Alessandra Broccolini, Rosina Floris, Donato Maraffino, Alessia Patanè, Elvira Picozza, Giovanni Raponi
GUERRA, RACCONTO E MEMORIA nei Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca dei Volsci e Sonnino (1943 - 1944)
a cura di Donato Maraffino
Progetto della Regione Lazio “Settant’anni dopo. La memoria della seconda guerra mondiale sul territorio della Regione Lazio” Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca dei Volsci e Sonnino (Latina)
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Alla cara bibliotecaria dott.ssa Pierina Carfagna Con gratitudine, a te e alla tua sensibilità, dedichiamo questo lavoro fatto insieme, perché, pur nel dolore per la tua scomparsa, si possa conservare il ricordo della tua operosa tenacia nel servizio culturale alla comunità di Priverno.
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Indice Introduzione
pag. 7
Guerra vissuta, guerra narrata
pag. 11
di Donato Maraffino
Ascoltare, dialogare, condividere
pag. 25
Questioni di equilibrio: ricordare/dimenticare
pag. 51
Gli eroi silenziosi dell’altra Resistenza
pag. 65
Zeithain, campo di morte
pag. 76
Da Sonnino ai campi di prigionia jugoslavi
pag. 121
Il diario
pag. 131
La memoria si racconta
pag. 159
Dall’alto, al basso... attraverso
pag. 197
di Alessandra Broccolini di Giovanni Raponi di Elvira Picozza
di Padre Luca M. Airoldi di Rosina Floris
di Innocenzo Pennacchia di Alessia Patanè
di Giovanni Raponi
Settant’anni dalla Guerra: percorsi nella memoria
di Luisella Fanelli, Donato Maraffino e Benedetto Supino
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pag. 215
Ringraziamenti
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opo un lungo anno di lavoro e incontri, consegniamo al Lettore questo volume, che è opera di molte mani, di molte intelligenze, di svariate sensibilità e disponibilità. In primo luogo gratitudine, ricordo e affetto vanno alla Dott.ssa Pierina Carfagna che proprio nella fase di stampa del presente lavoro è venuta meno all’affetto dei suoi cari e della comunità di Priverno, dopo che con determinazione, impegno e consigli ha accompagnato ideazione e inizio di tutto il nostro percorso di ricerca. Con il suo prezioso lavoro ha dato vita alla biblioteca comunale per molti anni. Ci mancheranno i suoi consigli, la sua tenacia, il suo lavoro come punto di riferimento della cultura della nostra comunità. Per il presente lavoro ringraziamo inoltre: i Sindaci dei quattro Comuni della Rete, insieme ai loro delegati Franco Greco, Giuseppe Papi e Maurizia De Angelis e la dott.ssa Carla Carletti (responsabile del settore cultura del Comune di Priverno) per il sostegno e la gestione del progetto; il Consiglio Comunale dei Giovani, il Centro Sociale Anziani, le Associazioni dei Combattenti e Reduci, l’Associazione Nazionale dei Carabinieri in congedo, la Croce Rossa di Priverno, l’Associazione Culturale Ricercatori “Militaria” e i cittadini che ci hanno accompagnato nel lungo percorso di scoperta delle memorie; l’Assessore alla Cultura, dott.ssa Lidia Ravera e i Dirigenti e responsabili di settore della Regione Lazio*, la dott.ssa Sabrina Varroni, la dott.ssa Paola Guerrini, il direttore dott.ssa Miriam Cipriani e i Dirigenti scolastici, che hanno accettato la sfida di un lavoro integrato e di complesso coordinamento. Un ringraziamento va a Elvira Picozza (docente del team e fino al febbraio 2015, Assessore alla Cultura del Comune di Priverno) che con convinzione, sensibilità e determinazione ha dato un contribuito per l’ideazione, il sostegno al progetto e la sua realizzazione, insieme alla dirigente Luisella Fanelli, per il convinto contributo didattico e la disponibilità organizzativa. Una gratitudine particolare va a tutti i docenti del team per la presenza, la pazienza e la costanza nel superare le difficoltà e nel perseguire il senso e gli obiettivi del lavoro deciso sempre insieme. Un saluto e un encomio speciale va ai ragazzi, alle famiglie, agli anziani e ai cittadini che hanno condiviso questa esperienza e che ci hanno dimostrato quanta ricchezza umana, intelligenza e positiva sensibilità ci siano nelle nostre comunità e quanto sia giusto sempre più sostenere una memoria e una cittadinanza consapevole. Il coordinatore del progetto Prof. Donato Maraffino
* Il progetto è finanziato dalla Regione Lazio (in base alla determinazione n. G03172 del 17/03/2014)
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Gentile Lettore,
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li ultimi giorni di maggio del 1944 segnarono la fine delle operazioni militari della seconda guerra mondiale nel nostro territorio e, anche se il conflitto terminò l’anno seguente, il dramma vissuto dalle popolazioni si era ormai compiuto, tanto da lasciare indelebili e profonde ferite nella vita delle nostre Comunità e nelle memorie popolari. In quest’ambito si è ritenuto importante stimolare una ricerca, un confronto sui caratteri specifici della violenza militare sopportata dalle comunità del Lazio meridionale e del Mezzogiorno d’Italia, fino alla liberazione di Roma e sui dati della ricerca storiografica e delle memorie orali, scritte o d’altro tipo oggi disponibili. Per riprendere gli ultimi racconti e le memorie, non sempre coincidenti con le diverse narrazioni storiografiche, un team di docenti, dirigenti scolastici, amministratori dei Comuni di Priverno, Prossedi, Roccasecca e Sonnino nell’ambito del Progetto della Regione Lazio “Settant’anni dopo. La memoria della seconda guerra mondiale sul territorio della Regione Lazio”, si è impegnato ad attivare esperienze di ricerca, ascolto delle memorie e uso delle fonti. A loro, ai servizi culturali va il nostro più sincero ringraziamento per un lavoro che ha visto partecipi alunni, cittadini, anziani e famiglie, insieme ad associazioni e istituzioni locali dei comuni della rete del progetto. Oltre che una nutrita serie di incontri di storia, di metodologia del trattamento delle fonti orali, di rappresentazioni teatrali, il team conclude il suo lavoro pubblicando questo volume che siamo felici di consegnare al pubblico, ai cittadini di oggi e di domani perché si costruisca una più profonda coscienza dei fatti di allora, con il fine di migliorare la comprensione del passato delle nostre comunità e ampliare il dialogo tra i futuri cittadini della nuova Europa.
Dott. Andrea Polichetti Commissario Straordinario del Comune di Priverno Dott. Angelo Pincivero Sindaco del Comune di Prossedi Dott.ssa Barbara Petroni Sindaco del Comune di Roccasecca dei Volsci Dott. Luciano De Angelis Sindaco del Comune di Sonnino
Priverno, Ottobre 2015 5
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Introduzione
uesto non è un libro di storia. E’ piuttosto un libro di storie e di domande sulle storie personali e comunitarie. Ed è un libro di domande sulle storie di un tempo vicino, di settant’anni or sono e delle violenze e miserie subite e, alcune volte, dimenticate.
La guida a tali domande è stata l’inesauribile spinta alla verità, non assoluta ben s’intende, ma quella ragionevolmente accettabile, perché spesso la maggior parte degli uomini si accontenta dell’opinione prevalente piuttosto che “(…) ricercare la verità, che gli è indifferente e preferisce adottare le opinioni che gli giungono già pronte.” Questa disincantata affermazione di Tucidide continua per molti aspetti a restare vera, perché risulta molto faticoso controllare e soppesare con metodo e pazienza i fatti e gli eventi, piuttosto che credere. E se alcune volte la tendenza a “credere” è intrinseca all’umano, altre è frutto delle condizioni, delle mutevoli esperienze della vita ordinaria o di quella estrema, come quella passata tra le violenze di una guerra o dei campi di prigionia, di cui si occupano le testimonianze qui raccolte. E forse quando è troppo tragica e dolorosa la realtà, molto pervasiva è la necessità di acquietare la coscienza, di riporre nel fondo di ognuno il dolore patito e, forse, dimenticare.
E proprio questo movimento di deposizione definitiva della memoria in verità codificate e trasmesse, che la critica storica e l’indagine antropologica non possono accettare, perché se il compito della ricerca è riprendere il filo dei discorsi, nei meandri delle narrazioni si trovano sempre inciampi, vuoti, angoli in ombra, riflessi inspiegabili.
Questa mania di cercare risposte all’inspiegabile guida anche chi vuole comprendere gli eventi di quella guerra totale che i popoli europei hanno sopportato e che sono stati oggetto del lungo percorso di studio e ricerca svolto da docenti e alunni delle scuole dei Comuni di Priverno, Sonnino, Roccasecca dei Volsci e Prossedi. In fondo, questo è un particolare sentimento d’amore per la ricerca, lo stesso che ha animato Marc Bloch quando, la mattina del 16 giugno 1944 a Saint Didier de Formans, nei pressi di Lione, dopo essere stato torturato, prima di venire fucilato da un plotone di SS, in cuor suo forse avrà pensato alla sua vita donata alla storia, così elogiata nell’Apologie pour l'histoire ou Métier d'historièn di cui non avrebbe visto la pubblicazione. E per lui, sollevarsi dal fango e dal sangue delle trincee, osservare i fatti tragici della sconfitta delle democrazie, e darsene una ragione “storica” e “antropologica” non deve essere stato movimento 7
Guerra, racconto e memoria
da poco. Sospendere la propria idea di giustizia e la sete di libertà, dal giudizio storico è cosa difficilissima. Specialmente oggi, tempo in cui memoria e storia si confondono e/o sono confusi e il ricordo e le passioni facilmente sostituiscono la ponderazione dei fatti.
Ma non è questo il rischio che corre questo volume. In esso si usano le fonti (testimonianze ufficiali e quelle diffuse nei ricordi popolari) con delicatezza e accortezza, senza l’apologetica del dolore, ma portando allo scoperto gli angoli sottovalutati del vissuto delle comunità lepine e ausone durante il biennio 194344. Dal gennaio 1944, l’offensiva anglo-americana (che aggiunse alla Linea Gustav il secondo fronte con lo sbarco di Anzio e Nettuno) chiuse questo territorio in una terribile tenaglia militare, con un plus di violenza inaspettata e non comprensibile, che si riversò sulle popolazioni dei Comuni adagiati tra il Garigliano, Fondi-Terracina, la Pianura Pontina, la Valle del Fiume Amaseno e parte dei monti Lepini. Una violenza mai vissuta che si aggiungeva alle razzie, deportazioni, fucilazioni già perpetrate dalla Wehrmacht nei lunghi mesi precedenti.
In casi così estremi l’antropologo si chiede cosa avviene agli uomini, lo storico cerca spiegazioni del perché ciò sia successo, ma sanno entrambi che si devono dirigere lì dove passioni, ragioni, ideologie e bisogni materiali si concentrano, per capire il “senso” dell’accaduto. E questo luogo si può trovare nella memoria dei viventi o nelle testimonianze lasciate (nelle carte d’archivio o nei luoghi di vita, di lavoro o di preghiera). Lo storico diviene il «cacciatore» onnivoro di questi dati, di tracce, di segni e testimonianze che sono fonti intellegibili soltanto se sollecitate da interrogativi originali, posti con rigore metodologico e onestà intellettuale. E l’onestà intellettuale è non fare della storia narrata o delle testimonianze la conferma del già pensato, ma farsi attirare dalle dissonanze, dagli angoli difficili dei racconti già tramandati. Così come questo testo, che è uno sguardo sugli uomini, sulla fatica di conoscerli e sul rispetto dei loro difetti. E pur confessando la loro innegabile scelta di parte, cioè che la liberazione dal nazifascismo era una necessità per la libertà e il futuro dell’Europa, gli autori ricostruendo quel plus di violenza inutile (alcuni bombardamenti, gli stupri sulle donne e le terribili stragi o i campi di prigionia e di morte), ci indicano il senso dell’onestà intellettuale. In fondo il racconto storico è colorato in chiaroscuro, con perimetri labili, transitori. Chi è attirato dagli uomini e dalla loro vita nel passato non preferisce il posto sicuro dell’identità, ma ama situarsi sulle aree di “confine”, o nella terra di mezzo, in cui le autorità si dileguano e gli attraversamenti sono la regola. Siamo in tempi difficili per la storia, inondati dal passato nelle fiction, nei passaggi televisivi, nella storia proposta dagli attori stessi degli eventi e in quella 8
Introduzione
a portata di mano nell’enciclopedia totale di internet. Eppure, mai come oggi, il tempo della memoria e delle identità si è accorciato e mai la frattura tra la storia narrata e quella ricostruita con fonti scritte, trova così difficile ricomposizione. E’ come se il tramonto delle ortodossie storiche, figlie di un mondo bipolare, che hanno attraversato tutte le società dell’Occidente, determinandone faglie profonde e impenetrabili al dubbio, abbia lasciato aperti nuovi spazi di libertà nella ricerca degli eventi che mal si conciliano con quella storia-narrazione che ha creato identità inossidabili [nazione, etnia, patrie socialiste, classe, partito (…)]. In questo ambito, settant’anni dagli eventi del secondo conflitto mondiale non sono tanti. Troppi e profondi sono i solchi irrorati dai dolori umani, dalle speranze non esaudite, dagli odi suscitati, dai crimini commessi, perché sia facile passare il guado dell’ortodossia. Eppure, se si parla di revisionismo bisogna sottolineare almeno una trasparente obiettività: esiste un revisionismo necessario, insito nel mestiere stesso dello storico e consistente nella reinterpretazione perenne dei fatti, nel rivedere tesi e ipotesi di spiegazione, che non reggono di fronte alle novità della memoria, delle prove archivistiche e documentarie. Ed esiste un revisionismo narrante, fatto di giudizi totalizzanti, che crea una nuova ortodossia (le “nuove storie” etniche, o del Meridione, o della Padania, o della vera storia scozzese, o catalana ecc.). Queste innalzano gli eventi a testimonianze assolute di una strategia di occultamento preordinata dalla storia “ufficiale”, a loro dire fatta ad arte per giustificare la vittoria dei più forti.
E con questo dire hanno buon gioco, perché una parte della storiografia novecentesca, si è attardata troppo nel giustificare l’operato degli stati, dei poteri reali, delle nazioni o delle patrie della Libertà o della Giustizia, per paura dell’Avversario, piegandosi alla logica della narrazione strumentale. Ma il novecento storico è anche pieno di esperienze di grande dignità storiografica, capaci di rivedere, reinterpretare, dare un nuovo sguardo, fare emergere passati dimenticati. La storia degli ultimi, quella dei genocidi, la vita quotidiana, la storia delle mentalità, la storia “femminile”, la storia dei fenomeni economici, la profondità psicoanalitica dei comportamenti umani, l’anatomia dei poteri, le invarianze giuridiche, ecc. hanno rotto il monopolio della storia politico e militare-diplomatica, allargando lo sguardo, approfondendo il vissuto degli uomini e delle istituzioni da loro create. Così i testi e gli articoli di quest’opera, ci aiutano a comprendere che l’inevitabile non è una categoria storica e che la domanda sulle responsabilità, è sempre aperta e mai completamente esaudita. Se è vero che per un verso si può dire con Euripide che “Gli dei ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie e all’inatteso un dio apre sempre la via. (Medea)”, leggendo i fatti qui descritti e ricordati, è dimostrabile sempre che, anche nelle condizioni estreme, la direzione degli eventi non è mai scontata e, almeno una parte dell’accaduto è sempre frutto delle decisioni umane. (D.M.) 9
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GUERRA VISSUTA, GUERRA NARRATA di Donato Maraffino Sono passati settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e, al volgere di questa prima parte del XXI secolo, insieme al tempo si stanno inabissando le memorie personali di milioni di persone che parteciparono e patirono quei tragici eventi. In questi decenni una copiosa produzione storica ha cercato di tracciare il senso di quei fatti, i drammi nazionali vissuti, il costo umano e morale di un conflitto immane, che non ha risparmiato luogo del pianeta, generazioni, popoli o etnie in una concentrazione di violenza mai vista prima. La ricerca storica, prima irretita nel vissuto contradditorio delle contrapposte esperienze militari, poi perimetrata dagli interessi strategici e globali della Guerra Fredda e, infine, faticosamente uscita dalla contrapposizione ideologica, ha però fatto innumerevoli passi avanti. Progressi nell’identificazione delle ragioni della nascita dei totalitarismi e delle responsabilità diverse per tale tragico conflitto, nella comprensione delle sue dinamiche militari e, infine, la consapevolezza dei costi umani e delle regressioni morali di una guerra “totale” che non ha risparmiato mezzi, uomini, città o villaggi, eserciti o inermi popolazioni civili, fronti interni o esterni, terraferma, mari e cieli, in un turbinio di violenza mai sperimentata perché prodotta con un razionalismo organizzativo moderno e una tecnica militare industrializzata. Ma la cosa più sconvolgente è che tale abolizione tendenziale di tutti i confini geografici, etnici, sociali e umani nell’uso della violenza ha messo in ombra molti interrogativi morali, nel tentativo di giustificarne tutti gli esiti con la necessità di far capitolare il nemico con uno sforzo bellico da produrre fino all’ultima possibilità offensiva. Il disegno della guerra di movimento (tanto progettata dai circoli militari della Germania dell’inizio del ‘900) si realizza nella sua dimensione più totale, in tutte le direzioni, tanto che la sensazione di pericolo per gli attacchi militari assume un carattere totalmente diverso rispetto alla prima guerra mondiale. Con l’uso dell’aviazione militare e dei sottomarini, esso può venire da tutte le direzioni creando una paura globale e una sensazione di impotenza nelle popolazioni civili. Per questo nel presente passaggio dei settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, è auspicabile che sempre più la ricerca storica e documentaria si soffermi a fare il punto sulle acquisizioni e sulla completezza della ricostruDonato Maraffino, docente di storia e filosofia presso il liceo scientifico G. B. Grassi di Latina, impegnato nell’ambito della riflessione e ricerca di filosofia morale e saggista di storia della mentalità e della medicina; responsabile di diverse iniziative editoriali, di approfondimenti tematici. Tra gli altri ricordiamo: Libertà e servitù volontaria La fortuna del Discorso di Etienne de La Boétie, Dopo il Moderno Principe: sui cambiamenti della forma-partito di Donato Maraffino in Annuario del dialogo, dell’incontro e del confronto della S.F.I., o i testi nella rivista Contemporaneità pontina. Rivista di storia, cultura ed eventi civili Anno I-II e III, n. 0, 2003, 2004 e 2005 o Nel prisma della memoria. Riflessioni ed antologia delle esperienze didattiche di storia del Novecento pontino, Latina 2001 e Quel terribile autunno del 1918. Progresso civile-sanitario e pandemia di "Spagnola" nel Lazio meridionale, Latina, 2003.
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zione dei fatti che hanno segnato la vita delle popolazioni con una violenza militare sconosciuta nelle comunità locali, come le nostre, attraversate dai fronti militari. Insieme, è quanto più necessario comprendere la diversa profondità degli studi, cercando di identificare i campi ancora poco sondati dalla ricerca e ampliando l’uso delle fonti (comprese quelle orali) al fine di far emergere quei fenomeni che spesso la storia diplomatica o militare non riescono a ordinare e spiegare. In realtà, ormai sono trent’anni che la storiografia ha ampliato di molto il ventaglio, concentrandosi anche sul vissuto della guerra, non solo dei soldati sui fronti, ma anche delle popolazioni (donne, anziani, bambini, comunità marginali). Questa spinta ad allargare la complessità della ricostruzione storica è emersa per l’affermarsi di nuove sensibilità sociali nella società europea dagli anni ’70 in poi. Da qui gli studi hanno preso avvio analizzando la vita quotidiana, l’alimentazione popolare, la crisi economica, le strategie di sopravvivenza, le violenze perpetrate dagli eserciti sui soggetti deboli come le donne, i profughi o i prigionieri di guerra. In questo modo si è allargato lo spettro del significato del termine guerra, consegnando ai cittadini una coscienza più profonda dei fenomeni trasversali che hanno vissuto le popolazioni di nazioni diverse e, ancora di più, la consapevolezza che spesso l’uso della macchina militare, anche quella organizzata per vincere il totalitarismo nazionalsocialista e il fascismo, non è stato esente da un surplus di violenza inutile. Questa ha caratterizzato i diversi fenomeni (bombardamenti, stupri, campi di prigionia) che hanno fatto emergere con forza non solo la domanda sulla legittimità giuridica (oggetto di interminabili discussioni) quanto quella sul superamento dei limiti di una violenza moralmente accettabile. Inoltre, l’affermazione di fonti nuove e sconosciute alla ricerca storiografica degli anni ‘50 (fotografia, film, riprese sul campo, registrazione diretta degli eventi), hanno favorito l’emergere del racconto “spontaneo” dei testimoni, una oralità diffusa, assente nelle narrazioni storiche precedenti. Cosicché si può dire che le indagini storiche sono state radicalmente ripensate (nel metodo, nelle fonti e nelle acquisizioni), perché quelle ufficiali o militari spesso originate da interessi tattici o strategici manifestavano la loro parzialità e rimanevano intrappolate nella contrapposizione ideologica e politica della Guerra Fredda. Superando l’impostazione diplomatico-militare si è aperto un campo interpretativo proficuo, che ha disegnato scenari prima in ombra e si è raggiunta la consapevolezza che l’utilità e dignità storica della fonte non è garantita in anticipo da chi la produce, ma è tale soprattutto nella comparazione valutativa con le altre e la loro corrispondenza con prove documentarie o narrative acquisite. Insieme a questa considerazione metodologica, nel ricostruire gli eventi della guerra, è emerso anche il rifiuto dell’ineluttabilità e imprevedibilità dei “danni collaterali” alle popolazioni civili, una volta scoperto, che, spesso la violenza militare è andata ben oltre il teorema del sufficiente uso delle armi per disarticolare le strutture militari del nemico. Infatti, la teoria della “guerra totale” che ha affascinato governi e élite militari di diversi paesi (totalitari e non), spesso negata a parole, nei fatti è stata spesso sperimentata nei bombardamenti aerei, navali o 12
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di terra, alimentata dall’illusione che, non esistendo discontinuità tra militare e civile, tutto concorreva ad alimentare la macchina di guerra del nemico e quindi, “disarticolare” le strutture civili (strade, ospedali, quartieri industriali ecc.) era necessario e risolutivo per l’esito del conflitto. Ma i fatti ben presto dimostrarono il contrario: nessun paese ha capitolato per elevata quantità di distruzione, ma esclusivamente per la perdita progressiva del controllo militare dei territori e nessuna rivolta popolare ha portato alcun paese fuori dalla guerra o ha messo fine ai governi di occupazione militare. Chi, omettendo considerazioni di legittimità morale, con la distruzione totale voleva spingere le popolazioni contro i governi, si accorse tardi, e a danni fatti, come tale teoria fosse sbagliata, tragicamente sbagliata. E anche l’uso della bomba atomica (che per alcuni circoli militari doveva essere l’arma risolutiva e emblema della guerra totale) sancì non solo la fine della guerra con l’orrore dei morti di Hiroshima e Nagasaki, ma inaugurò insieme un nuovo terrore, quello della notte termonucleare, in cui militarmente il nemico non poteva più essere vinto.
Memoria e comunità pontine, ausone e lepine Lo stato della ricerca storica in merito alle specificità del vissuto della guerra mondiale nei territori e comunità pontine, ausone e lepine è contraddittorio. A scorrere la storiografia regionale e locale si fa presto a individuare il carattere per lo più diplomatico-militare cui fa riferimento l’innumerevole mole di studi di singoli autori o memorialisti. In primo luogo, i riferimenti sono le memorie di guerra di graduati o semplici militari delle forze armate americane, inglesi e, in misura minore, francese e di altre nazionalità che formavano la V armata impegnata sulla Linea Gustav. Per lo più degli ultimi decenni, è la rievocazione storica di parte tedesca, consolidata dall’Istituto storico Germanico che ha parzialmente riempito la lacuna sull’argomento. Al contrario, negli ultimi anni, una vasta serie di ricerche ha trovato avvio in istituzioni, università italiane ed europee sui temi principalmente controversi come le violenze militari, i bombardamenti e le resistenze europee e regionali. In generale, quindi, si assiste ad una revisione della storia militare, con analisi che vogliono evidenziare le relazioni con la storia materiale e il tasso di violenza, che hanno sopportato le popolazioni civili, sia da parte dell’esercito tedesco, sia con un altro genere di valutazioni, da parte degli alleati anglo-americani. La specificità della situazione militare del territorio pontino, ausono e lepino stretto, dopo il gennaio del 1944, tra due fronti militari, ha stimolato la crescita degli studi sui singoli comuni durante questo periodo, arricchendo di molto il ventaglio di notizie di accadimenti direttamente legati al passaggio delle divisioni militari tedesche (Panzer-Grenadier-Division, Gebirgs-Division, Infanterie-Division e Feldgendarmerie-Trupp) e alleate (V armata composta da due divisioni USA l’85a e 88°, dal Corpo di spedizione Francese composto da 1 divisione motorizzata, 2 divisioni Marocchine, 3 algerine, 4 divisioni di montagna marocchine e in aggiunta 3 gruppi di Tabor-Goumiers). L’abbondanza della memorialistica ha sollecitato l’espandersi di studi degli eventi accaduti nei comuni che di più hanno sopportato la violenza militare, in particolare quelli della fascia sud pontina, vicino il Garigliano e la linea Gustav 13
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e quelli a ridosso della testa di ponte dello sbarco anglo-americano di Nettuno ed Anzio (Cisterna ed Aprilia). Invece, la ricostruzione del passaggio del fronte militare nei comuni della Valle dell’Amaseno (Sonnino, Roccasecca, Pisterzo, Priverno e più ad est Amaseno, Vallecorsa, Villa S. Stefano e Ceccano) e quelli delle pendici dei Lepini (Patrica, Prossedi, Maenza e Roccagorga) e ancora più a nord (Sezze, Cori, Bassiano, Semoneta, Carpineto romano, Giulianello, Roccamassima) fino al decennio passato è stata di molto limitata a singole memorie, ricostruzioni o eventi militari. Due sono le opere pubblicate già diversi anni fa, che hanno cercato specificamente di dare un senso generale agli eventi comunitari: la prima per quantità di indicazioni documentarie è quella di Annibale Folchi dal titolo La Fine di Littoria del 1995 che tratteggia per fonti ufficiali e tramite esse, la fine del fascismo pontino, la guerra e tutti i fenomeni ad essa collegati (sfollamenti, bombardamenti, distruzioni, crisi economica, alimentazione). Se il pregio dell’opera sta nell’aprire un primo interessante “cantiere” documentario della storia pontina, poiché l’autore segue esclusivamente i resoconti diretti, l’analisi dei fenomeni spesso si disperde in una frammentazione di dati a dispetto della sintesi storiografica necessaria. Le altre opere I giorni della Guerra in provincia di Littoria del 1974 e con parziali modifiche Cronache dai due fronti edita nel 2004 sono di PierGiacomo Sottoriva, che seguendo le memorie di guerra di autori-militari o studiosi specialmente di ambito anglosassone o americano, inaugura il filone narrativo della guerra in area pontina, mantenendosi però strettamente a considerazioni qualitative anche su questioni importanti (bombardamenti, stupri ad esempio) oggi al centro del dibattito storiografico. Dopo un periodo di stasi la situazione sta cambiando: da un decennio si assiste a un rinvigorire degli studi locali, che pur mantenendo in maggioranza l’impronta memorialistica, hanno aperto la riflessione anche sui fenomeni della vita materiale e comunitaria in tempo di guerra, le strategie di sopravvivenza, la funzione delle donne, le violenze sopportate (razzie, requisizioni di manodopera, alimentazione e bombardamenti). Per il generale cambiamento della ricerca storica italiana avvenuto dopo gli anni ’80, le ricerche hanno ripreso vigore negli archivi locali e territoriali e nella memoria diffusa, iniziando un percorso di ristrutturazione delle storie comunitarie, con la scoperta di eventi (deportazioni, prigionie, stupri) di cui la storiografia aveva ampiamente sottovalutato l’impatto sulla mentalità collettiva. Con tali ricerche si comprendono meglio gli atteggiamenti contraddittori delle popolazioni locali sia verso le armate tedesche che quelle liberatrici anglo-americane. Inoltre la Rete, ha stimolato la pubblicazioni e concentrazione nei siti web di memorie e immagini o la raccolta di notizie finalizzate ad ampliare la storia delle singole comunità. La facilità di diffusione di tali studi, delle novità archivistiche o delle testimonianze orali hanno creato un fenomeno nuovo: la ricerca dei ricordi sedimentati nella propria comunità e l’utilizzo della memoria diffusa ancora presente, proprio al limite di tale possibilità, considerato che dopo settant’anni, gli attori o testimoni di quegli eventi stanno scomparendo. Diversamente dagli anni ’70 quando si amava contrapporre la “storia dal basso” (presupposta come spontanea e veri14
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tiera) a quella ufficiale o delle autorità militari, la riscoperta delle fonti orali è finalizzata oggi a realizzare una complementarietà con altre fonti (fotografiche, filmiche, amministrative, militari) quando queste da sole sono incapaci a far emergere fenomeni sottovalutati.
Il costo umano e civile. L’aggregazione dei dati circa i morti è quanto mai incerta. Alcuni autori indicano in 7000 i morti e 10000 i feriti, per bombardamenti, mitragliamenti aerei, ritorsioni naziste, fucilazioni per atti di sabotaggio, che noi immaginiamo, per lo più concentrati vicino ai due fronti di guerra e nei comuni a ridosso delle linee di fuoco tra il 1943 e il 1944. Ancora più spinosa è la questione dei feriti da armi guerra da suddividere tra coloro colpiti da armi da fuoco (schegge, mitragliamenti, bombe) nei comuni e i feriti durante le azioni militari nei diversi fronti militari in Europa, in URSS e in Africa. Ma a rendere ancora più incerta la valutazione dei costi umani si devono aggiungere i soldati morti sui fronti di guerra e i decessi per malattie a causa dell’estrema indigenza patita dai militari italiani nei campi di prigionia in Germania (Internati Militari Italiani), nei Balcani, in URSS e altre parti del mondo. Ma andiamo con ordine. Le incursioni aeree anglo americane dopo il settembre-ottobre 1943 si intensificarono sia sui comuni vicini alla Gustav sia su quelli di retrovia. Con esse si cercò di disarticolare gli spostamenti dei reparti tedeschi lungo la valle del Liri e quella dell’Amaseno, per isolare le truppe tedesche sulla Gustav e, alla fine del gennaio 1944, anche quelle collocate a ridosso della testa di ponte di Anzio. Ma proprio su questo fronte le armate tedesche dimostrarono una capacità di resistenza che Clark, comandante in capo della V armata e il generale del VI corpo d’armata J. Lucas non avevano previsto. I mesi tra gennaio e maggio del 1944 furono terribili: per le quantità di militari morti da entrambe le parti, di prigionieri di guerra catturati, per la sofferenza delle popolazioni di tutti i Comuni al di sopra della Linea Singer, oltre le atrocità e le distruzioni già patite lungo la linea del Garigliano. In questo scenario sono da inserire i bombardamenti dell’Air Force e della RAF (Royal Air Force) delle realtà lepine e ausone della Valle dell’Amaseno. I comuni di Sermoneta, Cori, Sezze, Priverno, Sonnino furono ripetutamente colpiti. 15
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Per i Comandi germanici all’opposto tutto doveva sorreggere lo sforzo da Ortona a Cassino e Minturno, perché la posta in gioco (la liberazione di Roma) era troppo alta. L’occupazione militare tedesca fino allo sbarco di Anzio considerò tutta la provincia (da Fondi al suo nord, compresa l’area lepina) una retrovia militare, che doveva fungere da supporto allo sforzo di difesa sulla Gustav. La via Casilina, il Passo della Palombara-la Marittima da Priverno all’Appia, erano le arterie di mobilitazione dei mezzi militari (carri armati, camion per il trasporto truppe, mezzi blindati, cannoni ecc.) tra il fianco e la retrovia ovest della Gustav e le casamatte di Cassino. Quindi le arterie stradali Formia-Fondi-Terracina e la pianura bonificata, la linea Ferroviaria Roma-Cisterna, Fossanova erano strategiche per opporsi all’offensiva anglo-americana. D’altronde l’importanza della tenuta militare a sud di Littoria era già presente nell’ordine della costituzione della Singer come linea di eventuale arretramento del fronte. Per questo la retrovia non deve essere intesa solo come spazio geografico, ma come area organizzativa di sostegno all’esercito, in primis con il vettovagliamento, tanto che lo stoccaggio delle farine, la panificazione e la macellazione delle carni divennero vitali per i comandi tedeschi di stanza nei comuni collinari e per i reparti a riposo dopo il combattimento sul fronte. Il contrasto tra autorità civili e tedesche, quando avvenne, si incentrò sulla ripartizione delle quote, poiché dopo l’estate siccitosa e i mancati raccolti del 1943, il fabbisogno minimo alimentare delle popolazioni collinari non era soddisfatto. Per questo la panificazione e le razzie di animali, prima nei poderi della pianura, poi nei Comuni collinari, divennero strategici per i comandi tedeschi che usavano rappresaglie contro furti o tentativi di sottrazione di tali alimenti da parte delle affamate popolazioni locali. Dopo la caduta della Gustav, lo scontro militare assunse un carattere di estremo movimento con i reparti della Wehrmacht in ritirata e la linea Hitler-Singer parve tenere solo lungo la Via Appia e a Terracina. Ma l’aggiramento tattico Valle Marina Fondi-Sonnino della V armata di fatto chiuse la fase dei due fronti. Dopo la metà di maggio il ricongiungimento tra i reparti della V armata proveniente da sud e quelli della testa di ponte fu questione di giorni. Tutto precipitò per i tedeschi con la capitolazione di Terracina e, a nord, di Aprilia e Citerna e l’arrivo dei reparti Inglesi, Polacchi, Francesi nella Valle dell’Amaseno. Un piccolo lasso di tempo e un ristretto e montuoso spazio territoriale erano disponibili ai tedeschi per la ritirata lungo la carpinetana e la direttrice Velletri- Valmontone e così fu. Da questo punto di vista le popolazioni di Piperno, Sonnino, Roccasecca, Prossedi, Maenza e Roccagorga furono fortunate: la Wehrmacht decise di non stabilizzare lì il fronte optando per una ritirata dalla valle del Liri e dell’Amaseno. Lo scontro militare diretto durò poco anche se fu molto violento. Così le popolazioni acclamando l’arrivo della V armata si accorsero dell’origine variegata dei soldati liberatori: americani, canadesi, neozelandesi, inglesi, polacchi, francesi, algerini, marocchini. Ma solo a liberazione avvenuta ci si accorse dell’impatto distruttivo dei passaggi dei fronti militari in provincia. Solo nel censimento della fine del 1945 i dati circa le distruzioni di immobili civili sembrano più precisi in quanto oggetto delle pratiche di ricostruzione del dopoguerra. Infatti, durante gli 85 attacchi 16
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aerei, 49 mitragliamenti, 24 bombardamenti, 12 bombardamenti e mitragliamenti, in otto comuni le distruzioni oscillavano tra il 75 e il 92 per cento dato parziale per difetto riassunto dalla prefettura di Littoria. Non è difficile comprendere che tali picchi si raggiunsero nei Comuni a ridosso delle linee dei fronti sud e nord della provincia. Più precisamente la distruzione degli immobili per bombardamenti e cannoneggiamenti fu di 6942 case totalmente distrutte (53000 stanze) e la creazione di una massa di 20000 abitanti senza alloggio. In tale ambito, dalle ricostruzioni appare evidente che la rete di sorveglianza aerea e di allerta notturna e diurna era più una disposizione cartacea che realtà. L’organizzazione della difesa della popolazione, che era pertinenza dei gruppi comunali e Sindaci e la rete di rifugi attrezzati, erano praticamente assenti. Lo sfollamento antiaereo era quello spontaneo e il rifugio nelle campagne o colline era l’unico mezzo di difesa e riparo per intere famiglie. E proprio intorno alle operazioni di bombardamento, ai loro tragitti e obiettivi in questi ultimi anni si accentra l’attenzione della storiografia sia italiana che di ambito anglosassone. Se si analizzano tali tragitti è difficile comprendere i comportamenti militari dell’aviazione inglese e americana, perché non sono solo i fronti strategici e le loro retrovie oggetto di bombardamento aereo. Inoltre, non si comprende quanto l’errore militare abbia inciso sugli esiti tragici delle operazioni aeree che spesso colpivano i centri storici collinari senza evidenti motivi. I comandi inglesi già prima della guerra avevano realizzato foto-planimetrie con l’esatta collocazione degli impianti industriali, stazioni, strade, depositi e collegamenti da colpire in caso di guerra e i piloti avevano a disposizione tali obiettivi, anche se la difficoltà nasceva dalla necessità di riconoscerli visivamente. Ma questo può spiegare il mitragliamento sui centri urbani o i bombardamenti di centri storici di Priverno, Terracina, Sezze, Sonnino (per dire i casi emblematici) dove viveva la maggior parte dei cittadini ? Siamo sicuri che anche in questo una perdita del limite morale non sia la stata causata della non ponderata considerazione delle conseguenze? E perché escludere dalle cause un perdurante considerazione negativa degli italiani colpevolizzati per la deriva militarista del Fascismo? E’ evidente che tali fenomeni niente affatto isolati (di cui è difficile ponderare la consistenza in termine di morti) abbiano determinato diffidenze, ostilità e astio verso le forze anglo-americane, anche in chi aveva ormai maturato una critica al fascimo pontino accusato a ragione di dimostrarsi incapace di realizzare un minimo di difesa delle popolazioni. Per quello che attiene alle strutture economiche e le infrastrutture civili lo scenario di distruzione è gravissimo. Ecco un’efficace sintesi proposta da PierGiacomo Sottoriva, che è utile riportare per intero: “- le banchine portuali di Gaeta, Formia e Terracina vennero distrutte da cariche di dinamite piazzate dai tedeschi - le flottiglie da pesca vennero quasi interamente affondate per rendere inutilizzabili gli accosti alle banchine già distrutte; - una carta dell'Opera nazionale Combattenti, realizzata attraverso sopralluoghi e la istruttoria delle pratiche di risarcimento dei danni di guerra, attribuisce all’Agro Pontino 299 poderi (erano stati costruiti solo negli anni immediatamente precedenti) distrutti, 507 fortemente danneggiati e 954 danneggiati, con 4205 17
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vani distrutti e oltre 8000 danneggiati; - 10.468 ettari di superficie agricola furono allagati dai tedeschi mediante la rottura delle opere di bonifica e rimasero sommersi e sottratti all’agricoltura per due anni (1944-45); - 71 mila metri cubi di stalle e magazzini furono distrutti e circa 100 mila danneggiati; - il 50 per cento dei macchinari agricoli o dei mezzi di trazione furono annientati; - l’agricoltura subì la perdita di oltre 6.500 ettari di superficie boschiva, di 8,5 milioni di viti totalmente distrutti e di altri 4 milioni danneggiati; di 220 mila olivi perduti e 150 mila danneggiati, di 600 mila alberature varie distrutte o danneggiate; - per quanto riguarda le scorte vive, andarono perduti 47.491 bovini, pari all'83,4% del patrimonio anteguerra; 6495 equini, 59.303 ovini, 11.000 suini.” Più studiate sono state le operazioni di distruzione delle opere di bonifica e il minamento costiero realizzato dalle divisioni tedesche con il sostegno operativo o la mancata reazione dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti). E si comprende perché: tali operazioni colpiscono l’immaginario collettivo della funzione rigeneratrice delle terre pontine che il Fascismo aveva propagandato negli anni trenta. Dalle ricostruzioni è evidente che i responsabili del fascismo pontino tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 non vogliono o non riescono a opporsi alle decisioni del Comando germanico e, consci di ciò, al massimo cercano di limitare di effetti della distruzione delle paratie, dei canali, lo smontaggio delle idrovore ma di fatto non sortiscono alcun risultato nell’affievolire le condizioni di disagio delle popolazioni coloniche e non. La palude ritornò sui terreni inondando casolari, aziende agricole, strade di bonifica, ricreando le condizione di una virulenta rinascita della malaria. Insieme all’impaludamento, il minamento rappresentò una inutile barriera preventiva (visto gli eventi dello sbarco degli alleati del gennaio 1944) e causa di una quantità di invalidi e morti durante e dopo la fine del conflitto, non ancora censita.
Riprendendo la sintesi di Sottoriva, questa è la situazione “- nel campo delle opere pubbliche e di bonifica, fu messo fuori uso il 50% degli impianti idrovori e andarono distrutti o gravemente danneggiati 30 ponti in cemento armato costruiti da pochi anni. Nel conto entra anche la perdita di diserbatrici per i canali, l’intasamento delle foci e il taglio di argini dei fiumi, il sabotaggio di paratie, di ponti, strade, porti, ferrovie, lo smontaggio e il furto di macchine idrovore. A queste perdite si aggiunsero due conseguenze direttamente connesse con la guerra: le malattie, a cominciare dalla malaria, che assunse un carattere epidemico e che investì tutti i paesi costieri e di pianura, da Cisterna a Minturno; e la morte per esplosioni di ordigni bellici. Va in proposito ricordato che circa 12.259 ettari di terreno agricolo furono minati, insieme a circa 100 km di litorale, per una profondità che andava fino a 5-600 metri” e aggiungiamo noi la crisi generale dell’assistenza sanitaria che durante gli anni ’30 il fascismo aveva con difficoltà 18
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costruito. Insomma la guerra presentava il suo conto che consisteva in una regressione economica e civile che andava ben oltre la situazione pre-bonifica. Ma se da un piano economico passiamo in rassegna le acquisizioni della storia sociale e politica dell’ex provincia di Littoria le questioni diventano più complicate. Ci viene in soccorso parzialmente l’opera di Folchi che, in diversi capitoli, descrive la crisi del fascismo pontino. La sensazione che emerge è quella di uno smottamento generale del regime, delle sue organizzazioni comunali e provinciali, una fuga precipitosa dalle proprie responsabilità e all’incapacità di fronteggiare le decisioni delle autorità militari tedesche. Ma questa è un’impressione generale, che ancora deve essere dimostrata attraverso l’analisi dei comportamenti dei dirigenti dei Fasci di combattimento e delle sezioni del PNF locali. Storiograficamente siamo di fronte a uno squilibrio narrativo: di fronte a sufficienti analisi economiche, tecniche della bonifica prima degli anni della guerra, lo studio del fascismo politico, la rete organizzativa del ceto amministrativo, dei Podestà e il cambiamento dei comportamenti dopo il luglio del 1943, sono tuttora da delineare. Certo si assiste a quel nuovo trasformismo che portò una parte del ceto dirigente fascista a inserirsi nelle dinamiche di potere della nuova Italia repubblicana. Ma quanto sia stato largo questo comportamento, cosa lo motivasse e quale atteggiamento assunsero le autorità militari americane e governative italiane (Prefetti ad esempio) è tutto da indagare sistematicamente. In soccorso, per colmare questa lacuna storiografica, potrebbero dimostrarsi utili le analisi dei processi di epurazione che si sono svolti o che si sono interrotti o le documentazioni dei partiti politici che si riorganizzarono dal giugno del 1944. Ma ad oggi la documentazione dei partiti è ampiamente dispersa (ad esclusione dei versamenti del PCI presso l’archivio di stato di Latina).
Sgombero delle popolazioni e rastrellamenti La vicenda degli sfollamenti tra la fine del 1943 e tutti i primi mesi del 1944 è emblematica dei rapporti tra i comandi tedeschi e le autorità repubblichine fasciste della provincia di Littoria. Se all’inizio gli sfollamenti dei comuni vicino alle linee di fuoco (Castelforte, Fondi, Itri, Minturno, Formia) e della fascia costiera (Borgo Hermada-Terracina, S. Felice durante il settembre 1943) erano almeno concertati con il prefetto, di fronte alla resistenza delle autorità locali, il comando germanico assunse direttamente la decisione di impartire gli ordini saltando a piè pari le autorità repubblichine. Il 20 gennaio si prevedono altri 31483 sfollati da veicolare presso città del nord. Pochi giorni dopo avviene lo sgombero dei Comuni e i borghi vicino alle aree di sbarco degli anglo americani di Nettuno e Anzio. Ma lo sgombero forzato delle persone e famiglie risultava complicato per il rifiuto dei contadini di lasciare incustodite le stalle, i magazzini e le case coloniche, e per la diffidenza dei cittadini dei centri urbani ad allontanarsi dalle comunità, preferendo optare per il ricovero nelle vicine campagne dei Comuni delle colline. Di fronte a tale disordine, il 17 marzo 1944 con il precipitare della situazione il comando di divisione tedesco emette l’ordine di sgombero di 220000 persone di tutta la provincia in tre fasi, da radunare in aree di “raccolta” e inviare a Breda, Cesano e Narni (comunicando il provvedimento alla Prefettura di Pri19
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verno). Tale direttiva viene poi sospesa il 28 marzo seguente, ad esclusione della popolazione di buona parte delle realtà della bonifica, che dovette sopportare lunghi tragitti con mezzi di fortuna o a piedi verso il borgo di Fossanova e Carpineto, che divennero crocevia di molti sfollati. In realtà gli sgomberi andarono ad aumentare l’afflusso straordinario verso Roma (si parla di 300000 sfollati) e finirono per aggravare le condizioni alimentari della Capitale, ampliando il mercato nero e elevando il costo degli affitti. Tale fenomeno è quantitativamente significativo perché di fatto aumentò la pubblica disistima del governo repubblichino di Salò e dimostrò l’inefficienza del fascismo di Littoria e delle città nuove. L’altro fenomeno ancora da ricostruire con un’aggregazione dei dati è quello dei rastrellamenti tedeschi durante l’occupazione del 1943-1944. Data la vicinanza e la facilità di trasporto verso la linea Gustav era molto conveniente ai Comandi tedeschi considerare i Comuni della provincia di Littoria e di Frosinone un “naturale” serbatoio di manodopera. L’argomentazione che il lavoro di costruzione delle opere di difesa sulla linea di Cassino, da questo punto di vista, rappresentasse una “fortuna” per molti maschi dei Comuni collinari e si siano evitati molti trasferimenti nei campi di lavoro o fabbriche militari in Germania, appare plausibile. Ma questa appare più una induzione che una tesi dimostrata dalle aggregazioni di dati dei singoli comuni.
Il caso storiografico degli stupri del 1944 Le donne dei comuni del Frusinate e dei Comuni lepini dovettero sopportare un altro fenomeno di inusitata violenza da parte dei reparti di marocchini-Goumiers aggregati alla legione francese. La ricostruzione di tale violenza ha subito negli ultimi anni una importante accelerazione sotto la spinta di alcune ricerche che oscillano tra antropologia, sociologia e storia. La geografia degli stupri comprende l’area settentrionale della provincia di Napoli e Caserta, il frusinate, la provincia di Littoria fino a Viterbo e parzialmente la Toscana meridionale. Ciò che colpisce è l’estensione temporale del fenomeno che perdura dalla metà di maggio a tutto luglio del 1944, quando ormai questi territori erano stati già liberati, in un crescendo di allarme delle popolazioni e di sostanziale inerzia dei Comandi alleati. La difficoltà della ricostruzione è conseguenza del carattere “molecolare” della violenza che nelle campagne era perpetrata da piccoli gruppi di marocchiniGoumiers su singole donne o famiglie. D’altra parte il senso di vergogna, il limitato ricorso ai medici o il mancato ricovero negli ospedali pubblici, la paura dell’emarginazione comunitaria cui si andava incontro con la denuncia, saranno inevitabilmente un ostacolo al censimento degli stupri per singole aree o comuni. Nonostante ciò le informative dell’Arma dei Carabinieri e dei Prefetti già dal 24 maggio 1944 avvertivano del fenomeno i Comandi alleati, sottolineandone l’ampiezza, la gravità e l’allarme sociale che determinavano nelle popolazioni locali. Perché allora non si è intervenuti con le norme della giustizia militare per ridurre almeno la tragica violenza sulle donne? Infatti passarono diversi mesi prima che i Comandi francesi (CEF) e la loro ambasciata prendessero posizione, riconoscessero i fatti e emanassero disposizioni per il “risarcimento” alle donne vittime 20
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di violenza sessuale ad opera dei Goumiers. Nell’ottobre del 1944 il Ministero degli esteri compila un censimento della violenza delle truppe marocchine, evidenziando la differenza di comportamento tra queste e le truppe americane ma, data la situazione politico-militare, evitava valutazioni sul mancato intervento repressivo dei comandi militari della V Armata. Molti erano Comuni della provincia di Littoria citati in questo elenco con l’indicazione del numero delle vittime di violenza e la quantità di infezioni veneree. Quantità approssimative, certamente sottostimate e non ancora censite. Ma le disposizioni per il risarcimento, che doveva iniziare con una dichiarazione giurata raccolta dal Comune e oggetto di valutazione dell’Intendenza di Finanza e della “Società Restituire” per conto dell’ambasciata francese, non resero facile il riconoscimento della violenza subita. Infatti, al di là della grave crisi amministrativa in atto dopo il maggio 1944, l’aver attribuito tale procedura ai Sindaci o al personale amministrativo, anziché all’Arma dei Carabinieri, per esempio, ha reso più labile l’attestazione di veridicità. Al 31 agosto del 1947 le domande per le tre province di Latina, Frosinone e Viterbo erano 20000. Durante tutto il 1948, di fronte alla spinta degli organi di informazione, delle petizioni, degli incontri pubblici, e delle interrogazioni parlamentari, si riaprì la possibilità di presentazione delle pratiche e nel giro di due mesi (febbraio-marzo 1949) furono presentate altre 22000 domande di risarcimento della violenza sessuale, derubricata “a danno di guerra”. Alcune inchieste prefettizie evidenziarono che la raccolta delle istanze divenne questione di contesa politico-elettorale, oggetto di corsa clientelare al consenso durante le elezioni del 1948 e che, le istanze raccolte dai Comuni, spesso non rispondevano alla reale quantità della violenza subita, dove in eccesso e dove in difetto. Insomma, sembra che la battaglia politica comunale di forte contrapposizione tra Democrazia Cristiana e Fronte popolare del Partito Comunista e Socialista inquinasse di fatto la necessaria chiarezza circa le aventi diritto, tanto che le istanze furono pubblicamente accusate di non essere tutte veritiere, in quanto viziate dal considerare il risarcimento una sorta di sussidio post bellico da gestire da parte dei Comuni a favore delle famiglie. Inoltre, tale diffidenza unita all’enormità complessiva dei risarcimenti (12 miliardi per 22000 domande), aprì un processo amministrativo lungo e mai chiuso, lasciando aperta la questione della quantità di violenze subite dalle donne di quei Comuni. Da allora per lunghi anni questa tragedia è caduta nel dimenticatoio istituzionale, allargando il distacco tra la memoria, la vergogna sociale, il dolore individuale e il pubblico racconto sulla guerra mondiale e sulla liberazione. Ma l’interrogativo che ci preme è il seguente: perché la storiografia della seconda guerra mondiale sembra accompagnare questa dimenticanza? Al di là della tendenza semplicistica di un “revisionismo” non storico ma tutto ideologico, che vuole vedere una macchinazione politica e sociale degli alleati contro gli italiani e le donne, tutto teso implicitamente a suggerire una superiorità morale del fascismo o del nazismo difficile da dimostrare, per noi più realisticamente congiuravano a favore del silenzio diversi fattori. Insieme alla necessità di obliare i terribili fatti della guerra, la memoria della violenza subita 21
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dalle donne, insieme alle sofferenze dei prigionieri di guerra e ai reclusi nei campi di sterminio, venne rimossa pubblicamente eclissandosi nella memoria individuale e familiare, perché forse dimenticare era necessario per mettersi dietro le spalle la miseria, la violenza della guerra e aprirsi alla speranza. Ma tale osservazione se vale dal punto di vista psicologico, non tiene conto delle convenienze politiche e della lettura della storia. Prima l’alleanza militare antinazista, poi dopo il 1948, lo scontro tra democrazie e comunismo sovietico, rendono incapaci i partiti della nuova democrazia italiana a soddisfare quelle esigenze di giustizia che non erano compatibili con logica delle contrapposizioni. Così la considerazione che anche le armate alleate dovessero giustificare le azioni che andavano oltre i limiti morali accettabili di una condotta di guerra, era di per sé ritenuta pericolosa. Inoltre, il riconoscimento e l’accettazione di tutte le nuove forze politiche da parte degli anglo-americani sembravano giustificare il silenzio durante il 1944 e 1945 e, in questo processo di dimenticanza, si immerse anche la storiografia che ha evitato, per decenni, il riferimento a questo volto della guerra per non macchiare l’immagine dei liberatori. Così l’apertura della contrapposizione ideologica (DC contro Fronte Popolare), la necessaria convergenza sui risarcimenti delle violenze viene sostituita dallo scontro elettorale, deteriorandone anche in questo caso l’istanza di giustizia delle donne colpite. La riapertura storica e il riemergere dalla memoria diffusa, come avviene per la Shoah e gli Internati Militari Italiani (cui rimandiamo il Lettore nelle pagine seguenti), così si può spiegare solo quando entra in crisi la contrapposizione ideologica degli anni della Guerra Fredda.
Così si riaprono i racconti. Ma cosa ha modificato le interpretazioni apologetiche di parte o quelle esclusivamente militari? La loro difficoltà a dar conto dello scarto tra il racconto storiografico preminente, spesso intrappolato nella logica della Guerra Fredda, ed il vissuto degli uomini delle comunità, dei fronti di guerra o dei campi di prigionia. Una parte di questo vissuto o emergeva parzialmente o spesso non trapelava nelle fonti ufficiali (delle Prefetture, delle Giunte comunali, negli organi amministrativi dello stato periferico e centrale). E pur quando affiorava non era spiegabile con la categoria dell’ineluttabilità, cioè di un plus di violenza ritenuta necessaria e ineliminabile, accettata quasi come un fenomeno “inevitabile” e presente in tutti i conflitti armati. Questo giustificazionismo storico spesso era rafforzato con la descrizione di tali eventi come “specifici di un territorio, di alcune comunità” e quindi non adatti a caratterizzare un conflitto militare. Ma quando nella società cambiano gli umori, le sensibilità pubbliche e umane, cadono gli stereotipi e le paure, diventano inattuali riserbo e vergogna e quindi i racconti si riaprono provocando domande pubbliche che spingono la ricerca a spiegare lo scarto interpretativo con più chiare e precise dimostrazioni o con nuove tesi storiche. Così si riaprono i racconti.
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Riferimenti bibliografici
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ASCOLTARE, DIALOGARE, CONDIVIDERE I dilemmi dell’intervista in antropologia di Alessandra Broccolini Oggi, dopo quaranta anni di lavoro, mi accorgo come sia difficile sapere, prima delle risposte, anche quale sia esattamente la natura e il ruolo della domanda. (Danilo Dolci, Nel tema di struttura creativa, 1987)
1. Introduzione Nell'agosto del 2005 mi trovavo in un piccolo paese della Valle dell'Aniene dove stavo facendo una ricerca promossa dalla Regione Lazio sui culti popolari locali finalizzata alla catalogazione di "beni demoetnoantropologici immateriali"1. Per questo io e altri colleghi "raccoglievamo"2 in diversi paesi della provincia narrazioni di miracoli e leggende di fondazione di culti locali. Quel giorno avevo appuntamento con una anziana donna di settantacinque anni che avevo conosciuto qualche settimana prima in paese tramite il parroco, per farle una intervista. Avevo sentito la donna al telefono per prendere un appuntamento e più volte -di fronte ad un certo spaesamento da lei manifestato alla mia richiesta di intervista- avevo cercato di rassicurarla dicendole che ciò che le avrei chiesto di raccontare apparteneva alle sue esperienze di vita e a storie che liberamente avrebbe deciso se raccontare o meno, senza particolari formalità. L'antropologo che lavora con le interviste ha come vocazione l'ascolto delle voci degli altri3. L'antropologo che lavora con le interviste ha come vocazione l'ascolto delle voci degli altri e cerca una sua modalità ideale per ascoltare queste voci, scegliendo di volta in volta nella pratica un proprio modo per arrivarci. Negli anni mi sono convinta di preferire un tipo di ascolto libero basato su un colloquio che definirei "confessionale"4, cioè faccia a faccia, con tempi lunghi e la scelta di luoghi possibilmente silenziosi dedicati alla narrazione. Per questo motivo, pur non potendo dire apertamente ai miei interlocutori di farsi trovare da soli, ho sempre cercato di favorire un tipo di intervista di questo tipo. Sull'approccio che ho definito "confessionale", rispetto all'intervista collettiva, dirò più avanti, ma ora torniamo al paese nella Valle dell'Aniene. Quando finalmente trovai la casa della donna e suonai alla porta, la porta si aprì, ma di donne, anziché una ne trovai quattro. La signora aveva invitato tre donne anziane come lei, le quali mi accoglievano sorridendomi. Immaginando una intervista molto rumorosa e difficile da gestire (nonché da trascrivere), inAlessandra Broccolini è antropologa e ricercatrice dal 2008 presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza Università di Roma dove insegna Antropologia Culturale. Si occupa di feste e rituali, beni demoetnoantropologici, patrimonio culturale immateriale e politiche dell'identità. Ha svolto numerosi lavori di catalogazione e documentazione in beni DEA per enti pubblici e per candidature UNESCO. Tra le sue ricerche recenti: politiche dell’identità e turismo a Napoli, artigianato del presepe, feste e rituali in ambito urbano e rurale, candidature UNESCO e partecipazione comunitaria, pesca tradizionale nel Lago di Bolsena, periferie urbane, immigrazione ed ecomusei.Tra gli altri ricordiamo “Folclore, beni demoetnoantropologici e patrimonio immateriale in alcuni contesti regionali, in Mariuccia Salvati e Loredana Sciolla (a cura di), L’Italia e le sue regioni, vol. III Culture, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2015b, pp. 175-188 e Santi, pantasime e signori: feste della Bassa Sabina, Roma, Espera, 2013.
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goiai silenziosamente il rospo e mi accomodai. La casa era modesta, ma c'era un salotto dove la padrona di casa aveva allestito un piccolo rinfresco con caffè, biscottini e quant'altro; sembrava che tutte e quattro le donne mi stessero aspettando. Così, tirai fuori il registratore, mi presentai cercando di fare sentire le donne a loro agio (ma mi accorsi presto che a doversi mettere a proprio agio ero io), spiegai le ragioni della mia visita e iniziai a farle parlare, cominciando per ragioni di cortesia dalla padrona di casa. Ma prima chiesi alle donne di non sovrapporre troppo le loro voci, perché nel riascoltare la conversazione avrei rischiato di non riconoscere più il parlato. All'inizio le donne furono molto disciplinate; iniziò la prima, poi una seconda e via via le altre; sembrava che le mie interlocutrici si dessero i turni nel parlato raccontando ciascuna le proprie memorie e storie di miracoli, esperienze di pellegrinaggi, storie familiari e leggende di fondazione. L'intervista nel suo complesso fu quindi molto interessante per la ricchezza delle testimonianze. Tuttavia, ben presto mi accorsi di un aspetto generale interessante del quale avrei fatto esperienza più volte negli anni seguenti; ebbi chiara la percezione che quando si lavora con le fonti orali, l'intervista costruisce un setting di dialogo tra intervistatore e interlocutori, che come tale può cambiare più volte nel corso dell'intervista stessa. Ad un certo momento, infatti, il clima inizialmente solenne e un po' formale dei primi racconti si ammorbidì e le donne iniziarono a parlare tra loro, a raccontarsi storie di paese ridendo e schiamazzando come delle giovani ragazze in gita scolastica, in un crescendo sempre più rumoroso. La cosa si protrasse per diverso tempo, fino ad occupare ad un certo momento l'intera conversazione. Sembrava quasi che queste donne avessero colto l'occasione dell'intervista da me sollecitata per incontrarsi tutte insieme in uno spazio di libertà amicale nel quale fare delle chiacchiere in privato, ed era difficile tenere loro testa riportandole ai loro "doveri" confessionali, perché in fondo erano quattro contro uno. Non solo, ma ad un certo momento inserirono anche me nel "loro" spazio di libertà, assegnandomi il ruolo che effettivamente mio malgrado avevo, quello di essere una donna proveniente da Roma della quale loro non sapevano nulla e alla quale quindi, chiedere tutto. Infatti, un terzo setting, imprevisto e ancora più lontano dal modello "confessionale" che cercavo di adottare, si produsse quando mi accorsi che le quattro signore, oltre a parlare tra loro usando me come transfer, si erano fisicamente disposte a corona intorno a me ed avevano iniziato ad "intervistarmi". Quasi senza accorgermene iniziai così a raccontargli pezzi della mia vita: i miei studi, la ricerca che stavo facendo nell'area, poi il mio matrimonio, il figlio, la sofferenza di una separazione, la precarietà economica, il viaggio che avevo fatto per arrivare là, le condizioni della mia macchina, la mamma.... un vero e proprio momento "confessionale" all'inverso e non previsto, che si interruppe solo quando una delle intervistate iniziò a raccontare una storia familiare che fece calare il silenzio nella stanza. La donna era l'unica sopravvissuta di una strage familiare provocata alla fine degli anni Quaranta da una intossicazione da funghi. Con grande capacità narrativa e solenne scansione temporale la donna, occupando quasi metà dell'intera intervista, raccontò tutte le fasi dell'intossicazione, indicando già dalle settimane precedenti tutti i segni nefasti che facevano presagire 26
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l'evento e come uno ad uno nel corso di diversi giorni e dopo atroci sofferenze, morirono tutti i componenti della sua famiglia. Un racconto terribile, imprevisto anche questo che fece nuovamente cambiare il clima, le relazioni ed i rispettivi ruoli dentro l'intervista. In una "vera" intervista individuale -mi domandai quando uscii dalla casatutto questo sarebbe accaduto ? Questa intervista era stata un successo o era stata insoddisfacente ? Se l'intervistato o gli intervistati fossero stati tutti uomini, o se la composizione fosse stata mista sarebbe accaduto lo stesso? E se l'intervista si fosse svolta in un contesto familiare alla presenza di più generazioni (nonni, insieme a figli e nipoti) che setting si sarebbe prodotto? Quando si producono delle interviste antropologiche è frequente fare esperienza di situazioni come quella raccontata, anche se le varianti possono essere infinite. Tuttavia, le dinamiche che abbiamo visto sembrano non rientrare in nessuna delle tipologie che normalmente leggiamo sui manuali di metodologia delle scienze sociali. Benché ogni intervista parta in teoria da una concezione "lineare" -la coppia domanda-risposta- nella quale, anche in presenza di più soggetti, c'è sempre una persona che fa le domande e una persona che risponde5, spesso le cose si complicano e assumono sfumature uniche. L'antropologo che intervista e lavora con le fonti orali (come anche lo storico) va spesso incontro a contesti eterogenei che sembrano anomali rispetto ad una idea cristallina e manualistica di intervista, ma queste apparenti anomalie altro non sono che le "normali" anomalie delle storie della vita delle persone che si incontrano, date dalle infinite possibilità dei vissuti, delle memorie e dei diversi contesti in cui l'intervista si cala. In questa "anomalia" sta forse il senso dell'intervista "antropologica"; non solo perché le domande che rivolgiamo ai nostri interlocutori sono orientate culturalmente o vanno nella profondità di un tempo che è più lungo, rispetto ad altri tipi di interviste, ma perché coinvolgono le vite, nostre e delle persone che intervistiamo, in un modo che non rientra nelle tipologie indicate dai manuali di scienze sociali. E la classificazione operata dalla manualistica non riesce ad incapsulare le esperienze multiformi che questa straordinaria occasione di confronto umano produce. L'intervista alle quattro anziane signore (e alla sottoscritta) in che tipo di intervista poteva essere classificata? Strutturata, semistrutturata, libera o focus group? L'anno successivo a quella intervista (e alle molte altre che vennero), sempre ad agosto, mi trovai in un setting completamente diverso, che voglio raccontare come paragone per riflettere sull'intervista antropologica e sulle sue implicazioni. Ero insieme ad alcuni colleghi, ad Esperia, paese della provincia di Frosinone sui Monti Aurunci, dove stavamo lavorando ad una ricerca sulle fonti orali promossa dal Museo della Pietra di Ausonia dedicata alla memoria della guerra6. In particolare si lavorava sulla memoria delle violenze subite dalla popolazione civile per opera delle truppe alleate nel famoso maggio del 1944, delle quali si ricordano soprattutto quelle perpetrate dai goumiers, truppe marocchine al seguito dell'esercito francese7. Tra le persone, soprattutto donne, che incontrammo in questo breve ma intenso lavoro di ricerca, ci fu un uomo di quasi settant'anni, che all'epoca dei fatti aveva sei anni. Anche in questo caso, quando lo andammo 27
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ad intervistare nella campagna di Esperia, si aprì la porta della casa alla quale eravamo stati indirizzati, e ci si presentò davanti una piccola folla di persone che mi fece subito immaginare un esito rumoroso come quello già raccontato. E invece, questa volta l'intervista andò in una direzione completamente diversa rispetto alla precedente. Nessun altro, oltre al nostro intervistato, in quel pomeriggio parlò. Perché questa differenza rispetto al caso raccontato in precedenza ? Sicuramente le motivazioni del nostro essere lì erano molto diverse perché l'intervista che dovevamo realizzare riguardava un momento preciso (e inciso) nella memoria locale; non eravamo lì per effettuare una survey generalista Eravamo anche tre ricercatori a condurre l'intervista (e tra questi un uomo), ma soprattutto perché l'autorevolezza del testimone della memoria era tale da impregnare l'intera intervista e impedire agli altri di intervenire. Ci trovavamo infatti dentro un setting familiare, con la moglie dell'uomo, una figlia, e proprio nella casa nella quale l'uomo aveva vissuto i mesi, i giorni e le ore che avevano segnato l'arrivo delle truppe alleate e dalla quale partirono i suoi racconti. Fummo accolti nel grande soggiorno cucina della casa, ci presentammo, ci sedemmo tutti a corona intorno all'uomo e accendemmo il registratore. Quando l'uomo iniziò a raccontare, ed aveva un grande desiderio di farlo perché -come apprendemmo doponon aveva mai raccontato pubblicamente quelle memorie, ci fu il silenzio assoluto e per due ore esatte nessuno, né noi né i familiari dell'uomo, parlò. L'uomo anziano in quel momento tornò bambino, un bambino di sei anni che ricordava e restituiva con lucidità impressionante i mesi, i giorni e le ore vissute dentro e fuori la casa, in montagna, nei boschi, in fuga per sopravvivere, che ricostruiva (e ridefiniva) con precisione persone, incontri, visi, rumori di artiglieria. Di fronte a questo racconto, di fronte alla memoria scolpita e riattivata di questo bambino che stava "riannodando" momento per momento, quasi centimetro per centimetro, quelle giornate, tutti noi rimanemmo in silenzio. L'uomo ci faceva vedere visivamente cosa era accaduto in quei boschi; mentre parlava lo vedevamo cor-
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rere nel bosco, fare la spola tra la casa e il rifugio. In quel momento il suo essere testimone di un momento storico importante che aveva segnato lui bambino e la comunità più ampia, lo aveva trasformato in una sorta di medium tra assi temporali e generazioni diverse; per questo l'intervista assunse il ritmo e la forza di un rituale di rielaborazione della memoria traumatica, del quale noi eravamo parte.
