Amore e potere Secondo la tradizione cinese, l’uomo si colloca tra cielo e terra. Come dice Raimon Panikkar, è guidato da due forze contrapposte: amore e potere. L’amore spinge l’uomo verso la luce, superando la sua identificazione nel corpo, nei sensi, nella materia, nell’oscurità
della
mente
individuale.
L’amore
lo
stimola ad ampliare la sua visione e ad avventurarsi oltre i limiti angusti della separatività,
dell’avidità e
dell’egoismo, fino a sentirsi partecipe attivo della grande rete della vita. Lo induce ad allargare la propria empatia, fino ad includervi tutti gli esseri. Come fratelli o amici. Fino a sentire la loro sofferenza come la propria. La sua essenza è spirituale: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, diceva il sommo poeta. Pur nascendo dalla terra, l’uomo aspira a raggiungere il cielo, sentendosi unito a tutto ciò che esiste.
L’amore è una forza attrattiva e unitiva. E’ la forza che favorisce la coesione e l’unità dove regna il caos e la dispersione.
Unica
fonte
autentica
di
vitalità
e
creatività, promuove gioia, armonia e guarigione in ogni contesto in cui viene praticata. Ma l’uomo ospita anche un’altra forza, di segno opposto:
il
potere,
inteso
come
potere-dominio.
L’uomo medio è attratto dal potere, come le api dal miele. La sua incessante ricerca lo trattiene e lo tira verso le tenebre, verso i bassifondi della coscienza, tenendolo separato, in competizione con gli altri ed alienato da se stesso.
L’amore unisce. Il potere divide.
Un movimento spirituale, se si lascia contaminare dal potere, si perverte nel suo opposto: si trasforma in setta o in organizzazione gerarchica, in competizione con altre per la conquista del territorio. Dietro la
facciata esibita, si nascondono falsità e bassezza. Equanimità
e
trasparenza
lasciano
il
posto
a
prevaricazione e segreto. Come l’amore produce gioia dell’essere, così il potere produce male e sofferenza.
“Mi sembra che questo sia vero per chi lo subisce, non certo per chi lo pratica!”
A livello superficiale appare senz’altro così. Chi più ha, chi dispone di più mezzi, chi può dire agli altri che cosa fare, sembra in una posizione invidiabile. Chi è soggetto al potere altrui, invece, appare in una posizione
sfavorevole,
svantaggiata
o
perfino
miserabile. Ma questa è esattamente la visione che il poteredominio cerca di mantenere ed alimentare. A quale scopo? Allo scopo di essere oggetto di desiderio e quindi diffondersi sempre di più, in modo sottile e
indisturbato. Come un virus, che cerca di colonizzare ogni organismo a disposizione per proliferare. Ma anche come un topo, un gatto o un coccodrillo: il loro istinto li porta a fare tutto il possibile per ricoprire la terra della loro discendenza. I topi in questo sono certamente più bravi, avvantaggiati dalle
piccole
proporzioni e dalla loro straordinaria adattabilità ad ambienti differenti. Entro certi limiti, gli umani non sono affatto diversi dai loro antenati meno evoluti. E lo stanno dimostrando in modo esemplare in questi ultimi cent’anni, essendo la popolazione più che triplicata, a spese di tutte le altre specie, che pure vantavano un più antico diritto ad abitare su questa terra. Ma nell’uomo è emersa una nuova capacità, non presente nei predecessori neppure più prossimi: la capacità di parlare, raccontare, fare storia, cultura, scienza. Una capacità che ha impresso un moto esponenziale alla spinta evolutiva, non più limitata alle mutazioni genetiche o epigenetiche, sempre piuttosto
lente, ma affidato ad elementi assai più immateriali, quali sono le memorie, i pensieri, i sentimenti. Alcuni autori li chiamano sinteticamente “memi”, onde sottolinearne l’aspetto immateriale. Essi si tramettono di
generazione
in
generazione,
prolificano
e
modo
analogo
qualunque
altro
diffondono
in
organismo
vivente
quando
si
a
si
trova in ambiente
favorevole. Entrano nella testa delle persone senza che esse ne abbiano il minimo sospetto. Come i membri di ogni specie, cercano di occupare tutto lo spazio possibile, in concorrenza tra loro, ma in netto vantaggio su tutti gli organismi che li ospitano.
“Stai dicendo che la ricerca del potere è un meme molto diffuso?”
Esattamente. Un po’ come i topi o, ancora meglio, certi batteri o virus che, essendo ancora più piccoli, sono sfuggiti all’osservazione fino a poco più di un
secolo fa. Non essendo visibili, i loro effetti venivano attribuiti ad altre cause, spesso assai fantasione e prive di ogni fondamento reale. In tal modo, i rimedi non potevano essere molto efficaci. Quando
finalmente
furono
scoperti
grazie
al
microscopio, si credette di aver compreso l’origine di quasi
tutte
le
malattie
e
di
potercene
liberare
combattendo direttamente questi intrusi. In parte avevamo ragione. In parte avevamo torto. C’erano ancora molte cose che non vedevamo, troppo piccole per
essere
oggetto
di
osservazione.
Oggi,
che
disponiamo di mezzi infinitamente più potenti e sofisticati per osservare qualsiasi oggetto dotato di proprietà materiali, ci troviamo ancora in scacco di fronte ai “memi” che colonizzano la nostra mente individuale e collettiva. E, paradossalmente, uno degli ostacoli più grandi non consiste tanto nella loro immaterialità, ma nel fatto che si rendono percepibili chiaramente solo ad un osservatore che ha svolto uno specifico lavoro per
riconoscerli
al
proprio
interno.
Infatti,
solo
riconoscendoli e disidentificandosi da loro, ci si può sottrarre al loro dominio.
“In che cosa consiste questo lavoro?”
Un problema non può essere risolto con lo stesso tipo di pensiero che lo ha generato. Una mente occupata dai “memi” del potere non può riconoscere e risolvere i problemi che essi continuamente ricreano. L’unica possibilità è frequentare un nuovo tipo di pensiero che non trovi in essi il suo fondamento.
“Dal momento che il pensiero è essenzialmente linguaggio, stai dicendo che occorre sviluppare un nuovo tipo di pensiero-linguaggio? Un linguaggio in grado di abituarci a ritagliare dallo sfondo le diverse forme che assume il potere, in modo da vederle chiaramente?”
Sì, distinguerle chiaramente nella vita quotidiana, nel nostro rapporto con gli altri e con noi stessi, invece di lasciarci ipnotizzare dalle loro ombre sfuggenti. Questa è la via da percorrere. Naturalmente non possiamo sostenere che i “memi” del potere-dominio siano sfuggiti all’analisi. Anzi, su di essi è stato detto e scritto quasi tutto e il contrario di tutto. Ma raramente
queste
analisi
erano
libere
dall’influenza perversa dell’oggetto che analizzavano, per il semplice fatto che a guidarle era lo stesso tipo di pensiero-linguaggio che ne è intriso alla radice, e il cui uso inconsapevole non fa che rafforzarli.
“Mi fai un esempio concreto?”
Ogni volta che ricorriamo ad espressioni come “Io”, “Tu”, “Mio, “Tuo”, o utilizziamo il verbo “Essere”, se siamo inconsapevoli dei presupposti impliciti in queste
espressioni, noi stiamo fornendo alimento ai “memi” del potere. Indipendentemente dalle nostre intenzioni, che possono essere le più fraterne ed altruistiche, con il comportamento linguistico comune incrementiamo la nostra e l’altrui ipnosi, che ci fa credere oggetti separati gli uni dagli altri, e per questo stesso motivo, predisposti ad entrare in competizione, in conflitto, in una
perpetua
ed
estenuante
lotta
per
superare
ostacoli e problemi. Questa
è
l’immagine
che
noi
continuamente
riproduciamo attraverso un utilizzo non consapevole del linguaggio.
“Nello stesso modo in cui attraverso i nostri quotidiani acquisti, stiamo cooperando attivamente a depredare la terra e a distruggere ogni forma vivente!”
Sì, credo che, sotto questo aspetto, ci sia molta coerenza nel tipo di società che abbiamo creato: da
soli
o
in
gruppo,
come
dirigenti
o
dipendenti,
parliamo, consumiamo ed agiamo, guidati dalla stessa cornice di presupposti. Chi vede solo incoerenza e frantumazione, cioè la maggior parte degli osservatori, non è focalizzato a cogliere i presupposti più profondi, impliciti
nella
radice
del
nostro
pensiero.
Semplicemente perché è istruito ed allenato a non vederli. Paradossalmente, sono spesso le persone più colte e sofisticate, gli intellettuali, i leader, quelli che soffrono di maggiore cecità selettiva. Essi per emergere, per farsi riconoscere come capibranco, più di altri hanno assiduamente praticato e approfondito proprio il tipo di pensiero-linguaggio, basato sul potre dominio, di cui stiamo discorrendo. Che credono di padroneggiare, mentre ne sono dominati a livello profondo, pagando un grave prezzo in termini di perdita di umiltà, di empatia e di contatto con ciò che è essenziale. Infatti, fatte salve le dovute eccezioni, sovente si esprimono in maniera innecessariamente complicata.
O si occupano di aspetti sempre più specifici e marginali, che attirano l’attenzione perché di moda. Mostrando così di non avere a cuore il problema centrale, quello della sofferenza umana. E quindi rinunciando a svolgere la loro funzione in modo socialmente utile.
“Quale funzione?”
Una funzione irrinunciabile nel cammino verso una democrazia sostanziale: aiutare chi li ascolta, li legge o li segue, - e non ha tempo e mezzi per studiare e informarsi a sufficienza -, a sviluppare consapevolezza sulle questioni essenziali, per consentire scelte che possano favorire il bene comune, anziché la divisione e il potere delle lobby. La preoccupazione fondamentale di intellettuali e leader non sembra quella di farsi capire e far capire, ma di farsi apprezzare da chi può fornire loro i privilegi
che
massimamente
desiderano:
visibilità,
riconoscimento, pubblicità. “E’ più facile che un cammello passi in una cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli”. Che cosa intendeva Gesù con questa frase?
“Il fatto che accumulare denaro corrompe lo spirito!”
Solo il denaro? Un uomo della sua intelligenza poteva affermare una simile banalità? La storia, nel periodo del capitalismo antico, ove si diventava schiavi per debiti, non aveva già mostrato il vero volto del denaro? A dove conduce quando gli uomini se ne fanno servi? No, Gesù ha detto una cosa assai meno scontata: qualsiasi forma che utilizziamo per prevalere sugli altri o su noi stessi,
è una fonte di peccato, cioè di
sofferenza. Non solo il denaro, quindi, ma anche l’intelligenza, la forza, la bellezza, la conoscenza, la
cultura, il successo o il riconoscimento in un certo campo.
Tutte
cose
che
appaiono
desiderabili
o
addirittura virtuose. L’intelligenza non è forse un bene? E la forza o la bellezza? Il problema non è nelle cose in sé, ma nel modo in cui ci relazioniamo ad esse e le utilizziamo. Questo è il punto: ogni volta che ne traiamo un vantaggio competitivo, o che ce ne serviamo per gonfiare il nostro Ego, stiamo creando un fossato tra noi e gli altri. E peggio ancora, un fossato tra noi e la nostra
anima.
Non
importa
se
copriamo
questo
atteggiamento con ogni sorta di giustificazioni e di propaganda, in modo da occultare agli altri la sua natura prevaricatoria. Essa tale rimane, ed è il marchio di fabbrica del potere-dominio. “Ricco” per Gesù è sinonimo di uomo di potere, che il potere pratica sugli altri, qualsiasi ne sia la fonte. Ricco non è solo chi possiede mezzi, proprietà e denaro, escludendo gli altri e tenendo tutto per sé. Ma anche
lo
scienziato,
l’artista,
lo
specialista,
l’intellettuale, l’accademico affermato, che non coltiva l’impegno a rimanere umile. L’impegno a non farsi servire, ma ad essere servitore, rendendo gli altri partecipi
del
suo
sapere
o
della
sua arte. Per
condividerne utilità o bellezza. Con leggerezza e generosità. Attento a stimolare curiosità e amore per la
conoscenza,
e
mai
sensi
di
inferiorità
o
inadeguatezza. Umile non per posizione moralistica, ma perché radicato nella realtà, ben consapevole del debito di gratitudine per chi lo ha preceduto nel suo cammino. E della pochezza della sua impresa rispetto alla
vastità
dell’ignoranza
che
permane
in
lui.
Ignoranza che lo accomuna a tutti gli altri esseri umani.
