IL RAPPORTO DEL LAVORO NEGLI ENTI LOCALI 4 aprile 2003
Coordinatrice Benvenuti. Il mio compito è quello di presentarvi i colleghi che sono seduti a questo tavolo: il collega Alessandro Visparelli, Coordinatore della Consulta Regionale degli Ordini del Veneto, il collega Rossano Zanella, Presidente del Consiglio Regionale ANCL, e i relatori che sono colleghi consulenti del lavoro. Ringrazio tutti i presenti e do la parola per i saluti ad Alessandro Visparelli. Alessandro VISPARELLI, Coordinatore Consulta Regionale Ordini dei Consulenti del Lavoro del Veneto Buongiorno a tutti. Sono lieto di portare il saluto dei Presidenti degli Ordini dei Consulenti del Lavoro del Veneto e mi è gradita l’occasione per ringraziare l’ANCI Veneto, in particolare il Presidente Maurizio Facincani, che ci ha aiutato ad organizzare un importante convegno all’interno di questa interessante rassegna dedicata alla pubblica amministrazione locale ed incentrata sulle attività e sulle soluzioni innovative atte a migliorare la gestione della cosa pubblica. Una grande opportunità per noi consulenti del lavoro, visto che la pubblica amministrazione, e l’ente locale in particolare, negli ultimi anni è stata interessata da una serie di riforme atte a creare un sistema di gestione delle risorse pubbliche in grado di garantire efficienza, efficacia ed economicità. In particolare, per quanto riguarda il rapporto di lavoro le riforme, salvo casi eccezionali, hanno ricondotto tali rapporti sotto la disciplina del diritto civile e dei contratti collettivi individuali. Il nuovo modello tende a razionalizzare le strutture e gli organici, introdurre forme flessibili di lavoro, sviluppare le relazioni sindacali decentrate, modificare la progressione retributiva, rafforzare la politica dei sistemi di valutazione ad incentivo aumentando, nel contempo, l’autonomia di direzione del management. Occorre, però, rilevare che nonostante i cambiamenti intervenuti e gli sforzi compiuti dalle amministrazioni non si è ancora sviluppato appieno un sistema integrato per sfruttare tutte le opportunità offerte dal nuovo modello contrattuale. Peraltro, trattandosi di un cambiamento rilevante, lo stesso richiede un vero e proprio cambio di cultura e di approccio. In tale contesto può risultare interessante e utile l’apporto professione del consulente del lavoro che per formazioni culturale, competenze professionale, esperienza e specifiche attitudini alla gestione delle risorse umane rappresenta il professionista più idoneo per contribuire a favorire il processo evolutivo in direzione privatistica delle relazioni di lavoro nella pubblica amministrazione e negli enti locali in particolare. Affidare all’esterno la gestione del personale a consulenti del lavoro competenti e preparati libera preziose risorse interne che possono essere meglio impiegate in servizi istituzionali e sociali. Il tema del convegno “Il rapporto di lavoro negli enti locali” è stato affidato a due notissimi e autorevoli relatori: l’avv. Piero Gualtierotti e l’avv. Vanna Stracciari, che con la loro grande competenza ed esperienza affronteranno e approfondiranno alcuni aspetti di tale rapporto. Mi auguro che da questo incontro possa nascere una proficua collaborazione fra enti locali e consulenti del lavoro che favorisca il raggiungimento di alti livelli di efficienza e qualità nella pubblica amministrazione. Grazie. Coordinatrice In attesa del Presidente ANCI, do la parola per i saluti al Presidente del Consiglio Regionale ANCL, Massimo Zanella. 1
Massimo ZANELLA, Presidente Consiglio Regionale ANCL Iniziative di questo tipo fanno sì che possiamo notare che l’interesse su determinate cose viene al di là dell’organizzazione, al di là del sapere che avevamo oggi questo impegno e al di là del sapere che oggi c’è un impegno analogo a Rimini. Il problema della consulenza del lavoro all’interno degli enti pubblici, infatti, ha fatto sì che già da due anni l’Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro assieme ai nostri Albi facesse un master su queste cose e tanto è stato l’interesse che proprio oggi siamo in grado di presentare un’altra iniziativa che vede interessati tutti i consulenti d’Italia che vogliono approfittare di queste opportunità per allargare il loro lavoro e tutti i giovani che vogliono iniziare l’attività professionale e trovano difficoltà. Questo spazio è dato dagli enti pubblici, ma noi dobbiamo presentarci preparati e capaci di far valere anche negli enti pubblici la nostra professionalità che da anni dispieghiamo nel provato. Con questo senso è stato realizzato, a partire da ottobre fino a maggio del prossimo anno, un corso di 100 ore per tutti i colleghi che desiderano prepararsi su questo tema. Dobbiamo, però, fare in modo che i colleghi possano farlo per cui 40 ore saranno in aula e 60 ore saranno nei nostri studi attraverso l’insegnamento on- line. Per questa iniziativa abbiamo presentato dei programmi, che non sto qui a spiegare, con dei partner scientifici veramente validi (De Agostini per la presentazione e le maggiori software house d’Italia) e questo perché crediamo di mettere uno strumento in mano a tutti per poter affrontare questa nuova sfida e per poter vincere. Quello di oggi è il convegno che può dare l’inizio a tutto visto i relatori che tutti conosciamo e vista l’occasione. È proprio da qui, quindi, che possiamo dire che veramente i consulenti del lavoro vogliono affrontare questo settore e vogliono fare bella figura dimostrando la loro professionalità. Grazie e buon lavoro a tutti. Coordinatrice È arrivato il Presidente dell’ANCI veneto, Maurizio Facincani, che preghiamo di dare i suoi saluti. Maurizio FACINCANI, Presidente ANVI Veneto Buongiorno a tutti e intanto grazie a voi per aver organizzato all’interno di questa manifestazione delle autonomie locali del Triveneto questa importante ed apprezzata iniziativa, perché parlare di rapporto di lavoro è sempre più di attualità anche all’interno del mondo degli enti locali. Io più volte ho sottolineato, come Presidente dell’Associazione ed anche come Sindaco della mia città, quanto sia importante valorizzare le risorse umane e fare in modo che tutto ciò che riguarda il rapporto di lavoro possa essere organizzato meglio ed essere più funzionale per la nostra realtà. Io ho apprezzato questa iniziativa soprattutto per una cosa, cioè perché so che esiste una vostra richiesta di collaborazione con il mondo dei Comuni e io, al riguardo, ritengo che le sinergie fra pubblico e privato sono gradite e possono essere la sfida importante del prossimo futuro. La nostra disponibilità è piena, ed apprezzo vedere questa sala affollata tenendo conto che io ho più di mezz’ora di ritardo per l’ennesimo tappo in questo importante nodo stradale del Veneto. Vi auguro buon proseguimento di lavoro e ribadisco la nostra piena disponibilità per incrementare e migliorare queste sinergie. Grazie, buon lavoro e grazie per la vostra presenza. Coordinatrice Entriamo nel vivo del nostro convegno e diamo la parola all’avv. Gualtierotti. Avv. Piero GUALTIEROTTI Quando ho saputo che questo convegno si teneva alla stazione marittima, mi è sorto il dubbio che i miei amici del Veneto avessero pensato di fare un convegno itinerante con una piccola 2
crociera fra le isole di Venezia e, invece, siamo in una cornice molto interessante e sorprendentemente vivace. Vorrà che dire che la crociera ve la facciamo fare noi, ma sarà una crociera di lungo corso, perché la materia è molto vasta, visto che ci è stato chiesto di esplorare il rapporto di pubblico impiego. I tempi, però, sono quelli che sono per cui vedremo di fermarci su quelli che sono i porti più importanti, per fare delle esplorazioni che possono essere utili per voi e darvi una panoramica il più completa possibile. Ho sentito gli interventi introduttivi che sono stati molto interessanti ed appropriati, per quanto attiene un nuovo modo di concepire il rapporto nel pubblico impiego. Le iniziative di cui si è parlato sono molto interessanti e vedono soprattutto voi come protagonisti di una certa nuova era, che può portare il consulente anche nel mondo dell’impiego pubblico. Fatta questa premessa per dirvi il modo con il quale ci siamo avvicinati a questa materia e come intendiamo trattarla con voi, partiamo da una sessantina di anni fa, cioè da quando è entrato in vigore il codice civile italiano. Nell’art.2129 già si parla del contratto di lavoro per i dipendenti di enti pubblici, ma si dice che le disposizioni di questa sezione si applicano ai prestatori di lavoro dipendenti da enti pubblici salvo che il rapporto sia diversamente regolato dalla legge. L’art.98 delle disposizioni di attuazione ribadisce che le richiamate norme si applicano altresì ai rapporti di impiego dei dipendenti di enti pubblici, anche se non inquadrato sindacalmente, in quanto il rapporto non sia diversamente disciplinato da leggi o regolamenti speciali. Si dà il caso che, in effetti, il rapporto è stato disciplinato da diverse norme e regolamenti, cioè dal diritto amministrativo.Sostanzialmente la disciplina civile del rapporto si è prospettata soltanto in via sussidiaria se non fosse stato diversamente regolamentato, ma è stato diversamente regolamentato. La verità è che sono state proprio le insistenti richieste provenienti dal mondo sindacale a portare il pubblico impiego nell’ambito del diritto civile. L’attrazione è una conseguenza di queste spinte ed il meccanismo che è stato utilizzato per far sì che il rapporto di impiego pubblico entrasse nell’ambito del diritto civile e venisse sottratto al diritto amministrativo è stato quello di un sistema di produzione normativa, per la disciplina del rapporto, non più costituito dall’atto amministrativo ma avente origine dal contratto. Questo concetto lo vediamo già sviluppato in modo molto preciso dall’art.2 del Decreto Legislativo 29 del 1993 che dà un modello normativo il quale comporta che gran parte della disciplina è definita con strumenti che sono propri della autonomia individuale. Il secondo comma di questo articolo dice che i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono disciplinate dalla disposizione del Libro V Capo I Titolo II del Codice Civile (lavoro nell’impresa) e dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa salvo i limiti stabiliti dal presente Decreto per il perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione amministrativa sono indirizzate. Quest’ultima precisazione si ricollega ad un precetto della nostra carta costituzionale, perché l’art.97 al primo comma enuncia un principio fondamentale e cioè che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. È, quindi, il faro che illumina il percorso della normativa nella quale devo poi incanalarsi il pubblico impiego nel rispetto dei principi che abbiamo appena sentiti enunciati. Nel terzo comma dell’art.2 del D.L. n.29 del 1993 appare poi un espresso rinvio alla contrattazione collettiva ed al contratto individuale, i quali sono deputati a disciplinare i rapporti di pubblico impiego come fonte privilegiata. Ci si va, quindi, spostando da una regolamentazione da parte della legge a quella che è una disciplina contrattuale collettiva che dà poi luogo al contratto individuale. Se noi riflettiamo alla luce di questi principi, che vi ho enunciato come introduttivi dell’argomento, vediamo che la grande e rivoluzionaria novità sta nel momento genetico del rapporto di lavoro, cioè nel momento in cui nasce il rapporto di lavoro di pubblico impiego. Questo rapporto, infatti, non nasce più da un atto unilaterale di tipo autoritativo (atto di nomina) del quale il consenso del lavoratore è una mera condizione di efficacia dell’atto, ma si sposta 3
perché analogamente a quanto avviene nel settore privato il rapporto di lavoro nasce con il contratto individuale nel rispetto della legge e del contratto collettivo. È questo il momento fondamentale nel quale si attrae il rapporto di pubblico impiego alla disciplina del Codice Civile sottraendola al diritto amministrativo ed in questo modo si è anche creato un diritto del lavoro comune sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale. Non è un caso, infatti, che oggi le controversie individuali di lavoro pubblico siano tutte attratte nel sistema processuale civilistica per cui le cause si trattano davanti al giudice ordinario nella sezione del giudice del lavoro salvo alcuni casi che hanno una ragione perché risentono proprio della natura amministrativa dell’atto o alcune particolari categorie di lavoratori pubblici. Le fonti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico sono costituite dalla legge, dai contratti collettivi e dal contratto individuale anche se forse sarebbe più esatto invertire e dire che la fonte del contratto di lavoro pubblico è il contratto individuale nel rispetto della legge e del contratto collettivo. La legge non è solo il Codice Civile; in questo momento noi abbiamo una normativa che si evita di chiamare Testo Unico per motivi formali, che è il D.L. 30 marzo 2001 n.165, modificato per alcuni aspetti dalla Legge 15 luglio 2002 n.145, che non a caso come rubrica ha “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni”. Praticamente è questa la normativa che disciplina il rapporto nel pubblico impiego anche se poi, per quanto riguarda gli enti locali in particolare, ci sono degli adattamenti determinati dalla contrattazione collettiva di comparto. Esistono anche altre leggi che vanno a disciplinare il rapporto di pubblico impiego come, ad esempio, lo Statuto dei Lavoratori che era inconcepibile solo 20 anni fa e per il quale il primo pallido intervento è avvenuto all’inizio degli anni ottanta. Quando parliamo di legge intendiamo riferirci alla legge solo statale o anche a quella regionale? Questo è un grosso problema, perché noi ci troviamo con un esordio del D.L.165 del 2001 che detta le norme fondamentali nella disciplina del rapporto di lavoro pubblico, il quale richiama l’art.117 della Costituzione per affermare che le disposizioni di questo D.L. costituiscono principi fondamentali. Il problema nasce dal fatto che, dopo questa legge, è entrata in vigore la modifica alla Costituzione (ottobre 2001) che ha completamente invertito i termini di produzione legislativa. Oggi, dove non è detto che siamo in presenza di una competenza esclusiva dello Stato o concorrente dello Stato, significa che è competente esclusivamente la Regione, cioè esattamente il contrario di prima. Prima, infatti, la Regione aveva il potere legislativo residuale, mentre oggi è tutto alla rovescia. Nell’art.117 di attuale formulazione, noi abbiamo che lo Stato ha legislazione esclusiva in certe materie che sono elencate in modo specifico e tassativo, a cui segue l’elencazione delle materie di legislazione concorrente. A questo proposito, viene poi precisato che nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato. Quando il legislatore, nel 2001, che disciplinava il pubblico impiego e dava i principi fondamentali si è espresso in questi termini lo ha fatto per limitare la Regione, mentre oggi non è più così perché, a parte il caso della legislazione concorrente, quando legifera la Regione nelle materie che sono di sua specifica competenza non ci sono principi fondamentali da rispettare. Di questo problema grossissimo ne abbiamo parlato l’anno scorso, a settembre, in un convegno internazionale tenuto a Roma che era stato fatto per fare il punto della situazione e dove io mi ero occupato dell’aspetto della normativa che riguarda l’impresa artigiana e cioè la legislazione in materia di artigianato. Il nocciolo della questione in questo convegno è stato proprio capire che cosa succede nell'ambito del diritto del lavoro visto che ogni Regione potrebbe avere una normativa diversa a disciplinare il rapporto di lavoro subordinato. In quell’occasione si sono posti sul tappeto molti problemi che non sono stati risolti, e di cui vedremo la soluzione in fase applicativa quando le Regioni manderanno delle disposizioni che vanno a disciplinare il rapporto di lavoro.