2. Tra conoscenza, dialogo e documentazione Ho sempre una certa ansia quando devo fare un'intervista. Forse perché nessuno mi ha mai insegnato direttamente come si fa (il cosiddetto know how) e quello che so, ho dovuto costruirmelo sull'esperienza e gli errori piuttosto che sulla teoria. Che la ricerca sul campo non si apprende sui libri è opinione piuttosto condivisa tra gli antropologi. Come ha osservato Olivier de Sardan, in antropologia l'atto dell'intervistare è qualcosa che non si apprende nei manuali, ma ha a che fare piuttosto con una forma di apprendistato8. Questo carattere un po' artigianale e quasi di "improvvisazione", insieme all'idea che la stessa ricerca sul campo sia una questione di abilità e di intuizione, lascia in ombra la questione delle competenze e quindi della formazione, che pure hanno avuto largo spazio nella manualistica. Soprattutto in ambito anglosassone, esiste una consistente produzione di manuali relativi alla ethnographic interview9, che è considerevolmente cresciuta nel corso della storia dell'antropologia stessa. In genere, per tornare all'intervista, cerco di prepararne il setting in luoghi il più possibile silenziosi e facendo in modo che le persone siano sufficientemente dedicate, libere da impegni e a loro agio. Tuttavia, lo stato d'animo che provo nei momenti che precedono l'incontro con la persona, che andrò ad intervistare è sempre di spaesamento e di emozione, simile a quello che negli anni passati provavo prima di un esame. C'è una imprevedibilità, una indefinitezza nell'intervista di vita, che non ci permette di poterne prevedere l'esito e l'immagine che più evoca questo momento è quella di un perdersi e del dover trovare una via. Non sappiamo infatti chi ci troveremo di fronte, quali difficoltà prenderà la conduzione dell'intervista, quali parti di noi dovremo condividere, quali celare, che mutamenti di passo dovremo operare a seconda delle fluttuazioni del dialogo. Un esito incerto che non è dato solo dai fattori ambientali o soggettivi, di trovarsi di fronte a persone particolarmente chiuse o al contrario logorroiche, ma è l'incertezza di una relazione umana che produce comunque un coinvolgimento personale reciproco, dalle implicazioni forti, che non si esaurisce in un semplice "prelievo" di informazioni, ma produce anche un disvelamento di sé di fronte a chi stiamo intervistando. L'intervista è infatti un dialogo, anche quando sembra un monologo, ed è unica, evento irripetibile e significativo, anche quando ci mette in difficoltà o non ne siamo soddisfatti. Eppure, questa consapevolezza della natura dialogica dell'intervista, è arrivata in antropologia solo in tempi relativamente recenti. O forse sarebbe più giusto dire che è stata riconosciuta tardi nella storia disciplina l'importanza che la relazione umana prodotta dall'intervista ha nel conoscere antropologico. Il modo di intendere l'intervista è infatti andato incontro a diverse fasi che hanno coinciso 29
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con i mutamenti del suo statuto epistemologico. Fatta eccezione per la prima antropologia comparativa, che non ne conosceva la pratica, quasi tutte le tradizioni successive, da quelle documentarie comparative (es. la folkloristica ottocentesca, gli studi demologici) a quelle sistemiche etnografiche (funzionalismo, strutturalismo, etc.) si sono misurate prima con la trascrizione di miti, canti, linguaggi, fiabe e poesie popolari e in seguito con la registrazione di testimonianze dirette, avvicinandosi così a definire una pratica di intervista. Tuttavia, diversamente da altre discipline, come la sociologia, dove è utilizzata come metodologia autonoma, è soprattutto nel fieldwork, nella ricerca sul campo, che l'intervista ha guadagnato in antropologia un suo statuto metodologico come strumento di conoscenza connesso ad una permanenza sul campo e all'osservazione esperienziale di un determinato contesto di vita. In questo senso l'intervista è calata nell'osservazione “etnografica”, dunque connessa al contesto di vita e finalizzata a conoscere il punto di vista degli attori. Come osserva Olivier de Sardan, benché affini per alcuni aspetti, antropologia e sociologia, sembrano infatti distinguersi ‘malgrado tutto’ per le forme di indagine empirica che ciascuna di esse privilegia". Ovvero l'inchiesta con questionari per la sociologia e il campo per l'antropologia, anche se tale distinzione non è così netta e si danno molte varietà di forme intermedie10. Nella tradizione antropologica si possono distinguere due fasi che hanno caratterizzato il modo di intendere l'intervista etnografica, la prima coincide con la sua fase positivistica e la seconda con la cosiddetta "svolta ermeneutica" o riflessiva. L'antropologia classica che ha promosso il fieldwork come pratica fondante della disciplina concepiva l’intervista etnografica e la ricerca sul campo secondo una epistemologia positivista, la quale presumeva che i cosiddetti "informatori" fossero depositari di un sapere oggettivo sulla propria cultura (pratiche norme, credenze, ecc.), che andava "prelevato" attraverso una metodologia. Questa metodologia era appunto l’intervista, combinata ad altre tecniche, come l'"osservazione partecipante", la ricostruzione di genealogie o di sistemi di parentela, grafici, disegni e altro tipo di documentazione. Lo sforzo metodologico dell'etnografo, insieme a quello esperienziale relativo all'osservare e al partecipare alla vita sociale, era quello di produrre e affinare strategie affinché si potesse conoscere la "cultura" nativa (secondo i differenti approcci, funzionalista, strutturalista, ecc.), nel modo più giusto sul piano etico e più utile sul piano scientifico. Benché questo modo di intendere la ricerca sul campo abbia prodotto in antropologia una mole consistente di riflessioni sugli aspetti etici e scientifici relativi al conoscere antropologico, al rapporto con gli informatori e all'uso dei dati, il modello di conoscenza aveva come fine sistemico quello di conoscere la "cultura" attraverso l'informatore, inteso come depositario di conoscenze, visioni del mondo e pratiche rappresentative. Nelle etnografie classiche, infatti, sia l'intervista che il rapporto con gli informatori, sono in genere poco visibili come parte del processo di produzione del sapere, proprio perché si dava per scontata la trasferibilità del sapere11. Anche quando a partire dagli anni Settanta, con lo sviluppo di un'antropologia sempre più attenta alle categorie linguistiche indigene, l'intervista viene avvicinata agli "eventi linguistici" (speech event), il suo fine è sem30
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pre quello di ricavare un sapere, per arrivare a possedere dei "dati" sulla "cultura" indigena che si intende studiare. Se prendiamo come esempio The Ethnographic Interview un testo classico sull'intervista etnografica scritto negli anni Settanta dall'antropologo americano James Spradley e usato negli anni da generazioni di studenti, vediamo quelli che in antropologia sono stati i canoni dell’intervista etnografica. In questo manuale il primo elemento fondamentale indicato per poter svolgere un'intervista etnografica è il linguaggio, cioè la competenza linguistica da parte dell’etnografo della lingua dell’informatore; quindi il divieto di usare interpreti e mediatori linguistici. Il secondo elemento è l'enfasi sull’informatore come figura dai contorni molto chiari, che l’etnografo quando è sul campo deve scovare e "sedurre", affinché questi sia disposto a collaborare. L'etnografo deve quindi individuare il buon informatore, il personaggio più rappresentativo e più calato nella realtà che si deve esplorare. Il terzo elemento fondamentale, infine è dato dagli aspetti etici della ricerca sul campo e dell'intervista. Problematica che ha portato nel 1971 l’American Anthropological Association a stilare una serie di principi guida di tipo etico per gli etnografi che conducono interviste, soprattutto in situazioni sensibili e conflittuali. Tra questi: 1) Proteggere l'informatore: l'antropologo ha la responsabilità di proteggere la sua salute fisica, morale e sociale, rispettare la sua dignità e salvaguardare i suoi diritti ed interessi; 2) Comunicare gli obiettivi di ricerca: gli informatori hanno il diritto di conoscere gli scopi dell’etnografo e di ricevere una spiegazione adeguata circa le finalità del lavoro dell’etnografo; 3) Proteggere la privacy dell’informatore: gli informatori hanno il diritto di rimanere anonimi. Questo diritto deve essere rispettato anche se non ci sono accordi diretti con l’informatore. Proteggere la privacy degli informatori va ben oltre cambiare nomi, luoghi o altri tratti che permettono di identificare la persona; 4) Non sfruttare gli informatori; 5) Comunicare agli informatori i propri rapporti di ricerca. La manualistica antropologica ha definito negli anni anche le caratteristiche dell''intervista etnografica rispetto ai molti altri tipi di conversazione nelle quali ci si trova impegnati durante una ricerca sul campo. Prendendo il già citato manuale di Spradley, la prima di queste è la "proposta esplicita": l’etnografo deve spiegare chiaramente in quale direzione l’intervista andrà. Senza essere autoritario, egli gradualmente deve prendere il controllo del discorso dirigendolo in quei canali che portano a scoprire la conoscenza culturale dell’informatore. La seconda peculiarità è data dalle spiegazioni etnografiche: fin dal primo incontro e in ogni occasione possibile, l’etnografo deve ripetutamente offrire spiegazioni all’informatore, sul progetto di ricerca (che vanno tradotte in un linguaggio comprensibile per l’informatore); sulla registrazione; sulla lingua nativa, incoraggiando l’informatore a parlare nel corso dell'intervista nella sua lingua nativa per evitare che questi traduca nella lingua del ricercatore; e spiegazioni sul tipo di intervista che si intende fare di volta in volta. La terza caratteristica è infine data dalla modalità di porre le domande "etnografiche" che nel manuale in questione vengono elencate e divise in grandi categorie, tra ad esempio: a) domande descrittive (es: "potresti dirmi cosa fai in ufficio?”); b) domande strutturali che 31
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hanno lo scopo di isolare dei “domini” e di scoprire come gli informatori hanno organizzato la loro conoscenza (es: "quali sono i diversi tipi di piante che raccogli ?”); c) domande di contrasto finalizzate a capire cosa intende l’informatore quando usa determinati termini (es. “Che differenza c’è tra un X e un Y ?”). A partire dagli anni Settanta del Novecento questi modelli di conoscenza, che per decenni hanno caratterizzato la ricerca antropologica, sono entrati in crisi nelle scienze sociali; è mutato profondamente il modo di intendere il conoscere antropologico e dunque anche le sue metodologie. Inizia ad essere messo in discussione il paradigma verità/falsità che per anni ha caratterizzato il conoscere scientifico e insieme ad esso l'esistenza di verità oggettive da elicitare attraverso una specifica metodologia. Sempre più ci si rende conto che l’antropologo sul campo non va a "cogliere" informazioni e dati oggettivi o "estrarre dati” come una miniera12, equipaggiandosi metodologicamente per portare a termine il suo compito, ma che il sapere (e la cultura) li va a "costruire" insieme all’informatore nell'atto stesso dell'interazione che avviene nel corso dell'intervista o nell'osservazione stessa, attraverso l'incontro tra il vissuto (suo e dei suoi interlocutori) e il proprio background culturale e personale. "In tutti i casi -scrive Olivier de Sardan- il colloquio di ricerca è un'interazione: il suo svolgimento dipende evidentemente sia dalle strategie dei due (o più) partner dell'interazione, e dalle loro risorse cognitive, sia dal contesto in cui essa si situa"13. Ci si rende conto, quindi, che il sapere antropologico è sempre costruito, contestuale e situato e i cosiddetti "dati" esprimono il prodotto di una interazione tra due o più persone, ciascuna con il proprio retroterra culturale, linguistico ed esperienziale. Non tenere conto di questa dimensione ci fa cadere in quella che è stata definita un'"illusione realista", o "falsa coscienza d oggettività"14. Questa presa di coscienza nel processo conoscitivo è ciò che in antropologia viene chiamata "riflessività", che ha caratterizzato l'orientamento principale dell'antropologia cosiddetta postmoderna15. Di conseguenza, l'intervista sempre più viene concepita come un momento performativo che coinvolge l'interlocutore e il suo intervistatore, dove insieme all'applicazione di una metodologia specifica, che rimane come guida ed elemento caratterizzante una competenza disciplinare, è presente anche una consapevolezza da parte dell’etnografo della storicità e della contestualità dei parametri del conoscere scientifico. Il prodotto dell'intervista (testi, dati, informazioni) non va dunque a definire un sapere oggettivo in sé, ma è il risultato di un incontro tra due o più soggettività, che spesso si trovano in una posizione tra loro asimmetrica per via del ruolo "egemone" esercitato dall'intervistatore. In questo senso il sapere antropologico viene sempre più concepito come prodotto di uno scambio ermeneutico, di un dialogo prodotto dall'incontro, diventando multiforme e polisemico. Questa apertura dell'intervista e del conoscere antropologico all'ermeneutica fa entrare in primo piano nell'intervista la relazione umana. Non più "tecnica" di servizio, al servizio del sapere scientifico, e non più solo "evento" linguistico prodotto dall'intervistato dal quale ricavare le categorie di pensiero native, l'intervista diventa un dialogo tra soggetti e per questo si mostra sfuggente, imprevedibile, riflessiva. Va ricordato tuttavia che la dimensione dialogica dell'intervista, come osserva giustamente Olivier de Sardan, non è solo una "istanza ideologica" dell'antropo32
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logia postmoderna, ma anche e soprattutto una "costrizione metodologica", in quanto per poter ascoltare il nostro informatore, la postura dialogante dell'antropologo si rende necessaria affinché l'intervista non si trasformi in "interrogatorio", ma assuma una forma di colloquio il più possibile vicina alle forme di comunicazione locale16. Infatti, il grado di informalità che l'antropologo concede all'intervista etnografica, lasciando fare all'interlocutore le digressioni che crede, ma anche le ripetizioni, le contraddizioni e tutto ciò che sembra allontanare dall'argomento della ricerca in senso stretto, è degno di nota per l'antropologo perché apre nuove domande ed esprime forme di interpretazione e di rappresentazione del sé o di confini culturali, che si offrono ad uno sguardo d'insieme. Entro l'ampia casistica che caratterizza le forme di intervista praticate dalle scienze sociali, l'intervista etnografica si colloca dunque ad un estremo che l'avvicina alla conversazione libera (intervista libera) mediata da un canovaccio di domande, laddove il questionario o l'intervista strutturata pone le domande in modo standardizzato e rigido (intervista strutturata) lasciando all'intervistato poco spazio di libertà17. In Italia, nell'ambito delle discipline demoetnoantropologiche l'intervista inizialmente non appare come pratica di un fieldwork esperienziale di tradizione anglosassone, quindi come metodologia etnografica tout court (approccio che in Italia è stato in passato minoritario). Ma è connessa soprattutto all'ambito demologico dove si è orientata verso la documentazione dei fenomeni folklorici, prima con l'uso di questionari e successivamente, nel clima di impegno politico-culturale verso la cultura popolare del secondo dopoguerra, nelle inchieste demologiche dove è stata usata come strumento per il "rilevamento" dei fatti folklorici18. Parallelamente essa è stata lo strumento primario nella ricerca sulle fonti orali, le storie di vita e nella documentazione dei beni culturali "demoetnoantropologici", dove è stata ed è tuttora usata come strumento di ricerca nelle pratiche di catalogazione19. Nell'ambito della ricerca etnoantropologica, l'intervista è stata dunque fondamentale nella creazione di apparati documentali e di archivi che hanno contribuito, nel dialogo con gli storici orali, al riconoscimento professionale del profilo demoetnoantropologico, archivi nei quali le diverse soggettività testimoniali hanno costituito la materia prima del conoscere e del sapere, oltre che base di riflessione dialogica. In questo senso l'intervista permette di arrivare al valore documentale e di testimonianza più che alla "cultura" sistemica tout court, alla "fonte" testimoniale, sia storica che demoantropologica, produttrice di "documenti" rivelatori di saperi, memorie, modalità narrative, performative, mnemoniche e identitarie legate alla cultura popolare. Dove al centro, come ha scritto di recente Pietro Clemente, è "l'altro, non tanto come oggetto di indagine, ma come produttore di fonti"20. Lo stesso Alberto Cirese, pur collocando l'intervista demologica entro il paradigma della documentazione, distingueva già molti anni fa tra l'approccio demologico all'intervista e quello sociologico, attribuendo al primo una empatia tra osservatore e osservato e la necessità di una relazione umana che non apparterrebbe alle metodologie sociologiche. Scrive Cirese: "va comunque ricordato che l'inchiesta è un rapporto tra uomini e non tra uomini e oggetti o documenti"21. In ambito etnologico e antropologico-culturale l'intervista 33
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ha invece seguito in Italia strade diverse, ora in direzione della pratica etnografica, collegandosi al panorama antropologico più ampio22, ora avvicinandosi alla tradizione sociologica23.
3. Il dilemma delle voci: "L'antropologo che intervista" Nel suo recente saggio L'antropologo che intervista. Le storie della vita24, Pietro Clemente sottolinea il dilemma che caratterizza la pratica dell'intervista in antropologia, in bilico tra conoscenza, dialogo ed esercizio di potere. Se infatti è stata riconosciuta l'importanza degli aspetti dialogici che si producono nell'intervista, che hanno messo in crisi il tradizionale modo positivista del conoscere antropologico (l'intervista come "prelievo", o "miniera" per l'"estrazione" di informazioni)25, dalla stessa antropologia sono scaturite le critiche che hanno sottolineato la dimensione di potere che questa esprimerebbe, come strumento in possesso delle classi dominanti, le quali la utilizzerebbero "per soddisfare i propri bisogni intellettuali"26. Secondo l'antropologo e linguista Charles Briggs: "Per i membri dei settori egemonici della società, intervistare finisce col diventare parte di una pratica linguistica di buon senso; anche per questo chi somministra interviste può mostrarsi restio a sottoporre questo strumento ad una critica troppo approfondita, vista la sua efficacia come mezzo per impregnare di autorità i discorsi delle scienze sociali"27. La questione centrale appare così ruotare intorno alla rappresentanza delle "voci" che si esprimono nell'intervista. Voci da "ascoltare" (qualcuno ha definito l'antropologia come una vocazione ad "ascoltare" le voci e a tradurle)28, da "dare" (il "dare voce" a gruppi minoritari e oppressi), o da "prendere" al posto di altri che non possono fare sentire la propria (la questione dell'advocacy in antropologia). In questo senso la intendeva lo stesso Ernesto De Martino, che nelle Note lucane sottolineava il valore politico testimoniale del dire e del rendere pubbliche le storie dei patimenti dei ceti subalterni, cui si è ispirata la ricerca sulle fonti orali tra demologia, storia e antropologia.29 Ma che non vedeva nell'intervista uno strumento di potere celato dietro una pratica apparentemente restitutiva delle altrui soggettività e storie umane. E' sempre l'antropologo infatti ad avviare e gestire la registrazione. Inoltre, come sottolinea Briggs: "Il discorso dell’intervista, sia per la sua forma che per il suo contenuto, è concepito esplicitamente per essere ricontestualizzato il più possibile all’interno dei testi creati in anticipo dal ricercatore; in questo processo, agli intervistati vengono concessi pochissimi diritti"30. Per questo oggi l'intervista appare una pratica nella quale si esprimono tutte queste tensioni, etiche, politiche ed epistemologiche, tra conoscenza e una pratica di ascolto e restituzione delle voci dalle forti implicazioni etiche e politiche. Sempre Clemente sottolinea quanto sia fondamentale quella che lui chiama la "domanda ulteriore", quella imprevista, che nasce dall'ascolto del contesto e che avvicina l'antropologo alla pratica "volpina" della quale parlava Geertz, cioè duttile e mutevole. Così come è fondamentale considerare l'ampia gamma di ruoli che si possono produrre nell'intervista, da quello "testimoniale" di un soggetto cosciente del proprio ruolo storico di testimone epocale di mondi inabissati, che 34
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vuole raccontare ed essere ascoltato (il nostro testimone di Esperia) al ruolo "confidenziale" amicale che si può produrre tra interlocutori della stessa età e genere (quando ad esempio mi è accaduto di intervistare in solitaria donne della mia stessa età "di mezzo"), o anche ruoli al contrario "materni" (come nel caso dell'intervista che le anziane signore hanno rivolto alla sottoscritta). La riflessione sulla dimensione generazionale che caratterizza il rapporto tra intervistatore e intervistato è importante e ci porta a considerare i diversi posizionamenti di ruolo e di genere che in essa si producono. Al di là della volontà testimoniale dell'intervistato, può risultare infatti fondamentale la distanza generazionale tra gli interlocutori. Nella mia esperienza mi è capitato di intervistare soprattutto persone di età avanzata, uomini e donne anziane nei cui confronti mi sono posta con il rispetto e il feeling che si può avere con i propri nonni. In questi casi la conversazione, è stato influenzato dal mio sentirmi ed essere percepita nel ruolo di una nipote. Un ruolo destinato a cambiare: come saranno le interviste che rivolgerò ad anziani quando la mia età sarà via via uguale o maggiore rispetto a quella degli intervistati e quando la relazione generazionale sarà forse paritaria o invertita? Lo stesso può dirsi delle differenze di genere, tema ampio, sul quale si potrebbe sviluppare una riflessione dedicata. L'influenza che l'età e il genere esercitano nella relazione tra intervistatore e intervistato ci ricorda che porre delle domande ad un interlocutore dobbiamo leggerlo entro la pratica delle relazioni interpersonali e sociali e dimostra la natura fortemente empatica dell'intervista. Un'altra bella espressione che Clemente dedica all'intervista antropologica contrappone la routine dell'intervista strutturata o giornalistica all'"evento" suscitato dall'intervista antropologica, soprattutto quando al centro è la vita stessa del soggetto. "L'evento è irripetibile -scrive Clemente- e le nostre registrazioni e trascrizioni recano traccia dell'irripetibilità. Per questo ci interrogano. Può succedere che l'incontro ti cambi"31. Solo l'intervista antropologica e quella di storia orale, infatti, portano con sé un'etica di profondo rispetto e di giusta distanza che si contrappone con decisione all'uso televisivo del dolore e delle vite altrui che vediamo quotidianamente nelle interviste giornalistiche e negli spettacoli televisivi. L'intervista come evento significa che l'"altro" è individuo, soggetto, testimone e non contenitore/produttore di dati, né spettacolo o messa in scena. Presa tra il conoscere e il dare la voce, l'intervista antropologica esprime dunque una natura fortemente dilemmatica in bilico tra riflessività e produzione di conoscenza testimoniale, ma che forte della sua etica ossimorica della profondità nella giusta distanza, appare uno dei pochi mezzi che ci permettono di poter esplorare non solo le altrui soggettività, ma come osserva ancora Clemente: "l'oggettività della soggettività e la soggettività dell'oggettività"32. Che più che essere un gioco di parole, sta ad indicare la possibilità di poter leggere culture, alterità e diversità culturali, nelle esperienze dei soggetti, nelle rappresentazioni delle pratiche e nelle loro restituzioni narrative. Sulla natura dilemmatica dell'intervista antropologica, anche Olivier de Sardan ci ricorda altri aspetti, come quello del cosiddetto "doppio legame" (double bind), espressione introdotta da Gregory Bateson, che indica un rapporto di co35
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municazione nel quale il livello esplicito del parlato e quello implicito non verbale sono tra loro in contraddizione. Nel corso di un'intervista infatti, ciò che l'interlocutore esprime a parole -i contenuti del parlato- potrebbe non corrispondere alle sue intenzioni o stato d'animo (ad esempio mettersi in evidenza per trarre qualche vantaggio, occultare, oppure compiacere l'intervistatore dicendogli quello che lui pensa l'intervistatore voglia, ecc.)33. C'è poi il dilemma di fare andare d'accordo il livello di attenzione critica che il ricercatore deve avere nei confronti di ciò che gli viene detto dall'intervistato (non prendere per oro colato tutto ciò che dice) e la necessità invece di prendere le sue parole sul serio, perché è l'orizzonte di senso dell'intervistato che interessa l'antropologo che ascolta le "voci" degli altri, facendo attenzione però a non confondere la realtà con i discorsi su di essa. "Ecco un vero dilemma. Come mettere insieme -si domanda Olivier de Sardan- empatia e distanza, rispetto e diffidenza? Come per ogni dilemma non v'è una soluzione radicale"34
4. Pratiche dell'intervista antropologica Benché sia piuttosto diffusa l'idea -non solo da noi in Italia- che ciò che ha a che fare con la ricerca antropologica non si impara nei manuali ma sia una questione di esperienza e competenza nell'ascolto e nello sguardo35, pensare agli errori, agli insuccessi o ai casi che consideriamo esemplari, ci permette di definire un know how che nella ampiezza delle scelte e delle possibilità, possiamo vedere come caratterizzato da qualche denominatore comune, come il modo di scegliere (o di farsi scegliere) dagli interlocutori, l'approccio da adottare tra intervista di vita e intervista tematica, le domande da porre, o l'alternarsi tra le domande e l'ascolto. Pensare l'intervista antropologica come performance, o come evento irripetibile, significa avvicinare questa ad una pratica di improvvisazione36 che forse è stata sempre peculiare all'antropologia, anche nella sua fase positivistica, ma che la "svolta riflessiva" ha permesso di definire meglio rispetto al passato con maggiore consapevolezza riguardo ai suoi effetti conoscitivi. D'altra parte lo stesso Alberto Cirese, già molti anni fa notava che: "gli accorgimenti relativi al colloquio, le conoscenze preliminari sulla situazione socio-politica [...], ecc. non servirebbero a gran cosa se l'impianto della ricerca non recasse in sé stesso le condizioni per stabilire un rapporto di reale comunicazione con gli uomini e le donne con cui si intende aprire il colloquio"37. Tuttavia è importante considerare le molte variabili che si aprono a seconda se l'intervista si colloca nell'ambito di una etnografia classica -cioè di un'esperienza di immersione totale esperienziale in un vissuto "altro"- o nell'ambito di una campagna di documentazione, indipendentemente se si tratti di intervista di vita o tematica, se non altro perché può essere molto diverso il ruolo che assumiamo nei confronti dei nostri interlocutori e viceversa, con conseguenze sulla disponibilità di questi a farsi interviste. Senza considerare le variabili di genere ed età che abbiamo già detto. Quali interlocutori ? La prima questione che si presenta per chi fa ricerca sul campo utilizzando l'intervista è come scegliere i propri interlocutori e individuare le persone adatte. Ferma restando la necessità di un'etica di rispetto e di traspa36
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renza nei confronti delle persone che incontriamo (che vanno sempre informate circa la finalità del nostro lavoro), non esiste un vero e proprio metodo o formule che possano essere insegnate, ma solo suggerimenti utili ed anche qui è fondamentale il ruolo che occupiamo nel contesto, se come etnografi "partecipanti", o come ricercatori di documentazione. Spesso, specie in collettività ristrette, coloro che "sanno" vengono indicati come informatrici/ori privilegiati e il ricercatore che viene da fuori è possibile che venga indirizzato verso queste persone. E sono indicazioni che a volte si rivelano esatte. In un paese della Valle dell'Aniene, Gerano, dove all'inizio del 2000 ho lavorato per la Regione Lazio sulla festa e il culto di S. Anatolia, ricordo che chiesi più volte indicazioni in giro su chi potesse narrarmi testimonianze e racconti di miracoli o storie legate alla santa, e tutte le persone interpellate mi indicarono un uomo anziano che era conosciuto in paese per essere un grande narratore di storie e di memorie. Avevano ragione. Infatti, benché abbia fatto una certa fatica a prendere appuntamento con l'uomo, in questo caso incontrai una persona -insieme alla moglie- che mi ha donato quella che per me ancora oggi rappresenta l'esperienza più bella e coinvolgente che io abbia mai fatto nel campo della narrazione; sia l'uomo che la moglie avevano una capacità narrativa e performativa molto forte e una grande disponibilità al dialogo, che in seguito non è stato più così facile incontrare. Bisogna tuttavia, anche seguire delle precauzioni, che possono incidere non poco sull'esito complessivo della ricerca, come quello di stare attenti al rapporto con le autorità civili e religiose, che va curato -esiste una letteratura antropologica su questo aspetto- ma facendo attenzione alla posizione che assumiamo dentro queste relazioni. “Giungere in un paese di braccianti maltrattati -scriveva Cirese nel 1971- con la presentazione del signorotto locale, esoso e malvisto, preclude la comunicazione e condanna l'inchiesta al fallimento”38. Ma si danno anche casi inversi. Nella mia esperienza recente ricordo di un piccolo paese della bassa Sabina di appena un centinaio di abitanti, dove ho fatto ricerca sui fenomeni festivi39. Qui per le interviste individuai una serie di persone dentro la confraternita locale -l'unica esistente nel paese- e mi appoggiai ai confratelli per individuare altre persone che potessero rappresentare una memoria del territorio. Non intervistai il parroco -persona piuttosto contestata localmente- perché mi era apparsa una voce estranea alla comunità e quindi non particolarmente densa dal punto di vista della memoria locale. Ma la scelta si rivelò errata dal punto di vista dell'etica delle relazioni da tenere sul terreno, perché dopo la pubblicazione del volume dedicato alle feste nell'area, che volemmo restituire pubblicamente alla comunità, il parroco manifestò apertamente il suo dissenso nei confronti del nostro lavoro, mettendoci in chiara difficoltà semmai nel futuro avessimo voluto mantenere contatti in quel territorio. Nel dilemma che caratterizza ogni avvio di ricerca e i modi di relazionarsi al contesto, gioca un ruolo importante la posizione che abbiamo nella comunità. La non-neutralità della nostra presenza è evidente se consideriamo quanto cambia il nostro fare domande se il nostro interlocutore ci conosce come persona vicina o interna ad un determinato contesto. Intervistare un parente, ad esempio, è esperienza molto delicata, che richiede un gioco di intese implicite, in quanto molte 37
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delle cose, eventi o persone che appartengono al vissuto di chi intervistiamo, specie se si tratta di una intervista di vita, forse già le conosciamo, ma in quel momento l'intervista per potersi attuare deve fare scattare un accordo implicito tra i due interlocutori, del tipo: "io so che tu sai, ma mi comporto come se tu non sapessi" e l'intervista può diventare un momento denso di scambio reciproco, di ricordi e memorie familiari, anche inattese, che di fronte ad un intervistatore esterno forse non emergerebbero con la stessa intensità. Ma può anche accadere che il nostro parente o amico si senta scarsamente motivato ad essere ascoltato, o addirittura essere reticente a causa del timore che il suo racconto possa essere divulgato nella cerchia amicale o parentale. Quali domande? Al di là della griglia di domande che la manualistica suggerisce come imprescindibili nella strutturazione di un'intervista, è sempre molto difficile scegliere le domande da rivolgere perché non conoscendo il soggetto che abbiamo davanti e non conoscendone spesso il mondo di riferimento non possiamo conoscere a priori quali domande sarebbe più opportuno formulare. Poiché l'antropologia preferisce in genere interviste libere (prive di una griglia di domande) o al più semi-strutturate (con un canovaccio di temi da trattare), le domande vengono elaborate per lo più al momento, avendo però in mente i temi sui quali si intende intervistare ed ascoltare la persona. Può capitare, se si lavora ad esempio con le narrazioni di leggende, o con le memorie relative a particolari momenti come possono essere le memorie della guerra, che l'intervistato già sia preparato a narrare quelle storie perché lo ha già fatto altre volte e che non ci sia neppure bisogno di formulare particolari domande. Ciò capita soprattutto quando è la comunità che indica questa o quella persona come "colui che sa". In altri casi la formulazione delle domande è necessaria, ma procede a vista a seconda della disponibilità dell'intervistato a parlare. Un campo particolarmente difficile sul quale formulare domande è quello relativo ai saperi, tecnici e naturalistici, ad esempio nel campo dell'artigianato popolare, o di alcune attività di lavoro tradizionali. In questi casi, non solo è necessario avere una base di preparazione sul mondo di riferimento dell'intervistato, su come si svolge (o svolgeva) quella determinata attività, ma si tratta spesso di saperi che non sono stati appresi dai libri, ma dall'esperienza e quindi mai formulati verbalmente. Lavorando attualmente sulla pesca tradizionale nell'area dell'alto Lazio, sul lago di Bolsena, mi capita spesso di intervistare pescatori di lago per documentare i loro saperi tecnici e naturalistici, le tecniche di pesca e le conoscenze naturalistiche relative a correnti, fondali, stagioni, venti, ecc. La pesca di lago, come molte attività tradizionali popolari, è un mestiere che nei secoli ha sviluppato un lessico tecnico e conoscenze relative all'ambente naturale che non si trovano sui libri, ma che è difficile far verbalizzare nel corso di una intervista, a meno che non si documentino direttamente con il video nella pratica. Rivedendo le prime interviste video che ho realizzato anni fa ad alcuni di questi pescatori, mi rendo conto dell'ingenuità contenuta nelle mie domande e dello sforzo che i miei interlocutori facevano per rispondere. Non conoscendo nulla della pesca tradizionale, all'inizio le mie domande navigavano a vista, ma erano totalmente generiche e prive dei riferimenti necessari -ora me ne rendo conto- per permettere ai miei in38
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terlocutori di comunicare a me i loro saperi. Essi finivano così per darmi delle risposte generiche e superficiali, anche a volte prendendomi sottilmente in giro. In questi casi può essere molto utile far dialogare due intervistati “di mestiere”, in modo da far emergere le diverse interpretazioni relative al loro “saper fare”. Essendo questa forma di pesca, come qualsiasi forma di artigianato popolare, frutto dell'esperienza, ogni pescatore ha elaborato un suo modo di interagire con il lago che, messo a confronto con altri modi, può dar luogo ad interessanti discussioni “a contrasto”. Pregiudizi confessionali e invadenze linguistiche. Se devo pensare ad errori commessi o in agguato quando lavoriamo con le interviste, penso soprattutto ad errori pregiudiziali che è facile commettere e dei quali a volte non ci rendiamo conto. Per ricollegarci alla questione precedente delle domande, un errore frequente, che in genere si fa alle prima armi, è quello di formulare le domande senza considerare il mondo di riferimento, linguistico e cognitivo, del nostro interlocutore. Per una sorta di "ansia da prestazione" all'inverso, chi intervista specie se molto giovane, spesso finisce per formulare domande astratte, complicate, piene di frasi incidentali e subordinate, molto aderenti ad una cultura scritta, laddove la persona che abbiamo davanti può invece essere legata più a forme di comunicazione orale e non cogliere o addirittura evitare domande troppo astruse. Ma i pregiudizi a volte ci fanno commettere l'errore contrario, quando presumiamo che il nostro interlocutore non capisce un linguaggio troppo astratto e appiattiamo il discorso su domande semplificate e banali. Ci sono poi errori legati all'uso di domande retoriche nelle quali è già implicita la risposta, con quel "vero?" retorico, con il quale a volte finiscono le domande che presumono già una risposta. E' un errore molto frequente nell'intervista giornalistica, improntata ad altre sintesi e temporalità, ma può caratterizzare anche l'intervista antropologica. Ricordo in un video antropologico dedicato al tema della memoria realizzato alcuni anni fa da un ente locale, una delle intervistatrici faceva domande sulla guerra ad un uomo anziano ed ha esordito chiedendo: "era brutta la guerra, vero?". Non stupisce che l'uomo abbia risposto mestamente che la guerra effettivamente era brutta. Si tratta di errori che tutti prima o poi commettiamo o abbiamo commesso nel corso di un'intervista con domande generiche, interruzioni e risposte implicite già contenute nelle domande. La tendenza ad interrompere il nostro interlocutore è considerata un errore di metodo nella conduzione di un'intervista antropologica, intesa come pratica dell'ascolto. Più in generale a dover essere evitati sono una certa invadenza linguistica e la tendenza (spesso dei più giovani) a coprire con il nostro parlato i silenzi dell'intervistato. Soprattutto se ci troviamo di fronte a soggettività storicamente deboli e subalterne, come persone anziane con un basso grado di istruzione, è probabile essere percepiti come una presenza “egemone” e che la nostra interruzione sia letta come una "correzione", o una indicazione da parte dell'intervistatore (il ricercatore dell'Università, il funzionario della Regione, ecc.) a dire le cose in un certo modo. In un simile contesto è facile che l'interlocutore finisca per ripetere ciò che noi suggeriamo nelle domande, cercando di venire incontro alle nostre aspettative per compiacerci. Nel corso di un'intervista, invece, per seguire Clemente, dovremmo farci piccoli come un bambino e una 39
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volta fatta la domanda restare ad ascoltare e fare le domande che servono a proseguire il racconto, senza darci delle arie40. Tuttavia, sulla definizione dei ritmi del parlato tra intervistatore e intervistato si gioca una questione epistemologica più che metodologica di grande rilievo. Infatti, nel ripensamento dei fondamenti conoscitivi dell'antropologia, l'intervista è stata sempre più letta come una pratica di costruzione dialogica del sapere antropologico, più che di prelievo (il “dato” qualitativo), con la conseguenza che la presenza soggettiva dell'antropologo diventa sempre più rilevante e non si limita al solo ruolo del porre le domande. Visto come momento di interazione tra due soggettività, l'intervista può quindi non comportare necessariamente la totale invisibilità dell'intervistato, ma al contrario essere caratterizzata da dibattiti, contraddittori e a volte anche conflittualità. Tutto ciò può variare in relazione ai singoli e ci sono certamente dei soggetti che non si lasciano interrompere facilmente. Ad esempio, il testimone di Esperia del quale ho parlato in apertura, aveva una consapevolezza del proprio ruolo di testimone e una personalità tale da chiudere ogni spazio possibile alle altre voci, in uno scenario di intervistatori molto affollato. Vorrei riportare a questo proposito una testimonianza di Nuto Revelli che racconta il rapporto con i suoi interlocutori nel corso di una intervista: “Come entro in una casa contadina -dopo il solito rituale dei convenevoliespongo il disegno della mia ricerca e dialogo il più possibile con il mio interlocutore. E il momento in cui tento di conoscere la persona che ho di fronte, e di farmi conoscere. Poi suggerisco al testimone di dare un ordine cronologico al suo racconta. E se ascolta il mio suggerimento tanto meglio. Se invece privilegia il discorso che più gli sta a cuore non lo interrompo, non lo richiamo all'ordine. Lascio che parli a ruota libera. Nel corso della testimonianza dialogo con la persona che ho di fronte: cioè partecipo, vivo emotivamente il racconto che ascolto. Non resto lì muto come il magnetofono. Sono però attento a non influenzare il testimone, a non interromperlo, a non sviare il filo del suo discorso. Non lo tempesto di domande, non riduco la testimonianza in un verbale di interrogatorio”41. Bisogna quindi saper dosare al momento la propria presenza nell'intervista, cercando di ascoltare e assecondare l'intervistato, almeno fino a quando questi non ci chiama in causa chiedendoci opinioni, giudizi, o suscitando una nostra reazione. In fondo, anche un intervistatore eccessivamente silenzioso può incutere timore e non facilitare la conversazione, come accade con una presenza al contrario troppo invadente. Mimesi o distacco? Una questione che più volte mi sono posta -strettamente legata all'intervista- è quella dell'opportunità del distacco o al contrario della mimesi dell'antropologo nel contesto che si va ad esplorare. Le etnografie intensive sono le esperienze migliori per mettere alla prova questo dilemma. Negli anni Novanta, ad esempio, per il mio dottorato di ricerca ho svolto una etnografia classica in un quartiere popolare napoletano, incentrata sulle retoriche e le rappresentazioni della napoletanità, vivendo per alcuni anni in un “basso” del quartiere popolare che avevo scelto42. Nelle mie relazioni con i residenti del quartiere partivo da un'idea che nel corso della ricerca si rivelò sbagliata, e cioè che nella 40
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ricerca sul campo per capire il punto di vista della gente dovevo camuffarmi, farmi "nativa", dovevo cioè non rendere troppo visibile la mia presenza di ricercatrice. Ecco allora che passavo molte delle mie giornate fuori dal basso che avevo preso in affitto a parlare con le vicine di casa, a farmele amiche, scambiarmi favori e piccole solidarietà di vicinato, cercare di partecipare ai loro svaghi. Avevo informato le mie vicine del tipo di ricerca che stavo facendo su di loro, ma nella pratica cercavo il più possibile di vivere come loro. Pensavo che questa mimesi mi avrebbe dato l’accesso ad una sorta di “verità” sul loro punto di vista che in un secondo momento mi avrebbe facilitato la possibilità di realizzare delle interviste. Forse ciò valeva per l'empatia nei confronti del punto di vista locale, ma non valeva per l'intervista. Infatti, nel momento in cui a queste donne o famiglie con le quali avevo stabilito una relazione amicale, andavo a chiedere la disponibilità per una intervista di tipo "confessionale" (in un luogo chiuso, da sole, ecc.) si creavano diversi problemi. O ricevevo dei rifiuti camuffati, cioè i soggetti non rifiutavano apertamente, ma diventavano evasivi e si rendevano indisponibili all'incontro adottando strategie retoriche varie43. Oppure accettavano, ma il loro impegno nell'intervista era molto scarso. Cercai di capire la causa di questi insuccessi e mi resi conto che avendo costruito con queste donne un rapporto amicale basato sulla vita di vicinato, non potevo con loro cambiare facilmente ruolo e diventare improvvisamente la ricercatrice con registratore che chiede di fare l’intervista. In quella esperienza napoletana le interviste migliori le feci, infatti, alle persone con le quali non condividevo la vita quotidiana, che abitavano nel quartiere ma non nel mio vicinato. Erano persone che mi venivano presentate da altri e alle quali io apparivo dal primo momento come una “ricercatrice” esterna a quel contesto. Responsabilizzare gli informatori. Questa esperienza, che ho voluto riportare, chiama in causa la questione della responsabilizzazione degli informatori. Sulle cause del mio insuccesso feci molte ipotesi: forse le mie vicine non si impegnavano nell'intervista perché probabilmente si trovavano impreparate a gestire un cambiamento di ruolo rispetto al rapporto che avevano con me quotidianamente, ma anche forse perché davano per scontato che io certe cose le sapessi già avendole vissute in parte con loro. I mesi passati insieme a parlare, mangiare, giocare e a scherzare con loro, evidentemente le avevano portate a pensare che, anche se per loro ero una estranea a quel contesto (mi soprannominavano “a romana” e quando parlavano con me traducevano spesso in italiano il dialetto stretto, immaginando che io non lo capissi), ero comunque diventata parte di un setting condividendo la loro vita quotidiana di vicinato. Inoltre, mi percepivano anche di una condizione economica precaria forse vicina alla loro; spesso mi domandavano quanto venivo pagata per fare il dottorato, quanto pagavo di affitto, quanto mi rimaneva per mangiare e più di una volta mi portarono -senza che io lo avessi chiesto- generi alimentari e vestiti usati che prendevano in parrocchia per le famiglie indigenti. Una seconda motivazione da non sottovalutare è la paura del registratore, che in quel contesto profondamente segnato dalla piccola delinquenza, sicuramente poteva essere percepito come uno strumento intrusivo e sospetto44. 41
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Essere invece "presentati" da qualcuno interno a quel contesto e recarsi ad un appuntamento per fare un'intervista, ci identifica come ricercatori autorevoli e nello stesso tempo responsabilizza gli interlocutori45. A volte l'autorevolezza dell'intervistatore può inibire, indurre paure, reticenze e finanche rifiuti, che sono frequenti laddove l'interlocutore si percepisce fortemente subalterno al mondo della ricerca. Ma può anche produrre una responsabilizzazione e una presa di coscienza del suo ruolo di "testimone" chiamato ad impegnarsi nella conversazione; e che a volte desidera essere ascoltato. Già negli anni Ottanta del Novecento Nuto Revelli faceva queste considerazioni quando diceva che: “Il magnetofono non intimidisce l'interlocutore, lo reponsabilizza”46. Molto significativa a questo proposito è anche la riflessione che ci ha lasciato Clara Gallini all'inizio degli anni Ottanta, nella lunga intervista a Maria, contadina di Tonara paese dell'entroterra della Sardegna, donna dalla grande capacità critica e analitica della propria e altrui condizione sociale, economica e femminile. Anche Maria, nonostante la sua condizione storicamente subalterna, di fronte al registratore assume il ruolo pubblico e consapevole di testimone: “Maria è davanti al registratore e ci parla con voce solenne, che sembra venire da remote distanze [...]. Mari sapeva che le sue parole erano destinate ad essere trasmesse per radio, come voce guida di una serie di quindici trasmissioni per la Rai-Terza Rete .... Accettò dunque di assumere un ruolo pubblico. E ebbe la straordinaria capacità di trasformarsi in quel tipo di personaggio che, a suo avvio, meglio si addiceva a chi non dovesse parlare solo a titolo privato: di qui il suo eloquio solenne [...] Aveva da esporre una sua testimonianza di vita e una sua visione del mondo e lo fece con la grande dignità di chi, stando sulla vetta di un monte, dopo aver compiuto un lungo cammino, ne ripercorre i sentieri seguendoli giù giù fino a valle, al villaggio d'origine”47 Ma nella casistica delle relazioni finalizzate all'intervista si possono incontrare anche casi inversi, di persone che più che voler essere ascoltate in veste di testimoni, pretendono una priorità nell'essere intervistati rispetto agli altri per ragioni di visibilità dentro la loro rete di relazioni. Sempre in un paese della valle dell'Aniene a pochi chilometri da Roma, un giorno conobbi un gruppo di donne alle quali chiesi pubblicamente i numeri di telefono per fissare con ciascuna di loro un appuntamento per un'intervista sui culti locali. Per puro caso accadde che la donna che segnai per prima la chiamai per ultima; un dettaglio che per me era quasi irrilevante, che invece la donna venne a sapere e -quasi risentita- mi fece notare più volte il giorno del nostro incontro. Stili comunicativi dell'intervista: confessionale o collettiva? C’è poi un altro fattore che ha a che fare con le mie aspettative di intervista e lo definirei “stile comunicativo”. Solo dopo essermi trovata di fronte alla difficoltà di fare interviste a Napoli mi resi conto che in quella esperienza mi ero recata sul campo con un modello rigido (l'intervista a due in luogo silenzioso e dedicato) che non si confaceva al contesto. Partivo dall’idea che l’intervista -come una sorta di seduta psicoanalitica- dovesse tirare fuori la parte intima, nascosta del sé di una persona; la stessa "memoria" la vedevo come qualcosa che per "uscire fuori" aveva bisogno di un rapporto faccia a faccia dedicato. Mi sbagliavo. Non solo perché non 42
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è questo l’unico setting favorevole per stabilire un dialogo con un interlocutore, ma soprattutto perché mi accorsi che le mie interlocutrici facevano fatica ad adattarsi al modello di intervista al quale le invitavo ad aderire. Per persone che vivono in spazi estremamente ristretti e abituate ad una vita di vicinato intensa, caratterizzata da continui movimenti dentro e fuori della casa (in un basso lo stesso confine che segna l'interno e l'esterno della casa è problematico da segnare), lo stare da sole a parlare e confidarsi con un’altra persona, in un luogo silenzioso, chiuso, è qualcosa di inusuale e difficile da immaginare, non solo per un fattore di abitudine, ma anche a causa dell'osservazione continua del vicinato, dove già il chiudere la porta può assumere un significato del quale si deve rendere conto allo spazio vicinale. Più in generale, capii che lo "stile comunicativo" delle mie interlocutrici era poco incline ai rapporti solitari. Le donne che volevo intervistare erano quasi sempre in compagnia di altri e quando finalmente riuscivo ad organizzare un’intervista, arrivavano all'appuntamento con molte persone, oppure nelle case trovavo spesso figli, sorelle, mariti, cognate, nonni, con le conseguenze che abbiamo visto. Il modello di intervista confessionale che avevo in mente conteneva quindi un implicito egemonico, che il contesto ha messo in crisi insegnandomi a leggere -e ad adattarmi- a quello che ho imparato essere lo stile locale di stabilire relazioni con gli altri. Ci sono, come abbiamo anticipato, aspetti positivi e negativi nell'intervista collettiva (che in sociologia è definita focus group, o gruppo di discussione). Il problema più rilevante è il difficile controllo del gruppo da parte dell'intervistatore con il rischio di una sovrapposizione totale delle voci e dei contenuti. Il secondo problema connesso al primo può essere una difficoltà di trascrizione del parlato, mentre un terzo problema può essere dato dall'innescarsi di logiche di gruppo imprevedibili, quindi gerarchie, conflittualità, con l'immancabile preminenza di personalità più esuberanti rispetto ad altre che nel corso dell'intervista possono rimanere in ombra e silenziose. Ricordo un’intervista collettiva che feci ad un gruppo di ex operai di una fabbrica di un paese del basso viterbese, Gallese; erano in cinque e tra loro uno parlava sempre, mentre un altro, la cui storia di 43
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vita mi era sembrata molto interessante, non riuscì mai a prendere la parola e ogni volta che ci provava veniva azzittito dagli altri con battute e scherzi vari. Quell'uomo aveva avuto un passato da mezzadro, veniva da una famiglia di mezzadri ed era successivamente diventato operaio della locale fabbrica di binari ferroviari, ma era un uomo molto timido. In quella occasione collettiva non parlò quasi mai; impiegai mesi per convincerlo ad incontrarci da soli e solo con una intervista "confessionale", che facemmo in un secondo momento, riuscì a raccontarmi la sua storia di vita e di lavoro. Un altro aspetto problematico dell'intervista collettiva è il rischio di una deresponsabilizzazione del gruppo, che si può innescare -come nel primo caso delle anziane signore della Valle dell'Anienelasciando spazio a forme di comunicazione che lasciano in secondo piano l'oggetto dell'intervista stessa. Ma ci sono anche molti vantaggi che sono quelli che consideriamo importanti nei focus group; l’intervista di gruppo, infatti, al contrario dell'intervista al singolo, riesce fa venire alla luce dinamiche locali, relazioni, opinioni, conflitti, che possono essere utilissimi per capire il significato che le persone danno a fatti e ad eventi passati. In un gruppo le persone sono più propense a parlare perché la conversazione procede nel loro linguaggio non in quello dell’etnografo; il ritmo dell'intervista è decentrato e policentrico rispetto all'autorialità tradizionale dell'intervistatore.
5. Oltre “noi” e “loro”: l'intervista antropologica ai tempi della condivisione Come riflessione conclusiva conviene a questo punto domandarsi che fine fanno le interviste che realizziamo e non è una domanda irrilevante. Distinguiamo però tra l'intervista intesa come supporto e l'uso che facciamo dei suoi contenuti. Se si lavora individualmente è probabile che ciò che abbiamo registrato in un fieldwork classico ce lo teniamo ben stretto e forse ce lo portiamo anche nella tomba, rivelandolo un po' alla volta nelle nostre scritture. C'è in alcuni di noi una certa gelosia e anche un po' di possessività, nei confronti delle "nostre" cassette registrate, dove è stipata memoria di tutte le relazioni che abbiamo avuto con le persone incontrate nel corso della nostra vita di antropologi. I supporti audiovisivi (oggi anche i files) possono diventare -così è stato per me- degli "oggetti di affezione"48, difficili da condividere e mettere al servizio degli altri, nonostante la consapevolezza del loro rappresentare un "bene comune". Se si lavora però per una istituzione, un ente locale e in squadra, è probabile che faccia parte delle premesse della ricerca la consegna all'istituzione del materiale registrato e quindi una loro perdita di “possesso”. Infatti, prima che arrivassero i mezzi digitali, facevo sempre delle copie “materiali” di tutte le registrazioni che effettuavo per conto di enti locali e istituzioni, non solo perché avrebbero potuto servire in futuro in futuro per l'analisi, ma per mantenere memoria delle relazioni con il terreno. In passato era però piuttosto complicato duplicare i supporti audio e video, comportava un enorme quantità di lavoro e di denaro. Per questo motivo, è particolarmente rilevante il luogo fisico nel quale questi sono conservati; gli archivi audiovisivi sono luoghi di conoscenza, di memoria e di esercizio di un bene comune. Con la documentazione più recente questa sacralità dell'archivio è venuta 44
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meno; oggi teoricamente si possono creare contemporaneamente più cloni degli archivi audiovisivi e lo stesso supporto sta perdendo la sua consistenza materiale. Basti pensare ai sistemi a “nuvola” di cloud computing, che permettono di archiviare quantità enormi di materiali in un "altrove" virtuale dove non esistono più la cassetta o la bobina e non esiste neppure un hard disk di casa nostra dove poter immaginare che siano archiviate tutte le nostre interviste. Se pensiamo però agli usi che facciamo delle interviste, forse dobbiamo tornare a riflettere sui processi di mutamento che si stanno verificando a più livelli nella ricerca antropologica e che riguardano anche la questione dei supporti e il loro uso. Sia che la intendiamo come conoscenza, che come ascolto, scambio dialogico, o nell'etica del dare la voce, in tutte le sue forme conosciute, forse l'intervista fino ad oggi è “servita” principalmente a noi (ai nostri “bisogni intellettuali” come aveva scritto Charles Briggs) e non a "loro", ai soggetti, alle comunità con le quali abbiamo interagito. Chi sono insomma i destinatari delle nostre interviste ? A cosa queste devono servire ? Devono essere solo al servizio della conoscenza o della conservazione di testimonianze per l'umanità futura? In generale in questo caso si parla di "restituzione" degli esiti della ricerca etnografica o delle interviste stesse ai nostri interlocutori, ed è una questione che apparteneva già in passato ad un codice etico dell'antropologo, ma appare oggi già superata e deve fare i conti con la “svolta partecipativa” che sta caratterizzando i nuovi orizzonti della ricerca territoriale anche nell'ambito demoetnoantropologico del patrimonio culturale49. Ricordiamo che i maggiori strumenti recenti di legislazione internazionale sul patrimonio culturale, come la Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003 o la Convenzione di Faro del Consiglio d'Europa del 200550, enfatizzano entrambe il ruolo attivo svolto dalle comunità “di eredità” nella definizione e nella “gestione” del patrimonio culturale. Sempre più si fa strada una visione del patrimonio non più legata alle sole competenze o ad un uso esclusivamente scientifico-disciplinare, o istituzionale, ma al contrario partecipata (o condivisa) da parte delle comunità e dei soggetti protagonisti. Le interviste fanno parte di questo scenario. Restituire localmente i propri materiali di ricerca o le pubblicazioni realizzate a seguito di una ricerca non è la stessa cosa di "condividere" il lavoro di ricerca con i propri interlocutori, perché l'atto del restituire implica comunque una separazione tra il ricercatore e il suo oggetto di ricerca e un ruolo egemonico dell'antropologo. Oggi tale postura nel dibattito internazionale è fortemente contestata mentre è promossa una diversa prospettiva che mette in discussione lo stesso primato delle competenze scientifiche e disciplinari, con prevedibili conseguenze per ruoli, profili, autorità e nuovi vincoli per l'antropologo, sempre più impegnato a condividere la ricerca con i propri interlocutori. La stessa "ricerca" sta mutando di senso, uscendo da un ambito prettamente scientifico, per diventare sempre più militante, engaged e piegata alla condivisione di finalità e bisogni di soggetti e comunità, dunque un ruolo dell'antropologo più vicino a quello della mediazione51. In Italia, nelle politiche dei beni culturali e nell'attuale legislazione non è previsto che lo Stato o gli enti locali si facciano carico di condividere con le comunità “di eredità” e con i soggetti protagonisti, finalità e obiettivi della ricerca. 45
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Questo vale ad esempio per la catalogazione scientifica dei beni demoetnoantropologici, dove è il catalogatore antropologo che dirige la ricerca e le interviste, ma neppure è prevista la restituzione dei supporti audiovisivi (quindi anche delle interviste) nelle comunità dove si è fatta ricerca demoetnoantropologica, a meno che le comunità ne facciano espressamente richiesta. La pratica della condivisione, o partecipazione, sta entrando lentamente insieme al paradigma dell'intangible heritage attraverso l'esperienza internazionale (la Convenzione Unesco). Ma è un modello che nel nostro paese incontra modalità precedenti di dialogo con i territori legate a stagioni di militanza politico-culturale che hanno portato ad un attivismo dal basso dei territori e ad una pratica diffusa di ricerca locale, attraverso associazioni, musei, archivi e sensibilità di singoli, dove partecipazione e condivisione sono implicite perché appartengono alle finalità stesse della ricerca. Chi lavora per enti locali e istituzioni centrali sa, invece, che le interviste e il lavoro sul campo che deve svolgere non saranno caratterizzati da una condivisione con i territori e con i soggetti dai quali si è "prelevato" il bene-testimonianza-documentazione (secondo la concezione che è stata definita "mineraria" dell'intervista); sa che i destinatari della ricerca non sono i soggetti/oggetti della ricerca stessa (salvo la presentazione locale di questo o quel volume a lavoro già svolto) e che i materiali prodotti rimarranno chiusi, come notava il museologo Hugues de Varine, nei cassetti delle istituzioni o in archivi elettronici52, che nel migliore dei casi si avrà la fortuna di vedere in rete. Al contrario, la ricerca engaged, o partecipativa, confondendo oggetto e soggetto della ricerca richiede un forte ripensamento anche della pratica dell'intervista, che in questo nuovo scenario può aprirsi a nuove modalità di realizzazione, ruoli e usi locali ancora in parte da esplorare. Saper ascoltare, affinché le creature possano conquistare nell'esprimersi, è solo da specialisti, o problema di ognuno? (Danilo Dolci, Nel tema di struttura creativa, 1987)
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Riferimenti bibliografici
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Note
L'espressione "beni demoetnoantropologici" (o "beni etnoantropologici") esiste solo in Italia e definisce un ambito dei beni culturali che rappresenta l'evoluzione degli studi di tradizioni popolari o sulla cultura popolare folklorica, così come definito dall'attuale Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (2004). Uno dei campi istituzionali di intervento sui beni demoetnoantropologici è quello della catalogazione, degli aspetti materiali e immateriali, operata attraverso l'ICCD anche dalle Regioni, con specifiche schede ministeriali. Sui beni demoetnoantropologici immateriali è in uso la scheda BDI (Beni demoetnoantropologici immateriali); Cfr. P. Clemente e I. Candeloro (2000); G.L. Bravo e R. Tucci (2006); 2 Questo è il verbo che comunemente viene usato per definire l'azione che caratterizza le ricerche etnoantropologiche di documentazione, insieme a quello di "registrare" e "documentare", che presumono un approccio di "prelievo". 3 L'invito a guardare all'antropologia come ad una professione dedita all'ascolto di voci viene dall'antropologo americano James Fernandez (1990), cit. in Schultz e Lavenda (2010, p. 6); 4 L'aggettivo "confessionale" definisce nel dibattito antropologico sull'etnografia un tipo di scrittura contrapposta alle scritture "realiste", nella quale più che un oggetto esterno da descrivere o interpretare (la cultura del gruppo che si intende studiare) vi è la forte riflessività dell'etnografo che nella scrittura riflette sul suo rapporto con il campo; Clifford Geertz ha definito questo approccio "confessionalismo"(Geertz, 1988[1990:154]), mentre Van Maaen ha parlato di resoconto confessionale (confessional tale) riferito al resoconto dell'etnografo, come contrapposto al resoconto realista (realist tale); Van Maaen (1988). In questo saggio uso invece l'aggettivo "confessionale" con un significato diverso, e sicuramente autoironico, riferito non alla scrittura dell'etnografo, ma ad una "postura" nel rapporto tra intervistatore e intervistato, dunque all''intervista individuale realizzata in luoghi dedicati, contrapposta alle interviste strutturate con domande standardizzate rivolte a gruppi, o ai cosiddetti focus group, che sono più utilizzati in sociologia (Tusini, 2006); 5 Briggs (2001, p. 192); 6 Sulla ricerca si veda: Riccio (2008); 7 Baris (2003); Riccio (2008); 8 Olivier de Sardan (2009, p. 30); 9 Dal punto di vista metodologico l'inchiesta antropologica è legata inizialmente all'approccio dei Notes and Queries on anthropology di tradizione anglosassone a partire dal 1874, veri e propri repertori di domande relative allo studio sistemico della cultura, pubblicati in varie edizioni (es. 1892; 1912; 1929; 1951). Successivamente la manualistica ha assunto approcci più articolati in merito all'intervista etnografica: es. Spradley (1979); Werner & Schoepfle (1987); Bernard, H.R., (1988); Skinner (2012), o i due volumi Sistematic Fieldwork editi da Werner e Schoepfle nel 1987. 10 Olivier de Sardan (2009, p. 27); 11 Casagrande (1960[1966]); 12 Metafora suggerita da Olivier de Sardan (2009, p. 37); 13 Olivier de Sardan (2009, p. 37); 14 Briggs (1986), cit. in Olivier de Sardan (2009, p. 37); 15 A partire dagli anni '70 del Novecento il dibattito sulla "svolta interpretativa" dell'antropologia e sulla riflessività è stato molto ampio. Per alcuni riferimenti di base sugli approcci testuali: Geertz (1973[1987]); Rabinow (1977); Ruby (1982); Gubrium & Holstein (2003); cfr. Schultz e Lavenda (2a ed. it. 2010, p. 43ss); Fabietti, Malighetti, Matera (2002, pp. 73ss.). Sulle politiche del campo, molto utile il saggio di Olivier de Sardan (2009); 16 Olivier de Sardan (2009, p. 38); 17 Olivier de Sardan op. cit., p. 39); 18 Cirese (1971[1973, p. 237ss. e249ss.]); 19 L'intervista, sia solo sonora che audiovisiva, è ampiamente utilizzata come supporto di documentazione nelle schede ministeriali BDI (Beni Demoetnoantropologici Immateriali) sviluppate e utilizzate dall'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e dagli Enti Locali. Sulle schede BDI nell'ambito dei beni demoetnoantropologici, si veda: Bravo e Tucci (2006); Tucci (2002); 20 Clemente (2013, p. 5); 21 Cirese (1971[1973, p. 250]); 22 Anche se con un certo ritardo rispetto al contesto internazionale; 23 Es. Tentori (1990, p. 169ss). Anche in Italia sono stati prodotti testi guida importanti dedicati alla metodologia etnoantropologica. I primi, di taglio manualistico e documentario, risalgono agli anni Settanta e Ottanta ed hanno formato in Italia diverse generazioni di studenti. Mi riferisco in ordine cronologico ai capitoli contenuti in: Cirese (1971[1973, p. 237ss.); a Delitala (1978) e a C. Bianco (1988, pp.161ss.). Il volume del 1987 L'intervista strumento di documentazione. Giornalismo-antropologia-storia orale, che raccoglie gli Atti del convegno di Roma promosso dal Ministero per i Beni culturali e ambientali, rappresenta una apertura al dibattito italiano sull'intervista, nel con1
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QUESTIONI DI EQUILIBRIO: RICORDARE/DIMENTICARE Riflessione per immagini intorno al tema della memoria di Giovanni Raponi
“La retata più grave in assoluto della Shoah italiana fu quella di Roma: 1259 fermati il 16 ottobre, e (dopo la verifica della situazione di ciascuno, attuata dai tedeschi in base alle proprie procedure) 1023 deportati ad Auschwitz il 18 ottobre, compreso un piccolo nato subito dopo l’arresto della madre.” Michele Sarfatti
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. (G.G. Marquez) Perché solo allora (ma si potrebbe osservare: anche allora) di fronte al plotone di esecuzione il colonnello Aureliano Buendìa ricordi di quando suo padre gli fece conoscere il ghiaccio - doveva avere circa cinque anni si scopre un po’ di pagine più avanti nel romanzo -, Marquez non lo dice. E’ però certo che la cosa doveva avere una certa importanza visto che torna alla memoria nel momento in cui la vita stanno per toglierla al colonnello Aureliano Buendìa… Quasi che la faccenda del ghiaccio valga come punto di inizio, vera nascita, di quell’Ego che sta per abbandonarla la vita: di fronte al plotone di esecuzione, in prossimità della fine, torna alla mente del colonnello un passato remoto, e tanto remoto per controbilanciare il tema della fine, un passato, quindi, che tanto più funzionerà come contrappeso, tanto più sul piatto della bilancia si approssimerà all’inizio, all’origine della vita, alla vera nascita del soggetto, della dramatis persona Aureliano Buendìa. La bilancia, appunto. Cosa curiosa: ci piace Garcia Marquez, ma non avevamo ancora capito perché ci tenessimo tanto ad iniziare queste pagine con le prime righe del romanzo Cent’anni di solitudine, con la storia del colonnello Aureliano Buendia, con la storia del suo ricordare davanti al plotone d’esecuzione, poco prima di essere fucilato. Poi abbiamo scritto la parola bilancia e allora abbiamo capito. Chi non lo sa: la bilancia è per eccellenza simbolo della Giustizia… e l’atto del ricordare è qualcosa che si lega strettamente al tema della Giustizia. Giovanni Raponi è docente di storia e filosofia nei licei. Oltre che esperto di editoria scolastica, di storia e filosofia, ha svolto ricerche sulla storia della Valle Pontina in età moderna e contemporanea. In ambito scolastico ha guidato numerose raccolte di fonti orali e, per esse, la costituzione di specifici Archivi. Per il Comune di Pontinia ha curato dal punto di vista storico la realizzazione del Museo Agro Pontino; per il Comune di Bassiano ha realizzato una raccolta di fonti orali sull’uso del territorio denominato Quarto di San Donato - già feudo Caetani - in età antecedente la bonifica mussoliniana.
