ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I (corso A-L, Prof. Carlo Granelli)
SEMINARIO II – 24.3.2011 Il soggetto del rapporto giuridico: i diritti della personalità
MATERIALI
1. diritto all’identità personale e diritto al nome (Cass., 29-05-2009, n. 12670)……………..p. 1;
2. diritto all’identità personale e diritto di cronaca (Cass., 7.2.1996, n. 978)………………..p. 4;
3. diritto all’immagine (Cass., 1.12.2004, n. 22513)…………………………………….…….. p. 9.
Diritto all’identità personale e diritto al nome
Cass., Sez. 1, 29-05-2009, n. 12670 MASSIMA In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poichè i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, la scelta del giudice non può essere condizionata nè dal "favor" per il patronimico, nè dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'art. 262 cod. civ., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo. FATTO A) Con decreto del 23.05.2006, il Tribunale per i minorenni di Firenze disponeva, ai sensi dell'art. 262 c.c., comma 2 che la minore G., nata il (OMISSIS), figlia di A.A. e di P.A., i quali l'avevano riconosciuta in tempi diversi, ossia la madre il (OMISSIS) ed il padre il (OMISSIS), assumesse il cognome paterno, sostituendolo a quello materno. B) Con decreto del 28.02-13.03.2007, la Corte di appello di Firenze, sezione per i minorenni, accoglieva il reclamo dell' A. e, in riforma dell'impugnato provvedimento, disponeva l'assunzione da parte della minore anche del cognome materno da anteporre a quello paterno, così da chiamarsi A.P.G.. La Corte distrettuale osservava e riteneva, tra l'altro: - che il Tribunale, preso anche atto delle dichiarazioni dei genitori, aveva "tenuto conto della più che tenera età della bambina nonché del rapporto della stessa con il padre"; - che la reclamante aveva chiesto che la figlia assumesse pure il suo cognome anteponendolo a quello paterno, ribadendo anche che il P., non aveva condiviso il suo fermo desiderio di portare a termine la gravidanza, era scomparso per alcuni mesi (tre o quattro) e che la bambina era sempre vissuta con lei nella casa dei nonni materni, portando il cognome A., con cui era stata identificata e conosciuta nell' ambiente di vita; - che il P. aveva chiesto la conferma del provvedimento reclamato, sottolineando anche che con l' A. vi era stato un breve legame sentimentale tra l'(OMISSIS), interrotto dopo alcune settimane; che in effetti, dopo avere appreso della gravidanza e della decisione di portarla a termine, autonomamente assunta dalla medesima A., aveva avuto un atteggiamento di sincero sbandamento e difficoltà, superato dopo circa due mesi, quando aveva deciso di assumersi le sue responsabilità che da allora in poi era rimasto sempre e costantemente vicino alla madre ed alla bambina, al mantenimento della quale contribuiva, che, ai fini dell'attribuzione del cognome materno, la più che tenera età della figlia rendeva non pertinenti i riferimenti all'ambiente di vita; - che conduceva una vita seria e dignitosa e che era cosa consueta che i figli portassero il cognome paterno; - che in occasione del riconoscimento della figlia da parte del padre entrambe le parti avevano espresso "di comune accordo" la preferenza per l'attribuzione alla loro figlia del cognome paterno in aggiunta a quello materno; - che dagli atti del procedimento svoltosi innanzi al Tribunale per i minorenni e dalle dichiarazioni ivi rese dalle medesime parti emergeva, oltre al fatto che l'A. ed il P. intrattenevano rapporti civili e che quest'ultimo svolgeva adeguatamente il suo ruolo di padre, che non intendevano contrarre matrimonio o, comunque, instaurare tra loro una convivenza stabile e duratura; 1
- che, dunque, fosse allo stato perfettamente legittimo e doveroso presumere che la bambina, pur con l'insostituibile supporto affettivo del padre, determinato a non sottrarsi ai propri doveri, anche di carattere economico, avrebbe trascorso le fasi della formazione e della crescita, quanto meno con più che larga prevalenza, presso la madre e la famiglia materna; - che, quindi, fosse da ritenere con evidenza corrispondente all'interesse della minore assumere il cognome materno e, in aggiunta a questo, quello del padre, ciò consentendo in concreto di meglio stabilirne e tutelarne l'identità personale in relazione all'ambiente familiare e sociale