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Siccome adesso abbiamo visto che il rapporto di lavoro pubblico è attratto nell’ambito del diritto civile e privatistico, il problema si porrà anche nella regolamentazione del rapporto di pubblico impiego da parte delle singole Regioni. Questo ve lo accenno come un argomento stimolante che potrebbe essere un’ulteriore fonte di trattazione nell’ambito di un convegno più specialistico indirizzato ad affrontare questo problema. L’altra fonte di disciplina del rapporto di lavoro pubblico è il contratto collettivo, il cui ambito è delineato dall’art.40 del D.L. a cui accennavo prima. La contrattazione collettiva si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali, ed è proprio così che si esprime la norma. Il contratto collettivo rimane, però, sempre subordinato alla legge che può invadere l’area che è riservata al contratto collettivo stesso e, diversamente da quanto avviene nel settore privato, la fonte pattizia collettiva è oggetto di una precisa regolamentazione da parte del legislatore. C’è, quindi, la legge che dice come i contratti devono operare indicando i confini della contrattazione, la struttura, l’efficacia, il procedimento formativo e i rapporti fra i diversi livelli di contrattazione. A proposito di struttura e di livelli l’unità di base della contrattazione nazionale è costituita dal comparto, ma che cosa è il comparto? Praticamente sono dei settori omogenei o affini della pubblica amministrazione che vengono determinati mediante accordi stipulati fra l’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni e le Confederazioni Sindacali aventi una rappresentatività qualificata. Il comparto sostanzialmente definisce l’ambito di efficacia del contratto collettivo e fornisce una disciplina comune e vincolante per tutte le branche che lo compongono. Se vogliamo avere un punto di riferimento a migliore comprensione nell’ambito del diritto civilistico, diciamo che il comparto rappresenta la categoria merceologica (metalmeccanica, chimica, terziario, autonomie locali, sanità, università). Il comparto, quindi, corrisponde alla categoria merceologica e non alla categoria sindacale. La categoria merceologica è quella che attiene ad un’attività che viene svolta (attività metalmeccanica, terziario), mentre la categoria sindacale è quella che nasce dall’autodeterminazione e dall’autorganizzazione dei lavoratori attraverso un sindacato. Se ci pensate bene, capirete che nell’ambito di una categoria merceologica possono esserci varie categorie sindacali (metalmeccanici: industria, industria a partecipazione statale, piccolo industria, artigianato). Questo per darvi un punto di riferimento quando si parla di comparto. Quando si parla di area, invece, ci si riferisce soprattutto ai profili professionali (area dirigenziale) di una certa qualificazione. A fronte di questa contrattazione di livello nazionale ci può essere una contrattazione collettiva integrativa decentrata per cui sono concesse alle singole amministrazioni dei consistenti spazi di autonomia nei limiti naturalmente derivanti dai vincoli di bilancio (paletti fondamentali della normazione nel contrattuale). Questa possibilità di autonoma contrattazione viene concessa sulla materia e nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale, tanto è vero che sono nulle le clausole difformi dai vincoli posti dalla contrattazione nazionale. Al riguardo, si discute molto sul concetto di vincolo, perché che cosa è il vincolo? Quello che viene espressamente vietato dalla contrattazione nazionale o quello che la contrattazione nazionale non dice essere demandato alla contrattazione decentrata? È un problema interpretativo di non poco conto, che crea dei conflitti fra il centro e la periferia in ordine alla contrattazione e ai suoi limiti. Nel contratto collettivo nazionale degli enti locali si prende in esame la materia della contrattazione collettiva, tanto è vero che l’art.4 indica quali sono le materie nelle quali può essere stipulata la contrattazione decentrata e l’art.5 indica quali sono i tempi e le procedure che devono essere adottate per la stipulazione di questi contratti. I soggetti che sono deputati a stipulare i contratti collettivi (in particolare quelli nazionali) sono l’ARAN, che è un soggetto terzo rispetto alle singole pubbliche amministrazioni. L’ARAN, oltre 5
ad avere questa funzione di agente contrattuale per conto delle varie amministrazione, ha anche degli specifici compiti di consulenza nella fase interpretativa ed applicativa del contratto collettivo nazionale ed anche in sede di contrattazione integrativa. Ci possono poi essere dei Comitati di Settore ai quali possono dare vita le pubbliche amministrazioni attraverso delle proprie istanze associative o rappresentative il cui scopo è quello di consentire alle singole amministrazioni una più diretta partecipazione alla formazione della volontà contrattuale collettiva. Se volessimo riassumere le funzioni di questi Comitati avremmo il potere di indirizzo per quanto attiene alla contrattazione nazionale e il diritto di esprimere un parere sul testo contrattuale. A fronte di questa rappresentatività della pubblica amministrazione vi è quella dei lavoratori dipendenti per cui l’altro contraente è l’organizzazione sindacale che è abilitata a contrattare. Affinché l’organizzazione sindacale sia abilitata a contrattare deve avere una rappresentatività qualificata per cui nel comparto o nell’area questa rappresentatività qualificata è costituita dal fatto di non avere una rappresentanza inferiore al 5% della media fra il dato associativo ed il dato elettorale (conteggio molto complicato che io prendo soltanto sotto il profilo dell’espressione letterale e che mi guardo bene dall’andare a verificare con i conti perché non è la materia nella quale io brillo). Anche le Confederazioni Sindacali possono essere contraenti se vi sono affiliate le organizzazioni ammesse alla contrattazione che vi ho appena indicato. L’ARAN sottoscrive contratti previa verifica che le organizzazioni sindacali aderenti all’ipotesi di accordo rappresentino almeno il 51% secondo il criterio di media che vi ho detto prima o almeno il 60% del dato elettorale. Per quanto riguarda la contrattazione collettiva integrativa, i soggetti vengono individuati dalla contrattazione nazionale e dice che sono da privilegiare quegli organismi unitari che siano eletti dai lavoratori e cioè che siamo l’espressione autentica e reale dei lavoratori. Un aspetto interessante e divergente dalla contrattazione di natura privatistica è quello relativo all’efficacia dei contratti collettivi del pubblico impiego perché questi contratti vincolano le pubbliche amministrazioni. All’ARAN è attribuita dalla legge la rappresentanza legale agli effetti delle contrattazione collettiva per cui nel momento in cui l’ARAN stipula il contratto lo fa a nome di tutte le amministrazioni che legalmente rappresenta. Le pubbliche amministrazioni devono adempiere agli obblighi che sono assunti con i contratti collettivi. I contratti vincolano anche i dipendenti e questo per una necessità di parità di trattamento contrattuale anche per quanto attiene i minimi retributivi e poi anche perché è previsto che nel contratto individuale che viene stipulato con il singolo lavoratore vi sia un esplicito richiamo al contratto collettivo come fonte regolatrice concorrente del rapporto di lavoro pubblico. Nel contratto collettivo di diritto comune l’obbligatorietà del contratto nasce dall’appartenenza di entrambi i contraenti individuali alle associazioni di categoria per cui perché un contratto collettivo sia obbligatoriamente applicabile è necessario che il datore di lavoro sia iscritto alla associazione di categoria rappresentante i datori di lavori (ad esempio Confindustria) e che il lavoratore sia iscritto alla contrapposta associazione di categoria sindacale che ha stipulato il contratto (ad esempio CGIL, CISL, UIL). Se manca l’iscrizione di uno dei due il contratto non c’è. Quando nel 1959, ricordo molto bene perché esercitavo la professione già da quattro anni, uscì la Legge Vigorelli si intese proprio estendere l’efficacia erga omnes per cui il contratto collettivo depositato al ministero vincola tutti gli appartenenti a quella categoria, che la Corte dei Conti disse essere quella sindacale e non merceologica, indipendentemente dal fatto che si sia iscritti o meno all’associazione di categoria. Questa norma ha resistito per un anno, ma poi siccome era in violazione dell’art.39 della Costituzionale la Corte Costituzionale bocciò la legge perché era incostituzionale.
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Questa premessa per dirvi che, nell’ambito del pubblico impiego, anche se si sia detto il contrario dalla Corte Costituzionale, opera il principio della efficacia erga omnes per il contratto collettivo, perché questo contratto vincola il lavoratore dipendente pubblico indipendentemente dalla sua iscrizione a quella associazione di categoria che lo ha stipulato. Il controllo collettivo degli enti locali, per entrare nello specifico, prevede una procedura anche per l’interpretazione autentica del contratto collettivo e questo non è male. A me, come avvocato di lungo corso, è capitato tante volte di trovarmi di fronte ad un contratto collettivo senza capire cosa voglia dire una certa clausola. In questo caso io mi arrendo subito, perché non amo la contrattazione collettiva sotto il profilo dell’interpretazione e mi rivolgo a mia moglie per farmi spiegare cosa si vuol dire. Quando, però, andiamo in giudizio non è che l’altra parte ne abbia capito molto più di me e allora a me viene la tentazione di chiedere al giudice di informarsi presso le parti stipulanti per vedere cosa intendevano dire. Questo è un fenomeno che si è ripetuto recentemente, a proposito degli agenti di commercio, con l’accordo economico dell’anno scorso nel settore commercio, dove c’è una clausola che dice una cosa e poi la contraddice con un’altra clausola. Nel settore pubblico è prevista, quindi, una procedura di interpretazione autentica e quando sorgono delle controversie fra le parti stipulanti si deve fare un incontro per definire consensualmente il significato della clausola controversa e questo è un punto fondamentale. L’ultima cosa, ma solo in ordine di esposizione perché per me è la prima fonte di disciplina nel rapporto di lavoro, è il contratto individuale che unitamente al contratto collettivo costituisce la fonte privilegiata di regolamentazione del rapporto di lavoro. Questa fonte privilegiata comporta anche la parità giuridica fra le parti. Prima, invece, quando il rapporto non nasceva da un contratto (il contratto mette le parti sullo stesso piano giuridicamente) c’era una supremazia speciale della pubblica amministrazione sui propri dipendenti. I contratti individuali devono, comunque, conformarsi alle leggi del contratto collettivo il che esiste anche nel diritto privatistico. In questo ambito sono legittimati a disciplinare autonomamente anche la parte economica, ma il trattamento deve essere sempre uniforme in situazioni uguali e lo si dice anche nel diritto privastico (al riguardo è intervenuta anche la Corte Costituzionale) e a maggior ragione lo si deve dire nell’ambito. I contratti collettivi possono peraltro demandare al contratto individuale un’ulteriore regolamentazione predeterminandone, però, i criteri. Ho detto che il contratto individuale è divenuto veramente la fonte privilegiata di regolamentazione e, quindi, ritengo che a questo punto sia bene approfondire questo aspetto mentre sugli altri vi farò una panoramica più generale. Vi farò vedere anche quali sono le forme di contratto individuale che possono essere stipulate nell’ambito del pubblico impiego e qui cedo la parola alla mia correlatrice avv. Stracciari che vi intratterrà su questi aspetti. Avv. Vanna STRACCIARI Buongiorno a tutti. Io mi sono ritagliata questo piccolo spazio perché è più vicino al rapporto privatistico su cui io ho più esperienza. Devo fare una piccola premessa, cioè che quel processo di privatizzazione di cui abbiamo già parlato lo troviamo ormai in tutte le leggi nuove che escono, e così mi riferisco alla legge che ha modificato il sistema del collocamento (Legge n.297 del 19.12.2002) nella quale nell’indicare le nuove modalità di accesso al lavoro si fa un richiamo specifico anche alle pubbliche amministrazioni rispetto alle comunicazioni che dovranno essere fatte alle sedi competenti del collocamento. Diciamo che, quindi, anche la pubblica amministrazione dovrà, nel momento in verrà instaurato un rapporto di lavoro, fare la comunicazione immediata alla sezione del collocamento.