“E ritornando al linguaggio…”
Il liguaggio è una tecnica. La tecnica, ogni tecnica, dalla più semplice alla più complessa, distingue l’uomo
dagli animali, e gli offre la possibilità di accelerare il processo evolutivo. Il linguaggio ha permesso la creazione della cultura, la trasmissione del sapere, la crescita esponenziale delle conoscenze. E’ quindi una tecnica straordinaria, specie-specifica dell’uomo. Ma non contiene in sé alcuna garanzia di un utilizzo guidato
dall’amore
anziché
dal
potere.
Anzi,
le
tecniche nascono quasi sempre per accrescere il proprio potere: sulla natura, sugli animali, e quindi, facilmente, sugli altri. Le tecniche di comunicazione, la retorica, le tecniche di persuasione, sono spesso state al
servizio
delle
èlite
che
avevano
interesse
a
mantenere ed estendere il loro dominio. La storia dell’umanità, resa possibile dal linguaggio, è fatta dai vincitori, dai popoli più aggressivi, non da quelli più pacifici e armoniosi, che sono stati via via sopraffatti e fisicamente eliminati. Gli israeliti erano un popolo tremendamente bellicoso. Abramo, Mosé, Giosué, erano in primo luogo dei condottieri. Le loro strategie sono state studiate dai
militari di tutti i tempi, e spesso replicate. E attraverso il linguaggio, hanno fatto credere a se stessi e a molti altri che le loro gesta crudeli, i loro genocidi, erano voluti
o
ispirati
da
Dio,
dal
Verbo,
loro
guida
trascendente a cui erano tenuti ad obbedire. Dio stesso è il loro consulente militare: fornisce loro indicazioni preziose su come far cadere le mura di Gerico, e su altre storiche conquiste, tutte finite con l’uccisione di ogni uomo, donna, bambino, animale, senza alcuna pietà. Al nobile scopo finale, come popolo eletto, di riconquistare la terra di Canan, o Palestina, sulla quale avrebbero dovuto dominare per portare il regno di Dio sulla terra. E’ abbastanza straordinario che un libro grondante di sangue come la Bibbia sia ancora oggi ritenuto la massima fonte di elevazione spirituale. Il presidente americano, George Bush, da molti ritenuto l’uomo più pericoloso del mondo, pare che lo legga ogni giorno per trarne ispirazione. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come lo sono l’incontro-scontro delle tre
religioni abramiche presso le mura di Gerusalemme, nel loro eterno conflitto, ciascuna guidata dalle più sante ragioni. Davvero commovente, a partire dalle crociate, l’impegno che vi profondono!
“Mi fai qualche esempio specifico di come il linguaggio in sé, per come è costruito, può favorire il potere anziché l’amore?”
Essenza del linguaggio è operare distinzioni, isolare determinati oggetti dallo sfondo indifferenziato, e identificarne delle figure socialmente riconoscibili, alle quali attribuire un nome: un suono nella lingua parlata, o un segno nella lingua scritta. Inizialmente l’operazione non è mai neutra, ma guidata
da
finalità
utilitaristiche,
per
soddisfare
determinati bisogni o desideri, più o meno immediati e visibili. Come minimo, va incontro ad un bisogno di economia nella comunicazione. Con il tempo, però,
l’operazione finisce per produrre effetti inconsapevoli e controintuitivi.
“Quali?”
Il pensiero-linguaggio, attraverso il suo crescente utilizzo,
con
il
tempo
è
venuto
a
determinare
praticamente tutto ciò che siamo in grado di vedere e percepire:
le
figure
prescelte
e
socialmente
riconoscibili. Gli oggetti di cui si può parlare, le forme di relazioni che si possono individuare e descrivere. Tutto il resto, quello che non rientra in queste figure, di oggetti e di relazioni fra oggetti, rimane nello sfondo
indifferenziato,
al
di
fuori
della
nostra
consapevolezza.
“Quindi è corretto dire che il linguaggio crea la nostra realtà?”
Sì, la realtà socialmente condivisa, di cui siamo consapevoli, e di cui possiamo parlare. Tutto il resto non è che sparisca o che non ci influenzi più, ma finisce
direttamente
società,
per
specificità,
nell’inconscio.
sopravvivere
cancella
nella
porzioni
Ogni sua
più
o
tipo
di
identità
e
meno
vaste
dell’esperienza totale che facciamo a contatto con il mondo. E questa cancellazione o rimozione alimenta l’inconscio individuale e collettivo. E se dall’esperienza totale vengono rimosse parti essenziali e vitali, questo si traduce in una grave amputazione psichica, che come
un’ombra
maligna,
rende
molto
contatto con l’autenticità dell’essere
difficile
il
e la gioia che
naturalmente consegue.
“Puoi approfondire questo concetto?”
Felicità è sinonimo di pienezza dell’esperienza. La gioia dell’essere può essere sperimentata solo se siamo
totalmente immersi nel qui ed ora, con quello che c’è adesso, così come è. Con tutti i nostri sensi ben aperti. Ma noi non siamo quasi mai in contatto con la realtà dell’adesso, che è in primo luogo la realtà del nostro corpo e delle nostre sensazioni, in relazione a ciò che c’è e che accade nel momento presente. Grazie all’educazione ricevuta, noi non viviamo più nel nostro corpo, ma percepiamo il mondo filtrato dai nostri pensieri:
dialogo
interno,
immagini,
convinzioni,
pregiudizi, emozioni. Cioè dall’attività incessante della nostra mente. Non della mente profonda, radicata nella corporeità, ma della mente condizionata. Condizionata da che cosa? Dall’utilizzo continuo e inconsapevole delle categorie linguistiche, socialmente condivise, alle quali siamo stati educati. Esse agiscono come filtri selettivi ai quali non possiamo rinunciare, perché sono loro che ci permettono di sentirci parte di una comunità, formarci un’identità, comunicare la nostra esperienza. Che però, ripeto, è un’esperienza
linguisticamente
orientata
e
amputata
rispetto
all’esperienza totale.
“Un’esperienza ideologizzata, quindi?”
Come dice Panikkar, le idee suonano la musica sulla quale i governi e i popoli danzano. E le idee sono espressioni linguistiche.
“Ma nello stesso contesto culturale, specie nella società moderna, fondata sulla comunicazione, le idee presenti sono molte e in concorrenza tra loro. Non si può certo dire che siamo tutti ideologizzati allo stesso modo!”
Questo è incontestabile per tutte le idee che hanno a che
fare
con
i
contenuti.
Esiste
un
pluralismo
ideologico in materia religiosa, politica, economica, filosofica. C’è chi crede in Dio, chi non ci crede. C’è chi
è cattolico, mussulmano, agnostico o ateo. C’è chi è liberista e chi è contrario al liberismo o al libero mercato. Qui però non stiamo parlando di contenuti, ma di forme o strutture. Quando utilizziamo il linguaggio, cioè
ogni
volta
comunichiamo,
non
che ci
pensiamo, limitiamo
parliamo a
o
trasmettere
contenuti, ma un modo di percepire il mondo che ci accomuna:
quello
attuato
attraverso
categorie
linguistiche. Nella filosofia occidentale, non solo identifichiamo il pensiero con il linguaggio, ma siamo abituati a credere che la consapevolezza coincida con il pensiero. Cogito, ergo sum, diceva Cartesio. E’ grazie al pensiero che so di esistere. Secondo
le
filosofie
orientali,
in
particolare
nel
buddismo Zen, il pensiero non solo non esaurisce la consapevolezza, ma costituisce il principale ostacolo ad una consapevolezza profonda della realtà. Solo una mente capace di farsi silenziosa è in grado di essere
presente nel qui ed ora, cioè presente all’unica realtà vera.
“Ma nella vita di oggi è indispensabile pensare, progettare. Non si può fare quasi nulla senza aver ben sviluppato queste capacità!”
Certamente saper utilizzare il pensiero è una risorsa essenziale: se devi scrivere una lettera, stilare una diagnosi o argomentare una linea di difesa. Ma è soltanto un mezzo, come lo è un computer. Un mezzo utile per certe cose e non per altre. Il problema fondamentale che oggi ci troviamo ad affrontare, dal quale derivano tutti gli altri, può essere riassunto in questi termini: non siano in grado di far tacere la mente, non siamo in grado di spegnere il computer mentale. Quindi ne siamo condizionati e limitati. Non nelle questioni materiali, negli affari, nella tecnologia, nei quali siamo diventati bravissimi.
Ma nel settore dal quale maggiormente dipende la nostra propensione alla felicità o all’infelicità: quello della relazione con noi stessi e con gli altri. Un noto economista, Jeremy Rifkin, sostiene che, date le attuali condizioni di conflitto e crescita, la nostra stessa sopravvivenza può essere salvaguardato solo ad
una
condizione:
che
riusciamo
in
tempo
a
sviluppare sufficiente empatia. Empatia non solo per le persone vicine, ma anche quelle più lontane e per tutti gli esseri, animali e piante. L’empatia, secondo il buddismo, apre la porta alla compassione, ovvero al desiderio di impegnarsi a sciogliere le cause della sofferenza altrui come la propria. Empatia,
compassione,
amore,
sono
qualità
dell’essere, qualità del cuore, non della mente. Il cuore si apre davvero solo quando la mente tace. Non si tratta infatti di ragionare, in termini kantiani, su ciò che è bene o male fare. Si tratta di imparare o reimparare a sentire. Sono i sentimenti e le passioni che guidano le nostre azioni. Più di cent’anni fa, Freud
ha definitivamente scoperchiato la scatola nera della nostra mente, e a differenza di Aristotele, non ha trovato ai posti di comando la ragione e la volontà, come ancora oggi la Chiesa Cattolica continua a sostenere. Ed ha portato alla luce un meccanismo di autoimbroglio degno, questo sì, di un’intelligenza sofisticata come quella umana: la razionalizzazione. Che della ragione è solo la maschera.
“In che senso?”
Nel senso che in molti casi è solo copertura di impulsi, passioni o sentimenti, che si vogliono tenere nascosti, perché ritenuti poco desiderabili o disdicevoli.
E per
garantirsi il risultato, essa utilizza i più efficaci metodi della
retorica,
la
tanto
vituperata
arte
della
persuasione, scoperta dai sofisti, che di essa fecero una professione, ma praticata in realtà da ogni degno appartenente alla nostra specie, almeno a livello
dilettantesco. Insomma, dopo Freud, avremmo dovuto imparare a dffidare di chi, con passione, ci vuol convincere di qualcosa per il nostro bene.
“Perché?”
Perché di un bene certamente si tratta. Non del nostro, però. Ma del suo. Anche se, a ben guardare, come vedremo, neppure questo è vero.
“Mi fai un esempio?”
Un maestro, duro e severo, crea un clima di tensione e paura negli allievi. Perché? Perché vincano la pigrizia, dice lui. Affinché si impegnino davvero e si preparino alle difficoltà della vita. Uno scopo nobile, quindi. Peccato che sia falso. La severità non serve a
questo, ma a scaricare la rabbia sadica del maestro all’esterno. In tal modo può evitare di accumularla e di scaricarla tutta su di sé. Un marito che risparmia alla sua giovane o inesperta sposa ogni problema con il mondo, facendo tutto al suo posto, afferma di essere spinto dal
più tenero
amore. In realtà le sta impedendo di crescere e di diventare indipendente, per paura di non averla più a sua totale disposizione.
“Ma quindi la ragione non esiste?”
La ragione inizia a funzionare pienamente ad un certo livello di evoluzione interiore. Livello che dovrebbe coincidere con la maturità adulta, se vivessimo in una società equilibrata e armoniosa. Dato che viviamo in un contesto di esasperato individualismo, la maturità adulta media non garantisce l’uscita dall’egocentrismo, tipicamente
infantile.
E’
necessario
quindi
un
passaggio evolutivo ulteriore, che possiamo definire come livello di spiritualità, in cui siamo in grado di trascendere la stretta identificazione con la personalità individuale. Infatti, finché a dominare la personalità è l’Ego, la razionalizzazione prende assai spesso il posto della ragione, almeno nelle questioni importanti, quelle che ci stanno davvero a cuore. Ovviamente, nella stessa persona, in tempi e contesti diversi, il livello evolutivo di funzionamento cambia. In certi casi quindi usa la ragione,
in
altri
la
razionalizzazione.
