L a crisi finanziaria: cosa fare oggi e come prepararci al futuro The financial crisis: what to do now and how to prepare for the future
Le principali linee di intervento rispetto alla crisi finanziaria dovrebbero svilupparsi intorno ad alcune questioni sia di natura tecnica e quantitativa, sia di ordine etico.Tra le prime, la necessità di disporre di informazioni contabili certe ed efficaci; lo sviluppo di mercati regolamentati trasparenti e dotati di servizi di clearing; l’utilizzo di analisi di stress per una più completa valutazione dell’esposizione ai rischi; l’analisi della qualità degli attivi degli intermediari, per affrontare il tema degli asset tossici.Tra gli elementi qualitativi ed etici, l’importanza per le banche di avere un modello di responsabilità generale e un rapporto corretto tra agire economico e finanziario e sistema di valori. Giuseppe Mussari, Alessandro Santoni, Stefano Dalle Mura Banca Monte dei Paschi di Siena
Intervention guidelines to face the financial crisis must consider technical, qualitative and ethical aspects. New rules have to generate effective accounting data, to develop transparent regulated markets, to make stress testing for a more complete risk analysis and to analyse the quality of assets in order to address the problem of toxic assets.As it concerns ethical aspects, banks have to construct an overall governance model and their decisions must to consider both the economicfinancial profiles and their ethical value.
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1 Premessa Il tema delle cause e conseguenze della crisi in atto è talmente ampio e profondo che sarebbe assai difficile immaginare di racchiudere in poche pagine una sua completa disamina e, tanto più, pervenire a una compiuta proposta per la soluzione dei molteplici problemi che ci troviamo a dover affrontare. Lo scopo di questo breve scritto è, piuttosto, quello di fornire un contributo alla riflessione su alcuni degli aspetti più rilevanti della crisi quale contributo per la definizione di misure utili a fronteggiare le emergenze del presente, e a gettare nuove basi per un sistema finanziario più robusto di quello che abbiamo visto disgregarsi nei mesi scorsi. Sebbene i più evidenti risvolti della crisi siano stati, almeno inizialmente, di tipo finanziario (per la tipologia di strumenti, mercati e intermediari coinvolti), in realtà, l’innovazione finanziaria ha agito in sinergia con il vero squilibrio di fondo, quello macroeconomico, causa prima della crisi stessa, determinato dall’eccesso di consumo – e dal conseguente sovraindebitamento – dei cittadini e degli Stati, Usa e Uk in primis. Il modello di sviluppo, basato su una cre-
Le opinioni espresse dagli autori dell’articolo sono personali e non coinvolgono in alcun modo l’istituto di appartenenza.
scita della domanda sostenuta dall’indebitamento e dall’afflusso di risorse dall’estero, ha consentito di mantenere una prolungata e sostenuta dinamica positiva del Pil che si è riflessa nella percezione di un elevato livello di potere di acquisto corrente, il quale – pur non riflettendo i veri fondamentali dell’economia e non tenendo pienamente conto del costo del servizio dei debiti accumulati – ha per molto tempo sostenuto la spesa privata sia per i consumi in senso stretto sia per servizi certamente non voluttuari, dalle pensioni, alle assicurazioni mediche, all’educazione, specie nei paesi privi di sistemi di welfare diffuso. Un tale meccanismo ha indubbiamente avuto un ruolo importante nel mantenimento del consenso e dell’equilibrio sociale, tanto più in una fase storica in cui le differenze economiche – evidente è stato l’allargamento della forbice fra redditi da lavoro e profitti – tendevano ad acuirsi. L’interesse a frenare tempestivamente una dinamica che contribuiva a mantenere la pace sociale è stato assai limitato, conducendo così il sistema verso un insanabile punto di rottura. Su tale dinamica si è innestato un apparente processo di derisking da parte dei più importanti intermediari finanziari che
grazie al meccanismo dell’Originate and distribute, e ancora di più, alla sua successiva evoluzione, hanno alleggerito il peso patrimoniale dei loro attivi commerciali, aumentando, contemporaneamente, i loro attivi finanziari investendo in strutture complesse, acquisite a leva. Queste, però, essendo spesso basate proprio sui rischi inizialmente cartolarizzati hanno finito per farli rientrare, di fatto, nei bilanci degli intermediari. Strutture oltretutto difficilmente prezzabili ed estremamente esposte proprio ai rischi meno codificati dalla normativa di vigilanza (liquidità e controparte). Proprio l’indeterminazione del fair value di tali asset si è rivelata la molla che ha scatenato la crisi, fortemente amplificata dalle cause precedentemente menzionate. In questo processo le agenzie di rating specializzate hanno avuto un ruolo di primo piano. Le loro valutazioni hanno contribuito in maniera determinante a diffondere, fra investitori e intermediari, falsi sensi di certezza sul valore degli strumenti finanziari anche più complessi, sostenendone la diffusione. Le stesse agenzie, con repentini downgrading ex post, a disastro già iniziato, hanno contribuito a peggiorare ulteriormente la situazione. Una fase di congiuntura negativa è l’inevitabile meccanismo di riassestamento degli squilibri accumulatisi. Il rientro dagli eccessi è necessario; ed è fisiologico che, almeno temporaneamente, si riduca il tasso di sviluppo, si contraggano i consumi a fronte di un aumento del tasso di risparmio. Tuttavia oggi vi è anche la concreta prospettiva che a una fase eccessivamente espansiva ne segua una di eccessiva contrazione: l’obiettivo delle istituzioni non potrà essere quello di evitare ogni impatto della crisi (sarebbe come riproporre il modello dell’eterna crescita). Esse avranno piuttosto il compito di cercare di circoscrivere gli effetti collaterali del riequilibrio a quelli strettamente necessari, evitando un overshooting negativo dell’attività economica: scopo dei piani di intervento degli Stati dovrebbe essere quello di impedire che tali fenomeni assumano dimensioni incongrue, che si protraggano troppo a lungo nel tempo, e che gli effetti della crisi colpiscano le classi più deboli. Consapevoli che l’analisi e le soluzioni non possano prescindere da una lettura congiunta dei fattori finanziari, eco-
nomici e sociali, vogliamo concentrare l’attenzione su un numero limitato di aspetti che ruotano attorno al tema della valutazione, gestione e regolamentazione dei rischi, che riteniamo abbiano significativamente concorso alla nascita e allo sviluppo della crisi.
2 La crescente correlazione dell’esposizione
al rischio dei diversi player L’utilizzo di tecniche e strumenti finanziari evoluti potrebbe anche aver consentito ai singoli operatori di contenere la loro esposizione ai rischi, ma il rischio sistemico è andato, paradossalmente, crescendo. Gli strumenti finanziari complessi – spesso non transati su mercati regolamentati bensì confezionati e intermediati da un numero ristretto di istituzioni finanziarie – hanno da una parte rafforzato l’interdipendenza fra le banche e, quindi, la probabilità del verificarsi del classico effetto contagio (fallisce la banca A, questo crea problemi alla banca B che a sua volta mette in crisi la banca C, e così via) e dall’altra hanno aumentato l’esposizione a fattori di rischio comuni creando, quindi, una situazione in cui un determinato evento poteva mettere contemporaneamente a repentaglio una molteplicità di soggetti e, in definitiva, il sistema stesso. Il fenomeno dei subprime ne è la conferma più evidente: le difficoltà di un mercato dalle dimensioni nominali tutto sommato contenute ha dato il via all’implosione del mercato finanziario, in quanto più o meno tutti, più o meno direttamente, erano esposti – anche grazie alla moltiplicazione sintetica dei rischi – verso quel settore. Il fatto che i singoli soggetti nel perseguire razionalmente un’efficiente esposizione ai rischi – in funzione del loro risk appetite – abbiano dato luogo a un aumento del rischio sistemico è un classico esempio di esternalità negativa: nel prendere le proprie decisioni ottimizzanti, i singoli tengono conto dei benefici e costi privati ma non dei collegati effetti sociali, un fattore che i prezzi di mercato non sono in grado di internalizzare. Si tratta dello stesso meccanismo che, in assenza di un mercato che faccia pagare agli utilizzatori i costi indiretti e collettivi causati dell’inquinamento, conduce a un sovra utilizzo
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delle risorse energetiche fossili. Una penalizzazione regolamentare sugli asset finanziari che più facilmente potrebbe condurre a tale esternalità sarebbe l’equivalente di una carbontax. Di fronte a una problematica di ordine sistemico occorre riconoscere che trattasi di un problema complesso, in quanto lo stesso attiene alla valutazione di come si stia muovendo, in termini di esposizione ai fattori di rischio, l’intero sistema finanziario. D’altro canto, una banca centrale – o anche, auspicabilmente, un soggeto sovranazionale – potrebbe ricostruire su base aggregata, e garantendo l’anonimato, la composizione complessiva dei portafogli dei soggetti vigilati. In caso di dinamiche critiche – per via di un’eccessiva esposizione collettiva a specifici fattori di rischio – potrebbe utilizzare quantomeno la leva della moral suasion per imprimere tempestivamente una qualche correzione. Si badi bene che ciò non significherebbe affatto fare pressione su una singola banca, di fatto violando l’accordo di anonimato: perché si verifichi una situazione di criticità sistemica occorre che la gran parte delle banche si sbilanci verso lo stesso fattore di rischio causando un’insufficiente diversificazione di sistema, e in questo caso le indicazioni della vigilanza sarebbero rivolte, a loro volta, al sistema stesso, cioè a tutte le banche.