di vita; - che, pertanto, il reclamo doveva essere accolto, sull'ulteriore rilievo che la consuetudine di privilegiare l'assunzione esclusivamente del cognome paterno doveva cedere al regolamento normativo di cui all'art. 262 c.c.. Questo decreto è stato impugnato dal P. sulla base di un unico motivo, con ricorso notificato il 28.04.2008 sia agli eredi dell' A., deceduta il (OMISSIS), e sia al curatore speciale della minore Avv.to F. M.G., che è stato nominato ad iniziativa del ricorrente e che ha resistito con controricorso notificato a mezzo posta il (OMISSIS), conclusivamente chiedendo la conservazione del doppio cognome nel senso disposto dai giudici d'appello e, comunque, prestando il proprio assenso a tale soluzione. DIRITTO Con il ricorso il P. denunzia "Violazione dell'art. 262 c.c. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3) nonché omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5)" e conclusivamente formula il quesito di diritto ed indica fatti e ragioni delle sue doglianze, in ossequio al disposto dell'art. 366 bis c.p.c.. Il ricorrente sostiene in sintesi: - che i giudici di merito non hanno correttamente inteso il senso precettivo della rubricata disposizione normativa ed obliterato la relativa interpretazione che evidenzia il favor per il patronimico che si è erroneamente valorizzato sia il fatto che in occasione del riconoscimento paterno entrambe le parti avevano espresso "di comune accordo" la preferenza per l'attribuzione del cognome del padre in aggiunta a quello materno e sia che le stesse non intendevano contrarre matrimonio o, comunque, instaurare una convivenza familiare stabile e duratura, dovendosi escludere che sia la prima che la seconda circostanza potessero assurgere ad indici rivelatori dell'interesse della minore, il quale deve costituire criterio esclusivo di giudizio; - che la decisione giudiziaria deve totalmente prescindere dalla scelta dei genitori del minore; - che occorre tendenzialmente assicurare l'equiparazione di trattamento tra figli legittimi e naturali, contemperandola con la tutela del cognome quale elemento identificativo della persona, in ossequio a regole di rilievo costituzionale che ai fini di un'eventuale decisione di segno contrario all'assunzione del solo cognome paterno, il giudice deve sostanzialmente riferirsi a due aspetti, ossia all'eventuale acquisizione da parte del minore di una precisa identità per il tramite del cognome materno o al pregiudizio eventualmente conseguente all'assunzione del cognome del padre, legato alla personalità di questi; - che le regole impedienti l'attribuzione del patronimico devono a maggior valore presiedere all'attribuzione del doppio cognome, che pone il figlio nei rapporti familiari e sociali in posizione differenziata e deteriore; - che sussiste un indubbio favor per l'attribuzione del cognome paterno, idonea a rendere indistinguibile la situazione del figlio naturale rispetto a quella del figlio legittimo, ragione per cui il giudice può optare per il doppio cognome solo se in concreto ciò corrisponda all'interesse del minore, avuto riguardo al diritto all'identità personale dello stesso; - che contraria ai criteri valutativi dell'interesse del minore è anche l'opinione secondo cui il cognome del figlio deve rispecchiare il prevalente suo collocamento presso l'uno o l'altro dei genitori, che poco ha a vedere con la sua identità personale e che, comunque, costituisce situazione suscettibile di modificazione. 2
Il ricorso non ha pregio. L'art. 262 cod. civ., commi 2 e 3 prevedono che nell'ipotesi di riconoscimento paterno della filiazione successivo a quello materno, il figlio possa assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre, e demanda al giudice, nel caso di minore età del figlio, la relativa decisione. Nel caso, previsto dall'art. 262 c.c., comma 3, di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito del potere-dovere di decidere su ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all'unico criterio di riferimento dell'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità nell'attribuzione del cognome, pure in ordine all'assunzione del patronimico (Cass. 200802751; 200716989; 200612641). Poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l'art. 262 c.c. