La colpa delle navi di Franco Maria Puddu
Quanto pesarono le costruzioni navali sulla prima crisi energetica mondiale
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partire dagli Anni 50 dello scorso secolo, nonostante fosse appena terminato un conflitto mondiale, numerosi eventi causati dagli ultimi sprazzi di mentalità coloniale europea, dai conflitti regionali del Medio Oriente e dall’utilizzazione del petrolio come arma per ricattare l’Occidente, hanno creato i presupposti, e infine dato il via, alla crisi energetica che oggigiorno affligge e condiziona tutti i Paesi più industrializzati. Sebbene il moderno homo tecnologicus ritenga di essere al centro della più grande jattura mai esistita, quasi rimpiangendo il periodo nel quale non era schiavo dell’oro nero che fuoriesce, maleolente, dalle trivellazioni con le quali lo ricerca a migliaia di metri di profondità, basterebbe che si limitasse a osservare meglio la storia per imparare che quella petrolifera non è stata la sola crisi energetica mondiale. Tra la fine del XVI secolo e la metà del XVII, ne esplose infatti una tanto disastrosa che alcune sue conseguenze sono giunte sino a noi: parliamo della oggi pressoché sconosciuta crisi del legno.
La crisi del legno Sin dall’antichità più remota il legno è stato, per l’uomo, una risorsa di inestimabile valore dalla quale traeva fuoco, armi, materiale da costruzione, cor-
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tecce e fibre per vestirsi, ossia quanto gli era indispensabile per sopravvivere; anche quando, dopo alcuni secoli, iniziò a svilupparsi la civiltà dei metalli, il legno non perse di importanza, anzi, il suo impiego subì una “specializzazione”. Adesso, infatti, gli edifici migliori si costruivano in mattoni, pietra e marmo, e nelle città anche le case popolari erano a struttura mista, gli indumenti erano in fibra animale o vegetale e le armi in ferro, ma l’edilizia si basava sempre sul legno (non più per costruire capanne, ma per edificare città), mentre per lavorare i metalli era esplosa la necessità di disporre di enormi quantità di carbone vegetale (quello fossile, utilizzato dopo il 1700, farà la sua comparsa solo nel basso medio evo, anche se all’epoca non si sapeva cosa farne). Infine il legno rimaneva indispensabile per le grandi armi da guerra, ma, soprattutto, per le navi. L’Europa era allora letteralmente ricoperta da immense distese di alberi secolari quali oggi noi non possiamo neanche immaginare, ma la tenace e devastante formica umana, utilizzandole indiscriminatamente per i propri fini, arrivò a causare una deforestazione senza pari. Si pensi che tra l’anno 1000 e il 1350, periodo nel quale si registrò il più alto picco di espansione demografica nel Vecchio Continente, le aree boschive che lo ricoprivano per tre quarti vennero ridotte di circa il 70%, una cifra, a pensarci bene, inaudita.
A quel punto, però, Madre Natura decise di riportare ordine nel suo regno con uno dei provvedimenti più drastici che si potessero scegliere, scatenando il terzo cavaliere dell’Apocalisse, ossia la pestilenza. Tra il 1347 e il 1352 la Peste Nera, come venne chiamata la “madre di tutte le epidemie”, mieté in Europa tra i 20 e i 25 milioni di vittime: un terzo circa della popolazione. Questo drammatico evento diede modo a boschi e foreste di tornare ad avanzare, essendo venuta a mancare l’azione devastatrice dell’uomo, ma dal 30% del territorio Quest’immagine di poppa della trireme Olympias, ricostruzione eseguita nel 1987 in cui erano stati “relegati”, la rida un Cantiere britannico su commissione della Marina ellenica, evidenzia quanti conquista del terreno perduto non tronchi venissero utilizzati per remi, alberi e timoni; in apertura, una miniatura dai arriverà mai a superare il 45% di Tacuinas Sanitatis Casanatensis (XIV secolo) riproduce una fase della lavorazione del legname quello precedentemente occupato. Quando, a 50 anni dalla fine delprovince e colonie di Roma i condannati alla crola pestilenza, la popolazione tornò, prima timidacifissione erano costretti a portare sino al luogo mente, poi in maniera gagliarda, ad aumentare, e del supplizio solo l’asse trasversale dello strumenla richiesta di legname risalì vertiginosamente, le to sul quale sarebbero stati uccisi, detto patibulum, risorse europee di quest’ultimo erano ridotte di un che veniva poi utilizzato per altre esecuzioni. Una terzo rispetto a quelle disponibili nell’anno 1000. croce “usa e getta” sarebbe stata uno sperpero Alla fine della prima metà del 1500, con l’inizio inutile