E
non
casualmente siamo scarsamente allenati a percepire la distinzione tra queste due differenti funzioni. Nel momento che sviluppassimo questa capacità, l’Ego individuale e collettivo riceverebbe una brutta batosta! Dato che le èlite si collocano quasi sempre a livello di Ego, e non di spiritualità, anche quando rivestono il ruolo di autorità spirituali, non c’è da stupirsi che siano
scarsamente
interessate
a
riforme
nell’educazione che aiutino i “sudditi” a smascherare il
loro perverso gioco di potere. L’educazione che riceviamo a scuola è, nel migliore dei casi,
un’educazione
che
cerca
di
promuovere
il
pensiero e la ragione: le materie al primo posto sono quelle
che
matematica.
sviluppano Ma
incontrovertibile,
l’intelligenza
oggi
linguistica
sappiamo,
che
se
non
in
e
modo cresce
contemporaneamente una conoscenza di sé e del proprio mondo emotivo, tutto quello che possiamo ottenere non è uno sviluppo della ragione che ci guidi nelle scelte importanti, ma della razionalizzazione: cioè della capacità di usare il linguaggio per coprire una falsità. Capacità
straordinariamente
utile
per
diventare
affaristi, arrivisti, mafiosi, interessati solo al proprio tornaconto. Oppure, dall’altro versante, per sviluppare una
personalità
succube,
dipendente,
depressa,
destinata a crearsi nella vita ogni sorta di problemi e difficoltà. In una parola, una personalità nevrotica.
“Che cosa intendi per nevrotica?”
Una personalità incapace di dirigere se stessa senza boicottarsi, in quanto preda di conflitti pervasivi tra subpersonalità.
Ogni
parte
cerca
di
prendere
il
sopravvento sulle altre. Manca una leadership in grado di fornire una visione del bene comune. Visione che consenta alle diverse fazioni di rinunciare parzialmente alle loro pretese, in favore di un’azione diretta al benessere generale.
“Stai descrivendo la situazione italiana, come la vede Eugenio Scalfari, nel famoso editoriale: ‘Lo specchio si è rotto’.”
Sì, anche se non penso sia una prerogativa solo italiana, ma planetaria.
“Hai detto che la capacità di mentire accomuna
affaristi e persone succubi. Mi sembra piuttosto ingiusto: i primi ne traggono vantaggio, i secondi ne pagano le conseguenze!”
E’ vero. Di solito siamo abituati a operare questa distinzione. E’ il linguaggio stesso che ci porta a farlo: ci sono molte parole che possiamo usare sia per indicare un profittatore, sia per indicare una persona vittima. Tendiamo quindi a distinguere due categorie: gli sfruttatori e gli sfruttati. E tendiamo a tenerle ben separata tra loro. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. La rivoluzione comunista si è basata su questa distinzione-separazione. Una delle ragioni del suo fallimento, è stata proprio quella di non vedere il fenomeno dello sfruttamento più in profondità, come ricerca del potere, forza psichica inerente alla natura umana. Insieme all’altra, la ricerca dell’amore. Come gli studi di Reich hanno dimostrato, non solo i
ricchi erano autoritari e sfruttatori, ma anche i poveri, nei limiti delle loro possibilità. Non solo capi e imprenditori erano autoritari, ma anche padri operai o contadini nei confronti di mogli e figli. La famiglia, ritenuta dalla Chiesa cattolica la cellula sana della collettività, appena si tolgono i veli dell’ipocrisia, ancora oggi rivela al suo interno, in scala minore, le stesse lotte di potere che troviamo nella società. La famiglia, primo luogo di educazione, è sempre stata la cinghia
di
trasmissione
dell’autoritarismo
e
della
prevaricazione. Che in tal modo assorbiamo da piccoli, e ci portiamo dentro tutta la vita. Avendo così davanti due possibilità poco desiderabili: diventare a nostra volta sfruttatori di altri, o sfruttatori di noi stessi.
“Ma i nevrotici sono dei malati, gli sfruttatori sono dei disonesti!”
E’ così che di solito pensiamo, in base alle categorie
linguistiche dominanti e alle loro comuni associazioni. E’ in questo modo che sin da bambini impariamo a conoscere
la
realtà:
attraverso
distinzioni
che
traggono differenti figure dallo sfondo, e le tengono ben separate. Appena ci occupiamo di comunicazione, ci viene giustamente notizia
di
insegnato una
che
differenza
un’informazione che
fa
la
è
la
differenza.
Persecutori e vittime non sono la stessa cosa. C’è tra loro una differenza che fa una sostanziale differenza. Quello che non ci viene insegnato, perché non fa parte della nostra cultura dualistica, è che dominatori e dominati condividono qualcosa che li accomuna. C’è in loro un fattore che li connette e li tiene insieme.
“Quale fattore?”
La violenza, la prepotenza. Il nevrotico non è meno prepotente di un profittatore di professione. Spesso lo
è assai di più. Ciò che fa la differenza è solo il contesto in cui la utilizza: un contesto interno, intimo o famigliare,
anziché
pubblico.
Se
guardiamo
in
profondità, in un nevrotico non scopriamo meno violenza, disonestà e prepotenza che in un malavitoso. E a sua volta, se guardiamo in profondità, dentro un malavitoso scopriamo non meno sofferenza e dolore che in un nevrotico. Anzi, spesso, assai di più. Dostoievski, che ha passato dieci anni della sua vita in mezzo a carcerati, delinquenti e persone disperate, afferma che non ne ha conosciuta una che, al di sotto della scorza esterna, non nascondesse intatto un nucleo d’oro di purezza. Contemplare, osservare in profondità, senza giudizio, senza scopo, è la via per diventare consapevoli dei livelli di realtà più profonda, la realtà dell’inter-essere, del tutto è uno. E’ la via del cuore, che ci fa sentire parte integrante della stessa rete della vita, fratelli tra noi, e con gli altri esseri. E’ propria delle antiche tradizioni sapienziali, delle filosofie non duali, che da
millenni
sostengono
una
visione
del
mondo
completamente diversa da quella ottenuta attraverso la concezione dualistica, che trova fondamento nella pratica analitica e mentale di separare l’osservatore dall’oggetto osservato, ponendo fine alla risonanza e all’immedesimazione empatica.
“Sono due concezioni incompatibili e in conflitto?
Se le guardiamo dal punto di vista duale, quello a cui siamo allenati nella nostra cultura, esse appaino senz’altro
incompatibili,
o
quantomeno
incommensurabili. E’ la visione che consente alle persone religiose di mantenere la loro fede pur comportandosi, in media, in modo altrettanto poco amorevole di quelle che non professano alcuna fede. Se osserviamo le due concezioni dal punto di vista non duale, esse sono parte della stessa realtà, distinte, non separate.
La biologia ha da insegnarci qualcosa in proposito. Il nostro cervello destro funziona in modo olistico, quello sinistro in modo analitico, duale. Se una persona perde l’uso dell’emisfero destro, vede il mondo tutto interconnesso, senza confini. Ma ha qualche difficoltà ad orientarsi ed agire. La natura ci ha dotato di due emisferi come di due differenti occhi per vedere in profondità. E la visione binoculare diventa possibile solo se teniamo aperti entrambi
gli
occhi
e
creiamo
al
nostro
interno
un’immagine che integra le due differenti fonti di informazione. Spiritualità non è ascendere al cielo abbandonando la terra, ma continuare a stare sulla terra facendosi ispirare dal cielo. Come dice Lino Lepore, filosofo buddista e mio caro amico, in gran parte la storia della filosofia occidentale è la storia della follia umana. Ovvero la storia delle razionalizzazioni con le quali i filosofi hanno cercato di mascherare e abbellire il loro carattere, parlando del
mondo e dei massimi sistemi anziché di se stessi. Talvolta riuscendoci così bene da influenzare buona parte dell’umanità. L’educazione di cui oggi abbiamo più bisogno, per sviluppare una personalità sana, integra, onesta, è un’educazione dei sentimenti, un’educazione che non casualmente, ripeto, nella scuola di oggi non si trova neppure
all’ultimo
posto.
E
un’educazione
dei
sentimenti è facilitata in contesti nei quali si pratica il silenzio, l’ascolto, la presenza mentale nel qui ed ora, la
calma,
l’osservazione
senza
scopo
o
contemplazione. Ed è resa impossibile dove dominano le parole, le chiacchiere, il rumore, la fretta, l’eccesso di programmazione e impegni. Tutte cose che coprono la paura di amare e la ricerca del potere.
“Cioè nella scuola di oggi!” “… soprattutto nel parlamento!” “… nei luoghi di lavoro…”
“… anche in famiglia…”
Certamente. Una mente oberata dal proliferare di pensieri e immagini, affollata da desideri e scopi, è come una scimmietta impazzita: non fa che saltare da un ramo all’altro, incapace di soffermarsi e gustare un frutto.
Il
proliferare
di
pensieri,
tensioni
e
preoccupazioni, impedisce il contatto con la realtà, con i propri sentimenti e con quelli degli altri. Impedisce il vero ascolto e quindi la comprensione di ciò che sta davvero accadendo. Paradossalmente, nella civiltà della comunicazione, sono
aumentati
in
modo
esponenziale
le
comunicazioni superficiali, innecessarie o irrilevanti, e sono
drasticamente
diminuite
le
comunicazioni
essenziali e profonde: quelle che riguardano il nostro vero sentire. Più comunichiamo in questo modo, più creiamo un fossato profondo tra noi e gli altri, tra noi e la nostra
anima. Lo slogan “Life is now”, che compare nella pubblicità di una nota compagnia telefonica, è un capolavoro di astuzia ed intelligenza manipolativa. Degna delle migliori tradizioni religiose autoritarie. Viene affermata una cosa profondamente vera, non troppo facile da comprendere nella sua vera essenza, allo scopo di diffondere sempre più un comportamento – l’inflazione pervasiva di comunicazione inutile – che produce un risultato esattamente opposto a quello implicitamente dichiarato e suggerito. Chattare per ore al giorno al telefonino ci allontana sin da bambini dalla realtà dell’adesso, così come la sottomissione sin da piccoli ad indiscusse autorità religiose, spegnendo lo spirito critico, e spesso anche collaborando a inibire o pervertire la naturale spinta sessuale e la naturale capacità di amare, ha da sempre ostacolato lo sviluppo di una spiritualità autentica. Propaganda
religiosa
e
pubblicità
utilizzano
lo
stessomeccanismo di persuasione: separazione dei mezzi
dal
fine;
far
leva
su
un
fine
altamente
desiderabile. Mortificare il corpo e i sensi, bruciare sul rogo gli eretici,
perseguitare
o
uccidere
gli
infedeli,
o
quantomeno sottometterli, opporsi finché è possibile al progresso della scienza e del libero pensiero, - non solo in nome della fede, ma talvolta anche in nome della “ragione”, ovviamente la loro -, sono solo alcuni dei
mezzi
storicamente
utilizzati
dalle
religioni
autoritarie per mantenere e diffondere il loro potere. Il fine era quello di insegnare agli uomini la via dell’amore. Oggi i sacerdoti della nuova religione dei consumi, dimostrano di essere all’altezza dei predecessori, avendone bene imparato la lezione.
“Un’educazione
dei
sentimenti,
quindi
diventa
impraticabile se si vive di corsa, in un clima frenetico,
ove la nostra attenzione si sposta continuamente da una cosa all’altra!”
Certamente. Fretta, iperattivismo e superficialità, sono facce della stessa medaglia: tante cose inutili al posto di poche cose essenziali. Aria pulita, acqua e cibo sano, bellezza dell’ambiente naturale, grandi spazi incontaminati
ove
poter
gustare
in
silenzio
la
grandiosità delle montagne, il profumo dei fiori, il fresco delle foreste, l’incessante danza della vita animale, sono beni essenziali per la nostra salute psichica, oltre che fisica. Beni che stanno rapidamente scomparendo. Ricordo un documentario girato da un piccolo aereo che sorvolava il territorio africano: era sconvolgente il confronto tra la bellezza delle poche riserve e parchi, ancora ricchi di piante ed animali, e la bruttezza e il degrado
prodotto
dalle
attività
umane
che
li
assediavano tutto all’intorno, con il suolo devastato dalla progressiva desertificazione. Processo destinato
ad aggravarsi, anche a causa della continua crescita della popolazione. L’Africa, all’inizio del secolo, era autosufficiente dal punto di vista alimentare. La sua popolazione era meno di un quarto di quella attuale. C’era posto per tutti: uomini, piante, animali. Era un continente meraviglioso, da sogno. Oggi le sue foreste stanno rapidamente scomparendo, tagliate per vendere il legname, o bruciate per far posto a nuove coltivazioni. Molte delle quali non producono cibo per gli africani, ma per i polli, i maiali e i bovini allevati nei paesi ricchi o in crescita economica, dove il consumo di carni e latticini continua ad aumentare. Se si sviluppasse più empatia, più capacità di provare compassione, non solo per gli esseri umani che rischiano di morire di fame, ma per tutti gli esseri viventi destinati ad essere totalmente annientati e distrutti, senza uno spazio di sopravvivenza che non sia una prigione o la gabbia di uno zoo, saremmo colti tutti quanti da un tale livello di sofferenza che ci
farebbe urlare dal dolore. Grideremmo: basta! Basta con
questa
infamia!