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Naturalmente, a monte di questa comunicazione, ci saranno stati degli adempimenti precedenti perché noi sappiamo che l’accesso nel lavoro degli enti pubblici è regolato la particolari norme (accessi per concorso, accessi per selezione). Ci sarà, quindi, a monte tutto un aspetto procedurale per accertare i requisiti o le modalità per accedere al lavoro nel settore pubblico, ma poi ci sarà questo passaggio obbligato da parte dell’ente pubblico nei confronti del collocamento. Questa è una piccola premessa per vedere come si sta andando sempre più attraverso un’omogeneizzazione dei rapporti di lavoro sia nei privati che nel pubblico. Abbiamo detto prima che la contrattazione collettiva ha pressoché efficacia di legge, seppure di una legge di secondo livello, perché prima ci sono le leggi ordinarie e le leggi speciali. La contrattazione collettiva ha per oggetto tutte le materie relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali. Da questo deriva che anche il contratto individuale di lavoro è regolamentato dalla contrattazione collettiva in quanto ai contenuti. Nel settore pubblico la contrattazione collettiva, per chi come me è abituato ad operare nel privato, è differente perché noi siamo abituati a prendere in mano un volumetto dove c’è tutto mentre nel settore pubblico non è così, perché non esiste un unico contratto del comparto, ma esistono più contratti relativi ad un comparto. Ci sono, infatti, una serie di contratti che si riferiscono ad un comparto ma che regolamentano in maniera settoriale certi istituti del rapporto di lavoro. Abbiamo visto prima che, oltre ad esserci una contrattazione collettiva a livello nazionale, c’è una contrattazione collettiva decentrata integrativa e più avanti vedremo che cosa può prevedere. Adesso passiamo al contenuto del contratto individuale, perché è quello che a noi interessa. Il contratto collettivo del 6 luglio 1994 all’art.14 prevede che il rapporto di lavoro sia costituito e regolato dai contratti individuali di lavoro e ci dice (tutto è regolamentato) quali sono i contenuti del contratto individuale. Come prima cosa, ci dice che deve avere la forma scritta che, comunque, vale ormai per tutto ed, infatti, la troviamo anche nell’ultima legge sul collocamento. Ci dice poi quali sono gli altri contenuti e il primo è la tipologia del contratto. Le tipologie del contratto sono analoghe a quelle del settore privato per cui c’è il contratto a tempo indeterminato, c’è il contratto a tempo determinato, c’è il contratto a tempo parziale, c’è il contratto di formazione e lavoro, c’è il telelavoro, che è una novità che viene presa in considerazioni anche dalle pubbliche amministrazioni e c’è il contratto interinale. La pubblica amministrazione, quindi, utilizza e si avvale di tutti quelli che sono le tipologie di contratto che ci sono anche nel diritto privato. Il contratto individuale deve contenere poi la data di inizio del rapporto, la data di scadenza nel caso di un contratto a termine, la qualifica professionale ed il livello di retribuzione iniziale, le mansioni corrispondenti alla qualifica di assunzione, la durata del periodo di prova e la sede dell’attività lavorativa. Questi sono più o meno tutti i requisiti che troviamo anche nel contratto di diritto privato. Nel contratto, che viene stipulato secondo le indicazioni del contratto collettivo, devono essere contenute delle ulteriori clausole. Al riguardo avevo anche portato dei lucidi che non credo facciamo in tempo a vedere, dove ho indicato le varie tipologie di contratto nelle quali deve essere indicato che il rapporto è regolamentato dalla contrattazione collettiva. Ci deve essere, quindi, un richiamo esplicito alla contrattazione collettiva vigente nel tempo della costituzione del rapporto anche in relazione alle cause di risoluzione del contratto e per i termini di preavviso. Inoltre nel contratto individuale deve essere introdotta una clausola di salvaguardia in relazione alla risoluzione del contratto in caso di annullamento della procedura. Nel rapporto di impiego pubblico può essere fatto un concorso o una selezione che poi vengono annullati per eventi particolari ed in questo caso il contratto di lavoro si estingue e questa clausola deve essere posta nel contratto perché mentre nel privato c’è il vincolo e basta nel pubblico si ha questa possibilità che consente all’ente pubblico di risolvere il contratto se c’è qualche intoppo nella procedura. 8
Nel contratto individuale deve essere anche indicato lo stipendio tabellare iniziale, l’indennità integrativa speciale, la tredicesima mensilità e gli eventuali elementi retributivi fondamentali o accessori che sono tipici di alcuni incarichi. Il mio compito è quello di esaminare questi contenuti nel modo più breve possibile per vedere quali possono essere le differenze in materia di diritto privato. Il periodo di prova è stabilito dalla contrattazione collettiva; è stabilito in due mesi per le qualifiche fino alla quarta e in sei mesi per le restanti qualifiche. Abbiamo, quindi, una determinazione contrattuale collettiva nella durate del periodo di prova come del resto lo abbiamo anche nella contrattazione privatistica. Il contratto collettivo ai fini della determinazione della prova dice che si tiene conto solo del servizio effettivamente prestato e allora si dice che, ad esempio, la prova è sospesa in caso di malattia e negli altri casi previsti da leggi e regolamenti quali, ad esempio, l’infortunio. Nel contratto collettivo si dice anche in che misura c’è il diritto di conservazione al posto in caso di sospensione per malattia e si dice che al massimo sono sei mesi. Per l’infortunio si fa un riferimento specifico all’art.22 del contratto del 6 luglio 1995, dove si dice “fino a guarigione clinica” oppure con una determinazione precisa prevista sempre dall’art.22. Nel caso di assenze giustificate che consentono la sospensione del periodo di prova vediamo che queste assenze danno diritto al trattamento economico. Decorsa la metà del periodo di prova, entrambi le parti possono recedere dal contratto ed il recesso opera dal momento della comunicazione all’altra parte. Il recesso della pubblica amministrazione, però, deve essere motivato, mentre nel settore privato questo non avviene. Il periodo di prova non può essere rinnovato. Il lavoratore dell’ente pubblico che si sposta da un ente all’altro mantiene, durante il periodo di prova che effettua nel nuovo ente, il diritto al ripensamento per tornare all’ente di prima nel senso che può rientrare, a domanda, nell’ente di provenienza. Questa disposizione si applica sia nell’ambito degli stessi enti sia nel caso il lavoratore provenga da un ente diverso. In quest’ultimo caso, però, c’è una condizione particolare, cioè che deve essere prevista anche nel contratto collettivo dell’altro comparto una norma analoga. Una volta che abbiamo esaminato il periodo di prova dobbiamo vedere un altro dei contenuti del contratto individuale e cioè sulle tipologie del contratto. C’è il contratto a tempo indeterminato, che è la regola più semplice ed il contratto tipico che noi conosciamo. C’è poi il contratto di lavoro part-time ed al riguardo vediamo da quale norma contrattuale è regolato. Il contratto part-time è regolato dal contratto collettivo del 14 settembre 2000 all’art.4 per cui vedete che nello stesso comparto abbiamo delle contrattazioni diverse. Gli enti locali possono costituire dei rapporti di lavoro parziale attraverso l’assunzione nell’ambito di una programmazione triennale del fabbisogno del personale oppure attraverso la trasformazione di rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale su richiesta dei dipendenti già occupati. Gli enti locali in questi casi fanno un’analisi delle esigenze organizzative e del loro fabbisogno e decidono i posti che possono essere trasformati a part-time. Dopo questa fase gli enti locali prenderanno in considerazione dapprima quelli destinati alle nuove assunzioni e quelli che residuano potranno essere oggetti di trasformazione a part-time da tempo pieno. Il lavoratore presenta la domanda e l’ente pubblico entro 60 giorni deve consentire la trasformazione a meno che non ci siano delle difficoltà organizzative e delle difficoltà che impediscano di procedere alla trasformazione immediatamente ed in questo caso nei 60 giorni si può chiedere un rinvio non, però, più lungo di sei mesi. I dipendenti part-time non possono superare il 25% della dotazione dell’organico complessivo dell’ente locale per cui si deve tener conto di questa percentuale che può essere superata solo nel caso in cui la contrattazione integrativa decentrata decida di aumentarla del 10%. In questi casi, la contrattazione integrativa può anche regolamentare quali sono le richieste che devono essere
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soddisfatte precedentemente come, ad esempio, le richieste dei portatori di handicap o le richieste di famigliari di portatori di handicap o di malati gravi. I dipendenti con rapporto part-time non possono avere un orario di lavoro inferiore al 30% di quello normale e quei lavoratori che hanno un rapporto di lavoro non superiore al 50% di quello a tempo pieno possono anche ottenere un’autorizzazione a svolgere un’attività autonoma o dipendente presso un altro ente per cui possono anche ottenere un’iscrizione presso un Albo Professionale. Il dipendente deve comunicare entro 15 giorni all’ente l’inizio dell’attività lavorativa o la variazione e l’ente ha sempre una possibilità di verificare che l’attività svolta all’esterno dal proprio dipendente non sia incompatibile con i compiti istituzionali perché in questo caso può negare l’autorizzazione. La costituzione del rapporto part-time o la trasformazione richiede naturalmente la forma scritta e deve essere indicata la durata della prestazione con riferimento all’orario giornaliero, settimanale, mensile o annuale tenendo presente che il part-time (come nel settore privatistico) può essere organizzato sia in maniera orizzontale, che verticale che mista, sempre compatibilmente con le esigenze dell’ente locale. Per quanto riguarda il trattamento economico il contratto collettivo dice che la retribuzione sarà adeguata e proporzionata all’orario di lavoro svolto e, quindi, tutti gli istituti contrattuali saranno rapportati all’orario di lavoro svolto dal lavoratore part-time. Nel settore privato il ritorno al tempo pieno è lasciato alla libera contrattazione delle parti, mentre nel settore pubblico è previsto, dal contratto collettivo, il diritto del lavoratore part-time di tornare a tempo pieno con la scadenza del biennio della trasformazione anche in caso di sovrannumero. Prima di tale scadenza, invece, non può ottenerlo se non vi sia la disponibilità in organico. I lavoratori assunti a part-time, invece, hanno diritto di chiedere la trasformazione, decorso un triennio e sempre a condizione che vi sia la disponibilità del posto in organico. Nel rapporto part-time si è posto anche il problema in ordine al lavoro supplementare “straordinario”, che nell’ente pubblico deve essere autorizzato perché altrimenti sorge il problema sulla possibilità di retribuirlo o meno. Il lavoro supplementare può esserci sia nel part-time orizzontale che verticale, anche se con diverse modalità perché si prevede che nel lavoro supplementare orizzontale si tratti di un maggiore orario che verrà retribuito con la retribuzione maggiorata di un 15% senza però superare il 10% dell’orario mensile. Se, ad esempio, l’orario part-time è di 100 ore al mese non si possono fare più di 110 ore. Per il part-time verticale, invece, la prestazione di lavoro supplementare può configurarsi solo nei giorni di effettiva prestazione per cui se c’è un part-time verticale il lunedì ed il mercoledì l’orario si potrà superare solo in quei due giorni e non negli altri giorni. Il ricorso al lavoro supplementare o aggiuntivo è ammesso per comprovate e specifiche esigenze organizzative e in presenza di situazioni di difficoltà organizzative derivanti da assenze di personale non prevedibili ed improvvise. Per quanto riguarda le ferie del part-time, diciamo che esse competono nella stessa misura di tempo del tempo pieno con l’orario ridotto se è un part-time orizzontale e proporzionate al numero di giorni di prestazione annua del lavoratore per il part-time verticale. Tutte le assenze previste dal contratto e per legge vengono retribuite proporzionalmente all’orario effettuato ed il periodo di prova e di preavviso hanno la stessa durata per il part-time orizzontale mentre per il part-time verticale devono calcolate con riferimento al periodo di effettiva prestazione. Voi vedete come ci siano molte affinità con la regolamentazione del settore privato anche se con qualche distinguo. L’altra fattispecie che abbiamo richiamato è quella del contratto a tempo determinato il quale è regolato dall’art.7 del contratto collettivo del 14 settembre 2000 ed ha subito una innovazione a seguito della nuova normativa (D.L.368 del 6 settembre 2001) che è stata emanata in attuazione della Direttiva n.70 del 1999 della Comunità Europea. Questa normativa che ha regolamentato 10