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Dopo vent’anni torna nella sua Itaca Odisseo, aiutato da Atena e reso irriconoscibile, perché possa portare a compimento la sua vendetta contro coloro che hanno invaso la sua reggia. Lacero nelle vesti, all’apparenza debole e canuto, nessuno lo riconosce… nessun umano, sarebbe meglio dire: perché in verità il suo vecchio cane, Argo, che ora giace nel letame, prossimo alla morte, immediatamente batte la coda percependo accanto a sé il padrone, colui che aspettava da venti anni è tornato e la lunga attesa può avere fine: le sofferenze patite dall’animale negli ultimi anni della sua vita trovano ora il premio, Odisseo è tornato e Argo, che mai ha dimenticato il suo padrone, poco prima di spirare, ha potuto ricevere la sua’ultima carezza. Giustizia è fatta. Il cerchio si compie. Ancora una volta: la fine reclama l’inizio. Ma è pure possibile che sia l’inizio già presago della fine. E’ l’impressione che si ricava a guardare la Madonna sistina di Raffaello. Il Bambino Gesù tenuto tra le braccia della Vergine Madre guarda di fronte a sé con uno sguardo che svela la totale coscienza della propria condanna, nella consapevolezza piena della necessità del proprio sacrificio. E altrettanto ribadisce la Vergine: nel suo sguardo si concentra tutto il dolore di una madre consapevole dell’innocenza del proprio figlio, di un figlio destinato al sacrificio proprio perché innocente: autentico capro espiatorio. Nella primavera del 1955 a vedere il quadro, che di lì a poco il governo dell’Unione Sovietica avrebbe restituito alla città di Dresda, andrà anche Vasilj Grossman (il grande scrittore russo, autore del romanzo Vita e Destino). Quel Vasilj Grossman che in qualità di giornalista aveva seguito l’avanzata dell’armata rossa verso Berlino, dall’inverno del 1943, e che era stato tra i primi testimoni della tragedia dei lager… E che, poco dopo l’incontro con l’opera di Raffaello scriverà a proposito della Vergine e del Bambino: Il ricordo di Treblinka era riaffiorato nel mio cuore senza che me ne rendessi conto “(…) Era lei a calpestare scalza, leggera,la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto da dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas. La riconosco dall’espressione che ha sul viso, negli occhi. Guardo suo figlio e riconosco anche lui dall’espressione adulta, strana. Così dovevano essere madre e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka sullo sfondo verde scuro dei pini, così era la loro anima.” Un archetipo… Ecco cosa diventa l’immagine rappresentata nel quadro di Raffaello secondo Grossman: nel campo di sterminio si è ripetuta, per innumerevoli volte, la vicenda di Maria e Gesù, il campo ha riprodotto in forma seriale il sacrificio dell’innocente. Punto. Non c’è altro che si possa aggiungere. In una sola immagine l’arte è riuscita ad illuminare (profeticamente, circa quattrocentocinquanta anni prima che nascessero i lager) la realtà: la Madonna sistina basta da sola, attraverso il suo semplice apparire, a spiegare l’inspiegabile. Quello che miliardi di parole non riuscirebbero a dire lo dice un’immagine, un’icona. L’essere si fa tempo, l’essere è tempo: l’immagine dell’eterno capace di rendere evidente l’abisso più profondo del tempo, della storia. Ma c’è di più. Proviamo a rileggere Primo Levi, proviamo a sfogliare, per l’ennesima volta, le pagine di Se questo è un uomo e cerchiamo tra le righe di questo viaggio nel mondo infero (l’allusione a Dante non è casuale, lo vedremo 52
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tra poco) le chiavi della sopravvivenza, le strutture della resistenza al male, le risorse dell’umano di fronte alla violenza che reifica la vita, che rende oggetto il vivente annullandone il valore di essere senziente e cosciente. Apriamolo il libro sul famoso frontespizio, là dove, subito sotto il titolo, possiamo leggere quella specie di preghiera laica rivolta ad ogni uomo, di ogni credo, affinché quanto è accaduto non avvenga più… E mai più dimenticato: nulla può testimoniare quanto queste parole il legame tra Ricordo e Giustizia: Voi che vivete sicuri/Nelle vostre tiepide case,/Voi che trovate tornando a sera/Il cibo caldo e visi amici:/Considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/Che non conosce pace/Che lotta per mezzo pane/Che muore per un si o per un no./Considerate se questa è una donna,/Senza capelli e senza nome/Senza più forza di ricordare/Vuoti gli occhi e freddo il grembo/Come una rana d’inverno./Meditate che questo è stato:/Vi comando queste parole,/Scolpitele nel vostro cuore/Stando in casa andando per via/Coricandovi alzandovi;/Ripetetele ai vostri figli/O vi si sfaccia la casa,/La malattia vi impedisca,/I vostri nati torcano il viso da voi. Invettiva, monito, memento o esortazione morale in forma poetica, com’è che lo si voglia classificare, il testo di Primo Levi è qualcosa che porta in sé, almeno dal nostro punto di vista, un implicito politico-sociale: la Shoah, viene sottolineato, è stato un evento di tale portata storica che pretende una sua elaborazione in forma di Luogo della memoria, ossia di evento capace, attraverso una continua sua riattualizzazione, di rifondare l’identità collettiva della coscienza dell’uomo (almeno di quello occidentale, figlio del connubio culturale tra Atene e Gerusalemme). La Shoah, insomma, la memoria individuale delle vittime innocenti che essa richiama, deve orientare con forza palingenetica la convivenza umana futura… Se ciò non accadrà, se il ricordo delle vittime della Shoah non verrà accolto e vissuto nella coscienza collettiva come nuova liturgia, vera e propria forma della religione civile occidentale, le vittime innocenti schiacciate sotto il tallone di ferro nazi-fascista moriranno ancora, e per sempre. E la Shoah stessa, da tragico evento quale realmente è stata, assumerà nella percezione collettiva solo la forma e la consistenza di qualcosa che disturba la coscienza, la quiete interiore, dei benpensanti. Insomma, per dirla in altro modo: Levi affida alla memoria attiva, vissuta, della Shoah il ruolo di fondamento laico per un a futura percezione della convivenza umana dal punto di vista axiologico, valoriale. Questo, ci sembra di capire, l’auspicio implicito presente nel testo di Primo Levi… Auspicio che pretendeva, dopo il fumo dei forni crematori, il sorgere di un mondo più giusto, un mondo pervaso da una Giustizia (con la G maiuscola, appunto) che trovava linfa, metteva radici, nell’orrore dei campi di sterminio perché ciò che era stato non tornasse mai più. Ma le cose non sarebbero andate proprio così. L’auspicata nuova religione civile dell’agnostico Primo Levi avrebbe faticato assai ad imporsi: impedita da tutte le forme di negazionismo possibili, sia storiografiche che politiche. Il fatto è che la Giustizia qui, sulla terra, è davvero merce assai rara! E in nome della convivenza sociale, spesso, quella Giustizia tanto necessaria di fronte all’assurdo dell’assassinio dell’innocente, del Capro espiatorio, della Vittima sacrificale, viene sacrificata a sua volta. Come 53
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dire: si può rilevare una specie di corto circuito nel testo di Primo Levi, per cui quella che è l’esortazione ad una memoria laica, tenue e razionale, esatta come può essere una formula chimica, è espressa, assumendone la forza e i toni, come un’invettiva biblica, quasi fosse la profezia di un sapiente dell’Antico Testamento, un monito per fuggire la catastrofe, l’Apocalisse. Quasi che la Katàbasi, la discesa da persona viva al mondo infero (il campo di sterminio) suggerisca inconsciamente allo scienziato Primo Levi di affermare la verità in maniera incontrovertibile (come avrebbe fatto un Ebreo ultraortodosso): il dolore, la verità del dolore provato, subito, autorizza la vittima, il sopravvissuto, ad urlare la disperazione per ciò di cui è stato testimone… E con disperazione, il testimone chiede che venga la Giustizia di Dio, fino alla vendetta per coloro, tutti coloro, che dimenticheranno ciò che è stato. Non ci sia pietà per chi cadrà nella notte dell’oblio, quella notte in cui tutte le vacche sono nere, parafrasando Hegel, la notte dove non si riesce più a distinguere il bene dal male. Insomma, l’agnostico Primo Levi, auspicando il costituirsi di una nuova religione civile, mite e laica, fondata sul principio della razionalità, si scopre ad invocare la Giustizia divina, l’agire di un essere ultraterreno che ha deposto ogni considerazione compassionevole nei confronti dell’umanità. Ma la città terrena pretende dell’altro, la città terrena sacrifica (e sembra che non possa farne a meno) la Giustizia (e con essa il ricordo, la memoria) alla pacificazione, alla convivenza. Per dire meglio: la città degli uomini, proprio per continuare a definirsi Città (Polis) pretende l’estinguersi del conflitto, della Guerra (Polemòs), della guerra al suo interno, e pertanto pretende che la Giustizia subisca una metamorfosi in Perdono. Il Ricordare, allora, deve essere aiutato, giustificato fino alla condiscendenza e alla comprensione della costitutiva fragilità, imperfezione, dell’umano (anche del carnefice), nella terribile consapevolezza che la morte dell’Innocente non troverà, mai, un risarcimento capace di bilanciare la pena subita, che non ci sarà mai un completo risarcimento (almeno non qui, qui sulla terra). A meno che, sotto il segno dell’emergenza, non intervenga la scrittura della storia nel tentativo di colmare il vuoto di senso che il male produce colpendo, fino a dilaniare, il corpo e l’anima della vittima. E proprio sul tema del Perdono e del lavoro storiografico come discorso pubblico attraverso cui si allevia la sofferenza della Vittima sacrificale, sulla domanda di quell’amore difficile che è rappresentato dal perdonare dovremo tornare alla fine di questa riflessione ad alta voce, obbligati ad integrare il tema della Giustizia terrena con quello dell’immagine di una imprescindibile escatologia a cui il tema del Perdono necessariamente rimanda. Malgrado l’invocazione della palingenesi, insomma, si ripeterà quello che è già accaduto tante e tante volte nella storia: dopo l’orrore, per riprendere il cammino, si cercherà un nuovo patto sociale, un patto che per lo Stato del secolo XX coinciderà con un atto legislativo definito Amnistia, un atto che è orientato ad un unico scopo: produrre oblio, favorire l’amnesia! Scurdamoce ‘o passato! Sembra questo l’invito che promuove il Decreto presidenziale 22 giugno 1946 n. 4, meglio noto come Amnistia Togliatti. Atto legislativo rivolto alla pacificazione del paese Italia dopo i mesi della Guerra civile, 8 settembre 1943 – 25 aprile 54
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1945. Atto legislativo che è tra i primissimi prodotti (se il buongiorno si vede dal mattino!) della neonata Repubblica italiana. Storia imbarazzante per lo stesso Partito comunista italiano che, dopo aver preteso che gli si riconoscesse di aver diretto la lotta di liberazione contro il nazi-fascismo ora vedeva il suo capo carismatico, Palmiro Togliatti (il Migliore), nelle vesti di Ministro di Grazia e Giustizia, farsi firmatario di una legge che cancellava, per sempre, innumerevoli reati prodotti non solo da umili esecutori di comandi che provenivano dall’alto ma anche da importanti dirigenti del Partito nazionale fascista, poi Partito nazionale repubblicano. Delitti orrendi, la cui amnistia destò l’indignazione di non pochi sostenitori dello stesso Partito comunista, il che obbligò i dirigenti del medesimo a costruire una tesi assolutoria nei confronti dello stesso Togliatti (che lascerà la carica di Guardasigilli poco dopo la promulgazione dell’amnistia, al suo posto siederà il comunista Gullo, già Ministro dell’agricoltura). A metà giugno del 1946 primo Levi era a casa, a Torino. Certo non deve aver prodotto in lui del buon umore venire a conoscenza dell’amnistia, anche perché per coloro che si macchiarono della persecuzione del popolo ebraico l’amnistia fu davvero di manica larga! E lo fu sia per i teorici, gli accademici, della persecuzione razzista sia per coloro che con atti amministrativi avallarono, nelle tragiche sue conseguenze (la deportazione nel campo di sterminio), la persecuzione ebraica. Insomma, grazie all’amnistia fu possibile che le cronache nazionali raccontassero cose come questa: mentre il Prefetto di Milano, Mario Bassi (che si era reso responsabile non solo della cattura e deportazione verso i campi di sterminio di numerosi ebrei ma anche della persecuzione contro coloro che tentarono di occultare l’identità di potenziali perseguitati), mentre Mario Bassi, dicevamo, veniva amnistiato e lasciato in libertà dalla sentenza di un tribunale della neonata Repubblica italiana (tra gli applausi di suoi sostenitori presenti in aula), poco distante da lui, una donna, anche lei tra il pubblico al momento della lettura della sentenza nonché madre di un deportato in campo di sterminio, si allontanò dalla folla, raggiunse un angolo appartato del tribunale e lì pianse le sue lacrime: ancora offesa, offesa nella memoria del figlio. Davvero autentica mater dolorosa! Proprio così, per le vittime della persecuzione ebraica l’amnistia funzionò come un totale colpo di spugna. Lo storico Mimmo Franzinelli ha scritto: “Teorici del razzismo, artefici della legislazione antisemita del 1938, cittadini responsabili di delazioni dall’esito fatale, militari e funzionari della RSI [Repubblica Sociale Italiana] solerti collaboratori dei nazisti nella soluzione finale godettero nel dopoguerra di una generosità davvero straordinaria”. A Palmiro Togliatti, il 12 luglio 1946, sarebbe arrivata, tra le tante, anche la lettera del ragioniere Mario Perin, da Venezia… Il quale si diceva scandalizzato per gli esiti morali e civili prodotti dall’amnistia e commentava: Tutti erano convinti che ci potesse essere un condono, anche largo, ma un’amnistia di tal fatta, perdio, è una cosa obbrobriosa. La lettera, quindi, così concludeva: Se fosse possibile, lo scrivente farebbe una sola proposta: che, d’ora in poi, il Ministero di Grazia e Giustizia si chiamasse semplicemente “Ministero di Grazia”! E non si sarebbe potuto dire meglio. Troviamo nelle parole appena citate quello che rappresenta l’intreccio inestricabile tra Giustizia, Ricordo e Perdono: La grazia, l’amnistia, necessariamente oscurerà la giustizia 55
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(cosa da scongiurare perdio, attraverso Dio, in un aldilà) sostituendo ad essa il perdono, cosa terribile da accettare per chi è stato vittima eppure quanto c’è di più necessario perché si ricomponga il tessuto sociale. Ad Atene, ancora alla fine del V secolo a.C., in prossimità del tempio di Zeus Polieus (della Polis), si svolgeva un arcaica celebrazione attinente alla festività delle Dipolie, celebrazione che trovava nel sacrificio di un bue (Boufonie), nella sua uccisione sull’acropoli, il suo atto centrale. Si ricordava in tal modo che il primo sacrificio era stato un sacrilegio, che ogni sacrificio era da considerarsi tale, soprattutto se la Vittima sacrificale era il bue, il bue da lavoro per il quale, antiche tradizioni, imponevano il rispetto come animale sacro (rispetto mantenuto anche dal cristianesimo). Per questo il sacerdote munito di ascia, che attendeva davanti al tempio di Giove che l’animale si avvicinasse a mangiare i cereali appositamente sistemati in offerta al dio, non appena sferrava il colpo mortale sull’animale scappava via lasciando cadere lo strumento di morte. E per lo stesso motivo, dopo che la comunità cittadina aveva simulato un processo, il sacerdote stesso finiva per essere graziato dalla colpa, assolto dalla colpa, colpa che veniva assunta dall’intera comunità, in un primo momento, e successivamente fatta ricadere unicamente sullo strumento di morte: l’ascia, condannata e gettata al di fuori del territorio cittadino, dichiarata apolide. Ancora una volta, dunque, anzi: sin dalla prima volta, nessuna Giustizia per la Vittima sacrificale. L’assassinio sacrificale non ha colpevoli. E’ per questo che il Capro espiatorio non conoscerà Giustizia terrena, la sua funzione è quella di fondare, proprio attraverso il suo sacrificio, il rapporto tra terra e cielo: la religione (Karl Josef Silberbauer, 19111972, l’ufficiale austriaco della Gestapo che, dopo delazione, arrestò Anne Frank e la sua famiglia, dopo la guerra tornò un Austria e nel 1954 entrò nella polizia. Pur essendo stato individuato dal cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal nel 1963, non venne mai incriminato). Infine, un ultima osservazione: se è vero che Le parole sono pietre (dal titolo del libro di Carlo Levi) si provi a ricordare per quanto tempo lo sterminio del popolo ebraico è stato indicato con il termine Olocausto (sacrificio nel quale la vittima era arsa completamente), -quasi che chi ci morì nel campo di sterminio lo volesse, lo accettasse come una necessità inappellabile-, prima che si adoperasse il termine Shoah (distruzione), proprio per impedire ogni ulteriore possibile contaminazione, e confusione, tra l’assassinato (che pretende Giustizia terrena) e il sacrificato (che troverà, se la troverà, Giustizia solo nel regno dei cieli). Quando l’atrocità del delitto è incommensurabile, evidentemente la coscienza umana preferisce giocare con le parole, cercando di alleggerire le proprie responsabilità, la propria colpa. Eppure, a ben guardare, lo stesso Primo Levi offre, in Se questo è un uomo e anche altrove, una fenomenologia più mite dell’atto del ricordare, sottolineandone questa volta non il legame col tema della Giustizia (e quindi il rapporto dell’individuo con la società) quanto, piuttosto, il legame con il tema dell’Identità, dell’autocoscienza della persona. Un ricordare, insomma, che viene a coincidere con l’autorappresentazione del soggetto, nel cui ambito può classificarsi non solo la volontà dell’Io narrante (il soggetto consapevole, autocosciente) ma anche quanto appartiene alla sfera dell’involontario, e in questo senso anche il 56
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riemergere alla memoria di quanto è proprio del soggetto in forma in-consapevole, inconscia. Un riemergere del ricordo che può anche assumere una funzione consolatoria se non, addirittura, quella della definizione dell’intera personalità dell’individuo, come accade in alcune pagine (quelle dedicate alla condizione dell’intellettuale nel campo di sterminio) di un altro grande libro di Primo Levi: I sommersi e i salvati. In queste pagine, dove Levi tenta un commento all’opera di un altro grande e terribile testimone delle grammatiche del sistema concentrazionario nazista: Jean Améry (pseudonimo del filosofo viennese Hans Mayer)… In queste pagine troviamo, per ben due volte, un riferimento al ricordare come aspetto dell’affermazione dell’identità profonda dell’individuo: una prima volta nell’ammettere l’incapacità che Levi avvertì nel campo di sterminio di opporsi ai colpi, alle percosse ricevute da altri internati senza motivazione alcuna, con altrettanta brutalità; incapacità che veniva così giustificata: io sono quale sono stato costruito dal mio passato, e non mi è più possibile cambiarmi, facendo quindi riferimento proprio ad un agire della persona condizionato quasi da una stratificazione di atteggiamenti culturali così sedimentati da dare l’idea di qualcosa condizionato da leggi necessarie, fisiologiche, e, in quanto tali, involontarie. Una seconda volta, invece, troviamo Primo Levi fare riferimento al sollievo goduto nel lager grazie al riemergere alla mente, improvviso, imprevisto, in-volontario, di alcuni brandelli del canto XXVI dell’Inferno di Dante: Il canto di Ulisse, come si intitola uno dei capitoli centrali di Se questo è un uomo. Quando, nel 1986, trentanove anni dopo la prima edizione della sua opera più famosa, Levi torna a raccontare Auschwitz-Monowitz con I sommersi e i salvati non ha più perplessità ad ammettere che il ricordare, e soprattutto il ricordare quanto delle precedenti sue esperienze culturali aveva amato (Dante e/o il Numero di Avogadro) ora, là nel campo di sterminio valeva, rendeva più respirabile l’aria che lo circondava. Pertanto scriverà: [quelle cose già tanto amate] permettevano di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano ai miei occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso. Ritrovare se stesso, ecco cosa consente a Levi il rammemorare poche terzine del XXVI canto de l’Inferno. Nel 1986 l’urlo della vittima sacrificale, che diventa maledizione augurata per chi dimenticherà ciò che è stato, ormai è scemato. Al suo posto una pacata considerazione sull’esperienza personale rappresentata dal campo di sterminio dove (per incanto!) erano tornate parole da un altro mondo: le parole che Ulisse rivolge a Dante. Un dono meraviglioso, un aprirsi del tempo interiore al presente: in mezzo al campo di sterminio, tra dannati e diavoli infernali (è proprio il caso di dirlo), in un tempo psicologico ormai dimentico di ciò che era già stato e senza alcuna speranza per ciò che poteva ancora essere, ecco che l’attimo presente si arrestava, ed era possibile percepire il suo fermarsi e dilatarsi attraverso il riemergere dal profondo dell’anima di parole già conosciute ma che, poi, sembravano aver perso ogni significato… E invece, ecco che quelle parole, emerse da un porto sepolto, sono capaci di portare all’Io energia, forza, 57
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orgoglio, gioia, desiderio di vita, speranza: sono capaci di farsi presente, di fermare lo scorrere inarrestabile del tempo e di rendere nuovamente umano l’Io del soggetto, un Io ancora capace di progettare, di proiettare nel futuro l’esistenza propria, di donare senso all’esistenza: anche lì, nel campo di sterminio. Ulisse e Dante sono un premio che l’inconscio di Primo Levi si concede, un premio davvero meritato, come può esserlo una vacanza dopo aver discusso la propria tesi di laurea e conseguito il massimo dei voti e la lode! Del resto poco prima che le terzine tornino alla memoria, come racconta nel capitolo che precede quello dedicato ad Ulisse, Primo Levi aveva sostenuto un esame, un vero esame, quello che gli avrebbe consentito di salvarsi la vita, permettendogli di svolgere mansioni meno gravose nel campo di sterminio. Di fronte al Doktor Pannwitz del reparto Polimerizzazione della fabbrica di Buna-Moniwitz, annessa ad Auschwitz, Primo Levi aveva certificato, rispondendo alle domande che gli venivano rivolte, di poter svolgere la mansione di chimico di laboratorio, potendo così disimpegnarsi dalle mansioni, più faticose, di manovale. E proprio la percezione del successo conseguito aveva permesso al numero 174517 (quello di Primo Levi nel campo di sterminio) di vivere un momento di sollievo dall’oppressione del mondo che lo circondava: la sua anima trovava un po’ di leggerezza, fuggiva la coazione, l’angoscia dell’eterno ritorno dell’uguale, tornava in contatto con la felicità, la consapevolezza, cioè, della riuscita della creatività umana. Ed ecco che scendendo le scale per tornare in baracca, dopo aver sostenuto l’esame, già Dante fa capolino: Alex, il Kapo, che l’accompagna, l’ottuso e bruto controllore, viene descritto leggero sui piedi come i diavoli di Malebolge. Segue, quindi, la felice, ma anche affannosa, rincorsa della memoria alle terzine del canto XXVI. Difficile rincorsa, dovuta sia alla costitutiva debolezza della memoria sia agli scherzi che, ancora una volta, produce l’inconscio. Ma se è vero che anche Primo Levi subì l’azione censoria del Super-Io (facendo riferimento alla classica topica frudiana), fino al punto di non riuscire a ricordare buona parte del canto, è vero altresì che i versi che egli ricordò meritavano la massima considerazione per persone che, come lui, erano cadute vittime del sistema concentrazionario: l’immagine della nave di Ulisse che, varcate le colonne d’Ercole, raggiunge, dopo aver navigato per il mare aperto, la grande montagna del Purgatorio per poi inabissarsi per sempre nel profondo del mare… Questa immagine di montagna come meta da raggiungere, porto di salvezza tanto desiderato, così come l’idea del viaggiare, del desiderio di rendere degna la vita di essere vissuta, sono temi che tornano alla memoria di Primo Levi con facilità, quasi facendosi testimoni del più profondo desiderio della propria persona, ora rinchiusa dentro le Colonne d’Ercole del campo di sterminio, senza poter sperare che i cancelli del Lager potessero aprirsi per permettere di raggiungere una terra lontana, che rendesse degna la vita di essere vissuta. Signora Auschwitz! Anche questo può capitare a chi decide di spendere la propria vita, l’intera vita, nel ruolo di testimone. Può capitare che, dimenticando il tuo nome e cognome, dei bambini, in una scuola, ti chiamino così: Signora Auschwitz. E’ quello che racconta di sé la scrittrice, nonché ex internata in campo di sterminio, Edith Bruck. Certo, lì per lì l’espressione fa un po’ sorridere: si av58
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verte come un’approssimazione equivoca, l’accostamento denotativo confonde la persona sopravvissuta con il luogo dove ha subito la violenza, come se l’essere individuale si risolvesse nel luogo che più o meglio lo rappresenta. Per una donna, una signora, scampata al campo di sterminio: Auschwitz. Ma poi, a guardar meglio, si scoprono strani fenomeni. Intanto che la parola si confonde con la cosa, non solo ne veicola il senso ma, pure, sembra capace di renderla tangibile, tridimensionale: il suono della parola costruisce la cosa, il nome da un’astratta immagine della mente riesce a rendere la pesantezza della cosa stessa… Così come doveva essere per le cose nel momento della loro creazione, nel momento del loro venire all’esistenza subito dopo l’atto della creazione. In quello stesso istante, cioè, in cui il nome, il suono del nome, era la cosa e la cosa portava già in sé, nella denotazione, le qualità e i significati più profondi rispetto all’intero sistema del creato. E ancora: dire Signora Auschwitz è praticare l’arte, il mestiere, del traduttore: è qualcosa che attiene alla pratica del tradurre. E così, come accade spesso (sempre! malgrado l’impegno, la promessa, di fedeltà al testo fatta implicitamente al suo autore) nelle traduzioni, le parole di una nuova lingua finiscono
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per dire qualcosa d’altro, per tradire, ciò che si dice nella lingua altra. Ma, in questo caso, questo altro che è l’espressione Signora Auschwitz è capace di dire di più del semplice nome e cognome (Edith Bruck), è capace di dire come, perdendo quel nome personale, si ritrovi la verità più profonda che esso rappresenta, si ritrova cioè lo scopo a cui la persona Edith Bruck ha dedicato tutta la sua esistenza, perché si capisce che l’esperienza del lager una volta vissuta non ti abbandona più, non ti lascia, governa la tua vita, quello che ti resta da vivere, agendo dentro di te. Che tu te ne accorga o no, non ha importanza. Insomma, dire Signora Auschwitz è un ottimo esempio del tanto abusato concetto hegeliano di Aufhebung, ovvero dell’atto di conservare nel concetto (nel nome) quanto appartiene all’oggetto dal punto di vista logico superandolo, ossia trovando una traduzione più ricca in quanto razionalmente più prossima all’intero del sistema di senso di cui è parte. C’è, insomma, nell’espressione Signora Auschwitz qualcosa che rinvia alla verità profonda che vive chi spende la sua vita nel testimoniare. Deve essere per questo che Edith Bruck ha scelto questa espressione per intitolare il suo più recente lavoro di scrittrice. Del resto, non si potrebbe usare espressione migliore volendo indicare il destino di chi, scampato al campo di sterminio, non riesce più a liberarsi da quel vissuto, dalla memoria di quegli eventi, tanto da vivere la propria intera esistenza in funzione della testimonianza del dolore subito (soprattutto da chi nel lager morì), pur consapevole che Chi ha Auschwitz come coinquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai. Il libro in effetti, pubblicato alla fine del 2014, è un resoconto dell’angoscia provata nel non riuscire più a sostenere il peso doloroso del testimone della Shoah oltre che del tentativo, fallito, di liberarsi, per sempre, del campo di sterminio, disimpegnando la propria persona da ogni presente e futuro impegno didattico nelle scuole. Con tutte le sue forze Edith Bruck vorrebbe rispondere Preferirei di no, a chi la prega di continuare la sua missione pedagogica di testimone, di sopravvissuta. Proprio così, come fa nell’omonimo racconto di Herman Melville Bartleby lo scrivano, il quale: dopo soli tre giorni dall’assunzione, quando il suo datore di lavoro, un avvocato, gli chiede di svolgere insieme una mansione particolarmente delicata, per la quale riceve in quell’ufficio lo stipendio, in a singularly mild, firm voice, replied: - I would prefer not to. Dunque, con voce dolce ma ferma, Bartleby risponde, replica: Preferirei di no. E’ l’inizio, com’è noto, di una lunga e sempre discreta ritirata dell’Io nei meandri più profondi della psiche, l’epifania di un irreversibile viaggio verso il nulla, la consapevolezza del non senso dell’esistenza che si concretizza in una continua opposizione ad ogni azione che la vita può pretendere; un viaggio che finirà solo con l’abbandono della vita terrena. Solo dopo morto apprendiamo dalla voce narrante del racconto che lo scrivano aveva lavorato in precedenza presso l’Ufficio delle lettere smarrite di Washington (the Dead Letter Office at Washington, scriveva Melville), dove aveva il compito di dare alle fiamme tutte quelle missive che non erano giunte a destinazione, singolari testimonianze della precarietà dell’esistenza, della sua fragilità: capace di cambiare completamente per una lettera ricevuta o per una lettera mai consegnata. Anche Edith Bruck, dicevamo, avrebbe voluto dire, finalmente, Preferirei di no, ma non ci riesce. E non ci riesce 60
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perché comprende (qualcuna l’aiuta a comprendere) che la sua missione è davvero quella di continuare a cercare mittente e destinatario delle lettere inviate dall’inferno perché non si perda la memoria di ciò che è stato. Capisce, insomma, Edith Bruck, che in lei si compie una concreta fusione tra la dimensione del ricordare in funzione della Giustizia e quella del ricordare in funzione dell’Identità della persona: che la sua semplice presenza, di donna cosciente del male assoluto, porta, là dove ella compare, la Giustizia (almeno questa fu l’impressione che la sua persona fece a noi che scriviamo incontrandola molti anni fa, durante una conferenza). Edith Bruck ha il dono di tenere in equilibrio i bracci della bilancia, la sua immagine, la sua voce, la sua opera di scrittrice parlano con la stessa forza con cui potrebbe parlare un’immagine votiva. Anzi di più: rievoca il momento tragico dell’arresto di Gesù nel Vangelo di Marco (cronologicamente il primo dei canonici), quando si ricorda che, mentre tutti abbandonavano Gesù, circondato dalle guardie, un ragazzo rimase a lui prossimo, costretto poco dopo a scappare: Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo. Così come Marco l’evangelista, che era là, là mentre arrestavano Gesù per condurlo verso la condanna a morte, Edith era là, nel campo di sterminio. E così come quello non ha potuto fare a meno di scrivere il suo Vangelo, Edith non ha potuto fare a meno, non può fare a meno, di raccontare il dolore dei sommersi. Autunno-inverno 1943-44, monti Aurunci. Il soldato italiano Domenico Branco, sbandato come migliaia di altri soldati italiani dopo l’armistizio dell’8 settembre, cerca di tornare al suo paese natale, Cancello Arnone, in Campania. E’ partito da Brescia ed ora si trova davanti la Linea Gustav, il vallo che i tedeschi oppongono all’avanzata delle truppe alleate. Lo accompagnano due altri soldati, sbandati anch’essi, che come lui vogliono raggiungere le loro case: Michele Esposito è di Aversa, Filippo Buonincontro è di San Severino Rota, nella provincia di Salerno. Nel diario che porta con sé, Branco annota i tristi eventi di quel tragico momento. Scrive delle razzie compiute dai militari tedeschi sia a danno dei civili che contro i soldati sbandati come lui. I Tedeschi uccidono i soldati italiani che tentano di tornare a casa, i loro corpi vengono lasciati in terra, senza sepoltura e, alcune volte, privi di ogni documento di riconoscimento, il che impedisce di comunicare la notizia del decesso alle autorità competenti e, attraverso di loro, alle famiglie: sono, insomma, corpi senza nome, spesso accolti in fosse comuni. L’ostinata resistenza dei Tedeschi agli Alleati obbliga Branco a prolungare il soggiorno tra i monti e i paesi a nord della Linea Gustav. A febbraio, con un numeroso numero di abitanti di Castelforte, tenta ancora di passare la linea del fronte. Civili e soldati sbandati sono alla fame. Non ne possono più e tentano una disperata sortita. Andrà male. Un gruppo di circa venti persone, per fuggire alle fucilate dei Tedeschi, finisce su di un campo minato: sono quasi tutti morti e pochi salvati si ricongiungono a noi, scriveva Branco, e aggiungeva: “Una donna del luogo ha perduto una figlioletta di un paio d’anni, un fior di bimba, sulle mine. Non ha esitato a buttarsi sul campo minato a recuperare il cadaverino che si è caricato sulle spalle ed a raggiungerci accodandosi a noi”. 61
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Pur nello strazio per quanto appena accaduto, il gruppo dei superstiti avanza ancora e riesce a raggiungere i primi avamposti delle forze armate alleate. Branco così terminava il resoconto di quei fatti tanto tragici: “Agli alleati ha fatto molta impressione il nostro ordine e la scena della mamma con la bimba morta li ha commossi”. E commuove, a più di settanta anni di distanza, anche noi. Commuove fino al punto di voler conoscere il nome della bambina (e della madre) e il luogo della sepoltura per raggiungerlo ed offrire un fiore e la promessa che quello che le è accaduto non lo dimenticheremo, mai, e lo racconteremo e racconteremo affinché tutti lo sappiano, oggi e nel futuro: perché di lei non si perda traccia, memoria. Così come non si perda per ogni vittima innocente, della quale è nostro auspicio che attraverso la scrittura della storia venga riconosciuto il valore esemplare, un valore cioè capace di rovesciare la memoria, il passato, in progetto per il futuro. Ha scritto la storica Gabriella Gribaudi: “Il compito dello studioso è quello di contribuire all’elaborazione collettiva del lutto facendo valere il suo lavoro di ricerca della verità nello spazio pubblico. Michel de Certeau presenta lo storico come colui che si pone ai limiti, su quella frontiera fra i morti e i vivi su cui si erano situati Dante e Virgilio: egli cerca di entrare nel regno dei morti, cerca di comprendere questo regno, che costituisce anche alterità, e nello stesso tempo tende a “placare i morti che incombono ancora sul presente e a offrir loro delle tombe scritturali”. Le ombre dei morti tornano “meno tristi nelle loro tombe. Il discorso ve le riconduce. Esso è deposizione. Ne fa dei separati. Le onora con un rituale che mancava loro”. E non può non tornare alla mente Antigone, l’eroina della omonima tragedia di Sofocle, che vuole rendere degna sepoltura al fratello Polinice: caduto sul campo di battaglia combattendo dalla parte sbagliata, quella degli sconfitti, contro suo zio Creonte. Polinice non può essere sepolto, la legge lo vieta! Non ne ha diritto, per cui deve il suo corpo ridursi a pasto per le belve. Come Antigone, lo storico sembra chiamato a chinarsi verso il corpo morto per curarne la ricomposizione: non sarà per caso che la nostra lingua conosce come sinonimo di Ricordare (ripassare per il cuore), Rammentare (ripassare per la mente) ma anche Rimenbrare (ripassare per le membra, per il corpo). Prima che la Giustizia di un qualche aldilà faccia il suo corso, dunque, spetta allo storico il compito di raccontare dell’innocente affinché quel continuo raccontare lo riporti a vivere… Se non altro come immagine, icona, esempio rivolto a frenare l’azione degli uomini nel presente, sperando che possa mitigare (non potendo annullarla) la forza distruttrice della violenza dell’umano. Il racconto storiografico come bilanciamento (certo imperfetto!) della violenza subita dalla vittima sacrificale. Di più: il fare, l’agire dello storico come quella pratica che chiede, a nome del carnefice, il perdono della vittima, secondo quella che il filosofo Paul Ricoeur definisce equazione verticale, in alto il quasi miracolo del perdono (l’amore difficile della vittima) in basso la richiesta di perdono da parte del carnefice. Lo storico, dunque, come mediatore che attraverso la narrazione, narrazione necessariamente pubblica (che passa di bocca in bocca) cerca di ricondurre l’opposizione tra Ricordare e Dimenticare, tra Memoria ed Oblio, ad una possibile sintesi. Una sintesi, però, che può farsi concreta solo attraverso l’atto del Perdonare prodotto dalla vittima stessa, la sola azione capace di aprire 62
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il presente ad una Memoria Felice, Pacificata. Perché, per citare ancora Ricoeur, Il perdono, se ha un senso e se esiste, costituisce l’orizzonte comune della memoria, della storia e dell’oblio. Il che, detto in altro modo, starebbe a dire che anche il presente volume, volume che raccoglie memorie legate alla violenza e alla sopraffazione subita da vittime innocenti, si rivolge a quegli innocenti perché riescano a perdonare ai loro aguzzini. Anche questo lavoro storiografico, dunque, attraverso la dimensione pubblica che assume, chiede a chi fu vittima di concedere il perdono, l’amore difficile, a chi fu carnefice. Chiede di perdonare, oggi, per quanto subirono ieri: perdonare in nome di una memoria felice, pacificata. Lo chiede in prima persona alle Vittime e non per delega: lo chiede attraverso il lavoro delle singole persone che si sono impegnate nella ricerca, persone che abbiamo avuto il piacere di conoscere ed apprezzare e che ringraziamo per averci fatto condividere un’esperienza tanto significativa, esperienza umana e non solo esperienza di ricerca.
Riferimenti bibliografici
G.G. Marquéz, Cent’anni di solitudine, Mondadori, 1983; L’epigrafe del testo è tratta da: La Shoah italiana. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, di Michele Sarfatti, Einaudi, 2005; Vasilij Grossman, La madonna sistina, in Il bene sia con voi! Adelphi, 2014; Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1989; Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1994; Primo Levi, La tregua, Einaudi, 2014; Louis Gernet, Antropologia della Grecia antica, Arnoldo Mondadori Editore, 1983; Henri-Charles Puech, Le religioni nel mondo classico, Editori Laterza, 1987; La vicenda del nazista Silberbauer in quotidiano Corriere della Sera del 27 luglio 2015; Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, 1997; Mimmo Franzinelli, L’Amnistia Togliatti, Mondadori, 2006; Edith Bruck: Signora Auschwitz, Marsilio, 2014; Herman Melville, Bartleby lo scrivano, Einaudi, 2006; Le vicende del soldato Domenico Branco sono tratte dal volume di Gabriella Gribaudi, Guerra totale. Fra bombe alleate e violenze naziste Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Bollati Boringhieri, 2014; dall’Introduzione al volume appena ricordato abbiamo tratto la citazione; Rick Atkinson, Il giorno della battaglia. Gli alleati in Italia 1943-1944, Mondadori, 2008; Annibale Folchi, Cronache di guerra. Littoria 1940-1945, D’Arco edizioni, 2010, Annibale Folchi, La fine di Littoria 1943-1945, Regione Lazio, 1996; Paul Ricoeur, La storia, la memoria, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, 2003.
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GLI EROI SILENZIOSI DELL’ALTRA RESISTENZA Gli internati militari italiani attraverso il Diario clandestino di Padre Luca Maria Airoldi di Elvira Picozza Premessa La memoria delle deportazioni, della prigionia nei campi di concentramento, degli eccidi, è stata coltivata da poeti e scrittori ai quali nel tempo si è aggiunta una nuova categoria di “scrittori – testimoni” con una copiosa produzione di diari clandestini, autobiografie, manoscritti, corrispondenze, interviste. Questo insieme di documenti scritti e di memorie è stato prodotto parallelamente ad una storiografia spesso silenziosa che, per lungo tempo non ha ritenuto le memorie dei lager degne del riconoscimento di fonte e di essere analizzate con gli strumenti della ricerca scientifica, confermando un contemporaneo processo di rimozione collettiva, che si è realizzato dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’70. Questa memorialistica è stata considerata per decenni un genere “minore” della comunicazione storica, declassata al massimo topos letterario, tanto che nella maggior parte dei casi furono prodotte stampe da editori minori, il più delle volte realizzate a spese degli autori stessi. Da circa un ventennio la storiografia e la critica letteraria stanno tentando di recuperare il terreno perduto, mentre la memorialistica, con grande vigore, continua ad offrire una serie di voci straordinarie, al fine di scongiurare da una parte, l’insorgere di forme di revisionismo e negazionismo del fascismo e del nazismo, e dall’altra il silenzio su fenomeni che non si possono identificare con ideal - tipi storici e sociali consolidati. E’ in questo contesto che si colloca il diario clandestino “Zeithain campo di morte!” scritto dal cappellano militare Padre Luca Maria Airoldi durante i venti mesi di prigionia trascorsi in Germania all’indomani dell’8 settembre del 1943. “Ho aspettato tanto a pubblicare queste note di Diario nella speranza che qualcun altro, più autorevole se non più qualificato, mi precedesse nel ricordare i Martiri di Zeithain. A tutt’oggi però, per quanto mi consta, nessuno l’ha fatto e perciò m’accingo a farlo io (…). Avevo sì promesso ai miei Morti che se mi fosse riuscito di scampare da quella bolgia infernale che ha inghiottito invece la loro fiorente giovinezza e stroncato le speranze, avrei tanto parlato del loro immenso sacrificio compiuto con lucida consapevolezza (…)”.1 In queste poche righe tratte dalla premessa al libro, sono racchiuse le motiElvira Picozza Svolge dal 1977 il ruolo di docente nella Scuola Primaria, presso l’Istituto Comprensivo Statale “San Tommaso d’Aquino” di Priverno. Presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Statale “Roma TRE” ha portato a termine nel 2005 il Corso di Laurea triennale in “Formazione e sviluppo delle Risorse Umane”. Ha conseguito successivamente il diploma di Laurea Magistrale in “Scienze dell’Educazione degli Adulti e Formazione Continua”. L’esperienza lavorativa nel settore scolastico e il suo percorso formativo le hanno consentito di affrontare con motivazione e impegno il ruolo di Consigliera Comunale nella città di Priverno dall’anno 1994 al 1998 con delega alla Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali e di svolgere quello di Assessore alla Cultura e alla Pubblica Istruzione dal 1998 al 2003 e dal maggio 2013 al febbraio 2015.
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vazioni che hanno portato P.Luca Airoldi a scrivere il diario con il forte desiderio di onorare quel debito nei confronti dei tanti giovani militari italiani i quali, preferirono andare incontro alla morte piuttosto che rinnegare il giuramento di fedeltà alla Patria, dichiarando implicitamente che il fascismo, sicuramente quello di Salò, nel 1944 – 1945 non rappresentava più né la Patria né il popolo. Durante la prigionia egli traspose sulle pagine del diario clandestino la propria esperienza di cappellano, impegnato ad assistere sia materialmente che spiritualmente i giovani militari italiani internati nel campo di Zeithain. Fedele alla promessa fatta ai “suoi Morti” descrisse, anche attraverso immagini fotografiche, gli eventi, i luoghi, il grande dolore e raccontò le forme in cui si consumò la loro consapevole tragedia, affinchè rimanesse per sempre testimonianza di quanto accaduto. Deluso e rassegnato al suo rientro in Italia, per il clima di indifferenza riscontrato verso le tristi vicende degli internati militari italiani (IMI), si fece carico personalmente di stampare il diario e di inviarne una copia per ogni famiglia dei 900 giovani militari morti tra stenti e malattie nel Reserve Lazaret (KGF) (Prigionieri di guerra) di Zeithain. E’ forse in questo sentimento di umanità che accomuna e fa crescere quel senso di comprensione e solidarietà tra i protagonisti di questa immensa tragedia che è riposto il profondo significato di questo Diario, di contro ad un’opinione pubblica che non riconosce il debito storico e umano verso questa schiera di “eroi silenziosi” che ha sopportato le conseguenze di scelte militari e politiche sbagliate.
Prigionieri, internati e lavoratori coatti: le acrobazie linguistiche dello schiavismo militare Con l’Armistizio di Cassibile, proclamato l’8 settembre 1943, lo Stato Italiano ruppe l’alleanza con la Germania e si ritirò (giuridicamente cambiò alleanza divenendo cobelligerante anglo-americano) dal secondo conflitto mondiale. La feroce reazione dell’ex alleato non si fece attendere: “il comando Supremo della Werhmarcht diede le direttive speciali riguardo ai comportamenti da assumere nei confronti degli Italiani e impartì degli ordini contrari alle norme del Diritto Internazionale. Tali ordini su cui si fondò la reazione tedesca all’Armistizio dell’8 settembre, trovarono riscontro in una serie di crimini di guerra che possono essere annoverati tra le più infami atrocità del secondo conflitto mondiale”2. «In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani, su un totale approssimativo di circa 2.000.000 effettivamente sotto le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma. 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere, decisero immediatamente di passare con i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la Re66
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pubblica Sociale Italiana (RSI), come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari italiani si rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia in Germania e nei territori occupati”3. Iniziò così il dramma dei militari italiani, che durò fino al termine del conflitto, i quali per aver detto NO furono deportati nei campi di prigionia della Werhmacht, nei territori del Terzo Reich e sottoposti alle peggiori umiliazioni e sofferenze fino alla morte. La prigionia degli italiani nei campi di concentramento tedeschi fu una prigionia anomala in quanto, a differenza di tutti gli altri prigionieri militari caduti in mano tedesca, ad eccezione dei russi (l'Unione Sovietica non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra), non godevano delle condizioni previste dagli accordi internazionali. Catturati con la falsa promessa del rientro in Patria, vennero subito defraudati del loro status naturale di prigionieri di guerra e delle conseguenti tutele. A partire dal 24 settembre 1943, per ordine esplicito di Hitler, vennero infatti, arbitrariamente classificati come Internati Militari Italiani(IMI), una qualifica non prevista dalle convenzioni internazionali e considerati falsamente come disertori badogliani e potenziali soldati del duce, in attesa di ravvedimento e impiego.4 Il principale obiettivo dei tedeschi era quello di utilizzare il maggior numero possibile di italiani nell’industria bellica, a fianco o in sostituzione di soldati russi che avevano un’alta mortalità, per sopperire ad una carenza di manodopera, anche se la Convenzione di Ginevra vietava espressamente l’utilizzo di prigionieri nel lavoro per cui, la specifica denominazione IMI, serviva ad aggirare l’ostacolo. Gli internati, rinchiusi nei lager con scarsa nutrizione, privi di assistenza, erano obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato (servizi ai lager, manovalanza ne lavori edili, nello sgombero macerie, nelle miniere, in agricoltura o come ferrovieri, genieri, sia al servizio diretto della Wehrmacht e della Luftwaffe, sia presso imprenditori e contadini). Non essendo destinati a morte, anche al fine di un loro recupero politico e lavorativo nella Repubblica Sociale Italiana, potevano scegliere in ogni istante tra la “libertà con disonore” o la “schiavitù con dolore”. In 613.000 (l’86%) scelsero quest’ultima opzione, coerenti con la loro coscienza e con i “valori” di fedeltà alla Patria, nonostante fossero sottoposti a continue vessazioni, sotto minacce e violenze, sia da parte dei Tedeschi che dei fascisti della Repubblica di Salò. Successivamente, con l’accordo del 20 luglio 1944 tra Hitler e Mussolini, gli internati vennero smilitarizzati d’autorità dalla Repubblica Sociale Italiana e “civilizzati”, cioè gestiti come lavoratori liberi civili. La soluzione consentì ai tedeschi di sentirsi autorizzati ad usare ogni forma di costrizione per far uscire i militari italiani dai Lager e impiegarli nelle industrie, comprese quelle belliche. Di fronte all’ostinata resistenza dei «badogliani», i tedeschi non si arrestarono e gli internati, ufficiali compresi, vennero inviati al lavoro coatto sotto la sorveglianza della polizia tedesca, mentre i più ribelli furono trasferiti negli orrendi 67
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«campi di rieducazione al lavoro », trasformati in veri e propri “schiavi del regime nazista” gestiti dalle S.S.! Solo gli ammalati più gravi vennero concentrati nei Lazarettlager (i campi della morte) dove, dopo vane promesse di rimpatrio, attesero tra la vita e la morte e senza alcun miglioramento dell'ordinario trattamento, la fine della guerra che in molti non riuscirono a vedere.
Il viaggio da Atene a Zeithain di P. Luca Airoldi Padre Luca Maria Airoldi nasce a Cornate (Milano) il 10 ottobre 1910 da una famiglia di agricoltori benestanti. A dodici anni entra in un convento dell’ordine dei Frati francescani dove, qualche anno dopo, viene consacrato sacerdote. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale viene arruolato come cappellano militare nella gloriosa Divisione Acqui con destinazione Cefalonia in Grecia. Dopo la firma dell’armistizio dellʼ8 settembre 1943 fu imprigionato dai tedeschi nel campo di concentramento di Goudì (Atene), dove contrasse la malaria. Perciò venne ricoverato nell’ospedale da campo ad Atene, che lasciò, insieme ad alcuni compagni, per tentare di raggiungere l’Italia con qualsiasi mezzo. Il 13 novembre 1943 salirono su un treno senza destinazione, ma anziché essere rimpatriati, furono deportati dai nazisti, assieme a molti altri prigionieri, nel lager lazzaretto di Zeithain. Il treno era in realtà una tradotta di carri-bestiame nei quali erano ammassati centinaia di prigionieri, alcune brandine di legno, poca paglia e molti insetti. I carri erano sigillati dall’esterno e venivano aperti soltanto per svuotare il secchio, sempre colmo, che fungeva da servizio igienico. Nei tredici giorni di massacrante trasbordo i prigionieri ebbero due soli ranci, consistenti in una pappina bianca e appiccicosa e alcune zollette di zucchero. La loro destinazione iniziale era Dachau, racconta il superstite Remo Dordolo, ma alla stazione si sentì gridare: "Proseguite per Zeithain: qui è tutto esaurito".5
Il Reserve Lazzaret Kgf 6 di Zeithain Il Reserve Lazzaret Kgf di Zeithain era un Lager tedesco tra Dresda e Lipsia, posto sulla riva orientale dell’Elbe, a 10 Km. circa dalla cittadina di Riesa e dipendente dal lager IV B di Muhlberg/Elbe di cui doveva essere un’appendice o forse anche un’infermeria. Istituito nel 1941 sul campo di esercitazioni militari di Zeithain, fu inizialmente destinato ad accogliere prigionieri di guerra sovietici. A partire dal 1943 fu adibito anche a lazzaretto di riserva per prigionieri di guerra di altre nazionalità, Polacchi, Serbi, Francesi, Inglesi, Americani, Indiani e moltissimi Internati Militari Italiani (IMI) che dopo l'8 settembre 1943 avevano rifiutato di collaborare con il regime nazifascista. Ufficialmente classificato come ospedale, era in realtà un campo dove venivano inviati quei prigionieri che, per le fatiche, la fame, il freddo, le sevizie, non erano più idonei al lavoro. Condizioni disumane, mancanza di igiene, denutrizione, assistenza medica insufficiente e lavoro coatto facilitarono il diffondersi di epidemie e gravi malattie, soprattutto tubercolosi, determinando la morte di decine di migliaia di prigionieri. Ogni nazionalità aveva il proprio reparto all’interno del campo, separato dagli altri attraverso una rete di filo spinato alta tre metri. 68
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Le 78 baracche riservate agli Italiani, lunghe 25 metri e larghe 7, umide e superaffollate erano distinte in tre settori destinati rispettivamente alla Medicina (stipate da malarici), alla Chirurgia e alle Malattie infettive (soprattutto Tubercolosi). I servizi igienici, nascosti da quattro assi, erano costituiti da due bidoni scoperchiati e quasi sempre pieni. Per riscaldarsi una rudimentale stufa di latta e per dormire letti a castello affastellati tra loro, con sacconi di paglia fradicia sulla quale insetti di ogni tipo passeggiavano giorno e notte. Un solo rancio al giorno costituito da tre patate, 150 grammi di pane nero e una mezza gavetta di rape o crauti. Le condizioni di vita nelle baracche sprovviste dell' indispensabile e le vessazioni inflitte prima dai tedeschi e poi dai russi, portarono alla morte decine di migliaia di prigionieri tra cui 900 militari italiani, di cui narra Padre Luca Maria Airoldi. Questi oscuri eroi furono sepolti in un cimitero di guerra voluto dal Cappellano Don Ezio Ghidini e sistemato poi da Padre Luca Airoldi, dove i Caduti, muniti del piastrino di riconoscimento, ebbero la loro tomba numerata e registrata in una regolare piantina onde permetterne facilmente la riesumazione e l'identificazione in qualsiasi momento. Il campo fu liberato dall'Armata Rossa il 23 aprile 1945. Degli IMI superstiti, tra cui molti gravemente ammalati, alcuni morirono sulla via del rientro e furono sepolti a Praga. Dopo la fine della guerra, il territorio del lager e del cimitero italiano fu adibito a zona di esercitazioni militari sovietica e rimase per decenni inaccessibile. In seguito alla caduta del muro di Berlino, grazie all'instancabile opera di ricerca di alcuni reduci di Zeithain, primi fra tutti Padre Luca Maria Airoldi, che aveva annotato nel suo diario tutti i nominativi e i dati relativi agli IMI deceduti nel lazzaretto di Zeithain, fu finalmente possibile nel 1991 localizzare il cimitero militare italiano, riesumare e rimpatriare le spoglie di quasi tutti i caduti italiani.
Resistenza non collaborativa Le insostenibili condizioni di vita all’interno del campo di prigionia erano rese ancora più drammatiche dalle frequenti visite dei repubblichini e degli ufficiali italiani collaborazionisti i quali, esaltando il fascismo e il duce, invitavano i militari italiani a combattere nelle fila della Repubblica di Salò, a fianco dei “camerati tedeschi”, promettendo in cambio cibo e rientro immediato in Italia. Dalla lettura di tanti diari clandestini, emerge in maniera chiara come la scelta degli IMI fu una scelta sofferta, una scelta di resistenza. Quegli uomini potevano rientrare a casa, dalle loro famiglie, smetterla di soffrire la fame, il freddo le malattie, sottrarsi al rischio di bombardamento o di sottoporsi al lavoro coatto, se solo avessero firmato una dichiarazione di adesione all’esercito della RSI. La loro resistenza silenziosa, senza armi nota come l’altra resistenza7, si attuò a rischio di morte con il sabotaggio, la non collaborazione e il lavoro rallentato fino anche a metà o un terzo della norma dell’operaio tedesco e, indirettamente, consumando risorse e distogliendo per venti mesi dai fronti, per custodia, più di 60.000 soldati tedeschi. Per questo la resistenza degli IMI non fu inerme, né moralmente meno eroica di quella armata.8 Essa assunse il valore di una scelta di natura politica che non nasceva da un’adesione alla rinascita dei partiti politici e alla formazione delle brigate partigiane, tale decisione, assunta da una gran parte delle forze armate italiane, di 69
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NON schierarsi con la neonata RSI, inevitabilmente assunse il peso di un rifiuto forte da parte dell’esercito italiano verso quella guerra voluta e condotta da un regime che, sia pure rinato dopo la destituzione di Mussolini il 25 luglio, non veniva più riconosciuto dalle forze armate, ma soprattutto da tanti giovani che erano nati e cresciuti sotto quel regime, nel clima culturale voluto da quel regime. Per questi motivi, in quanto IMI, oltre a non beneficiare degli aiuti della CRI, i soldati italiani nei lager subirono le peggiori vessazioni degli aguzzini tedeschi che li consideravano “traditori badogliani”, e le odiose pressioni dei Repubblichini che speravano di recuperarli alla causa fascista ma, nonostante tutto, in 650.000 decisero di non aderire alla RSI. Alcuni di loro avevano già una coscienza politica e in alcuni casi anche idee antifasciste, di conseguenza la loro scelta di dire NO fu una scelta immediatamente di natura politica. Per la gran parte degli altri invece, soprattutto giovani militari mai andati fuori dai loro Comuni di nascita, analfabeti, provenienti perfino dalla Barbagia, dalle Madonie e dall’Aspromonte, abituati da secoli a dire sissignore, fu la prima volta in cui si ritrovarono, per via della guerra, a maturare una scelta personale e collettiva di ribellione e di contestazione ideologica. Fu quindi una scelta politica di rifiuto del Fascismo, fu un contributo al riscatto italiano e al ritorno della Democrazia nel nostro Paese.
Identità e sofferenza: comunitarismo della condizione estrema Durante la prigionia in Germania si innescarono meccanismi di solidarietà tra gli internati: la partecipazione alla sofferenza altrui fu un modo per sopperire alla privazione di una parte di sé. “La lontananza dalla Patria, la mancanza di notizie dei propri cari, le miserevoli condizioni di vita, anziché fiaccare, acuirono il nostro spirito di corpo, la nostra fraternità, il bisogno di vederci, di aiutarci nel possibile, di scambiarci pensieri e speranze, gioie e dolori”9. E’ proprio all’interno dei Lager, infatti, che i militari Italiani trovarono le energie necessarie a portare fino in fondo la propria scelta, rinsaldata da una crescente consapevolezza antifascista che aveva venature e provenienze diverse. E’ nei Lager che nascono quelle particolarissime comunità che Giovanni Guareschi definirà “Città Democratiche”,10 primi germi di democrazia con cui vennero a contatto tanti giovani cresciuti tra Fasci Littori e adunate di Balilla e Avanguardisti che, trovandosi nel luogo più impensato e terribile, si ritrovano a discutere di libera scelta individuale. Nell’ambito del contributo alla resistenza, l’attività dei cappellani militari internati occupa un posto di rilievo. La loro prigionia assunse un carattere di volontarietà, pertanto si configurò come una scelta la quale, pur fondandosi essenzialmente su ideali umanitari e religiosi, venne ad assumere un senso politico. “[...] le cerimonie e i riti della religione divennero occasione di mobilitazione delle coscienze contro il nazismo e il fascismo, e l’opera di consolazione, di conforto, di speranza dei sacerdoti giovò senza dubbio a rafforzare le volontà, a dare fiducia nella giustezza di quel sacrificio che gli italiani subivano e accettavano.”11 Dalla documentazione esistente risulta che molti di questi cappellani seppero fornire un valido contributo di forza, di esempio morale e di volontà di resistere. La presenza religiosa fu spesso una presenza attiva, i cappellani non si limitarono ad amministrare sacramenti, a celebrare messe, a guidare le preghiere 70
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comuni, a benedire i defunti; essi furono punti di riferimento ed elementi di coesione in una situazione storica (lo sfacelo seguito all’8 settembre) e di vita (“la società dei Lager”) nella quale molti ideali e valori attraversavano una forte crisi o venivano messi in discussione. L’infima qualità di vita dei campi di prigionia tedeschi appariva agli antipodi di una concezione cristiana di valorizzazione e rispetto della persona e della dignità umana. Un “vero cristiano” non poteva non opporsi a regimi totalitari e violenti, che spegnevano la naturale ed intima nobiltà dell’uomo, “immagine di Dio” (concetti ricorrenti per esempio nel pensiero di Giuseppe Lazzati)12. Il cappellano rappresentava un polo di aggregazione, egli era in grado di catalizzare l’attenzione dei militari italiani internati che avvertivano lo smarrimento e il senso di abbandono da parte delle autorità costituite. Ciò era particolarmente sentito nei campi di prigionia per soldati e sottufficiali, dove la popolazione militare era costituita da giovani provenienti da ceti popolari, i quali trascorrevano una giornata di lavoro dura ed estenuante, il fatto di trovare la sera il cappellano, di poter conversare con lui era motivo di sollievo: egli rappresentava il fratello maggiore, forse il genitore o proprio la figura del parroco, che essi avevano tra i ricordi dell’Italia lontana. Il constatare che egli condivideva in tutto e per tutto la loro sorte, faceva sentire la Chiesa più vicina e la loro condizione lievemente più sopportabile. In generale si può affermare che i cappellani furono accolti positivamente dai prigionieri. Anche coloro che erano piuttosto “tiepidi” religiosamente, coloro che non erano cattolici ferventi hanno constatato e spesso sperimentato personalmente l’assistenza morale e, quando possibile, anche materiale dei cappellani. Per questo i preti spesso erano temuti e controllati dai tedeschi; la memorialistica dei cappellani riporta controlli d’ogni genere effettuati nelle camere e agli “effetti personali”, proibizioni di intrattenere rapporti confidenziali con i militari laici, ma soprattutto con la truppa, considerata più
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debole ideologicamente, più facilmente manipolabile.13 Un’azione altrettanto meritoria la svolsero le Crocerossine, anch’esse prigioniere internate in tanti Campi di concentramento dove si dedicarono alla cura e all’assistenza dei più bisognosi, impegnate nei laboratori, nelle sale operatorie, nella cucina, nel rattoppare i poveri indumenti dei militari.
La tragedia umana del soldato Francesco Roccatani a Zeithain Francesco Roccatani, classe 1914, era il secondo di sette figli, sei maschi e una femmina, nati da Pietro e Giuliana Salvucci. Le sue origini erano di natura contadina e come tanti altri ragazzi della sua generazione, iniziò presto a contribuire al sostentamento familiare aiutando il padre nell’attività agricola e nella cura del bestiame. Come per molti suoi coetanei, la prima occasione di allontanamento dalla famiglia e dal suo paese, Priverno in provincia di Littoria, fu la chiamata al servizio di leva che si concluse nell’anno 1937. Al suo ritorno, riprese l’attività agricola familiare e, durante il periodo della mietitura fu conquistato dal canto di Giuliana, una giovane contadina di cui ben presto s’innamorò. Si unirono in matrimonio nel mese di ottobre 1938 e Francesco, acquistata una bicicletta, si recava tutti i giorni a Caronti, per lavorare per alla bonifica dell’Agro Pontino, mentre Giuliana incrementava il reddito familiare lavorando “a giornata” in campagna. Il 14 settembre del 1939 Francesco venne richiamato alle armi e arruolato al 58° Artiglieria di “Legnano” fino al 23 marzo del 1940. Dopo appena tre mesi di congedo, venne di nuovo richiamato per un periodo di cinque mesi, e quindi di nuovo in licenza straordinaria fino al 19 luglio 1941. Fu l’ultima licenza di Francesco, che richiamato alle armi partì per non fare più ritorno. Venne arruolato nel 151° reggimento Artiglieria di stanza a Foligno e successivamente, a settembre dello stesso anno, inviato nei territori in stato di guerra. Il 10 dicembre 1941 partì per la Dalmazia imbarcandosi a Bari alla volta di Spalato che raggiungerà due giorni dopo. Intanto Giuliana, rimasta sola, combatteva la sua battaglia quotidiana per provvedere al sostentamento suo e dei due piccoli Assunta e Eugenio, i doni più preziosi lasciati a lei da Francesco. Sbarcava il lunario lavorando nei campi e spesso si fermava a pensare quanto fosse stata parsimoniosa la sorte nel dispensarle quei pochi momenti di felicità: “sommando i pochi mesi dopo le nozze alle brevi licenze di Francesco, abbiamo condiviso poco più di un anno di vita insieme!” sono le parole che ritornano nella mente di Assunta, sua figlia. Eppure la forza di quell’assenza/presenza e l’incisività del suo ricordo, costantemente alimentato da Giuliana nella memoria dei suoi figli, fanno in modo che ancora oggi l’immagine di quel giovane padre sia straordinariamente viva e presente. Lo testimonia un episodio raccontato da Assunta, di quando adolescente, incaricata dalla madre di attingere quotidianamente l’acqua presso la fontana di S. Chiara, veniva regolarmente ricacciata in coda alla fila da qualche donna più matura. Un giorno, all’ennesimo tentativo di riempire il suo piccolo “concone”14 venne bruscamente apostrofata con l’espressione popolare:- te pozzen’accite a tì, patto i mammeta!!15 –. Assunta non ci pensò due volte e, afferrato un sasso, lo scagliò con tutta la sua rabbia verso la donna che l’aveva offesa negli 72
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affetti più cari, colpendo però un’altra donna, vittima inconsapevole del brutto episodio. A seguito degli eventi sopraggiunti con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, Francesco venne deportato in Germania presso l’Arb. K.do di Amburgo, dove lavorò fino al 14 agosto 1944. Il giorno dopo, per grave deperimento organico, fu ricoverato nell’ospedale di Sandbostel da dove, tre mesi dopo, venne trasferito nel Reserve Lazzaret (Prigionieri di guerra) di Zeithain. Qui condivise la triste sorte di altri 900 compagni internati, vittime della fame, del freddo e delle malattie, condizioni disumane volutamente determinate e utilizzate da Hitler e Mussolini per indurre i militari Italiani al “ravvedimento” che avrebbe comportato l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana. In pochi cedettero all’ignobile ricatto e Francesco non fu tra questi. Avendo contratto la TBC polmonare, le condizioni di salute di Francesco si aggravarono di giorno in giorno e quando i tedeschi si ritirarono il 23 aprile, sebbene molto provato e febbricitante, tentò la fuga verso l’Italia. Vagò per 10 giorni, ma resosi conto della gravità delle sue condizioni di salute, tornò indietro, raggiungendo disfatto e febbricitante il Campo di Zeithain. Padre Luca Airoldi che non si era mosso dal Campo avendo deciso di rimanere accanto ai gravissimi che non erano in condizioni di fuggire, lo curò e lo assistette per circa 30 giorni, raccolse le sue ultime parole e con il conforto dei sacramenti, lo accompagnò nell’ultimo viaggio. Sepolto nel cimitero italiano del Campo, i suoi resti mortali vennero esumati, insieme a quelli di altri 400 caduti italiani e, il 19 settembre del 1991 rientrarono in Italia, trasferiti presso il Sacrario di Redipuglia, dove ricevettero gli onori militari e civili delle più alte cariche dello Stato. Il 31 gennaio del 1992, i resti di Francesco, per volontà dei familiari, giunsero a Priverno, dove riposano nel cimitero cittadino, accanto a quelli della sua amata Giuliana.
L’indifferenza e il silenzio che reprime il ricordo A settant’anni di distanza, sono in molti ancora a chiedersi quali siano i motivi per cui la storia degli Internati Militari Italiani sia stata trascurata dagli storici del dopoguerra, dimenticata dall’opinione pubblica ed esclusa dalle celebrazioni della guerra di liberazione. A guerra finita i 560.000 IMI superstiti (il 91%), civilizzati e militari, (compresi 11.000 prigionieri dei tedeschi e poi dei russi), testimoni imbarazzati dell’8 Settembre, furono accolti con diffidenza o indifferenza dagli italiani. Gli IMI erano troppi, si sommavano ad altrettanti prigionieri degli Alleati e non facevano notizia come i partigiani, l’olocausto e l’A.R.M.I.R. Così il rimpatrio degli IMI non venne sollecitato nel 1945 e si svolse in parte per iniziative del Vaticano e in parte grazie all’impegno individuale dei primi reduci. Poi ci fu la guerra fredda e per decenni i nostri governi imbavagliarono la storia perché non riaffiorassero le colpe dei tedeschi, diventati nel frattempo nostri partners nella N.A.T.O. e in Europa e, nel primo dopoguerra, la Germania divenuta mèta dei nostri emigranti. Così dal 1946, traumatizzati, delusi e offesi, gli IMI si rinchiusero in se stessi anche in famiglia e in molti rimossero la memoria dei Lager e della loro scelta ritenuta forse inutile o sbagliata. Più di 5.000 diari clandestini, per lo più annotati a futura memoria, scritti da 73
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ufficiali, cappellani, soldati e crocerossine, rischiosamente salvati, ingiallirono nei cassetti dei ricordi rifiutati dalla editoria commerciale. Se si prescinde dai bestseller autobiografici di Giovannino Guareschi e Primo Levi e antologici di Giulio Bedeschi, venduti in libreria a un vasto pubblico, dal 1945 sono state pubblicate solo 400 memorie e antologie di testimonianze di reduci, per lo più edite in proprio e fuori commercio. Alessandro Natta, che poi divenne segretario del PCI, anch’egli un IMI, si vide rifiutata la pubblicazione del suo libro “l’altra resistenza”, non da un editore di destra ma da Editori Riuniti, la casa editrice del PCI che riteneva inopportuna la pubblicazione di quella storia. La vicenda dei militari italiani è stata quindi una verità negata per tanto tempo e a quella rimozione ha contribuito anche chi ha detenuto per tanti anni il primato della resistenza. Sul piano morale, ciò che per lungo tempo non è stato riconosciuto agli IMI, è stato il valore di autentica resistenza che la loro scelta ebbe. Questo aspetto è messo in risalto attraverso una fonte che spesso è stata trascurata dalla storiografia, quella rappresentata dai diari clandestini e dalle lettere. Attraverso di essi, la storia viene raccontata direttamente dai protagonisti che l’hanno vissuta, con le loro parole e non attraverso memorie successive. Essi ci restituiscono una sorta di storia dal vivo, una storia in presa diretta che giorno per giorno ci fa rivivere quello che realmente accadde. Attualmente è in corso un processo di recupero della memoria riguardante la terribile tragedia degli IMI da parte della ricerca storiografica, sollecitata e promossa anche dalle associazioni dei deportati e dei partigiani. La storia del dopoguerra è stata segnata dalle mille difficoltà nel ricordare i fatti per quello che furono, ancora oggi il revisionismo storico cerca di cambiare le carte in tavola, ponendo sullo stesso piano le vittime e i carnefici. I tentativi di dimenticare il ventennio fascista e la fine della libertà di opinione, l’inizio delle legge razziali che ebbero una forte matrice italiana fin da subito, le stragi verso la fine della guerra messe in atto non solo dai nazisti ma dai repubblichini, sono tutte cose che non dovrebbero lasciare dubbi sulle verità storiche. Eppure, ci sono verità che emergono con difficoltà e fanno fatica ad affermarsi. Quella degli IMI è una storia che va recuperata per fare chiarezza sul nostro passato, perché fino a quando esisteranno zone d’ombra e verità scomode ci sarà il rischio che qualcuno possa approfittarne per confondere il ruolo di chi ha combattuto per la libertà, con quello di chi ha combattuto per il fascismo e la dittatura.
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Note
Padre Luca Maria Airoldi, ZEITHAIN campo di morte, p.7 Premessa. Scuola Tipografica ARTIGIANELLI PAVIA; Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Stato Maggiore dell’esercito, Roma, 1997, p. 13; 3 Marco Palmieri e Mario Avagliano, Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania, Dati fatti e considerazioni, p.37; 4 Claudio Sommaruga, Internati Militari Italiani (I.M.I) nei lager nazisti (1943-1945), fonte Comune di Cinisello; 5 Corriere della Sera, Archivio, LAGER Il diario clandestino di un frate, ……; 6 LAGER Sanatorio per prigionieri di guerra. In tali strutture venivano trasferiti i prigionieri ormai non più in condizioni di lavorare a causa delle malattie contratte per la denutrizione per il freddo e la fatica subiti; 7 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996; 8 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996; ANEI, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager nazisti, Le Monnier, Firenze 1984; C. Sommaruga, NO! 1943-1945. Anatomia di una resistenza, ANRP, Roma 2003; 9 P. Luca Airoldi Zeithain Campo di morte, p.27; 10 G. Guareschi, Diario Clandestino, Milano, Rizzoli, 2 aed. 1950, p XIV. Con queste parole Guareschi definì l'epopea resistenziale sua e dei compagni di prigionia nei lager del terzo Reich: "Non abbiamo vissuto come bruti: costruimmo noi, con niente, la Città Democratica". Guareschi, ufficiale d'artiglieria catturato dopo l'8 settembre 1943, (Imi) fu attivissimo promotore culturale nei campi di prigionia di Czestochowa, Benjaminow, Sandbostel e Wietzendorf, ed ebbe parte preponderante nell'animare la cosiddetta "resistenza senz'armi"; 11 A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996, p. 73; 12 Luca Frigerio, NOI nei LAGER, testimonianze di militari italiani internati nei campi nazisti, p. 233; XVII Giuseppe Lazzati, Ricostruire la Città dell’uomo sulle macerie delle dittature. Sulla necessità del rifiuto del nazifascismo e di ogni logica totalitaria, Lazzati non ebbe mai ripensamenti né dubbi: “Quel No stabiliva, per chi di noi lo pronunciava, il senso religioso di una scelta politica”; 13 Antonella De Bernardis, Cappellani militari italiani internati nei Lager nazisti, p.46 - 47; 14 Recipiente in rame utilizzato dalle donne per provvedere all’approvvigionamento di acqua potabile dalle fontane pubbliche; 15 Espressione dialettale “potessi morire ammazzatatu, tuo padre e tua madre”. 1 2
Riferimenti bibliografici
Padre Luca Maria Airoldi, ZEITHAIN campo di morte. Scuola Tipografica ARTIGIANELLI – PAVIA; Gerhard Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943–1945, Stato Maggiore dell’esercito, Roma, 1997; Marco Palmieri e Mario Avagliano, Breve storia dell’internamento militare italiano in Germania, Dati fatti e considerazioni; Claudio Sommaruga, Internati Militari Italiani (I.M.I) nei lager nazisti (1943-1945), Comune di Cinisello; Corriere della Sera, Archivio. LAGER, Il diario clandestino di un frate; A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1996; Anei, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945) dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager nazisti, Le Monnier, Firenze 1984; C. Sommaruga, NO! 1943-1945. Anatomia di una resistenza, ANRP, Roma 2003; G. Guareschi, Diario Clandestino, Milano, Rizzoli, 2 aed. 1950; Luca Frigerio, NOI nei LAGER, testimonianze di militari italiani internati nei campi nazisti; Giuseppe Lazzati, Ricostruire la Città dell’uomo sulle macerie delle dittature; Antonella De Bernardis, Cappellani militari italiani internati nei Lager nazisti.
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ZEITHAIN
Campo di morte ove 900 nostri invocano ancora: Italia!
di Padre Luca Maria Airoldi* Premessa Ho aspettato tanto a pubblicare queste note di diario nella speranza che qualcun altro, più autorevole se non più qualificato, mi precedesse nel ricordare i Martiri di Zeithain. A tutt’oggi però, per quanto mi consta, nessuno l’ha fatto e perciò m'accingo a farlo io, chiedendo subito scusa se sarò costretto a raccontare anche un po' di me. Avevo sì promesso ai miei Morti che se mi fosse riuscito di scampare da quella bolgia infernale che ha inghiottito invece la loro fiorente giovinezza e stroncato le speranze, avrei tanto parlato del loro immenso sacrificio compiuto con lucida consapevolezza, ma poi, rientrato in Patria e trovatala ancora in preda all’esacerbale, per portare anch’io il mio piccolo contributo alla pacificazione degli animi, ho sempre procrastinato nonostante le molte e autorevoli sollecitazioni. Ora però che si è detto tutto o quasi di tanti eroi dell’ultima guerra, ora che i resti mortali di gran parte di essi hanno avuto la sorte felice di ritornare in patria ohi con gli onori che si meritavano, val la pena che si dica e si sappia anche dei caduti di Zeithain... che si faccia anche per essi quanto ottimamente si è fatto per gli altri caduti sui diversi settori, e ciò tanto più solennemente quanto più lungamente sono stati ignorati dal pubblico. Quante volte, leggendo con commozione dell’arrivo o dello sbarco di salme di nostri caduti, mi son chiesto e con me certamente centinaia di famiglie, perchè uguale sorte non sia riserbata anche ai caduti di Zeithain. Il Commissariato Generale Onoranze ai Caduti di Guerra ha trattenuto per oltre due anni il mio Diario nell’immediato dopo guerra, assicurandomi che gli era necessario per l’esumazione e la traslazione delle loro salme. La Croce Rossa da me interpellata e sollecitata più volte, mi diede le stesse assicurazioni. Ma a tutt'oggi sto ancora aspettando e con me di certo molte madri, spose e figli che mi tempestano di angosciosi perchè ! E giustamente, dopo quasi vent’anni di attesa! Ed io non so più che rispondere !. Se si trattasse di doverli rintracciare fra le steppe russe, o nel deserto africano, pazienza !. ma i morti di Zeithain sono allineati, in bell’ordine, uno dopo l’altro, in luogo ben determinato e relativamente vicino all’Italia. Che se tutte le difficoltà vengono dalla Democratica Repubblica Tedesca di Pankow nel cui territorio è sito il cimitero, è bene che tutti sappiano chi, nel secolo della libertà e della democrazia, si permette di irridere al più elementare senso di umanità e calpestare il più naturale degli affetti famigliari. Intanto mi permetto di render pubblico quel ricordo ch’io ho quotidiano di questi nostri caduti, che conobbi, che amai, che vidi giacere sotto i mei occhi in quel supremo anelito, in quel supremo lamento che non si scorda più, e chiedo per essi un pensiero affettuoso e per i loro cari, che ne attendono sempre i resti mortali, un gesto di fraterna, solidale comprensione. ZEITHAIN Campo di morte ove 900 nostri invocano ancora: Italia! di Padre Luca Maria Airoldi* Scuola Tipografica Artigianelli - Pavia*
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RES. LAZZ. (KGF) ZEITHA1N (Prigionieri di guerra) Zeithain Reserve Lazzaret
Era una località situata sulla destra del fiume Elbe, a 10 km. a Nord della cittadina di Riesa, e a circa altrettanta distanza a Sud dello Stammlager IV B. di Muhlberg/ Elbe, di cui Zeithain doveva essere un’appendice o forse anche un’infermeria, giacché ufficialmente si chiamava: Reserve Lazzaret (Kgf = prigionieri di guerra). Benché là abbia passato i miei due anni di prigionia, non saprei dire se vi fosse un centro abitato, mentre so che a poco più di un tiro di sasso dai reticolati che ci rinserravano, v’era il paese di Jacobstall che visitai per primo dopo la liberazione. Su di un grande spiazzo sito in mezzo a folti boschi di abeti e pini, circondato da un triplice reticolato intercalato da spinosi cavalli di frisia, erano costruite le baracche in cui alloggiavano i prigionieri ammalati. Il gruppo più consistente era quello dei Russi, valutati a 6.000 circa. V’erano poi Polacchi, Serbi, qualche centinaio di Francesi, Inglesi, Americani e persino una cinquantina di Indiani. Ogni nazionalità aveva il proprio reparto, separato all’interno del grande reticolato, da una rete di filo spinato alta 3 metri circa. Il settore riserbato a noi Italiani, comprendeva 78 baracche suddivise in tre serie: quelle destinate alla medicina (in prevalenza stipate da malarici); quelle destinate alla chirurgia e infine quelle del cosiddetto campo « C » riserbato agli Infettivi e specialmente ai T.B.C. Un vero Ospedale!., penserà qualcuno, e teoricamente lo era, ma quanto diversa la realtà!... Se le baracche rigurgitavano di ammalati, anzi ne erano addirittura strapiene, e se ogni baracca aveva il suo medico curante e due infermieri, mancava assolutamente tutto il resto. Un ospedale beffa! quindi, e tutto lo provava!
Le baracche Eran costruzioni di legno che datavano dal 1940, quando le prime sacche in territorio sovietico procurarono ai tedeschi una quantità di prigionieri, Un gruppo di ammalati che si riscalda al sole ai quali si aggiunsero una non minor quantità di deportati civili. Lunghe 25 metri e larghe 7, potevano contenere, secondo la loro cubatura di aria e il minimo di igiene, da 40 a 50 persone al massimo. Invece per dare un posticino a tutti si dovettero sopraffollare con 60 70 ed anche 75 individui. Sui castelli anch'essi di legno, a due piani, coperti da sacconi di paglia polverizzata, forse mai cambiata dal ’40 in poi, dovevano prendere posto 4 persone, due sotto e due sopra. Quei di sotto non potevano star seduti perchè impediti dal piano superiore, e quei di sopra perchè impediti dal soffitto. Il passaggio tra un castello e l’altro era di 40 - 50 i centimetri, per cui bisognava entrarci di fianco, e per salire sul piano superiore occorrevano muscoli ben saldi nelle braccia che permettessero di spiccare il salto acrobatico necessario, se non c’era qualcuno disposto a dar una mano sollevando per il di sotto! Gli insetti schifosi e molesti non era necessario cercarli col lanternino o nelle fessure!, camminavano da padroni giorno e notte, su e giù, a vista d occhio! e ogni tentativo per distruggerli, sembrava ottenesse solo di renderli più aggressivi e rabbiosi. Le otto piccole finestre che davan luce in ogni baracca, avevano vetri tenuti insieme da cerotti o carte gommate, con sensibile riduzione di luce, e nessuna porta si poteva chiudere perfettamente, neanche quella dei servizi che erano nascosti tra quattro assi e costituiti 77
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da due bidoni scoperchiati e quasi sempre pieni! Quelli esterni, ai quali si poteva accedere soltanto di giorno, erano troppo lontani per la maggior parte degli ammalati, e per di più pericolosi per chi, a causa della febbre o della debolezza, barcollava un po'. Al centro d’ogni baracca, v’era una stufa rudimentale di latta, che serviva per la sterilizzazione delle siringhe. A questo scopo ci venivano forniti ogni mattina, otto mattoni di polvere di carbone impastata, I servizi diurni dei quali però ben pochi si servivano, sia perchè scomodi, sia perché ventilatissimi che durante le giornate umide e fredde dovevano servire anche per il riscaldamento. Infine vi era un tavolo su cui si facevano le divisioni del rancio e al quale qualcuno si sedeva per consumare la sua sbobba o per giocarsi un solitario. Due panche e una quindicina di sgabelli completavano l’arredamento di quel nostro regno! Nell’impossibilità di poterle scopare per l’intasamento e forse per non sollevare polvere, o anche per mancanza di scope, le baracche venivano lavate ogni giorno, con abbondanti bidoni di acqua che scolava poi attraverso le fessure e talvolta gli squarci del pavimento, alto sopra il suolo una decina di centimetri. Perciò apparivano sempre pulite a chi non sapeva che erano invece sempre umide e fradice. Eppure, col tempo anche tra quelle poche assi sconnesse, quanta fiduciosa serenità, quanta forza di sopportazione, quanto eroismo sarebbe venuto ad albergare!... Meraviglioso conforto della Religione!... Benefica, divina potenza della fede!...