Smettiamola
di
crescere,
moltiplicarci, occupare ogni metro quadrato di spazio con
abitazioni,
edifici,
strade,
industrie,
miniere,
allevamenti, e di esserne pure orgogliosi! Lasciamo che la terra possa riprendere a respirare! Smettiamo di soffocarla con la nostra vorace presenza! Non siamo cavvallette,
non
siamo
formiche.
Smettiamola di
comportiamoci da animali infestanti, come topi o scarafaggi. Smettiamo di essere il cancro della terra. Abbiamo un cervello e un’intelligenza più grande di quella necessaria a guardare a venti centimetri dal nostro naso. E soprattutto abbiamo un cuore e un’intelligenza emotiva assai maggiore di quella di un rettile o di un cercopiteco.
“Un’intelligenza che però va sviluppata!”
Sì, attraverso un nuovo tipo di educazione, che veda
in questo obiettivo una priorità assoluta. Ne va della nostra
salute
mentale,
come
singoli
e
come
collettività, e infine della nostra stessa sopravvivenza.
“Hai detto che il cuore si fa spazioso quando la mente tace. Nella vita frenetica di oggi, far tacere la mente è un’impresa quasi impossibile!”
Per molte persone questo è assolutamente vero. Sono troppo prese dal vortice. Quando si fermano, stanno in silenzio, portano attenzione al respiro e alle sensazioni del corpo, l’unica cosa che ottengono è un crescente malessere. Per riprendersi, corrono a mangiare, bere un caffè o fumare. Un cervello che gira troppo velocemente, non può essere fermato in un attimo. Occorre calma, pazienza e perseveranza. Cioè proprio le qualità che, come le piante, gli animali selvatici e l’aria pulita, sono oggi più a rischio di estinzione. C’è chi ha portato la meditazione buddista nei carceri
e nelle scuole, ottenendo risultati spesso straordinari. L’impresa non è impossibile, ma molto difficile. C’è chi ha introdotto delle tecniche che facilitano il rilassamento
passando
attraverso
lo
scarico
dell’energia in eccesso, e in tal modo favorendo la naturale
propensione
alla
quiete
e
allo
stato
meditativo. C’è chi preferisce proporre una via ispirata al
tantra,
che
non
impone
lunghe
sedute
di
meditazione, ma brevi momenti durante la giornata di presenza mentale. Le vie possibili sono tante, quanto grande è la creatività umana.
“Quale via propone la PNL umanistica?”
Essenza della PNL è il modellamento di ciò che funziona meglio, di ciò che è efficace. Ma la domanda è: funziona meglio per chi? Il problema fondamentale è questo. Non c’è una via adatta a tutti, perché ogni persona è diversa e impara in modo differente.
Se andiamo a vedere come sono nate varie tecniche e vie, di solito scopriamo un maestro o un un gruppo di maestri che le ha ideate e perfezionate. Un maestro può insegnare una tecnica solo se ne ha tratto profondo beneficio. In tal modo può essere congruo ed efficace. Ma se ha funzionato per lui, anche in modo eccellente, non significa che produrrà risultati per tutti gli
allievi,
ma
solo
per
quelli
che
hanno
una
predisposizione, tipologia o stile di apprendimento, simili a quelli del maestro. Tutti gli altri incontreranno difficoltà più o meno grandi. Il rischio è che esse vengano
interpretate
come
resistenze:
pigrizia,
incapacità, incostanza. Quello che accade nelle scuole di meditazione accade in tutte le scuole del mondo: alcuni riescono di più perché
si
trovano
nel contesto
adatto
alla loro
tipologia. Ignorare questo fatto significa violare uno dei diritti fondamentali dell’uomo: il principio di eguaglianza. Esso non richiede di trattare tutti allo stesso modo,
come talvolta banalmente si pensa. Ma di trattare in modo uguale le situazioni uguali e in modo diverso le situazioni diverse. Le differenze vanno rispettate, non ignorate!
Differenti
tipologie
umane
richiedono
rispetto per la loro natura, e modi adeguati per sintonizzarsi con esse. Il
paradigma
dualistico,
e
il
relativo
pensiero-
linguaggio, nel quale siamo immersi, rischia sempre di favorire
la
pratica
del
pensiero
dicotomico:
l’uguaglianza è una cosa, la differenza è un’altra. Non casualmente, altre culture, come quella cinese o indiana antica, fondate su una visione non duale, hanno creato altri tipi di pensiero-linguaggio, in cui la stessa parola significa contemporaneamente una cosa e il suo opposto. Ad esempio, la parola crisi, in cinese, vuol dire rischio, pericolo e, nello stesso tempo, opportunità. Per noi un problema è un problema e una risorsa una risorsa. Due sono le parole, due i concetti, due le categorie. Certo, anche noi possiamo capire che un
problema, guardato da un angolatura diversa, può diventare una risorsa. Ma per il tipo di linguaggio che usiamo,
e
la
forma
mentis
che
ne
deriva,
la
ristrutturazione, il passaggio da una configurazione di significati
ad
un’altra,
non
avviene
in
modo
automatico. Occorre ogni volta uno sforzo, un atto di volontà. Appena ci lasciamo andare, tutto torna come prima. E’ come percorrere una strada in salita: la gravità tira verso il basso. Così da noi il pensiero-linguaggio, come forza di gravità mentale, crea un campo nel quale i concetti tendono a polarizzarsi, separarsi, contrapporsi tra loro. Guarda caso, a fondamento di tutto l’edificio della conoscenza sviluppata in occidente, stanno i principi aristotelici di identità e di non contraddizione. Sulla validità dei quali, in teoria e nella vita di tutti i giorni, abbiamo imparato a non nutrire alcun dubbio. Principi che però ci portano sovente ad esclamare affermazioni piuttosto curiose, del tipo: la vita è paradossale!
Che significa questa affermazione? Di solito chi la pronuncia intende dire che la vita contraddice ogni logica previsione. Quindi la vita è strana, perché, come i bambini, i terremoti o le malattie, si permette di non confermarsi ai nostri schemi. Chi non ignora la storia della filosofia, sa per quanti secoli molti filosofi, a
partire
coincidenza possibilità
da
Parmenide,
tra di
ragionamento,
pensiero
conoscere
hanno
sostenuto
la
e
realtà.
E
quindi
la
la
realtà
attraverso
il
bypassando
l’esperienza,
che,
basandosi sulla percezione, è sempre illusoria. Fino ad arrivare al capolavoro dell’affermazione hegheliana: se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti. La
preferenza
accordata
alla
teoria
sui
fatti
è
rispecchiata nella società dalla posizione di privilegio accordata a non pochi intellettuali, che pontificano su situazioni che nel concreto ignorano. Perché conoscere il concreto significa scendere dal piedestallo, perdere i privilegi, e mischiarsi nella banalità del quotidiano, in
mezzo alla gente più comune e triviale, con le sue imperfezioni, la sua miseria, la puzza del suo sudore. Come fecero Dostoevski o madre Teresa, e tanti altri meno famosi di loro.
“Questo non ha a che fare con il patriarcato e il maschilismo?”
Vi è strettamente connesso. Le donne, almeno quando allevano bambini, non possono permettersi troppi voli lontani dalla realtà, che nell’immediato è fatta, in entrata, di poppate e di pappe, e, in uscita, da vocalizzi, pianti e produzioni biologiche di differente consistenza e odore, che un’amica psicoanalista ha elegantemente definito: aspetti primitivi del sé. I bambini, più piccoli sono, più obbligano chi se ne cura, ad una continua presenza ed attenzione nel qui ed ora. Al di là delle battute, è caratteristica del femminile
essere
più
in
sensorialmente
contatto basato,
con e
la
un
terra
e
privilegio
con
il
maschile
potersene più facilmente distaccare. Con il rischio di allontanarsene troppo e coltivare un tipo di pensiero che con la materialità e la concretezza dei sensi ha perso ogni rapporto. E con esso ha perso anche ogni pratica funzione, se non quella di autoriprodursi e garantire ai suoi maestri o adepti una qualche forma di privilegio. Come, ad esempio, essere esentati dai compiti
più
umili
e
faticosi,
o
essere
pagati
profumatamente per un uso inconsistente e pressoché inutile del linguaggio, che in compenso richiede per ottenerlo un lungo apprendistato. In ogni tempo e luogo, quando la ricerca spirituale è diventata appannaggio del maschile, essa è stata regolarmente accompagnata dalla svalutazione dei sensi e del corpo, e dalla comparsa delle formalità, delle teologie e cosmogonie complicate e inacessibili, del dogmatismo e della gerarchia. Nella quale le donne,
o
erano
escluse,
o
occupavano
l’ultimo
gradino. Per motivi profondi ed esoterici, che solo la superiore razionalità maschile poteva comprendere appieno. Ma riprendiamo il filo del discorso.
“Eravamo partiti dal chiederci quale via propone la PNL umanistica per favorire l’apertura del cuore.” “E avevamo visto che il concetto di “via” monodica è contraria allo spirito pluralista e antidogmatico della PNL.”
Un allievo chiese ad Osho: “Maestro, nel mondo ci sono più di trecento religioni. Non sono troppe?” E il maestro rispose: “Al contrario. Credo che siano troppo poche. Siamo sei miliardi di esseri umani!” Ogni persona una via: una via spirituale specifica, un percorso terapeutico, una modalità di insegnamento, adatti al suo stile di apprendimento, preferenza o tipologia. Questo è l’approccio polifonico, la “meta-
via”, che propone la PNL, per valorizzare le differenze individuali, anziché penalizzarle. Trattandole come risorse anziché come problemi. Per questo incoraggiamo le persone a frequentare contesti di apprendimento diversi dai nostri, luoghi dove si fanno pratiche differenti, si usa un differente linguaggio e metodologia. Ad approfondire argomenti e frequentare discipline diverse dalla PNL e dalla psicologia, come l’economia, la politica, la filosofia, la storia, la biologia. A frequentare e praticare la musica, l’arte, la danza, l’attività fisica, il contatto con la natura. A risvegliare la loro naturale curiosità ed interesse in settori e campi diversi, ad esplorare nuovi territori, non per colonizzarli e trarne profitto, ma per ritornare a essere neofiti, principianti, ancora capaci di stupirsi e meravigliarsi. Recuperando la voglia che i bambini
hanno
abbastanza
di
piccoli
apprendere, ed
finché
innocenti,
rimangono
non
troppo
contaminati dalla cultura competitiva e predatoria in cui viviamo.
“E non c’è il rischio di dispersione?”
Il rischio è parte integrante dell’esperienza del vivere. Il chiudersi dentro i cancelli di un’unica prospettiva, invece, offre una sola certezza: quella di alimentare i propri pregiudizi e diventare più intolleranti alle idee di altre persone. Ed è difficile sostenere, anche se è stato fatto infinite volte, che sia un buon metodo per imparare ad amare il prossimo e ad avvicinarsi a Dio. Il pluralismo oggi è un dato di fatto, non una scelta. Viviamo a contatto quotidiano con persone e prodotti provenienti da altre culture, lingue, storie, religioni. Anche volendo, non possiamo isolarci, pena la nostra estinzione. Non possiamo dire a cinesi, ucraini, russi, congolesi, ma anche a francesi, inglesi, tedeschi, americani: statevene a casa vostra, tenetevi le vostre merci e i vostri prodotti. Se non altro perché loro farebbero la stessa cosa con noi, e noi, che non siamo
autosufficienti, come non lo è più alcun paese, potremmo ancora prendere il sole quando c’è, ma moriremmo di fame, di freddo o di miseria. La sfida di oggi è passare dall’incontro casuale e caotico
tra
differenti
ritmi,
trame
e
melodie
di
comportamenti e manufatti umani, a qualcosa che assomigli ad una musica polifonica o ad un arazzo, dotato di un qualche senso, non ad un accozzaglia di rumori o a un deposito di immondizia. Per questo occorre sviluppare nuove capacità di modulazione e integrazione. Nuove capacità di comporre le differenze in un progetto unitario. Nuove capacità di dar forma al caotico e all’informale. Che, non casualmente, sono le caratteristiche del processo vitale o neghentropico. “Rispettare”, etimologicamente, significa guardare due volte,
guardare
e
comprendere
in
profondità.