diversamente il contratto a tempo determinato ha efficacia anche nei confronti degli enti locali. Abbiamo, però, una fase transitoria in questo momento nel senso che nel D.L.368 è previsto in ingresso graduale della nuova normativa e all’art.11 comma 2 si stabilisce una ultra attività dei contratti collettivi nazionali che mantengono la loro efficacia fino alla scadenza. I contratti individuali stipulati, quindi, prima di questa legge mantengono la loro efficacia. La nuova normativa consente al datore di lavoro di assumere dipendenti con un contratto a tempo determinato purché sia con la forma scritta, sia indicato il termine e per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Il D.L.368 stabilisce anche che la mancanza della forma scritta o il fatto che si sia costituito illegittimamente un contratto a tempo determinato trasforma il contratto a tempo indeterminato. Nel settore pubblico questa regola non trova applicazione ed, infatti, la violazione di una norma nel settore pubblico non comporta mai la costituzione del rapporto di lavoro. Il lavoratore dell’ente locale, quindi, potrà eventualmente vedere se può chiedere un risarcimento del danno, ma il suo rapporto si estingue in ogni caso. In generale, diciamo che nel settore pubblico un contratto che viene annullato non dà il diritto al lavoratore di insistere per la prosecuzione del rapporto. L’art.7 del contratto del 14 settembre 2000 ha regolamentato il contratto a termine ed è precedente alla nuova legge anche se per molti versi trova ancora efficacia sia perché è ancora vigente sia perché ci sono dei principi che restano validi. È previsto, ad esempio, che la sostituzione può essere fatta anche con scorrimento. La sostituzione a scorrimento si ha quando viene assunto un dipendente in sostituzione, ad esempio, di una lavoratrice madre e poi al posto di questa lavoratrice non viene messo il nuovo assunto ma viene assunto un altro dipendente interno dell’azienda perché ha una conoscenza più specifica del lavoro. Ebbene questo sistema è possibile anche nel settore pubblico, ma in questo caso nella lettera deve essere indicato sia il sostituito che l’altro soggetto. È prevista anche la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato parziale come succede nel settore privato e poi è prevista anche la posizione di un periodo di prova la cui durata è diversa da quella vista in precedenza perché dipende dalla durata del contratto e, quindi, di due settimane per i contratti fino a sei mesi e di quattro settimane per contratti di durata superiore. Per quanto riguarda il trattamento economico, non c’è nessuna differenza rispetto ad un contratto a tempo indeterminato e le ferie maturano in rapporto alla durata del contratto. In caso di malattia, invece, si prevede che i trattamenti integrativi devono essere riproporzionati alla durata del contratto, ma se il contratto ha una durata inferiore a due mesi si dà il trattamento economico integrativo intero. Può capitare che un’assunzione a tempo determinato avvenga per una necessità urgente dell’ente locale e che si faccia direttamente senza concorso per cui vengono chiesti solo i requisiti di idoneità che sono previsti per questo particolare livello. In questo caso il rapporto si instaura, ma è subordinato alla presentazione da parte del lavoratore dell’idonea documentazione e nel caso in cui il lavoratore non la esibisca nei termini oppure non abbia i requisiti il contratto si risolve. Un’altra particolarità per i lavoratori del comparto pubblico è nel caso in cui il lavoratore sia stato assunto con contratto a tempo determinato e possa vantare un monte servizio di 12 mesi anche non continuativi. In questo caso, infatti, il lavoratore può essere adeguatamente valutato da parte dell’ente pubblico nel caso faccia delle successive selezioni per la stessa attività o, comunque, nello stesso ente. Un’altra fattispecie piuttosto interessante e che è stata introdotta dall’art.36 comma 7 del D.L. n.29 del 1993 e successive modificazioni (D.L.80 del 1998) è quella del contratto di formazione e lavoro. E’ stata, infatti, introdotta anche nel comparto pubblico la possibilità di stipulare dei contratti di formazione e lavoro. Questi contratti sono regolamentati dall’art.3 del contratto collettivo del 14 settembre 2000 il quale ha regolamentato tutte le fattispecie del rapporto di
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lavoro. Le obbligazioni principali per l’ente pubblico sono la retribuzione e la formazione che è finalizzata all’acquisizione di una professionalità. Per quanto riguarda il contratto di formazione e lavoro, vi sono alcune deroghe mentre per il resto i requisiti sono pressoché identici a quelli del settore privato. I requisiti dell’età, però, sono diversi perché l’accesso è limitato ai maggiorenni perché di regola nel settore pubblico è l’età minima per poter accedere al lavoro. L’età massima, invece, è di 32 anni. L’altro requisito molto importante che differenzia questo contratto da quelli privati è quello che alla scadenza (24-12 mesi come nel privato) il contratto di formazione non si conferma automaticamente ma scade ed il rapporto di risolve. Anche i contratti di formazione e lavoro devono essere oggetto di un programma triennale per cui l’ente deve decidere a priori. L’instaurazione di un contratto di formazione e lavoro non è consentita a quegli enti che abbiano dichiarato di avere delle eccedenze nei 12 mesi precedenti e questa è una norma analoga al settore privato dove le aziende andate in crisi non possono assumere lavoratori con contratto di formazione. Per quanto riguarda la formazione anche nel settore pubblico è previsto l’obbligo di un minimo di 20 ore per la tipologia B, un monte ore di 130 ore per la tipologia A e se un contratto di formazione e lavoro dovesse venire annullato perché l’ente locale non ha posto in essere quelle regole previste anche in questo caso il lavoratore non ha diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro ma il rapporto si risolse sempre per quel principio di salvaguardia che abbiamo visto all’inizio. Il contratto di formazione alla scadenza cessa e non può essere prorogato. L’unica situazione diversa prevista dal contratto collettivo è quella della sospensione dovuta a malattia, infortunio, maternità o servizio militare. Questo contratto non può essere risolto precedentemente se non per giusta causa come accade anche nel privato. Vi accennavo prima ad un altro strumento di flessibilità che anche l’ente pubblico ha preso in considerazione e cioè il telelavoro che è stato regolamentato dall’art.4 della Legge n.191 16 giugno 1998 e dal Regolamento n.70 dell’8 marzo 1999. Questa particolare prestazione di lavoro tende a razionalizzare l’organizzazione del lavoro e dell’economia di gestione e la norma demanda alla contrattazione collettiva la sua regolamentazione e, infatti, è stato approvato un contratto collettivo nazionale quadro il 23 marzo 2000 in cui si riconosce la validità sul piano economico e sociale di questa fattispecie di lavoro e poi si attendono ulteriori regolamentazioni in ordine alle modalità pratiche che devono rispettare due aspetti e cioè la funzionalità e flessibilità della pubblica amministrazione e l’esigenza di tutela del lavoratore in ordine ai suoi rapporti di socializzazione. Abbiamo visto che nei contenuti del contratto individuale deve essere indicata la qualifica professionale, il livello retributivo iniziale e le mansioni corrispondenti alla qualifica di assunzione. Per quanto riguarda la classificazione del personale vi dico che è regolamentata dall’art.3 del contratto collettivo 31 marzo 1999. Il sistema di classificazione è in quattro grandi categorie: A, B, C, D e per ogni categoria vi sono delle aree di posizione organizzativa (A1, A2, ecc.). La cosa eclatante che si differenzia dal rapporto di lavoro privato è che le mansioni che vengono individuate in ciascuna categoria sono esigibili in quanto professionalmente equivalenti. Noi, in materia di diritto privatistico, siamo abituati che nell’ambito dello stesso livello contrattuale c’è un’elencazione di mansioni ma non sempre il datore di lavoro può “impunemente” destinare ad una mansione, pur nello stesso ambito e nello stesso livello, il lavoratore piuttosto che un altro perché ci si potrebbe individuare una dequalificazione professionale ed il lavoratore potrebbe far ricorso al 2103 ed andare dal giudice. Nel settore pubblico questo ha un’importanza perché non avrebbe quella libertà di gestione di cui ha necessità e nel settore pubblico che una presunzione di legge in quanto tutte le mansioni che sono inserite in una certa categoria sono equivalenti per cui non si può discutere sui contenuti specifici di ciascuna. Nel settore pubblico può capitare che un lavoratore venga adibito a 12
mansioni superiori senza che questo comporto il diritto del suo inquadramento ad una qualifica superiore e qua c’è una grossa differenza col settore privato. Quando può capitare che un dipendente venga adibito a mansioni superiori? Quando vi siano delle esigenze obiettive di servizio oppure quando vi è una vacanza nel posto in organico. In questo caso, però, l’adibizione non può superare un certo periodo (di solito 6 mesi) e può arrivare fino a 12 quando è già stato fatto il bando di concorso per colmare il vuoto in organico. Il lavoratore non avrà diritto a pretendere la maggior qualifica, ma ha diritto nel momento in cui opera con delle funzioni superiori alla relativa retribuzione. Le categorie di cui vi parlavo prima sono individuate con le declaratorie che sono contenute in un allegato al contratto collettivo del 31 marzo 1999 e che descrivono l’insieme dei requisiti professionali necessari per lo svolgimento delle mansioni di pertinenza di ciascuna categoria. Per quanto riguarda l’aspetto retributivo diciamo che la retribuzione è prevista dal contratto collettivo. Ho qui un ritaglio che spiega in che misura sia incrementata la retribuzione negli enti pubblici nell’ultimo periodo e cioè del 16,4% anche se non se se lo raccontano per tranquillizzare i dipendenti degli enti pubblici o se è vero. L’art.52 del contratto del 31 marzo 1999 dà una diversa definizione della retribuzione a seco nda delle componenti di cui si tiene conto. Si parla, ad esempio, di retribuzione mensile (retribuzione minima), di retribuzione base mensile (retribuzione mensile più gli incrementi economici derivanti dalla progressione economica nella categoria più l’indennità integrativa speciale), retribuzione individuale mensile (retribuzione base mensile più la retribuzione individuale di anzianità, la retribuzione di posizione e gli eventuali altri assegni personale a carattere contributivo non riassorbibili), retribuzione globale di fatto (retribuzione per 12 mensilità più la tredicesima più l’importo annuale della retribuzione variabile più le indennità contrattuali percepite nell’anno di riferimento). Queste sono le definizioni dette molto rapidamente sulle quali bisognerà stare attenti per individuare correttamente di quale retribuzione si parli. Al lavoratore deve essere data una busta paga ed il contratto collettivo dice cosa essa deve contenere, cioè l’individuazione dell’ente, il nome e cognome del lavoratore, l’importo dei singoli elementi, il periodo di paga, l’elenco delle trattenute di legge e di contratto comprese le quote sindacali. Per quanto riguarda l’orario di lavoro vi dico che è regolamentato dall’art.17 del contratto collettivo del 6 luglio 1995. L’orario di lavoro è stabilito in 36 ore settimanali e il fatto che si parli di ore settimanali ci dà un’indicazione nel senso che di regola è articolato su 5 giorni alla settimana fatta eccezione per quei servizi che richiedono una presenza più continua. L’orario di lavoro è a livello settimanale per consentire una maggiore elasticità all’ente pubblico che può determinare, compatibilmente alle proprie esigenze, una diversa determinazione dell’orario rispetto alle giornate (solo al mattino o con rientri pomeridiani). Questo discorso, comunque, è lasciato all’iniziativa e alla sensibilità del dirigente responsabile il quale determinerà nell’ambito di ciascun ente le modalità più confacenti alle esigenze. Sullo straordinario la giurisprudenza non è sempre conforme perché c’è una controversia sul fatto se esiste un diritto alla retribuzione delle prestazioni effettuate oltre l’orario in mancanza di un formale provvedimento di autorizzazione. Al riguardo alcuni sostengono che il lavoro straordinario non deve essere una libera scelta del lavoratore, ma deve essere un preciso obbligo nascente da ragioni organizzative cogenti della pubblica amministrazione che ha imposto l’effettuazione di questo orario mentre un altro indirizzo richiede un formale provvedimento da parte della pubblica amministrazione perché si possa rivendicare il diritto alla corresponsione. Sembrerebbe, comunque, ovvio che la prestazione straordinaria deve essere richiesta ed autorizzata considerato che questo lo facciamo anche nel settore privato. Io mi scuso se sono andata un po’ troppo alla svelta, ma volevo dire più cose possibili.