e assurdo del legno. delle navigazioni oceaniche che richiedevano grandi navi, degli espansionismi coloniali e con l’avLe ragioni delle navi vento delle armi da fuoco, aumentò la richiesta di Tuttavia esistevano esigenze vitali, come i ferro e di conseguenza del carbone, ossia del legno, commerci marittimi, la loro difesa e il mantenie il prezzo di quest’ultimo salì alle stelle arrivando mento del potere sul mare, di fronte alle quali ad aumentare incontenibilmente in pochi decenni, non si poteva risparmiare; una o più flotte da tanto che molti Paesi giunsero ad indebitarsi con guerra dovevano essere sempre disponibili per altri, quando non a intraprendere guerre per imcontrastare minacce improvvise. possessarsi di boschi e foreste. Il legno, come oggi Le navi delle principali marine dell’antichità, l’uranio, era diventato materiale strategico. erano di svariati modelli, dalla veloce liburna alle Le grandi cave (l’estrazione dei metalli avveniva pluriremi (con due, tre, quattro, cinque o sei ordiper lo più a cielo aperto) tedesche, boeme e slovacni di remi), ma le più numerose e diffuse erano le che, che consumavano ciascuna decine e decine di eccellenti triremi che, con alcune modifiche domigliaia di metri cubi di legname all’anno, spesso vute al passare del tempo e al nascere di nuove per carenza di questo dovettero lavorare a ritmo ritecnologie, scorreranno i mari sino a servire ancodotto per lunghi periodi, quando addirittura non ra la flotta veneziana del XVIII secolo. furono costrette a chiudere. Per le navi, invece, Le esperienze di navigazione e di combattinon si potevano fare sconti: le prore dovevano mento, oltre al fatto che derivavano tutte dallo continuare a solcare le onde, solo che adesso non stesso modello di base ellenico, fecero si che quevenivano più realizzate in legno fresco, ma con fuste unità fossero sostanzialmente identiche tra losti di essenze di prima qualità e ben stagionati. ro. Lunghe una quarantina di metri ospitavano, Come si era arrivati a questi limiti? oltre all’equipaggio, 180 rematori (cittadini voIl consumo del legno, come abbiamo visto, era lontari, criminali condannati o prigionieri di sempre stato elevato, e sin dall’antichità il suo guerra) impegnati nella voga su due squadre, una prezzo non era mai stato basso. Si pensi che nelle
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Questa realistica immagine ripresa dall’Arazzo di Bayeux (XI secolo) mostra l’abbattimento degli alberi che, lavorati da personale specializzato e poi accatastati, vengono utilizzati dai maestri d’ascia per la costruzione degli scafi dei drakkar
per lato, su tre ordini dall’alto in basso, rispettivamente di 31, 27 e 27 uomini. Ogni rematore disponeva di un remo lungo dai 4 ai 4,50 metri (solo alla metà del XVI secolo si avranno remi con più rematori) perfettamente dritto, ben bilanciato, dotato di una baderna di cuoio che impediva all’acqua di mare di penetrare dall’apertura dello scalmo. Se utilizziamo questi dati come quelli di una
trireme standard, ci accorgiamo che per ogni nave dovevano essere abbattuti e utilizzati solamente per la propulsione ben 172 alberi (170 per i remi e 2 per gli alberi), più quelli necessari per la realizzazione dello scafo e dei due timoni. Per la costruzione di questo il legno poteva anche non essere tutto di prima scelta, ma remi e alberi, per la natura del loro impiego, non ammettevano imperfezioni. In tutti i casi non andiamo
LA STORIA DEL BOSCO CANCEGIO Anche i boschi veneti corsero il rischio di estinzione come le foreste inglesi, sia pure a minor livello in quanto le navi della Serenissima non erano grandi vascelli pluripontati, ma piccole galere (lo stesso Bucintoro dogale è una galera di rappresentanza). Tuttavia necessitavano, come abbiamo visto, di materiale di eccellenza, e per questo, nel 1404, Venezia si annesse il Bosco dell’Alpago (poi detto del Consiglio o Cansiglio, nome corrotto popolarmente in Bosco Cancegio), utilizzato, sin dalla preistoria, come territorio di caccia e nominato per la prima volta in un documento ufficiale da Berengario I nel 923. Questa sterminata faggeta (legno principe per le galere e detta per la sua Ancora oggi, nel bosco del Consiglio, è possibile imbattersi in cataste di tronchi in attesa della destinazione “bosco da reme”) fu governata e controllata, dal 1548, da un stagionatura, come avveniva quando i legnami Capitano Forestale del Consiglio, e vi lavorarono compagnie di boscaioli dell’enorme faggeta erano destinati alla costruzione delle navi dello Stato da Mar dogale