3 La trasparenza e l’accumulo di asset
tossici: la loro possibile gestione Il processo di moltiplicazione sintetica dei rischi è stato il motore, dal lato finanziario, della genesi e della diffusione della crisi. Esso però ha trovato un formidabile acceleratore delle sue dimensioni, e viepiù della sua opacità, nella propagazione del fenomeno delle poste e dei veicoli fuori bilancio, che è arrivato ad assumere dimensioni tali da ridurre materialmente la trasparenza informativa nei confronti del mercato e ostacolare un’efficace attività di vigilanza a garanzia della stabilità del sistema. Allo stesso tempo abbiamo assistito a una rapida crescita di strumenti e transazioni «non pienamente di mercato» – in particolare gli Otc e i private placement – oltretutto non soggetti a meccanismi di clearing. Già altri hanno evidenziato come una parte non trascurabile dei problemi finanziari di
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questa crisi si sia sviluppata proprio là dove il mercato, in senso autentico, non c’era. Il fallimento del mercato è un protagonista della storia di questa crisi, ma non è il solo. Si consideri, inoltre, che la regolamentazione ha agito con una chiara asimmetria, concentrandosi sui soggetti quali le banche commerciali e allo stesso tempo trascurando proprio quelle entità che poi sono risultate determinanti nei meccanismi di diffusione della crisi: hedge funds, private equity, fondi sovrani, cui oggi è estranea quasi ogni forma di regolamentazione. Questa combinazione di opacità nella rendicontazione e nelle modalità di realizzazione delle transazioni finanziarie ha consentito l’accumulo di volumi considerevoli di titoli tossici, cioè di asset valutati secondo criteri sostanzialmente teorici e convenzionali che sono stati sottoposti a dura prova nel momento in cui, dietro la spinta di pressanti esigenze di liquidità, quegli asset sono stati messi concretamente sul mercato e si è potuto rilevare quale fosse il loro effettivo prezzo. La volatilità di questi titoli è poi cresciuta esponenzialmente e oggi essi hanno prospettive sostanzialmente indecifrabili, che vanno dal definitivo passaggio a default al recupero verso i valori nominali. Al di là delle svalutazioni che si sono già palesate, il timore che detti asset non siano stati portati pienamente alla luce, e che comunque non abbiano ancora prodotto tutti i loro potenziali effetti negativi, è evidente. Da qui la crisi di fiducia che è il reale propellente della crisi finanziaria; se se ne vuole attenuare la verticalità occorre che il propellente venga azzerato, ritornando alla totale trasparenza sulla qualità e quantità degli attivi finanziari. Pertanto, quale che sia la soluzione individuata per tentare di rimuovere, o quanto meno attenuare, la criticità dei toxic asset, pare opportuno che questa risponda ad alcune caratteristiche desiderabili: a la disclosure sulla qualità degli attivi finanziari deve essere piena e tutti gli asset eventualmente definiti come tossici – secondo criteri uniformi – e posseduti dalla banca devono venire alla luce; b non si può escludere a priori un coinvolgimento del settore pubblico diretto o comunque a garanzia; c il costo dell’operazione sugli asset tossici deve ricadere, in
maniera non marginale sugli azionisti, così come peraltro i benefici di eventuali recuperi di valore. Il dato da cui partire è la constatazione che la qualità degli attivi concorre a definire la solidità complessiva di una banca al pari degli indicatori patrimoniali. Ma il concetto di qualità degli attivi non può essere stabilito soggettivamente. Con specifico riferimento agli asset tossici, il loro perimetro non può essere definito dalle banche, ma dalle autorità di vigilanza, preferibilmente sulla base di criteri predefiniti (un accordo internazionale riguardo a tali criteri sarebbe utile, per non introdurre trattamenti asimmetrici fra gli operatori di diversa nazionalità). Sarà la banca centrale a «entrare» nella banca e a stabilire quali e quanti siano gli asset tossici che questa detiene, così che ogni eventuale intervento di sostegno sia accompagnato da una certificazione che quelli su cui si è intervenuti (acquistandoli, coprendoli, garantendoli, ecc.) fossero tutti gli asset tossici di quella banca. Come minimo una banca che ottiene un intervento a suo favore non potrà in alcun modo essere aiutata a fronte dell’emersione di ulteriori toxic asset. Riguardo al secondo punto, come detto, i prezzi degli asset tossici scontano un’elevata volatilità ed è difficile, se non impossibile, prevedere se i loro valori siano destinati a crollare ulteriormente o, invece, a recuperare in tempi ragionevoli. Tali asset potrebbero, in principio, costituire un’opportunità interessante per un investitore istituzionale privato, magari con una particolare propensione al rischio e convinto che uno scenario catastrofico sia poco probabile. Tuttavia appare difficile, vista la situazione attuale dei mercati, del funding, e dati i volumi ipotizzabili per gli asset tossici in essere, che gli investitori privati da soli possano assorbire quote sufficienti di tali titoli. Inoltre, l’avvicinamento dei privati a tale tipologia di investimento, soprattutto in questo momento, passa per una severa tutela normativa (MiFid) che impone all’ente collocatore la massima disclosure sulla qualità del rischio sottostante. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i titoli tossici sono asset con collaterali managed, generalmente senza una piena disclosure contrattuale del loro contenuto. Sembra quindi impossibile poter arginare il problema senza che, almeno in parte, l’onere venga assunto dai governi, se non sottoforma di impiego immediato di risorse, almeno in ter-
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mini di impegni a copertura di eventuali ulteriori perdite. Rispetto all’ultimo punto, ogni eventuale iniziativa a fronte del problema dei titoli tossici rappresenterà un diverso modo di ripartire i relativi costi (già manifestatisi con le svalutazioni o comunque potenziali a fronte di possibili ulteriori svalutazioni) sui vari soggetti coinvolti: la banca in quanto azienda, gli azionisti, i creditori, i clienti, e lo Stato (i contribuenti, in ultima analisi). A titolo di esempio, l’ipotetico acquisto degli asset da parte del governo in contropartita di titoli pubblici è una modalità che trasferirebbe interamente il rischio di una futura volatilità dei titoli tossici sullo Stato. Nel caso di un intervento di ripatrimonializzazione della banca da parte dello Stato il rischio continuerebbe a gravare sull’azienda, quindi, in maniera più o meno diretta anche su azionisti, creditori e depositanti. Le coperture assicurative da parte dello Stato – che non impegnano, nell’immediato, il settore pubblico – possono proteggere differentemente i vari attori. Assicurando gli attivi (come nel caso del recente intervento inglese su Rbs), si determina un vantaggio per l’azienda, quindi, anche per gli azionisti; le forme di assicurazione del passivo proteggono più direttamente i depositanti/creditori e a scapito di una minore protezione dell’azienda dal rischio di default, poiché interverrebbero non per limitare l’impatto iniziale di eventuali perdite sugli asset tossici, ma solo quando queste hanno eventualmente condotto a problemi di solvibilità della banca. Il fattore comune è il tentativo di separare – in maniera effettivamente fisica oppure sintetica – la banca dalla sua componente tossica. Le soluzioni sintetiche, che lasciano gli asset tossici di fatto nei bilanci delle banche, salvo assicurarle da ulteriori svalutazioni, dovrebbero prevedere anche limiti alla gestione dei titoli da parte delle stesse banche, per le quali gli asset tossici individuati devono essere di fatto congelati. In ultima analisi la soluzione ottimale dipende dal peso degli asset tossici per la banca interessata, dalle sue generali condizioni di salute, dalla maggiore o minore solidità dell’intero sistema bancario del paese. Quanto più critica è la situazione della banca, e maggiore la sua esposizione relativa al rischio degli asset tossici, tanto più sarà necessario ricorrere a soluzioni in cui è massimo il coinvolgimento pubblico.