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Coordinatrice Ringraziando l’avv. Gualtierotti e l’avv. Stracciari per la prima parte della crociera; devo sottolineare che l’iniziativa è stata possibile grazie all’intervento dello sponsor. Noi consulenti insieme allo sponsor siamo presenti qui in fiera allo stand C28. Vi prego di recarvi allo stand per l’accreditamento ai fini della formazione continua ed anche perché lo sponsor ci tiene a consegnarvi un piccolo omaggio. Grazie ancora e ci vediamo fra un quarto d’ora. Avv. Piero GUALTIEROTTI Con me riprende la navigazione, perché precedentemente abbiamo fatto una lunga escursione a terra con la nostra guida che ha sudato non solo in termine metaforico per entrare nel vivo del contratto individuale di lavoro nel pubblico impiego. Adesso riprendiamo, invece, la parte normativa di carattere generale che ci porterà ad esaminare gli aspetti sia della vita del rapporto che quelli dell’estinzione con delle caratteristiche e peculiarità che sono proprie del pubblico impiego. Faremo poi un accenno all’aspetto del contenzioso con il tentativo obbligatori di conciliazione. Avevo fatto accenno prima all’estensione dello statuto dei lavoratori anche al pubblico impiego e a questo riguardo l’art.55 del D.L.n.29 del 1993, che è il punto di riferimento di tutta la normativa successiva, prevede che la Legge n. 300 del 20 maggio 1970 notoriamente conosciuta come statuto dei lavoratori si applichi alle pubbliche amministrazioni. Nell’art.42 del D.L. n.165 del 2001 si parla, invece, in modo specifico dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro. La presenza sindacale nei luoghi di lavoro degli enti pubblici è da ravvisare in ciascuna amministrazione o ente che occupa più di 15 dipendenti e se vi è una pluralità di sedi o di strutture periferiche allora vengono anche presso queste strutture periferiche anche se sono considerate dei livelli decentrati di contrattazione salvo che i contratti collettivi stabiliscano un diverso limite numerico ai fini della costituzione di queste rappresentanze. Normalmente abbiamo due soggetti che sono paralleli (l’art.19 dello Statuto dei Lavoratori è ancora vigente sia pure con gli adattamenti del referendum) per cui abbiamo le rappresentanze sindacali aziendali a cui si aggiungono le rappresentanze sindacali unitarie. Queste rappresentanze sindacali unitarie possono assumere la veste di organismi rappresentativi unitari del personale e questi istituti di rappresentanza dei lavoratori vengono equiparati ai fini della fruizione dei benefici che sono riconosciuti dalla Legge n.300 per coloro che esplicano un’attività sindacale in seno alla unità nella quale lavorano. Vi sono delle particolarità nel pubblico impiego alle quali faccio riferimento e che sono costituite dal fatto che, mentre l’art.19 prevede che la costituzione della rappresentanza dei lavoratori avvenga ad iniziativa dei lavoratori stessi, nel settore del pubblico impiego la costituzione di questa rappresentanza spetta alle organizzazioni sindacali. In verità, comunque, di norma questo avviene anche nel privato perché sono i contratti collettivi che prevedono che le rappresentanze sindacali siano costituite dalle organizzazioni sindacali esterne anche se come principio di legge sarebbe ad iniziativa dei lavoratori. Sempre per quanto riguarda le differenziazioni, vediamo che nel privato ad avere diritto alla rappresentanza sono le organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, mentre nel pubblico sono le organizzazioni sindacali che sono ammesse alle trattative per la sottoscrizione del contratto anche se poi non lo sottoscrivono. Per quanto riguarda la fruizione dei permessi retribuiti o non retribuiti, nel privato sono concessi pariteticamente mentre nel pubblico in proporzione al grado di rappresentatività. Nel contratto degli enti locali abbiamo avuto inizialmente come soggetti sindacali nei luoghi di lavoro indicati RSA e RSU e da ultimo di parla di organismi di tipo associativo dell’associazione sindacale rappresentativa. 14
Un aspetto interessante che mi preme sottolineare per le sue particolarità ed anche per delle eventuali difficoltà di distinzione fra un codice di comportamento e un codice disciplinare è costituto dal fatto che nell’ambito del pubblico impiego noi abbiamo un potere disciplinare che, però, vede come premessa un codice di comportamento disciplinato dall’art.54 del D.L.165. Il Dipartimento della Funzione Pubblica, sentite le Confederazioni Sindacali rappresentative, definisce un codice di comportamento dei dipendenti del pubblico impiego che vale per tutti i dipendenti e per tutte le pubbliche amministrazioni. A questo codice di comportamento deve essere data la massima pubblicità che deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed inoltre all’atto dell’assunzione deve essere consegnato ad ogni singolo dipendente pubblico. Questo codice di comportamento comporta la privatizzazione del contenuto sostanziale del rapporto di lavoro pubblico ed indica i doveri si servizio e gli obblighi comportamentali che devono assolvere i dipendenti pubblici. Ne è, quindi, derivata una privatizzazione del diritto disciplinare che non più trova origine nella legge ma piuttosto nella contrattazione collettiva. Bisogna fare attenzione a non confondere il codice comportamentale con il codice disciplinare anche se una certa fusione l’abbiamo proprio nel settore degli enti locali perché c’è un riferimento al codice comportamentale anche come codice disciplinare. Il codice comportamentale viene recepito nei contratti collettivi e le pubbliche amministrazioni di solito sollecitavano l’ARAN nel momento in cui dovevano essere stipulati i contratti a far sì che questo codice comportamentale venisse allegato al contratto collettivo e che successivamente venisse recepito nel contratto collettivo e questa differenza è importante. La ricezione codice comportamentale nel contratto collettiva fa sì che quel codice assuma natura pattizia e cioè è l’effetto di una contrattazione fra le parti e non è qualcosa di estraneo o esterno, ma è qualcosa che entra a far parte del contratto collettivo e, quindi, assume valore contrattuale. Le singole amministrazioni naturalmente possono integrare questo codice comportamentale elaborato dal Dipartimento della Funzione Pubblica se riscontrano che non sia agevolmente applicabile all’amministrazione op che richieda delle integrazioni per effetto di particolari servizi che vengono forniti dall’amministrazione. Il codice comportamentale attuale è quello del 28 novembre del 2000, il quale indica i principi ed i criteri del comportamento quotidiano del pubblico dipendente. Il pubblico dipendente deve comportarsi secondo un codice di comportamento che delinea la configurazione di un buon pubblico dipendente e, infatti, i principi enunciati in questo codice sono l’imparzialità, la responsabilità del pubblico dipendente in relazione ai compiti che gli sono stati attribuiti, la cura dei beni che gli vengono assegnati, la riservatezza nelle informazioni dell’amministrazione, la collaborazione con i cittadini e con gli utenti dei servizi, la semplificazione dell’attività amministrativa a favore dei cittadini e delle imprese, la sussidiarietà (favorire l’esercizio delle funzioni da parte di tutte le autorità che sono più vicine ai cittadini interessati alla fruizione di un servizio), il rispetto dell’ordine cronologico delle pratiche, il non rifiutare la prestazione, il rispetto degli appuntamenti, il non richiedere regali, il non utilizzare ad uso personale materiali e attrezzature dell’ufficio. È evidente che si vuole creare una mentalità che diventi un costume, cioè un modo abituale di comportarsi da parte della pubblica amministrazione attraverso i suoi dipendenti, che vada a sostituire quello che a volte abbiamo sempre considerato un mal costume. Questa è la vera svolta anche nel comportamento del dipendente che viene individuato come un punto di riferimento importante, ma che è a disposizione del cittadino. Il contratto degli enti locali ha preceduto i tempi, perché ancora in quello del 6 luglio 1995 sono enunciati e recepiti questi principi che sono inseriti nel capo relativo alle norme disciplinari (art.23: doveri del dipendente). L’art.23 ricalca, infatti, il codice comportamentale del 28 novembre 2000 e a questo riguardo bisogna stare attenti perché c’è una fusione. L’art.24 quando parla dei provvedimenti disciplinari dice che chi viola i comportamenti di cui all’art.23 mentre nell’art.25 c’è il codice disciplinare per cui ci sono due punti di riferimento e cioè che il 15
comportamento del lavoratore dipendente pubblico deve essere conforme a quanto stabilito dal codice di comportamento (art.23 del contratto collettivo) e dal codice disciplinare (art.25 del contratto collettivo). Da questo ne deriva che il codice comportamentale di cui all’art.23 va affisso come va affisso il codice disciplinare. Nel pubblico impiego, nella norma di riferimento che ho richiamato più volte, è detto quanto noi sappiamo attraverso la giurisprudenza, e il codice disciplinare ha un solo mezzo ufficiale di pubblicazione, cioè l’affissione. Io mi ricordo che, nei primi tempi dell’emanazione dello Statuto dei Lavoratori, ho avuto qualche causa nelle quali dimostravo che nonostante non fosse affisso il codice disciplinare il lavoratore conosceva il suo dovere di comportamento, perché gli era stato dato il contratto collettivo nel momento dell’assunzione. La giurisprudenza, però, poi ha completamente cambiato idea e si è stabilita su questo nuovo indirizzo che stabilisce che non esiste un sistema sostitutivo all’affissione che permette la conoscibilità a tutti del codice. Se poi qualcuno per negligenza non si lo va a leggere sono fatti suoi mentre se qualcuno lo sa indipendentemente dall’affissione questo non comporta che noi abbiamo assolto all’obbligo che ci impone l’art.7, primo comma, dello Statuto dei Lavoratori. Questo è un aspetto che io segnalo alle pubbliche amministrazioni, perché quando nell’ente locale si fa riferimento al contratto collettivo quel codice di comportamento va ad integrare il codice disciplinare del’art.25 e va affisso come forma di pubblicità. Questi sono gli aspetti che anche noi, come professionisti, dobbiamo segnalare all’ente pubblico proprio per metterlo in allarme rispetto a quelli che domani potrebbero essere dei provvedimenti inficiati di nullità già all’origine per un vizio di forma banale. Nell’ambito degli enti locali c’è stato uno dei primi codici di comportamento adottati a proposito delle molestie sessuali, tanto per dirvi come ci sia una certa sensibilità ed avanguardia negli enti locali, rispetto a delle problematiche di carattere generale che riguardano anche il diritto privato. La tipologia delle infrazioni e le relative sanzioni sono demandate ai contratti collettivi per esplicita previsione dell’art.55. Si noti, però, che l’art.55 dice che al dipendente pubblico si applicano l’art.2086 del Codice Civile e l’art.7 dello Statuto dei Lavoratori limitatamente ai commi 1, 5 e 7. L’art.2106 del Codice Civile è quello che disciplina le sanzioni, ma diciamo che questo articolo ha trovato una specifica regolamentazione nell’art.7 dello Statuto dei Lavoratori. Quando il legislatore del 2001 dice che si applica l’art.7 comma 1 intende riferirsi alla pubblicità del codice disciplinare che è l’affissione mentre quando si riferisce al comma 5 intende dire che il provvedimento disciplinare non può essere adottato prima che siano decorso cinque giorni dalla constatazione scritta (nel pubblico impiego i giorni sono di più perché sono normalmente sono 15). Quando il legislatore fa riferimento al comma 8 intende dire che non si può tenere conto provvedimenti disciplinari dopo due anni dalla loro applicazione. Le disposizioni specifiche sono quelle che ogni pubblica amministrazione deve individuare nell’ufficio competente per il procedimento disciplinare. Io ho avuto recentemente il caso di un Comune che proceduto ad un licenziamento disciplinare e mi sono reso conto che il responsabile dell’ufficio non era nemmeno un dipendente del Comune, ma era un ex segretario di un altro Comune in pensione perché l’ufficio di disciplina non necessariamente deve essere un ufficio interno e questo già vi dice quale spazio ci sia anche per le categorie professionali. Questo ufficio competente per i provvedimenti disciplinari è quello che, su segnalazione del capo struttura, contesta l’addebito, istruisce il procedimento e applica la sanzione che nel caso precedente era addirittura il licenziamento. C’è solo un’eccezione, perché il rimprovero verbale e la censura (rimprovero scritto) sono adottati dal capo struttura e cioè dal dirigente del settore. Ad eccezione del rimprovero verbale (come avviene nel privato) vi è da rispettare una precisa procedura che vuole la contestazione scritta dell’addebito, la convocazione del dipendente, l’audizione a difesa con l’eventuale presenza del procuratore o del rappresentante