specializzati, detti “remeri”, che abbattevano i faggi migliori per farne remi da galere. Al suo interno era proibito il passaggio, la caccia, la raccolta di qualsiasi frutto, fungo o legname e il pascolo degli animali; le strutture (recinti, rifugi, ovili) atte all’alpeggio situate a meno di un miglio dal bosco, venivano distrutte, salvo poi dimezzare la distanza a causa delle lamentele della popolazione, mentre casere e carbonaie continuarono a mantenersi oltre il miglio. L’importanza di questo bosco era tale che il malcapitato che vi si fosse inoltrato, se sorpreso dai guardiani, sarebbe stato spedito di corsa a provare per molti anni la bontà della materia prima fra la quale si era incautamente aggirato, dal più scomodo punto di osservazione esistente: la panca del forzato sul ponte di una galera. Passato, con il Veneto, ai francesi dopo la cessione dei poteri dell’ultimo Doge a Napoleone nel 1797, pochi mesi dopo veniva ceduto agli austriaci con il trattato di Campoformido; nel 1866, con l’annessione del Veneto all’Italia, diveniva Foresta Demaniale Inalienabile dello Stato italiano, sotto la gestione dell’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali.
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lontani dal vero se riteniamo che una di queste navi richiedesse oltre 250 alberi. Soffermandoci su due celebri battaglie navali di allora, vediamo che a Salamis (più nota come Salamina), nel 480 a.C. 300 navi greche combatterono contro 600 persiane, mentre a Milazzo nel 280 a.C., 100 unità romane si scontrarono contro 120 cartaginesi; sulla base di quanto sopra esposto, possiamo approssimativamente calcolare che per dar vita solo allo scontro di Milazzo furono impiegati oltre 40.000 alberi; possiamo immaginare l’entità dell’ecatombe arboricola che rese possibile la battaglia di Salamis.
Niente andava sprecato Bisogna comunque dire che in quei secoli ancora non erano stati prodotti gli spaventosi depauperamenti del patrimonio forestale dei quali abbiamo parlato, e la disponibilità di materiali era praticamente illimitata. Inoltre dopo ogni battaglia, lo specchio di mare dello scontro era teatro di minuziosi recuperi, con i quali il vincitore salvava il prezioso legname degli scafi fracassati che, con manovre, alberature, vele e remi andava alla deriva. Questo salvataggio logistico permetteva di contenere lo spreco di materiali che altrimenti sarebbero andati persi, e prolungava notevolmente la vita delle navi in servizio. Resta comunque il fatto che Roma, nel momento del suo massimo fulgore, disponeva di due flotte principali (classis) destinate al controllo del Mediterraneo, la classis Misenensis (di base a Miseno) e la Ravennatis (di base a Ravenna), oltre ad altre nove, di mare e fluviali, denominate provinciali: la Britannica (sulla Manica), la Germanica (sul Reno), la Pannonica (sul Danubio), la Moesica (Mar Nero occidentale e delta del Danubio), la Pontica (Mar Nero meridionale), la Syriaca (coste di Siria, Palestina e Turchia meridionale), la Alexandrina (coste dell’Egitto), la Mauretanica (coste dell’Africa occidentale) e la Libica (coste della Libia) per un totale non quantificabile, ma comunque enorme, di navi di tutti i tipi. Con la caduta dell’Impero romano decaddero a lungo anche le grandi attività navali dell’Occidente ad eccezione di quelle, peraltro improntate a necessità locali, o a lunghi viaggi in quadranti inusuali per le popolazioni della maggioranza dell’Europa, dei vichinghi e dei sassoni. Questi ultimi, regnando sull’Inghilterra, diedero vita sotto Alfredo il Grande (849-899) alla prima Marina inglese, embrione di quella che sarebbe diventata un giorno la Royal Navy, che pur non essendo un vero strumento di
Una fornace per la fusione del ferro dal De re metallica, il trattato scritto nel 1530 dal mineralogista tedesco Georg Pawer (latinizzato in Georgius Agricola), che rimase insuperato, per esattezza di contenuti, per circa due secoli
guerra ma semmai più adatta alla scorreria e al trasporto, arrivò a contare, alla metà del 900, circa 400 navi, in maggioranza sul tipo dei drakkar. Ci avviciniamo così al momento della crisi. Mentre nel Mediterraneo le costruzioni navali si mantenevano su un livello relativamente basso, nella Manica gli orientamenti erano cambiati, e a partire dal 1100 circa in avanti, iniziò un sempre più duro fronteggiarsi tra i Paesi che si trovavano sulle due sponde del Canale; per questo sia Edoardo III che il successivo Giovanni Senza Terra continuarono a mantenere forze navali superiori alle 500 unità.