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata né dal favor per il patronimico né dall'esigenza di equiparare almeno tendenzialmente il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo o legittimato (del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 33), delle quali, peraltro, sono stati già evidenziati profili di non aderenza al dettato costituzionale ed alle norme sovranazionali (cfr. da ultimo, Corte Cost. 200600061; Cass., ord., 200823934), prima che d'inattualità rispetto al comune sentire. L'art. 262 c.c., comma 3 affida, dunque, al giudice una valutazione ampiamente discrezionale, da condurre non secondo schemi predeterminati e casistiche limitanti, ma con riguardo a qualsiasi aspetto che possa influire sull'apprezzamento dell'interesse del minore, in rapporto alle due previste e diverse ipotesi dell'accertamento giudiziale e del riconoscimento della filiazione, valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se sorretta da congrua e logica motivazione, motivazione che nella specie è rivisitabile in questa sede, ratione temporis (art. 360 c.p.c., comma 4, D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2. Sul punto, cfr Cass. 200715953). Alla luce degli esposti rilievi la conclusione dei giudici di merito, secondo cui l'interesse della minore appariva garantito dall'assunzione del cognome paterno in aggiunta a quello originario materno, appare aderente al dettato normativo ed irreprensibile anche per il profilo motivazionale. Ai fini del mantenimento del cognome materno, assunto per primo, è stato giustamente valorizzato anche il profilo esistenziale della minore e segnatamente il suo duplice contesto di vita, onde pure assicurare l'aderenza del segno di identificazione ai tratti della sua personalità sociale in formazione, e, quindi, a giusto presidio del diritto della bambina ad assumere il cognome che più plausibilmente la faccia apparire come se medesima. Nè su tale valutazione di merito può influire in questa sede la sopravvenienza costituita dalla morte di A.A., dal momento che lo stesso ricorrente conferma che sino all'attualità tale evento non ha modificato il pregresso contesto di vita della figlia. D'altro canto, mero valore rafforzativo appare avere assunto il rilievo sia della corrispondenza della decisione con l'iniziale condiviso desiderio dei genitori e sia della mancanza d'intenti coniugali fra l' A. ed il P.. Conclusivamente a fronte del quesito di diritto formulato dal ricorrente e del seguente tenore: "Se il giudice chiamato a decidere circa l'assunzione del cognome paterno da parte del figlio naturale minore, riconosciuto dalla madre e successivamente dal padre naturale, possa disattendere l'istanza di attribuzione del cognome paterno e l'assunzione del doppio cognome, con anteposizione di quello materno rispetto a quello paterno, malgrado ciò importi un trattamento differenziato rispetto al figlio legittimo, quand'anche non sussistano comprovati motivi che ostino all'assunzione del solo cognome paterno, quali la maturazione di una precisa ed infungibile identità individuale e sociale da parte del minore per essere cresciuto nella cerchia sociale con il cognome materno o il grave comportamento del padre, idonei ad arrecargli pregiudizio" vanno affermati i seguenti principi di diritto : 3
a) "Nel caso di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall'art. 262 c.c., comma 3 del potere-dovere di prendere in esame ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all'unico criterio di riferimento dell'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità nell'attribuzione del cognome, pure in ordine all'assunzione del patronimico". b) "L'art. 262 c.c., comma 3 affida al giudice una valutazione ampiamente discrezionale, da condurre non secondo schemi predeterminati e casistiche limitanti, ma con riguardo a qualsiasi aspetto che possa influire sull'apprezzamento dell'interesse del minore, in rapporto alle due previste e diverse ipotesi dell'accertamento giudiziale e del riconoscimento della filiazione, valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se sorretta da congrua e logica motivazione". c) "In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poichè i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poichè l'art. 262 cod. civ. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata nè dal favor per il patronimico né dall'esigenza di equiparare, almeno tendenzialmente, il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio legittimo". Pertanto il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del P., soccombente, al pagamento, in favore del controricorrente curatore speciale della minore, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il P. al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorario, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 4 marzo 2009. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2009