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dell’associazione sindacale della quale fa parte il lavoratore o alla quale dia un incarico specifico per l’occasione. Decorsi inutilmente 15 giorni dalla convocazione, il provvedimento deve essere adottato nei 15 giorni successivi e qui c’è un problema notevolissimo che risale al diritto privato. Noi sappiamo, infatti, che possiamo adottare il provvedimento prima che decorrano 5 giorni dalla contestazione per iscritto secondo lo Statuto dei Lavoratori mentre qui si parla di 15 giorni, ma se il lavoratore presenta le giustificazioni nel corso di quei 5 giorni e si deve adottare un provvedimento lo si può adottare anche se non sono decorsi i 5 o i 15 giorni del pubblico impiego? Questo problema non è stato ancora risolto dal pubblico impiego perché ricalca, cambiando soltanto i termini temporali, la normativa dell’impiego privato. Questa non è una valutazione di poco conto, perché se si sbaglia la procedura può saltare il licenziamento per quanto possa essere fondato e perché se c’è un termine entro il quale bisogna adottare il provvedimento devo sapere da quando fare decorrere il termine. Noi abbiamo avuto una giurisprudenza della Cassazione che ha detto una cosa e poi l’ha contraddetta per cui non sappiamo bene come stanno le cose. La filosofia della giurisprudenza della Cassazione nel suo indirizzo predominante dice che il termine dei cinque giorni è categorico perché questo periodo di tempo deve consentire al lavoratore di fare un’integrazione e perché i cinque giorni sono stati concepiti dal legislatore in relazione al fatto che è meglio che il datore di lavoro ci pensi per vedere se il provvedimento disciplinare deve essere effettivamente adottato o meno. Se vogliono fare veramente una riforma della magistratura direi che sarebbe bene che prima di fare il giudice una persona facesse un po’ di attività variegate mettendo prima i piedi nelle aziende per vedere cosa vuol dire fare il datore di lavoro ed il dipendente e poi facesse un po’ il professionista per vedere come si applica la norma della vita quotidiana. In questo modo forse avremmo delle sentenze più aderenti alla realtà perché adesso siamo arrivati a dei punti veramente assurdi. Questo è un aspetto molto delicato e per noi molto difficile. Io, che sono mantovano, adotto il nostro modo di dire che dice “sto dalla parte del granoturco” il che vuol dire mettersi al sicuro per cui consiglio sempre di aspettare i cinque giorni prima di adottare il provvedimento proprio per non incorrere nei rischi di un vizio di forma che annulla la validità del comportamento disciplinare sia esso conservativo o estintivo del rapporto. C’è una caratteristica significativa nel pubblico impiego a proposito delle sanzioni disciplinari e cioè che è ammesso il patteggiamento. È ammesso, infatti, che il lavoratore al quale deve essere erogata una certa sanzione disciplinare concordi con il datore di lavoro una sanzione disciplinare inferiore. In questo caso, però, visto che si è ottenuto il patteggiamento questa sanzione non è più impugnabile da parte del lavoratore. L’impugnazione si può fare entro i venti giorni successivi all’applicazione della sanzione anche se qui il termine applicazione non è del tutto appropriato. La sanzione, infatti, può venire impugnata dopo averla già applicata e verrà revocata successivamente solo se considerata infondata. A me è capitato più di una volta che venga impugnata la sanzione quando la sospensione è già stata eseguita. Quando non ci sono apposite procedure di conciliazione e arbitrato stabilite dai contratti collettivi vige l’art.56 del D.L.165, per cui si va davanti alla Conciliazione della Direzione Provinciale del Lavoro del luogo nel quale il lavoratore è addetto e si applica l’art.7 comma 6 e comma 7 della Legge n.300. L’impugnazione del provvedimento, cioè, deve avvenire entro 20 giorni dall’applicazione e si ha la sospensione dell’applicazione se non è ancora avvenuta e deve essere nominato il rappresentante entro 10 giorni dall’invito. La Direzione Provinciale comunica l’impugnazione e chiede di nominare, entro 10 giorni, il rappresentante al datore di lavoro, perché unitamente a quello del lavoratore formano il collegio arbitrale. È prevista anche una procedura di conciliazione interna alla pubblica amministrazione, perché l’art.55 prevede che si possa impugnare anche davanti al collegio arbitrale di disciplina dell’amministrazione nella quale il dipendente lavora e, poi, questo collegio deve emettere una 17
decisione entro 90 giorni dall’impugnazione e l’amministrazione ha l’obbligo di conformarsi alla decisione del collegio di disciplina. Più amministrazioni omogenee o affini fra loro possono istituire un unico collegio di disciplina e questa cosa io l’ho vista anche dalla mie parti mantovane. Diamo per vista la vita del rapporto di pubblico impiego e vediamo, invece, come il rapporto di pubblico impiego si estingue. L’estinzione di questo rapporto nel pubblico ha visto delle grosse innovazioni nella parificazione all’impiego privato ed, infatti, si applicano le stesse disposizioni del rapporto di lavoro privato. Gran parte dei contratti collettivi dei vari comparti dedicano proprio un capo all’estinzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento può avvenire per motivi disciplinari con o senza preavviso, perché con la giusta in causa c’è il licenziamento in tronco mentre con il giustificato motivo soggettivo c’è il licenziamento con preavviso. Al riguardo la Cassazione ha detto che tutte le volte in cui la risoluzione del contratto viene attribuita ad un comportamento del lavoratore si ha un licenziamento disciplinare per cui si deve applicare l’art.7 dello Statuto dei Lavoratori altrimenti si può dichiarare la nullità. Un’altra causa legittimante il licenziamento è l’impossibilità sopravvenuta per malattia o infortunio del lavoratore ma qui devo fare una parentesi attraverso i richiami alla giurisprudenza della Cassazione. È sempre stato detto che, quando il lavoratore perde la capacità di compiere in misura piena la sua mansione oggetto del contratto di lavoro, il datore di lavoro può risolvere il rapporto perché il contratto prevede che ciascuna della parti abbia una precisa obbligazione (il lavoratore deve svolgere un lavoro in cambio del quale riceve una retribuzione proporzionata) e se viene meno da parte di uno dei contraenti la possibilità di assolvere alla sua specifica obbligazione si può procedere al licenziamento perché non c’è nessun obbligo di mutare l’obbligazione contrattuale. È sempre stato detto, infatti, che il datore di lavoro non ha l’obbligo di andare a verificare se nell’ambito della sua azienda vi è la possibilità di recuperare il lavoratore per mansioni diverse. Ad un certo punto, però, la Cassazione ha cambiato completamente indirizzo dicendo che quando il lavoratore perde la capacità a svolgere determinate mansioni oggetto del contratto che ha stipulato il datore di lavoro deve adottare il licenziamento solo come estrema ratio perché prima deve verificare se nell’ambito dell’azienda c’è la possibilità di occupare quel lavoratore in mansioni diverse. Questo viene detto non perché lo dica la legge sui licenziamenti, ma perché lo dice il Codice Civile nei principi generali, cioè perché si tratta di un comportamento di correttezza e di buona fede che deve assumere il creditore della prestazione lavorativa. Perché si dovrebbe assumere uno dall’esterno per svolgere quel certo lavoro quando hai un’altra persona già dentro che si può riconvertire in quelle mansioni? L’impossibilità sopravvenuta che viene buttata lì come una delle cause legittimanti la risoluzione del rapporto potrebbe domani andare ad incappare nella Cassazione nel momento in cui risultasse che il lavoratore ha, comunque, la possibilità di repechage. A parte che questo può avvenire, comunque, nell’ambito della pubblica amministrazione. Un’altra causa è il raggiungimento massimo dell’età che comporta l’automatica risoluzione del contratto, ma anche a questo riguardo qualche problema può nascere perché sono stati dichiarati, dalla Cassazione, illegittimi e nulli alcuni contratti collettivi che prevedevano che al raggiungimento dell’età massima pensionabile il rapporto si risolveva automaticamente il che, tra l’altro, comporta il non riconoscimento del preavviso. Quando il lavoratore raggiunge quell’età per la quale si può effettivamente effettuare il licenziamento io posso, se il preavviso è di 6 meni, comunicarglielo 6 mesi prima che lui raggiunga quell’età? La Cassazione ha detto di no perché si ha diritto al licenziamento solo quando la persona ha compiuto l’età stabilita per cui se lo si avvisa prima del compimento dell’età lo si fa in un momento in cui il lavoratore ha ancora diritto a rimanere assunto. Il problema, quindi, è sul licenziamento che diventa illegittimo e sul diritto al preavviso che decorre dal momento della risoluzione del rapporto. 18
Altre ipotesi di risoluzione del rapporto di pubblico impiego sono le dimissioni, che si perfezionano con la comunicazione scritta che è un requisito di validità. Come il contratto nasce con una forma scritta, così il contratto si risolve con una forma scritta sia per il licenziamento che per le dimissioni. Il contratto si risolve poi per decesso: in questo caso è agli eredi che spetta l’indennità sostitutiva di preavviso ed il TFR così come stabilito dall’art.2122 del Codice Civile. Abbiamo una causa risolutiva espressa senza riconoscimento del preavviso che voi avete già sentito riecheggiare nella precedente parte della relazione, cioè l’annullamento della procedura di reclutamento, che costituisce il presupposto dell’assunzione, comporta l’automatica risoluzione del contratto. È quella che, nell’ambito del diritto civile, chiameremmo una causa che dà luogo a una clausola risolutiva espressa. In pratica per il solo fatto che si verifica questo evento il contratto si risolve. Mentre, però, nella norma di applicazione usuale si tratta di una facoltà dell’altra parte del contratto risolverlo, qui la risoluzione è automatica. Se poi vogliamo entrare nel particolare del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo teniamo presente che anche al pubblico impiego si applicano gli articoli n.2119 del Codice Civile (giusta causa), n.3 della Legge 604 del 1966 (giustificato motivo) e n.18 dello Statuto dei Lavoratori (reintegrazione). Per quanto riguarda il licenziamento non vi è una distinzione fra tutela reale e tutela obbligatoria, perché in ogni caso abbiamo al’rt.18 per cui anche la pubblica amministrazione che avesse un solo dipendente, nel momento in cui il licenziamento viene dichiarato illegittimo, ha l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro. Nell’art.3 esistono due fattispecie di giustificato motivo e cioè quello soggettivo e quello oggettivo. Quello soggettivo è il notevole inadempimento dell’obbligazione contrattuale mentre quello oggettivo è quello che prescinde da un comportamento colpevole del lavoratore, ma che attiene a delle esigenze di carattere tecnico, organizzativo e produttivo del datore di lavoro. Fino agli ultimi provvedimenti legislativi nell’ambito dell’impiego pubblico, questa fattispecie di giustificato motivo oggettivo non si poteva verificare perché bastava che ci fosse un solo licenziamento e si applicava la legge sugli esuberi. Da ultimo, invece, questa procedura è stata resa applicabile solo a quelle amministrazioni che effettuano almeno dieci licenziamenti, per cui fino a quel limite numerico si può avere una serie di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. Anche nel rapporto di pubblico impiego sono i contratti collettivi che individuano le fattispecie della giusta causa e del giustificato motivo. A questo riguardo vi ricordo che queste fattispecie che vengono riprodotte nei contratti collettivi sono delle mere esemplificazioni perché non esiste tassatività. I contratti collettivi, infatti, prevedono una serie di cause ma ce ne possono essere ben più del doppio che legittimano il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo. Proprio perché si tratta di una definizione legale, il giudice può prescindere dalla qualificazione data di giustificato motivo e di giusta causa dalla contrattazione collettiva. L’art.2119, infatti, cosa dice? Dice che si ha una giusta causa quando si è in presenza di quella causa che è di gravità tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Ma chi lo dice qual è il grado di gravità che connota di giusta causa quel comportamento del lavoratore? Il contratto collettivo, ma anche il giudice che potrebbe anche ritenere che in quel caso specifico il comportamento non costituisce giusta causa. Questo vale anche per il giustificato motivo soggettivo che il notevole inadempimento delle obbligazioni contrattuali anche se a questo riguardo è più facile poter dire al giudice che quelle fattispecie che sono state individuate dalla contrattazione collettiva hanno diritto di cittadinanza in assoluto perché sono le parti contrattuali che hanno dato rilevanza ad un certo comportamento come effettivamente idonea a determinare un notevole inadempimento dell’obbligazione contrattuale. Ma siamo sempre nelle mani del giudice sia nel privato che nel pubblico.