In un contesto come quello italiano dove il problema degli asset tossici ha una portata limitata e dove la solidità del sistema bancario è maggiore, annunciare interventi specifici sui titoli in questione potrebbe essere perfino controproducente e d’altro canto non si rinvengono motivi per un ingresso di fatto dello Stato nel capitale delle banche. Meglio allora, come è stato fatto, concedere opportunità di rafforzamento patrimoniale diverse dalla sottoscrizione di azioni, con la finalità di stimolare un funzionamento del sistema bancario non prociclico in termini di erogazioni creditizie. Laddove vi sia la prospettiva di future ingenti svalutazioni sugli asset tossici, appaiono più opportune le formule che incidono direttamente su tali titoli piuttosto che sulla solidità complessiva della banca. Quindi meglio opzioni come la badbank, le garanzie statali o gli swap di titoli, piuttosto che forme dirette di ripatrimonializzazione. D’altro canto se le perdite già accumulate sono particolarmente ingenti, e la banca è a rischio default, può essere necessario un intervento combinato: capitale per rafforzarla, e interventi specifici sugli asset tossici per tamponare eventuali ulteriori perdite. Si ricorda, a tal proposito, che lo schema di garanzia parziale sugli asset tossici attuato in Uk per Rbs è avvenuto quando la banca era già posseduta al 70% dallo Stato, e che nella stessa operazione tale partecipazione è stata portata all’80%.
Gli interventi del governo inglese
Il governo inglese ha recentemente approvato l’Asset Protection Scheme che garantirà gli asset tossici delle banche UK proteggendole da eventuali perdite future. Il piano prevede due tranche, la First Loss, completamente garantita dalla banca sottoscrittrice, e la Senior, di cui solo una parte è garantita dalla banca (la cosiddetta vertical slice), mentre il resto sarà rimborsato dal Tesoro. La First Loss, che corrisponde all’ammontare fisso in sterline, calcolato in riferimento al valore nominale al 31 dicembre 2008, degli asset coperti dal piano, grava per il 50% sul Tier 1 e per il restate 50% sul Tier 2. Attualmente l’attachment point (ossia il livello fino al quale le banche subiscono perdite dirette) varia per ognuna delle banche partecipanti al piano, ma i criteri di determinazione dello stesso sono i medesimi per ogni istituto di credito. Gli oneri da corrispondere in base al piano saranno pagati attraverso l’emissione di strumenti di capitale a favore del Tesoro, strutturati in modo da essere qualificabili come Core Tier 1. Ci si attende che il piano influenzerà la posizione di capitale delle banche attraverso: a un aumento del Core Tier 1 in seguito all’emissione degli strumenti; b una significativa riduzione delle RWA del portafoglio coperte dal piano; c la deduzione dalle risorse di capitale per la posizione First Loss, che non
può eccedere l’8% delle sottostanti RWA e, pertanto, limita al 50% di tale valore la deduzione dal Core Tier 1. Considerati complessivamente, gli elementi citati miglioreranno i ratio delle banche, anche se l’impatto effettivo sul capitale dipende dalla dimensione della deduzione della First Loss. Per quanto riguarda il portafoglio coperto, va rilevato che le perdite per un ammontare al massimo pari alla soglia della First Loss erodono il Core Tier 1, mentre per quelle eccedenti tale soglia solo le perdite relative alla quota garantita dalla banca (i.e. la vertical slice), riducono il Core Tier 1, le altre sono ampiamente coperte dal piano. Il piano punta a fornire una protezione contro le perdite su crediti relativi alle posizioni detenute nel banking book, mentre, per quanto riguarda gli asset del trading book, il Tesoro analizzerà le richieste caso per caso. Inoltre, lo schema previsto è applicabile a una singola entità all’interno di un gruppo bancario: ciò implica che, in caso di richieste provenienti da banche diverse ma facenti parte dello stesso gruppo, si dovranno trovare degli appropriati accordi infragruppo che consentano una distribuzione della protezione statale. Tra gli istituti in difficoltà, per il momento, solo RBS ha aderito all’Asset Protection Scheme. La banca ha chiesto la protezione dello Stato per £325bn di attivi (il 15% del proprio totale attivi), con £165bn di RWA (il 25% del totale delle RWA), impegnandosi a incrementare i prestiti del 4% annuo. L’attachment point è pari al 6%: RBS resterà esposta per potenziali £19,5bn di perdite; si prevede che l’attachment point verrà raggiunto in 2 anni, pertanto, solo allora, il Tesoro assorbirà il 90% delle perdite addizionali. Gli oneri a carico di RBS ammontano a £6,5bn, pari al 2% degli asset «protetti», valore ritenuto basso considerando che negli Stati Uniti si applica il 4%. Lo Stato sottoscriverà £25,5bn di non-voting equity (B shares), di cui £13bn immediatamente e £6bn su richiesta di RBS; la quota restante, pari agli oneri a carico della banca, verrà pagata attraverso l’emissione di nuove azioni. Le B shares prevedono un coupon del 7% e un rank pari passo con le ordinary shares in liquidation. L’impatto dell’intervento statale si sostanzia in un aumento della quota di RBS detenuta dal Tesoro (che salirà all’80% del capitale) e dell’Equity Tier 1 ratio (che crescerà di 570bps, superando il 12%), mentre nello stress test (900bps di cumulative impairment charges in 3 anni) il Tier 1 sarà pari al 10%.
Gli interventi del governo statunitense
Il Capital Assistance Program (CAP) statunitense, invece, prevede che potranno richiedere fondi allo Stato quelle banche che abbiano attivi su base consolidata inferiori a $100bn. Il piano stabilisce che i fondi saranno concessi attraverso la sottoscrizione di azioni privilegiate, convertibili in azioni comuni, su richiesta dell’emittente e previa autorizzazione delle autorità di vigilanza competenti, con uno sconto del 10% rispetto al valore prevalente prima del 9 febbraio; tali azioni comportano un rendimento del 9% e, a 7 anni dall’emissione, saranno convertite automaticamente in azioni ordinarie, se non rimborsate o convertite prima di tale data. Tali strumenti sono stati messi a punto al fine di incentivare le banche a sostituire i fondi governativi con fondi privati, o a rimborsare lo Stato non appena le condizioni di mercato lo consentiranno. Con l’approvazione dei supervisori, le banche potranno ottenere i fondi previsti dal CAP in aggiunta alle esistenti azioni privilegiate CPP, oppure, potranno convertire le preesistenti azioni CPP nei nuovi strumenti CAP. Al fine di ottenere i fondi, le banche richiedenti dovranno sottoscrivere un piano che evidenzi in che modo esse intendono utilizzare tali fondi al fine di preservare e rafforzare la loro attività di erogazione dei prestiti; il Tesoro renderà pubblici tali piani, in modo che i contribuenti potranno monitorare le performance delle banche. Infine, le istituzioni che riceveranno i fondi, dovranno applicare delle restrizioni sui dividendi trimestrali, sul riacquisto delle azioni, sulle nuove acquisizioni e sui compensi del management.
7 CONTRIBUTI
Ribadito che la soluzione ottimale per la gestione dei titoli tossici dipende dallo specifico contesto aziendale e nazionale, riteniamo che quella della bad bank, applicata là dove il fenomeno dei toxic asset presenti dimensioni e pericolosità particolarmente significative, consenta non solo di isolare le singole banche dall’elevata incertezza che ancora grava su quegli attivi, ma anche di certificare in maniera affidabile l’estensione del problema stesso rendendolo noto al mercato, condizione primaria per riportare la fiducia, la cui mancanza, come detto, è il propellente principale della crisi, fra gli operatori. Ciò purché, a prescindere dalla specifica alternativa tecnica adottata, siano verificate alcune condizioni necessarie: in particolare che l’identificazione degli asset problematici avvenga con criteri uniformi e predeterminati da parte di istituzioni sovranazionali e che la gestione di questi titoli sia sottratta alla banca che li ha accumulati alla quale banca, ovviamente, deve essere preclusa ogni possibilità per tornare a inquinare i propri attivi. Meccanismi che mantengano gli azionisti – e il management – parzialmente esposti all’incertezza che ancora grava sui titoli tossici costituirebbero, oltreché un disincentivo economico a persistere con comportamenti indesiderabili, un fattore di maggiore accettabilità sociale del provvedimento stesso.