Rispettare davvero la vita, slogan oggi di moda, significa comprendere in primo luogo di che cosa si sta parlando. Ma parlando utilizziamo il linguaggio, e il linguaggio che noi crediamo di adoperare, in gran
parte è lui ad utilizzare noi per riprodurre l’implicita filosofia e storia di cui è figlio, e della quale è fedele portatore. Appena parliamo di vita, la nostra mente, formata dal linguaggio, estrapola dallo sfondo la categorie degli oggetti ritenuti chiaramente viventi: in primo luogo gli uomini, e poi, bontà nostra, anche gli animali e le piante. Ma subito dopo è educata, storicamente, ad operare un’altra fondamentale distinzione, tra forme di vita più e meno complesse ed elevate, tra forme superiori e inferiori, creando così una gerarchia al cui vertice sta solo l’essere umano, ben separato da tutti gli altri perché l’unico dotato di anima e sensibilità. Lungi da me sostenere che gli appartenenti alla specie homo
sapiens
siano
faziosi.
Non
disponiamo
di
sufficienti prove scientifiche per affermarlo, ma solo di qualche debole indizio, per nulla probante, come il fatto di ritenerci, in gran numero, fatti ad immagine e somiglianza di Dio. Probabilmente anche i babbuini e i cercopitechi, se potessero ragionare linguisticamente,
arriverebbero ad affermare una tesi equivalente alla nostra,
con
l’unica
differenza
che
al
vertice
metterebbero se stessi. In compenso, noi possiamo vantare
una
momento
coerenza
che,
tutti
davvero
ammirevole,
d’accordo,
dal
consideriamo
egocentrici solo i nostri bambini, per risparmiare a noi stessi l’umiliazione di scoprirci ben poco diversi da loro.
“Non capisco bene dove vuoi arrivare!”
Ad una meta molto semplice, e nello stesso tempo ambita: a trovare un rimedio al senso di indegnità e di colpa, che è così diffuso e pervasivo, da esserci sembrato parte intrinseca della nostra più profonda natura, visto che crediamo di averlo ereditato, insieme agli altri geni, dai nostri primissimi progenitori. Essi sì che
si
macchiarono
di
una
colpa
molto
grave,
disubbedendo a Dio, al Verbo. Il Verbo che aveva
creato il cielo e la terra, la luce e le tenebre, dando loro un nome, e che ci aveva fatto a sua immagine e somiglianza. Forse oggi siamo in grado di rileggere la nostra storia in un altro modo: ogni volta che ci allontaniamo da un uso
tradizionale
del
linguaggio,
e
cerchiamo
di
sviluppare le nostre potenzialità, diventando davvero umani e comportandoci a nostra volta da creatori, siamo presi dal panico e dal senso di colpa. Il linguaggio,
che
ci
ricrea
continuamente
a
sua
immagine e somiglianza, non è disposto impunemente a lasciarci diventare quello che in realtà siamo destinati ad essere, perché essendo a sua volta una nostra creazione, non è frutto di solo amore, ma anche di potere. Come il Dio del vecchio testamento.
“Amore e potere, le due forze da cui siamo spinti, si ritrovano all’origine del linguaggio!”
Come di ogni altra nostra tecnica, che, da creatura nostra, diventa a sua volta creatore dei suoi creatori noi stessi -, imponendoci un processo inconsapevole di riproduzione, da cui abbiamo difficoltà a liberarci. Noi abbiamo scoperto l’elettricità, inventato il motore a scoppio, la stampa, la televisione. Che dovrebbero essere al nostro servizio, e renderci la vita più facile. Se guardiamo in profondità, siamo diventati noi i servitori
delle
automobili,
dei
telefonini
e
dei
computer, dei quali non possiamo più fare a meno. Come non possiamo più fare a meno del linguaggio, essendo penetrato nella nostra neurologia e nel nostro funzionamento mentale. Ecco perché è così difficile far tacere la mente. Significa
sottrarsi
ad
un
dominio
ormai
molto
consolidato, quello delle parole attraverso le quali, nominandola, creiamo la nostra realtà. Smettendo di usarle, ci inoltriamo oltre le colonne d’Ercole e siamo presi dal panico. Allora corriamo a bere, mangiare, fumare, riempirci di impegni. Pagando
così il nostro tributo di soggezione ad un tiranno interiore, che abbiamo per troppo tempo assecondato, credendolo il nostro miglior alleato: il potere.
“Vediamo se ho capito il tuo discorso. Ogni volta che uso una parola, ritaglio una figura da uno sfondo indifferenziato - un tavolo, un ascensore, o anche un sorriso o uno starnuto -, e lo percepisco come se fosse un oggetto o un processo, distinto e separato, dotato di una sua identità e permanenza”.
Esattamente.
“Quindi, in un certo senso, sono io a creare la realtà che percepisco fuori di me, come se fosse oggettiva. Anzi, come hai detto poco fa, nella maggioranza dei casi, mi limito a riprodurla nel modo in cui il linguaggio, inconsapevolmente, mi spinge a fare”.
Sì, continua.
“Poi hai aggiunto che, quando davvero mi comporto in modo creativo, e scombino le carte già date, vengo assalito dalla paura, perché il linguaggio, come ogni tecnica, non si presta facilmente ad essere ricreato, ed oppone resistenza. Un po’ come se temesse di perdere il suo dominio su di me. Quindi, funziona come una sorta di organismo vivente. I genitori mettono al mondo dei figli con lo scopo inconscio di prolungare se stessi. Ma questi cominciano ben presto a fare di testa loro e influenzano potentemente la vita dei genitori. Le tecniche,
create
dall’uomo
per
servirlo,
gli
assomigliano al punto che cominciano ad utilizzare l’uomo come loro servitore. Fin qui credo di aver capito. Mi sfugge ancora il discorso sul senso di colpa e sul modo di liberarsene.”
Ho parlato a ruota libera, e ho lasciato la mia mente
libera, appunto, di scombinare le carte. Ad uno scopo: seminare ad ampie mani il dubbio su ogni nostra certezza che non derivi da esperienze basate sui sensi e sul corpo, ma su esperienze di seconda mano mediate dal linguaggio. Il linguaggio, se non abbiamo consapevolezza del suo potere, diventa una trappola micidiale. Attraverso il linguaggio, dato il suo potere creativo della realtà, ci si può convincere di qualsiasi cosa. Il linguaggio propaganda non è solo quello dei nazisti, dei fascisti o dei comunisti di Stalin, ma anche quello che molte persone riproducono all’interno della loro
mente,
asservendosi
completamente
al
suo
potere. Ricordiamo la sua origine: il linguaggio, come ogni tecnica, non nasce neutra. Essa porta in sé le caratteristiche profonde dei suoi creatori, che, essendo umani, vi immettono sempre una quota di potere, oltre che di amore. La
rivoluzione
non
consiste
allora
nell’inventare
sempre nuove tecniche più efficaci, cosa che siamo
bravissimi a fare, ma se possibile, nel liberare quelle già esistenti del virus del potere che è penetrato in loro.
“Ad esempio, inserendo nelle tecniche, come si fa in PNL, una sorta di clausola ecologica?”
A partire dal linguaggio, che è la matrice di tutte le tecniche umane. Quando, attraverso il linguaggio, diamo forma ad una realtà come il senso di colpa, senza
rendercene
conto
creiamo
un
oggetto
altrettanto pericoloso della dinamite per costruire mine
antiuomo.
difficilmente
Il
potrà
proliferare contribuire
di a
simili
ordigni,
promuovere
un
rapporto più armonioso e pacifico tra le persone. L’etica autoritaria, che si fonda sulla separatività, sul potere-dominio e lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il linguaggio-propaganda, si è sempre servita di ordigni simili al senso di colpa, noti
a tutti con i nomi di “rispettabilità”, “peccato”, “giudizio”, “offesa a Dio”, “bene nazionale”, ecc.
“In che modo il senso di colpa è un’invenzione autoritaria, e non invece un concetto che ci aiuta a tenere a bada i nostri più bassi istinti?”
La dinamite può essere utilizzata anche per scavare un tunnel in una montagna. In certi casi può apparire una buona cosa. Ma bisogna essere degli irresponsabili a metterla in circolazione senza le dovute precauzioni. Il senso di colpa è un’invenzione autoritaria perché serve a deflagare dentro una mente, non una, ma infinite volte, rendendo debole e succube la persona. Serve a farla sentire indegna, cattiva, incapace, pronta a sottomettersi ad una superiore autorità. Di più, pronta ad acclamarla e ringraziarla come proprio salvatore. L’autorità
irrazionale
connota
come
negativi
determinati impulsi, come quello sessuale o quello di esplorare e di pensare con la propria testa. Poi promette punizioni in questo o nell’altro mondo (più efficaci, questi ultimi, data la loro inverificabilità). Se la persona crede all’autorità, il gioco è fatto. Anche se non verrà concretamente punito, si punirà da solo al proprio interno, avendo interiorizzato l’autorità come giudice. Instillare il senso di colpa è un’operazione reazionaria ed oppressiva, non compatibile con un’educazione minimamente sana. E tantomeno con una pratica politica
rivoluzionaria
o
una
via
di
elevazione
spirituale, nobili scopi, proprio per i quali ne è stato fatto il più ampio uso. Dopo Max Weber, abbiamo imparato ad operare nell’etica
una
distinzione,
questa
sì,
davvero
importante: tra etica dell’intenzione ed etica della responsabilità. La prima serve spesso a coprire i peggiori misfatti: io ho agito così per il suo bene, lui è morto, pazienza!
Sono moralmente a posto. La seconda guarda ai risultati delle nostre azioni. Se sono dannose, chiede di rimediare. Non a sentirsi in colpa, che non serve a nessuno, ma a riparare il danno, impegnandosi a non produrlo più. Il senso di colpa, invece, è un radicale nevrotico che, lungi dal migliorarci, ci mantiene deboli ed in conflitto con noi stessi, pronti a ricadere nell’errore infinite volte. Macerandoci al nostro interno, ma rimanendo del tutto insensibili al destino concreto dell’eventuale vittima. La quale, oltre al danno subito, dovrà magari sorbirsi il nostro cattivo umore. Il senso di colpa non serve a purificare la propria anima, ma a sottomettersi al potere altrui e ad odiare se stessi.
“Come faccio a sapere se una cosa, una persona, una tecnica, ha potere su di me?”
A questa domanda c’è una risposta molto semplice:
una cosa ha potere su di te quando non ne puoi fare a meno. Prova a liberarti dal senso di colpa. Non ci riesci. Il senso di colpa ha potere su di te, perché l’autorità che te lo ha installato, ti è entrata dentro. Ti domina dall’interno, esercitando la forma di controllo più efficace e sicura che esista. Tu credi di essere libero, perché credi, sentendoti in colpa, di pensare con la tua testa. In realtà stai pensando con la testa di chi questo potere ha esercitato su di te. Appena provi a indagare questo meccanismo, ti senti più in colpa di prima, perché perdi la tua innocenza: ti stai ribellando. E la ribellione, nella cultura dell’etica autoritaria, che hai fatto tua, è la peggiore delle colpe.
“Ma anche i miei cattivi impulsi hanno potere su di me!”
Nel momento che accetti la definizione di “cattivi impulsi”, che ti viene fornita non dalla natura, ma
dall’autorità irrazionale, - politica, religiosa o filosofica, non importa -, essi diventano tali per il semplice fatto che tu inizi a combatterli. Dando inizio ad una danza distruttiva, ad una lotta senza fine. Più cerchi di controllarli, più essi si ribelleranno, trasformandosi in demoni capaci di riempire le tue notti dei peggiori incubi. Così è tipicamente per l’impulso sessuale. Una volta definito pericoloso e soggetto a repressione, esso si distacca dall’amore e dallo spirito, e si perverte in materialità bruta, tingendosi di futilità o sporcandosi di aggressività e prevaricazione. E’ facile dopo giudicarlo cattivo. La regola è semplice: ciò a cui non sei in grado di rinunciare, diventa un bisogno e ha potere su di te. Se non sai rinunciare agli alcolici e al fumo, bottiglie e sigarette hanno potere su di te. Se non sai rinunciare ad ingollarti di cibo, il cibo ha potere su di te. Non sei tu a scegliere. Sono loro che decidono della tua vita. Se non sei in grado di rinunciare alla persona che dici
di amare, e lasciarla libera di amarti o no, tu sei soggetto al suo potere. Per questo inizi ad odiarla, nel momento stesso che dici di amarla di più. Amore e dipendenza sono inconciliabili. Se
non
sai
rinunciare
ai
tuoi
sogni,
essi
ti
domineranno trasformandosi nei tuoi peggiori tiranni.