Da Atene a Zeithain In seguito ad un forte attacco di malaria, dal campo di concentramento di Goudì in Atene, ove ero arrivato da pochi giorni, il 20 Ottobre 1943, venni trasferito al 537 ospedale da campo che funzionava in un grande palazzo nei pressi del Pireo. Là ritrovai parecchi compagni di reparto e prima nostra idea fu di raccoglierci insieme, giacché più o meno soffrivano tutti dello stesso male, contratto a Porto Edda durante la campagna d’Albania, e insieme andar incontro al domani. Ma in seguito, venuti a sapere del trattamento di rigore che i Tedeschi riserbavano ai superstiti dell’eroica Divisione «Acqui», immolatasi gloriosamente nelle isole di Cefalonia e Corfù, e noi eravamo tali, decidemmo di disperderci e di toglierci persino le mostrine!... i gradi!... Il caos completo che regnava in quell’ospedale, rendeva impossibile ogni cura. La febbre persisteva alta, le forze venivano a mancare sempre più, l'uso dell’« Atebrin » in sostituzione del « Chinino », ci aveva resi gialli come itterici all’ultimo stadio, per cui io, il Tenente di Amministrazione Melici ed il Tenente Medico Adamo, decidemmo di partire di là al più presto possibile col primo mezzo che ci fosse capitato. Difatti il 12 Novembre, imbrogliando, riuscimmo a farci includere tra coloro che l’indomani sarebbero partiti per destinazione ignota, sul Treno ospedale!!! ed era invece una comunissima tradotta di carribestiame in ognuno dei quali erano state sistemate alcune brandine di legno con poca paglia e molti insetti che ci resero più penoso il lunghissimo viaggio. Chiusi dentro dall’esterno, ci si apriva il portone scorrevole soltanto allorché il treno si fermava in aperta campagna, o quando noi si bussava con tutta la forza dei nostri pugni e si urlava: « Das abort ist full »! e cioè quando il secchio che ci fungeva da servizio era colmo!.. Solo una volta ci fu concesso di mettere piede a terra e fu in Ungheria, durante una delle solite soste in aperta campagna. Naturalmente ne approfittammo per sgranchirci le gambe e per regolarizzare un po’ meglio il nostro... ministero degli interni!... L’umiliante azione piacque invece moltissimo ai nostri accompagnatori che la fotografarono in tutti i suoi particolari. Ben 13 giorni durò quel martirio! durante i quali avemmo due soli ranci consistenti 78
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in una pappina bianca appiccicosa e alcune zollette di zucchero. Per fortuna s’aveva ancora qualcosa delle provviste fatte ad Atene prima della partenza! Eppure l’allegria non mancava!... tanto è vero che a Budapest, mentre si attraversava il Danubio, da tutta la tradotta si levò altissimo il canto della canzone. « Là sul Danubio bleu!... ecc. In cambio però avevamo ottenuto che il portone ci fosse lasciato aperto. Finalmente il 25 Novembre 1943 arrivammo a destinazione: una stazioncina sperduta tra i boschi... in mezzo alla neve... e un freddo da cani!... Due baracche tra le meno sconquassate del campo. Prima però d’essere immessi nel campo che scorgevamo a 500 metri circa, dovemmo sottoporci a delle operazioni preliminari di cui avremmo fatto a meno volentieri, nelle nostre condizioni, rapatura... bagno... disinfestazione degli indumenti e coperte, rivista allo zaino!... Contro la rapatura si levò un coro di proteste, specialmente da parte degli Ufficiali, ma i Tedeschi furono inflessibili e già una cinquantina, quasi a viva forza, erano stati tosati ben bene dalla macchinetta elettrica. Bisognava rassegnarsi! Quando a un Capitano venne l’idea di promettere 100 lire a chi avesse fatto scomparire l’attrezzo. Detto, fatto! Non appena il soldato Tedesco che la manovrava si fermò un istante a riposarsi e a fumarsi una sigaretta, la macchina scomparve per incanto! Successe un finimondo! Tutto fu messo a soqquadro!... Ci fecero rovesciare gli zaini e le tasche... spintoni, pugni e calci ci furono somministrati in abbondanza... ci si lasciò, per punizione, senza rancio anche quel giorno! ...Ma nessuno fiatò e la macchinetta non fu ritrovata. Del resto noi stessi non si sapeva chi fosse stato così ardito e così svelto! Neanche il Capitano che aveva promesso le 100 lire! La ritrovai io parecchi mesi dopo facendo lo spoglio degli oggetti appartenuti a uno dei miei tanti morti. La nascosi ben bene anch’io, come fosse una reliquia e fu una delle poche cose che mi riuscì di portare con me rimpatriando. Scongiurato così il pericolo della rapatura, completamente nudi, passammo nello stanzone del bagno. Nessuna vasca, nessuna doccia in vista!... D’un tratto dal soffitto, ecco uno scroscio di acqua quasi bollente. Ma non si era ancora aperta la bocca al grido di dolore provocato da quella scottatura, che un’altro scroscio di acqua fredda ci investì!... Per venti minuti passammo così dal caldo al freddo e dal freddo al caldo con una precisione matematica. Tutti ansimavamo come tori feriti! Usciti dal bagno per lasciar posto al secondo scaglione, dovemmo rimanere ancora ignudi per parecchio tempo, in attesa che ci venissero restituiti, disinfettati, gli indumenti. E quando ce li riconsegnarono erano, naturalmente, fradici! Ma ci convenne indossarli lo stesso, per avere almeno l’impressione d’essere al riparo dell’aria gelida. Finalmente verso le 17 del pomeriggio, l’operazione pulizia era finita! Quanti, come me, battevano rumorosamente i denti per la febbre! Ciononostante ci restava ancora a subire la rivista dello zaino e delle valigie-cassette. Fu quanto mai minuziosa e pignola! Fummo privati di molte cose che, pur non essendo proibite ai prigionieri, facevano comodo o gola ai nostri aguzzini. Avendo visto che al Tenente Posca veniva sequestrata la macchina fotografica, io pensai di salvare la mia scomponendola e consegnando i vari pezzi ai più fidati compagni. Mi trattenni solo la camera oscura, nella quale posi il rosario e due pezzetti di candela, come fosse un oggetto dell’altarino da campo, e così, proprio 79
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perchè considerata tale, mi venne lasciata. In seguito potei ricomporre la mitica macchina. Forse fui l’unico del campo che riuscì a scattare qualche foto nonostante la pesante e continua sorveglianza tedesca! Ultimata anche questa faccenda della rivista, ci caricammo il nostro zaino alleggerito e, incolonnati a quattro a quattro, calpestando rabbiosamente la neve perchè non ci si attaccasse, facemmo il nostro ingresso nel campo vero e proprio. Io e gli altri pochi Ufficiali, tra cui i Tn.ti Malia e Adamo, fummo assegnati alla baracca «52» dove trovammo altri Ufficiali che già erano sul posto da tre mesi circa e sapevano ormai tutto della vita del campo. Ce ne informarono subito: un solo rancio al giorno che veniva distribuito verso le 13 e che generalmente consisteva in tre patate più o meno grosse - 150 grammi di pane nero e umido - un cucchiaio rasato di zucchero o di carne in scatola, o un pezzetto di formaggio puzzolente - poi una mezza gavetta di rape o crauti che una volta alla settimana venivano sostituiti con una minestra di orzo, e un’altra da certa roba che chiamavamo «Giuliana» e in realtà non erano che pezzetti di rape da cui era stata spremuta la parte zuccherina. Sembrava di mangiare carbone bell’e buono! e quanto si sputava!... Al mattino mezzo litro di acqua tiepida e colorata che dicevano essere thè (!) e che doveva servirci per la sete di tutto il giorno, giacché l'acqua che davano le pompe del campo non era potabile. Il capo-baracca, ch’era il Comandante Azzi, di cui avrò ancora motivo di parlare, ci assegnò poi il posto, lasciandoci però la libertà di scelta e raccomandandoci caldamente di non sprimacciare il giaciglio per non sollevare un polverone che avrebbe stizzito tutti quanti. Io e i miei amici ci sistemammo in un angolo. Ogni castello comportava quattro occupanti, spalla a spalla, due sotto e due sopra. Come già detto, per salire al posto superiore era necessario uno sforzo non indifferente ed io in quel tempo non ne avevo di forze!., perciò mi dovetti rassegnare a coricarmi sotto, a fianco del Ten. Corbini. La paura che il Ten. Mella che mi stava sopra, mi sprofondasse addosso e soprattutto la febbre che non si decideva a lasciarmi, non mi permisero di chiudere occhio per tutta la notte, nonostante la stanchezza. Però non ero il solo sveglio!... a giudicare dal parlottare sommesso di tanti e al muoversi continuo degli altri !... Il tenente cappellano Monsignor Ghidini e le crocerossine Il giorno dopo ebbi finalmente una gradita sorpresa. Mi venne a dare il benvenuto il Cappellano della Marina Mons. Ghidini, che per essere stato il primo arrivato là dentro, fu il solo riconosciuto tale dai Tedeschi. Alto di persona, forbito parlatore, dignitoso in ogni suo gesto, affabile con tutti, vestito d’una impeccabile talare, s'era guadagnata già la simpatia del Comando e la stima di tutti. La veste che indossava e che portava come una bandiera, dava a tutti noi straccioni, un senso di protezione. Alla sua diplomazia si deve se in seguito potemmo avere una baracca-cappella e un cimitero tutto nostro, e se ci fu possibile organizzare feste e funzioni religiose od anche qualche trattenimento culturale e ricreativo. Dopo aver ascoltato la mia pietosa odissea, mi disse tutto di sè. Cappellano della Nave-Ospedale «Gradisca», assieme a tutti gli Ufficiali, era stato fatto prigioniero nel porto del Pireo, subito dopo l’otto settembre 1943 e inviato in Germania, a Zeithain, dove aveva trovato un gruppo di nostre Crocerossine provenienti dalla Croazia. Mi parlò di quanto aveva già fatto ed ottenuto per rendere meno disagevole e più meritoria la penosa vita del «campo»... di quanto aveva intenzione di fare ancora, e mi chiese collaborazione per quando, naturalmente, sarei stato in grado di muovermi. - Riposassi intanto e seguissi a puntino la dieta (!) e la cura che mi avrebbe prescritto il Col. Med. Rizzo, Comandante di tutto il Campo-Ospedale Italiano, col quale sarebbe tornato poco dopo. 80
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E difatti, i miei compagni di castello avevano appena finito di rassettarmi un po’ le coperte, ed ecco di ritorno Mons. Ghidini col Colonnello e il Capitano Medico De Lucia, incaricato della baracca. Dopo una visita generale meticolosa e sentito che la malaria mi si era incarnata nel sangue fin dal febbraio '41 con attacchi regolari di febbre alta ogni 15-20 giorni, sentenziò: malaria perniciosa in soggetto debilitato! Nulla di nuovo per me che già non sapessi e difatti anche l’esame del vetrino confermò la diagnosi. Forse per consolarmi, lasciandomi, il Colonnello mi disse che m’avrebbe affidato, per la cura, alle mani di fata delle Crocerossine. Lo ringraziai e attesi fiducioso. Ma dovetti aspettare cinque giorni e intanto la febbre continuava!... Le pastiglie di Atbetrin mi ingiallivano sempre più e mi rendevano intollerabile ogni cosa, non solo le rape, ma anche quelle piccole leccornie, ultimi avanzi delle provviste fatte ad Atene, che gli Ufficiali amici mi sforzavano a prendere. Finalmente ecco le nostre meravigliose Sorelle della C.R.I.Le guidava la capo gruppo, sor. Sofia Novellis, tanto buona e intraprendente quanto delicata e nobile! Nonostante il loro desiderio grande e le molte richieste di Mons. Ghidini, il comando tedesco non aveva ancora concesso il nulla-osta a che prestassero la loro opera di sollievo e di cura nelle baracche dei più bisognosi. Lo poterono solo verso la fine del gennaio ‘44 quando anch’io, che nel frattempo mi ero alquanto rimesso, grazie proprio alle loro premure, mi ero dedicato già da un mesetto circa, all’assistenza dei nostri Tubercolosi che ormai cominciavano a crollare.E là, nel reparto «C», mi vennero ad aiutare in modo stabile: sorella Menghini e sorella Maria Salvo Gubitosi, mentre le altre, impegnate nei laboratori, nelle sale operatorie, nella cucina, nel rattoppare i nostri cenci, nell’assistere i più gravi dei reparti «A» e «B», accorrevano, non appena le avessi richieste, a darmi una mano. E ogni volta comparivano, col loro sorriso luminoso, operavano miracoli! Se per i Tedeschi fu un delitto imperdonabile l’aver gettato quelle povere donne in situazioni così inumane, per noi fu un tratto di squisita bontà da parte di Dio, l’averle avute, per otto mesi, al nostro fianco. Inadeguata ogni parola a dire e ogni penna a scrivere del bene che tutti avemmo da quegli Angeli bianco-azzurri.
Il Campo «C» Superata anche quella volta la fase acuta del male che da tre anni mi affliggeva periodicamente, senza però impedirmi mai di espletare il mio compito, sia pure con qualche difficoltà, mi diedi tutto all’assistenza dei ricoverati del Campo «C», che occupavano le baracche 71 e 72 - 74 e 75 - 52 e 56 - 68 e 78 - più due baracche riservate ai polacchi e ai serbi, ed altre due ad altri infettivi. Il campo C era stato aperto ufficialmente il 2-12-1943 e la direzione affidata dal Col. Medico Rizzo al Cap. Carlo Caccese che conserva ancora, come una reliquia, 1’ordine ricevuto.
Mons. Ghidini
Padre Luca
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Don Guido
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Reticolati interni che dividevano i vari settori del campo
Ottenni di trasferirmi «loco e foco» tra quei poveretti e così coi medici che già ci stavano: Capitano Moschini e Corrado, i Ten.ti Med. Sanfilippo e Fantelli, gli Infermieri Ferrero, Caviglia, Cioni, Buongiorno, Favalli, Giampieri, Villani e il Serg. Magg. Chiappini che fungeva da Capo-Campo, formammo una piccola repubblica autonoma, indipendente. Gli altri ufficiali medici che completavano il servizio del Campo C e precisamente i Ten.ti Mazzoni e Zani, Simonetti e Filosa, Negri e Dal Bosco, e il Direttore Cap. Caccese, per varie ragioni erano rimasti in forza al campo A, ma ogni giorno venivano puntualmente per il loro servizio. I Tedeschi che della TBC avevano un sacrosanto terrore, come del resto anche dei bombardamenti, non avrebbero voluto che quei degli altri campi A e B bazzicassero tra noi, ma chi poteva tener separati soldati dello stesso reparto, o concittadini, o paesani? La lontananza dalla Patria, la mancanza di notizie dei propri cari, le miserevoli condizioni di vita, anziché fiaccare, acuirono il nostro spirito di corpo, la nostra fraternità, il bisogno di vederci, di aiutarci nel possibile, di scambiarci pensieri e speranze, gioie e dolori. Per cui di visite ne avemmo tutti i giorni, e quando la presenza di qualche aguzzino zelante, impediva le comunicazioni per le vie diritte, ci si serviva di quelle storte!., e cioè si passava sotto o attraverso gli squarci praticati abbondantemente nel reticolato semplice che ci divideva dagli altri reparti Italiani, anche a costo d’esser presi di mira dal fucile della sentinella che vigilava sulla torretta di osservazione. Il 22 Luglio 1944 verso le cinque pomeridiane era suonato l'allarme, e finché durava, tutti dovevano restare rigorosamente nella propria baracca, pena la prigione. Il moribondo che stavo assistendo, ed era il quinto di quel giorno! mi espresse il desiderio di ricevere ancora una volta la S. Comunione. Volli accontentarlo! ma dovevo recarmi nella baracca-cappella a prendere il Santissimo. Lo feci per viam breviorem, per la strada più breve cioè, ch'era quella del reticolato interno. Mentre un soldato teneva sollevata la rete, io, strisciando, stavo passandoci sotto, quando una fucilata ci raggiunse! La peggio toccò al soldato ch’ebbe le quattro dita della mano sinistra completamente asportate e buona parte del palmo, mentre io fui toccato solo leggermente e di striscio alla gamba destra. Il poveretto sanguinando e urlando per il dolore, scappò mollando così la rete che mi cadde sulla schiena. Temendo un secondo colpo, con un balzo fui anch’io in piedi dall’altra parte e di corsa, tenendomi curvo, raggiunsi e mi nascosi nella baracca più vicina, la 46. Sotto il filo spinato però avevo lasciato parecchi brandelli di camicia e di pelle. Cessato l’allarme e indossata una camicia imprestatami, perchè i Tedeschi non mi riconoscessero, compii la mia missione appena in tempo. Quando uscii dalla baracca 75, dopo aver chiuso gli occhi al soldato Dell’Osa Pietro ch’era morto felice d'essere in compagnia di Gesù, le guardie stavano già cercando i due indisciplinati che durante l’allarme avevano tentato di attraversare il reticolato. Fui anch’io interrogato, ma finsi di non capire!., 82
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Una delle tante garitte con mitragliatrice e faro girante! da dove i Tedeschi vigilavano per impedire fughe
l’omertà degli altri fu generale e così l’avventura non ebbe altre conseguenze. Il soldato ferito invece dovè sottostare anche alla punizione che però tutti d’accordo gli rendemmo piacevole e breve.
Vita religiosa del campo Che il bisogno, la disgrazia, il dolore siano mezzi efficaci e potenti in mano di Dio per ricondurre o stringere maggiormente a Sè le anime mediante i Sacramenti, è un fatto indiscutibile. Può esserci, al principio della sofferenza, un atto di ribellione o anche di disperazione, ma se il patire s’allunga, finisce per rendere più pensosi gli uomini e più affinate le anime. Così avvenne anche a Zeithain. Caduta l'illusione d'un rimpatrio a breve scadenza, (i Tedeschi ci avevano fatto credere che per il Natale del ’43 tutto sarebbe finito e noi saremmo stati liberati!) e persa la fiducia negli uomini, ci rivolgemmo a Dio che tiene in mano le sorti dell’universo. Dire del rigoglio di Sacramenti, di preghiere e funzioni svariatissime che si cominciarono coll’inizio del 1944, sarebbe lungo e per alcuni incredibile. Già Mons. Ghidini, colla sua diplomazia aveva ottenuto che una baracca fungesse da Cappella. Alcuni soldati-artigiani, pur senza attrezzi adatti e usando tavolette di legno sottratte a qualche pagliariccio, avevano ricavato candelieri e persino un ostensorio. Le Sorelle della C.R.I. da parte loro avevano rimediato alle tovaglie e un Ufficiale pittore aveva decorato un po’ tutto l'altare. Là dentro, ogni mattino venivano celebrate due Sante Messe frequentatissime, giacché era arrivato nel Marzo, un altro Cappellano, Don Guido Sanmartino, proveniente da un campo in Polonia. Era giovane di anni e di servizio militare, ma tanto, tanto buono e paziente. Monsignore lo aveva incaricato dell’accompagnamento dei nostri morti al cimitero, perciò lo si chiamava affettuosamente il « galoppino ! » sempre affamato al ritorno! Non se ne offendeva, anzi rideva compiaciuto, perchè: « — è la verità! — » diceva. Qualunque piacere gli si chiedesse si faceva in due per accontentare, purché non importasse rischi di nessuna sorte! Il coraggio non sapeva che fosse! E forse per questa sua timidità gli si voleva un gran bene. Ogni sera nella stessa baracca-cappella, dopo il Rosario seguito spesso spesso da una predichina, solenne Benedizione Eucaristica. La bella preghiera del prigioniero alla Madonna, dettata da Mons. Ghidini che riuscì anche a farla indulgenziare dall’Arciv. di Gorizia e, che ormai tutti sapevano a memoria, recitata a gran voce, chiudeva la giornata. Eccola: — O Vergine Madre, o benigna consolatrice dei mesti, accogli pietosa le nostre voci di preghiera. Tu sei la Madre della misericordia; impetraci dal Tuo Figlio Gesù perdono delle nostre colpe, e, con il tuo potente aiuto, ottieni a noi fermezza e perseveranza nel bene. Tu sei l’ausilio dei Cristiani! Sul mondo riarso di odio, straziato da feroci discordie, 83
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che espia nella sofferenza e nella angoscia, nel lutto e nel sangue, il delitto dell'apostasia dall'Amore Divino, volgi il tuo sguardo materno, piovi le tue grazie celesti, affinchè gli uomini ritrovino le vie delle pacifiche intese, la forza dell’abbraccio fraterno. O regina della Pace!... ottieni alle Genti, con la tua validissima intercessione, la pace vera, giusta, duratura. Tu sei la Consolatrice dei Mesti, o Maria! Volgi dunque a noi gli occhi tuoi dolci! Vedi?, o Stella Mattutina?, ogni nostro giorno ha la sua pena, ogni anima il suo tormento. Non disdegnare, o Madre, chi ti affida ogni lacrima, più che degli, occhi, del cuore, e pietosa abbreviaci i giorni dell’espiazione e della prova, riportaci in quella dolce Patria di cui Tu sei l’inclita Castellana. Con i nostri cari, nei devoti tuoi templi, canteremo le tue Misericordie, o Madre Clementissima, o unica speranza nostra. Così sia». L’altare della Baracca-Cappella costruito ingegnoNaturalmente gli ammalati del Campo «C» samente e interamente con pezzi e pezzetti di legno non potevano partecipare alle preghiere e alle reperiti nei modi più svariati. funzioni che si tenevano nella Cappella posta tra il Campo « A » e « B ». Oltre alla distanza, c’era il fatto che per recarvicisi bisognava proprio passare davanti agli Uffici dove i Tedeschi erano più numerosi e se si fossero accorti, sarebbero stati guai. Per cui, onde non essere da meno dei nostri compagni degli altri reparti, anche noi del campo «C» ci organizzammo così: — Ogni giorno la Messa che andavo a celebrare or nell’una, or nell’altra baracca a turno e a secondo del bisogno, alla quale però potevano partecipare tutti quelli che volevano e potevano. La sera immancabilmente in quasi tutte le baracche la recita del S. Rosario e della preghiera del prigioniero. Passando dall'una all’altra per assicurarmi che tutto fosse fatto con devozione, una sera mi capitò di sentire, per la prima volta, anche un’Ave Maria singolare, quella del Popolo!... Terminata la preghiera ufficiale e ricevuta la mia benedizione come al solito, l’infermiere della baracca 75, Cioni Alberto, fiorentino puro sangue e tipo spassosissimo, mi chiese: — Padre, sa come in Italia recitano ora l’Ave Maria?.. Senta!.. Richiesto ed ottenuto il silenzio da parte di tutti, declamò a voce spiegata: Ave Maria, di grazia piena! fa che non suoni più la sirena! fa che non vengan più gli areoplani, fammi dormire fino a domani. Se una bomba cade giù, Madonnina, salvami Tu! Santa Vergine che tutto vedi, fa che i miei muri restino in piedi! Ma se la casa dovesse crollare, fammi la grazia di me salvare. E Tu sai, buona Madonnina, che tutte le notti si va in cantina? O mio caro e buon Gesù, anche in Italia si dorme più! Se San Giuseppe è tra i richiamati, anche gli Angeli saran mobilitati! E se l’asino è a Roma e il bue a Berlino, come faremo a riscaldar Gesù Bambino? Nell’insalata ci vuole l’olio, come per vincere ci vuol Badoglio! Il Papa veglia e spera e prega, ma Mussolini se ne frega! Per colpa sua dobbiamo soffrire! o Padre eterno; fallo morire! Giacché tutto vedi, o buon Gesù, porta il Duce con Te lassù! Porta pure Hitler in sua compagnia! Fammi sta grazia e così sia! Un fragoroso: Bene!.. Bella!.. Bravo!., accolse l'innocente parodia. Tutti ne reclama84
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rono una copia ed io la promisi loro e avutone il testo l’andai a recitare nelle altre baracche suscitando ovunque altrettanta ilarità e consensi. Ma torniamo alle pratiche religiose che si compivano nel campo «C». Alla domenica, tre erano le S. Messe che celebravo: la prima nella baracca dei gravi ch'era la «71», chiamata anche la baracca dei morti, perchè chi vi entrava difficilmente ne usciva coi propri piedi!., la seconda nella baracca del personale; la Cappellano di Zeithain impartisce l’ultima Assoluzione! dopo di che terza, tempo permettendolo, all'aperto i soldati del l'ii'Sldlo per tutto il campo. A questa Messa partecipavano anche non pochi dei nostri ospiti, Serbi e Polacchi, e financo qualche tedesco! Al termine non mancava mai la canzoncina popolare, dopo di che era di obbligo facessi il consuntivo della settimana trascorsa e le previsioni per quella che s’incominciava. Naturalmente da principio non facevo che riassumere le notizie circolanti nei vari campi e chissà da quali fonti venute!.. Giornali non se n’avevano... I Tedeschi non si sbottonavano... eppure eran tante e quasi sempre ottimistiche!.. Riflettevano senz'altro il nostro stato d’animo, le nostre aspirazioni più profonde, i nostri desideri più ardenti. Però non mancavano gli sfiduciati che andavano ripetendo: — Vinca chi vuole, purché noi si esca da questo inferno che comincia a voler vittime sempre più numerose! Ed era purtroppo la verità!... Di una cosa però eravamo certi: i massicci bombardamenti notturni e diurni andavano aumentando sempre più e le facce corrucciate dei nostri aguzzini, ci dicevano chiaramente che dovevano essere efficaci. Lo potevamo del resto immaginare. Quelle formidabili formazioni di fortezze volanti, valutate a migliaia, accompagnate e protette da centinaia di Spitfire che sembravano foglie d’argento trasportate dal vento, giunte sul nostro campo, si dividevano e prendevano di solito tre direzioni: quella di Berlino, a Nord e a poco più di 100 km., quella di Lipsia, ad Ovest a circa 70 km. — quella di Dresda, a sud-est a 60 km. Spettacoloso il fuoco di sbarramento antiaereo! ma i boati fragorosi che ci giungevano distintissimi e che facevano traballare le nostre già sconquassate baracche, provavano che gli obiettivi non venivano mancati. Per vedere e possibilmente contare gli apparecchi, i più coraggiosi di noi, trasgredendo l’ordine severissimo di restare in baracca durante gli allarmi, se ne stavano invece supini per terra fino a bombardamento ultimato correndo il pericolo d’essere fatti bersaglio delle sentinelle. Una volta sola assistemmo a un duello aereo tra caccia tedeschi e alleati. La peggio, è vero, l'ebbero i Messersmit, inferiori per numero e per agilità, ma anche due Spitfire furono abbattuti. Un pilota alleato riuscì a gettarsi col paracadute, ma toccando terra nel campicello che ci stava dinnanzi oltre i reticolati, fu fatto barbaramente fuori da alcuni contadini!... Ne ebbi la prova la sera stessa, quando venni chiamato per accompagnarne la salma al cimitero e firmare l'atto di morte da trasmettere alla Croce Rossa. Qualche giorno dopo quella salma fu trasferita, e non seppi mai dove. Il perchè però mi era chiarissimo! Gli allarmi e i bombardamenti non erano i soli fatti che rompevano il grigiore e la monotonia delle nostre giornate. C’erano anche e soprattutto le feste che celebravamo sempre con la maggior solennità possibile. Venuto in possesso di una fisarmonica, impiantai subito una piccola schola cantorum! Finché rimasero con noi le crocerossine, ne furono i pilastri. Ma anche quando rimpatriarono, si continuò ad imparare canzoncine, 85
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mottettini e persino le parti brevi della Messa «Te Deum» del Perosi. Mons. Ghidini, che la sapeva a memoria, me ne dettò le voci, io v’aggiunsi una specie di accompagnamento e fu imparata così bene che, in seguito, quand’io non potevo accompagnarla perchè impegnato all’altare, veniva cantata a voci scoperte!... sotto la direzione del Ten. Med. Fantelli che di musica se ne intendeva parecchio. C’era sì un virtuoso della fisarmonica, che portavo quando mi riusciva agganciarlo, nelle varie baracche a rallegrare un po’ gli allettati, ma era inspiegabilmente negato per la musica sacra! Fu così che anche i pochissimi, rimasti fino allora quasi sempre assenti, tornarono alle funzioni sacre. Il che importò come primo risultato positivo, un progressivo e continuo aumento di frequenza ai SS. Sacramenti, specialmente nel mio campo «C» dove contavo già Soldati e Ufficiali che si comunicavano quotidianamente. Il necessario per tante Comunioni e Messe ci veniva inviato dalla Croce Rossa Svizzera. L’avvio a codesta intensa vita spirituale, venne da una memorabile funzione religiosa che celebrammo nel giorno anniversario dell’Apparizione di Lourdes e cioè l’11febbraio 1944. Lascio la parola a Sorella Novellis che ne fu la magna pars e che la descrisse per una rivista quando rientrò in Italia, dando però un titolo che non condivido perchè abbiamo sempre potuto fare ogni nostra funzione senza intralci da parte dei Tedeschi: «Cristo proibito a Zeithain- Muhlberg/Elbe ». «Grigia solitudine tra le baracche e i reticolati che si estendevano all’infinito. Oppressione dello spirito nella ricerca d’una vita senza domani. Ansia d'una notizia che non sarebbe mai giunta. Così vivevano, nel lontano 1944, i nostri soldati, il fiore della gioventù d’Italia, nel campo di concentramento ove si è svolto il fatto più commovente e significativo della mia lunga esperienza di Crocerossina. Eravamo ventun sorelle provenienti da Ospedaletti della Grecia e della Croazia, riunite nel vastissimo campo di Zeithain-Muhlberg/Elbe (Sassonia) diviso in tre zone: A - B - C. Ciò che vi descriverò si è svolto nel Campo « C », quello dei Tubercolosi. E' difficile rendere colla penna ciò che gli occhi hanno visto, e soprattutto ciò che lo spirito ha patito. Dirò qualcosa che nulla è in confronto della realtà, ma sarà sempre qualcosa che potrà testimoniare quanto la fede possa aiutare a sopportare e a superare le più tremende difficoltà. Si avvicinava la festa della Madonna di Lourdes e volevamo, in quella occasione, dare ai nostri cari soldati il conforto della Benedizione Eucaristica. Dopo aver insistito e supplicato parecchio, ottenemmo dal Comando Tedesco il permesso di celebrare la festa della Nostra Mamma Celeste. Si trattava di organizzare tutto dalle piccole alle grandi cose. Le baracche erano miserabili... i malati posti in giacigli quadriposto, due sotto e due sopra... formati da poche assicelle e un po’ di paglia ormai tritata, infestati da insetti di tutti i tipi. Volevamo dimostrare anche esteriormente che gli sporchi Italiani ci sapevano fare. Trovammo modo di rimediare delle lenzuola e degli indumenti per i nostri soldati degenti... barattammo, con i pochi oggetti che ancora avevamo, del sapone per mettere in sesto le nostre divise duramente provate dai lunghi mesi di prigionia. I soldati, dal canto loro, si diedero d'attorno per allestire l'altare, l’Ostensorio, i candelieri ed una infinità di altri oggetti. Tutto questo spirito di iniziativa e con mezzi veramente sorprendenti! L'Ostensorio per esempio era stato ricavato da una scatola di carne a cui erano stati tolti il coperchio e il fondo. La raggiera era stata realizzata con ritagli di lamiera e il manico con un pezzo di legno sottratto a uno dei sei piccoli supporti che sostenevano i pagliericci... e anzi tutti avevamo ridotto di una le nostre assicelle per costituire una riserva segreta di questa preziosa materia prima. Curata così alla meglio la parte materiale, i Cappellani provvidero a preparare spiritualmente i soldati. Si fece una novena nella nostra baracca-cappella ove era stato eretto l'altare che potete 86
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osservare nella fotografia. Garze e compresse colorate avevano avuto il magico potere di rendere suggestivo e vivo l’Altare in mezzo al freddo squallore della baracca. Sin dai primi giorni della novena, la Madonna si mostrò contenta di questo nostro sforzo e ci premiò facendo venire alle nostre funzioni serali tante e tante anime che da gran tempo si erano allontanate dalla fede. Voi non potete immaginare quanto sia commovente vedere un alto Ufficiale, conosciuto da tutti per il suo disprezzo per la religione, piegare le ginocchia e piangere!... Eppure tanti hanno fatto così! Quello era il coronamento di una lunga serie di sofferenze sopportate e offerte eroicamente da oscuri soldati per la conversione di quelle anime. Quante volte chinandomi sopra qualcuno di quei meravigliosi ragazzi, mi sentivo ripetere: — Sorella, quando torneremo in Italia?, oppure — Sorella, non rivedrò più i miei bambini?... la mia mamma?... Sorella, aiutatemi!... Abbassavo la fronte e con l’angoscia nel cuore, dicevo loro: — Figliolo, offri questo sacrificio per la salvezza dell’anima di...». — Subito il loro volto si illuminava!... la possibilità di essere ancor utili a qualcosa, donava loro una forza ch’era del tutto soprannaturale. E morivano contenti che la loro morte, offerta come olocausto, potesse trasformarsi in istrumento di salvezza per altri. Molto tempo più tardi, quando eravamo già rientrate in Italia, un Generale si è messo a piangere quando ha saputo che dei soldati avevano offerto la loro vita per la sua conversione. In mezzo a tanto eroismo, non c’era bisogno di preparare gli animi. La Benedizione dell’ 11 febbraio, sarebbe stata per molti la visita, in anticipo, di quel Dio che presto avrebbero raggiunto per sempre. Alle 14 iniziò la processione. Lungo il passaggio del Santissimo erano schierati, riverenti e commossi, i nostri prigionieri. Tutto intorno, la neve aveva coperto del suo bianco manto le sozzure della terra, e la giornata serena, benché rigidissima, conferiva a quel tetro scenario, un senso di purezza. Nel Campo « C » si unirono i soldati che potevano ancora camminare. Così con questa guardia d’onore, sporca, affamata, ma tanto eroica, Gesù entrò nella baracca dei morenti. Chi è stato a Lourdes può capire che cosa abbiamo provato in quel momento! Erano anime che, serene, consce della loro prossima fine, orgogliose d’essere Italiane, attendevano che Gesù dicesse loro: — Oggi sarai meco in Paradiso! —. Quasi a testimoniare la realtà di questa frase, un giovane si avviò, nell’istante stesso in cui riceveva la Benedizione, per il cammino dell’eternità. Aveva chiuso gli occhi di fronte all’Ostia Santa, per aprire quelli dello spirito alla visione di Cristo Risorto! E così di letto in letto, di baracca in baracca, Gesù si fermava presso tutti e per tutti, nel muto colloquio aveva parole di conforto e di speranza! Abbiamo pregato!... abbiamo cantato!... ma soprattutto abbiamo pianto!... e forse quella è stata la preghiera più bella - (Sofia Novellis). E un Tenente Colonnello, rimpatriato coll’unico Treno Ospedale partito da Zeithain, annunciandomi il felice arrivo in Italia, mi pregava di salutare per conto suo e dei fortunati compagni, tutti i poveretti rimasti con me e di assicurarli che: — La Fede riacquistata nel febbraio in occasione dell’indimenticabile festa Lourdiana, l’avrebbe in seguito impiegata sempre nello scongiurare la Vergine per la nostra incolumità! —.
Il treno ospedale Fu l’unico che arrivò in due anni, e già così stracarico che ben pochi in confronto del bisogno, ebbero la fortuna di salirvi. Infatti su 2.000 ammalati circa che erano ricoverati nei tre campi Italiani di Zeithain, soltanto 150 poterono rimpatriare e di questi solo 50 dei miei del campo C ch'erano 520 e tutti estremamente bisognosi. Da più di due mesi se ne parlava e ogni giorno la lista dei partenti doveva essere aggiornata perchè ogni giorno 87
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Militari di Modena recano le cassette al luogo dell’inumazione definitiva
qualcuno dei prescelti partiva inesorabilmente per ben altra destinazione. Quale criterio di preferenza adottare nella scelta?.. Individui recuperabili! — fu l’imperativo categorico ricevuto dai medici delle varie baracche. Personalmente non condividevo l’idea, e non solo perchè i miei poveri T.B.C. sarebbero stati danneggiati, come di fatti lo furono, ma anche perchè in tal modo si correva il rischio di recare una specie di aiuto alla cosiddetta Repubblica Sociale, alla quale mai nessuno di noi aveva voluto aderire, nonostante le periodiche, frequenti sollecitazioni che ci venivano fatte colla promessa d’un rimpatrio immediato. E tali pressioni e promesse non ci venivano soltanto dai Tedeschi, ma purtroppo anche da certe Commissioni Italiane che di quando in quando venivano da noi a quest’unico scopo, ma che immancabilmente ripartivano con le pive nel sacco. « Piuttosto la morte d’inedia!... ma non la libertà traditrice!» era il nostro slogan cosciente di allora. Tuttavia molti, anzi tutti i miei erano sostenuti in questa fermezza, anche dalla speranza del Treno-Ospedale. Lo sognavano ad occhi aperti! ne parlavano persino in sogno e mi scongiuravano ogni giorno o perchè facessi il possibile per includerli nel fatidico elenco, o perchè controllassi che c’erano. D’accordo coi medici, assicuravo pietosamente tutti dell’inclusione. E del resto non era una bugia! perchè il comando Tedesco non ci aveva rivelato il numero dei posti a noi riserbati, anzi ci aveva detto chiaro e più volte, che i bisognosi di rimpatrio che non avessero potuto partire col primo treno-ospedale, sarebbero partiti senz’altro col successivo, atteso per pochi giorni dopo, ma che in realtà non giunse mai. Quale l’intenzione tedesca nel farci di continuo tante ampie promesse che poi non si avveravano?... Sostenere il nostro morale o beffarci crudelmente?... Finalmente il 10 giugno, ecco il sospirato convoglio! E’ facile immaginare la dolorosa sorpresa di tutti quando sapemmo del limitatissimo numero di posti riserbatici. Chi preferire tra i moltissimi bisognosi e già sicuri della partenza?. Col pretesto di andare a vedere come si sarebbero potuti sistemare in treno, lasciai l’ingrato compito della scelta ai medici. Quando tornai, tutto era stato combinato. Chi piangeva di gioia, chi di disperazione, chi di rabbia impotente!... Sorreggendosi a vicenda, i più in gamba raggiunsero da soli la piccola stazione che non distava un gran che, ma la maggior parte dovemmo portarla o in barella o in spalla. Ottenni, dopo infinite preghiere, che almeno i miei non fossero sottoposti al bagno pregai i partenti dei campi A e B che usassero i maggiori riguardi possibili verso i compagni del campo C e mi assecondarono in una gara di generosità commovente. Quando tutti furono a posto, diedi loro la mia ultima benedizione augurale e a moltissimi il bacio richiesto. La commozione, la stanchezza, e la solita maledetta febbre, mi 88
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avevano sfinito!... prostrato!... Ciononostante ritornai tra i rimasti portandomi tra le braccia il carissimo cap.le Frosi Ernesto che, aggravatosi improvvisamente alla stazione, non si credè opportuno lasciar partire. Infatti spirò il mattino del giorno seguente alle ore 7,30, dopo aver accettato eroicamente di offrire la sua giovanissima vita per il buon viaggio e la fortuna dei compagni partiti. I quali arrivarono sì felicemente in Patria, ma purtroppo fuori tempo utile. Infatti nonostante siano stati circondati d’ogni premura e curati con ogni mezzo possibile nell’Ospedale Militare di Modena, pure anch’essi, per la maggior parte, non poterono evitare l’abbraccio di sorella morte! Ce lo scrissero le Crocerossine che erano rimpatriate anch’ esse una decina di giorni prima, e che in seguito li visitarono spesso. Del resto 10 anni dopo, e precisamente nel settembre 1954, se ne fece la riesumazione alla quale fui presente io pure. L’idea di riconsegnare alle famiglie che le avessero richieste, le salme dei loro caduti per la Patria e di riunire in un unico e più degno luogo quelle che sarebbero rimaste nel cimitero di Modena, 1’ebbe la sorella Alma Gioia di Milano. Ma quante difficoltà e incomprensioni non dovè superare per poterla realizzare!... Temprata però a fatiche ben più pesanti, non esitò persino a ricorrere alle autorità di Roma!... per averne 1’autorizzazione e la partecipazione ufficiale. Aiutata poi dal Capitano Farmacista Venturelli, altro glorioso superstite di Zeithain, rintracciò e invitò alla cerimonia quanti più potè dei superstiti, ammalati e sani, e di coloro ch'erano stati almeno di passaggio dal campo nostro. Certamente tanta fatica avrebbe dovuto meritare maggior apprezzamento da parte dei Modenesi, che invece rimasero inspiegabilmente freddi e assenti! Tuttavia la funzione riuscì quanto mai solenne e suggestiva, per la presenza di molti famigliari dei caduti, d’una nutrita compagnia di soldati in armi, d'un buon gruppo di Accademisti e delle maggiori autorità civili e militari della città. Il Ministero della Difesa era rappresentato dal Comandante dell’Accademia Militare di Modena. Riporto qui a conferma e a completamento di quanto già scrissi, il discorsetto che ebbi occasione di tenere in quella circostanza. «... Coi Reduci dalla prigionia di Zeithain, che certamente portano ancora nel cuore la fiamma del sacrificio io compiuto per la Patria, commosso e reverente, saluto Voi compagni nostri, umili nelle piccole cassette che vi racchiudono, ma grandi come i Martiri di Cristo! Mai come in questo momento ho desiderato di aver al posto del cuore, una cetra armoniosa ripiena di recondite armonie, e una mano maestra che la facesse vibrare in modo ineffabile onde rievocare in mezzo a quanti i vi stanno d’attorno, la vostra figura, o vittime della più dura prigionia! e tutti spingere a suffragare davanti a Dio le vostre anime immortali. Sono ormai passati parecchi anni da quel triste 8 Settembre 1943, giorno in cui incominciò il nostro Calvario, lungo il quale ben 900 dei nostri si accasciarono per non risollevarsi più, là nel Res. Laz. di Zeithain! Ma il vostro e il loro ricordo non può tramontare!... e noi superstiti, noi miracolosamente scampati, risparmiati dalla falce cruenta, abbiamo oggi per voi e per quelli rimasti là nel Cimitero di Zeithain, che attendono di ritornare in Patria per il riposo definitivo, un pensiero nostalgico. Vi conoscemmo!... vi amammo riamati!... vi vedemmo giacere al nostro fianco, in quel supremo anelito, in quel supremo lamento che non si scorda più!... Cari miei Morti di Zeithain!... vi rivedo uno per uno!... perchè oltre che nel cuore, vi ho scolpiti bene nella mente! Potrei ricordarvi il giorno, l’ora del sereno, cristiano vostro trapasso, che avveniva sempre preceduto dai Sacramenti della Chiesa che voi stessi, molte volte, sollecitavate anzitempo. Posso assicurarvi che le vostre confidenze, i vostri desideri, le vostre ultime parole coi saluti ai cari lontani, sono riuscito a farli giungere a destinazione. Tengo tuttora come 89
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preziosa reliquia quei fogli su cui scrissi tutto quanto vi riguarda e che voi tante volte m’avete visto tra le mani. Anche il Ministero della Difesa li volle vedere e dopo attenta lettura mi assicurò che voi pure, un giorno o l'altro, rientrerete e sarete onorati, come oggi lo sono questi vostri compagni che vi hanno preceduto. E ne avete ben diritto! Il vostro sacrificio fu per la Patria e uguale, anzi superiore per la lunga, lenta agonia dolorosa da cui fu preceduto, a quello di coloro che lo compirono sui campi di battaglia coll’arma in pugno o al piede. E pensare che molti di voi avrebbero potuto evitarlo, volendolo!... con una semplicissima firma di adesione alla Repubblica Sociale tante volte richiestaci!... con una sola parola di ritrattazione! Invece, ed ecco il meraviglioso, tutti preferiste il reticolato alla libertà traditrice, e la morte d’inedia pur di mantenere fede alla vostra divisa e al vostro giuramento. Soltanto tre furono deboli e passarono di là!... Ho detto morte d’inedia! ed è la pura verità, anche se sulle vostre cartelle cliniche scrivevano, come causa della vostra morte, solo la conseguenza ultima della gran fame patita: — T.B.C. polmonare, il terribile male che non perdona! E tutti voi foste vittima di quel male o perchè troppo giovani, e quindi in pieno sviluppo (per esempio Pezzucchi, Buratti, Giovanardi, Conti, Fabris, Cozzi e tanti altri che avevano appena o non ancora compiuti i 20 anni) o perchè troppo robusti, e quindi bisognosi di maggior nutrimento, come Querzè, Valtolina, Ardigò, Rozzi, Benasciutti, Battistioli e tanti altri pezzi d’uomini! L'unico rancio quotidiano era assolutamente insufficiente sia come quantità, sia come qualità! Senza dire poi della mancanza assoluta di medicinali, che avrebbero potuto permettervi qualche cura, o almeno recarvi qualche sollievo, e delle baracche sconquassate in cui giacevate ammucchiati su poca paglia trita in polvere, baracche che sembravano fatte apposta per farci sentire il rigore del lungo, interminabile inverno, e il soffoco del breve, ma cocentissimo estate! E la sete allora, accresciuta dalla febbre continua, vi tormentava!... e chiedevate acqua al padre!... ed acqua potabile non c’era nel campo!... Ricordate come ce la cavammo nell’estate del ’44?... Grazie alla gentilezza, alla comprensione, e, diciamolo pure, al coraggio del Cap. Farm. Venturelli, che senza buono di scarico mi passò parecchie scatole di steridrolo, io tutte le sere passavo al letto di ciascuno di voi, e col gavettino vi versavo nella bocca riarsa quel sorso d'acqua sterilizzata, invocata disperatamente da tante ore! E quante altre tristezze che non voglio ricordare perchè mi strapperebbero ancora le lagrime!... Del resto i superstiti già le conoscono, e gli altri che non hanno visto e provato, non le potrebbero credere possibili!Eppure mentre tutto intorno sembrava desolazione e morte, e non solo sembrava, ma lo era di fatto, voi conservaste sempre altissimo il morale, viva la speranza, profonda la fede!.. Anzi, quanto più si ischeletriva il corpo, altrettanto si affinava lo spirito vostro!... E ricordate con quanta fiducia recitavate ogni sera il Santo Rosario?... Ricordate lo spettacolo di pietà che deste l’ll Febbraio 1944, quando ad imitazione di Lourdes, Gesù in Sacramento passò accanto al misero vostro giaciglio a benedire, a confortare, a sostenere?... Piangevate di commozione voi, ma piangevano anche i medici, gli infermieri, i cappellani, e soprattutto quei bianchi angeli, le Crocerossine nostre, che avevano preparato quel trionfo con indicibili fatiche e trovate geniali. E questa vostra religiosità non era l’effetto del terrore o delle estreme sofferenze, ma il frutto della vostra profonda convinzione! Potrei provarlo a chiunque. E quando nel Maggio, dopo otto mesi di dura prigionia, le Crocerossine furono finalmente rimpatriate, ricordate che sconforto, che vuoto lasciarono in voi che ormai eravate abituati a vederle ogni giorno, indaffarate dalla mattina alla sera, a rassettare le vostre cucce, a pulirvi, a imboccarvi?... Partirono anch’esse con lo strazio nel cuore, ma con la soddisfazione di portare con sè un fascio di messaggi alle famiglie vostre e gran parte del vostro cuore! Infatti non dimenticaste mai i loro insegnamenti... le loro raccomandazioni... e fu 90
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Modena: Alcuni superstiti di Zeithain intervenuti alla cerimonia
facile al cappellano di continuare a mietere copiosi frutti di bene, anzi ad aumentare il vostro entusiasmo religioso. E così vennero altre devozioni oltre al Rosario! Per esempio la « Preghiera del Prigioniero » composta da Mons. Ghidini, la preghiera del Fidanzato... le canzoncine imparate e cantate durante le Messe che vi venivo a celebrare nelle baracche... ecc. Che meraviglia se dopo tanto bene, arrivavate al passo estremo perfettamente rassegnati alla dura, misteriosa volontà di Dio?... se nessuno di voi partì per il grande viaggio, senza i conforti religiosi?...Da tutto ciò la mia profonda convinzione che già siete in possesso del Premio che il Signore concede agli Eroi della Patria!... e siate diventati i protettori naturali delle vostre famiglie desolate!... Quant’altro potrei dire di voi e ricordare del campo di Zeithain!... ma la convenienza vuole basti così. Da tutto ciò la mia profonda convinzione che già siate giustamente attribuito e lo scriveste con un ferro rovente sull’assito che nella baracca 71 separava i più gravi dagli altri che ancora potevano arrangiarsi da soli. Nessuno che sappia, può mettere in dubbio la verità di questo titolo!... Perciò io, alle molte raccomandazioni fattevi allora e da voi sempre ascoltate, oggi che siete trasmutati e potete molto, vi faccio anche questa: Continuate ad assistere e proteggere, oltre ai vostri cari di casa, anche i vostri compagni che, pur essendo tornati in Patria, hanno recato seco il sigillo del campo C di Zeithain e sono costretti a passare dall’uno all’altro medico, dall’uno all’altro Sanatorio. Ben pochi ormai ancora sopravvivono! Ricordatevi delle buone Sorelle della C.R.I. e specialmente delle Sorelle Novellis, Gubitosi-Salvo, Menghini, quella piccola, meravigliosa creatura cui un vero e sacro ardore infondeva una forza sovrumana anche fisica! ...e poi sorella Pessina e Helg che anche dall’Italia, vi inviarono pacchi e vi trovarono amici, e tutte le altre!... che in un modo o nell’altro, vi hanno alleviato un po’ le sofferenze. Continuate ad apprezzare la buona volontà almeno dei medici che vi assistettero, i quali pur senza mezzi, v’hanno circondati di premure davvero fraterne, premure che certamente han lenito le vostre pene: il Capitano Moschini e Corrado, i Tenenti Sanfilippo e Fantelli, Neri e Filosa, Simonetti e Zani e tanti altri che sarebbe troppo lungo nominare. Non erano sempre in mezzo a voi con la parola del conforto e della speranza?... E tra le visite che vi facevano gli amici e compaesani del campo A e B non potrete dimenticare quelle frequentissime d’una certa persona, alta, austera, ma oltremodo paterna che chiamavamo con rispetto: il Comandante Azzi e che oggi è l’Ammiraglio Azzi Mario!... Venendo nel nostro campo C recava quasi sempre con se un cartoccino con dentro qualcosa da mangiare e mi pregava l’accompagnassi dal più bisognoso, dal più affamato! e anche voi restavate conquistati da quella figura della bontà personificata!.. Infine chiedo la vostra protezione e assistenza per tutti i reduci del campo A, B e C di 91
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Zeithain che in qualsiasi modo vi hanno fatto del bene perchè vi hanno voluto bene! Per me nulla vi chiedo!... Ho già tutto da voi!... sento d’avervi in compagnia continua!... e se sono riuscito a tornare e a restare in qualche modo in piedi, lo devo proprio ed unicamente a voi, e in particolare a quei non pochi di voi, che hanno incontrato la morte per la mia incolumità!... Da ciò constato come il poco che vi ho potuto dare, voi me l’abbiate reso centuplicato. Grazie quindi per me e per tutti coloro che vi ho raccomandati. Sono sicurissimo che ubbidirete al vostro Padre come sempre da quando ci incontrammo in quello inferno. Per voi ora la nostra preghiera ».
I gingilli che sapevano ricavare i nostri artigiani dell’alluminio e la mia gavetta tutta arabescata
Arrangiarsi L avvenuta partenza dei nostri 50 compagni dal campo C e le notizie che dì quando in quando ci davano a mezzo delle Crocerossine e qualcuno anche direttamente dallo Ospedale di Modena, contribuirono non poco a sostenerci il morale, ma soprattutto a farci sperare nella promessa successiva tradotta-ospedale. Intanto i giorni passavano lenti e ripieni di notizie contraddittorie, chissà da quali cervelli inventate!... Eppure tutte le si raccoglievano, passando così da stati d animo euforici a stati di profonda prostrazione. Benché diminuiti temporaneamente di numero, il rancio non subì miglioramento alcuno, nè in quantità, nè in qualità. Però ci avevamo fatto il gusto ormai a quella robaccia e, pur di procurarcene, si ricorreva ad ogni mezzo. Esauriti nel barattamento i pochi oggetti personali, orologi, penne stilografiche, catenine d oro, e persino capi di vestiario, come maglioni, calzettoni, scarpe e stivali, bisognava pur fare o trovare qualche cosa che ci servisse a procurare qualche razione di pane o di patate o di rape, da coloro che di ciò non abbisognavano perchè in possesso di meglio, grazie ai pacchi della Croce Rossa Internazionale. Ed erano tutti gli altri prigionieri, eccetto i Russi che, come noi, non ricevevano. Proprio così!... Noi e i Russi non godevamo della C.R. ...Perchè?... Ne seppi la ragione quando abbordai i rappresentanti della benefica e provvidenziale istituzione, venuti a controllare la distribuzione dei pacchi e li scongiurai che ci venissero in aiuto. « Muoiono anche i miei di fame! — gridai loro con vera disperazione — Non è giusto che siano trattati con discriminazione ! » Mi sentii rispondere freddamente: — Mussolini ha avocato a sè il compito di assistere gli Italiani!... Perciò vi chiamate internati e non prigionieri! Ci dispiace immensamente, ma non possiamo proprio far nulla per soccorrervi, come non possiamo far nulla per i Russi che non riconoscono la nostra organizzazione Internazionale. Se a voi e a loro facessimo pervenire qualcosa per vie indirette, certamente non vi giungerebbe e servirebbe soltanto ai Tedeschi per prolungare la guerra! —. Facile immaginare la rabbiosa reazione che suscitò in tutti questa dichiarazione. Servì però a metterci il cuore in pace per quanto riguardava l’aiuto sperato dalla C.R. e a dirci 92
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una volta di più chi era l’unico e vero responsabile di tutte le nostre disgrazie. I Russi potevano almeno rimediare in parte al bisogno, rubando a man salva nei magazzini di viveri di cui, come prigionieri di più vecchia data, avevano la custodia. Del resto anche quei pochi Italiani che erano riusciti ad intrufolarsi in qualche servizio del genere, non facevano diversamente, anche se con ciò rischiavano di danneggiare i propri compagni. La maggior parte di noi però, e specialmente tutti quelli del campo C, dovevano scervellarsi per trovare un modo qualunque per tacitare i crampi dello stomaco. E’ vero che in Giugno si cominciò a ricevere qualche pacco da casa, ma troppo pochi in confronto del bisogno!.. vere gocce d’acqua in gurgite vasto!.. Poi quando si riceveva, come non farne parte agli altri e specialmente a quei del centro e sud Italia che non ricevevano nemmeno la corrispondenza e che erano, tra di noi, i più?... Per cui la sera del giorno dell'arrivo del pacco, anche il più voluminoso, non restava che la carta involucro!!! In compenso, su chi l’aveva inviato, scendeva quella sera, certamente copiosa la benedizione di Dio invocata fervorosamente da coloro che l’avevano assaggiato. Sappiano questo le Crocerossine e le buone persone che dietro loro esortazione, inviarono a me pacchi per i più bisognosi del campo C. Le posso ancora nominare perchè il loro ricordo è sempre ben vivo nel mio cuore! Sono precisamente: Sorella Maria Gubitosi Salvo Gè Pegli Sorella Guglielmina Helg Cadegliano (Varese); - Sorella Pessina di Saronno e, certamente, grazie a Lei, le Sorelline Trotti, piazza G. Pasta, 23 Saronno, le Sorelle Tacca, piazza Venezia, 7 Saronno; il Sotto Comitato CRI di Saronno; la Famiglia Merlo Giuseppe, Cascina Velzina Fenegrò; la Famiglia Cozzi ai compagni del loro def Cozzi Ernesto;la Sig.na Emma Righini Cadegliano (Varese); il Sacerdote Egidio Trezzi Via Varè, 15 Milano, la Famiglia Benzoni, Via Leopardi, 6 Saronno, il Collegio S. Carlo, Corso Magenta, 71 Milano. Benché abbia già fatto il mio dovere a suo tempo, rinnovo anche qui il mio ringraziamento cordialissimo alle suddette persone che forse con sacrifici enormi, hanno compiuto verso di noi un’opera di misericordia tra le più meritorie della loro vita! Oltre a questi pacchi dall’Italia, avevamo altre briciole che, di quando in quando, ci cadevano dall’interno del campo. E ciò grazie a Mons. Ghidini che rimediava sempre qualcosa, non so come nè da chi, e al Capp. di Muhlberg/Elbe, P Marcolini, che ogni tanto veniva a trovarci e ci recava quanto aveva questuato tra gli Inglesi, Francesi e Americani del suo campo. Queste piccole attenzioni, per quanto materialmente insufficienti, ci davano la grande gioia di sentire che non eravamo dei dimenticati e ci facevano felici. Il compito però principale di saziare la nostra fame, restava pur sempre all’ingegnosità dei singoli. E quante belle, geniali trovate fiorirono! Ci fu chi si diede alla fabbricazione dei portasigarette e altri gingilli di metallo. La materia prima era fornita dalle gavette dei nostri poveri morti, ch’io invece di consegnare ai tedeschi, passavo nascostamente a questi artigiani. I loro attrezzi di lavoro erano ben ridotti!.. Eppure che gioiellini sapevano cavarne! Gli altri prigionieri, specialmente i Serbi, ne erano entusiasti!.. ne richiedevano a non finire e in cambio davano di media, dieci razioni di pane! Cogli artigiani dell’alluminio, guidati dall autiere Tola Antonio, facevano società i cesellatori, coloro cioè che, dopo aver disegnato simboli, fiori, figure, ecc., colla punta della forbice o di un chiodo, le incidevano sul molle metallo. In occasione del mio onomastico di quell anno 1944 ebbi in dono, dai miei ammalati, una gavetta tutta cesellata che tuttora conservo gelosamente, con altri oggettini ricordi di prigionia che formano la meraviglia di coloro ai quali posso mostrarli. So chi ebbe quella gentile idea! ... so chi la tradusse in opera!... ricordo benissimo chi venne, a nome di tutti, a consegnarmela il 18 ottobre, piena zeppa di fettuccine di patate!... Tutti morti purtroppo ... In seguito altre gavette ebbero a cesellare per conto di Ufficiali e perfino di Tedeschi. Ci fu un gruppo di pittori, che sotto la direzione del Serg. Magg. Battistioli Sergio, 93
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studente di Belle Arti alla Accademia di Venezia, su fogli di carta qualunque o tavolette di legno, facevano quadrettini in bianco e nero che i falegnami poi s’arrangiavano ad incorniciare. Anche questi lavoretti erano ricercati e ben pagati!... specialmente quando arieggiavano figure femminili!... Prima però di essere messi in commercio dovevano avere il mio Gepruft, ossia dovevano passare sotto la mia censura, e non poche volte ho dovuto biasimare e far correggere, per rispetto al pudore!... Gli artisti non protestavano, anzi ben volentieri ritoccavano i loro lavori, perchè sapevano ch’io stesso poi avrei piazzati i quadretti ai migliori offerenti. C’erano anche i sarti!... che rabberciavano o adattavano pantaloni e giacche! Ma esauriti i pochi rocchetti di filo lasciatici dalle Crocerossine, il loro mestiere cessò e tutti fummo costretti a tenere insieme i nostri stracci con spago e persino con filo di ferro!... Proprio cosi! perchè dai Tedeschi, in due anni di prigionia non avemmo nemmeno un bottone. Per questo anch’io che avevo l’obbligo di elencare gli oggetti personali e di vestiario appartenuti a morti e tutto consegnare al Comando Tedesco, quando nello spoglio trovavo alcunché di buono (camicie, pantaloni - giacche asciugatoi scarpe, ecc.), lo passavo invece ai più malandati e nel sacco che consegnavo, racchiudevo solo stracci inservibili. Non di rado mi riusciva di far scomparire delle coperte che servivano, poi ai cappellai per fabbricare berettoni a foggia dei kolbak Russi, molto in voga tra i prigionieri, e coi ritagli, a far lanciere, fasce da gambe, solette per pianelle e pantofole il mancanza di cuoio. E non mancavano i poeti!... Ma i loro versi non ebbero mai fortuna! non trovarono mai acquirenti!... dopo averli letti e fatti leggere a qualche Ufficiale, li riponevo nella cassetta dei ricordi. L’unico cantastorie che avevamo in campo invece, passando di baracca in baracca, assieme al fisarmonicista, colle sue filastrocche alle volte felicissime, riusciva nel doppio intento di rallegrare gli uditori e racimolare per sè qualche misero avanzo di rancio. Insomma in tutte le baracche, eccetto la 71, c'era gente che lavorava, che s’industriava in mille modi per sfamarsi. E quei che non potevano o perchè già allettati, o perchè privi di materiale, davano consigli, suggerivano idee, cercavano compratori, facevano da mediatori o da garzoni. Di modo che tutto quell'arrangiarsi tornava a vantaggio di tutto il campo.
Radio clandestina Tra i molti incomodi che rendono tanto odiosa la vita del campo di concentramento, ci sono, senza dubbio, le frequenti, improvvise perquisizioni. Anche noi quindi le dovemmo subire nonostante la spogliazione fattaci al momento del nostro ingresso nel campo. E purtroppo qualcuno ci rimetteva sempre qualcosa!... non perchè fosse proibita, ma perchè faceva comodo al perquisitore. Ebbene, in barba a ciò, noi riuscimmo ad avere e a conservare nel nostro campo C, ben due radioline a galena che servivano magnificamente a darci tutti i giorni il comunicato tedesco delle 14,30 e non di rado quello inglese delle 22,30!... Naturalmente erano ben pochi coloro che sapevano ch'io ed il Cap. Moschini, avevamo queste due prodigiose scatolette, in tutto dieci persone e fidatissime. Il rischio che si correva era grande ... pure ci andò sempre benissimo! Tra le due quella che funzionava meglio era la mia. Me 1 aveva lasciata in tutta segretezza il S. Ten. Emilio Romeo prima di rientrare in Italia col treno ospedale. Da ottimo radiotecnico qual era, trovata una pietrina di galena, gli fu facile rimediare al resto con mezzi di fortuna. La miracolosa radiolina tascabile che ci tenne il morale sempre alto! Un tubetto di vetro aperto alle due estremità... un ago di siringa, una bobina di sottile filo di rame, una calamita racchiusa in una mezza scatoletta di lucido, poco più di un metro di filo elettrico, il tutto contenuto in una scatoletta di legno di 8 x 12 cm., ecco lo straordinario apparecchio che, dalla metà di Giugno 44 fino alla liberazione mi permise di sostenere le speranze di tutto il campo, gli stranieri compresi! Infatti anche a loro si passavano le notizie captate, e a captare era il S. Ten. Roberto De Bernardinis che cono94
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sceva il Tedesco alla perfezione. L'operazione avveniva ogni giorno dalle due alle tre pomeridiane, nel buco che serviva di sacristia nella baracca - cappella. Mentre l’Ufficiale riceveva, trascriveva e in seguito traduceva, io facevo da palo fuori, affinchè nessuno dei nostri entrasse, neppure per pregare ma specialmente per seguire i movimenti dei tedeschi addetti alla sorveglianza. In caso di pericolo, un fischio era il segnale La miracolosa radiolina tascabile che ci tenne il morale sempre alto! convenuto per sospendere e ritornare in circolazione colla massima indifferenza. Finita la bisogna, mi rimettevo in saccoccia la mia scatoletta e tranquillamente rientravo nel mio campo C. Là coi Cap. Moschini e Corrado e coi Ten. Sanfìlippo e Fantelli si controllavano le notizie sulla carta geografica, dopo di che si mettevano cautamente in giro come confidenze ricevute da soldati tedeschi anch'essi stanchi della guerra. Dapprima non ci si credeva!... chi non sapeva, pensava fossero mie pietose invenzioni per tener alto il morale!... ma quando gli avvenimenti cominciarono a precipitare, tanto che se n’aveva la conferma dagli stessi tedeschi, tutti le prendevano come oro di coppella e ne erano insaziabili!... e ne avrebbero voluto ad ogni momento!... Quante domande intorno alla sorgente di quelle notizie!... quante supposizioni sballatissime ed anche ridicole! « Lo saprete un giorno non lontano! — rispondevo io a chi mi interrogava al riguardo — e allora ringrazierete chi di dovere! ». Personalmente però passavo delle giornate d'incubo con quell’arnese in dosso! Quando poi m’accorsi che i Tedeschi, forse avendo subodorato qualcosa, cominciarono a pedinarmi con più insistenza, a perquisirmi anche sulla persona ogni volta m’imbattessi in loro, tentai di affidare a qualche altro la grave responsabilità. Ma ne fui dissuaso dagli amici che sapevano. D’altra parte, la gran voglia che avevo anch’io di aver notizie tra j primi, e la certezza che avrei messo in grave pericolo l’incolumità di un altro, mi decisero a continuare a correre il rischio. E mi andò sempre bene. Alle volte, palpato dappertutto, alle volte costretto persino a calar le brache, non mi fu mai trovata la radiolina! Eppure l’avevo sempre in tasca come in luogo il più sicuro. L’avessi infatti lasciata nascosta tra le mie cosette in baracca, chissà quante volte me l’avrebbero scoperta!... con le prevedibili conseguenze dolorose per il detentore!... Invece mi bastò solo un po’ di prudenza. Così: evitavo il più possibile di incontrarmi da solo con un tedesco... tenevo sempre a portata di mano un oggetto del mio ministero, o l’asperges, o la scatola delle particole, o il vasetto dell’Olio Santo, e se ciò non bastava a risparmiarmi il palpamento requisitorio, facevo scorrere l’aggeggio ricercato lungo la gamba del pantalone fino all'estremità ch’era chiusa... alla zuava! Sommamente ingenui o sommamente tonti i tedeschi?.. Non so!... ma è certo che in tal modo mi riuscì salvare la radiolina ch’era ormai diventata la vita del campo. Quando finalmente ogni pericolo di essere scoperto cessò, e tutte le preoccupazioni divennero inutili perchè i Tedeschi, ormai agli sgoccioli, avevano ben altro cui pensare, e non ci guardavano più dall’alto in basso, ma con lunghe occhiate imploranti, quasi temessero una nostra rappresaglia, tirai fuori la misteriosa radiolina per mostrarla a tutti. Fu una festa!... tutti vollero toccarla, osservarla attentamente, baciarla, portarla in trionfo!... Qualcuno ci fu che propose le si costruisse subito un monumento! Cessato alquanto quella specie di delirio, chiesero che dimostrassi loro come era possibile che quell’arnese così rudimentale e così lontano dall’assomiglianza ad una radio, potesse funzionare e ricevere. Li accontentai e grazie all’ubicazione favorevole del nostro campo, 95
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posto in mezzo a tre potenti antenne trasmittenti, quella di Berlino, di Lipsia e di Dresda, intercettai quasi subito musica che feci sentire ai più increduli passando loro il piccolo auricolare racchiuso nella mezza scatola vuota di lucido. Quindici giorni dopo la potevamo sostituire con un vero e grande apparecchio Telefunken ch'io avevo asportato da un non lontano ospedale tedesco ormai disabitato. I nostri vecchi padroni se n erano andati!., e quelli nuovi ancora non avevano organizzato il comando!
La liberazione Ormai da più di un mese la sentivamo vicina!., e precisamente da subito dopo il violento, massiccio bombardamento di Dresda del 22 febbraio '45, al quale, ci si disse, avevano partecipato ben 5.000 apparecchi che sganciarono tonnellate a non finire di fosforo e benzina, di spezzoni incendiari e bombe, causando in poco più di mezz’ora centinaia di migliaia di morti e riducendo la città giardino, un immenso rogo che bruciò per diversi giorni. Il capitano Steichkel che comandava il nostro campo di Zeithain, ebbe distrutta in quella circostanza, l'intera famiglia!.. Lo vedemmo piangere! e ne fummo commossi!.. ma non potevamo non rallegrarci di quella tremenda lezione che per noi significava un passo decisivo verso la fine dei nostri guai. Inoltre dalla nostra radiolina avevamo appreso che gli alleati avevan di già occupato Lipsia! Nessuna meraviglia quindi se noi, lontani appena 70 Km. li attendessimo da un momento all'altro. Invece era scritto che saremmo stati liberati dai Russi, il cui esercito, in quei giorni distava ancora oltre 200 Km.!!! E tutto ce lo diceva. gli aerei dal muso rosso, mai visti prima d’allora, che ininterrottamente volteggiavano sui dintorni mitragliando,.. i tedeschi accigliatissimi e indaffaratissimi tanto da disinteressarsi del tutto di noi, i gruppi di donne, bambini e vecchi carichi di masserizie che vedevamo passare in continuità al di là dei nostri reticolati, incamminati verso gli alleati per non cadere prigionieri dei Russi di i cui avevano un sacrosanto terrore;... e infine i colpi di cannone che tuonavano sempre più vicini. L’attesa così non ci parve lunga, anzi ci mancava il tempo al commento di quanto vedevamo accaderci sotto gli occhi. La paura d’essere anche noi in qualche modo coinvolti dagli avvenimenti, l’avemmo il 16 aprile, quando d’intorno al campo, cominciarono a saltare i depositi sotterranei di munizioni che noi non si immaginava neanche lontanamente esistessero. Per quasi due giorni interi fu come un cannoneggiamento ravvicinato!... ogni 15-20 mimiti, un cupo boato faceva tremare la terra e le baracche, e per aria nuvole di polvere e sassi che ricadevano poi rumorosamente. Per evitare ammaccature, bisognò tenerci al riparo, dentro le baracche. In tre soltanto fummo alquanto pesti da quell’originale gragnuola, io, l’infermiere Caviglia e il morto che trasportavamo all’obitorio. Intanto i gruppi dei profughi dell est che ci passavano dinnanzi, s’erano infittiti sì da formare una interminabile colonna. Camminavano curvi sotto i loro fardelli e in perfetto silenzio! Non ci degnavano d’uno sguardo e sopportavano i rari nostri frizzi con fare sprezzante!... anzi alcuni bimbi, che sospingevano carrozzelle con dentro forse un fratellino o una sorellina, sostavano un istante e irrigidendosi sull'attenti, protendevano il braccio nel saluto: Heil Hitler! e facevano l’atto di sputarci addosso! Fanatici fino alla cecità assurda! La sera del 22 aprile '45 di ritorno dall’aver amministrato l’Estrema Unzione al soldato Panzarasa Mario, vengo avvicinato dal cap. magg. tedesco che comandava la squadra dei nostri aguzzini e pregato di riconsegnargli il petromax che mi serviva di notte allorché veniva a mancare la corrente elettrica, e capitava spessissimo, per la sistemazione dei miei che fossero morti, in quel frattempo. Gli risposi che avrei potuto averne bisogno da un momento all'altro perchè i gravissimi erano parecchi e che quindi lo rivolevo al più presto. Glielo consegnai e ne ebbi un ringraziamento così caloroso e insieme umile che mi insospettì. 96
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A che gli sarebbe servito il Petromax?... Quale lavoro era quello che mi disse d’aver a fare nella baracca 82?... Là dentro non c’era che materiale sanitario e l’apparecchio radioscopico. Che volesse smontarlo?... Corsi ad avvisare il Cap. Moschini... discutemmo alquanto sul da farsi e poi insieme, con un pretesto qualunque, entrammo nella baracca. Non mi ero sbagliato! Alcuni soldati tedeschi, al lume del mio Petromax, già stavano smontando l’attrezzo. Anziché seccarsi del nostro arrivo e rimandarci col solito. Raus! ci pregarono di dar loro una mano. Il Cap. Moschini, che se ne intendeva benissimo, ne approfittò per compiere un sabotaggio. — « Nè noi nè loro! — mi bisbigliò. Che cosa abbia poi fatto, non so, ma mi disse che aveva reso inservibile l’apparecchio. I tedeschi ci ringraziarono... mi riconsegnarono il Petromax, e sotto voce ci dissero: — « Alle quattro noi partire! per l’Ovest! Non dire nessuno!... Ciao!... — Il che fu impossibile! Troppa la nostra gioia!... Impossibile contenerla senza scoppiare!... Perciò in men che non si dica, tutti seppero dell'imminente partenza dei Tedeschi. Il campo cominciò a ribollire come una pentola!... Tuttavia sporadiche fucilate ci consigliarono a tenerci ritirati e attendere che venissero le 4 e l’alba facesse un po’ di luce. Ne approfittai per celebrare una Messa solenne di ringraziamento alla presenza di quanti potei radunare. Durante il rito si cantò e pregò come forse non mai ci era capitato di fare. Terminata la funzione uscimmo all’aperto di tedeschi più nemmeno l’ombra!... Erano scomparsi dagli uffici, dalle torrette di sorveglianza e di controllo, dai magazzini, dalla circolazione interna e persino se n'erano andati anche i pochi borghesi della stanzioncina ferroviaria distante da noi un tiro di sasso. Allora quanto tenevamo faticosamente compresso, ebbe libero sfogo!... e furono abbracci, baci, lagrime di consolazione, urli di gioia!... Tutti impazziti!... Certo che nel nostro campo C l’esplosione dell allegrezza non fu così rumorosa come negli altri due campi A e B, ove era già in atto una vera baraonda!... Pure tutti anche i miei vi parteciparono di cuore, quelli compresi, ed erano parecchi, ai quali nessun vantaggio avrebbe recato la nuova situazione, essendo la loro sorte ormai segnata. Ma che pena indicibile vedere lo sforzo sovrumano di quelle povere larve per partecipare al comune giubilo, pur avendo già la morte in cuore! Rimasi al loro fianco più che potei, ma poi, edotto dall esperienza fatta l’otto settembre '43, pensai che dovevo pure affiancare 1’opera degli Ufficiali per il ristabilimento di quel tanto di disciplina indispensabile alla preparazione del rimpatrio e all’ordinato trascorrere dei giorni d attesa. Abituati ormai a vedere gli Ufficiali trattati dai tedeschi come e peggio dei semplici soldati, anche nei nostri ricoverati s'era allentato parecchio il sentimento della subordinazione e dell’obbedienza! Per cui ci volle, in seguito, tutta l’opera di persuasione di noi Cappellani, per ottenere almeno un po’ di disciplina. Per quel primo giorno però di libertà, tutto fu tentato invano. preghiere, minacce, raccomandazioni, promesse, ecc... Prima ancora che fossero resi noti i nomi di quegli Ufficiali che da quel momento assumevano il Comando dei reparti Italiani e che poi avrebbero dovuto trattare per noi coi Comandi Alleati, non appena fossero giunti, moltissimi, aperte larghe brecce nei reticolati, incuranti dei pericoli, cui si esponevano, erano già usciti alla ricerca di viveri nei paesi vicini. Tornarono qualche ora dopo, trionfanti e carichi d ogni ben di Dio!... Ne diedero generosamente anche a me per i miei del campo C. Prima di accettare però volli sapere se, per aver tutta quella roba, avessero commesso angherie, soprusi o violenze. No! padre, assolutamente no! — mi risposero e aggiunsero: Non c’è più anima viva in quei paesi!... Tutti scappati per non cadere sotto i Russi! — Qualche giorno dopo 1’avrei constatato anch’io coi miei occhi. Intanto il campo si andava trasformando in un immenso mercato e tutte le baracche in altrettante cucine fumanti. Canti scomposti, complimenti e inviti a squarciagola, vociare generale, incrociarsi continuo di gente indaffarata e frettolosa che recava legna, carbone, acqua e tavoli grandi 97
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e piccoli asportati dai magazzini... ecco una pallida idea di quanto avvenne in quel memorabile 23 Aprile 1945. Ma purtroppo ben presto doveva finire tutto bruscamente e quasi tragicamente!... Infatti verso le 18,30, entrò nel campo una macchina preceduta e seguita da due carri armati leggeri. Ne scesero alcuni Ufficiali russi che chiesero di parlare subito col nostro Comando. La molta fretta che avevano, non ci lasciò nemmeno il tempo di radunarci tutti. Perciò trasmisero gli ordini a quei pochi dei nostri che s’eran potuti raccogliere. « — Pericolosa la vostra situazione!... Si salvi chi può!... Sgomberare immediatamente il campo!... Prendere la via dell'Est evitando al massimo i boschi che sono infestati da franchi tiratori!... » — Ecco in sostanza quanto ci dissero quegli Ufficiali Russi che poi ripartirono velocemente. In un baleno tutto il campo seppe del pericolo incombente e dell’ordine di sgombero. Non ci fu bisogno di comunicazione ufficiale!... ognuno pensò e agì per proprio conto. Se all’annuncio della liberazione fu uno scoppio di gioia pazza, a quello del — Si salvi chi può! — si diffuse in tutti, ufficiali compresi, un senso di paura folle!... Per cui, in breve, fu un fuggi fuggi generale e disordinatissimo. Persino ammalati del mio campo C, che si reggevano a mala pena e che cercai di trattenere anche con la forza, se ne andarono facendosi sorreggere da qualche compagno. Ben presto nel campo A e B non restarono che i 40 mutilati degli arti inferiori e il Capp. D Guido Sammartino coll’attendente, ancora incerti sul da farsi. Nel mio invece ben 140 non si poterono assolutamente muovere perchè gravi o addirittura gravissimi. Personalmente non ebbi un attimo di esitazione: il mio dovere era di restare con loro! e soltanto così promettendo mi riuscì di placare alquanto il loro terrore. Volevo però che con me restassero almeno 4 medici e una ventina di infermieri. Lo dissi al Cap. Moschini ch’era divenuto l’aiutante maggiore del Col. Med. Rizzo comandante in capo dei reparti Italiani, e agli altri Ufficiali chiamati a rapporto. Subito i Ten. Fantelli e Sanfilippo mi si misero al fianco, decisi come me a seguire la sorte dei nostri ammalati. Gli altri dottori, che volevano affidata alla sorte la designazione dei sacrificandi, visto ciò e nonostante le mie rampogne e insistenze, se ne andarono, non prima però di averci complimentati e abbracciati. Intanto il cannoneggiamento era diventato furioso e pericoloso, perchè incrociato. Infatti i Russi sparavano sui Tedeschi in ritirata, questi, per rallentarne la pressione e permettere al grosso dell’Armata il passaggio del fiume Elbe col minor danno possibile, rispondevano non meno rabbiosamente: gli aerei a ondate successive passavano a bassa quota mitragliando... e noi si era in mezzo a quel cataclisma pauroso, in quale stato d animo è facile immaginare. Gli ammalati rimasti, erano letteralmente terrorizzati, e urlavano chiedendomi che non li lasciassi a far la morte del topo!... Cercai di rincuorarli... feci recitare una preghiera... diedi a tutti 1’assoluzione collettiva, e poi, mentre i proiettili ci fischiavano sul capo e qualcuno ci cadeva fragorosamente ai margini del campo, insieme ai due medici e agli otto infermieri fermatisi anch’essi volontariamente, cominciammo a portarli fuori dalle baracche e a sistemarli nel trincerone anticarro che attraversava tutto il campo e che dava una certa garanzia di sicurezza. Ma quando, madidi di sudore e ansimanti, si stava per ultimare l’opera, ecco che incomincia a piovere!...Bisognò rassegnarsi a riportarli al coperto. Ne approfittammo per riunirli tutti in due baracche contigue, così che il servirli sarebbe stato meno difficoltoso e pericoloso. A tentoni, perchè la corrente elettrica era venuta a mancare già da parecchi giorni, si praticarono iniezioni adatte ai più agitati, e dopo una più calorosa raccomandazione alla calma e alla fiducia, ci sistemammo anche noi in una specie di rifugio che l’infermiere Villani aveva preparato da tempo a fianco della sua baracca 72. Forse la pioggia che continuava a cadere, certamente il buio che s'era fatto pesto, fece 98
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sospendere il cannoneggiamento dall’una e dall'altra parte. Sporadici colpi però s’udirono per tutta la notte, sicché, nessuno potè chiudere occhio. Passammo quelle lunghe, interminabili ore parlottando sotto voce di quanto avvenuto, di quanto poteva ancora accaderci, e soprattutto della sorte che sarebbe toccata ai nostri compagni fuggiti. Verso le quattro del mattino, i boati del cannone cessarono, sostituiti dal cantarellio delle mitraglie, mentre tutt’intorno cresceva un brusio confuso. Più che la paura potè la curiosità!... Pian piano uscimmo dal nostro buco e carponi raggiungemmo il reticolato. Qualcuno di buona vista. — La Cavalleria Russa!... I Cosacchi!... — gridò. Scattammo in piedi guardando all’est. In lontananza, di mezzo a un nembo di polvere, già si distinguevano le sagome dei cavalli che galoppavano verso di noi. Ritirarci?... Restare?... Mentre se ne discuteva, i primi cavalieri, forse le avanguardie, ci guizzarono dinnanzi come frecce. Allora pazzi di gioia, cominciammo ad applaudire freneticamente e a salutare alla voce. Tutti rispondevano al nostro saluto agitando una specie di piccola vanga, o il frustino, o la pistola. Uno anzi, probabilmente un Ufficiale, si fermò, scese da cavallo e avvicinatosi al reticolato, fece l’atto di tagliarne i fili spinati, pronunciando parole a noi incomprensibili, ma che ritenemmo significassero: — Vittoria!... Libertà! Per dimostrare che avevamo capito, ci demmo ad abbattere con bastoni e travetti il reticolato. Intanto il Mugolo dei cavalieri era passato e il giorno era sorto. Comparvero i carri armati che procedevano in fila indiana. Erano mastodontici!... e benché all’esterno apparissero ancora grezzi, erano perfettamente e paurosamente funzionanti! Attorno alla torretta, 12 soldati, 6 per parte, tenevano In mano una bottiglia Molotov, mentre altre due ne tenevano nelle ampie tasche della tuta speciale che indossavano. Potemmo osservarli bene e spingere il nostro sguardo fin nell’interno del carro perchè, fermatasi la colonna, gli ultimi ci stavano proprio a portata di mano. Passati anche quelle bestione, ecco le autoblindo stracariche e armatissime, infine la fiumana della fanteria. Ci fece però una magra impressione! Vestiti nelle fogge più svariate, con lineamenti che indicavano razze diverse, quei soldati di ogni statura, procedevano senza un minimo d'ordine, come un gregge sospinto alla rinfusa. Per tutto il giorno fu un passare continuo di uomini e di mezzi, ma per quanto lo spettacolo ci attraesse, bisognava pure pensassimo alla nostra sistemazione. Mandammo a vedere quanti erano rimasti negli altri due reparti A e B e mentre i due Ufficiali medici si recavano dal comando Polacco, il più vicino a noi, per sapere il da farsi, io accostai uno per uno i miei ammalati, complimentandoli per il coraggio dimostrato e assicurandoli che, in seguito, sarebbero stati assai meglio per ogni verso. Infatti i decessi cominciarono tosto a diminuire sensibilmente, sia perchè il numero dei malati si era assottigliato, ma soprattutto perchè il trattamento che ci si poteva usare era di molto migliorato come quantità e qualità. Solo uno, in quel pauroso frangente, si era aggravato in modo preoccupante, il sold. Schivardi Paolo, che però avevo già sacramentato e che spirò qualche ora dopo dicendosi contento d’aver visto almeno arrivata l’ora della giustizia. Non sapendo che decisione avesse presa D. Guido, (Mons. Ghidini era partito insieme agli altri) l’andai a cercare e con mia somma gioia, lo trovai coi suoi mutilati. L’abbracciai con tanto trasporto, come un fratello che non vedessi da anni! poi insieme a Sanfiiippo e Fantelli, che nel frattempo erano tornati dal comando Polacco, decidemmo di trasferirci nelle baracche 62 e 64, 45 e 46, situate vicino alla Cappella e alle cucine centrali. Ecco il prospetto degli Italiani presenti nel Res. Laz. di Zeithain il 24-4- 1945: Ammalati n. 190 di cui 12 Ufficiali. Medici n. 2 - Infermieri n. 9. Cappellani n. 2 - Totale n. 203. Presentandolo al Comando Polacco che ci prendeva in forza, facemmo presente il bisogno estremo che avevamo di aiuto. Ci fu promesso, ma ci venne dato solo una settimana più tardi. Intanto dovemmo sbrigare ogni cosa da soli e rassegnarci a far di tutto. Trasfe99
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rimmo nelle suddette baracche gli ammalati, parte sorreggendoli in due, parte caricandoli su di un lungo carro agricolo, e parte portandoli addirittura sulle spalle. Prima però provvedemmo a dimezzare i castelli, segandoli a metà, così che tutti potessero respirare meglio e muoversi con più agio. Dalle baracche rimaste vuote asportammo tutto quello che poteva tornarci utile per una più confortevole sistemazione. Fu una specie di spedizione quanto mai fruttuosa. Tutto o quasi quel ben di Dio, razziato il giorno prima nei paesi circonvicini, comprese tre biciclette, i nostri compagni ch’eran fuggiti dal campo, l’avevano dovuto abbandonare a noi rimasti. Ne approfittammo! e per un bel po' ne avemmo in abbondanza. Finalmente potevamo farci anche un po’ di cena la sera!...