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Diritto all’identità personale e diritto di cronaca
Cass., sez. I, 07-02-1996, n. 978. MASSIMA Il diritto all’identità personale, pur essendo un diritto soggettivo perfetto, fondato sull’art. 2 cost., può essere limitato in conseguenza dell’esercizio di altri diritti fondamentali, anch’essi costituzionalmente garantiti; in particolare, il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 cost., può liberamente esplicarsi e prevalere su quello all’identità personale, ove ricorrano cumulativamente le seguenti condizioni: a) l’utilità sociale della notizia; b) la verità dei fatti divulgati; c) la forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio (riaffermando tali principi, la suprema corte ha confermato la decisione di merito, la quale, ritenuto l’interesse sociale di uno sceneggiato televisivo sul «caso Re Cecconi» - noto calciatore della Lazio, ucciso nel 1977 da un gioielliere durante il falso tentativo di rapina ideato per scherzo dalla vittima - ha respinto la domanda di distruzione del filmato, proposta dal gioielliere e dalla moglie di questi deducendo che esso ledeva il loro diritto all’identità personale)
FATTO 1. Con citazione del 30 settembre e 8 ottobre 1983, i coniugi Bruno e Panera Adorno Tabocchini convenivano in giudizio la R.A.I. Radiotelevisione italiana e gli sceneggiatori Tommaso Sherman e Giampaolo Correale per ottenere la distruzione di un sceneggiato televisivo intitolato "L'Appello" e relativo al "caso Rececconi", concernente l'uccisione del noto giocatore di calcio della società sportiva Lazio, Luciano Rececconi ad opera del Tabocchini, durante un falso tentativo di rapina ideato per scherzo dalla vittima all'interno della gioielleria degli attori. Esponevano i coniugi Tabocchini che il tragico episodio si era verificato la sera del 18 gennaio 1977 allorquando nella loro gioielleria entrarono alcuni giovani, uno dei quali tenendo le mani in tasca, pronunziò la frase "fermi tutti", questa è una rapina"; al che la reazione del gioielliere che, credendo di trovarsi di fronte ad un delinquente, estrasse la pistola e sparò contro il giovane uccidendolo. Esponevano ancora gli attori che il Tabocchini fu arrestato sotto l'imputazione di omicidio, tratto a giudizio ed assolto con formula piena ex art. 52 c.p. dal Tribunale di Roma con sentenza del 5 febbraio 1977; che nel 1982 avevano appreso da notizie di stampe che la RAI stava preparando una trasmissione televisiva (sceneggiatori lo Scherman ed il Correale) riguardante il tragico episodio; che, a seguito della lettura del copione e della visione del filmato, essi si erano accorti che quel lavoro violava il loro "diritto alla identità personale"; dal che appunto la richiesta della sua distruzione. 2. Con sentenza del 15 dicembre 1986, il tribunale di Roma adito accoglieva la domanda. Ma, su appello della RAI; la Corte di Roma, riformava, poi, integralmente la statuizione di primo grado. 3. Da qui l'odierno ricorso per cassazione dei coniugi Tabocchini. DIRITTO 1. Con l'unico complesso mezzo della impugnazione si denuncia dai ricorrenti "violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7, 10, cod. civ; 96 e 97 l. 1941 n. 632, 2 Costituzione, 8 Convenzione sui 5