“Ma rinunciare non significa arrendersi e abbandonare ogni
aspirazione?
Quindi
vivere
nell’apatia,
nella
rassegnazione?”
Non ho detto che occorre “rinunciare”, ma “saper rinunciare”, saper fare a meno. Desidero una casa più bella, ma posso essere felice anche se non riesco ad averla.
Voglio
diventare
un
ottimo
pianista, ma
immagino di poter essere felice anche se non lo divento. Mi fa piacere laurearmi, ma sono soddisfatto di me anche prima. Sono contento di essere in salute, ma una malattia non mi fa perdere il buon umore.
Sono contento se una persona è gentile con me, ma non pretendo che lo sia.
“Quindi non si tratta di non avere desideri o di reprimerli!”
Certo che no. Sogni e desideri, finché rimangono preferenze, sono il sale della vita: sono possibilità che, lasciandoci liberi, ci spingono a muoverci, ad agire, a goderci le cose. L’attaccamento ai desideri, invece, li trasforma in bisogni e in doveri. Poiché pretendono di essere soddisfatti, i bisogni ci dominano e ci rendono schiavi. Come dei buchi neri, risucchiano la nostra attenzione e la nostra energia. Il resto non ci interessa, neppure più lo vediamo. Siamo presi da un amore passionale e usciamo con un amico. Lui potrebbe aver perso un occhio e avere un palo piantato nella schiena, e non ce ne accorgeremmo neppure. Non c’è spazio nella
nostra testa che per la persona oggetto del nostro amore. Che amore ovviamente non è, ma solo possessione. Questa è la natura della dipendenza. E si può dipendere da tutto, non solo dall’alcol o dalla droga. Si può dipendere dalla carriera, dal denaro, dal successo, dal riconoscimento, dall’amore di un’altra persona, appunto. Ricordo una cliente che si tormentava per essere stata abbandonata dall’uomo con cui stava. L’aveva lasciata per andare con un’altra donna. Le chiesi se amava ancora quell’uomo, e lei mi rispose, un po’ risentita: “Certo, lo amo tremendamente, non ho altri pensieri che per lui”. Brevemente, le dissi di immaginare questa scena: lui, dopo aver trascorso una notte travolgente di passione con la nuova compagna, al mattino presto esce di casa colmo di felicità, ma lievemente assonnato. E, attraversando la strada, non vede sopraggiungere il
camion della spazzatura. Ci finisce sotto e rimane spiaccicato sull’asfalto. Nel viso della donna compare un sorriso, molto lieve e trattenuto, per la verità. In confronto quello della Gioconda sarebbe apparso una volgare sghignazzata. Glielo feci comunque notare, e, fingendomi stupito della sua reazione, le chiesi spiegazioni. E lei se ne uscì
con
una
frase
del
tipo:
“Ecco
ciò
che
si
meriterebbe quel bastardo!” Il linguaggio, all’interno di una cultura duale, lo abbiamo visto, tende a focalizzarsi sulle differenze, e a polarizzarle.
Il
campo
semantico
della
rinuncia,
richiama comunemente parole come: perdita, resa, rassegnazione, debolezza, sofferenza. Qualcosa di negativo, da evitare nei limiti del possibile. Come una malattia, o una disgrazia. In questo modo, attraverso una categorizzazione linguistica socialmente condivisa, veniamo a perdere una fetta importante di realtà e di significati, che si collocano in tutt’altra direzione: la rinuncia come forza
d’animo e apertura a nuove infinite possibilità. La rinuncia come liberazione dalla tirannia dei bisogni!
“Quindi come risorsa!”
Quelli che consideriamo problemi, lo sono dal nostro punto di vista. Ma la realtà è molto più vasta di ciò che riesce a vedere il nostro occhio condizionato dal pensiero-linguaggio e dalla cultura di appartenenza.
“Mi sembra difficile convincere un povero della fortuna che
ha
nel
rinunciare
ad
una
vita
comoda
e
confortevole! O ad un innamorato a dover rinunciare alla donna che ama!”
Il problema non sta nella rinuncia, ma nella libertà o nella costrizione. E’ diverso vivere nella povertà o nella frugalità perché lo si è scelto, come fece S. Francesco, o perché a tale situazione si è condannati
da circostanze avverse. Nel secondo caso, non si tratta di rinuncia, ma di impossibilità, impedimento, frustrazione, tutte cose che non favoriscono la felicità. Questo è facile da capire. Meno facile è comprendere che lo stesso vale per la ricchezza o il successo. L’attaccamento al desiderio di avere successo si trasforma spesso in bisogno e coazione,
che
porta
la
persona
a
lavorare
ed
impegnarsi sempre di più, in una corsa senza fine. D’altra parte, chi si accontenta della sua situazione economica non florida, rinunciando alla pretesa che le cose dovrebbero essere diverse, può vivere una vita assolutamente piena e serena.
“Finché si parla di soldi o di successo, sono d’accordo. Ma quando si tratta della salute?”
Il discorso non cambia. Paradossalmente, per godere di buona salute psichica, occorre saper rinunciare ad
avere
una
perfetta salute
fisica.
Altrimenti
ogni
sintomo, acciacco o malattia, diventa occasione per sviluppare cattivo umore, infelicità, depressione. E per godere di una buona salute fisica, occorre lasciar andare la pretesa di essere sempre soddisfatti e contenti. In caso contrario, ogni emozione negativa diventa
oggetto
ansiosa,
trasformandosi
passeggero,
in
di
osservazione da
sequestro
preoccupata
fenomeno emozionale
innocuo che
e e
può
prolungarsi nel tempo e danneggiare il corpo.
“Ma se arriva una malattia seria o incurabile?”
Mia madre era ricoverata in ospedale a Milano per una delicata operazione, nella speranza di rimediare ad un intervento compiuto a Genova da un ortopedico di rara incompetenza. Nella sua stanza c’erano altre due donne: una ragazza giovane, ed una signora di una certa età.
Quando andavo a trovarla, mia madre, nonostante il disagio e la sofferenza fisica, era contenta di vedermi e appariva tranquilla e di buon umore. Anche la signora del letto accanto era molto gentile, sorridente, ed emanava un senso di serenità. La ragazza più giovane, invece, era sempre chiusa e ingrugnita. Non rispondeva al saluto e sembrava infastidita dalla presenza di ogni altro essere umano. Tutti i giorni, parenti, amici e il fidanzato, venivano a farle visita, pieni di premure. Ma il suo umore non cambiava minimamente: anzi, ogni volta trovava nuove occasioni per lamentarsi e criticare qualcuno. Mi feci l’idea che stesse soffrendo per una grave malattia, e che reagisse alla sofferenza in questo modo distruttivo. Mentre l’altra donna, più anziana, probabilmente
aveva un
lieve
disturbo
e presto
sarebbe tornata a casa. Per questo poteva essere sorridente
nei
miei
confronti,
e
così
gentile
e
premurosa nei confronti di mia madre. Ben presto venni a sapere che la verità era il
contrario. La ragazza giovane non aveva nulla di grave, e stava per lasciare l’ospedale perfettamente guarita. La signora più anziana, invece, era ammalata di tumore e aveva davanti solo pochi mesi di vita. Inoltre, era stata abbandonata dal marito, ed era sola al mondo. Nessuno veniva mai a trovarla. Nonostante questo, irradiava un senso di serenità e benevolenza, che era contagioso. Mia madre fu molto aiutata dalla sua presenza. Candy Pert racconta di un uomo giovane paralizzato a letto, senza più l’udito, a causa di un gravissimo incidente. Per respirare aveva bisogno del polmone artificiale. Egli trovava conforto nel guardare gli alberi fuori dalla finestra dell’ospedale. Un giorno perse anche
la
vista,
e
fu
preso
da
un
terribile
scoraggiamento. Poi si ricordò che anni prima aveva praticato meditazione. Iniziò a concentrare la sua attenzione sul respiro, con dedizione e amore. Dopo qualche ora, il suo umore si risollevò. E con il tempo, lentamente, il suo corpo cominciò a guarire.
Roberto Ghiozzi, musicoterapeuta che si è formato nella nostra scuola, accompagnando i malati terminali di AIDS negli ultimi mesi di vita, ha assistito più volte ad una loro rinascita spirituale. Rinascita resa possibile dalla sua presenza amorevole ed empatica, e dalla musica cantata, composta o suonata apposta per loro. Vari pazienti lo hanno salutato, prima di lasciare questo mondo, dicendo che i tempi trascorsi insieme erano stati i più belli della loro vita. Non rimandiamo, non aspettiamo gli ultimi giorni della nostra esistenza per scoprire questa profonda verità: la felicità non dipende dalle circostanze materiali, ma dall’apertura del cuore.
“E’ questo il significato profondo della rinuncia alle pretese e all’attaccamento ai desideri?”
Nel discorso della montagna, Gesù è stato molto esplicito: beati gli ultimi e beati i poveri, perché loro
sarà il regno dei cieli. Poveri di che cosa? Poveri di bisogni, e quindi, di pretese, lamentele, accuse. Capaci di essere contenti nel qui ed ora, con il cuore aperto a ricevere le grazie del creato, che sono presenti ovunque, in una foglia, in un insetto, in un raggio di sole, nel sorriso di un anziano che sta per morire. Ogni desiderio a cui ci attacchiamo, diventa un bisogno, che ci limita e ci toglie libertà. Il bisogno di riconoscimento
ci
spinge
a
cercarlo
nelle
altre
persone, dalle quali finiamo per dipendere. Il bisogno di eccellere ci spinge a competere, in una gara continua con noi stessi e con gli altri. Non credo che Maslow abbia avuto una buona idea quando, nella sua famosa gerarchia, a messo sotto la stessa etichetta di “bisogni” quelli di sopravvivenza, quelli di relazione e quelli di realizzazione. Da adulto, ad esempio, non ho mai “bisogno” di accettazione, ma solo desiderio, perché dall’accettazione non dipendo come dal cibo.
Chiamandoli bisogni, si legittima una forma di ipnosi fin troppo comune, che ci autorizza a sentirci male e a lamentarci
se
non
riceviamo
l’affetto,
il
riconoscimento, l’attenzione che desideriamo. O ad essere insoddisfatti se non raggiungiamo nella vita i risultati che ci proponevamo. E’ vero che Maslow fa una distinzione fondamentale tra bisogni carenziali e bisogni accrescitivi. I primi sono i bisogni infantili ancora presenti in un adulto, come
il
bisogno
di
attenzione,
e
hanno
quindi
carattere nevrotico. I secondi, invece, sono quelli che ci spingono a migliorarci e a realizzare le nostre potenzialità. Ma questa distinzione, venendo dopo, non toglie il rischio di aver messo nella stessa scatola oggetti così diversi. I bisogni carenziali sono fonte di paura e coazione. Quelli accrescitivi sono fonte di crescita, libertà e gioia. Perché allora chiamarli bisogni? E non piuttosto aspirazioni, tendenze, forze evolutive, spinte interiori, motivazioni, passioni?
Da adulti dovremmo essere molto cauti a parlare dei nostri bisogni, come se si trattasse di esigenze reali. I bisogni non sono esigenze da soddisfare, ma di cui liberarsi appena possibile. Più siamo ricchi di intensi bisogni, più siamo separati dal mondo e dagli altri. E più siamo poveri a livello spirituale: tesi, arrabbiati o insoddisfatti. Su
questa
linea,
presente sono
tensione
e
insoddisfazione
nel
considerati la legittima molla del
miglioramento individuale e del progresso collettivo. Mentre non sono che l’anticamera dell’inferno emotivo e relazionale. Quante famiglie si sfasciano perché uno dei partner dedica al lavoro troppa attenzione ed energia? E perché lo fa?
“Di solito dice di farlo per mantenere la famiglia, per garantire un buon tenore di vita, per assicurare un futuro ai figli”.
Si tratta di una ragione o di una razionalizzazione? Non è difficile da capire. Dietro questi comportanti c’è regolarmente un bisogno: di mostrare il proprio valore. Mostrarlo a chi? Anzitutto a se stessi: io valgo perché ho successo. E’ sensata questa risposta? Nella logica del bisogno è certamente sensata, e così appare a chi la fornisce finché nel bisogno si identifica, e quindi non riesce a vederne la natura tirannica. Crede quindi di agire liberamente per il suo bene, e invece agisce per conto di un “meme”, entrato nella sua mente, che lo domina.