I russi I Russi li potemmo conoscere bene soltanto dopo la liberazione. Mentre durava la guerra avemmo soltanto pochi, isolati e fuggevoli contatti con loro, durante i quali si contrattavano gli oggetti che noi si voleva cedere in cambio di pane, o patate, zucchero o margarina. E codesti affari, di solito, si combinavano la sera quando i Tedeschi si ritiravano, lasciandoci alla custodia delle sentinelle che dalle garitte sopraelevate, dotate di fari e di mitragliatrici e distanziate luna dall’altra di cento metri circa, vigilavano su tutto il campo. Ben poco però le si temevano, e nonostante la circolazione fosse proibita di notte, anche nell ambito del proprio reparto, assai spesso era un andirivieni continuo dall’uno all’altro campo. I Russi specialmente erano attivi in questo senso. Essendo i più anziani tra i prigionieri, avevano in mano, come titolari, le cucine e tutti i magazzini da dove asportavano tutto quanto potevano per il così detto mercato nero. Venuta la liberazione, cessò anche ogni limitazione di movimento, almeno all’interno del campo, per cui ci fu più facile accostare i Russi, chiedere, sentire, discutere con loro. Per conoscere però con esattezza il pensiero, era necessario interrogarli separatamente. Quand’erano in due o tre, diffìcilmente si sbottonavano! sembrava si temessero a vicenda! Quando tuttavia lo potevano fare, parlavano assai volentieri e con tanta sincerità, esprimendosi in tedesco, lingua che, poco o tanto, i Russi riuscivano a masticare, dopo cinque anni di prigionia. La maggior parte di noi però li conobbe dai fatti che ci dimostrarono la loro fondamentale bontà di animo e una generosità di cuore tale che, per essere sconfinata come il mare, finiva alle volte di sommergere. Infatti quando, per esempio, volevano si partecipasse a qualche loro scorpacciata o brindisi, guai non accettare!... si offendevano e offendevano! E bisognava mangiare o bere quant'essi volevano, anche a costo di star male. Tutto questo ci colpì simpaticamente, ma dovemmo anche strabiliare dinnanzi alla loro ignoranza. E’ vero, venivano da tutte le parti dell'immensa santa RUSSIA: dal Caucaso... dalla Mongolia... dalla Siberia ecc... ma possibile non sapessero, per esempio, che un orologio o una sveglia per funzionare dovevano essere caricati?... che i bottoni delle nostre divise d’ordinanza erano di ottone e non d’oro?... che un tram elettrico poteva muoversi anche senza far fumo?... che un water non era un lavandino?... che chi portava gli stivali non era un capitalista?... Eppure era così per una grandissima parte di loro! « — C’è anche di peggio! — ci assicurava un capitano dell’Ucraina che si esprimeva in buon francese —. Al di fuori delle città, oltre un certo raggio, il nostro popolo è rimasto alle idee e alle conoscenze di cent’anni fa! E di questo una parte di colpa ricade su di voi occidentali! Avete fatto le Crociate per liberare i Luoghi santi e i sassi di S Giovanni d Acri, e non avete mosso un dito solo, nè sembra n’abbiate l’intenzione, per liberare, aiutare il nostro popolo che pur abita lo stesso vostro continente. Un giorno vi mangerete forse le unghie! quando cioè il nostro regime busserà alle vostre porte. Ma forse sarà troppo tardi!.. — » Di fronte a tanto candore restammo perplessi, pensierosi! ma non era il tempo di me100
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ditare allora. In seguito quanti di coloro che sentirono con me quelle parole del capitano russo, le avran ripensate? Personalmente sì, e trovo che furono profetiche! Di chi la colpa?...
I funerali Tutti i nostri funerali vennero celebrati con la maggior solennità possibile, perchè chiunque poteva parteciparvi, non mancava di accompagnare al cimitero i poveri compagni deceduti. Anzi c’era qualcuno che spesso sapeva provvedere alle corone! In mancanza di fiori venivano intrecciate con ramoscelli di abeti, di pini e di altre piante, disposti così sapientemente da dare la impressione dei vari colori attraverso le varie sfumature del verde. Anche in questo eccelleva l’ingegno dei nostri! Precedeva il piccolo corteo, il Cappellano tra due Ufficiali o graduati che dapprincipio venivano comandati a turno; seguiva il carro su cui erano poste le bare: 4 o 6 per volta, seguiva il gruppo, più o meno nutrito, dei soldati che rispondevano coralmente alle preghiere del celebrante. Al Cimitero, c’era immancabilmente ad attenderci un picchetto armato tedesco che rendeva poi gli onori militari al momento dell’inumazione delle salme scaricando in aria i fucili. E questo, per la verità, i Tedeschi lo fecero sempre finchè restarono con noi nostri padroni. Altrettanto però avveniva anche per i pochi Polacchi e Serbi che fui chiamato ad assistere al momento del trapasso perchè anch’essi cattolici. Mentre per i poveri Russi nulla! E ne morivano parecchi! se ogni giorno un vagoncino di Decauville li recava alla rinfusa, senza cassa, al loro cimitero ove venivano sepolti in qualche modo in una immensa fossa comune! Subito dopo la guerra, un giornale pubblicò che nel Campo di Zeithain, erano deceduti non meno di 200.000 prigionieri Russi! Nè la notizia mi meravigliò, avendo constatato com’essi ci tenessero così poco alla vita e i morti contassero proprio nulla, per cui se ne disinteressavano affatto. Noi dobbiamo a Mons. Ghidini se potemmo avere tutte queste cerimonie religiose e militari ad onore dei nostri morti, e soprattutto se una piccola squadra di soldati validi, sotto la direzione del capitano Gaggino, potè curare la manutenzione del sacro luogo fino a renderlo, l'ordine, la pulizia e la simmetria un cimitero degno dei nostri più grossi centri, tanto che gli altri prigionieri ce lo invidiavano e gli stessi borghesi non mancavano di visitarlo. Tra coloro che lavorarono di più per l'abbellimento del cimitero, ricordo i tre che ne furono, si può dire, i fondatori il veronese Trevisan Ignazio, di Torrerossa di Roncà, il vicentino Levratti Osvaldo di Lonigo, e il beneventano Bergantino Vincenzo. Indimenticabile il devoto pellegrinaggio che tutto il campo di Zeithain, stranieri compresi, fece il 2 novembre 1944 alla tomba dei nostri morti. Solo i moribondi restarono nelle baracche; e là su quel grande spiazzo, dominato da un alta Croce, dinnanzi a quelle lunghe file di tombe ben allineate, dopo le commosse e commoventi parole di Mons. Ghidini e i patetici canti funebri della nostra schola cantorum, nessuno potè più trattenere le lacrime! e tutti tornammo silenziosi e meditabondi al campo. Che ne sarà ora di quel caro cimitero?... Quante volte ho cercato di poterlo almeno rivedere e sempre mi fu risposto: — Impossibile! — E non sarebbe poi tempo di provvedere al rimpatrio anche di quei caduti nostri, come la Patria ha già fatto ottimamente per tanti altri caduti altrove?...
Il 1° Maggio 1945 Fummo invitati due giorni prima a prepararci per la celebrazione del 1° Maggio che quell’anno avrebbe assunto una importanza tutta particolare, benché la guerra non fosse ancora finita, come ci ricordavano certi boati che ancora di quando in quando fendevano l’aria, scuotevano le baracche, ci trattenevano il respiro « — Per noi invece è finita o per lo meno è molto lontana! — dicevano i Russi, nostri nuovi padroni, dandosi un gran daffare per pulire e abbellire il campo con stracci di ogni colore e dimostrandosi, anche con 101
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noi, d’una generosità esagerata. Se si fossero ascoltati loro, accettando di mangiare e bere quanto pretendevano facessimo, saremmo scoppiati come altrettanti palloni gonfiati. Del resto anche noi avevamo le nostre piccole scorte, razziate un po’ qua e là nei giorni precedenti, e la prima grande fame, lunga di quasi due anni, era ormai abbastanza saziata! E poi il nostro stomaco, fattosi piccolo piccolo per tanta inattività, non esigeva molto per sentirsi a posto. Un’attenzione tutta particolare invece si aveva per ogni bevanda che non fosse l’acqua sterilizzata o bollita delle nostre fontane. E ben a ragione! Avevamo visto infatti ben 72 poveri Russi morire avvelenati per aver bevuto altra roba. Il fatto andò così. Il pomeriggio del 28 Aprile si era usciti insieme per una delle solite razzie. Mentre noi, nelle vuote case del paese raggiunto, si cercava quanto di buono avrebbe potuto servirci, essi non davano la caccia che alle bottiglie e ai fiaschi che portavano indiscriminatamente alla bocca. Le conseguenze le constatai il mattino dopo quando fui chiamato a dirigere l’opera del loro trasporto al cimitero. Tutti e 72 eran morti e chissà dopo quali atroci dolori! Chiamai parecchi dei miei perchè vedessero e imparassero! Quei disgraziati erano ancora vestiti e nelle più strane posizioni, chi seduto e chinato innanzi... chi sdraiato con braccia in croce e gambe divaricate... chi aggrappato al posto superiore del castello e la testa chiusa tra le braccia... e tutti stecchiti come legni secchi!.. Su di un solo carro agricolo, per quanto ampio sarebbe stato un problema sistemarli tutti. Eppure doveva essere così, secondo l’ordine. Assistemmo allora a una scena davvero barbara: le braccia e le gambe di quei poveri morti che non tornavano nella loro posizione naturale, venivano inesorabilmente spezzate o addirittura stroncate!.. Solo così, d’altra parte, fu possibile trasportarli con un solo viaggio. E proprio per non fare una simile fine, d’allora in poi rifiutammo sempre, sia pure gentilmente, ogni bevanda ci si offrisse dai Russi, anche a costo di sentirci tacciare di «— Fasiski! — » Ma bastava rispondere. « — Nein, nein! — » agitando il pugno chiuso, perchè il russo o la russa con un: «—gutttttt! — » che non finiva mai, se ne andassero ridendo e lasciandoci in pace. Approfittammo invece di quel loro stato euforico per Ottenere con tutta facilità di far una visita all’Ospedale militare tedesco abbandonato. Pensavamo di trovar ancora del materiale farmaceutico che potesse servirci e di fatti fu così. Non ricordo più di quanti dei nostri fu composta la spedizione. Ci faceva da guida il sold. Ciaranfi, un tipo veramente in gamba. Lo si poteva dire l'onnipresente e l’onnipotente! In quei pochi giorni di libertà, da solo o in compagnia, aveva perlustrato tutti i dintorni e portato nel campo una quantità di roba utile. Quando s’aveva bisogno di qualcosa, bastava dirlo a lui e subito si era a posto! Io, per esempio, avendogli dimostrato come mi sarebbe stato difficile aver sempre a tempo opportuno dai Russi i mezzi per recare al Cimitero i nostri poveri morti, mi sentii rispondere: — Ci penso io! Padre—. Lasci che si faccia un po’ scuro e in quattro e quattr’otto le porto, cavallo e carretto! — E fu proprio così. Ebbene lui che c’era già stato altre volte, ci condusse al detto Ospedale e là trovammo davvero di che caricarci le spalle. E prendemmo felici la via del ritorno. Ci si imbatteva, ad ogni piè sospinto, in qualche Russo isolato, ma sempre armato di parabellum, mai nessuno però ci aveva detto qualcosa fino allora. Non fu così quel giorno. Un giovincello di 15-16 anni, col suo bell’arnese a tracollo, rivolto colla canna all’ingiù, fermatosi sul ciglio della strada, ci osservava con intensità ad uno ad uno. Noi si camminava quasi in fila indiana, perchè ad evitare sorprese, avevamo preferito un sentiero di campagna alla strada maestra. Passandogli davanti lo salutavamo, come fosse uno Zuckov ed egli rispondeva con sussiego, ma si capiva che cercava su di noi qualcosa. Ed ecco che all arrivo del Ten. Tosi, gli scatta addosso, gli prende il braccio sinistro col quale l’Ufficiale reggeva sulle spalle non ricordo più cosa, e comincia a urlare nella sua lingua che nessuno 102
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Come si poterono sistemare gli ammalati dopo la liberazione. Sen/.a il piano superiore potevamo almeno respirare
di noi comprendeva. Tutti ci fermiamo, ci facciam d’attorno, e alla fine comprendiamo che il ragazzo-soldato vuole l’orologio d’oro che il nostro Tosi reca al polso. Invano il povero Ufficiale tenta resistergli, adducendo mille pretesti e ragioni; invano qualcuno di noi gli mostra la sua patacca e si dichiara disposto a cedergliela senz’altro; invano qualche altro tira in ballo il fatto dell’alleanza, della comune vittoria sui tedeschi, della prigionia forse trascorsa assieme, ecc... quel disgraziatello non vuol saperne di niente!., vuol soltanto quell’orologio!... e per dirci a che prezzo intende averlo, fa qualche passo indietro, imbraccia il suo parabellum, lo spiana, e minaccia di farci fuori tutti!.. Allora, implorato anche da noi, il povero Ten. Tosi, gli stende il braccio perche se lo prenda; lascia cadere quanto portava, e piangendo esclama: — Mi sono buscato la T.B.C. pur di non vendere l’orologio datomi dalla mia fidanzata, ed ecco che me lo frega un mascalzoncello di Russo! Disgraziato! — Quel brutto incontro mise a tutti le ali ai piedi, e in breve fummo al campo, ove trovammo la nostra famiglia cresciuta di qualche unità per il ritorno di una ventina dei miei del reparto C ch’erano fuggiti febbricitanti la sera famosa del 23 aprile. Dopo aver tentato, in tutti quei giorni, di tener dietro agli altri, incamminati verso non si sapeva quale località all est, non facendocela più, avevano pensato bene di tornare sui propri passi. E spunta 1’alba del 1° Maggio! la seconda festa più solenne dell’anno per i Russi. Trasmesse da altoparlanti disseminati un po' dappertutto, marce militari, canzoni popolari ed altre musichette non meglio identificate, da tutti loro ballate più o meno artisticamente, ci assordarono per tutto il giorno. Noi per non essere travolti in quella baraonda, ce ne stemmo a rispettosa distanza a guardare. Per la verità fu doppio il rancio quel giorno e di buona fattura anche per noi e, a nostro modo, partecipammo alla pazza gioia dei nostri padroni. Ma purtroppo ci fu giocoforza partecipare anche alla Commemorazione ufficiale! e nel più gran numero possibile! raccomandava il biglietto d’invito che dovemmo farci interpretare dai Polacchi essendo scritto in caratteri cirillici. Chi poteva andarci?... Qualcuno bisognava pur restasse con gli ammalati!... E allora, fatti i conti, trovammo che, al massimo, in sette si poteva andar a rappresentare l’Italia a quel grande consesso. E all’ora stabilita, fummo puntuali alla baracca 47 luogo prescelto per i discorsi commemorativi. Per l’occasione era stata svuotata di tutti i castelli, ripulita ben bene, imbandierata e persino profumata! ma di benzina! Forse volevano, facendoci respirare per 3 ore quell’odore, abituare la nostra gola a quello che sarebbe stato l’atto finale della cerimonia. 103
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In capo a quella specie di salone, eran posti due tavoli accostati e sopraelevati, per 1 autorità e per gli oratori. Quando entrammo noi, eran già al loro posto dietro il tavolo: un maggiore al centro, e due capitani ai lati. I preposti all’ordine ci fecero accomodare proprio in prima fila! Ci sedemmo sul nostro pancone, senza però prender parte al gran vociare che si faceva alle nostre spalle da Russi e Polacchi, che tra loro si intendevano benissimo. La baracca era ormai stipatissima, eppure non si cominciava ancora! Che si attendeva?... — L arrivo del rinfresco! — ci sussurrò in francese un polacco che ci stava alle spalle. Nell’attesa i tre dietro il tavolo, per ingannar il tempo, si diedero a far qualcosa: il maggiore, toltosi di tasca un pettinino, cominciò a ravviarsi i capelli, il capitano che gli stava a sinistra e che i polacchi dicevano essere il commissario politico, si diede a fabbricarsi una lunga e grossa sigaretta, servendosi di carta di giornale (!), il capitano di destra invece, non avendo a far altro, scostò alquanto indietro la sedia, e poggiate le gambe calzate di stivali sull’orlo del tavolo, socchiuse gli occhi mostrando a tutti le sue suole chiodate!!! Dovemmo morderci ben bene le labbra per non ridere a quello spettacolo! ma così voleva anche il dovere dell’ospitalità soprattutto il rispetto al vincitore!... Fantelli però, toccandomi col gomito, e chinandosi verso di me, mi bisbigliò: — Prega Dio che finisca presto questa situazione, perchè non so se mi riuscirà contenermi! — Finalmente, ecco 4 ragazze-soldato, piccolette, e tarchiate, con altrettanti bidoncini che disposero per terra lungo la predella. Allora, dopo essersi consultati tra di loro, il capo dei tre dietro il tavolo, alzatosi, dichiarò aperta la cerimonia. Naturalmente il primo pensiero fu rivolto a Stalin, poi all'Armata Rossa invincibile, poi ai suoi Capi nominati singolarmente, e ad ogni nome, seguiva un frenetico battimani, e un triplice, formidabile Urrà! da parte di tutti i convenuti ai quali, logicamente, noi pure ci si associava. Terminata questa specie di litania, com’ebbe a chiamarla giustamente il dott. Sanfìlippo, ebbero inizio i tre lunghi discorsi, interrotti spesso da applausi. Noi non ne capimmo un’acca!... o meglio, solo qualche nome: Polski - Germanski - Fasiski -... Pronunciando quest’ultimo termine gli oratori ci sogguardavano di traverso, come fossimo noi sette stremenziti i fondatori del fascismo!... Insomma avemmo la netta impressione che per quei signori, assai poco intelligenti bisogna dire, Italiani e Fascisti fossero la stessa cosa! Eppure non solo non si potè protestare, ma per tante ragioni, e non di convenienza soltanto, bisognò unirci agli applausi degli altri. Quando a Dio piacque, quel picchiare di pugni sul tavolo, quell’abbaiare rabbioso, quel frastuono di folla selvaggia, ebbe termine e si passò al brindisi. Parecchie ragazze in divisa militare, si diedero un gran daffare per questo! Posero davanti agli Ufficiali-oratori, che sembravano esausti per la fatica sostenuta, altrettante caraffine di vetro e una bottiglia appena dissigillata, diedero a noi una specie di gavettino, e poiché tutti gli altri, russi e polacchi, pratici del costume, erano venuti alla commemorazione già muniti del proprio recipiente, procedettero alla distribuzione del contenuto nei quattro bidoncini. — Carburante! — disse quello di noi che fu servito per il primo... e allora tutti non ne accettammo più di un dito. Si sapeva che ciò era possibile facessero i Russi, avendoli visti, e non poche volte, a bere roba del genere. Quando tutti ebbero la loro porzione, i tre Ufficiali si alzarono e, impugnate le loro caraffine ben colme, le innalzarono. Tutti fecero altrettanto. Il maggiore disse ancora qualcosa cui risposero altri Urrà! e pestamento di piedi, poi giù!... Fu allora che noi potemmo esaminare un po’ quello che si doveva bere!... Era effettivamente benzina! almeno dall odore. Ci guardammo in faccia e restammo perplessi! Il dott. Fantelli, voltandosi indietro, chiese a un polacco come si chiamasse il liquido che si doveva bere. Ci sentimmo rispondere: — Buona wodka mescolata a benzolino! — Ottima!.. Non fa male!.. Bevete!... — Bisognava decidersi per non insospettire o sembrare scortesi!... tanto più ch’eravamo osservati in modo particolare, io specialmente della croce sul petto, dai tre dietro il tavolo. 104
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Allora, preso il coraggio a due mani, e tenendo il più a lungo possibile il respiro, in due sorsate, io trangugiai la mia parte. Gli altri quanto non poterono mandar giù. riuscirono a versare sul pavimento di legno. Non avevamo ancora finito di complimentarci del coraggio dimostrato, ed ecco che viene una ragazza ad offrircene dell’altra! Ci fu facile però rifiutare adducendo la poca salute, ed ella non insistè, ma volle che ne portassimo agli altri ammalati perchè anch essi brindassero al 1°Maggio e alla grande Russia Bolscevica! Ci chiese di cantare una nostra canzone!... o almeno di ballare una tarantella!... Ma chi di noi lo sapeva fare?... Forse Sanfìlippo eh era Siciliano!... gli altri no di certo! E poi ci si reggeva a mala pena in piedi!.. Se ne andò quella ragazza-soldato, ma per tornare di lì a poco con due gavette ripiene di quella wodka benzina! Le presi io colla scusa d’andar a brindare coi nostri ammalati, salutammo i tre Ufficiali e ce ne andammo a raccontare agli altri nostri la grande avventura. A chi ne dubitava non avevo che a dargli a bere un cucchiaio solo di quanto contenevasi nelle due gavette. Nessuno però, dopo averlo fiutato, si sentiva la voglia di assaggiarne!... Nei giorni successivi provammo a far bollire con molto zucchero e a filtrar quella robaccia! Ma l’odore e il sapore della benzina restava pur sempre quello! Eppure non una goccia andò persa!.. Incredibile a dirsi! Tutta fu consumata!... A conclusione di quel 1° Maggio, che non dimenticheremo tanto facilmente, fu proiettato per tutti del campo un lungometraggio cui potemmo far assistere anche parecchi dei nostri ammalati, data la vicinanza, anzi la contiguità della baracca la cui parete serviva da schermo. Era la documentazione degli orrori, delle distruzioni, delle nefandezze compiute dai Tedeschi durante e dopo l'occupazione dell'Ucraina. Per quanto orribili le scene filmate, nulla ci appresero di nuovo che già non si sapesse, almeno da parte mia che avevo visto ben altro. Dopo la proiezione, riprese furibondo il baccano e l’orgia che si protrasse fino alle ore piccole, fino a quando, cioè, diceva in seguito D Guido, i Russi ebbero fiato in gola e forza nelle gambe!... E noi nelle nostre tane, al buio, a sentire, a commentare, e qualcuno a imprecare!... Il giorno dopo, 2 maggio, sicuri che nessuno o ben pochi Russi ci avrebbero attraversato la strada, di buon mattino tornammo in cinque o sei all'ospedale militare tedesco a prendere gli altri medicinali che già avevamo messo da parte, e tutto quello che avremmo giudicato utile. Poche ore dopo tornavamo al campo stracarichi!... E fu una fortuna ! perchè da quel giorno, la libertà di movimento veniva abolita e per uscire, in seguito, sarebbe stato necessario ottenerne il permesso scritto! In parole povere: si tornava prigionieri!... tra i reticolati!... dopo dieci giorni appena dalla liberazione!... Veramente a noi poco o nulla importò quell ordine, tanto che non protestammo neppure. Piuttosto dove andare e a chi rivolgersi per ottenere, per esempio, ch’io o D. Guido potessimo recarci al Cimitero per scavare le fosse e recarvi i morti?... Andammo assieme dai Cappellani polacchi, ma anch’essi ne sapevano quanto noi. Ci recammo allora al Comando Polacco e ci rispose: — Bisogna attendere l’arrivo di chi comanderà il Presidio! — Eppure era indispensabile che noi si portassero al camposanto i quattro nostri morti che da giorni attendevano d’essere sistemati una buona volta. Provammo a presentarci alle guardie russe che custodivano l’unico varco aperto per l’entrata e l’uscita del campo, e D. Guido che portava sempre la giacca con la Croce sul petto, (io in quel momento ero senza) presentandosi e aiutandosi con parole italiane, tedesche e napoletane, ma soprattutto con gesti, cercò di far comprendere loro quanto noi si voleva. Inutilmente!... L’aiutai anch’io come meglio potei, ma niente da fare! Si tornò a riferire la cosa a Fantelli e Sanfìlippo, ma anch’essi non seppero che dirci. Si decise allora di procedere al funerale anche senza il permesso scritto. Raccolti i 7 o 8 uomini che potevano accompagnarmi, dopo le preghiere liturgiche alle quali parteciparono tutti quelli che erano in piedi, caricammo le bare sul carretto procuratoci da Giaranfi, le 105
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coprimmo col solito tricolore e via! Le sentinelle non solo non ci impedirono d’uscire, ma, pur senza presentare le armi, si irrigidirono sull’attenti al nostro passaggio, con nostra grande meraviglia. In seguito fu poi sempre così. Però non appena fu costituito il presidio regolare, e questo avvenne subito dopo l’armistizio dell’otto maggio, ci procurammo il necessario permesso. Ci sarebbe stato utile anche per i vivi! Infatti oltre alla possibilità di andare innanzi e indietro dal cimitero per preparare le fosse e riassestare le altre, avrebbe servito ai nostri soldati a ciò deputati, per compiere le loro scorrerie in qualche campo di frutta o verdura, ed eventualmente in qualche pollaio. Sì, perchè nonostante la generosità con cui i Russi ci avevano aumentato di molto la quotidiana razione di pane e patate, sentivamo il bisogno di qualcosa di più leggero e sostanzioso, specialmente per i gravi.
Muhlberg/Elbe Verso la metà di Maggio venne a trovarci, col solito mezzo di trasporto, il carrettino, il Cappellano del campo-madre, Miihlberg/Elbe, P Marcolini. Fu una graditissima sorpresa, perchè pensavamo che anche quel campo fosse stato sfollato in occasione del duello d'artiglieria tra Russi e Tedeschi in ritirata, del 23-4-’45. Invece no!... I nostri compagni di là si accorsero del passaggio dallo stato di prigionieri a quello di liberi cittadini, soltanto per la scomparsa delle sentinelle tedesche e per la baraonda che anche là dentro ne seguì E tra noi e loro non c'erano che 8 o 9 km. di distanza al massimo. Consegnataci la befana che ci aveva portato, come sempre per l’addietro, e fatta una rapida visita agli ammalati nostri che sollevò con le sue battute spiritosissime, P Marcolini ci disse il vero perchè della sua visita, a giorni tutto il campo di Muhlberg/Elbe si sarebbe mosso alla volta di Spremberg, e là avrebbe atteso il giorno del rimpatrio. Ma aveva alquanti ammalati che non sarebbero potuti partire, date le loro condizioni, e che perciò veniva ad affidare alle nostre cure. Lo rassicurammo senz’altro, ed io gli promisi che l’indomani sarei andato a prender visione del campo e a portare al Col. Toscano Bruno quanto mi aveva chiesto con biglietto a parte, e cioè: il mio diario dei morti di Zeithain, di cui avrebbe voluto una copia perchè ci fosse maggior garanzia che tale documento prezioso nei riguardi delle famiglie dei nostri caduti potesse giungere sicuramente in Patria! E P Marcolini se ne andò dopo averci abbracciati e salutandoci anche da lontano con quel suo modo così ridicolo e originale che ci faceva sempre sbellicare dalle risa. Provvedemmo subito al necessario permesso recandoci io e Fantelli al Comando Presidio, assieme ad un Polacco che ci avrebbe fatto da interprete. Incontrammo così per la prima volta il Comandante Russo di tutto il settore, Magg. Leontieff, il quale si era sistemato in quella che fino a pochi giorni prima, era stata la baracca dei traduttori delle cartelle cliniche. Trovammo l’Ufficiale dietro un tavolo carico di scartoffie, con tra le labbra la solita sigaretta accartocciata con carta di giornale. Rispose al nostro saluto senza alzarsi, mentre al polacco diede la mano. Saputo di che si trattava, non fece obbiezione alcuna, prese un pezzettino di carta, vi tracciò sopra alcuni geroglifici, tali almeno per noi, sotto i quali scrisse invece, con una certa cura, il suo nome, v'appose un timbro e consegnandocelo ci disse — riferitemi se per istrada qualcuno dei miei vi molesterà! — e ci congedò. — Meraviglioso! — pensammo io e Fantelli uscendo veramente soddisfatti. Il permesso ottenuto valeva per due persone. Ma nè l’uno nè l’altro dei medici volle accompagnarmi, per cui l’indomani, appena chiaro, partii solo alla volta di Miihlberg, in bicicleta, naturalmente non senza qualche preoccupazione. Invece arrivai felicemente e senza incontrare anima viva. Là non mi fu difficile rintracciare P. Marcolini. — E’ famoso in tutto il campo! — mi disse quando chiesi di lui. 106
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Mi aveva preparato una buona e abbondante colazione cui feci onore, mentre Egli sfogliava compiaciuto il mio Diario che andò poi a mostrare al Col. Toscano. Intanto io, accompagnato dal fiduciario, potei far visita prima agli ammalati. 23 italiani, di cui uno grave; 5 olandesi, 2 francesi e 1 inglese; poi a tutto il campo vastissimo che conteneva o poteva contenere oltre 25.000 prigionieri, e infine al grande cimitero nel quale erano stati seppelliti anche i primi morti di Zeithain, quando ancora non s'aveva ottenuto d’avere il nostro. Al ritorno nel campo, m’aspettava il Col. Toscano e altri Ufficiali che mi tempestarono di domande circa l’accaduto a Zeithain in tutto quel tempo. E’ stato davvero il campo della morte! — concluse P. Marcolini, agitando il mio quaderno e a me non restò che annuire. Ricevuti i complimenti e saluti da portare a tutti di Zeithain, abbracciati il Cappellano e il Colonnello, presi la via del ritorno pigiando gioiosamente sui pedali. Mi sembrava di mancar da un anno dai miei! Ero già in vista del campo, quando ad una svolta ecco due Russi che mi fermano e pretendono la mia bicicletta. Cavo di tasca il mio permesso e lo mostro loro!... leggono o fingono di leggere!... li assicuro che il Magg. Leontieff è mio amico- Chi è Leontieff?... Mai sentito nominare! — mi rispondono e se ne vanno con la mia bicicletta. Per fortuna la strada che mi separava dal campo era breve e in cinque minuti fui tra i miei. — Quanto temevo t’è proprio capitato! — disse D Guido vedendomi appiedato e gli altri a ridere di cuore e a chiedermi come fosse andata la cosa. Raccontai e — Mai più solo tornerò a Muhlberg d’ora innanzi, visto e considerato che questi mascalzoni non conoscono o non vogliono riconoscere neanche il loro superiore! — conchiusi abbastanza rabbiosamente. Ma non sa, Padre, che i Russi per una bicicletta venderebbero l’anima?... E non sanno assolutamente andarci sopra - saltò sua dire Ciaranfì, l’onniscente! Difatti una settimana dopo, tornando coll attendente a Muhlberg per una S Messa e per sapere quanti erano restati dopo la partenza del grosso, mi capitò di ritrovare la mia bicicletta in mezzo a molte altre abbandonate nel fosso fiancheggiante la strada perchè ormai inservibili. Celebrata la Messa, mi intrattenni un po’ nell’infermeria con tutti gli ammalati rimasti, una quarantina in tutto,di cui uno solo era in condizioni preoccupanti, il nostro Capobianco! Lo confessai, gli diedi la Comunione e gli promisi che sarei presto tornato a rivederlo. Mi recai quindi da coloro che si eran fermati per lavorare- una decina, al comando d’un sergente maggiore. Stavano mettendo in capaci casse di legno tutte le pratiche riguardanti gli Italiani del settore, Zeithain compreso. E difatti la più parte del materiale era costituita dalle cartelle cliniche di quanti eran stati ricoverati nel nostro Ospedale. Tentai di rintracciare la mia cartella, ma di mezzo a quella faraggine mi fu impossibile. — Il tutto sarà spedito in Italia, al più presto, per via diplomatica! — Così rispose il serg. magg. alla mia preoccupazione circa la sorte di quei documenti che per molti sarebbero stati di capitale importanza ai fini della pensione. Mi mostrò poi quanto avevano messo da parte per non patire più la fame e dovetti complimentarli, sia per la quantità che per la qualità della roba accantonata. Accettai di recare ai miei più gravi due scatole di biscotti profumatissimi e, raccomandati i compagni ammalati, specialmente il più grave, salutai e insieme all attendente, ripresi la via del ritorno. Durante quella mia breve assenza, eran passati da Zeithain due diversi gruppi di nostri soldati, incamminati verso l’Italia a piedi. Avevan chiesto del pane ed eran stati accontentati. Ma alla proposta di fermarsi ad aiutare, coll assicurazione del rimpatrio su treno ospedale, preferirono camminare!.. Dovetti tornare a Muhlberg qualche giorno dopo per amministrare gli ultimi Sacramenti al povero Capobianco che li aveva chiesti con insistenza. Benché assai grave non dimostrava di doversene andare così presto. L'accontentai, e compii le cerimonie in forma solenne, alla presenza di tutti gli altri ammalati, stranieri compresi, e dei pochi Italiani ri107
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masti. Sopravvisse ancora sei giorni. Il pomeriggio del 10 giugno venne a chiamarmi d’urgenza l’infermiere di Muhlberg: — Capobianco vuol salutarla, padre, perchè dice che se ne va! e ha ancora qualcosa da dirle — Mi recai di corsa dal moribondo insieme all’infermiere. Mi riconobbe e sorrise; gli sedei al fianco, ma non gli permisi di parlare. Due ore dopo e precisamente alle 20,30 si spegneva come si erano spenti tutti gli altri del campo C di Zeithain, e cioè serenamente, come un lumicino cui venga a mancare l’olio. Lo composi per bene e coll’aiuto dell’infermiere lo trasportai all’obitorio. L’indomani si fecero i funerali. I Russi, ai quali comunicai il decesso avvenuto e chiesi il necessario per l’inumazione mi dissero che avendo già preparata la fossa per tre di loro, avrei fatto bene a seppellire anche il mio assieme. Sapendo però, per esperienza ormai, che protestare sarebbe stato del tutto inutile, risposi di sì. Portammo al cimitero la salma e là trovammo già allineati nell’ampia fossa, i tre Russi, senza cassa! Noi, per quanto povera e disadorna, la cassa 1’avevamo costruita per il nostro Capobianco e ben solida! Ad evitare quindi possibile mescolanza di resti per 1’avvenire, ci togliemmo la giacca, scostammo i tre Russi da un lato, e sul fondo della fossa grande scavammo, più profondo e orizzontalmente, un loculo tutto per il nostro morto. Depostovelo, lo coprimmo ben bene con pietre. Rimaneva così perfettamente isolato. Ricollocati i tre Russi nella loro posizione verticale, benché non spettasse a noi, ma affinchè più nessuno mutasse il nostro operato, colmammo colla terra smossa la grande tomba. Tra gli altri pochi presenti a codesta lugubre bisogna, ricordo — Ruscitti Vincenzo di Antrosano (L’Aquila), cugino o fratello del secondo morto ch’io avevo assistito poco meno di due anni prima, e pur egli seppellito lì a Muhlberg.
Ultimi giorni di Zeithain Come già detto, la prima cosa di cui mi preoccupai appena avvenuta la liberazione, fu di sostituire la mia piccola e preziosa radiolina, che tuttora conservo come un caro ricordo, con una più potente che potessero ascoltare tutti del campo. Fu così che la seconda volta che mi permisi di uscire dal reticolato, lasciai agli altri il compito di cercare e portare dentro i rifornimenti alimentari, personalmente cercai e portai al campo un grosso apparecchio radio Telefunken trovato intatto e ben funzionante nella sala ritrovo dell’ospedale tedesco disabitato. Captava benissimo anche le stazioni Italiane e tutti ne furono felici. A sistemarla in luogo sicuro, perchè qualche Russo non ce la portasse via, ci pensò il marinaio Uberti, 1attendente di D Guido. Così dal 16 maggio 1945, ogni giorno potemmo sentire quanto avveniva in Italia. Eppure, passato il primo entusiasmo, in capo a 5 o 6 giorni, tutti, Ufficiali compresi, non vollero dalla radio altro che musica e tra i vari notiziari quello solo della sera che spesso ci diceva quanti prigionieri erano rimpatriati, come avevano potuto rimpatriare e da dove erano rimpatriati. Il fatto si spiega benissimo- quanto veniva trasmesso allora che non fosse musica, a noi riusciva assolutamente incomprensibile e quindi noioso. Dopo due anni di lontananza e perfetta segregazione, che potevamo sapere noi di partigiani, di nuovi uomini politici, di partiti, di borsa nera, di oro di Tongo, di Pontificia, di Post bellica ecc… ecc..? Insomma tutto quanto ci poneva un grande punto interrogativo: - Chi è costui, o chi sono costoro? Perchè così o perché cosà?... E siccome nessuno poteva rispondere ai nostri interrogativi, ai nostri perchè, si preferì che la radio non ce li facesse insorgere. E quando le stazioni nostre chiacchieravano soltanto e magari ostinatamente, si andava a cercar musica altrove. E la potente Telefunken ce ne dava ad ogni ora del giorno e della notte! Una sera qualche notizia speciale o a noi favorevole deve averci fatto impazzire dalla gioia, se essa scoppiò tanto rumorosa da richiamare l’attenzione di una dottoressa Russa in divisa di Tenente, che si credè in dovere d'entrare a raccomandarci moderazione, pena il ritiro dell’apparecchio. Restammo allibiti!... anche per lo scampato pericolo, ma soprattutto per la grande meraviglia di sentire una Russa parlare molto bene la nostra lingua. Ci diventò subito simpaticissima e quante domande avremmo voluto rivolgerle!... Ma ella si 108
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scusò gentilmente adducendo ragioni di servizio... ci salutò militarmente e poi, dalla porta socchiusa, togliendosi la bustina, con un chiaro — Buona notte! — Sapemmo in seguito ch’era stata qualche tempo in Italia per specializzarsi in tisiologia. Intanto col passare dei giorni, tutto nel campo si andava organizzando sempre meglio: il Comando, le cucine, lo ordine generale, la pulizia, i servizi. Man mano che i Tedeschi rientravano nei loro paesi devastati, oltre che dal passaggio della guerra, anche dalla nostra furia distruttrice durante i pochi giorni di libertà concessici, (nessuna porta, nessun cassetto aveva potuto resisterci!) venivano in parte reclutati per il riattamento del campo e delle baracche rimaste vuote e per il servizio agli ammalati. Fu così che anche a noi vennero assegnate 5 ragazze: 2 Polacche e 3 Tedesche, per la pulizia. Essendo però pochi i nostri infermieri, in confronto degli ammalati che aumentavano quasi quotidianamente per qualche ritorno o per qualche nuovo arrivo, domandammo loro anche certi lavori che sarebbe stato cavalleresco facessimo noi. Non se ne lamentavano però, anzi ci dovevano essere ancora grate per il trattamento che usavamo loro, ben più umano di quello riserbato alle loro compagne addette nei servizio dei Russi e dei Polacchi. Mi fu possibile così costituire un gruppetto di quattro volonterosi che, per qualche ora ogni giorno, venissero con me al Cimitero a riassettare certe tombe alquanto in disordine e a rendere sempre più belle le altre. Una brutta mattina ebbi la dolorosa sorpresa di constatare la sparizione di molte croci. Già non tutte le fòsse ne erano munite, perchè non si era fatto in tempo a costruirle, ma che si asportassero quelle che c'erano, mi sembrava delittuoso! Per cui, al ritorno, mi recai tosto al Comando per protestare. Il Magg. Leontieff era assente per servizio. Perciò le mie rimostranze le dovetti presentare al suo aiutante e agli altri impiegati di cui era stipato l’Ufficio. Sorrisero come d’una puerilità, ma poi mi risposero: Certamente il fatto non è da imputarsi a nessuno dei militari del presidio! E del resto il Cimitero Italiano è il più bello di tutti! Anzi è fin troppo bello per nascondere delle carogne!?! Vai a vedere quello dei nostri e poi avrai di chi consolarti — Agghiacciai!... e devo forse ai miei morti se mi seppi trattenere dal commettere una sciocchezza! Uscii, ma col feroce proposito di scoprire i sacrileghi e dar loro possibilmente, una severa lezione. Raccontai soltanto a D. Guido la cosa, per non sentirmi frenare dalla eccesiva prudenza di Fantelli e San filippo. La sera stessa, con una scusa qualunque, tornai al Cimitero e scoprii... Eran donne e bambini, russi e polacchi, che per non perdere tempo o risparmiarsi la fatica di cercare nel bosco, si servivano delle croci del nostro cimitero per accendersi il fuoco e cuocersi la cena!!! Mi venne da ridere e da piangere insieme dinnanzi a tanta incoscienza e irreligione, ma riposi le mie ire per altra occasione. Chi erano quelle donne e quei bambini?... Da giorni ormai vedevamo passare colonne interminabili di borghesi incamminati verso 1’est, che si portavano fagotti in ispalla e valige in mano, che erano preceduti e seguiti da carri stracarichi di masserizie e da mandrie di bestie di ogni genere. Erano intere famiglie Russe e Polacche che i Tedeschi, al tempo delle loro sacche famose e avanzate vittoriose, avevano trasferito di sana pianta in Germania, e che ora tornavano alle loro case, cercando di portarsi quanto avevano avuto distrutto dalle operazioni di guerra e dalla feroce libidine umana. Solitamente sostavano nei paesi durante la notte, ma quella volta invece, e chissà perchè, sostarono presso il nostro Cimitero che non offriva loro se non croci di legno secco, 109
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stagionato! Pazienza! Non restava che riparare l'oltraggio ai nostri morti ricordandoli più intensamente e suffragandoli più fervorosamente. Il che facemmo fin da quella sera riprendendo la pia pratica del Rosario che gli avvenimenti ci avevano fatto interrompere. E pregavamo anche perchè i Russi si decidessero una buona volta a mandarci in Italia. Dalla radio sentivamo quasi ogni sera del ritorno di tanti altri prigionieri, certamente meno bisognosi di noi, e di altri molti che erano per lo meno in movimento. Da noi invece nessun segno, nessuna parola che ci facesse sperare in un prossimo rimpatrio. Anzi, tutto sembrava contro di noi. Poco oltre il campo correva una ferrovia secondaria che allacciava i paesi e le cittadine della bassa Sassonia con la grande Chemnitz. Su di essa era stato bloccato, in uno degli ultimi bombardamenti, un treno merci carico di bombe d’aviazione, di paracadute, di automobili nuove fiammanti, di piccoli carri armati, di cannoncini anticarro e antiaerei e di tante altre cosette belliche. Che aspettavano i Russi a ricuperare tutto quel materiale prezioso e riattivare così la ferrovia?... Temevano un — sabotage — un inganno! e avevan paura!... Eppure ci avevano visti sopra a frugare, a rovistare, a muovere, a toccare, tutto colla massima confidenza! Mah!... Un bel giorno ci avvisarono che l’avrebbero fatto saltare e che quindi dovevamo tenerci al riparo e preparati alla esplosione. Fu davvero spettacolosa!... Mai durante tutta la guerra avevamo sentito qualcosa di simile! Per lungo tratto, gli alberi delle pinete in mezzo a cui si trovava bloccato il convoglio, furono tagliati a metà. I.a linea era così libera e se davvero non avevano benzina, come affermavano i Russi per non trasportarci in macchina, avrebbero potuto trasferirci a mezzo ferrovia, pensavamo noi giustamente. Invece cominciarono subito a smontare i binari!!!... Fu una doccia fredda che congelò tutte le nostre speranze. La sera del 12 giugno, dopo aver pregato S Antonio che serbasse per noi almeno una delle sue tredici grazie quotidiane, discutevamo circa il modo di metterci in comunicazione con la Croce Rossa Internazionale. Scrivere era inutile! mandar di persona qualcuno era difficile per non dire impossibile, e allora — Affrontare direttamente Leontieff e cantargliele chiare! — disse qualcuno. E un altro — Se ci fosse qui il mio capitano, saprebbe ben lui fare qualcosa! e noi andremmo a morire almeno in Italia! — Non volli neanche individuare quegli che aveva detto questo, tanto la sua sferzata mi era giunta inaspettata e pungente! « — Ebbene! domani lo farò! — » dissi io e diedi a tutti la benedizione della buona notte. Andai a parlarne agli Ufficiali, alcuni approvarono la mia decisione, altri no! giudicandola pericolosa almeno per me. «—Tentar non nuoce! — »soggiunsi « —Vedremo con chi abbiamo a che fare!., o dentro o fuori!— » Confesso che passai la notte scervellandomi per trovare parole che fossero o tanto eloquenti da commuovere, o tanto innocue da non provocare risentimenti. La mattina, dopo la S. Messa, scongiurai Fantelli ad accompagnarmi, ma preferì restare tra le quinte, perchè, secondo il suo modo di vedere, era bene non destare il can che dorme! Assieme al solito polacco interprete mi recai al presidio e fui introdotto abbastanza presto alla presenza del Magg. Leontieff. Fu lui stesso a cominciare il discorso chiedendomi di tutto un po’, persino del numero degli abitanti di Venezia! Alla fine mi domandò se gli Italiani del campo, sani e ammalati, erano contenti dei Russi. « — Contentissimi! Sig. Maggiore! — » risposi subito « — Davvero hanno un cuor d’oro nei nostri riguardi, anche se non sempre la nostra mentalità coincide — ». Poi attaccai il discorsetto preparato: — Creda, sig. Maggiore, è appunto per questo che ho domandato udienza: ringraziarla di cuore a nome di tutti gli Italiani di qui e pregarla ad essere buono con noi fino in fondo, rimpatriandoci o permettendoci di metterci in relazione con la Croce Rossa internazionale — Sfido chiunque a trovare in queste parole alcunché di irriverente o provocatorio. Eppure Leontieff ce lo trovò!! Infatti scattò in piedi come una molla e battendo i pugni sul tavolo e urlando come un istrione, mi fece sapere «sia la prima ed ultima volta che mi parlate di Croce Rossa! In quanto al rimpatrio lo farete via Odessa e col tempo! Non dimenticate, voi Italiani, che 110
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soltanto dieci mesi addietro, eravate ancora sul Don a insidiare le nostre ragazze! Dovete esserci grati perciò e baciare la terra che noi calpestiamo, se ancora non vi abbiamo impiccati tutti! N’est ce pas? non è forse così?» conchiuse in francese, forse ripetendo le uniche parole che conosceva, e sedè sbuffando. Col volto infiammato per l’offesa ricevuta e tremante di sdegno, gli volsi le spalle e concitatamente dissi all’interprete polacco: «Risponda per mio conto al Maggiore così. — Nessuno degli Italiani qui presenti fu mai in Russia! Ma se anche ci fossero stati per il passato, ora sono ammalati e come tali han diritto a tutta l'assistenza, secondo le leggi internazionali della Croce Rossa. Li facciano guarire prima i Russi, se ne sono capaci, e poi li impicchino pure! — Salutai e uscii senza attendere la traduzione. Al campo nostro ove mi si attendeva con ansia, riferii a tutti il colloquio avuto parola per parola, e anche questa volta ci furono i contenti e i malcontenti disposti a imputarmi dell eventuale prolungarsi della prigionia. A por fine alle discussioni, meno di due ore dopo, giunse un soldato Russo con un ordine del Comando Presidio: un rettangolo carta rosa lungo 20 cm. alto 5, dattiloscritto, ma in caratteri cirillici, debitamente firmato e timbrato e che conservo ancora. Riusciti vani i nostri sforzi per decifrarlo, ci fu giocoforza richiedere l’aiuto dei Polacchi. Ogni volta tutti avrebbero voluto accompagnarmi ma volli recarmici solo. Il Colonnello Polacco, gran buono uomo, un vero cristianone, presa visione del contenuto di quel cencio di carta che gli avevo porto, mi chiese se avessi offeso qualche Russo, e al mio diniego, continuò « — Come mai allora quest’ordine ? Sai ? ti si comanda di partire immediatamente alla volta di Muhlberg, accompagnato ! Questo è scritto qui — » disse riconsegnandomi il foglietto. Impallidii, barcollai e piansi! « — Coraggio ! — riprese il Col. battendomi amichevolmente la mano sulla spalla, — Va a sentire come ti suggeriscono di fare i tuoi, e poi torna da me. Ti voglio aiutare — ». Mi ricomposi un po’ e quindi, con la morte in cuore, tornai dai miei. Avevano già capito, vedendomi da lontano, che qualche brutta notizia dovevo recar loro, ma certo mai si sarebbero aspettata quella delle mia partenza. Appena seppero, tutti allibirono ! Non tentarono nemmeno di consolarmi, perchè essi stessi avevano bisogno d’esserlo. « — Bene ! dissi compiendo uno sforzo sovrumano per rompere quella specie d’incantesimo doloroso che ci attanagliava. « — Ora pensateci bene e poi mi direte sinceramente quale, secondo voi, devo fare di questa tre cose: Ubbidire e andare! — Restare sia pure nascosto! — Partire per tutt’altra destinazione ! — E quello che vado a discutere coi dottori e con D Guido —» Li feci infatti chiamare, e in quel piccolo angolo della baracca-cappella che un tempo era stato sacristia ed ora la nostra mensa, ci sedemmo ed affrontammo il mio grosso problema. Due parole suscitavano le nostre apprensioni, quell’immediatamente ! e quell’ accompagnato! — A Muhlberg si sapeva che c’eran non più di trenta soldati Italiani e tutti ormai in buone condizioni fisiche dopo la morte del povero Capobianco, quindi nessun bisogno di assistenza spirituale. I due Ufficiali Medici e i due Cappellani rimasti volontariamente coi gravissimi che non poterono scappare la famosa sera del 23 ottobre 1944. Finalmente seduti a tavola con stoviglie, posate e pasta asciutta! Il tutto razziato nei dintorni rimasti disabitati.
E poi proprio i Russi dovevano preoccuparsi di questo ? E perchè proprio io e non D Guido ? Accompagnato! da chi ? perchè ? L’avevo pur fatta parecchie volte quella strada, no ? E allora ? « — Che ti ha suggerito il Colonnello Polacco ?» — mi chiese Fantelli. « — Di decisivo ancora nulla! mi ha detto che tornassi da lui che mi avrebbe aiutato! Anche a lui puzza quell’accompagnato ! — » gli risposi. « — Beh! andiamoci assieme e vediamo. Non c’è tempo da perdere! Intanto voi due, Sanfilippo e D Guido, sentite un po’ come la pensano gli ammalati delle tre baracche e specialmente gli Ufficiali— ». Dieci minuti dopo io e Fantelli eravamo seduti davanti al 111
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Col. polacco che con voce discreta e quasi sillabando diceva. — Conosco bene i Russi e so per esperienza che quando danno un ordine per iscritto, è loro intenzione fare il contrario ! Perciò, caro Padre, tu dovresti raggiungere Muhlberg, ma in realtà chissà in quale altra località ti porteranno ! Te lo prova il fatto dell’accompagnamento. Ammesso che non ti si faccia di peggio, dovrai peregrinare non so fino a quando. Vuoi il mio parere ? è questo, giacché te ne devi andare e al più presto, tenta d’andare verso l’Italia ! — ». « — E’ una parola sig. Colonnello ! — dissi io — Come passare inosservato tra tanti Russi che circolano e quasi sempre ubriachi ? Come poi trovare la strada che non son mai uscito dal campo ? E poi da solo di notte ! No ! no, non mi sento di tentare questa avventura ! — ». « — Non far le cose più difficili e più brutte di quel che sono ! Padre mio ! — riprese il Colonnello con più vivacità, poi subito con voce sommessa. «— Ve lo dico in un orecchio e vi scongiuro che vi teniate la cosa per voi. Ogni notte gruppi dei miei che non intendono sottostare ai Russi, tagliano la corda varcando il confine, la linea di demarcazione che dista da qui una trentina di Km. Una volta giunti tra gli Anglo-Americani, sono liberi di muoversi in tutte le direzioni. E Lipsia non è lontana. Difficile piuttosto passare di là e se va male, è un grosso guaio perchè un bando pubblicato proprio giorni fa, commina pene severissime contro chi tenterà il passaggio senza autorizzazione che, d altra parte vien concessa, previo interrogatorio, soltanto a Francesi, Inglesi, Belgi, Olandesi, Americani, ecc. Gli Italiani, i Polacchi e i Serbi e qualche altro sono nominativamente esclusi. I miei si sono fatti tutti francesi e finora son sempre riusciti a passare impunemente. Non potresti fare altrettanto anche Tu? » — «Ottima idea! sig. Col — ». Saltò su a dire Fantelli, poi volgendosi a me, continuò. « — Ma non sai che se ti riesce di raggiungere Lipsia puoi esserci utile più di quanto ci sei stato finora? Pensa potresti vedere la Croce Rossa o qualche grosso nostro Comando e raccontare loro la nostra situazione magari seccarli fino a che non si decidono a venirci in soccorso Non ti pare? Sarebbe la cosa pi i meravigliosa che tu abbia mai fatto e tanti di noi ti sarebbero debitori della vita —». L’idea di lasciare i miei, ma per andare a trattare ancora di loro, a lavorare ancora per loro, a incontrare forse pericoli estremi perchè loro fossero contenti, mi entusiasmò. « — Sig. Colonnello! dissi scattando in piedi, — Ho deciso ! La prego di includermi coi suoi che partiranno primi. Di questo favore non mi dimenticherò mai e avrà sempre e tutta la nostra riconoscenza! — ». « — Benissimo! padre mio. Sei in gamba! Preparati per le sei del mattino di dopodomani e intanto evita di circolare per il campo. Portati il meno possibile perchè dovrai forse camminare molto a piedi. Cerca di trasformarti un po’ negli abiti e in bocca al lupo! — » Io e Fantelli ringraziammo calorosamente e tornammo di corsa al nostro reparto per comunicare agli ammalati la decisione presa. Volli prima sentire però quale soluzione delle tre proposte mi avrebbe consigliato la maggioranza. Pochi — ubbidire e partire! — Molti, restare, sia pure nascosto! — Moltissimi — partire, ma per ben altra destinazione! — Senza saperlo questi moltissimi eran d’accordo con quanto avevo stabilito di fare. Lasciai al dott. Fantelli il compito di spiegare per filo e per segno quanto deciso dietro suggerimento del Col. Polacco. Andai a coricarmi perchè le forti emozioni della giornata m’avevamo messo in dosso un febbrone da cavallo e tremavo come una foglia. Mi sentivo sfinito Eppure avevo solo un giorno per prepararmi. Pregai Sanfilippo a propinarmi tutto quanto aveva a disposizione per sfebbrarmi e farmi dormire almeno qualche ora. Ci riuscì in parte. Al mattino, assai per tempo e nonostante la febbre che ancora persisteva, celebrai nella baracca dov’era il maggior numero di ammalati e dissi loro che forse S. Antonio ci aveva fatto davvero la grazia. Quello che sul principio tutti reputavamo un castigo, una disgrazia, poteva diventare invece un grande bene per tutti del campo. E sarebbe stato proprio cosi! ma non sapendolo noi allora, pregammo con fervore affinchè la mia fuga 112
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riuscisse. Dopo di che, aiutato da qualche ammalato, misi un po’ d’ordine negli oggetti ricordo che avevo conservato di ogni nostro morto e chiuso il tutto nella mia cassetta di ferro d’ordinanza, la consegnai a D. Guido raccomandandogli. — « Son riuscito pericolosamente a sottrarre tutto ciò all’ingordigia tedesca. Tu devi riuscire a portarlo in Italia. Perciò se vuoi, la testa tua, ma non un filo di quanto sta qui dentro» — A parte gli lasciai anche i miei paramenti sacri e alcune cosette personali o di altri soldati che avevano solo un valore affettivo e delle quali non doveva preoccuparsi un gran che. Ogni più piccolo incomodo l’avrebbe autorizzato a disfarsene. Stavo eliminando ciò che non reputavo indispensabile per alleggerire lo zaino, quand’ecco i Tenenti Pampuro e Tosi che chiedono di parlarmi in camera charitatis! Segretamente. Lascio tutto per ascoltarli. « — Se permette, padre, noi due eTenenti Tamburini e Calvi, vorremmo esserle compagni nella fuga —» mi dicono subito. Ebbi un momento di gioia e di commozione vedendo fino a qual punto i nostri vincoli di fraternità fossero saldi, ma pensando ai pericoli e alla fatica cui si esponevano, risposi loro: « — Vi ringrazio del vostro attaccamento! Non posso però assumermi la responsabilità di mettere a repentaglio la vostra incolumità. E poi, benché felicissimo di poter godere della vostra compagnia, non dipende da me il permettervelo, ma dai nostri medici prima e dal Col. Polacco poi» — In quanto a questo, Padre, lei non si preoccupi! Ci pensiamo noi. Grazie. Andiamo a prepararci. — Tornai al mio zaino. Ormai non conteneva che poca biancheria indispensabile e la mia bella divisa diagonale, indossata ben poche volte. Ed era necessario la cedessi in cambio di qualcosa d altro di meno Italiano! L'indomani avrei dovuto essere francese! Incaricai della sostituzione il sold. Ciaranfi, 1’onnipotente, e in meno di una ora, eccolo con una divisa cachi, forse più bella della mia e che sembrava fatta sulla mia misura! Insieme provvedemmo a nascondere tra le suole degli stivali i negativi delle fotografie scattate nel campo prima e dopo la liberazione. Il mio prezioso Diario l’avrei portato indosso. Mi restava di trovare una bandierina francese da applicarmi sul petto e a questo provvide il sergente pittore torinese ritagliando e colorando di rosso e bleu un pezzettino di asciugatoio. Ero pronto per la grande avventura! Passai il resto della giornata a sentir pareri e consigli circa quello che avrei dovuto dire e fare se fossi arrivato a Lipsia, presso la Croce Rossa e i nostri Comandi o quelli degli Alleati, a notare indirizzi e messaggi da trasmettere ai famigliari dei miei ammalati che restavano. Ogni tanto venivano a interpellarmi or l'uno or l’altro dei quattro Ufficiali che avevano deciso di condividere con me i rischi della fuga. Erano raggianti! Dovevano perciò aver ottenuto di far parte della colonna polacca, e da Fantelli e Sanfilippo il benestare. Non tutti gli altri Ufficiali vedevano di buon occhio che quei quattro mi accompagnassero e avrebbero voluto che partissi solo per due motivi specialmente; primo perchè da solo più facilmente sarei passato inosservato; secondo- perchè se si fossero sentiti male, m’avrebbero impedito di compiere la mia missione e fors'anche coinvolto in qualche guaio! — « — Non abbia paura, padre, che i suoi compagni di viaggio si sentano male! Han provveduto a farsi le ossa dure in questi ultimi giorni, mangiandosi trippa a due palmenti! — saltò su a dire tutto d’un fiato il ten. Daccò meravigliando non poco tutti perchè ben di rado partecipava alle discussioni e i suoi interventi si riducevano quasi sempre a monosillabi, sì! no! — E diceva il vero! perchè anch’io avevo visto e non una volta sola, i ten.ti Tosi, Calvi e Pampuro, intenti a pulire quella roba che i Russi scartavano e lasciavano abbandonata dopo la macellazione di qualche bestia. E venne l’ora dei saluti e delle lagrime 1’ora più pesante della mia vita, 1’ora il cui ricordo mi inumidisce sempre le ciglia! Abbracci lunghi a non finire baci sonanti e senza numero sospiri profondi e pianti sommessi ringraziamenti e auguri infiniti mi fecero crollare prima d aver accostato tutti. Era tornato il febbrone della sera precedente! e ci vollero tutte le fraterne premure di Sanfilippo e Fantelli per mettermi in condizione di riposarmi un po’. Alle 4,30 eran già tutti pronti per ascoltare l’ultima mia Messa di Zeithain. Don Guido m’aveva preparato 1 altarino nella baracca degli Ufficiali e là s’erano dato conve113
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gno anche gli altri ammalati che potevano reggersi. Iddio ci benedisse davvero in quei pochi momenti che passammo stretti attorno al suo altare e tra noi in devota preghiera. I fatti successivi ce lo avrebbero provato. Terminato il sacro Rito, durante il quale parecchi vollero la Comunione, passai di castello in castello a salutare gli Ufficiali. Tutti vollero dirmi ancora qualcosa, oltre che a darmi l’abbraccio augurale e il bacio affettuoso. Il cap. Maccabruni sempre lepido- — Le 40 bottiglie che ho nascoste alla mia partenza, saranno per te se io non tornassi — Il Ten. Magagnin piangendo, Vi bacio intendendo baciare un ultima volta Albertina e Leda che non vedrò più! — Il cap. Pitzoi. — Che la fortuna che ti ha assistito sin qui, t’accompagni sempre — Il ten. Treccioni. — Se riuscirai a farci tornare, in Italia ti darò quelle soddisfazioni che ti ho negate qui, in questo inferno. — Il Ten. Daccò- Mi conceda anche l’ultima benedizione nel nome della nostra Madonnina! — Il Coman. Di Scala. — Quanto mi dispiace che te ne vada ! Buona fortuna! — Il Ten. Laganà. — Un ultimo favore! padre! Fate giungere ai miei questo foglio! e molte grazie di tutto. — Il ten. Bonarelli, il più giovane e tanto fiducioso: — Maledizione ai nostri barbari padroni e benedizione a voi padre carissimo. — Puntualissimo, alle sei comparve il sold. polacco che doveva guidarci. I quattro Ufficiali che venivan con me, s’eran camuffati veramente in modo perfetto, e se non si vedevano in faccia o non se ne sentiva la voce si sarebbero detti di tutte le nazionalità fuorché dell’Italia. Colla guida essi uscirono per vie traverse, mentre io col mio pezzo di carta in mano, potevo affrontare anche le sentinelle. Perciò mi potei permettere di tornare un’ultima volta nelle altre baracche e salutare ancora i soldati. Fantelli, Sanfilippo e Don Guido m’accompagnarono fino ai reticolati e là furono gli ultimi abbracci. « — Da quanto saprai fare, si parrà la tua nobilitade ! — » mi disse scherzosamente Fantelli. Poco oltre le pinete che circondavano il nostro Cimitero c’era pronto un carretto su cui già avevan preso posto una mezza dozzina di donne, tra le quali brillava per loquacità e brio, una certa Maria, conosciuta anche dai miei quattro accompagnatori! C’era ancora posto per altre sei persone. Quegli che sembrava il capo del gruppo, fece salire noi cinque Italiani e due altri polacchi tra i molti che stavano aspettando e diede l'ordine di partire al piccolo trotto. Le avventure e disavventure che incontrammo poi, non riguardano più Zeithain e perciò non credo necessario nè opportuno inserirle tra queste pagine, che vorrei chiamare sacre ! Del resto sono uguali a quelle di tanti altri fuggiaschi che come noi furono perfino costretti a cambiar divisa, nazionalità e talvolta perfino la coscienza, per riuscire a porre tra sè e il paradiso sovietico, il maggior numero possibile di Km. di distanza. Strada facendo, seduto accanto al responsabile della colonna, chiesi dettagliate informazioni intorno al modo di comportarci all arrivo. Fu con me d’una gentilezza fraterna e d’una chiarezza solare! Durante l’interrogatorio, avremmo dovuto sostenere, anche a costo di buscarcele, la nostra nazionalità francese ! Perciò: tenere pronto un cognome e un indirizzo come meta che si intendeva raggiungere, al collo e ben in vista il piastrino di prigionia e nessun altro documento nè in tasca nè nello zaino, che potesse comprometterci ! « — Vi andrà bene certamente, mi disse concludendo, perchè tutti quelli che ho aiutato nella fuga, e l’attuale è il diciottesimo viaggio che compio, ce l’hanno sempre fatta ! — « — Come dimostreremo la nostra riconoscenza al Colonnello e a voi ? — gli chiesi. Ed egli. — Al Col. non so ! ma a me basta mi facciate il gran favore di recare i miei saluti a un mio carissimo amico che si trova a Roma e gli diciate quello che sto facendo per la Patria del cielo e della terra ! — E mi porse un cartoncino su cui era stampato il suo nome: — Casimiro Augustowski — e scritto in matita. — saluta l'amico P Casimiro Kucharski S J Gesuita ! 114
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Mentre l’assicuravo che ben volentieri avrei compiuto la missione affidatami, giungemmo in vista del Mulbe un fiume che scorreva profondamente incassato tra le due sponde e che, allora, serviva di linea di demarcazione tra Russi e Alleati. Tutti scendemmo dal carretto che invertì tosto la rotta per tornare a Zeithain. Salutati i nostri compagni di viaggio, ci caricammo lo zaino sulle spalle e per altra strada raggiungemmo il luogo dell’attraversamento. Erano le ore 13 del giorno 15 giugno 1945 e la sinistra del fiume brulicava di soldati che, come noi attendeva di correre verso la libertà! Mi resta a dire di quello che ci fu possibile fare a Lipsia in favore dei nostri rimasti a Zeithain. Trovato un punto d’appoggio presso un campo di raccolta per Italiani in attesa di rimpatrio, ci demmo d’attorno per trovare ov’io potessi alloggiare, perchè, ci disse il Ser. Maggiore che comandava il centro, non era conveniente che un cappellano restasse di notte in mezzo a soldati che volevano divertirsi un po’! Compresi di che si trattava e ne ebbi schifo ! Avrei voluto alzar la voce, ma come ospite mi convenne tacere e accettare di dormire per terra presso una famiglia privata, composta da due vecchi coniugi, i Sigg. Konrad Lange Reihe Leipsig, che avevano un figlio, Ufficiale di Marina, prigioniero in America. Presso di loro deposi il mio meschino bagaglio, e mentre i quattro Ufficiali, miei compagni, e cioè Tamburini, Tosi, Pampuro e Calvi, si mettevano alla ricerca di un mezzo qualsiasi che ci portasse verso l’Italia, io invece cercai della Croce Rossa. Grazie a un dottore italiano che incontrai per caso, il Sig. Angelini, riuscii ben presto nel mio intento. Fui subito accolto con grande cordialità e simpatia, e il mio caso interessò moltissimo. Presero appunti, individuarono su di una carta geografica la località, ne computarono la distanza e mi assicurarono che quanto prima avrebbero mandato una commissione a controllare la verità di quanto avevo detto. Felice come una pasqua, tornai al mio alloggio, ove trovai i quattro Ufficiali ad attendermi. Erano alquanto sfiduciati perchè non avevano trovato quanto desideravano. Dalla stazione ferroviaria treni non ne partivano- sulle strade gli automezzi erano limitatissimi e quelli militari non si fermavano macchine private non se ne trovavano: mettersi in viaggio a piedi era semplicemente pazzesco, e allora ? « Pazienza! giovanotti, dico loro, lasciate che mi faccia qualche amico presso la Croce Rossa e vedrete che in Italia arriveremo. Intanto fate i turisti, visitate la città anche se è tutto un cumulo di rovine. Il giardino zoologico è intatto, mi si disse, e c’è dell’interessante da vedere, magari un Russo che si diverte a cacciare gli orsi bianchi e bruni nei loro recinti! — Qualche giorno dopo tornai alla C. R. e mi dissero che le cose stavan proprio come le avevo descritte; che avevan chiesto di parlare coi nostri senza riuscirvi, che l’autocarretta che doveva recar là i pacchi da me sollecitati, era stata fermata al Mùlde e rimandata. « — Dev'essere un duro il comandante di quel Presidio! Ne conosce lei, padre, il nome? — mi chiese quegli che occupava il centro del tavolo dinnanzi al quale mi si era fatto accomodare. « — Leontieff, Maggiore Leontieff — risposi quasi gridando. « — Ci vorrà del tempo e molta tattica per ammansirlo codesto Signore. Ma piegheremo anche lui! a costo di spaccargli la testa — Ringraziai quei signori e in cuor mio il vero Signore che m’aveva fatto incontrare persone così comprensive e decise. In seguito tornai da loro parecchie altre volte, anzi quasi ogni giorno finché rimasi a Lipsia. Trovavo sempre un perchè!... una volta per consegnare dei messaggi, un’altra per firmare delle dichiarazioni, un’altra ancora per mostrare la pianta del cimitero, ma in realtà sempre e sol per sapere dei miei di Zeithain e se il loro rimpatrio sarebbe stato possibile. Intanto, verso la fine di Giugno, cominciò a circolare la voce che la città sarebbe stata evacuata dalle forze Alleate e passata sotto quelle Russe per una rettifica dei confini. Un fulmine a ciel sereno che non ci voleva! Facile immaginare il nostro orgasmo e, diciamolo pure, la nostra paura di ricadere sotto quelle pesanti mani da cui, con tanta fatica ci eravamo sottratti... Il 1° luglio vennero da me i quattro Ufficiali con un foglio in mano e mi dissero « — Padre, un’altra volta la nostra salvezza è nelle sue mani Avremmo trovato 115
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chi sarebbe disposto a portarci lontano da qui, ma vuole un prezzo che noi non possiamo pagare! Solo lei può. Dopo quanto ha già fatto per noi la scongiuriamo di fare anche questo sacrificio e cedere a chi ci metterà al sicuro dai Russi, la sua macchina fotografica. Sappiamo quanto valga e come le sia cara sopra ogni altra cosa, ma noi ci impegnamo solennemente a rifargliela simile entro tre mesi dal nostro arrivo in Italia. Qui c’è la promessa scritta e debitamente firmata da ognuno di noi.» — conclusero porgendomi il foglio. Lessi e stracciai dicendo loro: — Mi basta la vostra parola d’onore. Contate pure sulla mia macchina. Però la consegnerò soltanto al termine del viaggio ». Il giorno dopo, 2 luglio ’45 a bordo di un camion carico di pezzi di ricambio per mitragliatrici, cannoncini anticarro ecc... lasciammo Lipsia, incrociando le truppe Russe che vi entravano invece. Dall'alto del nostro posto di osservazione, di mezzo a tutta quella ferraglia, salutammo con ampi gesti della mano e — Per sempre ! — gridavano i quattro miei compagni soffregandosi il gomito. Alle 19,30 di quello stesso giorno arrivammo, stanchi morti, a Francoforte sul Meno. Ormai al sicuro dei Russi, chiedemmo d’essere lasciati giù, decisi ad arrangiarci da soli. Tolto dalla macchina fotografica il film che avevo scattato solo a metà, la consegnai al maresciallo francese cui era stata promessa. E quello fu davvero un grande sacrificio per me !... che però compii volentieri perchè ero sicuro che mi avrebbe data la possibilità di raggiungere assai prima l’Italia ove mi sarei potuto occupare ancora dei miei rimasti a Zeithain. Infatti appena giuntovi, interessai immediatamente la nostra Croce Rossa, la Pontificia Commissione d’Assistenza e la Post Bellica della loro situazione che mi sforzai di dipingere coi colori più neri e provare con la presentazione del lungo elenco dei morti da me composti nel sonno eterno. — Se non ci si muove, e al più presto anche quei 200 e più che ho lasciati là, ci rimetteranno la pelle ! — con queste parole conchiudevo sempre le mie esposizioni che ripetevo a chiunque mi sembrava potesse aiutarmi. Avrei voluto ricorrere anche alla stampa per guadagnare alla mia causa l’opinione pubblica, ma in quei tempi essa era troppo impegnata nella glorificazione dei Partigiani veri e falsi e delle loro gesta più o meno lodevoli. Sicuro d’aver fatto quanto era nelle mie possibilità, attesi fiducioso d essere avvisato da un momento all’altro dell’arrivo di quei cari che mi vedevo sempre dinnanzi. Nel frattempo cominciarono a venirmi a trovare i familiari di parecchi morti da me assistiti, per sentire dalla viva voce il racconto delle circostanze che avevano accompagnato e seguito il decesso dei loro cari. Ed erano tutti insaziabili!... nonostante lo strazio che arrecava loro il mio dire forse troppo crudo. Ma non facevo che leggere gli appunti che di ognuno avevo presi a suo tempo, e che m’accingo a trascrivere qui. « — Vi consoli, potevo dir loro con tutta verità, sapere che il vostro caro è spirato cristianamente, e mani fraterne e pietose ne hanno composto la salma e ornata la tomba ! — ». Verso la metà di agosto ebbi la gioia di sapere dalla C.R.I. che gli ammalati di Zeithain, cui nel frattempo s’erano uniti quelli di Muhlberg/Elbe, sarebbero stati quanto prima trasferiti al Sanatorio di Praga-Podoli. Quel mattino avrei abbracciato e baciato tutti gli impiegati presenti nell’Ufficio ove avevo ricevuta la grande notizia … — Finalmente, pensavo, presto avrebbero cominciato a muoversi quei poveretti !... Si sarebbero presto trovati in ambienti in muratura e forse puliti !... e con certe comodità mai avute nè sognate tra i boschi di Zeithain!... Con Praga si poteva facilmente comunicare sia per istrade comuni che per ferrovia! ... Dovevano perciò essere felici e sicuri ormai di raggiungere presto la tanto sospirata Italia. « — Tutto questo, andavo ripetendomi, li farà resuscitare! —» E fu così anche se ancora quattro di loro, forse per lo strapazzo del lungo viaggio, dovettero soccombere nei primi giorni successivi al loro arrivo nella capitale Cecoslovacca, alla vigilia, si può ben dire, del rimpatrio definitivo, che avvenne ai primi dell’ottobre 1945 con treno ospedale, e dopo due anni di prigionia ! e quale prigionia!!!». Impossibile dire della festa che ci facemmo allorché ci si incontrò all ospedale di Biz116
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zozzero presso Varese. Durò finché non avvenne la dispersione nei vari sanatori della maggior parte di loro, bisognosi ancora di lunghe cure. Ormai di Zeithain non ci restava che il triste ricordo e il cocente rimpianto degli 850 nostri compagni rimasti là ad attendere che noi, come più volte promettemmo loro, si torni a riprenderli o almeno a visitarli in pio pellegrinaggio. Il paziente lettore giudicherà da quanto segue, se noi si esagera allorché affermiamo che il reparto C del campo di Zeithain per il numero delle vittime ingoiate può paragonarsi a un Dacau o a un Mathausen senza forni crematori o camere a gas. Ce n’era forse di bisogno ?.