4 Le criticità della normativa sulla
patrimonializzazione delle banche a fronte dei rischi Quanto precede mette in luce come la reale dimensione e qualità degli attivi sia un tema altrettanto rilevante rispetto a quello della solidità del passivo (ratio patrimoniali), e che i due aspetti non possano essere valutati e gestiti indipendentemente l’uno dall’altro. La normativa e la vigilanza si sono dimostrate in ritardo rispetto a questo tema. È stato osservato che Basilea 2 è entrata sulla scena quando la crisi aveva già incominciato a manifestarsi. Ciò è formalmente corretto, tuttavia occorre fare due considerazioni aggiuntive. Innanzitutto, a livello gestionale le maggiori banche avevano già da tempo indirizzato i propri modelli verso quelli interni previsti dal nuovo Accordo, quindi la «filosofia» di Basilea 2
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stava già progressivamente permeando il loro modus operandi. Inoltre, la domanda che dobbiamo porci in realtà è la seguente: con Basilea 2 pienamente in vigore la crisi sarebbe stata, se non evitata, almeno non così severa? Sulla base delle analisi che esporremo di seguito la risposta sembra poter essere sostanzialmente negativa: le criticità di Basilea 2 sono tali a prescindere dalla crisi in atto – semmai quest’ultima ha contribuito a metterle in evidenza – e devono essere affrontate perché la normativa sulla capitalizzazione delle banche possa contribuire a farci uscire dalla situazione in essere e, possibilmente, a limitare le probabilità che essa si possa ripetere in futuro. Un primo elemento da evidenziare è che il nuovo Accordo, pure più evoluto rispetto a Basilea 1, non coglie allo stesso modo tutti i rischi e di alcuni ne relega in toto la valutazione nell’ambito del secondo pilastro. Il riferimento immediato è al tema del rischio di liquidità a fronte del quale non sono previsti precisi meccanismi di calcolo degli assorbimenti. Rischio di liquidità che si è manifestato in maniera drammatica non solo dal lato del passivo – in termini di incapacità di reperire sufficienti risorse fresche – ma anche, e in questa crisi in modo particolare, dal lato dell’attivo, sotto forma di illiquidità degli asset (fino alla vera propria scomparsa di alcuni mercati). In condizioni normali la tripla A di un corporate bond è più rassicurante di un governativo singola A, ma in uno scenario fortemente stressato, la liquidità del titolo statale fa premio. I rating non tengono conto di ciò. L’approccio sottostante al nuovo Accordo, in particolare per i modelli interni avanzati, è, inoltre, basato su modelli quantitativi che rischiano di sottovalutare gli eventi di rischio improbabili ma possibili. Il VaR, ad esempio, ha questo limite, su cui anche l’analisi teorica si è più volte soffermata proponendo alternative o integrazioni. Esso identifica una soglia ma non coglie le differenze per ciò che accade oltre tale soglia. Due banche con lo stesso VaR di portafoglio potrebbero avere differenti distribuzioni di probabilità per le perdite oltre il VaR stesso, quell’area che, per l’appunto, entra in gioco quando si manifestano gli eventi estremi. Gli stessi modelli, all’atto della loro implementazione pratica, dipendono da stime basate prevalentemente su dati passati, quindi necessariamente in difficoltà nell’anticipare eventi eccezionali.
Le banche in genere hanno una quota di rischio di credito ben maggiore di quella del rischio di mercato, ma il rischio finanziario si manifesta con maggiore rapidità e volatilità e, in una situazione a elevata leva, fa molti più danni, e in meno tempo, del rischio di credito. Inoltre, il rischio di credito cosiddetto ordinario si presenta per lo più assai diversificato, soprattutto se in riferimento al comparto retail e small business. Un portafoglio finanziario, in specie se sbilanciato verso posizioni in private placement, soffre di forti rischi di concentrazione, potenzialmente molto pericolosi per la velocità dei loro effetti sul conto economico. Infine, la maggiore volatilità strutturale dei fenomeni finanziari rispetto a quelli creditizi può fare sì che i relativi modelli di stima delle perdite possibili siano intrinsecamente meno affidabili, non per una loro errata costruzione formale, ma proprio perché finalizzati a catturare fenomeni naturalmente meno stabili. In sintesi: anche per una banca commerciale l’attenzione alla gestione dei rischi di mercato, sugli attivi finanziari, deve essere massima, a prescindere dall’eventuale contenuta esposizione nominale o dal limitato peso sugli Rwa. Quanto ai rischi di credito, è utile aggiungere che essi sono connaturati alla stessa ragione di essere di una banca commerciale. La loro gestione, se correttamente assunti, gode, anche nella fase patologica, del governo ordinato del fattore tempo, fattore che, per quanto riguarda gli asset finanziari, nel regime del mark to market, assume valenze procicliche che si sono rivelate devastanti. In sintesi l’architettura di Basilea 2 sembra in qualche modo aver sottostimato, in via generale, il peso effettivo del rischio degli attivi finanziari, soprattutto se ci riferiamo ai nuovi strumenti, forse divenuti troppo complessi già prima che la nuova normativa – sviluppatasi nell’arco di diversi anni – divenisse operativa: l’evoluzione della regolamentazione si è rivelata in ritardo rispetto alle accelerazioni nella capacità di innovazione che gli operatori sono stati in grado si esprimere.
5 Requisiti di capitale: principali proposte di modifica a Basilea 2 In seguito all’aggravarsi della crisi finanziaria mondiale, da più
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parti sono state avanzate proposte di diverso computo dei requisiti minimi di capitale previsti da Basilea 2. Il primo a prospettare delle modifiche in tal senso è stato il Financial Stability Forum del 7 aprile 2008. Nel report messo a punto («Enhancing Market and Istitutional Resilience»), il Fsf ha sottolineato l’esigenza di una tempestiva implementazione della struttura prevista da Basilea 2; in particolare: a è stata segnalata la necessità di incrementare i requisiti minimi di capitale per quanto riguarda alcune tipologie complesse di strumenti di credito strutturati (come i Cdo di Abs) in quanto, proprio per la loro complessità, spesso portano a sottostimare i rischi connessi e a detenere livelli di capitale inadeguati per fronteggiarli; b è stato proposto l’inserimento di requisiti di capitale addizionali per le esposizioni nel trading book, i quali, consentendo di cogliere il rischio di default anche di questo portafoglio (e non solo del banking book come previsto da Basilea 2), permetterebbero di coprire al meglio il rischio di perdite sui prodotti strutturati; c è stato chiesto di aumentare il capitale connesso ai veicoli fuori bilancio, spesso usati nell’ambito dei crediti strutturati (Basilea 2, infatti, tratta tali veicoli come esposizioni senior, prevedendo per essi dei ridotti requisiti patrimoniali). Accogliendo in pieno tali raccomandazioni, il 16 gennaio 2009, il Comitato di Basilea ha pubblicato un pacchetto di documenti contenenti indicazioni tese a rafforzare il sistema di regolamentazione. Per quanto riguarda l’attività di negoziazione, il Comitato ha proposto di integrare l’attuale struttura di determinazione del rischio basata sul VaR, con un incremento dell’assorbimento di capitale (Irc, incremental risk capital charge), includendo, per gli strumenti di credito non cartolarizzati, sia il rischio di default che quello di migrazione; per i prodotti cartolarizzati si applicheranno i criteri previsti per il banking book. Una volta implementato, l’Irc ridurrà gli incentivi ad arbitraggi regolamentari tra banking e trading book. Inoltre si è pensato di ridurre la prociclicità di Basilea 2 calcolando un VaR, addizionale rispetto a quello ottenuto sulla base dell’ultimo anno di osservazioni, che tenga conto di un periodo di osservazione di un anno relativo a perdite significative. Infine, il Comitato