“Un meme del potere?”
Sì, un vassallo del potere, che fa il gioco del suo padrone: l’Ego. Per capire la natura dell’Ego occorre capire la natura del potere, che per definizione non può
sopravvivere
se
non
attraverso
la
pratica
dell’inganno e dell’autoinganno.
“Un potere contro di sé!”
Contro di sé e contro gli altri, in una logica non duale, non fa differenza. Il potere è contro, l’Ego è contro. Contro che cosa? Contro l’altra forza: l’amore. L’amore ci vuole connessi, in contatto, uniti tra noi, in armonia con
l’ambiente.
L’Ego
ci
vuole
separati,
in
competizione, in lotta.
“L’Ego quindi produce continua sofferenza?”
Eckhart Tolle la chiama corpo di dolore. Più Ego abbiamo, più il nostro corpo di dolore è denso. E nello stesso tempo la nostra consapevolezza è oscurata dalla sua propaganda, che ci spinge ad agire non verso la luce della liberazione, ma verso le tenebre della progressiva schiavitù.
“La sofferenza, l’insoddisfazione cronica, la paura sono quindi sintomi di Ego? Anche se ci rendono deboli e inabili? Non si tratta piuttosto di un problema o un disturbo?”
L’Ego è il problema! E’ la radice di tutti gli altri problemi
e
di
tutta
la
sofferenza
innecessaria.
Separandoci dal qui ed ora, dal tempo e dallo spazio presente, l’Ego ci sconnette dai sensi e dal corpo, e ci consegna all’illusione del pensiero condizionato dal passato e dal futuro. Pensiero che, come abbiamo visto, si nutrono di categorie liguistiche, alle quali attribuisce statuto di realtà. Mentre della realtà offre solo un’immagine impoverita e distorta, utile come mappa in alcune circostanze, ma del tutto fuorviante se confusa con il territorio. Quando del linguaggio non sappiamo più fare a meno, dal linguaggio siamo dominati. Il linguaggio da utile
strumento, diventa bisogno, esigenza da soddisfare, coazione a cui obbedire. Un linguaggio non più ispirato dall’amore, ma intriso di “memi” del potere, dei quali si fa portatore. La domanda diventa allora: se non possiamo liberarci del linguaggio, possiamo utilizzarlo come mezzo di liberazione anziché di oppressione? La risposta è senz’altro positiva: possiamo imparare a farlo. In tal modo, da ostacolo, diventa il nostro più prezioso alleato. Questa è la sfida attuale in PNL umanistica, per la quale stiamo mettendo a punto il metamodello 2. Mentre il metamodello 1 ha il compito di liberarci dalle illusioni personali più grossolane - causa effetto, lettura della mente ecc. -, il metamodello 2 ha uno scopo più generale: confrontare e svelare le illusioni collettive - in primo luogo l’illusione di separatività -, assorbite e riprodotte dal pensiero individuale. Che di individuale e personale ha normalmente assai poco.
Per generare la nevrosi di un uomo moderno, non bastano le influenze famigliari e scolastiche. Occorre un forte contributo dei modelli di pensiero dominanti nella società. Contributo che, di solito, non bisogna far nulla per ottenere, avendo carattere equanime ed eguaitario: nessuno ne viene privato.
Una certezza,
almeno questa, sulla quale possiamo fare pieno affidamento.
“Come funziona il metamodello 2?”
In
modo
simile
al
metamodello
1,
attraverso
confrontazioni e domande. La differenza consiste nella filosofia che sta dietro alle domande, una filosofia non duale al posto di quella duale, nella quale siamo cresciuti ed linguisticamente educati.
“Mi fai un esempio concreto?”
Una persona dice: soffro molto per la violenza che c’è nella mia famiglia. Se utilizziamo il metamodello 1, cominceremo a porre domande per avere informazioni più
specifiche.
Violenza
è
una
nominalizzazione.
Recuperiamo il verbo: usare violenza, essere violenti. Recuperiamo il soggetto e il complemento. Chi è violento con chi? Che cosa intendi per violento? In quali
circostanze
si
manifesta
il
comportamento
violento? Quando è iniziato? Quando si è aggravato? Chi lo pratica di più? Chi lo subisce? Che cosa impedisce alle vittime di andarsene e sottrarsi alla violenza dei prevaricatori? In che modo la violenza in famiglia ti fa soffrire? In che modo specificamente soffri? In che modo reagisci tu alla violenza? Quali sono i rimedi che hai provato fino ad oggi per ridurre la violenza? ecc. Attraverso
l’uso
del
metamodello,
arricchiamo
la
nostra rappresentazione della realtà. Mentre all’inizio ne avevamo solo una vaga idea, via via l’idea prende
forma: saremmo in grado di girare un film con personaggi
e
attori
che
riproducono
abbastanza
fedelmente quello che accade in quella famiglia. Ma il metamodello non si limita a questo: alla fine esso ci conduce a scoprire le convinzioni disfunzionali, i presupposti che rendono possibile il perpetuarsi di quella situazione, mantenendo il cliente passivo e impotente.
“Scopo del metamodello è quindi il recupero delle capacità e risorse personali?”
Sì. In due parole, aiuta la persona ad uscire dalla posizione di impotenza e di recuperare il potere di compiere libere scelte.
“Quindi ha la funzione di ampliare la consapevolezza?
Certamente, consapevolezza dei dati di realtà, delle
proprie convinzioni e decisioni disfunzionali, nonché dei presupposti impliciti che attraversano tutta la propria mappa. Lo scopo è quello di ottenere i gradi di libertà di cui dispone un individuo sano all’interno della nostra cultura.
“Che però, come dicevamo, è oppressiva nei suoi fondamenti!”
E quindi una persona sana non è ancora una persona risvegliata
alla
metamodello 2
realtà
profonda.
non è guarire
Scopo
del
una persona per
renderla adatta ad avere successo all’interno della società malata di cui facciamo parte, consentendole di condurre una vita da cosiddetti sani. No, il suo scopo è di farle aprire gli occhi sulla vera natura della sofferenza, a partire dalla propria. E sui modi in cui inconsciamente
tutti
contribuiamo
ad
accrescerla,
spargendo i suoi semi nella vita quotidiana, a partire
dal rapporto con il nostro corpo, con noi stessi e con i nostri famigliari. La sofferenza personale, quindi, da ostacolo diventa lo strumento più importante della propria liberazione.
“Una ristrutturazione piuttosto radicale!”
Il metamodello 2 si occupa della radice profonda dei problemi. Se guardiamo in superficie, vediamo un continuo brulicare di problemi diversi: il lavoro, la casa, la famiglia, la scuola, i figli, il denaro, la realzione con gli altri, le malattie ecc. Risolto un problema, se ne affacciano altri due, in un’escalation geometrica. Più ci diamo da fare per risolverli, più ci copriamo di impegni che ci tolgono il tempo per respirare.
“E quale è la radice profonda delle difficoltà che incontriamo?”
Il progressivo distacco, la separazione dalla realtà.
“Questo ha un nome: si chiama psicosi!”
Nome che noi, per generosità, riserviamo ai malati di mente conclamati. Comprensibilmente, abbiamo una certa resistenza a riconoscere la nostra comune radice psicotica. D’altra parte, finché è socialmente condivisa, finché riusciamo ad essere produttivi e a far finta di amare, perché preoccuparcene? L’importante non è essere “normali”? Cioè essere come tutti gli altri? La PNL, nata in un contesto di grande fermento e innovazione
culturale,
la
California
degli
annni
settanta, - la nuova ipnosi di Milton Erickson, la mente non confinata nel corpo di Gregory Bateson, la pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick, i seminari all’Easalen Institute, il rapporto tra nuova
fisica e spiritualità di Fritjof Capra, la meditazione, i lama e i monaci in esilio dal Tibet -, salvo eccezioni, ha perso lo spirito rivoluzionario del suo esordio. Si è adattata, direi molto bene, ed è diventata uno strumento del business.
Il metamodello 1 è spesso
utilizzato come strumento competitivo per avere più successo, per prevalere, per definire obiettivi che di ecologico hanno solo il nome. I titoli di practitioner e master si prendono ormai in pochi giorni, basta essere disposti a pagare tanti soldi. Il metamodello 2 si pone lo scopo di riaccendere lo spirito rivoluzionario della prima PNL. Almeno lo spirito che
ho
percepito
io,
quando
ho
cominciato
a
frequentarla. “Non sono interessato alla terapia per adattare le persone ad una società malata, ma a promuovere la sua trasformazione”, questo aveva detto Grinder, uno dei suoi fondatori. Ma il demone del potere non ha risparmiato la PNL, come dimostra la sua storia. Perché avrebbe dovuto farlo, visto che non ha risparmiato nessuno dei grandi
movimenti rivoluzionari, - cristianesimo, illuminismo, marxismo, psicoanalisi in testa -, per citare solo quelli che maggiormante ci hanno influenzato? Avendolo sottovalutato, credendo di possedere la chiave per controllarlo, peccando di orgoglio, ne sono stati regolarmente contaminati.
“Ritornando alla sofferenza, mi ha colpito quando hai detto che da ostacolo essa diventa lo strumento più potente della nostra liberazione. Che significa? che dobbiamo essere contenti quando ci ammaliamo, quando abbiamo un incidente, quando le cose ci vanno storte?”
Come sai, la PNL è diventata famosa per la rapidità con cui riusciva a risolvere certi problemi, come le fobie o gli effetti attuali di traumi del passato. Un cambio
di
sottomodalità,
un
ancoraggio,
una
dissociazione V/K, ed ecco il miracolo: la fobia è
sparita. Un cambio di storia, e la persona è libera dall’emozione negativa. Fine della sofferenza. Pronti a ripartire con una nuova carica vitale. Ma per andare dove, con chi, a che scopo? per soddisfare quali valori, quale identità, quale missione? E’ stato Robert Dilts ha porsi per primo queste domande. Ma indovinate un po’? Grinder lo ha sconfessato pubblicamente, dicendo che quella di Dilts non è più PNL perché si occupa di contenuti. La PNL vera, la sua e solo la sua, è fatta unicamente di forma e struttura. Con valori e ideali non vuol sporcarsi le mani. L’attuale compagna di Grinder, che fa aula con lui, è una manager, a quanto pare di notevole successo, che dichiara di essere stata in gioventù miss america o qualcosa del genere. E racconta storie e metafore quasi sempre intrise di messaggi su come ottenere successo. Nel seminario a cui ho recentemente assistito, di fronte ad una platea di centinaia di persone, molte delle quali master o trainer, Grinder ha aperto le
danze in modo da marcare nettamente il territorio: la PNL sono io! Vediamo se voi ci avete capito qualcosa! Tutti sotto esame. Se questa è la rivoluzione promessa, mi richiama molto quella leninista, senza neppure lo scrupolo o il buon gusto di mascherarla dietro qualche ideale. Ma forse è meglio così. I giochi si fanno più chiari. Il mondo si divide in due: quelli che comandano e quelli che obbediscono. Torniamo alla realtà, usciamo dalle psicosi idealiste.
“Sei quindi contrario alla rapida risoluzione di un sintomo?”
Sono favorevolissimo, purché il sintomo sia visto come tale, e non come una seccatura di cui liberarsi per continuare a comportarsi in modo egocentrico e irrispettoso. Se la cornice generale nella quale si opera è quella di una gara per chi ha più successo, una sfida
continua per arrivare prima, non possiamo permetterci di ascoltare i messaggi dei sintomi. Che talvolta o spesso,
non
sempre,
sono
messaggi
dell’anima.
Messaggi che contengono indicazioni preziose sui cambiamenti importanti da attuare per rendere la nostra vita più ricca e piena. In senso relazionale, emotivo e spirituale, non materiale. Altre volte i sintomi sono solo disturbi, incidenti, come una casa che si allaga o un albero che viene colpito da un fulmine. Una tegola che ti cade addosso non contiene un messaggio per te. Puoi crederlo, se vuoi, ma allora, oltre al bernoccolo, in testa hai un problema ben più serio. Il fatto di condividerlo con altre persone non ne cambia la natura. In entrambi i casi, - che i sintomi siano messaggi o siano frutto di incidenti -, se vogliamo seguire la via dell’amore,
anziché
quella
del
potere,
c’è
un
atteggiamento di fondo che è opportuno imparare ad adottare nei loro confronti: la loro piena accettazione, così come sono, nel momento presente.