Le navi cambiano fisionomia Le navi, inoltre, cambiavano fisionomia: non più scafi snelli e dalla linea pura e filante come le
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Il vascello a tre ponti da 100 cannoni Royal Sovereign visto da tre quarti di poppa, in un olio del 1703 di Willem Van de Velde il Giovane, conservato presso il National Maritime Museum di Greenwich, in Inghilterra
galere o i drakkar, ma più massicci, capaci, alti, in grado di portare molti soldati anche perché, dal momento che le tecniche di combattimento per speronamento erano rese scarsamente applicabili dagli stessi teatri marittimi del nord, la tattica principale era quella dell’abbordaggio, quindi era facilitato chi poteva portare più uomini ed era più alto (ma non certo più stabile) sul mare. Le navi andavano sempre più assomigliando a dei castelli quando venne ideato un marchingegno che ne rivoluzionò la fisionomia. Fino a quel momento le armi da fuoco utilizzate a bordo erano poche e leggere, perché i pesanti cannoni dell’epoca, posizionati sui ponti con il loro relativo munizionamento, erano una tremenda minaccia per la stabilità dello scafo. Nella seconda metà del 1500, però, un ignoto inventore (che molti identificano in un carpentiere di Brest di nome Descharges) ideò il sabordo, un’apertura (inizialmente rotonda, poi quadrata) realizzata nella fiancata della nave all’altezza dei vari ponti, chiusa da un portello basculante, stagno e incernierato superiormente. Da questa apertura potevano sparare i cannoni che, essendo ora in basso nello scafo, aumentavano notevolmente
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la stabilità di quest’ultimo e la precisione del tiro; inoltre, essendo così possibile ripartire le batterie su più ponti, il numero di cannoni imbarcati crebbe enormemente, e la salva della nave prese il nome, dato che le batterie erano disposte sui due fianchi, di “fiancata”. Da questo tipo di nave gli spagnoli svilupparono la formula dei galeoni. Naturalmente, le murate dovevano essere molto più spesse per sopportare lo sconquasso delle cannonate in arrivo e del rinculo dei propri pezzi in partenza, mentre i ponti erano anch’essi sovradimensionati in quanto dovevano sopportare le violente “passeggiate” di pezzi che, tra bocca da fuoco e affusto “a carretta” su quattro piccole ruote, potevano pesare fino a 2 tonnellate ciascuno. Di conseguenza la necessità di legno cresceva in maniera esponenziale (gareggiando in questa tenzone con il suo prezzo), come pure quella che fosse di ottima qualità. Oramai il 90% delle navi era costruito in eccellente quercia e le secolari foreste, fonti della richiesta materia prima, spesso scomparivano letteralmente dalla faccia della terra aiutate in questo, a pari merito, dalle voraci richieste delle fonderie per la lavorazione del ferro. Tanto per fare qualche esempio, ricordiamo che per la costruzione del Sovereign of the Seas (in seguito Royal Sovereign) varato nel 1637, occorsero ben 10.000 metri cubi di legname, in pratica un’intera foresta della contea del Northumberland, la cui contessa ebbe a esclamare, con amarezza ma con garbo perché le sue parole non giungessero alle orecchie di Sua Maestà, “Mi hanno tolto un’intera foresta per farne una sola nave!”. Per il Victory, invece, il famoso vascello nelsoniano trionfatore di Trafalgar, varato nel 1765 sul-
Questo dipinto di Ivan Ivanovich Shishkin (1832-1898) intitolato Bosco di querce ci mostra quale doveva essere l’aspetto delle grandi foreste inglesi, già in larghissima parte abbattute quando l’artista russo immortalava quelle del suo Paese
la base dei piani di un altra grande unità, il Royal George, varato una decina di anni prima, occorsero circa 6.000 alberi (90% querce, il rimanente abeti, olmi e pini). Gli inglesi amavano particolarmente le loro querce (oaks) specie da quando, nel 1650, Re Carlo II Stuart era sfuggito ai seguaci di Oliver Cromwell rifugiandosi tra i rami di una quercia che venne perciò battezzata The Royal Oak. Per riconoscenza questo nome venne assegnato, tra il 1664 e il 1914 a ben otto unità che servirono nella Royal Navy: un vascello da 76 cannoni varato nel 1664, uno da 70 cannoni varato nel 1674, uno da 74 cannoni del 1769 poi usato come nave prigione, uno da 74 cannoni del 1798, ribattezzato Renown prima del varo, uno da 74 cannoni del 1809, una fregata corazzata del 1862, una corazzata a barbette del 1892 e una corazzata monocalibra del 1914.