ha proposto di sospendere il requisito preferenziale del 4%, attualmente applicabile a portafogli che siano contemporaneamente liquidi e ben diversificati, a favore dell’utilizzo, in tutti i casi, del requisito dell’8%. L’implementazione di tali proposte dovrà avvenire non oltre il 31 dicembre 2010. In relazione a particolari operazioni di cartolarizzazione (come i Cdo di Abs) e ai veicoli fuori bilancio, il Comitato ha proposto l’incremento dei requisiti patrimoniali; in particolare, per ciò che concerne le Abcp conduit, è prevista l’eliminazione della distinzione tra facilities a breve e lungo termine, al fine di ridurre, anche in questo caso, gli incentivi regolamentari all’arbitraggio. Tali modifiche del Pillar 1 saranno effettive da fine 2009. Sempre nel mese di gennaio, il Gruppo dei Trenta, in una delle raccomandazioni contenute nel documento «Financial Reform, A Framework for Stability», propone di elevare gli standard di capitale e di renderli più pratici e meno prociclici esprimendoli in termini di ampi range operativi, piuttosto che come stime di valore minimo; in tal modo, si incentiverebbe l’accumulo di capitale nei periodi espansivi, scoraggiando politiche dei dividendi e buy-back aggressivi, consentendone delle riduzioni nei periodi di stress; inoltre, si sottolinea l’importanza che tali modifiche dovrebbero avere nel raggiungere elevati livelli di trasparenza. Il 21 gennaio 2009, anche il Fsa ha espresso la sua posizione in tema di requisiti patrimoniali. Va sottolineato che, pur allineandosi con le modifiche previste dal Comitato di Basilea, il Fsa si spinge oltre proponendo di regolamentare la liquidità mediante analisi di scenario stress-test, in modo da cogliere tempestivamente gli emergenti rischi di liquidità di singole istituzioni e di tutto il settore economico. Agli inizi di dicembre 2008, infine, la Swiss Federal Banking Commission (Sfbc) ha raggiunto un accordo con i principali gruppi bancari elvetici (Credit Swiss e Ubs), che prevede l’innalzamento dei requisiti patrimoniali e l’introduzione di un leverage ratio (che indica il rapporto tra il core capital e il totale attivo). Secondo le nuove disposizioni, entro il 2013, i mezzi propri ponderati per il rischio dovranno essere dal 50 al 100% superiori a quanto previsto da Basilea 2 (8%); tale spazio di manovra si è reso necessario al fi-
ne di favorire l’influenza stabilizzatrice e l’effetto anticiclico delle suddette misure. Invece, il leverage ratio, che è un parametro nominale non pesato per il rischio, dovrà essere almeno del 3% a livello di gruppo e del 4% per i singoli istituti. La letteratura recente sui modelli alternativi
Sull’onda della crisi finanziaria e delle criticità evidenziate degli attuali metodi di regolamentazione del capitale bancario, si sono susseguite molte proposte di riforma e tentativi di introdurre schemi alternativi di calcolo dei ratio patrimoniali o di modello di gestione dei ratios. In seguito riportiamo due tra le più interessanti: l’assicurazione sulla leva e l’introduzione di modelli anticiclici. In ultimo abbiamo analizzato il modello riproposto dalla Swiss Federal Banking Commission con un limite alla leva di Tier1/Totale attivo. Va sottolineato in premessa che il prerequisito necessario indispensabile, al fine di rendere efficace qualsivoglia metodo alternativo/integrativo, è costituito dalla necessità di eliminare la presenza di elementi off-balance sheet introdotti dal 1998 Bis. a Assicurare il capitale. Recentemente Kashyap, Rajan e Stein (Rethinking Capital Regulations) hanno lanciato l’idea di permettere alle banche di assumere posizioni a leva e quindi scegliere in alternativa tra lanciare aumenti di capitale o comprare polizze assicurative che possano in qualche modo assicurare l’apporto di capitale in caso di necessità. In casi quindi per esempio di perdite da mark to market che possano in qualche modo intaccare il patrimonio, una banca potrebbe ricorrere a una polizza di protezione che eviterebbe così un accesso diretto al mercato. Il limite della proposta è insito nel fatto che in situazioni come quella attuale, in cui si è di fronte a un rischio sistemico, le risorse delle stesse assicurazioni potrebbero essere completamente esaurite dalle necessità del sistema. b Estendere il metodo spagnolo delle coperture dinamiche. La Banca di Spagna ha obbligato negli ultimi anni le banche locali a un approccio molto prudenziale sulle coperture delle sofferenze. In pratica per ogni credito elargito dalle banche le stesse erano obbligate a costruire una riserva generica statistica a bilancio a prescindere dalla qualità dello stesso. Le banche spagnole si sono così trovate a costruire negli anni di boom economico (20042007) uno stock di coperture generiche che rappresentava anche il 300% in alcuni casi (Banco Popular, Bankinter) delle sofferenze. Tale meccanismo, esteso anche alle banche d’investimento e alle banche commerciali, potrebbe generare una significativa riserva di valore anticiclica e potrebbe così rappresentare un importante cuscinetto per il capitale. Il limite di tale tipo di proposta è che tale metodologia, se importante per le banche retail e più prettamente commerciali, potrebbe non rappresentare di fatto una soluzione nel caso delle banche d’investimento, in quanto la leva finanziaria è prevalentemente costituita da attivi finanziari più che da crediti, anche se un limite quantitativo alla leva, e l’imposizione di una copertura generica sul potenziale deprezzamento degli attivi finanziari, potrebbero costituire un significativo argine alla moltiplicazione dei rischi, e una riserva significativa in periodi di bear market. c Valorizzare l’informatività dei differenti ratio patrimoniali. In uno studio del 2000 Estrella, Park e Peristiani «Capital ratios as Predictors of Bank failure» avevano analizzato tre indicatori di capitale come Il T1/RWA, il T1/Ta e Gross Revenues ratios/Tier1. Per ogni ratio hanno studiato il potere segnaletico nei confronti dei falli-
11 CONTRIBUTI
menti bancari. Come era lecito aspettarsi il ratio più sofisticato T1/RWA si è rivelato il più adatto a predire fallimenti bancari nel lungo periodo. Tuttavia hanno riscontrato, e questo è senza dubbio il risultato più significativo, che nel breve periodo (2 anni), in alcuni casi, i ratio più semplici e diretti: T1/Ta e Gross Revenues ratios/Tier1 sono altrettanto informativi, e addirittura migliori, in termine di segnale informativo. Sicuramente il vantaggio che hanno questi ratio semplici e diretti è che sono gratis, trasparenti e facilmente comprensibili e quindi hanno un potere segnaletico molto rilevante (fatto salvo quanto detto a proposito del potenziale distorsivo della presenza di elementi fuori bilancio). Questo risultato suggerisce che l’informazione contenuta in questi ratio potrebbe essere preziosa per i regolatori.
Le banche che presentano un elevato Tier 1 ratio come Dexia, Deutsche Bank, Credit Suisse, Ubs, Barcalys presentano livelli di Tier 1 su totale attivo tra i minori mentre l’opposto si verifica per banche come Ubi o IntesaSanPaolo (grafico 2). La ragione principale alla base di questa macroscopica differenza deriva dal rapporto tra RWA/Totale attivo. Nei casi di banche a carattere prettamente commerciale come nel caso delle banche italiane e spagnole il rapporto oscilla tra il 50 e il 90%. Nei casi delle banche tedesche, inglesi, svizzere e francesi, con attivi prevalentemente concentrati su attivi finanziari, il rapporto è decisamente inferiore al 50% per arri-
6 Il rapporto di leva vs. i ratio patrimoniali di
vigilanza: un approfondimento
Grafico 2
Tier 1/Rwa e T1/Ta
Da parte nostra abbiamo analizzato i bilanci delle principali banche europee per capire se il rapporto T1/Totale attivo poteva essere un buon indicatore di rischio; abbiamo indagato la presenza di correlazione tra la leva (T1/Ta) utilizzata dalle banche europee e le rettifiche su asset tossici riscontrando un R2 molto significativo. Nei primi nove mesi del 2008 le maggiori 30 banche europee quotate presentavano un Tier 1 medio dell’8,5% e un rapporto di Tier 1/Totale attivo del 3,7%. Abbiamo provato a verificare se ci fosse una qualche correlazione tra i due ratios e abbiamo scoperto che la correlazione è bassissima con un R2 di 0,08 (grafico 1).