diritti dell'uomo del 4 novembre 1950, resa esecutiva con l. n. 848 1955, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia". 2. Il ricorso è, per ogni aspetto, infondato. 3. Vanno preliminarmente richiamati e puntualizzati, in premessa, la nozione, il fondamento giuridico, la struttura, il contenuto, le forme ed i limiti di tutela del c.d. diritto alla identità personale, la cui violazione - nella specie - assumono appunto i ricorrenti sia stata a torto esclusa dalla Corte di merito. 3-1 L'"identità personale è venuta emergendo, nella più recente elaborazione giurisprudenziale, come bene - valore costituito dalla proiezione sociale della personalità dell'individuo, cui si correla un interesse del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, a non vedere quindi, all'esterno, modificato, offuscato o comunque alterato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale (ecc) quale già estrinsecatosi o destinato, comunque, ad estrinsecarsi, nell'ambiente sociale, secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche (cfr. in particolare, Pret. Roma 6 maggio 1974, Giur. it. 95 I, 2, 514; Cass. 22 giugno 1985 n. 3769; Corte Cost. 1994 n. 13). 3-2 La specificità di tale interesse ("ad essere se stesso") è stata anche colta in parallelo od in contrappunto ad altri interessi ad esso contermini o collegati come l'interesse ai segni distintivi (nome, pseudonimo), che identificano nell'attuale ordinamento il soggetto sul piano dell'esistenza materiale e della condizione civile; all'immagine, che evoca le mere sembianze fisiche; all'onore (che ha una dimensione più spiccatamente soggettiva, rispetto al rilievo oggettivo attribuito alla "identità"); alla reputazione, (che postula per la sua compromissione l'attribuzione di fatti suscettibili di causare un giudizio di disvalore e non meramente alterativi - al limite anche in positivo - della personalità, come quelli che incidono sulla "identità"); e lo stesso interesse alla riservatezza, cui si riconosce un obiettivo, per, così dire, negativo alla "non rappresentazione" all'esterno (di proprie vicende personali) (cfr. Cass. 990-1963; 2129-1975), in luogo di quello positivo, alla fedeltà della rappresentazione, che connota l'identità personale. Anche se la utilità, soprattutto didascalica, di tali distinzioni non deve fare velo al carattere solidale di tali interessi, confluenti in un valore unitario, che è quello della persona umana. 3-3 Quest'ultima puntualizzazione (che presuppone l'adesione ad una concezione "monistica" dei diritti della personalità (da questa Corte, del resto, già sostanzialmente anticipata nella citata sent. n. 990-1963) aiuta anche a definire, senza perplessità, in termini di diritto soggettivo perfetto, la struttura della situazione soggettiva considerata. E consente, nel contempo, di individuare con maggiore risolutezza (superando le riserve affioranti in qualche tratto della motivazione della pure già citata sentenza n. 3769-1985) il correlativo fondamento giuridico, ancorandolo direttamente all'art. 2 della Costituzione (Cfr, implicitamente su questa linea, anche Corte Cost. n. 13-94): inteso tale precetto nella sua più ampia dimensione di clausola generale, "aperta" all'evoluzione dell'ordinamento e suscettibile, per ciò appunto, di apprestare copertura costituzionale ai nuovi valori emergenti della personalità in correlazione anche all'obiettivo primario di tutela del "pieno sviluppo della persona umana", di cui al successivo art. 3 capoverso. Per cui la concreta disciplina positiva del diritto in esame effettivamente può mutuarsi dalle disposizioni codicistiche e dalle disposizioni sul diritto di autore, in apertura richiamate: applicabili in via diretta - e non analogica - proprio per l'interpretazione evolutiva ed adeguatrice, di quelle norme che gli indicati precetti costituzionali consentono ed, anzi, impongono. 4. La riconosciuta base e garanzia costituzionale del diritto alla identità personale va però incontro a limiti, di pari rango primario, che derivano dalla peculiare natura "antagonista" del diritto 6
medesimo, al suo dover coesistere, cioè, nell'ordinamento, con diritti contenutisticamente di segno inverso, pure essi fondamentali e costituzionalizzati. Si riflette infatti nella dialettica che viene ad instaurarsi tra il diritto alla identità personale ed i contrapposti diritti di critica di cronaca e di creazione artistica (a loro volta riconducibili alla comune matrice costituzionale dell'art. 21) quel fenomeno di confliggenza di interessi, di cui la casistica è ricchissima (si pensi alla libertà sindacale confliggente con la libertà di impresa; al diritto alla salute confliggente con l'interesse della produzione ecc) e che trova soluzione attraverso il contemperamento e l'equo bilanciamento delle libertà antagoniste, per modo che la tutela dell'una non sia esclusiva di quella dell'altra. 