I più validi tra gli ammalati preparavano le fosse
I morti N.B. Per comprendere quanto segue è necessario tener presente: 1) i morti sottonotati sono quelli che ho accostati personalmente per gli ultimi conforti religiosi dal giorno in cui i medici mi permisero di muovermi. Quindi quei pochi che morirono prima del mio arrivo a Zeithain e durante la mia malattia, furono assistiti da Mons. Ezio Ghidini unico Cappellano del Campo riconosciuto dai Tedeschi. Così pure quegli altri pochi che decedettero in seguito nei reparti A e B ebbero l’assistenza o dello stesso Mons. Ghidini o del Rev.mo D Guido Sammartino, sopraggiunto nel campo verso la fine del marzo1944. Perciò qualche numero vuoto nella successione delle tombe. 2) Verso la fine del 43 e sul principio del 44 si credeva imminente la fine del conflitto come ci cantava in tutti i toni la propaganda tedesca, allora unica fonte delle nostre informazioni. Da qui il perchè dei primi morti ho registrato solo i dati anagrafici. Pensavo di poter facilmente ricordare le altre notizie che i famigliari avrebbero avuto il piacere di sentire. 3) Prima che Mons. Ghidini ottenesse di costruire il Cimitero degli Italiani di Zeithain, le salme dei nostri morti, poste completamente nude in un sacco di carta, per mancanza di casse, venivano portate al Cimitero di Muhlberg/Elbe. Col Cimitero a due passi vennero poi anche le casse. Benché sempre ignudi, i nostri morti vennero sepolti con al collo una metà del loro piastrino di prigionia recante il numero d'immatricolazione di ciascuno. L’altra metà andava al comando Tedesco. 4) Trascrivendo dal mio diario ho creduto opportuno omettere certe notizie di carattere troppo confidenziale. 117
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Elenco dei caduti Secondo l’ordine cronologico del decesso1
L’elenco comprende i nomi dei 900 caduti italiani nel Lager di Zeithain provenienti dalle varie regioni italiane, per ognuno dei quali Padre Airoldi riporta completi dati anagrafici, una fotografia e le ultime volonta'. Si riportano, estrapolati dal lunghissimo elenco, i nomi dei militari originari dei Monti Lepini: Francesco Roccatani, Giovanni Gianfelici e Alfonso Miccinilli.
(…) 17–3–1944 alle ore 4.30 carab. MICCINILLI ALFONSO di Tommaso. nato il 10 – 10 – 1923 a Prossedi (Littoria) ivi domic. – n. prig. 232123 IV/B. t.b.c. - tomba n. 45 Tanto buono e affezionato ! Le notizie che attendeva, purtroppo giunsero dopo ! Rassegnato. A me diede foto.
22- 8-1944 alle ore 22.35 sold. GIANFELICI GIOVANNI di Antonio e di Ippoliti Angela. nato il 4-5-1922 a Sonnino (latina) ivi domic. - appart. 331 Rg\ Fant. - n. prig. 1822 IV/F. t.b.c. - tomba n. 372 Arrivato il 4-5-44 dall'Arb. K.do di Bitterfeld. Sembrava essersi rimesso col pneuma e durò a lungo. Improvvisamente precipitò! Mi fece chiamare e volle i Sacramenti. Cosciente fino all'ultimo. « Poveri miei cari!. . . » disse spirando.
La grande croce che proteggeva il sonno dei nostri morti
29 - 5 - 1945 alle ore 5.30 sold. ROCCATANI FRANCESCO di Giuliano. nato il 11-11-1914 a Priverno (Latina) ivi domic, in via Francesco Abbondanza 13 • appart. 151 Rgt. Art. - n. di prig. 100034 Vl/C. t.b.c. - tomba n. 813 il 14-8-44 dall'Arb. K.do di Amburgo all'ospedale di Sandbostesl, da dove qui il 20-1144. Gioviale e abbastanza praticante. S'accendeva ogni volta discorreva!… La famosa sera del « si salvi chi può! » 23 apr. anche lui scappò, nonostante i miei schiaffi! Ritornò dieci giorni dopo disfatto, con febbre altissima eafono completamente! Si pentì dell'imprudenza e mi chiese scusa! Mi raccomandò i suoi due bambini e la moglie Giuliana a cui trasmettere due sue foto su cui ultimi baci. Ho spedito a suo tempo. Abbreviazioni: Arb.K.do. = Comando campo di Lavoro – Kr.Rev. = Infermeria – Qui = arrivato qui a Zeithain – App. = Appartenente Btg. = Battaglione – Regt. = Reggimento – n. prig. = numero di prigionia.
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Conclusione Cari morti di Zeithain! Come vedete vi ho ricordati tutti, e facendolo ho rivissuto quasi fisicamente quegli indimenticabili, terribili giorni dei nostri ultimi addìi: ho riprovato, come allora, la gioia di vedervi partire ben preparati al grande viaggio, il dolore di perdere la vostra compagnia tanto cara, la soddisfazione di aver fatto il possibile per render meno penosa la vostra dipartita. Ebbi allora la vostra riconoscenza, oggi ho la vostra protezione. Perciò, nonostante il fluire del tempo, sono ancora con voi, e il vostro esempio luminoso mi è di norma contro tutte le storture che vorrebbero impedire la realizzazione dei vostri ultimi desideri e della mia solenne promessa. Sono ancora e sempre il vostro Padre !
Pianta del cimitero Italiano di Zeithain (1945-46). Comune della Sassonia in Germania
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DA SONNINO AI CAMPI DI PRIGIONIA JUGOSLAVI IL DIARIO DI INNOCENZIO PENNACCHIA1 di Rosina Floris Domenica 15 ottobre 1944 “Un giovincello partigiano ancora imberbe ad un certo punto fa sostare la colonna, si reca dal russo e denunzia uno di quei serbi nazionalisti per quale ragione non capisco. Ci fanno sedere al margine della strada. Chiamano il povero malcapitato, lo portano sul prato sottostante dall’altra banda della strada, lo obbligano a spogliarsi, a levarsi le scarpe, tutto insomma, poi uno di loro, messogli la canna del fucile dietro la nuca alla distanza d’un palmo, lo obbliga a discendere verso il declivo della collina. Ahi! orribil vista. Un colpo a bruciapelo dietro la nuca e quell’uomo non è più. [...] qui ognuno è giudice ed ha il potere di vita o di morte a seconda del proprio capriccio”. Momenti come questo, collocabili tutti nell'anno più tragico della Seconda guerra mondiale, il 1944, non sono eventi isolati, eccezioni nella lunga prigionia che Innocenzo Pennacchia racconta nel suo diario, rappresentano la quotidianità, in una guerra, quale fu quella dei Balcani, complessa e brutale che molti storici considerano la pagina "nera" della guerra italiana2, altri "una guerra a parte"3, per anni oggetto di rimozione dalla memoria storica italiana, un momento bellico da dimenticare per l'efferatezza degli atti compiuti da tutte le parti in guerra, senza esclusione di colpa.
Il diario di Innocenzo Pennacchia si sviluppa in un arco cronologico che va dal 28 gennaio 1942, giorno della chiamata alle armi, al 7 maggio 1945, quando apprende della definitiva capitolazione della Germania. È un diario di sofferenze e di stenti, vissuti nella zona centro-orientale della Serbia come prigioniero di guerra sia nei lager tedeschi che nei campi di concentramento titini. E' l'opera di una persona di cultura che ha piena consapevolezza delle conseguenze che i grandi eventi producono sulla sua vita da prigioniero, per cui la narrazione spesso procede in modo scarno e rapido, quasi nel tentativo di prendere le distanze da ciò che accade; in altri momenti la drammaticità degli avvenimenti
Rosina Floris è docente di lettere presso l'Istituto comprensivo Leonardo da Vinci di Sonnino; ha svolto attività di ricerca nell'ambito della Topografia antica con una tesi di dottorato sugli insediamenti romani nella valle dell'Amaseno. Ultimamente svolge attività di comprensione e catalogazione delle memorie comunitarie e familiari del ‘900.
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è tale che il coinvolgimento emotivo è profondo, la narrazione si arricchisce di esclamazioni e di invocazioni disperate, in questi momenti la fede religiosa risulta essere l'unico conforto, il solo appiglio sicuro. Sono queste le pagine più intense del diario.
Vicissitudini italiane nel territorio jugoslavo tra la Grande Storia e la microstoria. Nel diario di Pennacchia è evidente come la "Storia" entri spesso nel suo vissuto di prigioniero attraverso le fonti più disparate e occasionali: le radio scarpa dette anche radio fante oppure il più tradizionale mezzo dell'epoca ossia l'apparecchio radio "[...] Circolano migliaia di radio-scarpa che comunicano le più importanti notizie" (Martedì 29 agosto 1944), quindi si è cercato di organizzare questa nota storica facendo in modo che la micro-storia di Pennacchia, la sua esperienza di vita entrasse nella MacroStoria, che l'aveva generata e la cui eccezionalità ne era stata la musa ispiratrice, in un rapporto di integrazione reciproca. L'occupazione del territorio jugoslavo da parte delle truppe italiane, insieme a quelle tedesche, iniziò il 6 aprile 1941, dopo che il re Pietro II, rifiutando l'alleanza con Hitler, era fuggito in esilio a Londra.
L'occupazione balcanica fu fortemente voluta dal regime fascista dal momento che costituiva l'unico successo concreto della sua politica espansionistica, oltre a rappresentare, nel progetto mussoliniano della costruzione del grande impero mediterraneo, una prova delle effettive capacità italiane di affermare il proprio dominio su vasti territori conquistati con grande spiegamento di forze4. Al momento della spartizione del territorio il nostro paese rivendicò l'italianità del Montenegro, affermando lo stretto legame dinastico che lo univa all'Italia5. Pennacchia così racconta nel diario: "[...] verso sera siamo a Njeguši. Entriamo in una bella villetta e la bella custode ci ospita con piacere perché - dice - siamo soldati della regina che nacque appunto in questa villetta" (Lunedì 13 settembre 1943). Tuttavia, al di là delle erronee convinzioni di Mussolini, la politica fascista di italianizzazione forzata dei Balcani non poteva che provocare una crescente reazione da parte delle forze interne. A guerra quasi conclusa Pennacchia narra: "Verso le nove adunata delle due compagnie di lavoratori serbi, di una compagnia di fucilieri e di noi prigionieri. Il comandante di battaglione presenta la 122
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forza al commissario politico il quale, giunto al centro, grida col pugno sulla fronte “smrt fašismu” (morte al fascismo) a cui fa eco un coro “sloboda naroda” (libertà del popolo). (Martedì 1 maggio 1945). Le difficoltà di questa guerra sono da ricondurre al fatto che venne condotta come una guerra imperialistica, coloniale6, nella quale la storia dei militari italiani si intrecciò e si scontrò continuamente con la nascita dei gruppi partigiani e soprattutto con l'affermazione del movimento comunista giudato da Tito, che mal sopportava le ingerenze degli occupanti. La Resistenza sia in Serbia che nel Montenegro contro le truppe di occupazione si articolò in due schieramenti: uno capeggiato dal maresciallo Tito, di origine croata, segretario del Partito Comunista, appoggiato dal Cremlino, che lottava per la liberazione della Jugoslavia; il secondo rappresentato dai Cetnici, un esercito guerrigliero quasi interamente composto da serbi monarchico-nazionalisti, guidato dal colonnello Draža Mihajlovic e sostenuto dal sovrano in esilio Pietro II; i Cetnici assunsero spesso atteggiamenti ambigui e opportunistici nei confronti delle forze occupanti, divenendo per questo nemici dichiarati dei partigiani di Tito e alleati occasionali dei tedeschi come degli italiani7: "Ore dodici i cetnici con un automezzo tedesco portano via tutti i tedeschi che hanno disarmato nel campo. [...] Verso le sedici torna lo stesso autocarro con tre cetnici in cabina e il Lagerführer tedesco il quale con voce ancora autorevole dice: italiani! Zaino e pronti per Žagubica." (Martedì 29 agosto 1944). Il sopraggiungere dell'8 settembre 1943, giorno della proclamazione dell'Armistizio, complicò ulteriormente la situazione: le truppe alleate tedesche, stanziate in Serbia ma presenti anche nel Montenegro con il pretesto di costituire le forze di appoggio dei soldati italiani8, divennero i loro peggiori avversari: "I tedeschi si sono impossessati di gran parte dei nostri posti di blocco ed automezzi e sono così quasi padroni del campo. [...] Verso sera bombardamento e mitragliamento aereo tedesco sulla divisione Taurinense" (16 settembre 1943). L'incertezza della situazione è evidente nelle parole di Pennacchia: “A sera: sensazionale, tremenda notizia: l’armistizio [...] I nostri comandanti sono sconcertati e taciturni. [...] Giorni tremendi, senza ideali, senza bandiera staccati dalla patria e da ogni affetto caro” (8,10,15 settembre 1943). I soldati italiani, nel totale disorientamento, abbandonati dagli ufficiali e braccati dai tedeschi presero strade diverse: ci fu chi preferì collaborare con le bande partigiane9 con i tedeschi, chi invece si arrese, cadendo prigioniero nelle mani degli avversari: "Disarmo. Questo è il più brutto giorno per un soldato, giorno vituperevole [...] Abbiamo obbedito ciecamente, abbiamo effettuato questo ciclo di marce sempre ai loro ordini docili - secondo quanto ci avevano raccomandato - ma questa era la sorpresa che ci era riservata. Arrivare qui in perfetta disciplina per gettare le armi e sottomettersi ai tedeschi" (Lunedì 4 ottobre 1943). I soldati che si arresero vennero condotti nei vari campi di smistamento del paese, da qui trasferiti nei lager serbi dove vennero utilizzati per il lavoro coatto. Sin dal momento della cattura agli italiani fu chiesto di collaborare: per allettarli i tedeschi offrivano migliori trattamenti, soprattutto nel vitto, oltre a garantire la libertà ed alimentare l'illusione del rimpatrio al fine di frenare ogni 123
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impulso a reagire; molti soldati italiani, tra cui Pennacchia, fedeli alla Patria, piuttosto che rinnegare i propri ideali, preferirono la prigionia nei campi di concentramento: "Tre sono le vie: il concentramento, il volontariato al lavoro, il volontariato alla guerra. I volontari al lavoro e alla guerra vengono trattati come il soldato tedesco con tutte le spettanze e i diritti più hanno la libertà. Pochi scelgono per il volontariato al lavoro e quello della guerra la quasi totalità sceglie per la prigionia. Anch'io con alcuni sinceri amici opto per il campo di concentramento. Quelli che hanno aderito hanno già preso varie mansioni: scritturali, magazzinieri, eccetera eccetera, ci passano davanti - consigliati dai tedeschi - con belle pagnotte di pane, burro, marmellata e anche ben vestiti. Noi non si mangia ma anzi a mezzogiorno - senza rancio - veniamo inquadrati e condotti al lavoro. Vogliono piegare le nostre volontà ricorrendo al vile stratagemma della fame. Ma noi si resta fermi nella decisione presa tanto, anche aderendo, sempre dei traditori siamo considerati dal tedesco. Meglio essere prigionieri piuttosto che aderenti. Il tedesco noterà più coerenza e forza di carattere in noi che negli aderenti che si sono venduti per la pagnotta e per la vita comoda” (Martedì 19 ottobre 1943). Nei lager tedeschi i prigionieri, dopo aver ricevuto un numero identificativo, erano ricoverati in baracche di legno infestate da cimici, vestiti di stracci pieni di pidocchi già al momento della consegna e dotati di zoccoli "antifuga", erano soggetti ad interminabili adunate sotto la pioggia battente visto le frequenti fughe e dunque le numerose conte, oltre alle lunghe file, tra spintoni e calci reciproci, per ricevere un po' d'acqua calda da trangugiare. Inoltre i continui spostamenti da un campo all'altro avevano lo scopo di smembrare le truppe italiane, così da impedire l'organizzazione di ogni forma di sommossa. La posizione topografica dei lager nazisti rispondeva ad una calcolata logica di controllo e di fruttamento del territorio tant'è che la maggior parte di essi era ubicata nella zona orientale della Serbia, molto ricca di miniere di rame in cui molti internati venivano impiegati nei lavori di manovalanza oppure utilizzati nella costruzione di opere infrastrutturali che favorivano la smistamento delle risorse minerarie verso le zone occupate10: "[...] arriviamo finalmente a Bor città industriale ricca di miniere, ove tanti nostri fratelli gettano sangue sino a 900 metri sottoterra" (Giovedì 31 agosto 1944). Durante le continue ed estenuanti marce molti tentarono la fuga favoriti dagli attacchi dei partigiani, però caddero nelle mani di questi ultimi che, inizialmente, gli italiani videro come loro liberatori, ma che in verità, pieni di rancore e memori delle efferatezze compiute nei loro confronti dagli italiani nei mesi dell'occupazione, li sottoposero a continue angherie tanto che alcuni testimoni, dopo il rimpatrio, denunciarono le peggiori condizioni di vita nei campi di Tito rispetto a quelle dei lager tedeschi11. I campi di prigionia jugoslavi non furono molto diversi dai lager tedeschi per quel che riguarda il trattamento riservato ai prigionieri: percosse, maltrattamenti, fame, lavori pesanti, interminabili adunate, pessimi alloggi e abbigliamento ridotto al minimo; i partigiani, non avendo di che rifornirsi, erano soliti spogliare 124
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i prigionieri di ogni loro avere: " [...] spogliano (i tedeschi) della bella divisa e danno loro in cambio lunghi camici carichi di pidocchi che obbligano i malcapitati di stare continuamente a grattarsi. Incontriamo partigiani e partigiane armati scalzi che marciano verso Niš e ci guardano con un riso di scherno. Per rivestirli e calzarli ci fermano, ci tolgono di dosso quanto di meglio ci è rimasto. Mi tolgono la bella giubba che, per essere arrangiata, dicono: ofizirski vero vestito da ufficiale. Ma le scarpe visto che sotto hanno il legno me le restituiscono. In un comando provvisorio, per uno, ci fanno una minuta rivista allo zaino e ci tolgono quasi tutto" (Sabato 14 ottobre 1944). Spesso per umiliare maggiormente i prigionieri, li costringevano a sfilare per le strade delle città serbe davanti alla gente sghignazzante o piena di pietà e in quell'occasione i partigiani, come anche i loro alleati russi, regalavano pugni e calci con estrema ferocia. L'unica fortuna per molti soldati italiani fu essere impiegati in mansioni agricole presso i civili, da cui ebbero più vitto e migliore alloggio. Con la fine della guerra e la liberazione della Jugoslavia da parte dei partigiani titini il rimpatrio dei soldati italiani rappresentò un'altra odissea12: Tito li trattenne ancora, considerandoli un'importante merce di scambio13. I prigionieri rimasti vennero inseriti nei cosiddetti "battaglioni lavoratori" (in Serbia ve ne erano circa 20) in cui a determinare il rimpatrio era il giudizio politico (antifascista buono, mediocre ecc) espresso dal Comitato Antifascista del campo14. Innocenzo Pennacchia farà parte di questo gruppo: era stato inserito nel XX battaglione Ćuprija in Serbia e fece ritorno in patria solo il 29 novembre 1946 insieme ad altri reduci italiani, al canto di "Bandiera rossa"15 come imposto dai titini con la minaccia di dure repressioni nei confronti degli italiani rimasti in Jugoslavia.
Il valore negato a quel "no" Quando ho iniziato a lavorare al diario qualcuno ci tenne a sottolineare che pubblicando le memorie di Pennacchia si andava contro la sua volontà. Ho continuato a pensare a ciò e a lungo mi sono chiesta perchè non se ne fosse occupato, considerando che non gli mancavano le competenze per farlo e soprattutto tenendo conto che si trattava di memorie "preziose" alla luce della carenza di opere memorialistiche, relative all'area jugoslava, lamentata da molti studiosi fino a qualche anno fa. In realtà solo approfondendo la conoscenza della sorte toccata agli internati militari italiani una volta rimpatriati, ho compreso il motivo della sua scelta e a maggior ragione ritengo che oggi sia questa un'ottima e imperdibile occasione per restituire ai patimenti da lui vissuti quel valore che è stato negato loro per anni. Il 19 ottobre 1943 Pennacchia, messo davanti ad un bivio dai suoi carcerieri tedeschi, nella più assoluta consapevolezza degli effetti derivanti dalla sua decisione, insieme ad altri amici, scelse la via più ardua, ma anche la più dignitosa, quella della prigionia, che venne vissuta non come un momento di frattura della disavventura bellica ma come la sua unica prosecuzione. Nonostante le sofferenze fisiche e i traumi psicologici subiti, quel "no" lo 125
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fece sentire un Uomo, capace di tenere fede ai propri ideali patriottici e di instaurare profondi rapporti di amicizia e di solidarietà non solo con i suoi compagni ma soprattutto con la popolazione civile jugoslava contro ogni logica bellica. Fu questo il suo modo audace e coraggioso di opporsi ai nemici e a quello che essi rappresentavano; fu un atto di Resistenza disarmata, compiuta in terra straniera e per questo ancora più valorosa; fu "l'altra Resistenza", come l'ha definita Alessandro Natta16, che contribuì a gettare le basi della futura Italia libera e democratica e a cui, però, non venne dato il giusto riconoscimento dalla Patria. Quel "no" segnò profondamente sia la sua vita di prigioniero ma anche la sua esistenza futura: venne considerato badogliano dai tedeschi, traditore dai fascisti, anticomunista dai partigiani di Tito; una volta tornato in Italia, fu costretto al silenzio da una Patria che, nella fase di ricostruzione postbellica, voleva rimuovere lo"shock del reticolato" che, invece, tutti gli internati, anche solo con la loro presenza fisica, ricordavano. Una volta rimpatriato, assumendo un proprio ruolo sociale all'interno della comunità sonninese, cercò di ricostruirsi quell'identità che gli era stata annullata il 25 ottobre 1943 nel lager Westfalen, quando il suo nome era stato sostituito da un numero identificativo inciso su una piastrina metallica. Le sue memorie costrette nei recessi della sua anima, ma mai dimenticate, riemersero pubblicamente e solo in parte nel 1993 con l'edizione di "Fiori amari", una raccolta di poesie scritte durante la prigionia; forse solo qualche compaesano o familiare fu messo a parte di alcuni suoi ricordi, ma l'esperienza militare, nella sua totalità e complessità, rimase segregata nella sua scrivania dove, solo dopo la sua morte, per caso la scoprì il figlio Tommaso. E' giunto ora il momento di ridare il dovuto valore a quel "no". Il diario di Pennacchia: la documentazione conservata e la struttura del diario Sulla prigionia di Pennacchia è stato possibile raccogliere, oltre al diario, una ricca documentazione fotografica, scritta e materiale: si conservano circa 53 foto relative al periodo del suo addestramento a Bari e nel Montenegro fino all'8 settembre 1943; una copia del suo foglio matricolare da cui è stato possibile desumere molte notizie assenti nel diario, che hanno permesso di restituire la storia della sua prigionia in modo quasi completo; la piastrina di metallo che venne data ad Innocenzo nel campo Westfalen, il primo campo tedesco in cui venne fatto prigioniero con il numero identificativo "O.T. 02365"; oltre ad alcune lettere inviate dal fronte jugoslavo che hanno consentito di ricostruire le sue vicende di vita a guerra conclusa. Il diario si compone di 125 pagine manoscritte in ottimo stato di conservazione, è scritto su un vecchio registro contabile, di forma rettangolare (misura cm. 13x25), con copertina rigida di cartone marrone scuro, di cui è stata tagliata 126
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la parte superiore dove molto probabilmente era l'intestazione; anche l'interno è ben conservato: le pagine ingiallite sono integre e non presentano cancellature di alcun tipo; la grafia è ordinata e facilmente leggibile. Esso è articolato secondo un ordine cronologico in quattro parti: 1) dalla chiamata alle armi, il 28 gennaio 1942, al giorno dell'imbarco a Bari, il 21 giugno 1942. Questa parte è composta soltanto da due pagine manoscritte a cui fanno seguito 106 pagine bianche; 2) dall'armistizio, l’8 settembre 1943, al 25 ottobre 1943 relativa alla prigionia presso tre lager tedeschi; 3) dal 28 agosto 1944, con l'occupazione del lager Izvarica da parte dei cetnici, fino al venerdì 10 novembre 1944, con la prigionia presso i partigiani di Tito e i russi. Si tratta del momento più duro e pieno di sofferenze; 4) dal 25 gennaio 1945 fino al 7 maggio 1945, quando viene a sapere della sconfitta definitiva della Germania. E' questo il periodo di lavoro presso i civili serbi, durante il quale strinse rapporti di amicizia con la popolazione locale. Nel diario vi è un vuoto cronologico di circa 14 mesi relativo al periodo che va dal 21 giugno 1942 all'8 settembre 1943, in parte colmato dalla documentazione fotografica e dalle informazioni desunte dal foglio matricolare. Vi è poi un vuoto cronologico, non altrimenti colmabile, di 9 mesi, dal 25 ottobre 1943 al 28 agosto 1944, relativo al periodo di prigionia nei lager tedeschi.
I luoghi della prigionia La scansione cronologica del diario e la precisione con cui vengono elencati i numerosi luoghi attraversati e di soggiorno permettono di ricostruire l'itinerario degli spostamenti effettuati nei vari lager: • Il 28 gennaio 1942 Pennacchia venne chiamato alle armi e partì dalla stazione ferroviaria di Littoria (Latina) per raggiungere Bari dove fu arruolato nel 48° Reggimento di Fanteria “Ferrara”, nel XIV corpo d'armata. • Dopo circa cinque mesi di addestramento si imbarcò per il Montenegro, il 21 giugno 1942, per sbarcare, il giorno successivo, presso le Bocche di Cattaro, nel Montenegro (1). • Il 24 giugno 1942 con il suo reggimento fu di stanza a Nikšić dove vi era il comando generale delle truppe italiane (2). In seguito la divisione Ferrara si stabilì a Cettigne17 (3). • L'8 settembre 1943 con l'armistizio il suo reggimento si arrese ai tedeschi, Pennacchia venne condotto ad Uroševac, in Serbia, in un campo di smistamento dove vi erano anche altri italiani (4) e da qui spedito verso Belgrado in treno. • Il 18 ottobre 1943 giunse nel campo di concentramento gestito dall'Organizzazione Todt18 nei pressi di Zemun, un sobborgo di Belgrado (5). Qui Pennacchia scelse la via della prigionia. • Il 25 ottobre 1943 arrivò nei pressi della città di Bor, nel campo Westfalen dove venne registrato, gli fu consegnata la piastrina metallica con il numero identificativo e fu usato come forza lavoro dall'Organizzazione Todt (6). • Nel 1944 rimase a lungo nel campo di Izvarica, presso Žagubica, nella zona centro-orientale della Serbia (7); questo lager, il 28 agosto 1944, venne occupato, per brevissimo tempo, dai Cetnici che poi lo rimisero nelle mani dei tedeschi. 127
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Da qui Pennacchia fu poi trasferito nel lager Dresden presso Zaječar (8). • Il 14 ottobre 1944, dopo la fuga dalle file tedesche, cadde nelle mani dei partigiani di Tito e dei loro collaboratori russi vicino alla città di Niš (9). Qui visse i momenti più tragici della sua prigionia, subendo frequenti maltrattamenti soprattutto da parte dei russi, memori dell'alleanza degli italiani con i tedeschi. Nel campo di concentramento rimase poco perché i titini preferivano impiegare i prigionieri presso i civili, piuttosto che sfamarli gratuitamente. • Sotto il controllo partigiano soggiornò ad Aleksinac (10), sistemato in alloggi di fortuna: presso le aule di un ginnasio o in una vecchia caserma russa oppure nel centro abitato della città in un vecchio caffè, stringendo amicizia con la gente locale: con Slobodan, un bambino serbo e Vladimir che faceva parte delle schiere partigiane ed era innamorato dell'Italia. • Il 31 marzo 1945 venne assegnato ad un civile serbo, Ilja Ristic, presso il quale lavorò come bracciante agricolo a Matevac, ma il lavoro agricolo non si confaceva alle attitudini di Pennacchia che il 3 aprile 1945 venne riassegnato al comando per lavori di disfacimento di un torrione e per lo sminamento del campo di aviazione di Niš. • Il 7 maggio 1945 apprese della capitolazione della Germania, ma nulla sapeva ancora della sua liberazione. • L'11 agosto 1946 inviò una lettera alla famiglia dal XX battaglione Ćuprija nella Serbia centro-orientale (11). • Il 29 novembre 1946 fece ritorno in patria presso il porto di Ancona.
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Biografia
Innocenzo Pennacchia nacque a Sonnino (LT) il 2 aprile 1919, da Francesco Pennacchia e Maria Musilli, una famiglia di origine contadina, che sacrificò i propri averi per pagargli gli studi presso il collegio dei Missionari del preziosissimo sangue ad Albano nel 1938, dove iniziò a studiare per prendere gli ordini sacerdotali. Successivamente si trasferì nel collegio di Alatri e poi di Veroli, dove per mantenersi agli studi svolse il ruolo di prefetto, aiutando gli alunni nelle attività scolastiche. Il 28 gennaio 1942 venne chiamato alle armi, all'età di 23 anni, dopo aver effettuato due rinvii militari per motivi di studio19; venne arruolato forse nella compagnia del genio pontieri20 e a giugno dello stesso anno partì per il Montenegro, dove rimase fino al giorno dell'armistizio. Conseguì il diploma magistrale mentre era di leva nel Montenegro, in seguito ad un periodo di licenza, dal 13 gennaio 1943 al 5 aprile 194321. Dopo l'8 settembre 1943 si arrese ai tedeschi con tutto il suo reggimento e da qui ebbe inizio la sua odissea come prigioniero. Dopo il rimpatrio nel 1946, divenne docente presso la scuola primaria di Sonnino. Nel 1947 si sposò con Italia Sacchetti da cui ebbe, l'11 giugno 1954, il figlio Tommaso Pennacchia. Fu incaricato della direzione del Centro di lettura di Sonnino dal provveditorato agli studi dal 1954 fino agli anni '70, quando si ritirò a vita privata. Nel 1962 in occasione della venuta a Sonnino della Radio-Squadra scrisse un'opera dialettale dal titolo "Alla fontana". Pubblicò nel 1993 una raccolta di poesie scritte durante gli anni di prigionia in Jugoslavia dal titolo "Fiori amari", per la quale ottenne un premio letterario. La sua ultima opera fu la raccolta di poesie "Sonnino a primavera", pubblicata nel 2003. Morì il 28 agosto 2008.
Note
Un sentito ringraziamento va a Tommaso Pennacchia, figlio di Innocenzo, che ha messo a disposizione tutto il materiale documentario e fotografico che il padre aveva gelosamente conservato; sono grata alla maestra Benedetta Fiorillo che ha reso possibile la scoperta di questo diario; inoltre la mia gratitudine va ad Enrico Dei Giudici che si è occupato della trascrizione integrale del diario. Infine ringrazio il prof. Donato Maraffino per i preziosi suggerimenti; 2 ROCHAT G., Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Einaudi, Trento 2008, p. 360. 3 AGA ROSSI E.– GIUSTI M.T., Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani (1940-1945), il Mulino, Bologna 2011, p. 9; 4 Su 65 divisioni disponibili in Italia nel 1941, la metà fu destinata ai Balcani, più di quante ne restarono in patria nel 1943 per fronteggiare gli anglo-americani e i tedeschi. ROCHAT G., op. cit., pp. 363, 364 tabella 45; 5 La regina Elena del Montenegro, figlia dell'ultimo sovrano del Montenegro, Nicola Petrović-Njegoš, aveva sposato il re Vittorio Emanuele III. AGA ROSSI E. – GIUSTI M.T., op. cit., p. 41; 6 RODOGNO D., Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 88 sgg; 7 DI SANTE C., Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952), Ombre corte, Verona 2007, p. 37; 8 I tedeschi già prima dell'8 settembre 1943 sospettavano un tradimento da parte italiana, infatti avevano occupato alcune zone del Montenegro, quali Podgorica, oltre ad aumentare il numero delle divisioni da otto a diciotto in vista di eventuali sbarchi angloamericani. AGA ROSSI E.– GIUSTI M.T., op. cit., pp. 89, 94 e 172; 9 Nota è la costituzione alla fine del 1943 della divisione italiana partigiana Garibaldi, nata dalla fusione della divisione Venezia e Taurinense, che combattè per diciotto mesi nei Balcani al fianco dei partigiani titini. Sui rapporti tra la divisione Garibaldi e le forze partigiane si veda EAEDEM, pp. 190-195; 10 Sull'ubicazione di questi campi si veda DI SANTE C., op. cit., pp. 54-55, 231 nota 2; 11 IDEM, pp. 59-61, il quale sottolinea che molte testimonianze furono soggette al vaglio dell'ufficio dello Stato Maggiore dell'Esercito e classificate in base alla loro attendibilità, risultarono comunque preziose per dimostrare gli abusi commessi dai partigiani e contrapporle alle accuse di crimini di guerra rivolte contro gli italiani; 12 Si stima che nel 1947 in Jugoslavia vi fossero ancora circa 16.000 reduci da rimpatriare. IDEM, pp. 84-87; 13 Voleva ottenere in cambio: la consegna dei responsabili dei crimini di guerra commessi in Jugoslavia; il rimpatrio dei reduci jugoslavi presenti nei campi di prigionia italiani e poi concludere l'annosa "questione di Trieste". IDEM, pp.140-143; 14 BALLARINI A. - SOBOLEVSKI M. (a cura di) Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (19391947) in Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Sussidi 12, 2002, pp. 209-210; 15 Così titolava il giornale L'Unità n. 281, 29 novembre 1946 "Al canto di "Bandiera rossa". Festoso arrivo dei 3.000 dalla Jugoslavia”. AGA ROSSI E.– GIUSTI M.T., op. cit, p. 598 nota 74; 16 A. NATTA, L'altra Resistenza. I militari italiani in Germania, Torino, Einaudi 1996; 17 DI SANTE C., op. cit., p. 223 nota 4; 18 Una grande impresa che si occupò, nella Germania nazista e nei paesi occupati dalla Wehrmacht, della costruzione di opere infrastrutturali (ponti, strade ecc.) e difensive come la Linea Gustav e la Linea Gotica, utilizzando anche i prigionieri di guerra nel lavoro coatto. http://www. it.m.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Todt; 19 Notizie tratte dal foglio matricolare; 20 Notizia avuta dal figlio di Pennacchia e documentata da alcune fotografie; 21 Dal foglio matricolare. 1
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IL DIARIO DI INNOCENZO PENNACCHIA22
Dalla chiamata alle armi 28-1-42 al giorno dell’imbarco 21-6-42
Mercoledì 28 gennaio 1942 Mi presento al Distretto Militare di Littoria. Nella mattinata equipaggiamento e consumazione del rancio. Nel pomeriggio nominato capo drappello, mi reco con una decina di compagni alla stazione per attendere il treno che giunge solo a tarda sera. Appoggiato al finestrino, guardo la luna che gioca tra gli alberi rincorrentisi in una pazza fuga. Un acuto fischio fende l'aria e rompe la quiete della notte richiamando la mia attenzione. Siamo alla stazione di Priverno Fossanova. Ma il treno non ferma e fugge rapido. Il mio occhio si posa sui cari monti illuminati dalla chiara luna, con il pensiero corro al paesello nascosto tra di essi e alle persone care, un nodo mi stringe la gola, ingoio una lacrima e mi abbandono sul sedile. Un secondo sibilo più prolungato echeggia e poi buio completo. Il treno ha già imboccato la lunga galleria di Montorso. Non riesco a chiudere occhio perché la mente è assorta in vari pensieri. Solo a Napoli, dopo aver cambiato treno, prendo sonno. Giovedì 29 gennaio 1942 Mi sveglio nelle vicinanze di Bari. Giunto alla stazione di Bari, in fila con i compagni, vengo condotto al deposito del “48º Regg.to Fanteria “Ferrara”. Dall'8 settembre 1943 data dell'Armistizio al 25 ottobre 1943 data della tremenda prigionia tedesca.
Mercoledì 8 settembre 1943 Pomeriggio: una compagnia di artisti Italiani ci dà il piacere di risentire canzoni e musiche nazionali. A sera: sensazionale, tremenda notizia: l’armistizio. Giovedì 9 settembre 1943 Commenti sul terribile evento. Sconforto e delusione sul volto di tutti. A sera mi viene ordinato di recarmi, armato ed equipaggiato, al carcere militare di guardia con il carissimo Sergio.
Venerdì 10 settembre 1943 Giunge a Budua23 l comando di un battaglione CC.NN. che provvede per il cambio alle carceri e verso le 13 smonto. A sera una banda di ribelli viene segnalata a qualche km dal posto di blocco di Budua. I nostri comandanti sono sconcertati e taciturni. Questi momenti di inattività pesano e sono più tremendi delle ore di fuoco infernale di una azione di guerra. Tristi previsioni. Agitazione continua, sconforto, caos24.
Domenica 12 settembre 1943 Partenza da Budua. Faticosissima salita verso Martinović. Non resisto al peso dello zaino e dò gran parte degli oggetti di corredo ad alcuni montenegrini di passaggio per alleggerire lo zaino. Il buon Cireneo Sergio il carissimo amico si carica del mio zaino. Sul castello di Martinović comunisti che cantano. Qualcuno ci saluta portando il pugno vicino alla fronte. Sosta per il rancio. Riprendiamo il cammino e verso sera siamo a Cettigne. Rizziamo le tende al chiar di luna.
22 La trascrizione integrale del diario si deve a Enrico Dei Giudici. Di seguito si riporta il diario nella sua totalità inserendo in nota i giorni poco significativi. 23 Sulla costa meridionale del Montenegro. 24 Sabato 11 settembre 1943: Montenegrini liberati, brucia una polveriera.
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Lunedì 13 settembre 1943 Partendo da Cettigne rivedo il caro Mario De Monte e Ricci insieme al quale ultimo faccio il viaggio in automezzo. In autocarro conosco un paesano: De Petris. A Cekanje si riprende la via a piedi. Sono visibili ancora copiosissime macchie di sangue sulla scala esterna d’una casina al margine della strada e tra grossi ciottoli della via e sull’erba vicina a un cespuglio. Qualche giorno prima uno spezzone micidiale lanciato da una cicogna tedesca ha fatto varie vittime tra i nostri soldati presidianti quell’altura. A Bukovika, sede del comando tattico del 48° Ftr, sosta per il rancio, Si riprende quindi il cammino e verso sera siamo a Njeguši. Entriamo in una bella villetta e la bella custode ci ospita con piacere perché - dice - siamo soldati della regina25 che nacque appunto in questa villetta. Martedì 14 settembre 1943 Dalle ore due dopo mezzanotte alle cinque e mezza del mattino sono di guardia. Durante l'ultima mezz'oretta, aerei tedeschi passano a bassa quota dirigendosi verso le creste dei monti circostanti la cittadina di Cattaro ed effettuano un forte bombardamento durato circa tre quarti d’ora. Presidiano Cattaro dalle alture di quella zona, i soldati della divisione “Emilia” che rispondono all’attacco. Nuovo breve spostamento e sistemazione in un piazzale adiacente la costruzione d’un acquedotto e tra le ombre d’un boschetto. Mercoledì 15 settembre 1943 Caos completo. Nostri automezzi in mano ai tedeschi scorazzano continuamente per tutto il giorno sempre carichi di materiali. Giorni tremendi, senza ideali, senza bandiera staccati dalla patria e da ogni affetto caro. A sera aerei tedeschi bombardano nuovamente Cattaro e le posizioni dell’”Emilia”.
Giovedì 16 settembre 1943 I tedeschi si sono impossessati di gran parte dei nostri posti di blocco ed automezzi e sono così quasi padroni del campo. Si dice che il Comandante il Gruppo Armate Est S.E. Gen. Rosi26 e S.E. Gen. Roncaglia27Comandante il XIV C.A. siano stati portati in Germania. Verso sera bombardamento e mitragliamento aereo tedesco sulla divisione Taurinense e su alcune formazioni di ribelli.
Venerdì 17 settembre 1943 Nella mattinata lunga colonna di mezzi corazzati tedeschi scende verso Cattaro. Pomeriggio: partenza alla volta di Cettigne28.
Domenica 19 settembre 1943 Viaggio nuovamente in automezzo fino a Podgorica. Attendamento sulla sponda sinistra del fiume nei pressi del posto di blocco.
Lunedì 20 settembre 1943 Pomeriggio partenza. Una donna montenegrina ci saluta e ci augura un buon viaggio e un felice ritorno in Patria tra le braccia della mamma. Anche lei attende il ritorno di un figlio deportato in Italia. In automezzo rivedo il lago di Scutari e la natura ribelle che lo contorna. A sera siamo a Scutari ove si vedono vari minareti e templi di musulmani.
Martedì 21 settembre 1943 Mercoledì 22 settembre 1943 In una grossa caserma di Scutari. Il cappellano distribuisce alcuni moduli per messaggi e scrivo tramite la Croce Rossa per dar notizia ai cari lontani. Si veda nota n. 5. Generale Ezio Rosi comandante del "Gruppo Armate Est, con sede a Tirana. DI SANTE C., op. cit., pp. 30-31. Generale Ercole Roncaglia comandante del XIV corpo d'armata. IDEM. 28 Sabato 18 settembre 1943: ripresa della marcia e sosta a Ricka. 25 26 27
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Innocenzo Pennacchia
Giovedì 23 settembre 1943 Da oggi inizia una serie di marce per raggiungere la ferrovia. Tredici tappe in tutto. La prima tappa, la odierna la facciamo a Vandes sul letto d'un fiume. Faccio il bagno e lavo alcuni capi di biancheria. Fin qui anche l'Albania presenta un rilievo quasi uguale a quello montenegrino29.
Lunedì 4 ottobre 1943 Marcia e sosta a Prizren. Lavori per le tende... Disarmo. Questo è il più brutto giorno per un soldato, giorno vituperevole, ma più che per il soldato per i comandanti. Abbiamo obbedito ciecamente, abbiamo effettuato questo ciclo di marce sempre ai loro ordini docili - secondo quanto ci avevano raccomandato - ma questa era la sorpresa che ci era riservata. Arrivare qui in perfetta disciplina per gettare le armi e sottomettersi ai tedeschi. A notte mentre sono di guardia piove.30
Venerdì 8 ottobre 1943 Santa messa celebrata in un'aula scolastica, pomeriggio partenza. A sera tarda si giunge a Uroševac ove c'è un grosso campo di smistamento e dove troviamo tanti altri italiani di tutti i vari corpi. Cielo pesantemente nero simile a una cappa di piombo. Lampeggia sinistramente. E’ freddo. Era questa una grande caserma nostra porta il nome di “Duca d’Aosta”. Si rizzano le tende all’oscuro.31
Martedì 12 ottobre 1943 Piccone badile per tutto il giorno. Un lavoro faticoso e senza tregua. Si accomoda allargandola e livellandola una strada interna all'accampamento e si fanno delle buche per i fusti di benzina. Razione ridotta: due gallette in tre. Parte il secondo Battaglione del mio 48° e la seconda e terza compagnia del 1°/48.32 Sabato 16 ottobre 1943 Da quando mi sono svegliato mi sono messo al finestrino. Località incontrate: Kosovska Mitrovica - Zvečan - Žitkovac - Slatina - Leposavić - Paska - Bojana - Mataruška Banja. Si sosta a notte.
Domenica 17 ottobre 1943 Ancora a Mataruška. Messa all'aperto alla quale partecipano anche borghesi nostri connazionali scesi anch'essi dal convoglio. Pomeriggio ripresa del viaggio. Stazioni КРАЉВО (Kraljevo): grande centro ferroviario e importante cittadina. Popolazione cordiale. Costumi molto fini non dissimili dai nostri. Si passa una grande galleria. Sopravviene la notte. La luna rossastra si erge dai monti - nostalgia, ricordi lontani. Dalle luci che risplendono per un'ampia distesa e da alcuni palazzi e monumenti visibili dal treno, penso si tratti di un altro grande centro.
Lunedì 18 ottobre 1943 Altre località: Kruscojevac - Mala - Ivanca . Lipe. Dedinja - Jorkder - Zemun In questa località si scende. Gli ufficiali no: si vocifera che proseguano diretti per la Germania. Inquadrati e scortati da elementi della Organizzazione Todt arriviamo a un grosso campo di concentramento circondato da alte torrette di vedetta. Il campo sorge proprio su una sponda del Danubio. Dirimpetto Belgrado la capitale. Tenda sulla sabbia. A notte alta vento impetuoso che innalza la sabbia, allarme notturno. Alle dipendenze dei soldati tedeschi non ci si poteva lamentare. Alle dipendenze della Todt la passeremo scomoda. Non sono soldati provati al fronte e a tutte le fatiche e 24 settembre-3 ottobre: Marce e soste in aperta campagna in Kossovo. 5-7 ottobre: arrivo a Suareka e a Sktemje. 9-10-11 ottobre: maltempo. 32 13-14-15 ottobre: riposo per malattia. 29 30 31
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i disagi della guerra e ciò basta. Non sono comprensivi come i soldati e poi basti dire che questi sono un'accozzaglia di tutte le nazionalità cechi, ungheresi, romeni, magiari e slavi.
Martedì 19 ottobre 1943 Smistamento. Il comandante del campo parla e poi invita un soldato austriaco a spiegare in italiano. Il soldato spallocca grossolanamente e ci fa capire quello che i tedeschi vogliono. Tre sono le vie: il concentramento, il volontariato al lavoro, il volontariato alla guerra. I volontari al lavoro e alla guerra vengono trattati come il soldato tedesco con tutte le spettanze e i diritti più hanno la libertà. Pochi scelgono per il volontariato al lavoro e quello della guerra la quasi totalità sceglie per la prigionia. Anch'io con alcuni sinceri amici opto per il campo di concentramento. Quelli che hanno aderito hanno già preso varie mansioni: scritturali, magazzinieri, eccetera eccetera, ci passano davanti - consigliati dai tedeschi - con belle pagnotte di pane, burro, marmellata e anche ben vestiti. Noi non si mangia ma anzi a mezzogiorno -senza rancio- veniamo inquadrati e condotti al lavoro. Vogliono piegare le nostre volontà ricorrendo al vile stratagemma della fame. Ma noi si resta fermi nella decisione presa tanto, anche aderendo, sempre dei traditori siamo considerati dal tedesco. Meglio essere prigionieri piuttosto che aderenti. Il tedesco noterà più coerenza e forza di carattere in noi che negli aderenti che si sono venduti per la pagnotta e per la vita comoda. Dal predellino di un tram fermo, una studentessa con altre amiche formanti un gruppo delizioso, con una minuscola fisarmonichetta a bocca suona: “Vieni con me o bella bimba bruna”. Quella musica nostra in terra straniera, quella bocca di fanciulla sorridente, solleva alquanto il mio spirito e mi porta un po' di profumo della terra lontana e un lembo del nostro cielo azzurro. Grazie bambina. Stazione ferroviaria di Belgrado - grosso e pesante badile. Addetti allo scarico di carri di carbone. A sera sono nero con un tizzo e ho la gola ingombra di nera polvere. Calli cinque mezza fine-Rancio: acqua fredda con qualche acino d'orzo un pane in cinque un po' di marmellata e un po' di grasso.
Mercoledì 20 ottobre 1943 Di nuovo alla stazione solito lavoro per tutto il giorno. Ore 16 al campo. Rancio: solita acqua. Adunata: appello. In baracca. Di nuovo appello. Non ti lasciano un momento in pace dopo il lavoro snervante della giornata. Perdo la pazienza e quasi la fede. Impreco e bestemmio33.
Venerdì 22 ottobre 1943 Mattinata lavoro. Adunata. Ordine di partenza. Per quale destinazione? Saluti, abbracci, distacchi da tanti cari amici. In treno. Ho l'impressione di tornare indietro. Località: Ripanj - Klenje - Ripanj Tunel - Ralja - Durinci - Glibovac Jagenjlj. Velika Plana - Markovac - Lapovo Varoš - Lapovo- Notte. Sosta. Si riparte verso l’una di notte. Prendo sonno34.
Domenica 24 ottobre 1943 Verso le nove partenza. Si attraversa una bella zona collinosa coltivata a vigneti e frutta. Nobiltà d'animo della popolazione: ci gettano grappoli d'uva ai finestrini e ci salutano sventolando il fazzoletto. Località: Granaia Pegoste - Audre Jevac. Anche in queste ultime località popolazione affabilissima. Ci aspettano alla stazione con ceste piene di mele, uva e pane fettato. Anche un prete è venuto con molta gente ad una di queste stazioni portando ogni ben di Dio. Buonissima impressione. Ne serberò sempre un caro ricordo. Altre località: Mali Zrvor - Grlian. Poi una grande stazione Za33 34
21 ottobre 1943: trasporto di pietre e adunata. 23 ottobre 1943: Fermi alla stazione ferroviaria.
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ječar. Si scende per il cambio -treno merci- più di 40 in un carro chiuso. Scendono le prime ombre della sera. Piccolo raggio di luce attraversa i ferri del finestrino. Mi rizzo coi piedi sullo zaino per giungere al finestrino e osservo. Un treno viaggiatori entra in stazione e ferma. Tra i tanti viaggiatori scende una fanciulla diciassettenne e spingendo l'occhio verso il finestrino incontra il mio sguardo, tra lo schermo dei ferri. Afferra il braccio d'un ferroviere che regge una lanterna e lo solleva per vedere meglio. Dice qualche parola che non capisco. Ci guardiamo e sorridiamo entrambi. Il suo occhio, pieno di sogno e di promessa, riluce d’un dolce e pio bagliore. Le domando -tra il serbo e l’italiano- se la sua è una sfacciata curiosità o pietà per chi soffre. “Pietà” risponde. “Io capire poco italiano” soggiunge “io studente. Venire in Italia finito guerra”. Un borghese che non ha afferrato il senso del nostro discorso domanda: “ti Italjanko?” Io rispondo affermativamente. Al che quegli estratto un pacchetto di sigarette, me ne porge una dicendo “oti puši” (tieni fuma). Mentre ringraziando accendo, la voce rabbiosa di una guardia ordina ai civili di allontanarsi e arrivato sotto al carro al mio indirizzo dice tante cose che non capisco poi col calcio del fucile batte contro il carro dicendo “sacramenti”. Italien fanfluch. La fanciulla con una mossettina sbarazzina della testolina ricciuta si volta a riguardare, saluta colla mano e si perde nell’ombra. Mi siedo sullo zaino. Russano i compagni di sventura. Qualcuno impreca al crudo tedesco che inumano non permette un po' di libertà per i bisogni più urgenti dell’organismo. Fetore. Poi silenzio fondo. Tento di stendermi, ma è impossibile. Resto col dorso poggiato alla parete del carro e i piedi li distendo pian piano tra la testa di uno e le spalle d’un altro. Dal finestrino vedo una stella fulgida tremolare. Penso alla realtà cui vado incontro, muore ogni illusione vagheggiata, la sigaretta si spegne e una profonda nostalgia mi pervade tutto. Penso al babbo, alla mamma, alla fanciulla amata, un nodo mi sale alla gola pensando alla triste via della prigionia. Triste oscuro viaggio. Arrivo a Bor. Lunga fila per il bagno e la disinfezione delle robe. Verso la mattina finalmente un po' di riposo.
Lunedì 25 ottobre1943 Pomeriggio partenza in automezzo. Viaggio tra montagne boscose e paurose. Nel tragitto si incontrano altri sventurati connazionali già rinchiusi in vari campi di concentramento. Tendono le mani verso di noi, domandano da quale fronte veniamo, di quale divisione siamo anche noi domandiamo, ma le domande si incrociano senza risposta. La colonna degli automezzi fugge. Finalmente dopo tanto salire si arriva. Grossi reticolati fiancheggiano la strada e si distendono a perdita d’occhio. “Lager Westfalen” c'è scritto su un cancello centrale. Scendiamo ed entriamo in quel recinto. Il sangue si gela, un brivido serpeggia per tutta la vita. Addio libertà… Una squadra di brutti ceffi armati si avanza ai nostri lati tutti portanti al braccio una fascia con la croce uncinata e la scritta "Organizatio Todt”. Appare il Lagerführer (comandante di campo) ci mettono in fila per quattro e ricomincia la conta. Poi uno per uno si passa in una baracchetta che costituisce l'ufficio, a dare le proprie generalità. Vieni il mio turno. Entro. C’è dentro un ingegnere allampanato con gli occhiali, rozzo, e al tavolo lo scritturale lo riconosco, è un caro compagno della CC di reggimento è Cammillo Vittorio Studente. Ci salutiamo riponendo a poi le confidenze. Mi viene dato un piastrino di ferro, con l'incisione O.T. n. 02365. È questo il mio nome nuovo, sono stato ribattezzato. Questo piastrino porta la stessa scritta ripetuta due volte e la ragione é questa: Il piastrino deve venir spezzato: Il primo prezzo va cucito sui nostri indumenti e l’altro va inchiodato al posto ove si dorme. Entro in baracca e mi sistemo vicino a Sergio, Baracchetti, Ricci. Conoscenza con altri del 48º Serg. Magg. Car135
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damone Sante. Niente ufficiali, solo graduati e sottufficiali sono con noi. Un maresciallo dei Carabinieri, uno della Marina, il maresciallo con tutta la banda reggimentale del 48º. I sottufficiali non dovrebbero lavorare. Alcuni si sono attaccati al braccio i gradi da sergente per poter rientrare nel numero dei beneficiati. Il campo sorge su una collinetta che nella parte più alta ha una baracchetta coperta con una buca profonda delle dimensioni della larghezza e lunghezza della baracca sulla cui buca il pavimento con 4 scompartimenti porta vari fori e funziona da gabinetto. Scendendo più in giù due grosse baracche con più di 500 posti l’una per dormire. Viene poi la baracca adibita ad ufficio, quella del comandante e delle guardie e più in sotto un’altra adibita a cucina con gli sportelli per la distribuzione. L'acqua è a un paio di 100 metri fuori dal reticolato, giù in basso in un piccolo fossato tra la nostra collinetta e la montagna adiacente: un solo piccolo rubinetto. Vengono formati due gruppi di lavoratori alle dipendenze di due ditte. Io invece provvisoriamente vengo assegnato nel numero dei 150 uomini disponibili per il Lager e il compito è quello di pulire, portare legna in cucina, spaccar legna troncare i grossi alberi del bosco per fornire continuamente nuova legna. A notte stanco riposo e sogno. Dal 28 agosto 1944 - occupazione del Lager Izvarica da parte dei Cetnici a venerdì 10 novembre 1944
Lunedì 28 agosto 1944 Circa mezza giornata di lavoro. Pomeriggio elementi del partito Cetnico entrano nel comando tedesco del campo. Disarmano e derubano il maresciallo comandante il campo e il maresciallo comandante i lavori. Gli assistenti vengono pure essi disarmati. Grande sorpresa e disorientamento in tutti. Mille strane supposizioni si fanno nel campo, commentando l'accaduto. Verso sera qualche camionetta militare passa per il paese con sopra tre o quattro ceffi con una lunga barba e capelli alla Nazarena, con equipaggiamento americano.
Martedì 29 agosto 1944 Primo giorno senza lavoro. Bordello, caos. Circolano migliaia di radio-scarpa che comunicano le più importanti notizie. Ore dodici i cetnici con un automezzo tedesco portano via tutti i tedeschi che hanno disarmato nel campo. In tal modo rimaniamo in balia dei liberatori. Si vocifera che tutti i campi di prigionia da Žagubica a Petrovac sono stati allo stesso modo liberati. Ma l'entusiasmo dura poco. Verso le sedici torna lo stesso autocarro con tre cetnici in cabina e il Lagerführer tedesco il quale con voce ancora autorevole disse: italiani! Zaino e pronti per Žagubica. Ci guardiamo in faccia trasecolati ma eseguiamo l'ordine. Affardellati dei nostri stracci muoviamo alla volta di Žagubica ove giungiamo a sera tarda, chi zoppo, chi lontano isolato per il cammino. Ma ecco venirci incontro come belve una squadra di tedeschi col calcio del fucile "Los Los fanfluc”. Il cappellano ci avverte di essere docili e che l'indomani si parte per Bor. Notte nel campo di Žagubica. Momenti terribili e incerti inspiegabile situazione.
Mercoledì 30 agosto 1944 I cetnici più non si vedono. Siamo di nuovo sotto i tedeschi. Di prima mattina marcia verso Bor. Faticosissima ascesa. Passiamo di nuovo dinanzi al primo campo di concentramento il Westfalen. Sergente Cardamone Sante da buon Cireneo mi aiuta nel trasporto dello zaino. Tappa al Lager Bayer ove ritiriamo altri italiani. Ci attendono fuori dai reticolati.
Giovedì 31 agosto 1944 Appena chiaro siamo già in marcia. Attraversiamo una zona orrenda, boscosissima e perciò pericolosa e piena di agguati. Ad un certo punto una scarica 136
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di fucileria ci sorprende a più lati. I proiettili si incrociano sulla strada fischiando rabbiosamente. Sbandamento generale. Hanno sparato non per noi ma per colpire il tedesco che abbiamo al lato. Passiamo davanti a qualche lager già abbandonato e deserto, e arriviamo finalmente a Bor città industriale ricca di miniere, ove tanti nostri fratelli gettano sangue sino a 900 metri sottoterra35.
2 - 3 - 4 settembre 1944 Giorni tutti uguali. Mi portano lontano a lavorare, e al rientro un po' di acqua calda, se basta per tutti e niente più. La fame, che brutta cosa! I primi si accalcano vicino alla porta della baracca per arrivare primi agli sportelli della distribuzione, ma oh! che orrendo spettacolo! succede un parapiglia, si azzuffano, le gavette volano, si tirano pugni e calci, si gettano il brodo addosso mentre le sentinelle tirano calci e bastonate per riportare l’ordine. Ne escono fuori malconci contusi e in tre, o quattro senza più le gavette che si sono smarrite o malconciate dal vergognoso bordello36.
Domenica 10 settembre 1944 Senza pane. Siamo bloccati. Si dice che i tedeschi sono stati cacciati da Zaječar e quindi i grandi magazzini di viveri sono nelle mani degli occupanti che portano il tutto in montagna. Quelli che escono al lavoro, stanno livellando, spianando ed allargando il terreno di un campo aereo di fortuna nelle vicinanze. A sera trimotori e qualche cicogna. Notte calma.
Lunedì 11 settembre 1944 Arrivi e partenze di aerei. Giorno vuoto insignificante. Vento verso sera. Per la moltitudine stragrande dei prigionieri e anche perché dal fronte sono arrivati molti feriti tedeschi, abbiamo dovuto sloggiare per lasciare le baracche a disposizioni di quest’ultimi. Dormiamo all'aperto, fuori del campo addossati al reticolato. Verso mezzanotte sono svegliato da una pioggia leggera. Ci carichiamo gli stracci sulle spalle colla speranza di cercar rifugio nelle baracche all'interno. Ma siamo respinti da una guardia. Non ci eravamo ancora distesi che una nuova ondata di pioggia ci sovrasta e questa volta non scherza. Un baccano indiavolato. Una corsa di stracciaroli, chi scalzi, chi con gli zoccoli a tracollo, chi borbotta, chi bestemmia, chi impreca ai responsabili della guerra, chi strilla furibondo per aver battuto contro la testa di un compagno più dura della sua. Anch'io ho aggiunto a queste voci la mia per aver nella pazza corsa perduto uno zoccolo in mezzo al fango. A volte simili situazioni hanno del comico e ti costringerebbero a ridere a crepapelle, se non ti distogliessero da tal proposito l'aspetto tragico e le sofferenze che sono scritte nel volto e nei lineamenti di tutti. In baracca: oscurità, tormento dei cimici. Aspetto impaziente le prime luci del giorno37.
Mercoledì 13 settembre 1944 Tutti i giorni così. Levata a primissima ora. Si passa in fila per acquistare al cancello un biglietto (tessera annonaria) quindi si entra nel campo e di nuovo in fila in attesa della distribuzione di quel po' di caldo, noiosissima che si protrae fino verso le 10 ore. Alle 11 di nuovo fila che termina dopo un tre ore. E così altrettanto verso la sera. Quando finirà questo strazio della fila delle spinte e gomitate? Questa sera, a causa della pioggia, parecchi han fatto pressioni per entrare a ripararsi ma il comandante, fatto un cenno a due guardie, li fa bastonare barbaramente.
Giovedì 14 settembre 1944 Preoccupazione unica di questa quindicina ultima è l’assillante pensiero del vivere. La fame è tanta, il vitto limitatissimo: un quarto della razione giornaliera di una volta costituisce oggi tutto l'alimento. Si patisce. 35 36 37
1 settembre 1944: rivede gli amici. 5 settembre 1944: riposo fino al 9 settembre. 12 settembre 1944: pioggia, in fila per un po' di acqua.
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I giorni scorrono sempre più tristi. A notte avanzata razzi luminosi lanciati da un aereo38.
Lunedì 18 settembre 1944 Verso sera parte un contingente di uomini. Perdo Cardamone - Di Stefano - Lapacciano ed altri carissimi coi quali abbiamo condiviso le sofferenze e il pane39. Mercoledì 20 settembre 1944 Anch'io sono nel numero d'un nuovo contingente in partenza. Saluto Sergio e Mario. Sono in compagnia di Menguccio Veltri l'unico amico rimastomi. Lunga attesa fuori del reticolato. Rancio. Pane. Notte al Lager Brünn.
Giovedì 21 settembre 1944 Di nuovo al Lager Dresden fuori dal reticolato allo stesso posto di ieri. Il sergente Pacieri -cuoco- mi passa una gavetta piena. Ringrazio e saluto. La sbafiamo insieme con Menguccio. Alla stazione. Nove e mezza partenza. Col treno si passa nuovamente davanti al Dresden. Salutiamo tutti i compagni aggrappati ai reticolati, e poi di corsa finché perdiamo di vista gli ultimi fumaioli della cittadina industriale di Bor. Fermata a Metovnica. Alla stazione di Zvezdan situata nella gola di due monti boscosi un aereo bombarda. Scendiamo tutti: macchinista, tedeschi compresi e ci gettiamo sotto gli alberi circostanti, col cuore alla gola. Nel pomeriggio siamo a Zaječar, Desolazione, tremendo abbandono, case malconce, porte scardinate, finestre sgangherate e senza vetri non si vede un'anima viva. Pare il paese della paura. Notte movimentata. Sparatorie a varie riprese macchine in movimento. Pane, salame, sigarette.
Martedì 26 settembre 1944 Facciamo postazioni tra le piante di granoturco su una collina. Il lavoro non è troppo pesante ma per me non troppo avvezzo, debole e deperito e denutrito è molto. Sento dolori per tutta la vita e una grande fiacchezza specie perché pioviggina sino al mezzodì. Verso l'una pioggia a dirotta che abbiamo parata tra le imprecazioni per più di tre ore. Nella notte si verificano alcune evasioni.