12% 10% 8% 6% 4% 2% 0%
FONTE: ELABORAZIONI SU DATI BILANCIO
Grafico 3
Rwa/Totale attivo
Grafico 1
Correlazione tra Tier 1 e Tier 1/Totale attivo 90% 80% 8,0%
R² = 0,081
7,0%
60%
6,0%
Tier1/Totale attivo
70%
50%
5,0%
40%
4,0%
30%
3,0%
20%
2,0%
10%
1,0%
0%
0,0% 0,00%
5,00%
10,00%
FONTE: ELABORAZIONI SU DATI BILANCIO
12 CONTRIBUTI BANCARIA n. 4/2009
15,00%
20,00%
FONTE: ELABORAZIONI SU DATI BILANCIO
1 Fonte: Bilanci società, Jpm.
14 CONTRIBUTI BANCARIA n. 4/2009
Grafico 4
Svalutazioni asset tossici milioni di euro 3Q07-3Q08 50.000 45.000 40.000 35.000 30.000 25.000 20.000 15.000 10.000 5.000 0
Grafico 5
Svalutazioni (3Q07-3Q08) % attivi 2,5% 2,0% 1,5% 1,0%
0,5% 0,0%
t s s S le nk xia ale ING aolo edi lay RB iba rico r Ba De er p rc en an niC he Ba Ag S c G t s U i a te ut BN red es cie De Int C So P
r Pa
S o is se UB atix Hyp Suis N it d e Cr
Grafico 6
Correlazione rettifiche e leva finanziaria R² = 0,663 2,5% 2,0%
Svalut. Asset Tossici/TA
vare in alcuni casi (Deutsche Bank, Ubs) a essere inferiore al 16% (grafico 3). In totale le banche europee considerate nel nostro campione hanno riportato nel periodo considerato 136 miliardi di euro di svalutazioni su asset tossici1. In percentuale degli attivi le perdite più considerevoli sono state quelle di Ubs e Dexia pari a un valore maggiore del 2% degli attivi (grafico 4 e grafico 5). Un chiaro esempio di incapacità da parte delle attuali metriche di capitale di essere in grado di catturare i potenziali rischi sono evidenti dai numeri (2008) di uno dei principali operatori finanziari europei, per il quale, a fronte di un 90% degli RWA relativo ai rischi di credito, il 98% delle perdite è poi derivato dal rischio di mercato (asset tossici). È chiara la mancanza di credibilità degli Rwa nel riflettere i veri rischi di mercato. Abbiamo allora provato a cercare una qualche correlazione tra il differenziale tra i due ratio (T1/Rwa-T1/Ta) e l’ammontare delle perdite riportate su titoli tossici dal 3Q07 al 3Q08. La correlazione risulta alta con un R2 di 0,66 (grafico 6). Nell’ultima fase della nostra analisi abbiamo analizzato quale sarebbe stato il deficit/eccesso di capitale delle banche che hanno riportato svalutazioni di asset tossici in due casi (2,5%, –3% T1/Ta). In 11 casi su 14 le banche considerate avrebbero dovuto o diminuire gli attivi in bilancio o procedere ad aumenti di capitale. Nel caso le banche avessero deciso di procedere ad aumenti di capitale perlomeno pari al limite del 3% T1/Ta in 11 casi su 14 più del 60% delle perdite da svalutazioni di asset tossici sarebbero state ammortizzate da investitori istituzionali o dal mercato prima di richiedere l’intervento dei governi (tavola 7). Molti sono stati i commenti autorevoli che hanno puntato il dito contro l’eccessivo leverage raggiunto dalle banche alla base della crisi attuale. In particolare il Governatore della Banca d’Italia e Presidente del Financial Stability Forum, Mario Draghi ha commentato: «La nostra convinzione è che le istituzioni finanziarie abbiano accumulato un livello di leverage eccessivo e non correttamente riconosciuto». Il Governatore della Banca Centrale Canadese ha sostenuto come le banche canadesi abbiano meglio affrontato la crisi grazie a un livello di leva finanziaria inferiore a quella dei competitors
-14,0%
1,5% 1,0% 0,5% 0,0% -12,0%
-10,0%
-8,0%
-6,0%
-4,0%
Capital gap (T1/Ta -T1/Rwa) FONTE: ELABORAZIONI SU DATI BILANCIO, GS, ML
-2,0% 0,0% -0,5% -1,0%
2,0%
Tavola 7
Analisi di sensitività BNP Paribas Crédit Agricole Société Générale ING Intesa Sanpaolo UniCredit Barclays RBS Deutsche Bank Dexia UBS Natixis Hypo Credit Suisse
Rettifiche (lorde)/ asset tossici
Tier I Ratio
T1/TA
GAP
Perdite/TA
3.178 10.035 6.039 7.240 600 1.500 8.681 8.975 11.941 14.510 46.325 4.604 2.500 9.999
7,59% 8,30% 8,50% 8,51% 6,90% 6,46% 9,70% 7,90% 10,10% 14,48% 10,80% 8,60% 9,58% 10,44%
2,2% 3,4% 2,7% 2,0% 4,3% 3,4% 2,0% 2,3% 1,4% 2,9% 1,8% 2,6% 2,4% 2,3%
-5,4% -4,9% -5,8% -6,5% -2,6% -3,1% -7,7% -5,6% -8,7% -11,5% -9,0% -6,0% -7,2% -8,1%
0,17% 0,69% 0,56% 0,53% 0,09% 0,14% 0,37% 0,43% 0,54% 2,28% 2,32% 0,87% 0,64% 0,72%
Eccesso/Deficit capitale 2,5% 3,0%
-5430 13262 2019 -6344 11630 8966 -10723 -3215 -23950 2819 -14014 575 -586 -2670
-14516 5938 -3361 -13224 8460 3702 -22527 -13724 -34960 -366 -23998 -2070 -2548 -9638
Capitale con limite T1/TA avrebbe coperto/limitato al 60% perdite?
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FONTE: ELABORAZIONI SU DATI BILANCIO, GS, ML
internazionali. Per ultimo il Vice Presidente della Swiss National Bank ha sostenuto come l’eccessivo leverage sia la causa principale che ha reso le banche svizzere più fragili nell’affrontare la crisi e per questo ha imposto un limite di leva finanziaria pari al 3% per Credit Suisse e Ubs. Alla luce della nostra analisi, attraverso lo studio dei bilanci delle banche europee, ci siamo posti il problema di verificare se ci fosse o meno una correlazione tra la leva finanziaria (attivo/capitale) e le rettifiche sugli asset tossici apportate dalle stesse banche. I risultati sopra evidenziati dimostrano la presenza di una chiara correlazione. L’analisi effettuata evidenzia come vi sia una correlazione fra la differenza tra i rapporti T1/Ta e T1/Rwa e le rettifiche sugli asset tossici in rapporto al totale attivo. In altri termini, le società che più hanno sofferto per la svalutazione degli asset tossici erano anche quelle a presentare un rapporto T1/Ta ben più contenuto del coefficiente di patrimonializzazione di vigilanza (T1/Rwa), evidenziando, quindi, un elevato ricorso alla leva finanziaria per sostenere la crescita dei propri attivi, evidentemente investiti con percentuali significative verso asset finanziari a basso assorbimento specifico. Ciò a dire che, sino ad oggi, chi ha gestito sia attivi finanziari che attivi creditizi ha subito i colpi più duri, oltre ad aver determinato, unitamente ad altri fattori causali, una crisi economica che rischia di deteriorare anche gli attivi più squisitamente commerciali.