5. Nel conflitto, in particolare, che qui ne interessa un tale bilanciamento degli opposti valori costituzionali si risolve nel riconoscimento della libera esplicabilità del diritto di cronaca e nella sua prevalenza sul diritto alla identità personale ove ricorra la triplice condizione: a) della utilità sociale della notizia; b) della verità dei fatti divulgati; c) della forma civile della esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio (cfr. già Cass. 1984 n. 5259). Prevalendo altrimenti - in difetto di alcuna di tali condizioni - la garanzia della identità personale: intesa, per altro, tale "identità" non in senso soggettivo, come opinione cioè che il soggetto abbia del "proprio io", bensì in senso oggettivo, in riferimento appunto alla "identita" dell'individuo che, nella realtà sociale generale o particolare, è percepita e conosciuta o poteva essere conosciuta con l'applicazione dei criteri della normale diligenza o della buona fede soggettiva. 6. Ora appunto - secondo i ricorrenti - per un verso sarebbe mancato, nel filmato in questione, alcun apprezzabile interesse sociale alla cognizione dei fatti privati in esso divulgati e, per altro verso, innegabile ne sarebbe stato l'intento (o comunque il risultato) denigratorio e deformante della identità di essi protagonisti: essendo stato, in particolare, il Tabocchini descritto come individuo incolto, impacciato, attaccato ai suoi averi ed al denaro, e la moglie riduttivamente rappresentata come donna unicamente intenta a riporre oggetti negli scaffali. E sarebbe proprio la mancata rilevazione di questi elementi e presupposti - risolutivi del conflitto in favore del diritto alla identità degli attori e deponenti per la fondatezza della correlativa domanda di tutela che vizierebbe la sentenza impugnata. Ma la censura, così formulata, come già si è anticipato, non coglie nel segno: nè sul piano della violazione di legge, perché la Corte di Roma ha avuto sostanzialmente presente ed ha argomentato, comunque, in sintonia con il quadro di principi innanzi delineato; nè nella prospettiva del vizio di motivazione, ex art. 360 n. 5, sui punti in questione. Per un verso non hanno mancato, infatti, quei giudici di verificare l'esistenza di un attuale interesse sociale del filmato (già dal tribunale, del resto, riconosciuto) per il carattere emblematico che la vicenda assume nella rappresentazione di un particolare periodo storico segnato, nella comune memoria, da una diffusa violenza ed attitudine aggressiva, che appunto l'opera vede del pari manifestate sia nel comportamento dell'aggressore che in quello stesso (lo scherzo "violento") della vittima. E, per altro verso, ben articolata, diffusa e coerente (per cui resiste al vaglio di legittimità) è la motivazione in ordine all'escluso carattere denigratorio o deformante della descrizione della personalità degli attori. Avendo invero, al riguardo, il Collegio di appello puntualmente, tra l'altro, osservato che "tutti i fatti narrati sono veri"; che fu, in effetti, lo stesso Tabocchini a presentarsi alla stampa come uomo di scarsa cultura, per non aver potuto egli studiare, pressato dalla necessità di guadagnare; che egli non poteva poi dolersi della raffigurazione di un suo comportamento "impacciato" nei momenti susseguenti alla tragedia, poiché sarebbe stato altrimenti per lui ben più negativa l'inversa 7
manifestazione di un atteggiamento di freddezza o cinismo nella circostanza: che "l'attaccamento al denaro", che il filmato suggeriva come dato nel suo carattere, oltre ad inquadrarsi in una più ampia critica di costume si ricollegava comunque ad obiettivi e reali comportamenti pregressi del Tabocchini, che già altra volta aveva ferito gravemente un rapinatore e, in una ulteriore occasione, aveva fatto ricorso alle armi per evitare uno scippo alla moglie; che, infine, neppure l'attrice poteva seriamente lamentarsi di essere stata rappresentata nell'atto di riporre oggetti negli scaffali per essere questo un "gesto connaturale all'attività svolta nel negozio" e per nulla trasfigurante della sua personalità. 7. L'impugnazione va pertanto integralmente Sussistono comunque giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.
respinta.
P.Q.M La Corte Roma 30.6.1995.
rigetta
il
ricorso
e
compensa
le
spese.