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Il contratto collettivo nazionale di lavoro degli enti locali prevede il licenziamento con preavviso ed il licenziamento in tronco con delle fattispecie circostanziate agli articoli 24 e 25 di quel contratto che prima vi ho indicato il quale dice quando può verificarsi un comportamento che concretizza la giusta causa e quando, invece, è giustificato motivo soggettivo. Questa normativa è stata poi integrata da un altro contratto collettivo del 13 maggio 1996 che ha aggiunto, a questi casi che vi ho indicato, il compimento del limite massimo di età ed il raggiungimento dell’età massima, le dimissioni, il decesso ed il superamento del periodo del conservazione del posto. Ma qui possiamo andare a recuperare qualche principio prima a proposito dell’impossibilità sopravvenuta perché prima di procedere al licenziamento per superamento del periodo di conservazione del posto la pubblica amministrazione deve verificare se vi è l’idoneità di quel lavoratore ad un proficuo lavoro in un profilo diverso da quello nel quale era prima occupato. Se, infatti, la possibilità è compatibile con la struttura organizzativa e vi è la disponibilità in organico allora quel lavoratore può essere utilizzato anche in altre mansioni equivalenti o, con il consenso del lavoratore, inferiori. Questa è la ricezione dei principi enunciati dalla Cassazione. Questo è l’unico caso in cui, in violazione dell’art.2103 del Codice Civile, si può dequalificare il dipendente anche se non si tratta della dequalificazione propria del 2103 in quanto quella dell’art.2103 è un comportamento unilaterale del datore di lavoro nel corso del rapporto mentre qui si mette il lavoratore nella possibilità di scelta fra un male peggiore o minore (perdere il posto di lavoro o averne uno di qualifica inferiore). Un aspetto che mi ha sempre interessato è quello relativo alla mobilità e trasferimento nel pubblico impiego perché ha delle sue particolarità. Io qua ho tre bicchieri, uno di acqua minerale, un prosecchino ed un recioto amarone di 15°, e devo dire che il Veneto ha veramente dei prodotti che meritano di essere assaggiati come io, come vedete, sto facendo. Scusate la pausa. Parliamo del trasferimento e della mobilità. Nel settore pubblico la mobilità va intesa come una pluralità di ipotesi riferibili allo spostamento del dipendente. Ora dobbiamo vedere da cosa è determinato questo spostamento per individuare poi la normativa che lo regola. Noi possiamo avere una mobilità volontaria e, in questo caso, vi è la possibilità dell’amministrazione di ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica presso altre amministrazioni. Questo, però, può avvenire solo ad iniziativa del lavoratore e la domanda deve essere inoltrata all’amministrazione nella quale si intende essere trasferiti ed inoltre ci vuole la preventiva approvazione dell’amministrazione di appartenenza che potrebbe anche dare parere negativo. I contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire le procedure. Abbiamo poi il trasferimento del lavoratore, che oggi nel pubblico impiego è disciplinato esattamente con riferimento all’art.2103 del Codice Civile che vieta il trasferimento se non per motivi di carattere tecnico, organizzativo e produttivo che lo rendano giustificabile. Quando, quindi, è disposto unilateralmente occorrono queste ragioni tecnico, organizzative o produttive che, nel contratto collettivo degli enti locali, assumono la connotazione di motivi organizzativi e di servizio. In presenza di questi motivi, infatti, la pubblica amministrazione può effettuare il trasferimento del lavoratore ai sensi dell’art.2103 del Codice Civile. Nel contratto collettivo ci si è anche preoccupati di prevedere un trattamento economico per quel lavoratore, ed eventualmente per i suoi familiari, quando il mutamento di luogo di lavoro porti anche il cambio di residenza del lavoratore. Possiamo poi avere un trasferimento di attività, cioè quella che, nell’ambito del diritto privato, noi individuiamo come il trasferimento d’azienda. Noi vediamo il realizzarsi della fattispecie per effetto di attività che sono trasferite o conferite ad altri soggetti sia privati che pubblici. Il personale in questo caso passa alle dipendenze del nuovo datore di lavoro e si applicano non solo l’art.2112 del Codice Civile, ma anche l’art.47 della Legge n.428 del 1990 e cioè la preventiva 20
consultazione sindacale. Si devono, quindi, osservare le stesse regole del trasferimento nell’ambito del rapporto di impiego privato. Infine abbiamo una mobilità collettiva e cioè l’eccedenza del personale alla quale l’art.33 del D.L. n.165 ha dato particolare regolamentazione prestandovi una sensibile attenzione. Le pubbliche amministrazioni che rilevano eccedenza di personale di almeno 10 dipendenti (anche più dichiarazioni di eccedenza nel corso di un anno) applicano le disposizioni della Legge n.223 del 1991 dandone informazioni anzitutto alle organizzazioni sindacali e si applica questa norma anche per quanto riguarda i famosi criteri di scelta (art.5) che sono la mia quotidiana disperazione quando c’è un licenziamento collettivo. I contratti collettivi di lavoro nazionale possono stabilire criteri generali e procedure per la gestione delle eccedenze attraverso il passaggio diretto ad altre amministrazioni. Se c’è, quindi, un’amministrazione in deficit di organico può ricevere questi lavoratori iscritti in elenchi appositi. I lavoratori eccedenti sono collocati in disponibilità ed anche se c’è una differenza di terminologia la sostanza è sempre quella. Restano in questo periodo sospese tutte le obbligazioni del rapporto di lavoro perché in quel momento il lavoratore non è occupato anche se resta alle dipendenze del datore di lavoro. In questi casi il lavoratore ha diritto ad un’indennità pari all’80% della retribuzione più l’indennità integrativa speciale e viene iscritto in appositi elenchi ai fini della riqualificazione professionale o della ricollocazione in altra pubblica amministrazione per 24 mesi dopo di che, se il lavoratore non è stato ricollocato, il rapporto si risolve. Questa è la totale parificazione del lavoratore dipendente pubblico al lavoratore dipendente privato, naturalmente con degli adattamenti in relazione a questa particolare figura di datore di lavoro e di lavoratore. Il fatto che la sostanza sia ormai uguale consente a noi professioni di muoverci con una certa disinvoltura che prima non avevamo. Io ho cominciato a fare cause di pubblico impiego negli anni novanta, mentre prima non le volevo fare perché c’era da andare al TAR mentre per me la giustizia ordinaria è il giudice. Io sono andato un paio di volte al TAR, ma non mi sono divertito, perché non è il mio modo di concepire il processo. Successivamente i Comuni hanno cominciato a chiedere consulenza per un lavoratore che ha piantato una grava per il recesso in periodo di prova prima del periodo minimo o per il licenziamento di una lavoratrice che faceva la cresta per cui ho dovuto affrontare le cause e mi sono accorto che da quel momento il mio era solo un pregiudizio. A proposito delle controversie della giurisdizione, che sono regolamentate dall’art.63 del D.L., noi abbiamo l’art.409 del Codice di Procedura Civile che dice, ai punti 4 e 5, che sono devolute al giudice devolute al giudice ordinario (giudice del lavoro) perché sono controversie individuali di lavoro quelle relative al rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici economici e quelle dei rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici non devoluti dalla legge ad altra giudice (prima erano devoluti al TAR). Ad un certo punto si è fatta una lunga marcia di avvicinamento dal 73 per portare a un’assimilazione con il processo privato e questo è avvenuto attraverso l’art.68 della L.29 del 1993 che è il faro, l’art.11 della L.59 del 1997 (Legge Bassanini), l’art.68 del D.L.80 del 1998 che poi ha avuto una modifica quasi immediata con il D.L.387 del 1998. Attualmente c’è l’art.63 del D.L. 165 del 30 marzo 2001 e sono devolute al giudice ordinario (giudice del lavoro) le controversie relative al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e si intendono per pubbliche amministrazioni tutte le amministrazioni dello Stato compresi Istituti, Scuole, altre Istituzioni educative, Aziende e Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane e loro Consorzi e Associazioni, Istituzioni universitarie, Istituti Autonomi Case Popolari, Camere di Commercio e loro Associazioni, Enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, Amministrazioni, Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Locale e ARAN. 21
Come notate, quindi, tutti i dipendenti di tutte le amministrazioni quando hanno una controversia si rivolgono al giudice del lavoro e vi sono comprese (è detto esplicitamente dall’art.63) le controversie concernenti le assunzioni al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e di responsabilità dirigenziale, le indennità di fine rapporto denominate e corrisposte anche se vengono in questione atti amministrativi presupposti. In questo caso se il giudice ritiene che quegli atti amministrativi siano illegittimi non manda le parti dal giudice amministrativo, ma disapplica l’atto amministrativo ritenuto illegittimo. Sono devolute al giudice le controversie per comportamenti antisindacali (art.28 dello Statuto dei Lavoratori) anche se queste sorgono nell’ambito del pubblico impiego. Fanno eccezione e sono escluse dal rito del lavoro ordinario le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti e cioè quella fase che precede l’assunzione perché risente ancora del diritto amministrativo. Direi che il residuato del diritto amministrativo nell’ambito del rapporto di pubblico impiego è il concorso, cioè il modo di accedere al posto di lavoro anche se la procedura concorsuale oggi è affiancata in modo rilevante da quella selettiva che normalmente avviene all’interno della singola pubblica amministrazione. Ci sono poi alcune controversie che qui non ci interessano e riguardano alcune specifiche categorie di lavoratori come i magistrati, gli avvocati, procuratori, personale militare, ecc. che non vanno davanti al giudice ordinario. A proposito dei contratti collettivi, si può ricorrere in Cassazione anche per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali e questo, secondo me, ne denuncia la natura pubblicistica. In Cassazione si può ricorrere solo per violazione e falsa applicazione di norme di legge (a parte vizi di sentenze, illogicità e contraddittorietà della motivazione) tanto è vero che quando abbiamo un problema di contratto collettivo che, secondo noi, è stato male interpretato dal giudice non possiamo ricorrere in Cassazione per l’errata interpretazione perché non è legge. A volte, quindi, si passa attraverso la finestra invece che attraverso la porta e si dice che c’è un’illogicità e contraddittorietà nella motivazione. Solo i contratti corporativi dell’epoca fascista e i contratti erga omnes dell’era repubblicana hanno efficacia di legge e, quindi, possono essere impugnati in Cassazione. Il fatto che esplicitamente si preveda che si può ricorrere in Cassazione anche per violazione del contratto collettivo nazionale nel pubblico impiego ne denuncia chiaramente quella natura pubblicistica che la Corte Costituzionale ha voluto negare pur in presenza di un’evidenza. Importante è la sentenza che riconosce il diritto all’assunzione a effetto costitutivo e cioè quel rapporto che è nato per effetto della sentenza senza la volontà delle parti. Se nel collocamento obbligatorio il lavoratore veniva avviato senza la richiesta e non veniva assunto il lavoratore non poteva pretendere che fosse dichiarata la costituzione del rapporto e poteva richiedere solo il risarcimento del danno. Quella sentenza, invece, fa sì che il rapporto si sia costituito indipendentemente dalla volontà delle parti. La sentenza che accerta l’assunzione in violazione di norme sostanziali o procedurali ne comporta l’effetto estintivo per cui il rapporto si risolve per il solo fatto che il giudice ha dichiarato illegittimo o nullo quel provvedimento di assunzione o che atteneva alla formazione della volontà nell’assunzione del dipendente. Da ultimo veniamo al tentativo obbligatorio di conciliazione. Il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dagli articoli 65 e 66 del D.L.165 è una conseguenza della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico e la procedura è quella prevista dai contratti collettivi ed in mancanza vi è il collegio di conciliazione presso la DPL, nella cui circoscrizione vi è l’ufficio al quale è addetto il lavoratore, che è deputato ad esperire questo tentativo. La composizione del collegio è data dal direttore o un suo delegato, il rappresentante del lavoratore e il rappresentante della pubblica amministrazione e il collegio si forma di volta in volta. Il tentativo di conciliazione obbligatorio deve essere promosso dalla parte che intende adire il giudice e, di norma, si tratta del lavoratore anche se può capitare che sia il datore di lavoro. 22