Si è sottolineato come l’introduzione di un rapporto di capitale basato su un limite alla leva finanziaria parallelo a quello più avanzato e sofisticato (T1/Rwa) potrebbe di fatto essere estremamente utile non solo per il potere segnaletico come già verificato da studi al riguardo (Estrella, Park, Peristiani). Abbiamo infatti verificato come l’ammontare delle perdite realizzate dalle 30 maggiori banche europee quotate, pari a 130 miliardi di euro, corrisponda all’ammontare del capital deficit delle stesse nel caso le autorità di vigilanza avessero posto un limite di T1/Totale attivo pari almeno al 3%. Uno dei vantaggi più evidenti dell’introduzione di tali parametri binari (T1/Rwa e T1/TA) è sicuramente il fatto che il rapporto T1/Totale attivo è semplice, trasparente e a basso costo contabile. Un altro indiscusso vantaggio è che questo rapporto può essere introdotto senza particolari difficoltà contabili o di sistema dalle attuali banche europee. Tra gli svantaggi che vediamo c’è sicuramente il fatto che tale imposizione potrebbe incoraggiare le banche ad aumentare gli asset off-balance sheet e quindi sarebbe necessario vietare qualsiasi operazione fuori bilancio. Altra questione è sicuramente legata alla congiuntura odierna. In una situazione come quella attuale l’introduzione di tale limite potrebbe portare le banche a ridurre gli attivi causando un’ulteriore riduzione del valore degli asset e una possibile flessione del credito. Un ulteriore elemento da sottolineare è la struttura stessa del sistema bancario nei paesi in cui la leva finanziaria è alta
15 CONTRIBUTI
come quello francese e tedesco. Le banche tedesche e francesi hanno (dati primo semestre 2008 ABI) un ritorno sugli attivi dello 0,1 e 0,2%, rispettivamente, in confronto allo 0,7% delle banche italiane prevalentemente dovuto allo scarso ritorno (Margine interesse/attivi che è un terzo rispetto al valore medio delle banche italiane uguale all’1,9%). Il punto è che le banche tedesche e francesi fanno utili sui volumi più che sui margini. Imporre in misura drastica un delevereging rappresenterebbe per loro rimodellare la struttura del loro business model bancario. Questo ultimo punto ci porta a sottolineare come sia illusorio poter uscire dalla crisi mantenendo le medesime sembianze che si avevano prima che la crisi iniziasse, pertanto detti modelli di business dovranno cambiare. Il dato del ritorno sugli attivi risponde meglio di qual si voglia analisi alle polemiche di chi ha criticato le banche italiane perché «guadagnavano troppo con i clienti», senza rendersi conto, al netto dei necessari sforzi di trasparenza non ancora del tutto compiuti, e al netto di una necessaria maggiore efficienza non del tutto raggiunta, di aver corso il rischio di spingere il sistema verso un modello industriale che di fatto è miseramente crollato. Occorre inoltre tenere conto di come i soggetti regolamentati potrebbero reagire a una tale norma. Una possibilità è che essi potrebbero essere incentivati a incrementare l’esposizione relativa agli asset a maggiore assorbimento. Una banca B2 compliant che tuttavia avesse un rapporto T1/Ta inferiore a quanto richiesto avrebbe due principali strategie (o mix di esse): aumentare il capitale (T1) oppure ridurre gli attivi totali. Sia che essa incrementi il capitale – posto che il mercato consenta tale operazione – sia che riduca il volume degli attivi, in costanza della loro composizione, la banca vedrà il suo rapporto T1/Rwa diminuire, creando spazio per un aumento degli attivi ponderati per il rischio. Nell’ipotesi che la banca voglia sfruttare questa opportunità di incremento degli Rwa, essa dovrà farlo senza aumentare il Ta (altrimenti tornerebbe a violare il vincolo di leva) e la conclusione logica è, quindi, che tenderà a modificare la composizione dell’attivo verso asset a maggiore ponderazione. Ciò non significa necessariamente che ci si sposterebbe verso attivi relativamente più rischiosi: alle condizioni attuali «ri-
comporre» verso attivi a maggiore ponderazione potrebbe anche significare favorire gli impieghi, piuttosto che gli strumenti finanziari. Tuttavia, nel momento in cui andassimo a ricalibrare il sistema, incrementando la ponderazione relativa degli asset finanziari – una prospettiva che vediamo come assai opportuna e a favore della quale già più voci autorevoli si sono espresse – il meccanismo perverso precedentemente individuato potrebbe effettivamente spingere proprio verso portafogli più carichi – in termini di incidenza percentuale, non necessariamente in valore assoluto – di asset finanziari e proprio di quelli più rischiosi. In estrema sintesi, abbiamo visto come entrambi gli approcci – quello dei ratio ponderati per il rischio e quello del rapporto di leva finanziaria – presentino pro e contro e riteniamo che la semplicità, la trasparenza e l’immediatezza del limite T1/Ta accompagnato dal più moderno e attuale limite del T1/Rwa sia il punto di incontro più efficace. In particolare l’uso combinato dei due sopperisce alla semplicità del primo e all’eccessivo spazio di manovra offerto dal secondo metodo. In effetti le due tipologie di indicatori rispondono a domande complementari ma differenti. Il rapporto fra capitale e totale attivo fotografa quale sarebbe – ad oggi e quindi non sorprendentemente con un qualche potere segnaletico nell’orizzonte di breve termine – la percentuale massima di svalutazione degli attivi che potrebbe essere assorbita, appunto, dal capitale. I coefficienti di vigilanza, che fanno riferimento agli Rwa, rispondono, invece, a una logica prospettica: valutare la copertura delle perdite future, pertanto probabilistiche e quindi necessariamente da valutare secondo un dato livello di confidenza (visto che la massima perdita possibile non condizionata è, per definizione, il 100%). Riconoscere come appropriato che l’attività di vigilanza abbia il suo fondamentale riferimento in un approccio prospettico che tiene conto della differente rischiosità delle varie poste dell’attivo è comunque cosa ben diversa da affermare che le attuali metriche di rischio siano efficaci e affidabili, e non significa disconoscere che i livelli di leva siano importanti segnali che sia il mercato sia le autorità di vigilanza potrebbero e dovrebbero tenere in maggiore considerazione.
17 CONTRIBUTI
In ogni caso, quali che siano gli indicatori utilizzati per monitorare la solidità degli intermediari finanziari – come detto, meglio che siano più di uno – sarebbe opportuno che i diversi regolatori pervenissero anche a un quadro condiviso sulla loro precisa composizione, onde allineare le definizioni di elementi chiave, come ad esempio il Core Eequity piuttosto che il Tangible Capital Equity.
7 Conclusioni Vorremmo chiudere queste brevi considerazioni facendo riferimento ad alcune parole chiave attorno alle quali dovrebbero svilupparsi le principali linee di intervento rispetto alle molteplici criticità del mondo finanziario che sono state evidenziate. Si tratta di aspetti che non si esauriscono nei temi tecnici e quantitativi che pure abbiamo fino ad ora analizzato, ma si aprono necessariamente anche a valutazioni di ordine etico, ché altrimenti si offrirebbe una visione solo parziale delle questioni in gioco, carente proprio nella parte più legata alle cause profonde della genesi di questa crisi. Riguardo agli elementi a carattere maggiormente tecnico vogliamo sottolineare i seguenti. Bilanci. Senza informazione né il mercato, né la regolamentazione, né le autorità possono essere efficaci nel disciplinare il comportamento degli intermediari finanziari. Il bilancio, pur con le sue limitazioni, rimane la principale fonte di informazione verso l’esterno. L’espressione fuori bilancio è un non senso, una contraddizione in termini. Non possono più essere consentite né tollerate entità (che siano veicoli piuttosto che strumenti) che sfuggano a una regolare accountability, anche se ciò dovesse significare rivedere principi e norme contabili. Mercati regolamentati. Possiamo disincentivare il ricorso alle transazioni Otc e ai private placement incominciando dal sostenere – per gli strumenti finanziari fondamentali, inclusi gli swap e i derivati – lo sviluppo di mercati regolamentati, trasparenti e dotati di servizi di clearing e, là dove necessario, di gestione delle emarginazioni, a tutela del rischio di controparte. Rischio sistemico. Le banche centrali non hanno colto come e in che misura le decisioni di investimento finanziario dei sin-