Giovedì 28 settembre 1944 Lavo gli stracci e mi faccio un mezzo bagno. Continuo passaggio di salmerie e automezzi. Delle salmerie sono addetti nostri compagni che erano al Dresden che, secondo quanto ci riferiscono passando, sono stati obbligati dai tedeschi a farlo. Aerei bulgari scorrazzano continuamente. Nella notte piove. Evasione in massa (diciamo così)
Venerdì 29 settembre 1944 Per queste continue evasioni dobbiamo subire varie adunate nella giornata per essere contati non solo ma non ci danno le sigarette per rappresaglia e restringono i freni. Piove con ritmo uguale come una giornata d'inverno. Ho tre giorni di servizio interno. Verso sera vengono sparati più di una decina di colpi verso la parte nord del campo. Nella notte mi sveglio di soprassalto per lo scoppio di una bomba a mano e alcune raffiche di mitraglia. Qualche ferito portato da due soldati, poi più niente. Calma è la notte si sente solo lo scrosciare continuo della pioggia che cade ininterrottamente per tutta la notte.
Sabato 30 settembre 1944 Ancora servizio interno. Verso le 10 ore adunata. Qualche oretta dopo, mentre ero nella mia baracca, sento grida che paiono urli di bestie e latrati di 38 39
15-17 settembre 1944: pioggia. Niente pane. Durante la messa fa la comunione. 19 settembre 1944: nuova partenza.
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cani arrabbiati misti a grida di dolore. Solo più tardi vengo a sapere che i tedeschi hanno bastonato in un modo inumano alcuni nostri compagni che si erano rifiutati di fare un lavoretto adducendo come ragione di essere malati. Dio ce ne guardi dalla rabbia tedesca! Ricordo che al lager di Dresden, per quale ragione mi sfugge, fecero spogliare due italiani e due guardie con due grossi bastoni regalarono sul sedere dei due malcapitati ben 25 bastonate e poi dovettero ricoverarli all'ospedale più morti che vivi. Le voci strazianti che tra le bastonate invocavano “mamma” avrebbero intenerito anche i macigni più duri e quei due ceffi niente. Barbari! Cani! Strada deserta. Niente colonne oggi40.
Lunedì 2 ottobre 1944 Sulle prime ore del mattino fitta nebbia poi il cielo pare promettere bene. Cogli attrezzi di lavoro in spalla, moviamo. Una colonna di uomini e quadrupedi imponente è ferma sulla strada, mentre automezzi sfilano in direzione opposta. Lavoro ora col picco ora col badile ma si fatica tanto perché la terra è zuppa di acqua e si attacca al badile. Verso sera finiamo il cottimo che è stato preso per fare grandi trincee per la protezione stradale. Ancora autocolonna ritorna in giù. Si nota un po' di disorientamento nei tedeschi che si fanno più taciturni consci della loro fine. Ecco perché pure varie volte si comportano come belve nei nostri riguardi. Poveretti. Noi siamo all'oscuro di tante cose, ma loro no e il continuo andirivieni delle colonne li innervosisce. Mai ordini precisi. Ordini e contrordini si succedono continuamente. Mangio granturco abbrustolito. Rancio: caffè. Oggi ci danno anche i viveri per domani: burro, salame, due sigarette, pane. Oggi il cannone non sosta. Verso sera aerei.
Martedì 3 ottobre 1944 Apro gli occhi al rumore di fuoco lontano. Piove, cessa, riattacca ancora dopo il rancio. Cielo plumbeo e pesante, poi nebbia bassa. Piove poi si dirada. Un fischio e una voce rabbiosa rintrona nella camerata “Los los arbeiten”. Pioggerella. Sul lavoro il cielo si fa più buio e poi giù acqua. Il bagno è fatto. Con tutto ciò il comandante ci tiene impalati e non accenna a volerci far rientrare anzi con alta voce e con il calcio del fucile minaccia tremendamente. È questo il triste destino del prigioniero: tra gli stenti, sofferenze malvestito, scalzo, in mezzo al fango e sotto una pioggia torrenziale costretto a lavorare. Ahi! Pazienza di Giobbe! Non sempre si riesce ad averla ed a fermarsi. La rassegnazione il più delle volte degenera in furia rabbiosa e in imprecazioni contro il crudele oppressore che ha un sasso al posto del cuore. Sospiri e intenso pianto. Sarà ancora lontana la vetta del nostro calvario la cui ascesa iniziò or fa un anno preciso? Una macchina si ferma. Ritorna alla caserma. Sereno, sole forte da spaccare le pietre. Verso il mezzodì nuvolo ancora. Adunata e al lavoro. Passano tante carrette trainate da muli e cavalli di ogni razza. Gli uomini addetti sono tutti italiani in maggioranza. Il cielo ci regala un secondo bagno. Quella colonna di uomini e carrette ripassa indietro. Bagnato fradicio prendo il rancio e stanco mi addormento41. Giovedì 5 ottobre 1944 Bel tempo, sole gagliardo. Va al lavoro dapprima una compagnia, più tardi un’altra. Vendo la macchinetta e tutti gli attrezzi per la barba, tanto sono senza lamette ed ho una barba da far paura. Ci fanno spostare verso il vicino paese e pare si esercitino a fare i tiri. Noi ai margini di una strada alberata nell'interno della cittadina di КЊАЗЕВЦ42sul marciapiedi sinistro. Qualche aereo. Atti di umana prodigalità da parte della popolazione. Ho anch'io un tozzo di pane. Compro due pagnotte e ne consumo una. Pietà d'una donna. Di nuovo al campo. Ordine di approntar tutto per la partenza. Attesa 40 41 42
1 ottobre 1944: pulizia della baracca. 4 ottobre 1944: anniversario del funesto disarmo. Città di Knjaževac.
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in fila. Due si son fatti volontari all'ultimo momento. Per questa ragione ci fanno fare “zaino a terra”. Rivista del corredo. Mi viene tolta una camicia di flanella che avevo cercato di conservare in buono stato e la giubba che pure per la cura da me tenuta è senza uno strappo. La camicia l'ha indossata uno dei due e la giubba mi viene restituita perché molto stretta per quei due rinnegati. Anche ad altri vengono sottratti capi di robe. Dopo un anno di stenti e di duri sacrifici, invece di ricevere qualcosa per ricoprirci, la grande Germania ce lo toglie, ci spoglia di quel po' di meglio che si è cercato di conservare in previsione di momenti peggiori e lo passa a quei due disgraziati che hanno tutto venduto per sfamarsi e riempire la loro ingorda èpa43 insaziabile. Giorno scolpito a grossi caratteri nel mio cuore il cui ricordo rimane indelebile per la vita. Sfiliamo per la città, stanchi, laceri e colla barba incolta. Si legge nel volto di chi ci guarda una visibile pietà. Qualche donna piange. La nostra figura e i lineamenti patiti diranno alla donna il tragico stato di qualche figlio deportato lontano. Notte nelle aule d’un grosso edificio scolastico44.
Sabato 7 ottobre 1944 Partono tutti gli elementi della Todt e regalano una ventina di pagnotte. Che parapiglia sempre sfortunato! Arrivo troppo tardi. In mezzo a questa confusione prendono un contingente di uomini e io me la squaglio. Ma ad una seconda retata vengo preso e condotto a far postazioni su una collina posteriore al paese. Nebbia fittissima e bassa. Fucilate distanziate ma ininterrotte per tutta la mattinata. Verso le 11 si dirada la nebbia. Autocolonna direzione Niš. Poco dopo ritorna. Aerei. Colpi di artiglieria e mortaio, dapprima radi e poi più frequenti. Ci concedono un po' di riposo all'ombra di un albero e per la fame e stanchezza prendo sonno. Ma dura poco. I colpi si sono intensificati e provengono da varie direzioni. Alcuni si sono fatti molto più vicini. Di tanto in tanto siamo costretti a gettarci nelle buche pancia a terra. Invoco spesso la Misericordia Divina e mi pongo interamente nelle mani del Dio Provvido e Buono. Ma la sparatoria intensifica, le mitraglie cantano si vedono bombe di mortaio esplodere a poca distanza, una centra in pieno una casa vicino al comando. Anche i tedeschi ormai rispondono. Il fuoco si incrocia e le armi di ogni calibro sono entrate in azione. Ci gettiamo di corsa nella vallata, costeggiamo il fiume, attraversiamo un ponte col cuore alla gola ed entriamo nella città. Deserto due armati, maschera ed elmetto scorazzano per il corso con una macchina. I civili sono tutti spariti. Rientriamo tra gli altri. Aerei. Si prevede un attacco decisivo. Sarà sull'imbrunire? Durante la notte o nelle prime ore del mattino?
Domenica 8 ottobre 1944 Niente di tutto questo. La notte fu calma, soltanto tristi sogni mi turbarono nella notte e mi fanno prevedere e congetturare avvenimenti poco piacevoli. Solo la preghiera mi solleva in questi duri momenti. I tedeschi fanno varie adunate, ma noi non si vuole uscire neppure per il rancio perché sappiamo che ci prendono e ci portano a lavorare in momenti così terribili, proprio in linea con loro. Ma essi hanno almeno il fucile che li incoraggia, noi poveri inermi stringiamo solo un attrezzo di lavoro che non può far paura non solo, ma non ha la potenza di offendere a distanza. Stufi di entrare e di uscire per le aule per tirar fuori gli uomini - pensare che dopo tanto affaticarsi sono riusciti a radunarne in cortile una ottantina - entrano tutti infuriati e col calcio del fucile e con malo modo fanno il giro di tutte le aule e gridando forte " Los Los " ci radunano tutti in un cortile e stanno formando delle compagnie di 100 uomini l’una, quand’ecco 15 caccia su nel cielo portano il panico e il cortile resta deserto mentre la contraerea entra in azione. Cessato appena il fuoco vengo preso nel numero dei 200 uomini prescelti a formare due compagnie. Si dice che queste due compagnie ci tocchi restare con loro, mentre gli altri verranno avviati alla volta di Niš. C’è chi dice l'ipotesi opposta. Non si 43 44
Pancia. 6 ottobre 1944: su una collina a fare postazioni.
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capisce più nulla. Verso l'ora del rancio grossi colpi di artiglieria cadono nella cerchia della città con rabbia infernale. Mai come questi giorni ho sentito il bisogno di pregare.
Lunedì 9 ottobre 1944 Adunata prima compagnia lavoratori. Ci sono anch'io. Attrezzo: una scure. Con tutti i nostri attrezzi di lavoro ci fanno abbattere il granoturco con una tale velocità che pare ci abbiano dato il cottimo. Al di là e al di qua del fiume abbattiamo gli alti pioppi. Ci spingiamo verso il muro che cinge la città e che serve come linea al tedesco. Si rivede lontana nella campagna la caserma ove fummo per vari giorni. Vicino a questo muro vari soldati dormono stanchi in varie pose profondamente, mentre all’erta a poca distanza gli uni dagli altri dietro il lungo muro vi sono le sentinelle. Ci fanno oltrepassare quel muro passando sotto un piccolo tunnel scavato da altri nostri compagni e ci mandano al di là a gettare a terra tutto il granturco antistante che impediva la vista. Intanto giungono colpi di fucile alla stanca da varie direzioni. Qualche aereo passa ad altissima quota. Ci fanno tagliare tutto ciò che ingombra compresi dei cespugli sparsi qua e là. Poi ci ordinano di prendere i tronchi dei pioppi e formiamo una baracchetta lunga e comoda che deve servire per quelli che riposano dopo il servizio di linea. Questa baracchetta è sotto l'ombra degli alberi e ce la fanno ricoprire di fusti di granoturco e poi per arginare la caduta della terra ci fanno mettere i tronchi dei pioppi alla volta e alle pareti del breve tunnel. Ogni tanto colpi di mortaio e di artiglieria sempre più vicini. Sentinella e prigioniero su una stessa linea la prima armata, il secondo coll'attrezzo di lavoro. Alle tre siamo all'edificio scolastico dove tutti gli altri sono già pronti per partire. Zaino ispalla anche noi partenza. Siamo sulla strada che porta a Niš. I colpi d'artiglieria più frequenti cadono nella città che abbiamo alle spalle. Poi breve silenzio che fa presentire qualcosa di tragico. Alcuni proiettili di fucile passano sulle nostre teste e fischiano paurosamente. Ci gettiamo ai margini della strada ma i tedeschi ci rimettono in colonna e via. Sulle creste un colpo di artiglieria parte in direzione della città e si sprofonda tra l'abitato. È il segnale dell'attacco. I tedeschi rispondono. Il fuoco si incrocia. Le mitraglie cantano senza posa e i pezzi di artiglieria vomitano dalle loro canne in continuità. Le prime ombre sono discese e mentre facciamo la faticosa salita si può osservare quel pauroso spettacolo di fuoco infernale ingaggiatosi alle nostre spalle. Si vedono i proiettili segnare scie luminose in entrambi le direzioni e sentiamo lo schianto orrendo e spaventoso che i colpi di artiglieria tedesca indirizza senza posa su quella quota attaccante che cozzano e si infrangono rabbiosi contro le rocce generando fiammate sinistre. Che musica infernale! Faticosissima ascesa. I piedi mi sanguinano. Strada in alcuni punti minata. Un’autocolonna ferma sulla strada. Alcuni comandanti osservano col binocolo. Ad ogni sosta, mi abbandono colla schiena sullo zaino senza togliermelo e tale è la stanchezza che prendo sonno. Prendo in mano il rosario e prego, quando si riprende il cammino. Mezzanotte nebbia, vento gelato. Siamo alti. Quasi ad ogni fermata, favoriti dalle tenebre, parecchi scivolando ai margini della strada, si gettano per la china in cerca di libertà. Anch'io propongo tra un momento e l'altro di abbandonare la colonna se non voglio fare la morte del topo col tedesco padrone solo della rotabile, con ogni via di scampo preclusa e il fuoco da ogni parte. Sul far del giorno arriviamo in un paese e dormo sui tappeti di una casa civile ove noto una biblioteca e tra i libri trovo con piacere il "Cuore" di De Amicis tradotto in serbo. Siamo a 26 km da Knjaževac. Sono contento di aver reso l'ultimo servizio a quei poveri tedeschi nella mattinata lavorando in linea. Che sarà ora di loro? Sono in prima linea. Saranno massacrati di già. Lo sapevano però che erano destinati alla morte e dovevano arginare l'avanzata, per proteggere le nostre spalle.
Martedì 10 ottobre 1944 Ho dormito sino al mezzodì che la stanchezza mi opprime. Compro una pagnotta. Cinque aerei sorvolano il cielo, tedeschi provenienti da Niš. È quasi sera. Si dovrebbe partire domani. Mi accingo a mangiare, ma c'è ordine di adunata. È già 141
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calato il sole. Partenza verso Niš 29 Km marcia sempre di corsa faticosissima. Non mi reggo più. Nella notte sono tentato di scappare ma me ne manca la lena e le circostanze favorevoli. I piedi quasi mi sanguinano, mi viene voglia di piangere mi pare di impazzire ma poi chiedo perdono e aiuto al Martire del Golgota e forza per sopportare. Gli occhi stanchi mi si chiudono e ad ogni tappa cado addormentato. Ma si vedono al fine le prime luci. Siamo alla periferia di Niš città pure importante. Sul far del giorno siamo alle caserme tedesche, ci sdraiamo all'aperto e dormiamo45.
Giovedì 12 ottobre 1944 Quattro pomeridiane, veniamo incolonnati e mandati fuori di città sulla Niš - Belgrado. Nella mattinata sono passati tanti automezzi, salmerie e uomini e verso mezzogiorno sono ripassate per altra direzione. Si dice che i tedeschi stiano cercando di aprirsi un varco per uscire dalla Serbia. Hanno tentato verso la Macedonia per ricongiungersi così colle truppe dislocate in Grecia, ma hanno trovato sbarrata la strada. Hanno tentato raggiungere la Croazia, ma altrettanto colla Bulgaria sono in rotta, ormai. Tutte le strade sono precluse. Ora pare vogliano tentare di raggiungere Belgrado. Lunga attesa sui margini della strada. Sfilano intanto macchine, pezzi di artiglieria, carrette, salmerie, e carri trainati da buoi condotti dai contadini serbi. Al lato sinistro e destro della strada, sempre allargandosi a forma di V, si stendono due lunghi bracci di ferrovia sui quali innumerevoli carri merci carichi di materiali sono pronti per voltare. Siamo zuppi d'acqua come pulcini e diguazziamo nel fango. Nebbia bassa e pioggia ininterrotta. Verso le nove dopo che tutta la colonna è passata ci fanno accodare ad essa. Incominciano le detonazioni una dopo l'altra al di qua e aldilà della rotabile seguite da grosse fiammate. Sono i carri che saltano per aria mentre tutto il materiale brucia tra un denso fumo rossastro. Ad una svolta guardo indietro: si vede Niš in lontananza avvolta in una fitta nebbia e tra quel fumo e quelle fiamme d'inferno. Che visione tetra e raccapricciante e che sensazione lascia nel cuore di chi riguarda. Svoltiamo, la pioggia cade più forte. Buio pesto. Ogni tanto si odono ancora le esplosioni. Per la pioggia torrenziale ci fermiamo, forse una ventina in una casa sperduta, mi getto su una mangiatoia sul fieno. Ci sono muli e un cavallo e buoi.
Venerdì 13 ottobre 1944 Mi sveglio molto tardi. Mi ritrovo nella stessa posizione della notte. Sono ancora fracido d'acqua. Sento dai compagni che il grosso della colonna di italiani prigionieri ha fatto ritorno a Niš durante le prime ore del mattino. Esco un po' al cancello e vedo di tanto in tanto passare qualche automezzo tedesco carico di soldati che tornano a Niš. Ci guardano ma non hanno più quella boria di prima. Poveri anch'essi, forse invidiano la nostra sorte. Si nota disorganizzazione e disorientamento nei tedeschi. La situazione è grave hanno trovato ostruito il passaggio anche per Belgrado. Ora li vediamo disfarsi di tutto. Ci incamminiamo anche noi verso Niš e nelle cunette delle strade vediamo, tubetti di dentifricio, spazzolini, pettini, cofani con lettere ben lucidate, scatole piene di tabacco, pacchetti di sigarette, vestiario in buono stato, scarpe, stivali appena usati teli da tenda, latte per benzina, fotografie in pezzi. Si capisce. Come gli accattoni raccogliamo qualcosa che ci può essere utile. Io raccolgo un giubbetto di tela cerata bello con chiusura lampo. Ma ecco nelle vicinanze di Niš ci imbattiamo nella autocolonna ferma che si sta riorganizzando. “Alò raus italien, los los arbeiten”. A quella voce imperiosa ci accostiamo. Ci fanno caricare varie lattine di benzina e altro materiale poi tutto il superfluo lo spezzano e cosparsa una buona dose di 45
11 ottobre 1944: sistemazione di una baracca.
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benzina lo bruciano. L'autocolonna si muove i soldati nelle macchine tengono la testa nelle mani, tutti pensierosi consci forse della situazione grave, dell'ora tragica che pesa sullo loro capo. Sanno di essere in trappola come il topo e forse tentano di sfondare verso la Macedonia a giudicare dalla direzione ove muovono. Rivedo i carri sulle rotaie rovesciati ancora fumanti. Quanto materiale! Maledetta guerra Niš è tutta piena di tedeschi ancora. Anziché passare il fiume al seguito della colonna, decidiamo (siamo una trentina) di aspettare la notte e l'indomani si penserà sul da farsi. Serata agitata. Ancora esplosioni continue. Spesso nell'interno della città si ode sparare. L'autocolonna ormai è tutta passata. Sono rimasti solo uomini appiedati per eseguire le ultime consegne: far saltare tutto e poi porsi in salvo se possibile. Sull'esempio dei civili sul far della sera ci rechiamo tutti a un magazzino viveri tedesco e portiamo via pane, gallette, biscotti e scatolame di vario genere ed ogni ben di Dio e il tutto lo trasportiamo in una casina sulla destra a una cinquantina di metri da un grosso ponte in ferro sul fiume. Mangiamo e ci sdraiamo per non essere visti e presi dai tedeschi rimasti. Ancora altre detonazioni poi più nulla. Solo si sente un ordine secco e perentorio “Alò allea los los”. Il cuore mi batte come per uscire dalla gola, e mi rannicchio ancora più sotto pregando fervidamente e con me i compagni di sventura. E’ da notare che la nostra paura è data da questo fatto: le finestre scardinate e senza vetri sono bassissime e se un soldato dal di fuori passasse sul marciapiede potrebbe vederci non solo, ma allungando il braccio potrebbe toccarci. Ma niente paura. I tedeschi pensano anch'essi alla pelle. Si sente infatti un'intera compagnia di uomini passare a passo cadenzato, poi silenzio. Ma non sono scorsi cinque minuti che una fortissima detonazione ci fa saltare tutti a sedere. Poi un crepitar sulle tegole e pezzi di calcinaccio sulla testa. È il ponte che i tedeschi, dopo passati, han fatto saltare. Silenzio profondo; notte calma.
Sabato 14 ottobre 1944 La mattina si vede il corpo del tedesco che ha fatto saltare il ponte. Pensiamo che i tedeschi di qua non tornino più ormai, però ci stiamo rintanati ancora aspettando il momento propizio per presentarci ai liberatori. Verso le 10 di mattina, forte detonazione ci costringe a correre in un sotterraneo. È l'altro ponte che salta, ci dice un bambino della vicina casa. Facciamo per uscire e invece quella detonazione è stata come un segnale, la scintilla del fuoco. Colpi di mortaio, di artiglieria, di cannone, raffiche di mitraglia e fucilate nell'interno della città. Anche dall'interno si sente rispondere in continuità ma gli attaccanti sparano e fanno fuoco da ogni direzione. Ecco pure gli aerei che girano sulla città e riempiono l’aria del loro rombo pauroso e sganciano bombe senza pietà. Insomma una bufera di fuoco spaventoso. La sparatoria nell’interno dell’abitato si fa sempre più intensa e vicinissima e verso le 12 nell’imboccatura del sotterraneo due armati: uno russo e un partigiano di Tito tengono impugnato un fucile con un rotolo a tamburo. Noi gialli e tremanti leviamo in alto le braccia e gridiamo: “Italiani zarobljenici ”46. Uno di loro allora abbassato il fucile grida con una voce cavernosa “Napolje, napolje” (significa: se siete italiani prigionieri fuori). Usciamo. Il russo cercava armi: “Pistolj, pistolj”. Noi diciamo di non averle perché prigionieri. Allora ci viene in aiuto qualche civile, e spiega tutto. Ci mettono allora in fila e ci spogliano degli indumenti migliori e tolgono scarpe e stivali a chi li possiede. Ci fanno muovere e via via escono altri nostri compagni che si erano rifugiati la notte precedente nella capanna e nelle casette dei poderi civili ai lati della strada. Insomma camminando formiamo una colonna di 168 italiani. Alla testa però della nostra colonna hanno messo sette nazionalisti serbi presi a fianco ai tedeschi e quattro tedeschi innanzi a tutti, che si sono arresi. Per strada pugni e calci ai tedeschi tra cui un 46
Prigionieri italiani
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maggiore e un capitano. Li spogliano della bella divisa e danno loro in cambio lunghi camici carichi di pidocchi che obbligano i malcapitati di stare continuamente a grattarsi. Incontriamo partigiani e partigiane armati scalzi che marciano verso Niš e ci guardano con un riso di scherno. Per rivestirli e calzarli ci fermano, ci tolgono di dosso quanto di meglio ci è rimasto. Mi tolgono la bella giubba che, per essere arrangiata, dicono: ofizirski vero vestito da ufficiale. Ma le scarpe visto che sotto hanno il legno me le restituiscono. In un comando provvisorio, per uno, ci fanno una minuta rivista allo zaino e ci tolgono quasi tutto. Notte in una stalla pigiati come sarde.
Domenica 15 ottobre 1944 Un russo a cavallo guida la nostra colonna, diretta ad Aleksinac ove risiede il comando, e ai fianchi vari partigiani ci scortano. Un giovincello partigiano ancora imberbe ad un certo punto fa sostare la colonna si reca dal russo e denunzia uno di quei serbi nazionalisti per quale ragione non capisco. Ci fanno sedere al margine della strada. Chiamano il povero malcapitato, lo portano sul prato sottostante dall’altra banda della strada, lo obbligano a spogliarsi, a levarsi le scarpe, tutto insomma, poi uno di loro, messogli la canna del fucile dietro la nuca alla distanza di un palmo, lo obbliga a discendere verso il declivio della collina. Ahi! orribil vista. Un colpo a bruciapelo dietro la nuca e quell'uomo non è più. Oh come mi si gela il sangue a tal vista. E in che conto tengono questi barbari la vita di un uomo? Alla pari di un coniglio. Oh! Che brutto viso e che occhi mostra quell’esecutore di quella fucilazione. Oh! Con quanta freddezza si condanna a morte. E perché non hanno condotto quell'uomo al comando perché decidesse? ah! Capisco qui ognuno è giudice e ha il potere di vita o di morte a seconda il proprio capriccio. Dopo lungo cammino arriviamo alle porte di Aleksinac il cui corso da lontano appare tutto imbandierato. Ma ecco che da una altura scendono russi di corsa, con occhio truce e con pugni chiusi serrati alzandoli verso noi in atto di minaccia e borbottando chissà quali improperi al nostro indirizzo. Giunti sulla strada incominciano a regalar pugni a dritta e a manca con una tale ferocia che non si può descrivere. Passiamo sui ferri del ponte fatto saltare dai tedeschi che unisce la strada col corso principale della città. Un via vai di donne e armati sui due marciapiedi e un ridere e uno spudorato sghignazzare che ci demoralizza. Nessuno ci difende neppure quelli che ci accompagnano e sanno quello che noi siamo. Ci gettano alle carceri civili. Catenacci su catenacci ci oscurano il cuore col loro fracasso. Siamo sistemati in più di 20 dentro ogni celletta tutti rannicchiati. Verso sera chiamano i quattro tedeschi, li portano via. Non rientrano più. Fucilati. Per noi non si sa ancora la condanna.
Lunedì 16 ottobre 1944 Mi conducono con parecchi altri al ginnasio. Pulizia alle aule. Vedo un pianoforte nel teatrino e sento un desiderio e una tentazione di fare quattro note. Oh! Come mi spasserei un po’ e mi sentirei più sollevato. Nelle carceri consumiamo il rancio. Ho la barba lunga più di un mese e sembro uno spauracchio. I partigiani poi non vogliono vederci così perché dicono che somigliamo ai cetnici e allora spariscono anche parecchi bei pizzi curati da alcuni compagni. Al lavoro nel pomeriggio vengono presi sono 15. Quando rientrano tremano come foglie perché un russo ubriaco con la pistola spianata li ha fermati, poi preso di mira un Trentino che era rosso di carnagione non solo ma aveva una capigliatura rossa accesa, incominciò a complimentarlo con schiaffi, pugni, calci dicendogli: tu sei tedesco, canaglia d’un nazista tieni per te e per il tuo Hitler. I partigiani di scorta non intervengono mai a chiarire e il povero malcapitato non può parlare e non sa spiegarsi. Il russo gli prende il portafogli e guarda tutto quanto è dentro strappando fotografie ed altri ricordi cari poi lo riprende a schiaffeggiare e mette di nuovo mano alla pistola. In questo frattempo il coraggio e la prontezza d'un cuore italiano cambia il fatto. Un giovane tenente italiano da un angolo di strada ha assistito a tutto e quando si accorge della brutta intenzione del barcollante soldato esce furibondo. In un salto è vicino 144
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al russo, con in pugno una bomba a mano tedesca e grida: “druže ja sam italijanski partizan; mi smo drugovi; pusti gnu je, nemački, ili italijanski (ratni) zarobljenik47. Il russo seguita ancora a fare atti insolenti, allora il tenente per non destare troppo allarme, dice a tutti i 15 di fuggire cercando di imboccare la prima traversa, e poi da un forte spintone al russo che va a finire in mezzo a un cespuglio rotolante quindi si mette in salvo anche lui. Non è dunque solo il pizzo pericoloso a portarsi, bensì anche, e più pericoloso, è l’essere fulvo di capigliatura perché il russo giudica il fulvo di razza tedesca48.
Giovedì 19 ottobre 1944 Nuovamente con gli zaini all'edificio scolastico. Pare che si rimanga qui, così non andremo più girando una sera per parte come tanti zingari. Verso le otto arriva il comando di una nuova brigata. Un russo con la baionetta innestata, entra e ci mette tutti in fuga tra grida e urla. Ci mette tutti in fila nella strada e ci scorta sino ad una grossa caserma russa. Viene chiamato un italiano Quattrino da Frosinone che faceva da interprete e gli dicono che dobbiamo deporre tutto ad un angolo, Zaini pastrani tutto. La voce di Quattrino trema mentre si diffonde un forte pallore nel suo viso. Qualcosa di grave sta per succedere. Domandiamo, e lui a parole mozze ci fa capire le brutte intenzioni dei russi: ci tolgono tutto -egli dice- vogliono fucilarci. Il sangue si gela. Comincia un tremito per tutte le membra. Lo spettro della morte si presenta nero e tetro ai nostri occhi. Qualcuno comincia a chiamare la mamma, altri si raccomandano, altri imprecano. Io non ho più una parola. Gettiamo le nostre robe mentre una pioggerella fina scende giù e una nebbia sempre più fitta si stende per tutto. Passiamo uno per uno in un ampio cortile rettangolare della caserma che è situata alla falde di una collina boscosa. In fila per uno. Ci passano davanti ufficiali russi sghignazzanti, donne russe vestite da soldati e armate e donne serbe e partigiani arrivati con la nuova brigata. Tutti ci deridono, tutti offendono il caro il dolce nome della nostra patria, tutti ci minacciano, tutti imprecano a Mussolini e ognuno che ci passa davanti ci dice la triste parola “strelija” fucilazione e accompagnano la parola con il gesto della mano come per dire sarete fucilati tutti con una raffica. Ogni tanto soldati russi ubriachi ci passano davanti e ci minacciano col pugno chiuso e borbottano chissà quali tristi auguri e imprecazioni contro di noi inermi; e si legge nel loro volto la gioia satanica che già pregustano al pensiero di vederci fra breve tutti in posizione orizzontale. In questo frattempo poco discosto da noi ci agghiaccia una lunga raffica di mitraglia. Ben 72 tedeschi, in fila sulla svolta di una strada vengono falciati. I loro corpi cadono riversi al margine scosceso della strada. C’è chi piange come un bambino. Ci passano davanti uno per uno e ci tolgono tutto ciò che di buono ci è ormai rimasto. Rimaniamo seminudi, scalzi alcuni proprio con le vergogne di fuori e spogli e ci stringiamo gli uni agli altri per sentire il calore del corpo vicino. La pioggia sempre uguale a tratti cessa e allora spira un vento così gelato che ci ghiaccia tutte le membra. Sono riuscito a salvare la mia corona. Chiusa nel pugno della mano, prego ma così caldamente come certo non ho pregato mai in vita mia. Sono questi gli istanti più lunghi e orrendi vissuti da me, momenti terribili e tremendi che tormentano il cuore che pulsa ineguale nel petto. Sono questi gli istanti durante i quali ho guardato la morte faccia a faccia, ho avuto paura del giudizio di Dio, ho trascorso un lungo e martoriato colloquio colla morte. Ore di agonia tremenda. Ogni tanto insulti e derisioni. Si sente spesso invocare il nome di mamma, si sente anche piangere. Io, invece, la corona sempre chiusa in pugno come un’arma, non ho un lamento, non una lacrima, non penso più tanto ai cari lontani, solo sono preoccupato del giudizio di 47 48
Io sono un partigiano italiano; siamo la seconda; andiamo, tedesco o italiano (guerra) prigionieri. 17-18 ottobre 1944: pulizia di alcune aule di ginnasio.
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Dio che vedo imminente e come estraneo già alla terra prego prego e chiedo perdono a Dio Misericordioso per tutti i miei falli facendogli l’offerta della mia vita e scongiurandolo che accetti l’effusione prossima del mio sangue, come espiazione e lavacro delle mie colpe. Se non piango non è perché sono più forte e coraggioso degli altri; non so perché. Forse il sangue si è talmente arrestato, la mente è talmente rimasta scossa, da farmi divenire come un ebete. In questa tremenda attesa, in continua conversazione colla morte siamo rimasti fino verso le 2 pomeridiane, ora in cui la scena cambia aspetto. Giunge un commissario partigiano e dice: Italijani, aide. Noi pensiamo di muovere verso il luogo del supplizio e chi si mostra restio e chi piange. Ma il commissario si avvicina e con voce rassicurante dice: zašto plačite? Nećemo više da vi strelijati (perché piangete, non vogliamo più fucilarvi, noi siamo fratelli, noi soldati, voi lavoratori l’abbiamo detto noi ai russi che voi siete buoni italiani. Presi intanto una decina di nazionalisti serbi, li legano e li uccidono. Veniamo condotti ad un’aula del ginnasio. Siamo 168 tutti muti e fuori di noi. Il commissario dice: su italiani, cantate, non più morire. E allora, per accontentarlo, abbiamo aperto le nostre bocche, trangugiando qualche lacrima cantando la canzone richiestaci: Mamma son tanto felice. Oh! quanta forza ci siamo dovuta imporre per pronunciare quelle parole Mamma son tanto felice in una situazione così tragica. Oh! Dio misericordioso, quanto ti sono grato per tale segnalato favore. Hai vegliato sul debole innocente che era per essere immolato dopo aver sofferto tanti stenti, privazioni e tanti pericoli in mezzo al fuoco. Ora fai risplendere nuovamente il sole della vita. Seminudi riposiamo tutta la notte e dormiamo d’un sonno profondo quasi letargico. Piove forte fino al mattino49. Domenica 22 ottobre 1944 Mezza giornata lavoro. Si cambia locale per dormire. Il tenente qualche volta ci fa visita. (Non è egli un tenente - a dire di alcuni che lo conobbero, mi pare a Rodi - ma è un marinaio, o sottufficiale di marina, scappato dal lager tedesco e combattente con i partigiani). E’ libero e porta i gradi sul nostro grigioverde.
Lunedì 23 ottobre 1944 Lavoro a sfangare quella strada per il passaggio degli automezzi russi. Ci viene offerto un po' di pane, uva e sigarette. Con un bravo giovane e una guardia, col permesso del Comando Mesta, vado di casa in casa chiedendo un po' di pietà. Tutti mi guardano compassionandomi e mi danno un po' di oggetti di scarto che devono servire per rivestirci tutti. A sera ci visitano due buone ragazze studentesse che portano qualcosa e promettono di interessarsi presso i civili a nostro beneficio. Verso mezzanotte entra un russo ci caccia fuori di corsa per farci spingere con le spalle i tanti automezzi che cercano di passare per quella strada che andiamo accomodando la quale è molto irta e fangosa e gli automezzi rimangono ingolfati a più di mezza ruota nel fango.
Martedì 24 ottobre 1944 Lavoriamo adesso per la costruzione di un ponte in legno a fianco a quello in ferro sprofondato nelle acque. Dalla mattinata al tramonto senza tregua col badile, col picco, lavori pesantissimi. Rimuoviamo pesanti pietre, grossi travi che servono in mezzo all’acqua, ed altri tronchi di alberi lontani li trasportiamo ispalla. Una pioggerella fina e insistente ci accompagna tutta la giornata. Sento per la prima volta qualche parola buona dalla bocca dei soldati russi; Karašo italiansko - italiano buono lavoratore. Giornata nera. A sera tarda sono sfinito e stanco.
Mercoledì 25 ottobre 1944 Sulla strada ancora a sfangarla e gettarle breccia. Lavoro più leggero in confronto a quello di ieri. Siamo distribuiti in gruppi di 3 o 4 persone distanti 49
20-21 ottobre 1944: lavori per l'allargamento di una strada.
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gli uni dagli altri. In qua e in là ci sono cancellate e case civili di campagna. Una donna ci offre un cotogno: lo dividiamo. Una signorina tra la stecconata ci saluta e si ferma in ascolto perché si sta canticchiando una canzonetta. Arrivano altre sue amiche e dicono che piace loro tanto la musica italiana e desidererebbero sentire una canzone. Profittando che la guardia è un po' lontana le teniamo contente. Facciamo conoscenza, una suona il violino. Rientrano un momento ma riescono subito: hanno preparato un complimento. Ci portano pane a sufficienza e formaggio che spartiamo tutto fra noi da buoni fratelli e mangiamo. Poi ci portano anche grappa e beviamo. Nel partire ci domandano se nel pomeriggio torniamo lassù a lavorare. Rispondiamo che forse con ogni probabilità. Invece nel pomeriggio non torno lassù50.
Martedì 31 ottobre 1944 Di nuovo al solito lavoro, ma per l’altro capo della strada vicino al cimitero. Alcune donne, di ritorno da un rito funerario, dispensano a me e compagni pane, cotogno, uva e un bicchierino di grappa. La grande fame mi ha spinto ad accettare, ma in altri tempi non avrei toccato nulla perché quelli sono gli avanzi del pranzo che questa gente ha fatto proprio sulla tomba del defunto. Vladimir quel caro e bravo giovane che assieme ad una guardia ha girato con me la prima sera per raccogliere un po' di stracci per rivestirci che tutto il dì lavorava al comando, vuole condurmi a casa. Mi presenta alla fidanzata e famiglia e imbandiscono una grande cena: peperoni e carne tritata, patate e carne di maiale, insalata vino e grappa. Hanno ammazzato oggi stesso il maiale. Che buona famiglia. Che bravo giovane Vladimir, non perché oggi mi ha complimentato, ma perché molto si prodiga per il bene di tutti noi italiani. Dice che quando sposa verrà in Italia a fare il viaggio di nozze. Gli dico che sarà per me un grande piacere se potrò ricambiare le tante gentilezze di cui mi fanno segno. Tornano i 26 italiani rimasti in quel paese ove stavamo sabato per montare pali51. Giovedì 2 novembre 1944 Vladimir mi compra un paio di scarpe col legno sotto. Sono confuso davanti a tanta bontà e gli dico, tra i ringraziamenti, che mi sentivo onorato di poter ricambiare della sua magnanimità quando verrà in Italia. Nel pomeriggio smantellamento di alcune baracche tedesche. Vladimir mi conduce in un circolo femminile ove c’è un armonium e suono. Complimenti e presentazioni. Ieri ed oggi giorni ricordevoli: i Santi e i morti. Accorata nostalgia.
Venerdì 3 novembre 1944 Il comando vuole le generalità di tutti gli italiani. Per merito di Vladimir vengo incaricato io a compilare le liste.
Sabato 4 novembre 1944 Finalmente ho pulito ben bene uno stretto stanzino e ho costituito un ufficiuolo. Mi par di rinascere perché dopo di aver provato tutti gli attrezzi di lavoro finalmente mi applico ad uno più confacente alle mie condizioni e al mio genere di vita52.
Lunedì 6 novembre 1944 Nulla che meriti rilievo. Qualche mormorazione contro di me, a torto e per invidia. Il tenente che si è fatto vedere, prende le mie difese spiegando che il Comando Mesta mi ha nominato. Questo mi basta e mi rincuora. L’ignoranza e l’invidia aizzano le questioni. 26-30 ottobre 1944: per il cattivo tempo e il pessimo abbigliamento è malato. Presso Aleksinac riceve da mangiare dalla popolazione locale. 1 novembre 1944: niente di rilevante. 52 5, 8, 9, 10 novembre 1944: idem. 50
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Martedì 7 novembre 1944 Grande festa per l’esercito russo. Non si lavora. Colonna di Partigiani serbi sfilano cantando. Aerei di stampo inglese sorvolano Aleksinac e mitragliano una colonna russa su una strada fuori città. Gli apparecchi pare che siano pilotati da tedeschi che li avevano catturati. Così si dice anche perché a Niš è stato abbattuto uno di essi e l’equipaggio è tedesco. Si crede quindi che tutti sono pilotati da tedeschi. Dal 25 gennaio 1945 al ... 53
Venerdì 2 febbraio 1945 Visita alla casa del carissimo Slobodan
Venerdì 3 febbraio 1945 Slobodan viene nel campo a visitarmi, poiché è amico d’una guardia, e mi invita a casa sua per la sera. Ma mi è impossibile54.
Lunedì 5 febbraio 1945 Di nuovo il piccolo amico Slobodan penetra nel campo. Conversiamo. Prometto di recarmi da lui a casa verso sera, ma non mantengo la promessa.
Martedì 6 febbraio 1945 Dalla famiglia amica. Slobodan non vuol perdonarmi per aver mancato alla promessa, ma il papà e la mamma lo ammoniscono perché han compreso che il mio mancare alla promessa non è mai volontario o per negligenza ma dipende da cause ben più diverse: la mancanza di libertà. Conversazioni di italiano con le due gemelle sorelle di Slobodan studentesse che amano l'Italia e desiderano studiare la lingua, e io parlo con piacere della mia lingua. Soliti amici. Mercoledì 7 febbraio 1945 Lieta notizia: rimpatrio55
Sabato 10 febbraio 1945 Verso sera torna Slobodan che al mattino non l'hanno fatto passare. Mi fa cenno dalla finestra, scendo. Che sollievo mi porta quel caro ragazzo. Mi dice perché non vado a casa la sera. Gli prometto per l'indomani. Mi lascia un pacchetto di tabacco e ci separiamo con l'abituale stretta di mano. Il mio cuore è commosso. Sul mio giaciglio, prima di chiudere gli occhi, penso con riconoscenza a quel bambino gracile che ha un cuore d'oro e grande tanto, come grandi ha gli occhi che mi fissano spesso nella loro languidezza ingenua e ringrazio con affetto la Provvidenza che ha voluto rischiarare il duro cammino della prigionia con questa affabile creatura che mi ama come un fratello e che io ho battezzato così: “Il piccolo amico del prigioniero”.
Domenica 11 febbraio 1945 Si lavora come tutti gli altri giorni, senza respiro, senza rispetto ai giorni festivi. Dopo mezzodì al bagno. A sera da Slobodan. Mi intrattengo un bel po' giocando con la piccolissima Gordana e con Vera. Verso le 6 e 30 torno al campo56.
Martedì 13 febbraio 1945 Il piccolo Slobodan in una breve visita mi avverte che l'indomani parte per la Bulgaria. Gli prometto di recarmi a casa sua verso sera. E vado. Mi trattengo molto poco, anzi mi affretto a tornare pregando il piccolo a tenermi compagnia. Ci separiamo con una più forte stretta di mano dopo ed un bacio fraterno. Mercoledì 14 febbraio 1945 Passa una scolaresca e l’accompagna qualche insegnante. Una mano fa un cenno di saluto col fazzoletto. Mi precipito per raggiungere la 25 gennaio -1 febbraio 1945: neve. 4 febbraio 1945: a casa di Slobodan con gli amici. 55 8-9 febbraio 1945: persiste la notizia del rimpatrio. 56 12 febbraio 1945: nulla di rilevante. 53 54
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strada e mi fermo al riparo dei cespugli. Un ragazzo esce dalle file e mi chiama”Enzo" mi si accosta mi prende la mano e la bacia. È Slobodan, il fanciullo sparuto, è Slobodan dai grandi occhi ingenui, è il piccolo amico del prigioniero che parte. Il piccolo “Libero” (questo significato ha l’aggettivo slobodan) saluta il prigioniero. Ci baciamo ancora come si bacerebbe un fratello e il piccolo amico fugge tra le file forse per trattenere un nodo che lo preme alla gola, per non palesare e non tradire qualche momento di commozione. Il suo gesto però commuove me che - dopo averlo perso di vista - rientro con le lacrime agli occhi. Ripenso con affetto al momento in cui, lasciata la fila, mi ha baciato la mano. Addio, mio piccolo “Libero” addio, affettuoso bambino, che rischiarasti il mio cuore in un breve periodo della mia oscura vita. Forse non ti rivedrò più piccolo e caro amico di prigionia, ma il tuo ricordo puro, lo conserverò scolpito nel cuore per sempre57.
Lunedì 19 febbraio 1945 Domenico Veltri mi ha fatto capire che la famiglia amica è spiacente che io non mi faccio vedere e pensano anzi che il piccolo Slobodan non mi abbia salutato. Recandomi in casa io invece mi scuso perché non mi fu possibile e riguardo al loro caro figliolo li rassicuro che nei miei riguardi ha agito più che un fratello. Mi trattengo poi con Ljubica e Ljubinka le sorelle del piccolo, in una piacevole conversazione sulla lingua italiana per più di un’ora, svagando la mia mente e sentendomi come in casa mia. Quando rientro però ripiombo nella cruda realtà. Martedì 20 febbraio 1945 Rileggo varie lettere della fidanzata. Come mi commuovono quelle frasi dolci se pure di altri tempi. Mi par di risentire la voce calda e melodiosa della cara Italia, come quando era a me tanto vicina. Ma è più di un anno e mezzo che quella voce tace. Tormento del cuore! nostalgia d’amore! (Perché questa desolante attesa? perché non permettono la corrispondenza, unica consolazione nel buio di questa vita?) Cane di un governo inumano!
Riallacciamento a grosse linee di circa un mese di diario e cioè dal 22 febbraio al 23 marzo 1945 In questo periodo di tempo sono stati ritirati i lavoratori presso civili ma solo per Aleksinac. Dal locale, situato nel corso di Aleksinac, che un tempo era un caffè, ove ci hanno portato per un breve periodo ci spostiamo di nuovo fuori dell’abitato in quella vecchia caserma dove eravamo tempo fa quando il piccolo Slobodan visitava il campo. Dopo appena otto giorni abbiamo subito questo nuovo spostamento. Siamo come gli zingari, sempre in giro con quei quattro stracci e senza mai una dimora fissa. Con tutta la loro gelosia spinta sino al parossismo, si sono decisi a rimuoverci dal detto caffè. Ma che colpa ne hanno gli italiani (sia pure prigionieri) di essere belli e amati? Il fatto è questo infatti. Le donne, che simpatizzano fortemente per gli italiani, prima passeggiavano indifferentemente sui due marciapiedi. Ma sin dalla prima sera che abitavamo nel caffè, han cominciato a passeggiar sull’altro ove eravamo noi che guardavamo delle vetrine e, passando, spingevano i loro sguardi curiosi, ma pietosi al tempo stesso e, dopo che le prime si resero conto che in quel caffè erano stati sistemati gli italiani in vetrina e ben guardati - come tanti leoni destinati a star nel serraglio per timore che seminino strage - si son riversate tutte sull’adiacente marciapiede stabilendo così il passaggio soltanto da una parte. Quanti sorrisi! quanti sguardi, quanti saluti, quanti atti e cenni di promesse e sospiri! Ma il rigore è tremendo: guai a chi è colto a salutare una donna per via: c’è la prigione e i lavori forzati della miniera. Si son verificate molte evasioni e, in massa, si son verificate 57
15-18 febbraio 1945: nulla di importante. Lavori di pulizia.
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verso la fine quando son rientrati quelli che lavoravano nei paesetti dipendenti del Comando Mesta di Aleksinac. La vita è insopportabile. E dicono di trattarci come amici.
Venerdì 23 marzo 1945 Da due giorni vengono raccolte le generalità di tutti noi italiani. Questa sera il lavoro delle liste deve essere ultimato. Mi reco a salutare le due famiglie amiche: quella di Vladimir e quella di Slobodan. Anzi la famiglia di quest’ultimo mi invita per la sera, ma per timore non ho potuto ottemperare all’invito e so che in specie le due sorelle gemelle assenti al mattino sono rimaste molto spiacenti. Circa le liste delle generalità ed anche il ritiro di tutti i nostri connazionali residenti presso civili, corrono molti voci, e anzi le guardie sono molto chiare nel parlare: (salvo poi la finzione) dicono che ci rimpatrieranno. Non nascondo che io e la maggior parte dei compagni siamo piuttosto scettici, però una piccola speranza si accende in cuore. Certo che un fatto nuovo ci deve essere. Mai infatti prima d’oggi sono stati ritirati tutti gli italiani: tornano i lavoratori della miniera e quelli presso civili e i lavoratori addetti a compiti fissi nella città come fornai, barbieri, tipografo, addetti nei magazzini e presso i comandi, tutti insomma. Ciò lascia adito a una certa speranza. Non mi illudo troppo, ma mi abbandono volentieri dietro a fantasticherie seguendo la mente e il cuore e mi par già d’essere nella cara terra d’Italia.
Sabato 24 marzo 1945 Sveglia, affardellamento dei quattro stracci, in fila nel corso assorto ancora nel sonno e nel silenzio più profondo. Nell’attesa del “via” ma una cosa strana mi opprime. Quantunque ci sian voci e notizie che dovrebbero rallegrarci, non so perché il mio cuore è triste. Ci danno il “via” e la colonna dei poveri straccioni e zingari, scortata di tutto punto, si muove e la cadenza fatta di scarponi, scarpe di legno e zoccoli, rompe il silenzio della notte. Si lascia Aleksinac. Lascio alle spalle la caserma russa ove vissi ore tremende quel giorno di triste memoria del 19 ottobre 1944 in colloquio colla morte; lascio quell’orrendo carcere che ci accolse nero e squallido e sinistro le prime sere del soggiorno di Aleksinac; a destra uscendo, lascio quell’orrenda prima abitazione che ci accolse dopo il triste giorno della mancata fucilazione, luogo ove sobbalzammo di notte all’imperioso e pauroso richiamo dello scarpone o del fucile d’un soldato russo che a qualunque ora della notte veniva a tirarci fuori senza tener conto del lavoro snervante del giorno, per portarci ancora a spingere colle nude spalle gli autocarri carichi di materiale incagliati nel fango e nella neve; passo sul ponte ormai ricostruito con tante nostre fatiche e saluto il fiume che scorre calmo; e, fuori ormai dalla città, rivedo a destra la caserma ove soggiornammo per un lungo periodo e dove ebbi la consolazione di conoscere, essere visitato ed infine abbandonato dal caro Slobodan l’amico pietoso e confidente del mio spirito; e lascio pure a sinistra tra gli alberi il primo triste ricordo dei pugni e dei calci ricevuti dagli ubriachi soldati russi al mio primo arrivo ad Aleksinac. Insomma dietro di me lascio ricordi amari e volti e famiglie pietose di amici sinceri. Camminando, quindi, tra il silenzio mi spiego perché il mio cuore è triste. In primo luogo, dovunque si vada credo, faccia su tutti un tremendo effetto il distacco. Ad Aleksinac, tolti i ricordi tristi, ci siamo abituati già ad un certo tenore di vita, mentre ora, se son false le voci che circolano si va incontro a nuovi destini. Spiace lasciare Aleksinac, perché se pure un giorno fummo barbaramente spogliati, maltrattati e lasciati sotto le intemperie per oltre mezza giornata e a colloquio con la morte in procinto di essere senza colpa falciati dalla mitraglia, sorsero però nel periodo di 5 mesi e più, persone di nobili sentimenti e dal cuore magnanimo che assolsero ad un altissimo atto di umanità: quello di interessarsi per noi poveri scampati dalla morte e ridotti in condizioni miserevoli spogli, laceri scalzi e senza conforto, sorsero dico delle donne che ci portarono il sorriso e il caldo palpito delle sorelle e della mamma portando nel campo ciò che la pietà dei civili dava loro. Il cuore, si capisce, si è sentito in dovere di esternare la 150
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propria riconoscenza ed è sorto anche per alcuni casi particolari il caldo palpito dell'amore inevitabile. Ma assorto in questi pensieri profondi siamo arrivati ad una stazione ferroviaria chiamata Žitkovac. Verso le ore 8 partenza. A mezzogiorno, siamo a Niš. Di nuovo in quella città che lasciammo una sera tra i cupi bagliori delle fiamme al seguito di un esercito; che rivedemmo poi il giorno seguente tutta deserta e con magazzini saltati per aria e con vagoni, che carichi di merci, erano stati distrutti anch'essi per non lasciare nulla al nemico; di nuovo in quella città ove ci nascondemmo per non subire la stessa fine del topo, toccata ai tedeschi in ritirata; nuovamente in quella città ove presentatoci ai russi creduti liberatori, ebbe invece inizio quella orrenda odissea di più di cinque mesi e che oggi dovrebbe avere il suo epilogo col felice rimpatrio. Ma no! Una nuova e più dura fase ci attende, ce lo dicono le frasi mozze e il riso beffardo delle sentinelle e i grandi reticolati che ci si parano dinanzi e le prime e sconsolate voci dei nostri connazionali, rinchiusi dentro quei reticolati. Di nuovo nel grande concentramento, tra fame, malattie, sozzume, pidocchi ed ogni altra sorte di insetti e parassiti schifosi. Di nuovo tra i reticolati, come i leoni in gabbia, senza saper nulla di sodo, tra mille voci e ipotesi sballate, sfiduciati, stanchi e demoralizzati sempre in attesa che il sole risplenda sereno. Ma tra le tante voci ce n'è una che pare di una certa importanza e diventa poi sicurissima dal mutato e cattivo trattamento dei nostri ignoranti padroni. Si dice che a Roma hanno dimostrato contro l'ambasciata jugoslava per Trieste e hanno persino lanciato una bomba contro tale ambasciata. Difatti li sentiamo gridare “Trieste è nostra” e sentiamo dire al nostro indirizzo “taljanski fascisti”. Era questa la causa del nuovo spostamento. Altro che rimpatrio, concentramento58.
Venerdì 30 marzo 1945 Addio alle notizie lusinghiere carezzate, addio rimpatrio! A primissima mattina sveglia, ordine di far lo zaino, e fuori dalle baracche. Ci fanno sedere all'aperto sugli zaini posizione che teniamo per tutta la giornata. Leggono alcune liste di nomi, li mettono in fila e via; per dove? non sappiamo. Le guardie ancora si burlano di noi; ridendo, infatti, ci dicono: “alla stazione, per l’Italia" invece la verità è questa: tornano a smistarci perché non intendono darci da mangiare così senza far nulla tra i reticolati del grosso concentramento. Saremo nuovamente sparsi dappertutto, presso civili e due contingenti vengono avviati nei duri lavori di miniera. A me quale sorte sarà riservata? Quest'oggi infatti hanno sospeso quel penoso lavoro di chiamare l'appello per numero come se fossimo delle bestie. Scrivo questa giornata di memorie e tornando colla mente al momento della sveglia mi par di non ricordarlo, tanto mi par lontano quel momento perché la giornata quando è pesante e noiosa sembra lunga, lunghissima anzi interminabile. E poi quanto dolorosa! Nella baracca quasi totalmente buia infatti quanti vuoti! Quanti compagni mancano! Ripenso al distacco che durante la giornata mi ha portato via amici carissimi che avevano passato con me quelle ore di tremenda prova del 19 ottobre quando la morte, con la sua ala nera, fece sentire il gelido brivido alle nostre spalle, alle nostre anime e si fermò in quel colloquio straziante. Rivedo nell'insonnia tutto quanto è avvenuto nella giornata: quante strette di mano! Quanti abbracci! Ci siamo persino baciati come fratelli anzi più che fratelli. Quanto è triste il distacco, specie quando si va incontro a nuovi e forse più duri destini. Durante il giorno, per rancio, pochi fagioli sconditi e la sera una abbondante razione di čaj (sarebbe il tè cioè acqua colorata) e niente più. 58
25-29 marzo 1945: donne locali visitano i prigionieri. Pulizia personale.
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Sabato 31 marzo 1945 Sin da ieri sera fui incluso in un gruppo di circa una ventina di connazionali. Alla mattina ne aggiungono altrettanti e ci conducono allo Sres. Non resta più nessuno al campo. Al comando Sres ha luogo il mercato degli italiani. Esco con un altro amico: Bruno e vengo tosto da lui accompagnato, anzi lo vedo subito partire su un calessino. Io vengo condotto in un ufficio - che a mio parere - è un centralino telefonico ed al telefono siede il mio compratore Ilja Ristic’ quello che sarà il mio padrone da oggi a sino che Dio Vorrà. Un buon uomo in verità, ride poco, attempato sulla cinquantina, penso. Mi offre parecchie volte tabacco e cartine, mi fa mangiare con lui in ufficio ove resto fino verso le cinque di sera. Durante questo periodo di tempo è entrato un tale che, dando la mano a tutti, ha stretto anche la mia e, accortosi che sono italiano, mi ha fatto subito il grato e piacevole complemento di dirmi “fascista” al che tutti hanno riso e sghignazzato. A quella parola ed ai frizzi di scherno fatti al mio indirizzo, ho sentito una forza interiore che mi spingeva a protestare energicamente, a ribellarmi, ho stretto le mascelle guardando il vile schernitore, ho sentito tutto il sangue ribollire, ma la situazione e l’impotenza mi hanno consigliato alla prudenza ed alla calma. Ho sentito un fuoco rovente per tutto il viso diventato rosso per la mal repressa rabbia. Vigliacchi, ignoranti montanari solo avvezzi trattar colle pecore e andar con le “ciocie”. Verso il tramonto, col padrone si prende la strada per Matevac ove arriviamo verso l’imbrunire. Faccio conoscenza colla famiglia, buona gente. Però le offese alla Patria o al nostro passato politico, mi fa trascurare e non apprezzare anche atti di gentilezza che qualche persona mi fa, sol perché di questa terra incivile e retrograda. Mi viene offerto subito della rakia (grappa). Mi portan acqua per lavarmi i piedi e le mani; mi danno un paio di calze. Ceniamo cavoli e fagioli conditi, secondo il costume con molta “paprika” (peperone). Si parla e, nel discorso, mi domandano cosa faccio da civile. Faccio presente che la mia professione è ben diversa e che di campagna non me ne intendo affatto però sono tutto animato di buona volontà. Al che rispondono “è ciò che basta”. Prima di andare a dormire mi danno una camicia e mi ritirano tutto ciò che ho in dosso per timore che non abbia pidocchi per poterlo lavare l’indomani.
Domenica 1 aprile 1945 Oggi è la Pasqua. A questa parola mi si stringe il cuore e mi sale un nodo alla gola. Ma bisogna rassegnarsi e reprimere il pianto perché ormai posso considerarmi sempre più uomo sia per i vari disagi e le durezze e le ore di prova della presente vita, sia perché domani compirò il 26esimo anno di età. Non è più bello ormai avere un cuore da donnicciola dopo tutto quello che si è passato e sperimentato sino ad oggi e chissà ancora. A prima mattina, vado a far la conoscenza con la stalla: hanno due buoi e circa una decina di pecore. Mi viene spiegato e comprendo appieno il lavoro giornaliero nella stalla. A prima mattina tocca pulire, strigliare e mettere del granoturco nella mangiatoia. Verso le nove, fasci di fusti di granoturco ancora. Dopo qualche oretta fare l’abbeverata e dare ancora qualche fascina di fusti di granoturco. Verso le tre i buoi han finito di dormire e allora occorre portare un po' di fieno e paglia. La sera abbeverata. Questo è quanto mi è stato raccomandato all’inizio di questa giornata. Verso le otto di mattina tornando dalla stalla ho fatto conoscenza con la scure. Ho spaccato un po' di legna per la cucina e le ho portate sopra a bracciate in varie riprese. Poi ho levato la scopa di mano alla vecchia che è la mamma del padrone e la vecchia nonna di molti. L’ho chiamata “baba” (nonna) e lei sorridente mi ha lasciato fare con grande soddisfazione. Verso le 10 ho mangiato un po' di fagioli e un uovo. Come trattamento non posso lamentarmi e, da parte mia, io sono tutto animato di farmi voler bene. Faccio conoscenza con alcuni altri connazionali che lavorano in questo stesso paese. I paesani sulla strada litigano a causa degli italiani perché dopo la retata dei giorni scorsi non hanno potuto riavere quegli elementi che avevano avuto durante l’inverno. 152
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Verso le ore tre faccio per andare alla stalla insieme ad un amico di nome Giovanni. Ma il padrone mi dice di andare coi miei compagni a passeggio, oggi, perché è la nostra Pasqua. Sosto a bere in qualche casa, e poi giro in compagnia dei connazionali. Verso sera vado ad attendere ai lavori della stalla a governare gli animali. La notte dormo insieme ad Antonio un brindisino che ha lavorato presso questa famiglia per sei mesi.
Lunedì 2 aprile 1945 Giorno del mio compleanno. All’aprirsi della mia 26esima mia primavera, curvo la mia schiena alla terra, prendo gli strumenti di lavoro e rivolto molta terra colla zappa, la quale - in una giornata così lunga - non solo mi ha fatto i calli sulle mani, ma li ha persino rotti. Le vene sono tese, i muscoli delle braccia sono fiaccati, le spalle mi dolgono e anche i reni mi fanno tanto male che quando mi drizzo, non posso respirare. Oh! che giornata intensa. Oh, che giorno memorabile nella mia vita! Povero mio babbo! e come ha potuto durante tutta la mia vita stringere questo duro strumento di lavoro? Oh! caro babbo, ora solo comprendo appieno i tuoi sudori e sacrifici per creare a me un avvenire migliore. Da che ho aperto gli occhi sino all’ora del riposo così si è svolta questa mia prima giornata di lavoro di zappatura alla vigna del padrone. Era ancora buio completo e sono stato svegliato per accudire alla stalla. In compagnia delle donne poi mi sono avviato verso la vigna ove siamo arrivati, dopo un lungo cammino, prima ancora della levata del sole. Il padrone è tornato a Niš al Comando ove credo avrà una mansione da svolgere. Immediatamente abbiamo iniziato e, si capisce, ogni tanto un consiglio nuovo dalle donne: “Vedi, Enzo, si fa così” ed io: “si, va bene, starò più attento”. Quello che non potevo proprio mandare giù era il fatto che, colla zappa, dovevo mandare la terra sul piede prima di andare avanti e in questo modo le “ciocie” erano sempre piene di terra la quale si mescolava col sudore dei piedi e mi dava fastidio. Forse saranno state le ore 10 e abbiamo mangiato un po' fugacemente per riprendere il lavoro. Mi sono studiato a fare come dicevano e mi sono anche sforzato di tener dietro alle gonne delle donne che, bisogna riconoscerlo erano abilissime e lavorano come se fosse un gioco. E questo sino a verso le ore 14, penso, ora in cui abbiamo pranzato. Nuovamente abbiamo ripreso il lavoro ed io con sempre maggiore sforzo, sì da ricevere gli elogi delle stesse donne le quali erano contente di me ché, quale studente, facevo molto e davo l’impressione che in seguito avrei fatto sempre di più e meglio. Ma io ero proprio sfinito e non vedevo l’ora della fine e sospiravo continuamente il calare del sole. Ma questo mi sembrava sempre alto a mezzo cielo tanto che alla fine mi sono seduto, ho tirato via le “ciocie”, le ho liberate della terra che c’era dentro ed ho confessato che proprio non potevo durare a simile vita e a sì presente lavoro. “Una settimana così - ho detto - mi ridurrà in fin di vita, voglio parlare col padrone e dirgli che, con tutta la mia buona volontà, non posso fare questa vita e a voi serve d’altro canto un operaio che sia avvezzo a tutto e che vi renda molto”. Loro approvano e resta fissato che l’indomani tornerò a Niš dal padrone al comando, per dirgli che si trovi un italiano che gli renda di più e che sia più avvezzo a tutto come quello che avevano durante l’invernata, quando, però, il lavoro si riduceva a spaccar legna per il fuoco ed accudire alla stalla. Ora invece che c’era da lavorare veramente avevano avuto uno studente. Questa giornata per me è sembrata lunga come tre interi giorni di lavoro. Ad ogni fermata (alle 10 cioè e alle 2) mi pareva un giorno di lavoro e dalle due alla sera un altro.
Martedì 3 aprile 1945 Tutta la famiglia si reca nella vicinissima Niš dove ha terreni. La moglie del padrone ed io facciamo un’altra strada, arriviamo a Niš, parliamo col padrone, mi scuso con tanta gentilezza e sottomissione, gli bacio la mano e lui rimane anzi molto soddisfatto perché, dice, gli sono stato sincero avendogli detto le mie condizioni sin dal primo momento. Un altro mi prende per un baratto, un cambio. 153
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Avendo infatti saputo che al campo di aviazione di Niš è stato destinato un italiano che, nell’invernata, lavorava da lui, mi accompagna colà e chiede al comandante di cedergli l’italiano, lasciando me in cambio. Il comandante risponde non essere ciò di sua competenza e il mio accompagnatore se ne va, lasciandomi così, ed io, stanco coi piedi rotti, vado al lavoro con gli altri 17 connazionali che vennero destinati qui dopo lo smistamento del Lager di Niš.
Mercoledì 4 aprile 1945 Lavoro per il disfacimento di un torrione di fortezza e difesa fatto di pali e tavole e il tutto ripieno di terra. Sono con me 5 italiani tra cui un romano, molto allegro e corpulento: Lino Caioli. Come lavoro non è pesante. Verso le 11 sono seduto e il sole mi gradisce perché sento dei brividi per la vita. Poi si leva un vento impetuosissimo che solleva un grosso polverone. Mangio un po' e mi getto a terra. Il vento seguita a fischiare. Nel pomeriggio i compagni fanno ritorno al lavoro, ma io non posso alzarmi, sento un malessere generale. Verso sera un compagno mi porta la gavetta col rancio che io divoro avidamente e poi mi stendo avvolgendomi nei miei pochi stracci come se fossi in gennaio. Un aereo atterra59.
Sabato 14 aprile 1945 Fino al mezzodì lavoro e sudo molto. Dopo pranzo, libertà. Bagno. Lavo qualche straccio; quindi accomodo le scarpe, metto qualche punto sugli indumenti laceri, mi cambio. Figure di donne: mamme, figlie, sorelle, spose di partigiani, sedute sul prato parlano coi loro congiunti che sono venuti a visitare. Nostalgia della famiglia lontana o desiderio inappagato di vivere qualche istante coi propri cari, con un amore di sposetta e di vivere un’ora spensierata tra il conforto d’un sorriso e d’una dolce parola amica. Ma quando sarà? Quando avrà termine questa vita di sospiri, senza calore, senza incanto?60
Giovedì 19 aprile 1945 Rastrellamento del campo d’aviazione. Lo percorriamo punto per punto con grande cautela perché si può saltare in aria di momento in momento. Lo liberiamo dei numerosi spezzoni che sono disseminati un po' dovunque e interrati, di molte munizioni consistenti in caricatori per ogni genere di arma e cartucce gettate alla rinfusa coperte dall’erba. Molte spolette manomesse e pezzi di grandi bombe ancora ripiene di tritolo. Un lavoro pericolosissimo. Trasportiamo molto materiale ingombrante, dentro i grossi capannoni rimasti ancora illesi, vari pezzi di aerei ed ali dalla cui tela ricaviamo interi gomitoli di filo resistentissimo, che serve per rattoppare il nostro corredo di stracci. Rimiro lo scheletro di un nostro aereo “Caproni” giacente nell’immobilità desolante. Molti pensieri turbano la mente. Penso la sorte di quell’aereo e sento in me esserci una profonda analogia perché prigioniero come lui senza speranza. Una lacrima riluce sul mio ciglio e nasce l’idea di scrivere alcuni versi che intitolo “Ali spezzate”61. Sabato 21 aprile 1945 Rastrellamento delle infinite bombe inesplose. Interi grappoli giacciono infossate. Le liberiamo con picchi, zappe e vanghe, le isoliamo con circospezione, le tiriamo su e le lasciamo lì perché verranno raccolte da un’altra squadra di italiani e caricate su un carro agricolo trainato da buoi e poi depositate lontano ai margini del campo d’aviazione, dentro i camminamenti preparati un tempo dai tedeschi. Ivi, prima di
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5-13 aprile 1945: in servizio presso la stanza dell'ufficiale partigiano. Maltempo. 15-18 aprile 1945: idem. 20 aprile 1945: Maltempo. Non si lavora.
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andare a mangiare al mezzogiorno e lo stesso alla sera, vengono caricate le mine e vengono fatte brillare più di duecento ed anche trecento per volta, tra un assordante finimondo.
Domenica 22 aprile 1945 Sentivamo da tempo il bisogno di dar pace allo spirito assetato di Dio. Poiché, non lontano da Niš su una ridente collinetta visibile anche dal campo, s’erge una chiesetta cattolica, abbiamo fatto chiedere al comandante il permesso di farci accompagnare dalle guardie in quella chiesa per adempiere al precetto pasquale. “Non ci andiamo noi, non si permette neanche a loro”. Questa fu la risposta. Risposte degne di questa gente... Cosa si può desiderare di più, cosa si può sperare da questa genia di persone fatte solo di materia? Vivere come bestie, ecco la teoria e la pratica del Comunismo che trionfa e impererà sull’Europa tutta in questo dopoguerra. Sia fatto il volere dell’Altissimo! Stesso lavoro di rastrellamento e, nel tempo libero della sera, mi dedico ad arrangiarmi qualche indumento. Da un vecchio pigiama, che mi fu dato ad Aleksinac, ricavo un paio di mutande dalla parte superiore e, dalle due estremità tagliate, mi sforzo a ritrarne fuori un altro paio. Fuori intanto si è scatenato un vento d’inferno che fischia furibondo agli angoli del caseggiato facendo dondolare i grossi blocchi di cemento armato rimasti appesi dopo la furia della guerra mentre la pioggia batte ai vetri con violenza62.
Mercoledì 25 aprile 1945 Solito lavoro, vento e pioggia. In baracca. Verso le dieci di nuovo al lavoro tra un vento che ci trasporta. Rancio. Dopo mezzodì rastrelliamo tante bombe che facciamo saltare in aria in tre riprese. In lontananza si vedono nugoli di fumo e polvere e schegge infuocate, mentre la terra è tutta scossa tra un assordante rumore infernale. Notizie apprese da un apparecchio radio nell’ufficio del comandante: Conferenza di S. Francisco. Per circa tre quarti Berlino è caduta. In Italia si è oltrepassata la città di Ferrara. Le forze alleate e i patrioti italiani procedono bene.
Giovedì 26 aprile 1945 A prima mattina un nostro connazionale, dal Comando della città, viene a rilevare le nostre generalità esatte dicendo che presto si dovrebbe partire alla volta di Belgrado per essere rimpatriati. Ci dice pure che Padova è caduta in mano ai patrioti. Lavo al vicino fiume gli stracci e ne rammendo altri. Notizie: Reggio Emilia, Mantova, Genova e Milano sono in mano dei patrioti italiani e presto anche Torino.
Venerdì 27 aprile 1945 Forte e pesante lavoro per lo sgombero d’un capannone. Notizie dai fronti: si ribadisce la voce che circa tre quarti di Berlino sono in mano degli alleati. Mussolini, Graziani e Pavolini arrestati.
Sabato 28 aprile 1945 L'intero giorno piove ed io profitto per il solito lavoro di rammendi al corredo dei cenci. Notizie alla radio: pare che la Germania abbia chiesto l'armistizio meno però alla Russia.
Domenica 29 aprile 1945 Riposo. Vento e pioggia. Un aereo atterra. La radio dice che Mussolini è stato giustiziato dal popolo.
Lunedì 30 aprile 1945 L’aereo tedesco atterrato ieri con a bordo personale Bulgaro riparte sulle prime ore del mattino. La salma di Mussolini e collaboratori è stata esposta a Milano e poi portata alla sepoltura senza onori. Fuochi accesi su tutte le alture, all’im62
23-24 aprile 1945: idem.
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brunire sparatoria da tutti i lati con pallottole traccianti e razzi luminosi. E’ la vigilia del 1° maggio, la festa del Comunismo.
Martedì 1 maggio 1945 Verso le nove adunata delle due compagnie di lavoratori serbi, di una compagnia di fucilieri e di noi prigionieri. Il comandante di battaglione presenta la forza al commissario politico il quale, giunto al centro, grida col pugno sulla fronte “smrt fašismu”63 a cui fa eco un coro “sloboda naroda”654. Cede il posto poi ad un oratore che commemora la data. Segue la sfilata, dopodiché la manifestazione ha termine. Rancio: brodo, pezzo di carne, 9 sigarette. Nel pomeriggio ancora conferenza, puerili recite e musica con balli primitivi. Hanno invitato, al proposito, tante ragazze e “drugarice” (compagne) che sono intervenute numerose e ballano, ridono, schiamazzano e si abbandonano spensierate sui prati. Tutti tappezzati dalla fantasmagoria delle loro vesti multicolori. E continuano fino a tarda ora, sempre schiamazzando tra il calore della grappa mentre il silenzio della sera è rotto dalle continue sparatorie e l’oscurità del cielo reiteratamente viene solcata da razzi illuminanti. Città italiane liberate: Treviso, Udine, Venezia, Alessandria ed altre. Nel periodo d’una decina di giorni i patrioti italiani hanno liberato più di un centinaio di città apportando un grande contributo alle forze alleate, fatto questo posto in rilievo dal colonnello Stivens nel commento ai fatti del giorno. Questo contributo, dice anzi farà sì che si tratti l’Italia con molta benevolenza nella soluzione di alcuni problemi nel dopoguerra. Mercoledì 2 maggio 1945 Giornata comune, ma alla sera ci consola una calorosa notizia: la nostra Italia è alfine completamente libera. Le forze tedesche, presidianti l’Italia settentrionale e il meridione Austriaco (22 divisioni tedesche e 6 italiane) si sono arrese senza condizioni. Contentezza per la notizia, ma d’altro canto il cuore non è, e non può essere soddisfatto appieno, finché non avrà le risposte agli interrogativi che attraversano la mente: quando si spezzeranno queste disgraziate catene?… Quando anche noi saremo finalmente liberi nella libera Italia?… Si ha notizia della fine di Hitler e della capitale della Germania che è ormai all’ultima ora di vita. Anzi mi sono appena adagiato quando nuovi spari tutt’intorno, voci confuse e baldoria si sentono accompagnati dal fischio di tante sirene mentre il cielo di tanto in tanto è solcato da numerosi razzi illuminanti. Baldoria e danze fino a tarda sera.
