi la possibilità di formazione del silenzio-assenso10 a norma dell’art. 8 della legge n. 94/198211. In tali circostanze, pur riaffermando il principio della indispensabilità del PRG e della pianificazione esecutiva quali insostituibili strumenti di un’ordinata funzione di guida dello sviluppo e dell’uso del territorio, bisognava prendere atto che nelle more di tanto si profilava in modo imperioso l’obbligo delle Amministrazioni comunali di dare risposte concrete ed immediate alle esigenze della collettività e della cittadinanza in materia edilizia; esigenze non ignorabili senza provocare gravi ripercussioni e conseguenze negative di carattere economico e sociale. Nell’anzidetto stato di fatto e di diritto, venne quindi ritenuto possibile un ampio ricorso al rilascio delle concessioni edilizie in tutti i suoli liberi che si trovavano nelle condizioni di cui alla lettera b) dell’art. 6, comma 3 della legge n. 94/1982, ossia nelle “aree di completamento” dotate di opere di urbanizzazione primaria o funzionalmente collegate con quelle comunali.
La ristrutturazione edilizia
Da una lettura oltre le righe, l’art. 6 della legge “Nicolazzi” poteva apparire anche una norma che consentiva e consigliava una preventiva regolamentazione del potere comunale di rilascio delle concessioni edilizie, sotto il profilo dei requisiti oggettivi delle aree interessate12. Pertanto, molte Amministrazioni Comunali al riguardo impartirono direttive e precisazioni ai competenti organi comunali13. Con i relativi provvedimenti consiliari si autorizzava il rilascio delle concessioni edilizie: — sui suoli ricadenti nelle zone di espansione aventi le caratteristiche di “aree di completamento”, dotate delle fondamentali opere di urbanizzazione primaria o direttamente e funzionalmente collegabili con quelle comunali esistenti o previste da un apposito programma urbanizzativo; con l’obbligo per il concessionario di garantire l’inedificabilità dello spazio necessario per il prolungamento o il completamento di strade esistenti nel rispetto di un reticolo stradale già in essere o in via di formazione o di definizione, nonché la realizzazione dei parcheggi pubblico e/o privato secondo gli standards di legge; — per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia o di sostituzione edilizia singola (demolizione oppure crollo e ricostruzione) di cui alle lettere c) e d) dell’art. 31 della L. 457/1978, in tutte le zone edificate (salvo le Zone di tipo F ed eccezioni puntualmente individuate), anche in assenza
10 L’istituto del silenzio-assenso – già sottoposto ad abrogazione implicita con l’art. 4 della legge 4.12.1993 n. 493 secondo un orientamento contestato da una parte della dottrina (Cavicchini) – è stato definitivamente espunto dall’ordinamento giuridico per effetto dell’abrogazione esplicita intervenuta con l’art. 136 del TU edilizia n. 380/2001. 11 Cfr. TAR Campania, III, Napoli, n. 281/1991; C.S., V, n. 920/1992. 12 È ben noto che – fino all’art. 4 del D.L. n. 398/1993, convertito in L. n. 493/1993 e s.m.i. – l’iter per il rilascio del provvedimento che abilita il richiedente a costruire non aveva trovato una formulazione legale, ma con l’art. 6 della legge Nicolazzi si gettarono le basi fondamentali affinché ciò avvenisse. La discrezionalità della p.a. nel rilascio della concessione edilizia era destinata a subire – ope legis – una notevole limitazione rappresentata dalle effettive condizioni dell’area interessata. 13 Cfr. Comune di Pulsano, delibera CC n. 74 del 22.09.1984.
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Le pubbliche amministrazioni, nella presa d’atto della materiale impossibilità della redazione di piani esecutivi estesi ad idonei settori di intervento – per tutte le motivazioni amministrative, sociali e culturali già viste – hanno ritenuto conveniente ed opportuno consentire interventi edilizi singoli nei termini suddetti. In particolare, la normativa così introdotta relativamente agli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, era considerata anch’essa, come le definizioni degli interventi di cui all’art. 31 della legge n. 457/1978, prevalente rispetto alle disposizioni dello strumento urbanistico generale vigente. Il recupero di singoli immobili spesso consisteva nel “recupero volumetrico” della costruzione esistente, a cui si aggiungeva talora anche la modifica di destinazione d’uso. Invero con l’espressione “sostituzione edilizia singola (demolizione oppure crollo e ricostruzione)” si indicava sostanzialmente un intervento di ristrutturazione consistente nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma dell’immobile preesistente, com’è ora definito dal D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i. L’intervento di recupero di singoli immobili comportante modifica di destinazione d’uso, parziale o totale, rispetto al preesistente, secondo l’orientamento più seguito nelle pubbliche amministrazioni, era ed è sottoposto alla procedura di: adozione, pubblicazione, osservazioni ed opposizioni, controdeduzioni ed approvazione definitiva, prevista dall’art. 30 della legge n. 457/1978 per i piani di recupero di iniziativa privata. Trattandosi di interventi in Zone B – di completamento – o C – di espansione — ma con caratteristiche di completamento, viene giustificatamente omesso il ricorso alla stipulazione della convenzione di cui all’art. 28, comma 5 della legge n. 1150/1942, richiesta dal comma 3 dell’art. 30, poiché lo stato di fatto dell’area in cui ricade l’immobile – di zona urbanizzata o inserita nei programmi urbanizzativi comunali – configura di per sé un piano particolareggiato e, quindi, non può prevedersi una nuova lottizzazione planovolumetrica. La concessione edilizia (ora il permesso di costruire) conseguente all’approvazione definitiva del piano di recupero viene quindi assoggettata al contributo di concessione (ora di costruzione) e ciò perché l’istante è tenuto comunque a concorrere al costo globale del carico urbanistico derivante dal riuso dell’immobile, ancorché già considerato dallo strumento generale vigente ai fini del D.M. n. 1444/1968. Se l’intervento è accompagnato da modifica di destinazione d’uso comportante sovraccarico urbanistico, il recupero edilizio è ammesso solo allorché lo stesso soddisfi al suo interno anche l’incremento di standards. Qualora ciò non sia possibile, lo stesso intervento diventa bisognevole di supporto esteso alle aree circostanti, assumendo i contorni e le caratteristiche di un “piano di recupero urbanistico” come definito già dalla lettera e) dell’art. 31 della legge n. 457/1978 ed ora dall’art. 3, comma 1 lettera f) del TU edilizia ex D.P.R. n. 380/2001.