L’istanza che si fa al collegio il lavoratore o la pubblica amministrazione deve contenere la designazione del rappresentante della parte che formula l’istanza o la delega della nomina di questo rappresentante all’organizzazione sindacale. Questa istanza deve poi essere consegnata direttamente al collegio o spedita con raccomandata con avviso di ricevimento e questa forma deve essere adottata per la copia che deve essere avviata all’amministrazione di appartenenza. Entro i dieci giorni successivi il direttore fissa la comparizione delle parti e il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’organizzazione sindacale; per l’amministrazione deve comparire una persona munita di procura a conciliare la controversia, come avviene nell’ambito del diritto privatistico. Se la conciliazione riesce, anche parzialmente, viene redatto il verbale ed è titolo esecutivo. Questa conciliazione non può essere impugnata ai sensi dell’art.2113, come prevede l’ultimo comma dell’articolo stesso a proposito di tutte le conciliazioni che avvengono in sede amministrativa o in sede sindacale davanti al giudice. Ho sottolineato la particolarità del titolo esecutivo perché non l’abbiamo nel diritto privato e, quindi, qui è stato fatto un passo avanti. Quando noi andiamo davanti alla commissione di conciliazione e raggiungiamo un accordo con il lavoratore, nel quale riconosciamo una certa somma da corrispondere successivamente, quel verbale non acquista efficacia di titolo esecutivo se non viene depositato presso la cancelleria del tribunale che poi rilascia l’esecutorietà del titolo. Il verbale che noi redigiamo davanti alla commissione di conciliazione è, però, una prova qualificata e può essere utilizzata per un decreto ingiuntivo, mentre il verbale che viene redatto in sede di conciliazione del pubblico impiego, essendo titolo esecutivo, consente già il precetto che è un’intimazione di pagamento entro 10 giorni decorsi i quali si passa al pignoramento. In questo modo si scavalca la fase di ingiunzione ed è un vantaggio rispetto al dipendente privato. Se non avviene l’accordo c’è una particolarità, perché il collegio deve formulare una proposta bonaria di conciliazione e se non viene accettata il verbale deve contenere le valutazioni delle parti perché vengono acquisite in giudizio e costituiscono un elemento di valutazione da parte del giudice. Notate che il legislatore è talmente intenzionato a ridurre il contenzioso (cosa che non riesce a fare, perché sbaglia) che ha detto esplicitamente che non può essere attribuita alcuna responsabilità amministrativa al rappresentante della pubblica amministrazione che raggiunge la transazione, sia in sede di conciliazione amministrativa che davanti al giudice. Il rappresentante della pubblica amministrazione, infatti, deve avere una procura a conciliare proprio per essere al riparo da responsabilità amministrative. Il mancato espletamento del tentativo di conciliazione determina l’improcedibilità dell’azione esattamente come avviene nel procedimento privato. Il giudice, quindi, se rileva che non è stato attivato il procedimento in via amministrativa deve sospendere il processo e dare un termine per il tentativo e poi viene riassunto. Anche a questo riguardo c’è una novità, che per me avvocato è di grande interesse e che vorrei che fosse recepita nel processo del dipendente privato, cioè è stato detto che quando non è stato esperito il tentativo di conciliazione il giudice sospende il processo che poi viene riassunto e questo non avviene attualmente nell’impiego privato dove le parti rimangono sulle posizioni iniziali. La parte nei confronti della quale è stato promosso il giudizio senza aver prima esperito il tentativo può, nel ricostituirsi nel giudizio riassunto, modificare o integrare le sue domande o eccezioni e cioè può cambiare la sua linea difensiva e questa cosa nel processo del lavoro è assolutamente impossibile. In questo caso, invece, viene rimessa in corsa la parte che ha subito il processo senza il tentativo di conciliazione ai fini dell’eventuale impostazione diversa della sua linea difensiva. Avv. Vanna STRACCIARI Attualmente l’ente gestore è l’INPDAP, che è stato istituto con un Decreto Legislativo del 30 giugno 1994 per cui è una creatura relativamente giovane ed è stato istituito per razionalizzare la 23
gestione degli aspetti previdenziali dei lavoratori del settore pubblico, perché in precedenza c’erano una miriade di enti (ENPAS, INADEL, Cassa di Pensione gestita dal Ministero del Tesoro, CPBL, CPS, CPI e la CPUG). Questo conglobamento che è stato effettuato nell’ambito di un solo istituto ha dato una razionalizzazione ed una funzionalità maggiore alla gestione della previdenza. L’INPDAP è stato investito di una serie notevole di funzioni: quella più importante è sicuramente la gestione delle pensioni, oltre a quella del trattamento di fine servizio e noi sappiamo che ci sono tre denominazioni in ordine al trattamento di fine servizio. L’INPDAP svolge anche delle funzioni assistenziali, sociali e di mutualità, nel senso che può fare prestiti e mutui nei confronti dei dipendenti in servizio, ma anche agli enti pubblici, può assegnare borse ed assegni di studio ai figli o agli orfani degli iscritti o dei pensionati, master in economia pubblica o economia pubblica, ospitalità nei centri vacanza per i figli e gli orfani degli iscritti e dei pensionati, ospitalità in case albergo per gli anziani, ospitalità in convitti per i figli e gli orfani e assicurazione sociale vita. Ha, quindi, una funzione non solo previdenziale in senso stretto, ma anche previdenziale e assistenziale in senso lato. La funzione principale dell’INPDAP è quella di finanziarsi, per cui c’è la riscossione dei contributi obbligatori che sono versati dagli enti pubblici oltre naturalmente all’attività di gestione del proprio patrimonio. L’INPDAP ha una sede principale a Roma in Via Cristoforo Colombo, che è un po’ spostata rispetto alla nostra sede del Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro perché è al n.44 ma sempre nella stessa direttrice. Ha, però, cercato di organizzarsi anche a livello periferico con delle sedi compartimentali o provinciali il cui elenco con relativi numeri di telefono si trova in Internet. La prestazione fondamentale è quella pensionistica e, al riguardo, adotta i vari sistemi di calcolo che sono stati previsti (sistema retributivo, misto, pensioni dirette di vecchiaia e di anzianità, pensioni di inabilità, pensioni privilegiate, pensioni di reversibilità ai superstiti). L’INPDAP gestisce anche le indennità di fine servizio, che sono denominate in maniera diversa a seconda dell’ente di provenienza. C’è, infatti, l’indennità di buona uscita, l’indennità a premio servizio ed il trattamento di fine rapporto per quei dipendenti che sono entrati nella contribuzione dal 2000. L’INPDAP svolge poi un’attività di riscatto dei vari periodi lavorativi svolti ai fini pensionistici e poi di ricongiunzione dei periodi svolti presso altre gestioni. Per quanto riguarda le indennità, abbiamo l’indennità a premio di servizio che è quella indennità che viene data al momento della cessazione del rapporto per conto della ex gestione INADEL e riguarda i dipendenti assunti entro il 31 dicembre 2000. Si tratta di una somma che viene erogata nella misura pari ad 1/15 dell’80% della retribuzione contributiva e degli ultimi 12 mesi comprensiva dell’indennità integrativa speciale e per ogni anno di servizio valutabile. Viene erogata entro una certa data dalla cessazione del rapporto di lavoro (entro 270 giorni) e la domanda deve essere presentata entro 105 giorni dalla cessazione del servizio. Abbiamo poi l’indennità di buona uscita, che è quella che riguarda l’ex gestione ENPAS e anche questa riguarda i lavoratori con contratto stipulato entro il 31 dicembre 2000. Anche questa indennità viene erogata nella misura di tanti dodicesimi dell’80% dell’ultimo trattamento retributivo compresa la tredicesima e l’indennità integrativa speciale per quanti sono gli anni di servizio. Anche in questo caso il termini della presentazione della domanda sono 105 dalla cessazione del rapporto e l’erogazione deve avvenire entro 270 giorni dalla cessazione del servizio. Queste indennità, che continueranno per un certo periodo per rapporti ancora in vigenza, si sono poi unificate nel trattamento di fine rapporto, per cui dai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati dopo il 31 dicembre 2000 e per i contratti a tempo determinato in essere al 30 giugno 2000 o stipulati successivamente le modalità di calcolo sono quelle del TFR, cioè della normativa che già conosciamo nel settore privato. Il calcolo dell’accantonamento viene fatto applicando una percentuale del 6,91% della retribuzione utile per il TFR per cui
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l’accantonamento viene fatto con questa percentuale rispetto ai sistemi che noi applichiamo per 13,5 l’emolumento di tutto l’anno. Per quanto riguarda l’aspetto contributivo negli enti locali, i contributi devono essere versati all’INPDAP, ma vengono gestiti dall’ex CPDL, dall’ex INADEL e poi c’è l’FPC (fondo di garanzia a carico del lavoratore) e poi l’INPS per la disoccupazione e lo o,20% con l’avvento del TFR. Le percentuali sono il 32-35% per la CPDE di cui l’8,55% a carico del dipendente, per l’INADEL è un 4,88% con un 2% a carico del dipendente, per l’INPS lo 0,20% del TFR a carico del lavoratore. Anche nel settore pubblico si applica poi l’1% di contribuzione aggiuntiva quando si superano quei massimali di cui non so darvi l’importo. Gli enti locali hanno inoltre anche l’IRAP sulle retribuzioni che è l’8,50%. I versamenti vengono fatto per quanto riguarda l’INPS all’INPS con il DM e l’F24, mentre per quanto riguarda gli altri contributi vengono versati ancora attraverso la tesoreria provinciale e per lo 0,35% attraverso un modellino tipico della Banca d’Italia ma indirizzato anche questo alla tesoreria provinciale. Questo per fare un sunto veloce prima di parlare dell’INAIL. Avv. Piero GUALTIEROTTI Per quanto riguarda l’assicurazione infortuni non c’è nessuna particolare differenziazione, lasciando perdere la gestione dei dipendenti dello Stato che è del tutto particolare di cui all’art.127 del Testo Unico. L’art.9 del Testo Unico quando parla dei datori di lavoro ai fini di individuare i soggetti che sono tenuti ad assicurare i propri dipendenti si riferisce alle persone a gli enti privati e pubblici compreso lo Stato e gli Enti Locali quando nell’esercizio dell’attività si trovino ad essere elencati fra quelle attività che sono previste dall’art.1 del Testo Unico e quando occupino persone che sono individuate dall’art.4 del Testo Unico. A fronte, quindi, di un’attività dell’ente pubblico che rientra fra quelle classificate dall’art.1 e di fronte a persone che sono individuate all’art.4 sorge l’obbligo assicurativo come per qualsiasi altro datore di lavoro. C’è un caso curioso che mi ha interessato e che ho dovuto affrontare con esito purtroppo negativo e che riguarda i vigili urbani. Nel mio libro sulla assicurazione e infortuni che è uscito a settembre nell’ultima edizione ho affrontato questo problema ed ho detto che è stato escluso che possano essere ricompresi nella tutela assicurativa i lavoratori quali i vigili urbani che per le mansioni a cui sono adibiti operano nel traffico e sono esposti al rischio di essere investiti da autoveicoli condotti da altri soggetti. Al riguardo, la Corte Costituzionale ha osservato, ma c’è anche una sentenza della Cassazione del 1995, che pur avendo l’elencazione dei soggetti tutelati a carattere esemplificativo e non tassativo e potendosi ricomprendere in essa tutti i lavoratori esposti allo stesso tipo di rischio deve tuttavia ritenersi necessaria ai fini della tutela infortunistica la sussistenza dell’elemento oggettivo previsto dalla legge e cioè del rischio specifico derivante dalla conduzione di veicoli a motore in maniera non occasionale mentre il rischio derivante dalla circolazione dei veicoli e gravante su qualunque utente della strada è privo del menzionato carattere di specificità. Cosa si voleva dire? Era successo che un vigile urbano, immesso nel traffico per la sovrintendenza del traffico stesso, è stato investito e non ha avuto tutela assicurativa perché era a piedi e non su un mezzo motorizzato. Il rischio della strada coinvolge qualsiasi cittadino per cui non è un rischio specifico mentre quando si tratta di un vigile che svolge la sua attività con un veicolo a motore è previsto in modo preciso dalla norma la tutela infortunistica. Ora è uscita (io l’ho vista questo mese) una sentenza della Cassazione, la n.364 del 20 novembre 2002, che ha detto che si era sbagliato tutto (cosa che succede quotidianamente in Cassazione) perché la tutela spetta anche a questo povero vigile urbano. Se un vigile è incollato alla sedia dell’ufficio ed usa il centralino telefonico, una calcolatrice elettrica ed il fax è assicurato perché è addetto ad una macchina che potrebbe portare ad un infortunio mentre se è in mezzo alla strada 25
non è tutelato. Qui ci deve essere, quindi, un errore. Non si può parlare di un rischio generico della strada nei confronti del vigile urbano che si trova immesso nel traffico. Il rischio generico del pedone è attenuato da fatto che il pedone ha a disposizione il marciapiede e quando attraversa la strada ha le strisce pedonali tanto è vero che se viene investito sul marciapiede o sulle strisce pedonali chi lo investe dovrà risarcire i danni. Il vigile urbano, però, non può svolgere la sua attività stando sulla striscia pedonale o sul marciapiede ma deve immettersi nel traffico per cui per lui il rischio diventa un rischio specifico della sua attività. A me non convince, però, la conclusione della Cassazione, la quale dice che dobbiamo interpretare in modo estensivo il lavoro del vigile urbano addetto a piedi alla viabilità stradale che rientra nell’attività protetta a norma dell’art.1 terzo comma del Testo Unico. Questa norma prevede una serie di casi in cui c’è l’assicurazione, indipendentemente dall’esistenza di macchine o meno, ed è un ampliamento della fattispecie di lavoratori che si trovano ad operare in condizioni disagevoli su strade ed altre. Io avrei, invece, visto di più l’affermazione di un rischio ambientale. Voi sapete che è assicurato contro gli infortuni il lavoratore che è addetto a determinate macchine, ma anche il lavoratore che non è addetto alle macchine ma che si trova nell’ambiente dove le macchine operano: questo è il rischio ambientale. Secondo me, il vigile urbano è soggetto ad un rischio derivante dall’ambiente in cui opera, perché le macchine gli girano intorno. Con questa sentenza si viene a modificare l’indirizzo giurisprudenziale e, quindi, vi do la lieta novella di andare a dire ai vigili urbani che da questo momento sono assicurati contro questi infortuni. Noi abbiamo cercato di fare del nostro meglio, ma la materia è molto vasta. Adesso l’aspirazione di mia moglie e mia è di toglierci dal pubblico e riportarci al privato. Buongiorno. CONCLUSIONE Come al solito, noi ci aspettiamo sempre molto e si ascolterebbe anche fino a sera, ma bisogna interrompere, ringraziando i relatori per questo argomento molto interessante che vale la pena portare in ogni provincia. Ringrazio anche tutti i presenti e i colleghi che sono venuti qua nonostante la giornata non sia delle più tranquille, a causa degli impegni di studio, e la cui presenza credo abbia contribuito a trasformare questa occasione formativa in un’opportunità politica di promozione della nostra categoria nei confronti degli enti locali. Ringrazio gli sponsor, l’ANCI Veneto che ci ha ospitati e, infine, voglio ringraziare i colleghi di Treviso che si sono fatti promotori di questo incontro, specialmente la nostra collega Laura Dalla Torre che è stata l’anima di questa iniziativa. Grazie a tutti e arrivederci. Vi ricordo di passare dallo stand C28 per firmare la vostra presenza relativamente al credito formativo. Grazie.
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