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Diritto all’immagine
IL CASO Le foto di una nota attrice vengono pubblicate, senza la sua autorizzazione, su una rivista. L’attrice decide di agire in giudizio per la tutela del diritto all’immagine. Assunte, rispettivamente, le vesti dell’attrice e della convenuta rivista, si espongano le ragioni a favore e contro l’accoglimento del ricorso. Cass., sez. I, 01-12-2004, n. 22513. MASSIMA Chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona notoria, per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della notorietà, specialmente se questa è connessa all’attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo sfruttamento esclusivo dell’immagine stessa; pertanto l’abusiva pubblicazione, quando comporta la perdita, da parte del titolare del diritto, della facoltà di offrire al mercato l’uso del proprio ritratto, dà luogo al corrispondente pregiudizio; tale pregiudizio non è, poi, escluso dall’eventuale rifiuto del soggetto leso di consentire a chicchessia la pubblicazione degli specifici ritratti abusivamente utilizzati (nella fattispecie si trattava di foto di scena di un’opera cinematografica), atteso che, per un verso, detto rifiuto non può essere equiparato ad una sorta di abbandono del diritto, con conseguente caduta in pubblico dominio, in quanto nella gestione del diritto alla propria immagine ben si colloca la facoltà, protratta per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinati ritratti, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo, e, per altro verso, la stessa gestione può comportare la scelta di non sfruttare un determinato ritratto, perché lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto; con la conseguenza che lo sfruttamento abusivo del ritratto, in quanto frustrante della predetta strategia generale che solo al titolare del diritto spetta di adottare, può risultare fonte di pregiudizio - ben più grave di quello corrispondente al valore commerciale della specifica attività abusiva - il cui risarcimento ben può essere effettuato in termini di perdita della reputazione professionale, ove questa sia stata allegata in giudizio, da valutarsi caso per caso dal giudice di merito nei limiti della ricchezza non conseguita dal danneggiato, ovvero anche con il ricorso al criterio di cui all’art. 1226 c.c. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con atto del 3 novembre 1983 Stefania Sandrelli conveniva davanti al tribunale di Roma la spa Tattilo Editrice chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito della pubblicazione da lei non autorizzata sul periodico Playmen di foto di scena scattate durante la lavorazione del film "La Chiave". Resisteva la convenuta. Il Tribunale di Roma con sentenza non definitiva dichiarava il diritto al risarcimento dei danni rimettendone la liquidazione al prosieguo. 2. La sentenza veniva confermata in sede di appello, il ricorso per Cassazione veniva rigettato. Il giudizio inerente al quantum si concludeva in primo grado con il rigetto della domanda della Sandrelli, non avendo accertato il tribunale alcun danno nè patrimoniale nè morale. Proponeva appello la Sandrelli e la Corte di Roma lo rigettava. Il secondo giudice, premessa la definitività della statuizione sull'illegittimità dell'uso delle foto in questione da parte della Tattilo e dunque che il giudizio de quo riguardava solo la quantificazione 9
dei danni eventualmente seguiti a tale attività illecita, escludeva anzitutto la pur astratta configurabiltà di danni morali non essendo la fattispecie al suo esame sussumibile in alcuna ipotesi di reato. Negava quindi che alcun danno fossa stato provato ovvero che fosse comunque emerso, per la ragione che la Sandrelli aveva ella stessa negato di consentire la pubblicazione delle foto in questione. 3. Contro questa sentenza ricorre per Cassazione la Sandrelli con due motivi. Resiste con controricorso la Tattilo Editrice. Le parti hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso la Sandrelli lamenta la violazione degli artt. 10 cc e 96 e 97 della legge n. 633 del 1942 (L.A.). Sostiene che la sentenza impugnata dalla premessa della inesistenza di reato e dunque di danno morale ha tratto erroneamente anche la mancanza del pregiudizio per lesione della immagine dell'artista. 