“Quindi non dobbiamo far nulla per liberarcene?”
Non dobbiamo fa nulla per combattere con loro. Facendo così, entriamo in una fisiologia di allarme e difesa, idonea a scatenare una pronta reazione di attacco o fuga, funzionale a salvarci dai predatori, ma del tutto inadatta a rinforzare il nostro sistema immunitario fisico e mentale. La nostra intelligenza, la nostra creatività viene a ridursi a quella di un rettile, senza disporre dei suoi denti e del suo veleno -, proprio quando abbiamo bisogno di migliorare le nostre prestazioni. Accecati dalla rabbia e dal rancore, molte volte perdiamo di vista l’ovvio, il banale: il bisogno di riposo, di staccare dalla routine, di allontanarci da situazioni tossiche, di frequentare nuovi ambienti, di cambiare abitudini alimentari, di fare attività fisica, di stare in mezzo alla natura, di curare le nostre
relazioni. Combattere i sintomi serve ad una sola cosa: a rinforzarli. Prova a combattere con il mal di testa, con l’insonnia o il mal di pancia. O con la tua rabbia o la tua paura. O con le tue ossessioni. Prova a maledire il destino, Dio, la sorte, i tuoi genitori, per un incidente che ti è capitato!
“Ma accettare sintomi e disturbi in concreto che significa?”
Significa
assumere
con
essi
un
atteggiamento
contemplativo o meditativo: vederli, riconoscerli così come sono adesso, senza pretese che non ci siano nel qui ed ora. Rimanendo disidentificati: io non sono il mio mal di testa, io non sono i problemi del mio lavoro,
della
Rimanendo
mia
carriera,
tranquilli.
compassionevole.
Con
della
mia
famiglia.
il
cuore
aperto,
L’occhio della rabbia vede solo la superficie dei fenomeni, ingrandendoli e isolandoli dagli altri. La rabbia vuole una soluzione immediata, che spesso non può esistere o non può essere raggiunta in questo modo. L’occhio
della
compassione
vede
i
fenomeni
in
profondità. Nella loro impermanenza e connessione con gli altri fenomeni. Nella loro corretta proporzione di spazio e di tempo. La consapevolezza che ne deriva è di per sé risanante: riduce il dolore, contiene la sofferenza della perdita, cura il bruciore della ferita. Ci fa sentire più connessi, meno isolati, più partecipi al dolore degli altri che riconosciamo simile al nostro. Già solo avviare questo processo apre la via della soluzione o della guarigione. Il sistema immunitario si rinforza, la mente diventa più lucida, l’intelligenza più acuta. Le scelte che ne derivano vanno nella giusta direzione.
Applicare le tecniche di PNL in tale cornice è assai più produttivo ed ecologico, perché diventano mezzi abili che favoriscono l’evoluzione spirituale della persona, e non solo stratagemmi per liberarla rapidamente da sintomi che il suo Ego considera un ostacolo.
“Stai
dicendo
che
il
problema
non
sono
gli
inconvenienti, i sintomi, gli incidenti, ma il modo in cui li osserviamo. Se li osserviamo dal nostro Ego, suscitano in noi rabbia o irritazione. Non vediamo l’ora di liberarcene come da una spina in un piede. Se li osserviamo con gli occhi del cuore, o dell’anima, non destabilizzano più il nostro umore. Ma suscitano la nostra compassione. Compassione per una gamba che fa male, o per il piccolo io ferito. Non li neghiamo, non li trascuriamo, ma ci prendiamo cura di loro con atteggiamento amorevole.”
E in questo modo, stiamo lavorando nello stesso
tempo
per
curare
la
nostra
ferita,
evolvere
spiritualmente e aiutare gli altri a fare altrettanto. La via è la meta. Se la motivazione che ci spinge ad occuparci di un disturbo è egocentrica, anche la soluzione lo sarà. Al massimo da quel disturbo riusciremo a liberarci. Ma solo da quello, e non si sa per quanto. Se invece l’intento profondo è di curare la nostra anima, allora da subito il sintomo perde la sua posizione di centralità nella nostra attenzione. Lo spazio
di
consapevolezza
si
allarga,
la
nostra
intelligenza si fa più ampia e spaziosa, in grado di operare con intento di bene. Che per definizione non può essere solo il nostro, ma è sempre uno scopo che ci accomuna alle persone vicine e agli altri esseri. Quando lavoriamo sulla sofferenza in questo modo, la sofferenza
perde
la
sua
valenza
esclusivamente
individuale e personale, ed acquista una valenza assai più grande: non solo la “mia” sofferenza, la “mia” perdita, il “mio” problema, ma il “nostro” problema, il
problema che “ci accomuna”. Un problema personale diventa allora l’occasione per lavorare su un problema universale. Non ci porta a lamentarci, a pretendere da altri la soluzione, ad accusarli se non fanno abbastanza. Non ci conduce a rimproverarci o a svalutarci. Non ci stimola ad isolarci e a rinchiuderci, ma ad aprirci di più. Ad essere più risonanti ed empatici con la sofferenza nel mondo. Che non è solo nostra, ma di tutti gli esseri. Questa è l’essenza della compassione: ascoltare le grida al proprio interno, e nel contempo ascoltare le grida del mondo. La pratica della compassione ricongiunge i fili che si sono spezzati, ricompone le trame dell’arazzo, rimette in ordine le note e i temi della sinfonia della vita a cui apparteniamo. Questo significa onorare la vita nella sua complessità ed
armonia,
cominciando
ad
onorare
noi
stessi
dell’attenzione, dell’ascolto e dell’empatia profonda di
cui abbiamo bisogno per recuperare integrità, pace e salute. Non possiamo chiedere ad altri di compiere il lavoro che compete a noi. Anche il miglior terapeuta o il maestro più illuminato non può far nulla se noi, abbarbicati al nostro Ego, non siamo disposti ad aprire gli occhi, le orecchie e il cuore. Questo però non deve diventare un alibi per i professionisti dell’aiuto, che devono fare pienamente la loro parte.
“Quale, specificamente”
In primo luogo liberarsi dai demoni del potere che, nel cammino evolutivo, assumono forme via via più nascoste e sottili. Accomunate dall’orgoglio e dalla persistenza dell’Ego. Anche l’ego, stenterete a crederlo, va a scuola di psicoterapia, counseling, formazione. Ed è un allievo
modello: prende appunti, annota ogni cosa con la massima diligenza. Apprende il metamodello, lo slight of mouth e le altre tecniche. E poi studia un piano per mettere le competenze acquisite al suo servizio. Ad esempio cercando di diventare il migliore, il più creativo, colui che ha più successo. E il povero io-governo, con tutti gli impegni che ha a tenere insieme la compagine dei suoi ministri, abbocca molto facilmente. Finché l’Ego, come terapeuti o come clienti, rimane il nostro più fedele consulente, non facciamo passi decisivi nella direzione del risveglio. Paradossalmente occorre diffidare del successo, quando ci riempie di troppa soddisfazione. Di chi è questa soddisfazione? Dell’Ego o dell’anima?
“Vediamo se ho intuito bene. Si tratta di una tipica domanda del metamodello 2?” Hai ascoltato con il cuore, sei arrivato al nocciolo della
questione. Il tuo ascolto ti rende più facile capire, e rende a me più facile insegnare. Non solo il tuo, ma quello di tutti voi. In questo momento svolgiamo ruoli differenti, ma l’intento
ci
accomuna:
apprendere,
sviluppare
consapevolezza. Più siamo uniti nell’intento, più la nostra intelligenza si fa intelligenza di gruppo, la nostra mente si fa mente di gruppo, più potente di quella individuale. Stiamo
creando
profonda,
senza
uno
spazio
barriere.
di Tutti
comunicazione ne
traiamo
giovamento. Non il nostro Ego, però, che, statene certi, guarda a questo fenomeno con giusta preoccupazione. La sua politica, come organismo che abita all’interno della nostra mente, è di tutt’altra natura. Non vuole che creiamo più unione tra noi, più intimità, ma più separazione, più distanza, più diffidenza. Solo lì può proliferare e diffondersi.
“Perché fa così?”
E’ nella sua natura, come nella natura di un virus c’è la spinta a introdursi in una cellula, ad occuparla per succhiare
la
sua
energia,
altrimenti
non
può
sopravvivere. I virus, sapete, fanno cose strane, e sono molto creativi. Ce n’è uno che, quando infetta un topo, stimola
i
suoi
neuroni
a
farlo
muovere
eccessivamente, anche in presenza di un gatto. Un comportamento suicida, direte voi, perché il topo, una volta nelle fauci del gatto, è destinato a morire. Il topo muore, certo, ma non il virus, il quale si trasferisce nel sangue del gatto, che è l’unico ambiente adatto alla sua riproduzione. Una strategia di notevole intelligenza. Se un virus, che è più piccolo di una cellula, può manifestare un comportamento così opportunista,
figuriamoci l’Ego, che è frutto collettivo di miliardi di menti
umane
immaterialità
per rende
un
milione solo
più
di
anni. sicura
La
sua
la
sua
sopravvivenza, attraverso la trasferibilità e adattabilità agli ambienti umani più diversi.
“E tornando alle domande del metamodello 2?”
Tu mi parli di un problema che ti fa soffrire: la violenza nella tua famiglia. Anche senza saperne molto, posso chiederti: la sofferenza che dici di provare, è espressione della tua anima o del tuo Ego?
“Come faccio a distinguere? Io ho difficoltà!”
E’ facile operare tale distinzione. Sono due tipi di sofferenza
completamente
diversi.
Non
puoi
confondere un ippopotamo con un cercopiteco, a meno
che
tu
non
abbia
frequentato
un
lungo
apprendistato per sviluppare cecità selettiva e grave agnosia nei confronti degli animali. Purtroppo, però, tu hai ragione. Hai difficoltà a distinguere tra loro due cose così semplici, perché quel corso tu lo hai frequentato, a tempo pieno, a partire dalla tua infanzia. Un corso non diretto a sviluppare agnosia per gli animali, ma per gli stati d’animo fondamentali. Tu
non
sei
alessitimico.
Tu
sei
normale.
Sai
distinguere la rabbia dalla tristezza, e la tristezza dalla paura. Però non sai riconoscere quale è la loro fonte: l’Ego o l’anima. Su questo sei perfettamente adattato alla nostra cultura: condividi il presupposto fondamentale della nostro modo di percepire il mondo. Più diventi grande, più vai avanti a studiare, più diventi confuso rispetto a tale elementare differenza che fa la differenza. Finisci così per ignorarla, svalutarla o ridicolizzarla. In fondo, credi che sia una cosa troppo banale per
meritare la tua attenzione. Se studi psicologia, vieni solo confermato in questa convinzione. I problemi reali sono ben più complessi: inconscio patogeno, impulsi, complesso di Edipo, ansia da castrazione, pulsione di morte… Però è una differenza alla quale da bambino, come qualunque Diversa
animale,
era
la
eri
tua
particolarmente
reazione
se
tua
sensibile. madre
ti
rimproverava mossa dal suo Ego o ispirata dalla sua anima. La rabbia di un’anima compassionevole non ferisce nessuno.
Anzi
è
un
mezzo
molto
potente
per
risvegliare le coscienze. La gentilezza che proviene dall’Ego, invece, ci lega come un guinzaglio al collo.
Anche se proviene da
nostra madre. Anzi, a maggiror ragione se viene da nostra madre o da nostro padre. In sintesi, le domande del metamodello 2 sono mezzi abili
che
aiutano
la
persona
a
recuperare
consapevolezza
rispetto
a
questa
fondamentale
distinzione: tra pensieri, convinzioni, emozioni, stati interni, comportamenti, atteggiamenti, parole, che provengono
dall’Ego,
da
una
parte;
e
pensieri,
convinzioni, emozioni, stati interni, comportamenti, atteggiamenti, parole, che provengono dall’anima, dall’altra.
“Quindi il metamodello 2 si collega strettamente al tema degli inquinanti e delle qualità dell’essere, delle barriere e dei facilitatori?”
Esattamente. E’ una tecnica linguistica per rendere operativa, nella vita di tutti i giorni, questa preziosa conoscenza. aggiornamenti,
Conoscenza proviene
che, dalle
con
i
antiche
dovuti tradizioni
sapienziali non duali, ed in primo luogo, per la mia personale esperienza, dalla filosofia Buddista. Essa favorisce l’allineamento interno tra i livelli logici,
in modo che siano la mission e la nostra vera identità a guidare la nostra vita, al posto dell’Ego e delle subpersonalità.