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goli operatori – pure magari individualmente razionali – stavano determinando una crescente potenziale criticità sistemica. Occorre ragionare su strumenti che consentano alle autorità di vigilanza di comprendere quali siano – a livello aggregato – le dinamiche dei rischi sistemici impliciti nell’insieme dei portafogli finanziari degli intermediari. Ed è importante farlo non solo a livello di singolo paese ma anche in una dimensione sovranazionale, allineata a quella dei mercati globalizzati. Rischi e capitale. A poco vale sviluppare sofisticate metodologie di misurazione di alcuni rischi se poi si pone in secondo piano il monitoraggio di altri rischi. La valutazione della patrimonializzazione degli intermediari finanziari deve tenere conto fin da subito di tutti rischi, anche ricorrendo a metodi poco sofisticati, magari tarati in senso prudenziale specie per gli attivi finanziari complessi, se non è possibile farlo con strumenti evoluti. Nell’ottica di Basilea 2 si tratterebbe di valutare l’ampliamento del perimetro di competenza del primo pilastro ferma restando la necessità dei processi previsti dal secondo pilastro. Inoltre, un lungo periodo di sostanzialmente stabile crescita ci ha disabituato a prendere nella giusta considerazione l’imprevedibilità del futuro, che per definizione non può essere efficacemente catturata dai modelli previsivi, per quanto complessi. L’improbabile non è l’impossibile: il costante utilizzo di analisi di stress – a prescindere dal contesto congiunturale – è indispensabile per avere una più completa valutazione dell’esposizione ai rischi da parte degli intermediari. Total asset. In tema di valutazione della solidità rispetto ai rischi il riferimento agli Rwa è necessario. D’altro canto i ratio di vigilanza non sono esaustivi. Quando una bufera si avvicina – o, peggio, è già arrivata – un rapporto come quello fra capitale e totale attivo fotografa la capacità aziendale di resistenza alle perdite a prescindere da dove quelle perdite possono arrivare. Non è un caso che recentemente si stanno riscoprendo metriche tipo il Tce (Tangible Capital Equity) ratio. Un qualche indicatore del livello di leva degli intermediari finanziari deve essere trattato come essenziale elemento segnaletico non solo da parte dei mercati ma anche dalle autorità. Asset tossici. È urgente che la portata del fenomeno degli as-
set tossici venga definitivamente alla luce, possibilmente secondo criteri uniformi definiti dalle autorità. Si potrà così avere una piena valutazione della solidità degli intermediari, potendone valutare non solo i coefficienti patrimoniali, ma anche l’effettiva qualità dei loro attivi. Ciò a prescindere dal se e dal come eventualmente si vorrà decidere di intervenire su di essi, che non può non dipendere dalla gravità dell’«infezione» a livello di singolo sistema paese e di singolo intermediario. Convergenza internazionale. Che si tratti di definire quali ratio monitorare e quale debba essere la loro composizione, piuttosto che rivedere la normativa sull’adeguatezza patrimoniale delle banche o quella sui principi contabili, piuttosto che stabilire linee guida per affrontare il tema degli asset tossici, la velocità di diffusione della crisi in atto e la sua estensione finale, assolutamente globale, rendono come non mai allo stesso tempo necessario e opportuno un salto di qualità nei processi di condivisione sovranazionale, anche per assicurare il maggiore equilibrio competitivo possibile fra i diversi sistemi nazionali. I fattori tecnici non devono però oscurare le criticità di quegli elementi intrinsecamente qualitativi e perfino etici nei quali la crisi affonda davvero le proprie radici, soltanto rimuovendo le quali vi è speranza di ricostruire su basi autenticamente più solide. Avidità. L’accumulo di asset tossici è la più chiara evidenza di come la finanza è stata di nuovo vista come una fabbrica di facili guadagni svincolati dal lavoro, dall’impegno, dalla fatica. Ci sarà sempre chi si farà ammaliare dal mito dell’albero degli zecchini d’oro. Ma questo significa tradire la lezione essenziale della finanza: ciò che è certo è il rischio, mentre il rendimento è una speranza. Molti hanno dimenticato questa lezione, distratti da un’avida ricerca di ritorni elevati e rapidi che né il mercato, né le norme, né le istituzioni hanno saputo contrastare. Per anni abbiamo visto solo i migliori esiti possibili di una scommessa rischiosa; eccessivamente rischiosa. Adesso stiamo conoscendo l’altra faccia della medaglia, con i suoi effetti amplificati proprio dagli spropositati livelli di leva su cui quella scommessa è stata costruita. Ragione e sostenibilità. Il cammino di un’azienda, di un siste-
ma, di un paese è fatto di un agire dinamico, di una ricerca dell’eccellenza senza un termine dato, per non smarrirsi in questo incedere, per non subire passivamente il canto di troppe sirene, occorre continuamente rifarsi alla centralità dell’essere umano, unica bussola in grado di farci evitare qualsiasi ostacolo, qualsiasi moda, e al contempo di condurci a un successo sostenibile. Infatti, il criterio guida strategico di una azienda rimane – anzi, alla luce della crisi si rafforza – quello della sostenibilità dei risultati. Sostenibilità significa progettare lo sviluppo in un orizzonte temporale profondo, in tema non solo di risorse finanziare: queste sono indubbiamente necessarie ma anche inutili, se non vi è l’impiego della risorsa della ragione, che serve sia per immaginare cosa e come fare nonché quando farlo; in sostanza come agire nello spazio e nel tempo. La ragione così declinata supera l’istinto di breve termine (spesso egoistico e privo di luce), la visione miope secondo la quale si valutano le decisioni in base alle conseguenze di breve periodo; quella stessa visione che conduce alle bolle, alle mode passeggere, ai facili entusiasmi e alle cocenti delusioni, alla distruzione di valore e di Valori. La ragione, quindi, come forma mentis, rivolta a una visione di medio e lungo termine, capace di costruire e fare apprezzare la sostenibilità e la continuità dei risultati. L’etica e il lavoro. Le banche sono aziende e un’azienda per essere veramente tale deve avere un modello di responsabilità generale. La difficoltà sta proprio nel come coniugare con questa responsabilità la necessità – l’obbligo – di essere efficienti e generare profitti sostenibili. La risposta sta nella necessità di possedere – anche da parte di un intermediario finanziario, e in particolare del suo management – una propria «etica del lavoro», un’etica di tipo antropocentrico che si sviluppa sulla piena consapevolezza che le nostre scelte devono essere fondate sulla convinzione della necessità di azione che tali scelte presuppongono, ed essere nel contempo legittimate dalla piena assunzione a proprio carico degli effetti, anche non desiderati, delle scelte stesse. Il riferimento, quindi, non è all’etica delle imprese in sé, un concetto astratto e tanto negato dai comportamenti, quanto esaltato dall’autoregolamentazione, bensì al senso di responsabilità delle persone, ai loro valori, in quanto le imprese, alla fine dei conti, sono formate da indivi-
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dui. In altri termini quello che appassiona è la ricerca del fine, della ragione fondante nell’agire di un’impresa, ragione che non può ridursi all’efficienza e al successo economico, anche se da questi non può prescindere. Il mezzo, allora, il tempo, le modalità, e di nuovo i fini, e l’uomo quale fine ultimo, soccorrono, evitano di smarrirsi nelle mode, nelle bolle, nel tempo breve, che, da sempre, distruggono più valore di quanto siano in grado di generare. Occorre, in altri termini, porsi il problema delle radici del rapporto tra agire economico e finanziario e sistema di valori – l’etica appunto – del soggetto che di tale agire è responsabile. A questo scopo, crediamo che sia necessario lacerare il velo di una consolidata ipocrisia: quella che vede la possibilità di fare scelte economiche e finanziarie senza avere un’etica di riferimento. Un velo che occorre squarciare nell’interesse dell’impresa nel segno del rispetto di chi lavora per l’impresa. Senza valori di riferimento, infatti, non vi può essere agire comune, e alla lunga non vi può essere impresa e non vi può essere neanche il mercato. Il senso del limite. La crisi che stiamo vivendo è, in qualche modo, la vendetta del tempo. Negli ultimi anni la capacità di creare ricchezza si è vista sottrarre una risorsa importante: il lasso temporale necessario perché tale attività avesse un senso prospettico. L’azzeramento dei tempi, la ricerca di performance trimestrali sempre più esasperate, l’ammontare di guadagni stratosferici in pochi anni, tutto ha congiurato contro
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il tempo ragionevole. Il tempo si è preso un’amara rivincita, azzerando tutto in pochi mesi, quasi che le offese di anni dovessero trovare un contrappasso tanto doloroso, quanto immediato. Il prezzo di tutto questo viene pagato da chi ha avuto responsabilità minime, o nulle, questo rischia di rendere l’ingiustizia degli effetti di questa crisi devastante in termini di tenuta sociale. È questa la ragione principale perché tutto ciò non debba ripetersi, ed è per questo che le nuove regole dovranno essere diverse, ed è per questo che il senso del limite per quanto concerne il tempo e le dimensioni non potrà più essere lasciato alla libera determinazione di singoli intermediari finanziari. Non si può più pensare di avere salti logici nella continuità di una storia aziendale, è anche per questa ragione che abbiamo sostenuto, senza nasconderne gli elementi problematici, la necessità di avere un limite oggettivo alle dimensioni degli attivi bancari a prescindere dalla loro ponderazione. La crisi non può non farci interrogare sulla coscienza del limite, e il limite per un essere umano non può che essere il rispetto del tempo entro cui fare maturare i risultati della sua attività, e, anche il limite delle sue dimensioni e dei suoi rischi, nessuno in futuro dovrà essere troppo grande per non poter essere lasciato fallire. Solo così rimetteremo al centro l’uomo come misura e limite di ogni cosa, e potremo premiare o punire i comportamenti, senza tema che, per far questo, si possa mettere a rischio la stabilità del sistema.