“Britannia rules the waves” Con queste, e tante altre belle e validissime navi, l’Inghilterra giunse veramente a “governare le onde” ottenendo il dominio incontrastato degli oceani fino al 1914. In questo periodo subì due sole sconfitte da parte dei francesi, nel 1781, nella baia di Chesapeake, sulla costa atlantica degli Stati Uniti e nel 1810, a Mauritius. Adesso, però, abbiamo l’altra faccia della medaglia. A partire dal periodo Stuart, circa dalla seconda metà del 1600 al 1714 con una breve interruzione, in Inghilterra la produzione nazionale del legname era stata protetta e curata, ma il primo danno era già avvenuto: tra il 1500 e il 1650 il prezzo del legname di qualità era praticamente quintuplicato, mentre la richiesta dai cantieri navali e dalle miniere continuava a giungere pressante. L’industria siderurgica venne agevolata dalla rivoluzione industriale che, alla metà del XVIII secolo, introdusse l’impiego del carbon fossile, del quale l’Inghilterra è ricchissima, che dava un rendimento nettamente superiore a quello di legno. Ma ci sarebbero voluti circa 150 anni, prima che gli scafi delle navi da guerra abbandonassero il legno per l’acciaio. Così, mentre la rivoluzione industriale migliorava una situazione, l’Inghilterra utilizzava le ultime riserve di legname destinate alla Royal Navy, e anche se la cosa venne passata sotto silenzio per ovvii motivi, finì con il rendersi dipendente dai Paesi Bassi per l’importazione di legname pregiato per le costruzioni navali.
In questo bisogna ammettere che l’Ammiragliato britannico fu molto lungimirante, e in alcune occasioni riuscì ad agire con preveggenza per evitare di peggiorare la situazione. Ad esempio, quando si trattò di allestire le unità della East India Company, che dal 1600 al 1874 garantì e mantenne per la Corona Britannica il monopolio degli scambi con Asia, Africa e, poi, America, le navi demandate a questo importantissimo incarico vennero allestite ed armate in apparenza secondo lo standard militare. In realtà, pur svolgendo con onore i compiti loro affidati furono in genere unità di seconda linea, per scelta di materiali, armamenti e addestramento del personale militarizzato di bordo. Il meglio era riservato alla Royal Navy. Come pure la capacità di molti comandanti (e dei loro equipaggi) per la manutenzione o il cambio delle parti superiori degli alberi (la cosiddetta sghindatura) o dei pennoni in situazioni di maltempo o a ridosso dei combattimenti, era una virtù coltivata per necessità con addestramento e una disciplina ferrea affinché la gente imparasse bene quelle manovre, dalla cui applicazione sarebbe potuta dipendere la salvezza della nave. Le navi, senza distinzione di classe, soffrivano spesso di danni, anche gravi, nella loro parte più delicata ed essenziale: l’alberatura. Ma basi, arsenali o le scorte di bordo non sempre disponevano di sufficienti parti di rispetto, e non di rado era necessario doversi accontentare di quanto era disponibile secondo il vecchio detto che recita “c’è quel che c’è”. In conclusione, la necessità di dover disporre di valide flotte fu comune a tutte le maggiori potenze, che si trovarono a fronteggiare problemi di disponibilità di materia prima abbastanza comuni, anche se noi abbiamo focalizzato il nostro discorso sull’Inghilterra che nell’economia del ragionamento, ci è apparsa come la più indicativa. Non si può escludere che il confronto necessità/costo-disponibilità alla lunga avrebbe potuto cedere in favore della seconda funzione se non fosse sopravvenuta la grande industrializzazione, che proprio in Inghilterra diede i suoi primi e maggiori risultati. D’altronde anche le navi da guerra, seguite da quelle commerciali, tornarono a cambiare fisionomia, passando dagli scafi in legno a quelli in acciaio, poi dalla propulsione eolica a quella a carbon fossile, quindi a quella a nafta. Ma questa è ■ un’altra storia.
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