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2. Esperienze nei piccoli Comuni
di strumentazione urbanistica esecutiva qualora vi fosse il mantenimento della destinazione d’uso.
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6.3
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83 83 86 89 91 91 93
■ 7 Rassegna della Giurisprudenza .......................................................................... Esperienze nei piccoli Comuni ..................................................................................... Definizione di ristrutturazione edilizia........................................................................ Ristrutturazione edilizia, modifica di destinazione d’uso, standards urbanistici ...... La disciplina edilizia ..................................................................................................... Il regime sanzionatorio .................................................................................................
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95 95 95 105 112 118
■ 8 Rassegna della legislazione regionale ...............................................................
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■ 9 Casistica, con brevi cenni sul Piano di Recupero .......................................... 9.1 Premessa ............................................................................................................... 9.2 Cenni sul Piano di Recupero............................................................................. 9.2.1 Piano di recupero e rapporti con gli strumenti urbanistici vigenti ..... 9.2.2 Equiparazione (infondata) del Piano di Recupero ad un Piano Particolareggiato........................................................................................... 9.2.3 Sulla individuazione della zona di recupero ex art. 27 della legge n. 457/1978 e sulla modifica di destinazione d’uso ......................... 9.2.4 Rapporti con il D.M. n. 1444/1968 ..................................................... 9.2.5 Il problema dei parcheggi ..................................................................... 9.2.6 Sulla eventuale mancanza della convenzione di cui all’art. 28, c. 5 della legge n. 1150/1942....................................................................... 9.3 Illustrazione della casistica ................................................................................ 9.3.1 Nota esplicativa ...................................................................................... 9.3.2 Caso n. 1 - Recupero volumetrico di immobile (1993-94).............. 9.3.3 Caso n. 2 - Recupero volumetrico di immobile (1998-99).............. 9.3.4 Caso n. 3 - Ristrutturazione edilizia di civile abitazione (1999) .... 9.3.5 Caso n. 4 - Recupero volumetrico di un cinema (1999-2000) ....... 9.3.6 Caso n. 5 - Recupero planovolumetrico di una civile abitazione (2000 – 2001) ......................................................................................... 9.3.7 Caso n. 6 - Ristrutturazione edilizia di un fabbricato rurale (2000 – 2001) .................................................................................................... 9.3.8 Caso n. 7 - Ristrutturazione edilizia di uno stabilimento balneare (2001 - 2004)..........................................................................................
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Indice sommario
6.4
Accertamento di conformità .............................................................................. 6.3.1 Aspetti generali ...................................................................................... 6.3.2 Accertamento di conformità per ristrutturazione edilizia “pesante” .... 6.3.3 Accertamento di conformità per ristrutturazione edilizia “leggera” ..... Sanzioni penali .................................................................................................... 6.4.1 Irrilevanza penale degli abusi di ristrutturazione edilizia “leggera” .... 6.4.2 Sanzioni penali per interventi di ristrutturazione edilizia “pesante” ...
■ Appendice normativa ............................................................................................... D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (G.U. 20-10-2001, n. 245, s.o. n. 239/L) — Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia .....
Applicazioni ll testo, dopo aver analizzato il problema del riuso urbano, si concentra sulle difficoltà applicative della legge 457/1978 (attuazione dei piani o dei programmi di recupero) nei piccoli comuni e sull’utilizzo, sempre più frequente, della ristrutturazione edilizia quale strumento migliore per l’attuazione di una politica della riconversione urbana. L’opera individua i titoli abilitativi (permesso di costruire/denuncia d’inizio attività) necessari per l’esecuzione degli interventi di ristrutturazione, i termini di inizio e di ultimazione dei lavori e il regime sanzionatorio amministrativo e penale. Completano il volume un’ampia rassegna di giurisprudenza e di legislazione regionale in materia e, per finire, un capitolo di casi pratici relativi ad interventi di ristrutturazione edilizia o di recupero volumetrico di immobili privati. Sommario: 1. Il problema del riuso urbano – 2. Esperienze nei piccoli comuni – 3. Definizione di ristrutturazione edilizia – 4. Ristrutturazione edilizia, modifica di destinazione d’uso, standards urbanistici – 5. La disciplina edilizia - 6. Il regime sanzionatorio – 7. Rassegna della giurisprudenza – 8. Rassegna della legislazione regionale – 9. Casistica, con brevi cenni sul piano di recupero
Cosimo Schirano, Istruttore Direttivo Tecnico nel settore Urbanistica e Edilizia del comune di Pulsano (TA), svolge anche attività di consulenza in materia urbanistica ed edilizia. È autore di numerose pubblicazioni sull’argomento.
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E8 - Testo unico e regolamenti edilizi E9 - Il nuovo testo unico in materia edilizia E12 - Il responsabile del procedimento in edilizia E21 - La nuova denuncia di inizio attività E34 - Mutamento di destinazione d’uso funzionale E35 - Manuale di diritto urbanistico
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