1.a. Con il secondo motivo che è connesso al primo e va dunque esaminato insieme ad esso, la Sandrelli lamenta la motivazione omessa o insufficiente relativamente al punto decisivo della sussistenza del pregiudizio patrimoniale e della prova del medesimo. Sostiene che la lesione del diritto alla immagine della persona nota è di per sè produttiva di pregiudizio patrimoniale, e comunque che questo non può essere escluso sulla considerazione della decisione del titolare di non esercitare al momento il diritto di sfruttarlo. 2. Osserva il collegio che l'argomentazione fondamentale della sentenza impugnata, secondo la quale, premessa la condivisibile esclusione di un danno morale, nel caso di specie non si può riconoscere la sussistenza del pregiudizio patrimoniale quale conseguenza della accertata illecita utilizzazione commerciale delle foto della ricorrente, per la ragione che la ricorrente medesima avrebbe rinunciato, in una certa occasione, ad autorizzare la pubblicazione delle stesse e dunque di trame in utile da sfruttamento, non può essere condivisa. Essa infatti trascura tanto la estensione del dritto alla immagine in capo alla persona nota, come messa a punto dalla giurisprudenza di questa corte, quanto i criteri che conseguentemente debbono essere tenuti presenti nella individuazione del pregiudizio prodotto dalla diffusione abusiva del ritratto della stessa. La Corte di Cassazione a tempo ha dato luogo ad un orientamento, trascurato dal giudice del merito ma rispetto al quale non vi sono ragioni per dissentire, in base al quale chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona nota per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto anzitutto delle ragioni della notorietà di cui si tratta, sopratutto se questa è connessa alla attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo sfruttamento esclusivo della immagine stessa. Pertanto l'abusiva pubblicazione quando comporta la perdita da parte del titolare del diritto o della facoltà di offrire al mercato l'uso del proprio ritratto, da luogo al corrispondente pregiudizio (Cass. n. 4031 del 1931). Erroneamente la corte di merito ritiene di superare il criterio che da tale giurisprudenza emerge sulla base della predetta circostanza del rifiuto da parte della Sandrelli a consentire alla pubblicazione delle foto di cui si tratta. Tale rifiuto anzitutto non può essere equiparato, come si dovrebbe trarre dalla sentenza in esame per dare ad essa un senso giuridico compiuto, ad una sorta di abbandono del diritto stesso con conseguente sua caduta in pubblico dominio, giacchè nella gestione del diritto alla propria immagine ben si colloca la facoltà, protratta per il tempo ritenuto necessario, di non pubblicare determinate fotografie, senza che ciò comporti alcun effetto ablativo. Ma sopratutto la stessa gestione può comportare la scelta di non sfruttare una determinata fotografia perchè lo sfruttamento può risultare lesivo, in prospettiva, del bene protetto. Dunque è del tutto paradossale individuare in siffatto atto di gestione la dimostrazione della mancanza di lesività economica nello sfruttamento abusivo posto in essere da parte del terzo. Tale 10
sfruttamento invece, in quanto frustrante della predetta strategia generale che solo al titolare del dirotto spetta di adottare, può risultare in concreto fonte di pregiudizio ben più grave di quello che corrisponde al valore commerciale della specifica attività abusiva. Ed il cui risarcimento può ben essere effettuato in termini di perdita della reputazione professionale, nella specie allegata, da valutarsi caso per caso dal giudice del rito nei limiti della ricchezza non conseguita dal danneggiato, ovvero anche con il ricorso al criterio di cui all'art. 1226 cc. Pertanto, se non può dirsi, come pretende la ricorrente, che la violazione del diritto allo sfruttamento esclusivo dell'immagine in questione dia luogo di per sè ad un pregiudico economico, essendo questo da accertarsi caso per caso secondo le regole generali, la sentenza impugnata, che ha escluso il danno sulla base della mancata utilizzazione, fino a quel momento, da parte della Sandrelli delle foto di scena di cui si tratta, in accoglimento del ricorso, deve essere cassata. La causa deve essere rinviata ad altro giudice del merito che verificherà alla luce del criterio indicato la sussistenza del pregiudizio lamentato alla immagine professionale della Sandrelli ed alla sua scianche di autorizzare in altro momento la pubblicazione delle foto, dando conto in motivazione dell'accertamento che andrà a compiere. Il giudice del rinvio provvedere anche sulle spese di questa fase. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Roma anche per le spese.
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