Giovedì 3 maggio 1945 Ancora fischi prolungati delle sirene. Solito lavoro. Altre forze si arrendono. Trieste in mano a forze neozelandesi.
Venerdì 4 maggio 1945 Sego, spacco e trasporto legna alla cucina. Un milione di prigionieri in Olanda e Danimarca che hanno capitolato. Due tradotte di soldati serbi vanno verso il nord. Questa è una mossa tattica. Penso vengano avviati verso Trieste. Recito il rosario prima di dormire.
Sabato 5 maggio 1945 Mezza giornata di lavoro e l’altra metà mi faccio il bagno e lavo qualche indumento. La radio dà notizia di tutta la gravezza nei rapporti politici tra Italia e Iugoslavia per la questione di Trieste. Questa notizia accascia. Quando crediamo quasi tutto finito e vicino il giorno della liberazione, altre questioni sorgono. 63 64
Morte al fascismo. Libertà del popolo.
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Domenica 6 maggio 1945 Pasqua serba. Freddezza spirituale e apatia e noia. Mi sento molto indisposto e non ho appetito. Per radio ancora la questione di Trieste.
Lunedì 7 maggio 1945 Mi viene riconosciuto il riposo per oggi. Molte donne fanno visita ai loro congiunti, soldati o civili del battaglione lavoratori, portando ogni bene nelle loro ceste. Verso le tre si apprende che la Germania ha capitolato su tutti i fronti. Le sirene lanciano i loro fischi assordanti, prolungati e pateticamente melanconici che s’incrociano mentre si spara a salve da ogni dove, tutt’intorno. E’ finita la guerra… Il cuore ha brividi di pianto e di gioia perché sembrava che quest’ora non dovesse giungere mai. Ma ancora la nostra gioia non è una gioia piena. Quando finirà per noi il presente stato di cose? Quanti avvenimenti, quante novità sorprendenti si sono succedute nel breve periodo di pochi giorni, ma a tutte il prigioniero, ormai stanco e sfiduciato, dà poco peso e risponde con un sorriso pieno di amarezza sempre triste e scettico. Ancora non ha risuonato quella agognata e lacrimata notizia della bella e dolce liberazione. Ancora attende, il povero prigioniero la voce lontana della cara Patria quella sola e cara voce che potrà ridare la gioia vera, potrà far sorridere il cuore del prigioniero d’un sorriso sentito, spontaneo e caldo nel pacato e sereno miraggio della pace spirituale. Martedì 8 maggio 1945 (Annotazioni non svolte)
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LA MEMORIA SI RACCONTA di Alessia Patanè «Quando la memoria va a raccogliere i rami secchi, torna con il fascio di legna che preferisce». Proverbio africano
Perché, nel territorio di Priverno, esiste una memoria pubblica dei tedeschi ma non dei marocchini? Perché intorno a questo evento della storia non si è formata alcuna memoria ufficiale? E Com’è possibile che la maggior parte degli intervistati pur rievocando razzie e rastrellamenti giunge a concludere, quasi sempre, che i tedeschi “a noi ci volevano bene”? Sono i quesiti a cui ho cercato di dare una risposta attraverso un lavoro di interpretazione dei contenuti delle interviste raccolte tra il 2007 e il 2009. Attraverso l’uso delle fonti orali, la ricerca condotta si è posta l’obiettivo di recuperare la memoria storica degli eventi locali della seconda guerra mondiale, prestando particolare attenzione alla percezione e alla rappresentazione dei comportamenti dei soldati tedeschi e marocchini elaborate dalla popolazione di Priverno nel corso degli ultimi sessant’anni. Il contenuto emerso dalle interviste è vasto e vario: si va da descrizioni di avvenimenti a resoconti sull’esperienza personale a rievocazioni nostalgiche, il tutto raccontato in dialetto perché è in questa lingua che i ricordi si esprimono più facilmente e con maggiore spontaneità. Nel trascriverle ho conservato la forma dialettale per mantenere una maggiore fedeltà al testo orale registrato; spesso troverete dei punti di sospensione a sottolineare cose non dette o sottintese; e se pause e i silenzi nella forma scritta si traducono con un insieme di simboli grafici, nella forma orale contengono emozioni, imbarazzi, esitazioni; esprimono l’atteggiamento del soggetto verso quel fatto. Altro aspetto interessante è la gestualità che accompagna il racconto, a specifici argomenti corrispondono altrettanti specifici gesti: le mani tra i capelli nel descrivere i bombardamenti, stringersi il busto tra le mani nel parlare delle violenze delle truppe marocchine. In questa opera riportiamo 7 interviste rappresentative delle 15 (13 donne e 2 uomini) previste dal progetto originario. I soggetti della ricerca appartengono ad una rete di conoscenze dirette e mediate: sono donne e uomini di età compresa tra i 70 e gli 80 anni quindi i racconti Alessia Patanè. Laureata alla Facoltà si Sociologia in Analisi dei processi culturali, interculturali e della comunicazione. Impegnata nel campo dell' iimmigrazione per una cultura dell'accoglienza e della solidarietà a tutela dei diritti umani. 159
Guerra, racconto e memoria
Gruppo di Goumiers della legione francese
dell’occupazione e della liberazione vengono a coincidere con quelli dell’infanzia e dell’adolescenza generando un intreccio tra eventi pubblici ed eventi privati. Il lavoro di interpretazione delle testimonianze ha consentito di mettere in luce anche il rapporto tra le memorie autobiografiche individuali e le trasformazioni socio-politiche del quale il testimone è protagonista. La memoria non è quindi la semplice riproduzione del passato ma un processo dinamico di rielaborazione del vissuto: una storia ogni qualvolta che viene narrata assume significati diversi sulla base delle esperienze, degli interessi e del sapere presenti del soggetto che è divenuto altro rispetto al passato ed è in questo spazio temporale che si plasma il senso del proprio vissuto. Un elemento comune e ricorrente che emerge nei racconti dei protagonisti di queste interviste è l’immagine del “soldato buono”; il tedesco che aiuta la popolazione per la sopravvivenza, che rispetta le donne e i bambini è una rappresentazione largamente condivisa solo in parte veritiera ma non è necessariamente un racconto falso: “…non so’ se hanno trattato male qualchedun’altro ma a noi ci volevano bene […] ecco erano cattivi se tu li trattavi male […] anzi ci portavano la minestra…”.
La presenza prolungata dei tedeschi nel paese aveva instaurato un clima di convivenza apparentemente amichevole: “…ci dovevi pure anda’ d’accordo” e questo aveva fatto si che qualsiasi atto di violenza avesse carattere episodico facilitando l’attribuzione di momenti di massimo scontro ai reparti speciali: “… erano i più cattivi le SS, erano chigli che proprio t’accidevano tanto che conti”. La maggiore violenza esercitata dalle SS contribuisce alla creazione fittizia del tedesco buono che capisce “le esigenze della popolazione” mentre “le SS quelli no, quelli erano terribili”. L’abitare accanto agli alloggi dei tedeschi sembra creare addirittura rapporti di vicinato, di condivisione del pane: 160
Alessia Patanè
“Le SS - racconta M. - erano un po’ cattivi però ti dirò che chigli tedeschi che stavano sotto quando facevano da magnà, tenevano ca pezzo de pane, era niro, issi li chiamavano glio prot allora abbussavano “mamma mamma” ci dicevano a matroma: “la bimba la bimba”…”;
La rappresentazione del tedesco buono viene meno nel momento in cui si distingue all’interno della Wehrmacht la presenza di soldati di nazionalità diversa: “…erano cattivi i tedeschi erano cattivi, invece gli austriaci erano bonacci…”, racconta Oliva. E’ l’austriaco che stabilisce un contatto con la popolazione attraverso il dialogo: “…gl’austriaco te capisceva, quando ci dicivi ca cosa isso veneva a fatica a capi’ peò t’aresponneva” invece “glio tedesco no’ te capisceva”,
La creazione fittizia del tedesco buono si dissolve anche nel confronto con il soldato americano la cui immagine torna alla mente sempre connessa alla disponibilità dei beni materiali, alla sensazione di potersi finalmente liberare dal pensiero della fame: “perché i tedeschi ci’anno fatto mancà ‘ il pane i tedeschi ci’anno fatto manca’ tutto e quando ao arrivati gl’americani ‘a arrivato tutto per noi, ‘a cominciato arriva’ la farina, i vestiti, ‘a cominciato ‘a arriva’ le scarpe, ‘a cominciato ‘a arriva’ tutto…”. Sugli americani si concentrano attese e speranze ma la liberazione tanto attesa si trasforma presto in un incubo. “Quando pensavamo che la guerra era finita per noi no per noi era la clausura fino a che i marocchini non sono andati via” racconta Luisa. Con l’arrivo delle truppe d’occupazione si viene a contatto con il diverso, lo straniero. Ma in questo caso la scoperta della diversità è stata drammatica. Nei racconti le donne si soffermano sulle trecce, il colore della pelle, i copricapo dei marocchini. “Erano bruuutti co’ chelle trecce co’ chigli turbanti ‘n capo, de chigli teneva paura”. Questi elementi evidenziano la stranezza e allo stesso tempo l’alterità delle truppe marocchine. L’altro è l’inconoscibile: “niri brutti, d’estate tenevano friddo, tutti alloco alla Porta(Romana), a glio sole”. Il diverso è l’incarnazione di tutto ciò che è vergognoso, ripugnante, i marocchini erano ‘cattivi’, ‘disgraziati’, ‘assassini’; i marocchini “erano…bestie”, mentre: “i tedeschi ci steva cauduno pure malamente ma steva pure la gente brava perché i boni e li cattivi stavo da pe’tutto. Era la guera e quando è guera è guera n’ci sta niente da fa…” “N’ao acchiappato mai nisciuna dentro la casa, ao fatto glio dovere se’ dentro Piperno dopo agl’atri posti no’ le saccio”. Se le azioni dei tedeschi sono quelle chi ci si aspetta da un esercito in guerra: “…era la guerra fi’ se no’ m’accidi tu te tengo t’accide io a ti…”, le intervistate concordano nel sottolineare l’eccesso di violenza gratuita praticata dai goumiers che riporta alla mente immagini apocalittiche: “ao fatto la strage degli innocenti”, “chigli ao fatto strage ando’ passavano” conferma un’altra intervi161
Guerra, racconto e memoria
stata, “ando’ passavano chisti ao distrutto tutto” Vennero stabilite anche delle parole in codice quale “rozzolo” per avvertire le ragazze della presenza dei marocchini e avere così il tempo di nascondersi. Reti di solidarietà femminile, generazionale e familiari sono state strumento di difesa per proteggersi dalle violenze. Se prima erano gli uomini a doversi nascondere sulle soffitte o nelle “tracerne” per sfuggire alle retate dei tedeschi, ora i ruoli sono rovesciati, sono le donne a doversi nascondere e gli uomini proteggerle. Una guerra che si è svolta per tutti i protagonisti al di fuori della loro comprensione “…nsomma ne saccio neanch’i’ che guerra era chesta…”, continua Stella, e l’immagine che mi restituiscono è quello di un quotidiano che espone costantemente al pericolo al quale si è cercato di sopravvivere mettendo in atto forme di solidarietà e strategie impensate. In molti racconti emerge la percezione di una parallela guerra ai civili accanto a quella combattuta tra gli eserciti in cui la popolazione si ritrova tra due fuochi: “…’nsomma era la guera fi’, semo stati meso a du’ fochi…”. L’incomprensione di allora si è trasformata nella consapevolezza di oggi che un qualsiasi conflitto non porta con sé alcune soluzione perché “se fai la guerra devi esse già pronto col muso duro” ed è impossibile trovare ragioni sensate alla violenza: “le guerre non se devono fare […] non ci’à ragione ne uno ne l’altro, quando combattono sbagliano tutti e due”. La memoria del passato si traduce così in un rifiuto della guerra. La ricerca non vuole essere un punto d’arrivo ma l’inizio di un working in progress perché se “l’evento vissuto è finito”, “l’evento ricordato è senza limite”. Le interviste sicuramente offrono lo spunto per ulteriori analisi ed interpretazioni. Sarebbe interessante approfondire la memoria della guerra dal punto di vista femminile perché il secondo conflitto mondiale è stata una guerra che ha visto come protagonisti gli uomini come anche le donne, impegnate ad attivare strategie di solidarietà e di protezione per i propri uomini; donne protagoniste di una violenza tale che la memoria ha preferito affidare all’oblio, una memoria ferma lì, nel tempo, ma pronta a riemergere se sollecitata.
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Intervista
Loreta De Bonis classe 1921
Loreta: Dopo che se ne ao iti da ecco ao iti agl’iatto de Cassino, Frosinone, alloco ao fatto i macegli. I teneva la gente che veneva a raccoglie le spighe quando se mieteva, erano forestiere, l’hanno dopo ne venero bia dova, “e come va chessatre (le altre), che ao fatto?”, “figlia” ‘na vecchietta “l’ao smadrate” ha ditto (alza il tono della voce), “pe’ denanzi, pe’ detre” (davanti, dietro), l’acciderono: giovani, vecchie, tutto. Però ha ditto ca uno disse: “L’Italia ha rovinato, dentro gio paese” la Francia, che era?! ha detto: “cattiviiii”, sai che facevano? dice che devono foco alle frasche, prima ievano, se divertevani gli italiani, ‘na vota ‘na nonna vecchia, la madre e du’ figlie tutte ‘n cima a chelle (quelle) cariche de legna, dice che ao fatto tante cattiverie, disse chiglio e mo’ ao portato chisti assasini pe’ fagli divertì. Ce stava ‘namicizia pare che eravamo frati e sore, li pianti, quando i faceva la pasta all’ova ne faceva più tanta «t’arecordi zì Lorè come magnavamo, ‘nci (non ci) stavo più porelle». Prò dice che gl’italiani ao fatto i macegli alloco. Nui stavamo a mete mai la Marittima chisti portavano de giugno no vestito marone, pesante, lo cappuccino, allora Cosa che teneva le vacche vicino alle terre de zì Vincenzo, mo’ no’ me recordo come se chiama dice: «costì (Agostino) ma fai passà moglieta mai la via co’ si diliquenti», io portava a magnà, a beve, eravamo ‘na decina de metitori, ma i me la pigliava alla leggera, ma i camion tutti co’ lo gabbione, chiusi. Allora uno voleva ‘scì (uscire), allora uno de Piperno dice : «costì vacci co’ lo soricchio in faccia che ao paura», allora scerono tutti co’ lo soricchio e scapparono. Luisa: Si perché papà diceva che avevano paura dell’arma bianca. Loreta: Allora ‘no vecchiotto disse: «tu facivi acchiappà moglieta, la facevi arovinà da st’assassini, tutti ‘sti sacrifici de guerra che semo passati». Alessia: Cos’è l’arma bianca? Luisa: è il falcetto, ha la lama bianca, (mi mostra l’oggetto che ha sul camino insieme agli altri ricordi del padre), questo quando l’arrotavano diventava color ferro chiaro, un grigio chiaro quindi loro avevano paura di questo perché loro usavano fucili e pistole. Loreta: ce lo disse ‘no pipernese se vede che era stato da chelle parti «curi(corri) costì co’ glio soricchio ca moglieta ‘nci guarda più». Luisa: però io ho un ricordo buono degli americani, dei tedeschi avevo paura perché, non lo so, o era l’abbigliamento, il loro modo di fare sempre violenti con la voce «Raus» mentre l’arrivo degli americani non è stato così. Io mi ricordo stavo sfollata, no’ con lei, con papà, mamma, le cugine a Valle Cagnana, giù alla valle, prima era campagna, poi c’era un lungo fosso di acqua, oltre il fosso stavamo noi, mi ricordo mio padre, una mattina, le cannonate, mamma mia, da Cassino, tra tedeschi e americani era una musica notte e giorno e…quando mio padre vidde un’ aereo a forma…lui la chiamava la cicogna, mio padre aveva combattuto la guerra del 15-18 quindi sapeva e allora mi disse: «Luisa gli americani sono vicini», «magari!!!» feci io, «magari, non tengo più le scarpe, non tengo più niente» perché mi erano rimaste un paio di scarpe di gomma, si erano tagliate ei lacci non ce l’avevo, avevo messo il fil di ferro al posto dei lacci, non riuscivo 163
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più a camminare bene, allora papà disse «prepariamoci», allora c’avevamo il mulo, carichiamo tutto quanto, attraversiamo San d’Avino, sotto le cannonate e scendiamo alla ripa, mesà che la troviamo gli americani!! Io portavo una creaturina, una nipotina figlia di una cugina che stava con noi, le avevo dato la mano, andavamo verso san martino e in mezzo al sentiero io che non vedevo l’ora di vedere gli americani perché…mio padre dice: « camminiamo camminiamo che ora arrivano gli americani», vedo un cristone (un uomo alto e grosso) per terra con la mimetica, io non sapevo, lo so oggi che è la mimetica militare, con l’elmetto con la rete, allungato (espressione di stupore), io appena lo vidi feci: «oddio, oddio papààà» e tornai indietro co’ sta creatura, a momenti mi cadeva, lui si alzò, mi disse: «american, american», mi si avvicinò, mi fece una carezza proprio per dire non aver paura, tutti avevamo paura, allora lui ci portò più avanti e cominciò a dare un sacco di roba, scatolame ‘ste cose così e ognuno di noi prendeva quello che poteva e io dissi che volevo un paio di scarpe e lui mi disse che le sue non potava darmele (sorride) perché erano grandi per il mio piede, infatti lui era alto, era un bel giovane e insomma a piedi, paino piano arrivammo dove stava lei (la sorella), vicino da Ottaviani oggi, a piedi, ma gli americani ci avrebbero dato, se noi non stavamo attenti ci avrebbero rotto pure la testa perché dalle macchine buttavano viveri a tutto spiano: mia nonna la caricarono di roba; noi ragazzi, tra i 15-16 anni tutti mano la strada e loro buttavano il ben di Dio, per esempio il pane di riso, io non conoscevo il pane di riso, bianco bello, pagnottine, una fettina fina fina la mettevi in una tazza di latte ma buono, buono buono e non ci sembrava vero perché noi grazie a Dio avevamo da che vivere insomma ma tanta gente soffriva la fame. Sai il marito di Claudia che mi ha raccontato, io non lo sapevo, stavamo sfollati, giù a Valle Cagnana e io avevo pane e prosciutto perché grazie a Dio papà aveva provveduto, aveva nascosto perché aveva fatto la guerra quindi capiva e ci avevo pane e prosciutto, allora io non lo volevo, Giovanni stava mangiando la crusca cotta nell’acqua, nel tegame, ma se lui me lo avesse detto, io io non lo sapevo, io pensavo che quello era il mangiare per le galline, per il maiale, capito, dico io te lo avrei dato, ma come me dici oggi me lo potevi dire ieri quando stavamo sfollati, vicini. Pensa che io davo il pane ad Ermete Saputo, la mamma aveva solo mortadella, salame, ma pane non ne avevano, farina non ce l’avevano porella, allora mi ricordo era compagno mio, la mamma lo chiamò: «Ermete, Ermete ve’ che mamma te da’ la mortadella», «no ma voglio tutto pano», la mamma dice: «ma non le tengo, che te donco (dare)». Loreta: Momenti brutti. Luisa: Allora venni a prendere il pane e glielo portai e io mangiai la mortadella con gusto, con una fetta di pane e lui quando vide il pane, porello, c’è gente che ha sofferto. Quando vidi l’americano disteso lungo il sentiero del bosco, io i brutti negri li vidi, non so, quelli erano come le bestie, e ci portò dove erano gli americani dove erano gli interpreti italiani più avanti e allora l’interprete disse a noi: «non alzate gli occhi, guardate a terra», ma sai la curiosità è femmina e io con la coda dell’occhio mamma, un gabbione, le belve! Alessia: Ma erano i marocchini? Luisa: Negri, negri. Però la strage i marocchini l’hanno fatta verso Giuliano, 164
Intervista
Valle corsa, da quelle parti lì, sui monti Ausoni, lì c’è stata la strage. Loreta: Omini, femmene…Mamma stava alla vigna perché scappao?! S’ao approfittato pure degli omini. Ci stava Zucchero, li macellarono, era ome, vecchio, capito?! Se trovava mamma che succedeva…Padremo co’ matroma ci disse a chiglio “cammina”, “eh che me fao”. Padremo stava a dà l’acqua ramata e madroma a scraponà ma padremo era ‘no tipo sveglio dice “arevevo, arevevo aecco, teo capo brutto e infatti…. Luisa De Bonis (maestra), classe 1929
Luisa: Quando giunse la notizia che l’otto settembre ci fu l’armistizio tutti credevano che la guerra era finita: «è finita la guerra, è finita la guerra» invece la guerra cominciava allora, la guerra civile perché con le truppe americane, truppe francese che portavano soprattutto marocchini perché il Marocco era una colonia francese, il comando francese si stabilì a Priverno e controllavano i marocchini e le donne marocchine perché avevano portato donne marocchine per soddisfare i marocchini perché erano violenti bastava che vedevano una donna italiana, subito no, quindi erano tenuti a freno dai francesi e si erano stabiliti a Priverno al vecchio carcere dove adesso c’è l’ufficio per l’igiene e i servizi ambientali (ex usl-portaromana) e sotto al garage sulla via che porta alla stazione c’erano le stanze dei marocchini e delle marocchine questo io lo so perché allora avevo quindici anni, mi ricordo che papà venne a casa esterrefatto, sbalordito una mattina perché avevamo una rimessa oggi si dice garage mentre stava preparando il carretto e il cavallo ad un certo momento: «ho visto tre…» non sapeva che erano donne «tre personaggi alti con delle tuniche» quindi queste tre erano donne marocchine che entrarono subito nella rimessa dove papà stava preparando il carretto e il cavallo, si tirarono fuori, avevano un camice, mio padre ebbe paura ma nello stesso tempo non fece in tempo ad avere paura che un comandante francese le raggiunse e a voce (alza la voce e farfuglia) le riportò nel garage dove queste dormivano, avevano i letti, e poi papà non le ha viste più. Alessia: e queste donne cosa volevano? Luisa: Come i marocchini cercavano donne italiane così le marocchine volevano uomini italiani evidentemente. E quindi quando si diceva che l’otto settembre la guerra era finita invece con l’arrivo dei marocchini noi eravamo tutti dentro casa , nessuno potava uscire più. Proprio una cosa tremenda, tutti avevano paura dei marocchini perché avevano già una nomea dice sai questi sono selvaggi eccetera poi però a Priverno non è che è successo niente di., non hanno dato fastidio anche perché c’era il comando francese che controllava la situazione ma se questi riuscivano a scappare, ad allontanasi, a farla ai francesi, danneggiavano le donne che incontravano in una maniera bestiale soprattutto su a Roccasecca sai dove? Verso la Lucerna, loro andavano per le montagne, per le case isolate. A Priverno solo un caso, a Ceriara, che io ricordo perché nel 1948-1950 io esercitavo l’attività di assistente sociale dello Onarmo perché non si facevano supplenze, io feci un corso di assistente sociale a Roma e quindi mi chiamarono come assistente sociale prima dello Pontificio Assistenza e poi dello Onarmo e praticamente io 165
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assistevo persone povere che avevano bisogno di farsi fare pratiche all’Inps eccetera. Un giorno stavo in ufficio e questo nel ’51 entrò una signora che camminava tuta dritta, impalata ecco muoveva le gambe però il busto, il corpo rimaneva teso e mi disse: «sai signora io ho bisogno tanto perché io ho sofferto tanto», «ma dimmi, dimmi tutto quello…», «io devo fare una pratica a Latina per la malattia che ho avuto», dico: «raccontami no», dice: «oddio signorì» mi disse: «mi vergogno a direterlo, si’ ragazza», «ma dimmi, dimmi, raccontami tutto» e mi raccontò che lei era una marocchinata, abitava a Ceriara in una casa di campagna, allora Ceriara non era popolata come adesso, c’erano casette sparse, vivevano nella miseria, due marocchini entrarono dentro casa, lei stava sola col marito e...violenti, allora legarono prima il marito lo bavagliorono e uno gli teneva la pistola proprio sulla tempia mentre l’altro violentava la moglie in presenza del marito, questo me lo raccontò lei con le lacrime e lei cercava di reagire ma chi la sentiva con quella violenza ha detto: «io non mi potevo muovere ero impalata, non sapevo quello che accadeva vedevo solo gli occhi di mio marito che mi guardavano…spaventati proprio», terminato, lui prese la pistola al compagno e il compagno continuò a violentarla in una maniera bestiale fino a che questa «ho avuto una emorragia e mi hanno lasciato, so’ scappati, mio marito è riuscito a sciogliersi, è stato lui perché io ero spaventata, non capivo più niente no, e mi ritrovai al policlinico a Roma, mi avevano perforato l’intestino e mi stava venendo l’asetticimia e non lo so come sono viva però ecco come sono rimasta». Terrorizzata, terrorizzata, dice: «signorì, tu si’ signorina non te le voglio dì però questo, questo e questo m’hanno fatto». Una cosa tremenda, tremenda, tremenda…. Le mamme non ci facevano uscire li vedavamo dai vetri della finestra del balcone di mia nonna, vedavamo passare questi marocchini con una tunica a righe, quelle stoffe rigate marrone, marrone più chiaro, più chiaro ancora, lunghe e il cappuccio dietro e loro erano magri, magri e il colorito olivastro non proprio negri, quel colorito scuro, magri, molto magri, io me li ricordo così. Quando il comando francese portò via i marocchini allora noi cominciammo ad uscire, ma i francesi erano molto gentili con noi, si, mi ricordo che…io ho una sorella suora no, lavorava al Celio, l’ospedale militare, e non sapevamo notizie più durante i bombardamenti, la guerra eccetera, l‘arrivo degli americani, non sapevamo più dove mia sorella stesse, perché il Celio era stato trasferito in un altro edificio di Roma e lì si erano stabiliti gli americani, e allora mio padre sempre in questo periodo delle marocchine, di marocchini eccetera, conoscendo questo non so’ sarà stato un comandante, qualcuno, un graduato perché per rincorrere le marocchine era a guardia di queste marocchine, allora mio padre conobbe questo francese gli disse: «senta dice io ho una figlia così e cosi però non riesco ad avere notizie, che fate, andate qualche volta voi a Roma, dice: «si, si», «però no voi marocchini quando andate voi francesi, insomma, allora fu molto gentile, portò mio padre al Celio, al Celio dissero dove erano le suore del Celio con i malati nostri italiani e lo accompagnò lì e mio padre rivide mia sorella poi gli diede un appuntamento e lo riportò a Priverno, fu di una gentilezza squisita proprio, però questo è il ricordo che noi non potevamo assolutamente uscire, niente, solo gli uomini, i ragazzi ma noi no. 166
Intervista
Quando pensavamo che la guerra era finita per noi no, per noi era la clausura fino a che i marocchini non sono andati via. Maria Cipriani e M.*
(*L’intervistato/a ha chiesto l’anonimato nella pubblicazione)
M. Cipriani. : Nel ’43 à venuto sto battaglione della Piave e nel frattempo ci stevano pure i tedeschi e hanno fatto le razzie, se prendevano gli uomini. M. : à visto via Zaccaleone, tutti seduti pe’ ttera e gli cammi stevano a ecco alla porta, dopo ao cominciato a fa’ la razzia, chesto me ce so’ trovata io lo posso dire, steva glio padre de Tina Coletta: Miliuccio, teneva glio camice bianco, era visto tutti sti cammi, co’ ‘na botta, alloco meso alla porta(romana) ao scappati tutti ‘ste tedeschi e ao tuti tutti gli omini che ao trovato pe’ la via, chi le sapeva, isso à aremasto, oh mari’ me l’arecordo accome mo’, ‘no begl’ome, aremasto ‘mpalato, ci à venuta la tubercolosi. M. C. : s’à salvato perché portava glio camice bianco, isso teneva glio mulino ando sta’ mo’ la parrucchiera sotto da ti’, steva glio mulino che macinava glio grano, isso ‘a visto tutta sta confusione e s’à ito ‘nforma che steva a succede e tra tanti pure isso volevano sequestra’, ci à ita be’ ‘nsomma, à ditto: “me vado a togliere il camice, chiudo le macchine e vengo”, co’ chella grande agitazione s’ammalato. Allora tutti gli omini dopo ao ‘ncominciato a scappa’ alle montagne, se n’ascondevano sopra alle soffitte M. : alle tracerne, perchè ‘n cima alle soffitte ci azzecavano pure. Alessia: che so’ le tracerne? M. : Tra ‘na casa e n’atra, se tu passi aecco aglio vicolo de Baboto ci stavo le tracerne che erano larghe accosì (indica la larghezza con le mani) Alessia: e’ tipo ‘na fessura? M.C. : pe’ no’ f’appicica’ ‘no’ muro co’ gli atro M. : e se mettevano meso a chelle cose, anguattati , chi gli eva aretrova alloco, ievano alle soffitte, entravano alle case, manco agli cani mamma mea M.C. : a Piperno acchiapparono parecchia gente, acchiapparono glio medico Raniero Oliva, gli D’Alessio, erano ragazzi a chell’epoca e gli portarono tutti. M. : a Cassino M. C. : perché a Cassino ci steva M. C. : la guera, gl’ao portati pe’ falli’ lavora’, carichi de piducchi ao arevenuti, già li tenevano tutti, mo’ te dicemo, li tenevano tutti perché l’acqua era poca M. C. : era come ‘nepidemia, li semo tenuti tutti. M. : ao arevenuti pizzicati de tutti chigli piducchi che tenevano addosso, ao stati ‘nsaccio quanti giorni mino male, ma gli atri che no’ s’ao salvati…dopo sempre s’apparecchi Mari’ M. C. : ogni tanto bombardavano da pe’ttutto M. : Ale’ ci facevano la spia perché ao venuti a bombarda’ a Largo Cellini, perché alloco ci stevano gli tedeschi, ao iti a bombarda’ da Bucciarelli perché da Oliva ci stevano i tedeschi, alloco ‘nfaccia tutti accampati, ao iti a glio Bucio della Pallina perché stevano accampati pure la’, erano spie chelle. M. C. : nui tenavamo glio fronte de Cassino vicino 167
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M. : ao iti a Roccagorga, mari’ a dicci’ M. C. : allora a Priverno ogni tanto ittavano ‘ste bombe, spezzoni… M. : però a Roccagorga à successo prima che sfollavemo, oh so ita i’ agli’ospedale Mari’ co’ Suor Maria, feresca meo, so ita à ’nfascia gli uttri , n’ t’arecordi bombarderono la scola de Roccagorga? M. C. : no chesto no’ me l’arecordo M. : tutti bambini, alla piazza de Roccagorga, io le so visto da ecco, steva pure nonna mea aecco, nonna mea fece: “oddiooo ch’è chello oddio ch’e chello” no’ se conoscevano gli apparecchi, essa terrorizzata a chella finestra a vede’ st’apparecchio che ittava…e tutto foco, proprio a ‘na scuola de bambini, ao venuti chi s’era stoccato ‘no braccio chi ‘na mano… M. C. : be’ ittavano le bombe ma non vedevano ando’. M. : erano dengerose sta roba, se ‘n te’ medecavano be’ te s’accoglieva, la carne s’enfracicava. M. C. : nui eravamo circondati de tedeschi e allora gli americani bombardavano. M. : bombardavano, ‘mbhe’. M. C. : bombe più grosse, spezzoni più piccoli, granate. M. : diooo, mamma M. C. : è stata ‘na continuazione, dopo a nui glio bombardamento più grosso è stato il 31 gennaio quando ao bombardato a Largo Cellini, la prima ondata a stata aglio canceglio: sotto da Bucciarelli, a Sant’Antoni, ‘nsomma alla prima ondata sparpaglierono ‘npo’ de bombe così, ‘n cima a San giovanni A: pure a San giovanni stavano i tedeschi? M. : l’ittavano ando’ vedevano lo largo, le ittavano. M. C. : il 31 gennaio la prima ondata, verso le due, fecero ‘sti spezzoni dopo verso le tre, tre e mezzo allora l’ao propria ittata a Largo Cellini e a casoma M. : ‘no bottooo M. C. : eravamo più de ‘n’aventina de persone tutte a ‘sto negozio che tengo mo’ i’ sotto casa, ci sta la scala e la scala è aperta, mentre che se sentevano gli apparecchi vola’ ao entrate de corsa ‘ste du’ signore che venevano a venne lo sale. M. : no’ se trovava niente, farina, sale, pano, ‘n tenevano niente, tu ci divi ‘na cosa esse te devono lo sale, ci divi n’atra cosa e te devano lo pane, chi le poteva fa’, chi no’ le poteva fa’ s’ammorta de fame. M. C. : ste signore “facetece entra’ pe’ piacere, hanno sganciato le bombe”, chelle romane le capivano le bombe perché stevano abita’ a San Lorenzo, a Roma vicino glio cimitero e erano assistito a vari bombardamenti, quindi gli capivano i fischi, quando buttavano le bombe se senteva ‘no fischio, e semo visto tutto buio, casa mia à crollata tutta, nui stavemo rifugiati sotto la scala, tutti stritti stritti, papà a ‘nangolo della porta e ‘no signore de Terracina agli atro quindi à crollato primo e secondo piano e tutto buio è diventato, tutto buio, tutta polvere tutto amaro cattivo ‘nbocca, allora glio padre de Anna à cominciato a chiamacci a uno a uno, dietro alla parete ando’ s’era appoggiato papà tutte schegge. M. : Verso le quattro dalla finestra me’ so visti issi tutti impolverati, camminavano accome senza posto ando’ tenevano i’. 168
Intervista
M. C. : eravomo accome ebete, stravolti…dopo la guerra s’à fatta più ‘ntensa ‘nfatti tutti sfollati pe’ le montagne stavamo, a ‘no certo momento la guera s’à finita, ao arrivati finalmente gli americani, tu pensa co’ ‘na mitraglietta i tedeschi ‘n cima da nui, furbi, la spostavano in continuazione, gli americani erano arrivati a largo San Giovanni co’ tutta la truppa de francesi, militari inglesi tra cui i marocchini, mannavano annanzi gli marocchini. M. : mamma mea M. C. : fortuna ca a Priverno na’ successo niente. M. : povera gente! M. C. : però pe’ la Rocca, Maenza ao fatto la strage degli innocenti, ao violentato la gente, l’ao accise M. : a Cassino ch’ao fatto!!! M. C. : ‘no macello, nui ci semo salvati, Dio te ringrazio…e quando gli tedeschi ao scappati nui stavemo alloco ‘n cima sfollati e gli omini erano fatto ‘na trincea sotto tera. M. : perché i bombardamenti venevano sempre, ecco era largo accosì, ci camminavemo ‘ngobbati, sotto la tera glio friddo te se magnava. M. C. : e proprio vicino a nu’ le mitraglie ao acciso du’ persone de Priverno. A: le mitragliate americane? M. C. : tra i tedeschi e gli americani. M. : nui stavemo meso. M. C. : perché tutti gl’americani avanzati stevano sotto largo San giovanni e nu’ stavemo ‘n cima e ‘sti tedeschi erano scappati, chigli che erano aremasti co’ ‘sta mitragliatetta facevano vede’, i padri nostri che t’ao fatto, co’ le mano alzate ao iti ‘ncontro a ‘st’americani e ci ao detto: “guarda che i tedeschi so’ andati via cercate d’avanza’ perché n’ci stao più, ci ‘sta solo ‘na pattuglia, sembra che ce ne stanno tanti però n’ é vero” e no’ ci volevano crede allora co’ gli fucili spianati addosso, tutti i padri nostri annanzi e issi tutti aretre s’ao venuti accertà che i tedeschi ‘n ci stevano più. Quando il 22 maggio ci a’ stato glio bombardamento più grosso de tutti allora tutto Piperno s’ariversato ‘n cima, semo ospitato tutti gli amici, i parenti che venevano, tutti rannicchiati dentro la capanna. M. : ma dimme tu mari’, ma quando tenavemo da urina’…oddioo M. C. : dopo l’acqua a venuta a manca’ e venavemo nu’ a Piperno co’ glio concone. M. : Da Boschetto è A. : Co’ tutti i bombardamenti partivate da boschetto pe’ veni’ a Priverno? n’ tenavete paura? M. : e ‘ntenavemo paura, ci potavamo mori’ ma n’ ci potevamo sciacqua’ gli piducchi addosso te se magnavano. M. C.: ci stevano pure gli sfollati de gli dintorni de Cassino, gli tedeschi se t’acchiapavano, ‘no famigliare era magari capitato a ‘na parte uno a ‘natra M. : come gli vidi ai filmi, chella scappa, chella chiama chiglio allosì era allora ecco, quando vidi li film, i’ tengo paura, i’ ni posso vede’ i tedeschi M. C. : quante tragedie semo passate M. : Ale’, Luisa ieva pe’ gli boschi raccoglieva i pezzi de legno, co’ glio sasso gl’arrotava ‘n po’ e co’ l’accetta le tagliava, dopo co’ glio cappeglio de glio padre 169
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tagliava tutte strisce, ci faceva du’ croci accosi e ci faceva gli zoccoletti. Allora quando ci ao mannato pure a nui ‘n cima patremo a’ aremasto pe’ cerca’ de pote’ toglie ‘n pò de panni pe’ porta ‘n cima. La sera se steva a dormi’, dice “aremango, me ne vado, aremango, me ne vado”. Mentre steva addormito, erano le due de notte, Sant’Antonio steva proprio a chigl’angolo ( indica l’angolo dove sta la televisione), lui si è sentito chiamare da Sant’Antonio “Vincenzo, Vincenzo vattene”, padremo à ‘scito e ao bombardato a essi, a glio bucio della pallina. Oh Mari’ a visto la pallina come è grosso, stava ‘no burone dico io se ci steva ‘na creatura alloco sotto se ne ieva e chi gli araccoglieva! ma profondo ma largo, i’ quando le so visto so’ aremasta. M. C. : i’ chesso no’ me l’arecordo perché ero ‘na paurosa tremenda, i’ so aremasta scioccata, sento ‘no rumore pe’ strada e me agito è più forte de mì M. : ma tante sofferenze, sa’ M. C. : si tante, eravamo sconvolti tutti, la gente quando sa finita la guerra… M. : no’ la conoscivi più M. C. : dicivi “ma chella è la tale?” perché eccole (indica la magrezza con il mignolo) nui ringraziando Dio non tenavamo la grascia ma tutto razionato pe’ fallo dura’ tanto e dopo tenavamo lo latte. M. : accidevano tutte le mucche pe’ no’ falle toglie a gli tedeschi e tutti gli giorni glio brodo, glio brodo co’ chella carne bia, glio pane poco….e che te volevo di’ pure? ’n’atra cosa…Mari’ che t’arecordi tu? M. C. : dopo de gli tedeschi quando ao entrati gli americani, che era verso maggio? M. : era callo, Mari’ M. C. : e semo aremasti ancora tutti n’cima alla montagna, dopo invece ao alle colonnette, ando’ sta mo’ Ins (supermercato), ci steva glio comando americano, a ecco sotto invece da Visca ci stevano tutti negri, tenevano i magazzini pieni de roba: munizioni, roba de mangia’, però a Piperno i negri n’ao fatto niente perché ci steva glio comando A: pe’ negri tu dici i marocchini? M. C. : si i marocchini, invece passato Piperno! M. : figlia mea M. C. : la Rocca, Maenza, Carpineto, ao fatto la strage de’ gl’innocenti, alle fammene, alle ragazze, l’ao stuprate, ‘nfaccia ‘nfaccia agli genitori se gli genitori s’arebellavano gl’ao accisi, allora i genitori nostri quando ao sentito accosì dice “ahime’ venessero tante vote pure a ecco ‘n cima alla montagna accome facemo, è megli che ci avvicinamo più a glio paese e semo arecalati tutti dalla montagna, nui femmene meso e gli omini co’ gli bastuni a de qua e de là, quando sti marocchini ao visto sta sfilata veni’ dalla montagna M. : sariano voluto però no, n’ao toccati, nisciuno, però ch’ao ditto agl’aradio, t’arecordi, i’ m’arecordo, agl’aradio dissero che nessuno assolutamente faceva ‘sci le mogli e i figli, non dovevano uscire fuori perché questi erano pericolosi e quando ao fatto la razzia ‘ndovina ando’ ao misso tutti chigli ch’ao acchiappati? ‘nfaccia a casta, da Champagna, tutti alloco dentro, t’arecordi mari’. Ale’ io me scordo tutto ma de chello no’ me le scordo M. C. : gli urli, gli urli, gli urli, Madonna 170
Intervista
M. : ecco, quando vedo li tedeschi, gli spararia M. C. : si, si, terrorizzati eravamo M. : Ale’, issi meso tutti attaccati, ‘no tedesco acchiappava glio fucile a ecco e uno alloco(indica che un tedesco prendeva il fucile a un’estremità e unaltro all’altra estremità) ’scevano d’alloco e ievano a Santa Nicola, da santa Nicola alla porta pe’ metteli ‘n cima.., M. C. : agli cammi, li portavano al fronte. M. : ‘li pianti, gli urli, guardavano le mogli, guardavani i figli e piagnevano, tutte la famiglie urlavano come i matti, io quello no’ me lo dimentico mai. Te dico ao sofferto da morire, à venuto Angelino te gli arecordi Mari’? Angelino glio carceriere, era n’ome grosso accosì, la moglie dopo s’ammorta subito, il grande deperimento l’à fatta subito M. C. : se nutrivano de lupini e la semola. La borsa nera, tanti s’ao arriccati M. : pe’ venne la roba da magna’. Arrivavo ‘sto poro cristiano e madroma ce disse ”ma tu che vo’?” ‘nsomma Mari’ no‘ gli areconoscemmo, isso ce disse “Nazzare’ ma no’ me stai areconosce” M. C. : la gente era stravisata pe’ la fame M. : era sicco accome ‘no cane, teneva i capigli tutti arizzati, ricci, isso era bianco ed era ‘n’ome bianco e ruscio, ci disse “nazzare’ damme ‘na cica de pane”, no’ fece a tempo a i dentro a toglie ca cosa pe’ magna’ se ne cadio alloco pe’ttera, i’ no’ me lo scordo mai M. C. : la gente à sofferto tanto M. : à sofferto da mori’ la gente, Ale’ quando ievano de corpo erano tutte cose larghe, tutta semola, non se vedeva che era cacca, era cacca però no’ se vedeva, figlia la gente ha sofferto. M. C. : sorma co’ glio concone ‘n capo M. : ma Mari’ a fa’ tutta chella via m’accome faciavemo? Chella via era malamente. M. C. : accome sentivi i mitragliamenti tatatata te tenivi abbassa’ e glio concone te pure sboccava. M. : tu pensa a porta’ chiglio concone ‘n capo da ecco a boschetto, e che ci facivi co’ no concone d’acqua? A: potevate mori’ sotto le bombe e sete calate lo stesso? M. C. : si si si M. : e come faciavemo? chessa teneva le creature… M. C. : quando facivi la verdura scroccava quando te la magnavi perché no’ la potivi sciacqua’ bene, si capito i’ ‘nsaccio addavero come…mo’ dicci i piducchi, mari’. M. : mo’ la doccia tutti li giorni, ma i piducchi s’ao magnati a nui. M. C. : a glio prato tu ci ivi a fa’ i bisogni e co’ l’acqua delle pozzanghere ci cucinavi, te la bivivi e tutto M. : uhhhhhh M. C. : te ‘mmagini Ale’… i’ m’arecordo, de ragazze ce ne stavemo tante alloco ‘n cima, iesse erano tutte coraggiose, la più paurosa ero io, io e Franca Carfagna, Franca poraccia c’era preso ‘na nerbina: quando senteva gli apparecchi, glio trauma che uno ha subito, a chi ci steva vicino gli accideva de botte, ma 171
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mica gli accideva de botte perché se l’accorgeva…a iesse ci piaceva da vedene quando gli apparecchi ittavano le bombe. M. : quando bombardavano chigli du’ vaguni nu’ li vedavemo sempre. (ride) A: tenavete paura però stavate a guarda’? M. : stavamo a glio sicuro però, anguattati meso agli alberi, se te vedevano, che si matta, ando’ vedevano la gente bombardavano. M. : mari’ m’accome semo fatto? M. C. : ma che ne sacc’ì accome semo fatto?! M. : ma t’arecordi quando te veneva chella roba, Gesù Cristo meo, n’te potivi sciacqua’. M. C. : quante sofferenze, a recordarle sembra ‘mpossibile M. : ecco mo’ tu pensaci, immaginate tu a senti’ ste cose come te senti dentro…pora gente. M. : però momenti, nui che eravemo ragazze, li semo passati pure bene M. : mbhe’ ridavemo sempre come le matte, sempre a canta’ la sera A: quando stavate sopra? M. : la sera a racconta’ le barzellette, a ride, a canta’, facevamo certi cori… ma pe’ dessa’ se sentevano certe cose…ah i’ ieva sempre agli ospedale co’ le monache, quando porterono ‘na ragazza Mari’, sventrata Mari’ dagli marocchini, da Giuliano de Roma M. C.: le proprio…le M. : pe’ drete, denanzi, in sei, sette, co’ disprezzo M. : co’ brutalità M. : ao cercato de vede’, de fa’ invece la sera s’ammorta. L ‘hanno sventrata, dentro l’ao distrutta ecco, erano certi pezzi de marocchini A: erano grossi? M. : ammazzali…ch’erano grossi, portavano certe femmene cesche balorde, m’arecordo s’erano accampati M.C. : i’ le femmene no’ me l’arecordo M. : feresca mari’…sotto da za’ Ludovica a chigli garage stevano ficcati alloco, co’ chelle cesche, allargate senza mutanna, pe’ttera assese, cesche balorde proprio cesche, t’ immagini s’avvicina uno de chigli che te po’ fa’. M. C. : chesso no’ me le proprio arecordo i’. M. : I’ me gli arecordo accome li frati portavano le tuneche marrone, ‘no vestito longo marrone e le femmene portavano la gonnella e la camicetta ‘n cima, co’ le gonnelle larghe larghe stevano sempre assese, sempre a fa’ l’amore. Ma i’ me n’arecordo uno Mari’ grosso, co’ ‘na faccia grossa, te guardava co’ chigli occhi fissi, e chiglio no’ mi so scordato mai, i’ chiglio marocchino li tengo sempre denanzi Mari’, grossi brutti balurdi ceschi zuzzi e accome facevano sempre a sta pe’ tera, pure chigli pori tedeschi Mari’ M. C. : chigli che stevano sotto a gli magazzini no’ stevano vestiti accosì, erano normali co’ le divise, erano scure, nere. Siccome Vincenzo da piccolo ero moro, moro gli chiamavano “marocchino, marocchino vieni” e sorma la paura ‘nvece ci volevano be’, ci devano le caramelle, ci devono le cioccolate, capito’ M. : però le dicevano, perché ci steva glio comando M. C. : si, si 172
Intervista
M. : e l’atro? Du’ tedeschi s’erano ‘mbriacati e ierono alla casa de una che st’abita’ alla salita, alla porta appresso a chella degli ospedale, era ‘na casa sotto, come ‘na cantina e ci abitava glio padre,’na sore e ‘no frate e la volevano violenta’, chella, Mari’, che se veneva sempre a fa’ i capigli da mi’, essa me l’a’ raccontato be’ M. C. : Aresu? M. : a ditto che erano entrati chissi pe’ violenta’ tutte e dova e glio frate teneva ‘na pistola e ci sparao però non è che gli acciso, gl’a’ ferito a ‘no braccio e allora se ne ierono quando ao iti a glio comando l’ao ditto, la mattina venerono gli carri armati a glio bucio de Santo Marco, perché erano sparato a ‘no tedesco ce dovevano morì 40 persone, venne, m’arecordo glio sindaco, se ce raccomannao tanto “è perché isso l’a’ ite a molestane”, invece isso, Marine, a sparato e glio frate gli acciso, glio frate a sparato e gl’a ferito invece isso a sparato e gli acciso. A fatto chello che ca voluto e dopo se n’aito e dopo volevano pure accide 40 persone. Di fatti essa, quando veneva è come se s’era ‘npò dontita, perché la sore è ‘no tipo più fregna, menefreghista invece chella era ‘na ragazza vili vili, ‘npò più signorile A: se so sposate dopo? M. : s’è sposata una bia, chesta più fregna però le sapevano tutti, chella però era remasta scioccata, ‘npò infelice de tutto daglio capo a glio pede. A ditto “maria che terrore, come m’a trattata”. La guera è male, è male in tutte le tere, in tutte le nazioni. M. : i’ tengo tante visioni M. C. : i’ pure li film de guera mica li posso vede’ M. . : i’ ni vido, alloco ‘no sacco de persone s’ao morte A: ando’? M. : da Bucciarelli M. C. : glio giorno de Santa Rita, nui stavemo ‘n cima alla montagna però M. : quando sentevano gli apparecchi tutti sotto le volte, se cadeva chella volta morevano tutti, ma che n’ao successe poco. Che perdizione che era chiglio giorno co’ i tedeschi, gli urli, chello no’ me lo scordo proprio, poracci forse issi tenevano fa’ la guerra però…oh Ale’ co’ chiglio friddo se spogliavano e se ievano a lava’ a Santa Nicola, a carne nuda, dice che no’ se sentevano friddo e nui ci moravemo, d’inverno, nudi, senza maglietta se sciacquavano ma come facevano? co’ chell’acqua gelata? però stevano addormiti pe’ ttera la notte, poracci, ao sofferto però erano crudi, i tedeschi so’ crudi dimme chello che te para però so’ crudi, i’ ni posso vede’ ecco M. C. : padremo pure era terrorizzato perché era fatta la guerra del 15-18, era stato 15 mesi alle trincee, prigioniero, se nutrivano co’ le patate. M. : padremo raccontava sempre che alla guerra del ‘15-‘18 stava in prima linea e ‘no giorno vidde ‘no pezzo de pane pe’ ttera fatto de grasso e l’araccoglivo, gl’ao fatto sta 5 giorni senza magna’, no’ se le scordava mai M. C. : i padri nostri erano terrorizzati perché erano passata già violenze alla guerra del 15- 18 e sapevano la cattiveria de ‘sti tedeschi M. : quanti partigiani aecco, accidevano tutti, comannavano issi dopo de la guera, dopo de la guera ci mancavano pure issi, n’ao fatte poche, partigiani e fa173
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scisti s’erano aggregati e n’ao fatte passa poche, pora gente. La gente no’ sceva più perché teneva paura, chi ci vidivi pe’ la via, nisciuno, bia issi. Ne ao fatto pure issi de danno. M. C. : gl’italiani stessi ecco M. : i pipernisi, tutta sa ghenga M. C. : però no’ come gli straveri c’ao fatto pe’ d’essa’. Nui grazie a dio piano piano ci semo aremessi su M. : se ci fai caso ca vota che vidi ca film tutti quanti co’ gl’aradio piccolo, zitti, a senti’ che steva a succede, la guera accome ieva, sempre ‘mpaurite t’arecordi? A: Quando so’ arrivati gli americani… M. : ao portata ‘no sacco de roba, ao cominciato à da’ a magna M. C. : gli americani diciamo che stavano mischiati co’ le truppe francesi, co’ ‘sti marocchini capito non è che erano soli loro. M. : però la roba l’ao portata Mari’, appena ch’ao arrivati ao ittato sto pane, tutti a core perché se sentevano fame, tutti a core. Nino ci ieva a fa’ i capigli agli americani quando stevano accampati a ecco alle colonnette, la roba che ci devano…vidi però mari’ tra l’italiano, gli americano, glio francese, tu vidi ‘no tedesco, t’è proprio l’imponenza (e batte il pugno sul tavolo) è l’imponenza che gli fa’ sembra’ cattivo accome Hitler, Hitler li potesse mette a ‘na croce attaccato a levacci ‘no pezzo de carne a glio giorno, io ce lo farei, Hitler no’ li pozzo proprio scerne, quando li vido ci dico sempre “te pozzeno accide” sempre, ce lo dico, sempre, che me frega a mi’ che s’ammorto, è cattivo è cattivo ed è cattivo, ni pozzo scerne…e che vo’ fa’ figlia M. C. : mo’ se te semo aiutata Ale’ ne saccio M. : chesta è la verità che te semo ditta, guarda che se ve’ la guerra mo’, ve morete tutti, ve morete tutti pe’ accome sete abituati, se morono Mari’, che campano? co’ le sofferenze che semo fatte nui issi ‘nso boni propria. Mo’ so sempre stanchi, n’ce ne t’è da fa niente, vo’o bia gli quatrini. M*
(*L’intervistato/a ha chiesto l’anonimato nella pubblicazione)
M.: I’ tenava tanto paura de i tedeschi, semo state sfollate pe’ la montagna, quando passavano i tedeschi le granate te passavano sopra, nui stavamo a ‘no fosso ficcati, i’ teneva Carla sorma, co’ chelle granate difatti ci stava un signore non so se faceva Bacchetta de cognome o ci dicevano de soprannome, ci tagliao proprio la capoccia là do’ stavamo noi, come se chiama chiglio punto? Che ci ao fatto tutti ‘sti palazzi mo’? Alessia: A Boschetto dici tu? M. : A Boschetto, stavamo là sfollati, tutti a ‘na capanna, eravamo 23 persone, alla capanna ‘torno ‘torno ci stavano tutti vimini, ci mettavamo ‘na coperta e ci allungavamo e in mezzo ci stava ‘no foco sempre acceso durante che arrivavano gl’americani? ‘No giorno so venuti le guardie forestali, siccome ca tagliavano gl’alberi perché co’ che gli facivi glio foco? La fame e pure de friddo te tenivi morì? E ‘sto Battocci venne a glio capanno m’arecordo ca voleva…ci stava ‘no 174
Intervista
zio mio acchiappao non so’ se era l’accetta o la ronca, “vattenne che te le faccio a ti le lena” ci disse “vattenne” via chiglio se ne ivo, ma la gente steva a pensa’ a le piante? A gli muri de Priverno ci ao scritto dopo ‘a morte a Battocci’ ci scrivevano, tutte ‘ste cose, i’ ero ragazzina. I’ non so’ mai calata dalla montagna matroma si, zi’ Elda, chella n’teneva paura de niente, matroma niente, niente. ‘Na vota so’ calata i’ e Delia e pe’ la via giusto giusto n’ci stevano i tedeschi? Li stevano a mitraglia’ e nui la paura, eravamo du’ ragazzette c’eravamo messe n’capo, c’era fatto ‘no bastone ‘no ragazzo, tutto ricamato, ‘ntagliato, e nui portavamo chiglio bastone…e n’atra vota, ‘na notte sotto ando’ stavamo abita’ ci stavano i tedeschi alloggiati e allora ‘na notte bu bu bu, bussarono a casa perché la porta è vicina e matroma non teneva paura, io me ficcava sotto a glio letto, tremava tutta difatti so’ rimasta scossa dalla guerra io, teneva paura de tutto de tutto de tutto, de tutto, tremava tremava e dopo ‘na vota m’ao uscite tutte bolle nere alle mani, m’era venuta ‘n’intossicazione dalla paura, dalla paura, allora s’affacciao matroma ci disse: “che cazzo” proprio così matroma, “camerate camerate”, “camerate n’ci stao qua stao aessi, che te puzzi cieca’” matroma n’teneva paura, te voglio di’ quanta agitazione, n’atra vota du’ tedeschi n’saretrovavano e metterono ‘no cannone dapeti glio vicolo dicevano che se non s’aretravavano accidevano dieci persone. Alessia: Cos’è che faceva paura del tedesco? M. : Le SS erano un po’ cattivi però ti dirò che chigli tedeschi che stavano sotto quando facevano da magnà, tenevano ca pezzo de pane, era niro, issi li chiamavano glio prot allora abbussavano “mamma mamma” ci dicevano a matroma, “la bimba la bimba” perché sorma era del ’43 quant’anni teneva? Alessia: Neanche un’ anno. Milena: Era piccoluccia la portavamo ‘n braccio, la guerra sa comensata nel ’40 però. Alessia: Però i tedeschi so’ arrivati dopo? M. : Si dopo, tutto chesso ‘nsomma ‘a stato brutto, dopo ao venuti a bombarda’ tutte se cose magari te l’avranno raccontate hanno bombardato qua a Largo Cellini. Alessia: Chi è venuto a bombarda’? M. : I tedeschi, sempre i tedeschi e quando se n’ao iti m’arecordo io ero ragazzetta uno, perchè andavano a glio fronte a ‘Monte Casino’ dicevano issi invece a Cassino allora uno che portava l’orologio d’oro, non so se gl’era fregato se era glio seo, stavo i’ e matroma alloco abbocca, dice: “questo regalare a Maria” che era io ma i’ teneva paura non li votte me dicerono chelle “ma stupida toglitiglio”, i’ tenava paura ero terrorizzata dopo venerono certi marocchini oddioooo figlia mea so cresciuta co’ sa paura accossine e so aremasta sempre agitata, sempre, me fa ‘mpressione tutto e se una ca sta male me sento male io, se vedo una piagne, se vedo ‘na comunione piagno se vedo ‘no matrimonio piagno ma me dico “te pozzeno accide Mile’ ma po campa’ accosì”. Alessia: Ma perché sei ‘na persona sensibile. M. : Ci so’ nata accosì e ci moro. Alessia: Com’erano i rapporti tra voi popolazione e i tedeschi? M. : Era buono ci dovevi pure anda’ d’accordo, però non è che 175
Guerra, racconto e memoria
Alessia: Ve trattavano male i tedeschi? M. : Non no anzi te sto a di’ che stavano là, e a noi per dire, non so’ se hanno trattato male qualchedun’altro ma a noi ci volevano bene solo chella vota sbagliao bè po’ darsi chi lo sa però si tedeschi non…ecco erano cattivi se tu li trattavi male per esempio non s’aretrovavano chigli du’ soldati, chesso succede, succede da pe’ tutto però co’ nui…anzi abbussavano ci portavano la minestra, i’ m’arecordo ‘na vota tu si piccola, sotto là prima da icci i tedeschi c’erano misso ‘no baretto, coso Pongelli, faceva ‘n po’ de caffè, se cose, glio vecchio Pongelli, allora ci stevano du’ tedeschi, e ci steva Belli “togliete glio caffè te pozzeno accide a ti a chella puttana de mammeta e a chi t’aportato a ecco” ci diceva e chiglio faceva “ia ia”, “te pozzeno accide a ti a chi va portato” che ci diceva e chiglio diceva “ia ia”, “togliete ‘sto caffè te storzassi” oh figlia mea era ‘n’anghetto, certe vote te pure dispiaceva ma te veneva pure da ride a senti’ chiglio, era ‘na macchietta…so stati momenti brutti però erano begli perché n’ ci steva tutta sa delinquenza nui c’addormevemo pe’ la via, accome te posso di’ nisciuno teneva i cancegli, le porte aroperte, mo’ stemo male mo’ stemo male, dopo la guerra ci steva lo benessere mo ‘a venuta la crisi, sta troppa delinquenza pure chissi che vevo portano le malattie diciarai…no no i’ tengo lo core…ma non lo so quando so’ troppo so’ troppo e mo’ nui, io tengo paura se tengo itta’ la monnezze la sera, non ci vada ci so ditto a ‘no vigile i’ ci vado a mezzo di’ “facete be’” me disse, perché ‘ncontri tutti chissi, tutti chissi, no’ stai più tranquilla perciò non se vivi be’ figlia, stai sempre agitata tu cammini a glio vicolo te senti uno drete già te agiti oddio chi po’ esse, chi è? Alessia: I marocchini invece quando so’ arrivati? M. : Dopo che se n’ao iti…quando ao venuti gl’americani dopo ao venuti i marocchini e gl’americani, ne dissero perché ci steva uno che parlava italiano ma era francese non era italiano se chiamava Carlino Giacchetti se chiamava, forse era pure de origine italiana e ne disse, ci disse a matroma che ce ne iavamo perché venevano i marocchini chigli erano delinquenti erano cattivi portavano ‘no coso a ecco figlia mea (voce di disgusto per indicare qualcosa in testa) bia che gli vedevi ‘i n’ci pozzo a repensa’, ‘na vota so visto uno veni’ dalla piazza i’ me so ficcata a glio portone de Carfagna e so’ chiusa la porta forte chiglio chi lo sa, quante cosa sa misso a dine tutututu e chi gli’a capito, come se se fosse offeso ma i’ ero ragazzotta teneva paura, tutte ‘ste paure m’ao aremaste internata a mi’ e so’ agitata sempre sempre, sempre fino alla fine, fino a che me moro sarai accosì perché glio carettere è chisso. Alessia: Di che millesimo sei Mile’? M. : Ventinove ecco mo’ no veramente saria del ventotto ecco mo’ il 22 dicembre faria ottant’anni ma in grazia a Dio! Alessia: E stavano proprio a Priverno i marocchini?
M. : Si stavano alla Porta(Romana), m’arecordo che ‘a visto a Purgatorio la chiesa ci sta ‘na piccola cosetta mo’ ci sta glio presepe prima ci steva Gaetano gl’orologiaro se chiamava, aggiustava gli ‘rologi allora ‘no marocchino ‘a portato gl’orologio aggiusta’ chisto ce gl’aggiustato, quel mentre, dopo c’a giorno a ito ‘n’atro marocchino, n’era chiglio e se gl’aretuto allora chiglio gl’a ito a retoglie 176
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e invece, m’arecordo accome mo’, che succedio, li bordelli pe’ glio vicolo, litigherono ‘sti du’ marocchini, questo me ricordo bene e allora una teneva paura, vidi pure tra issi se tradivano, chiglio ch’à ito a frega’ gl’orologio però chiglio gl’areconosciuto, Gaetano gl’orologiaro se chiamava. Alessia: E voi donne uscivate quando ci stavano i marocchini? M. : Tenavamo paura, eh ao fregata più de cauduna! Alessia: Pure qua a Priverno? M. : Eh, pure una che mo’ se n’aita, steva abita’ pe’ Santa Lucia, se la porterono porella, ‘sta signora dopo se n’ aita dalla sore perché era de Castro, s’era sposato ‘no pipernese. Alessia: ‘Sta signora era sposta quando i marocchini l’hanno presa? M. : Noooo se la porterono era giovanotta, a glio paese se’ se la porterono la rovinerono dopo se l’a’ sposta chisto, se l’a’ tota embhè, ci devano ’na bella pensione, chigli erano disgraziati. Alessia: Peggio dei tedeschi? M. : Si si si si erano…bestie, i tedeschi ci steva cauduno pure malamente ma steva pure la gente brava perché i boni e li cattivi stavo da pe’ tutto. Era la guera e quando è guera è guera n’ci sta niente da fa’. Alloco a Santa Nicola, ao messo mo’ l’anagrafe, là stevano tutti, i soldati della Divisione Piave ci stevano, erano italiani chigli èh, erano bravi tutti alt’italiani, begli m’arecordo me divevano: “Mirella” quando passavo “sei sempre più bella” ogni vota che passavo ne trovavano una “Mirella non vuoi mica stare zitella” ogni parola… Alessia: Te facevano i complimenti! M. : Si si dopo fecerono la canzona privernesina, la fecero a glio teatro dopo Alessia: Ah si? E come fa? M. : Uhm, del paese sei la graziosa la tua bellezza è degna di pittura, hai la freschezza di una bella rosa sei graziosa come creatura. Alessia: Chi la scrisse ‘sta canzone? M. : La Divisione Piave, quando sto vicino a te sto per passare non possa fare a meno di cantare “privernesina sei come ‘na goccia d’acqua marina privernesina tu m’apparisti come madonnina” ma belle parole, vidi quante cose, dopo chella de Mussolini cantavano “la Petacci co’ l’intreccio della furia dei tuoi capricci non pensavi ai pasticci ma soltanto che all’amor, Claretta dolce del mio giardin cogliesti tu quel piccolo fiorellin, tu che pensavi a diverti’ ma tutto il popol stava a soffri’” ma è lunga. Alessia: E ‘sta canzone era referita a Mussolini? M. : la Petacci era l’amante no, ci sta ‘na statua a Roma i’ la so vista al Verano, ed era de Prossedi. Alessia: E sempre i soldati della Divisione Piave avevano inventato ‘sta canzone? M. : Chesta non lo so’ e si…era durante la guera e si, de Mussolini chi parlava male? Allora era tutta ‘na guera “Mussolini ci creasti tu in un brutto sistema di non mangiare più, la borsa nera…ognuno la pietà, tu fosti l’inventore infame e traditore” ma tante brutte parole non se l’arecordava nisciuno? Alessia: Infatti non me l’a raccontato nessuno, è la prima volta che la sento. M. : Ma i’ la tengo tutta a mente, tutta se la volesse ca che d’uno…si si si, 177
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chella della pipernesina è ‘na bella canzona “bella privernesina innamorata che incontro ogni mattina per la via…occhioni grossi e bocca vellutata…quando vicino a te sto per passare non posso fare a meno di cantare” i’ tengo sempre la raucedine sennò me piaceva da canta’ poi ci steva a Santa Nicola glio capitano Pallina m’arecordo sempre, de cognome faceva Pallina, ‘no maggiore era, allora me diceva a mi che me faceva studia’ isso, io essere pianista “ti faccio studiare io” era alt’italiano, ogni tanto ne ‘sceva caud’una, ‘n’atro me voleva pe’ figlia, n’teneva i figli, de Piperno era, abbussava da matroma, de chigli tempi seccedeva chesso, dopo i’ ero ‘na bella uttra, tutta caruccia semplice, quando ievo a gl’asile m’arecordo me giocavano a palla…che te pozzo di’ de più? uhm che mo pozzo arecorda’? boh. Oliva
Oliva: Pe’ dice quando gl’ao acchiappati si dice razziati nui accosì diciavemo non lo so se è giusto vui s’ete studiato. Alessia: Si facevano le razzie. Oliva: Si facevano le razzie a tutti gli omini che ‘ncontravano e se li portavano a ‘sto granaio, ci stava ‘no granaio grande e allora gli portavano là, portavano chigli e mettevano gli altri capito, non è che ci lassavano solo quelli diciamo che se ne acchiappavano 10 dopo chigli dieci li portavano via e prendevano gli atri che era razziati, e allora quando prendevano ‘sti omini li portavano a ‘sto granaio e tutte le forestiere de Sonnino, de Maenza, de Roccagorga venevano a porta’ lo pane agli pori mariti e allora da fore aglio cortile ando’ ci stevano ‘sti tedeschi però non ci stevano i tedeschi steva l’austriaco a guarda’, glio tedesco steva dentro, l’austriaco stava da fore a guarda’ pe’ no’ fa entra’, faceva entra’ solo a nui che ce abitavamo perché dopo issi vedenne’ oggi, domani, ce conoscevano no, e allora fino a che non se li portavano via dopo quando se li portavano via facevano ‘na specie de passamano coi fucili, ci facevano la gabbia praticamente de qua de la’ se devano la mano uno co’ gli altro, acchiappavano chi a la coda de ‘io fucile e chi a la punta e facevano sta cosa e se li portavano e nui non li vedavamo più e (sorride) ‘na vota ao acchiappato coso, accome se chiama…Valariano, ao acchiappato Valariano, Valariano la pensata be’, sa’ cavato ‘no dente prima che gli evano a retoglia pe’ portarsi, sa cavato no dente e le sai ando’ gli ao lassato ha’ visto alloco agli arco ando’ se saleno le scale pe’ ì ‘ncima a glio granaio tutti alloco gli portavano, tutti alloco ‘nfatti quando venivano gli apparecchi, gli apparecchi entravano dentro ‘io cortile se ittavano in picchiata cosine, ci ievano dentro e dopo s’arizzavano, i muri erano tutti mitragliati prima dopo gl’ao otturati i buchi però stevano tutti buchi de mitraglia ‘che sapevano che alloco stevano i tedeschi, chissi teo le spie, capito. I tedeschi quando facevano le incursioni se mettevano meso a glio cortile, facevano due file, glio cortile è beglio largo, à visto prima steva chella terrazza, ce stevano le colonne. Alessia: Si me l’à recordo. Oliva: Allora issi quando sentevano gli apparechi da lontano mica facevano confusione, facevano ‘no passo, issi stevano a du’ file a du’ file facevano così e 178
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se ficcavano sotto senza fa’ nisciuno rumore, senza fa…dicemo chi se move a de qua chi a della’ diventa ‘no maceglio invece issi facevano ‘no passo pe’ tu e entravano sotto le colonne, alloco no’ gli vedevano, però le bombe l’ao buttate sopra a là, quando ao cadute sopra a Largo Cellini, ao cadute sopra a San Giovanni l’ao ittate dentro glio cortile le semo proprita viste, le semo viste quando l’ao sganciate però ‘io vento se la portate…diciarai à ita accide l’atra pora gente perché n’cima a San Giovanni ‘na famiglia ‘ntera: padre madre e quatto figli, tutti quanti se morerono e…dopo piano piano i tedeschi è arrivata l’ora che se ne ao iti, se ne ao iti, dicevano che arrivavano a Cassino “caput”, dicevano “arrivare a Cassino, caput”, divevano a nui e allora se ne ao iti e dopo n’po’ ao arrivati gli americani. Quando ao arrivati gli americani era ‘na cosa, è stata bella perché ci ao liberati dai tedeschi però chisti marocchini facevano le stragi, le stragi delle ragazze, allora le ragazze se tenevano nasconde mentre nui le più piccole a fa’ la guardia e quando…da qua sopra se vedevano quando venevano, ‘che ne venevano sempre da qua sopra i marocchini, allora nui dicevamo: “esso ‘io rozzolooo”. Alessia: Che significa? Oliva: No, era ‘na parola pe’ fa capì a le ragazze cha arrivavano i marocchini allora se ievano a nasconde. Alloco da Martellucci ci steva ‘no nascondiglio che sta sotto, sai ando’ sta’? à visto ‘io granale ando’ teneva nonna tea teneva le galline? Alessia: Si me ricordo. Oliva: Appena che s’entrava a glio portone grosso ci steva ‘na botola, steva proprio a pian terreno, chella cosa ieva sotto, ci steva ‘no nascondiglio nessuno l’avrebbe pensato poi ci teneva ‘na porta de legno e ci tenevano tanta lena sopra, si capito? A tempo sempre de guera, perché alloco ci tenevano nascosta la roba ‘nfatti ‘na notte ci ao iti a ruba’, ci ao rubato lo grano ci ao rubato roba de magna’. Alessia: Chi ha rubato? Oliva: e che ne sapemo nu’, i soldi no ce gl’ao rubati, ’chè dopo se gli acchiappavano che erano toto da magna n’ci facevano niente invece se erano tuti i soldi li condannavano capito? Allora issi toglievano solo roba da mangia’. Alessia: Ma i marocchini dici tu? Oliva: No, gli italiani però a chella botola se ci ievano a ficca’ le ragazze quando che diciavamo ‘io rozzolo, se ficcavano alloco dentro, quando venivano no’ vidivi manco ‘na gatta, che è ‘na gatta? Manco la vidivi e no perché le ragazze non potevano ì in giro, perché se ievano in giro ca marocchino se le portava, perché issi dicerono che erano fatto i patti co’ gli americani, ca tenevano fa’ chesso, ci à ditto “nui ce venemo à aiutarvi però volemo le ragazze” capito? Chigli tenevano carta bianca co’ gli americani. Pe’ esempio nui tenemo ‘na fotograia de ‘io socero me, ‘io socero me era cittadino americano, allora sa’ morto nel ’53 però perché dice che ci ao menato tanto che se credevano che era ‘na spia americana capito? I fascisti, perché se credevano che era ‘na spia americana e ci ao dato tante botte. Allora steva ‘sta guerra in corso, isso ci à ditto alla moglie tu quando veo gli americani presentaci ‘sta fotografia ca te caricano de’ roba ‘nfatti la roba che ci devano, la farina chella bona, faceva certo pane la socera mea, certo pane bianco, capito? Perché isso 179
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era cittadino americano, però a iecco ci dicevano che era spia invece chiglio poraccio, la moglie no’ c’era voluta ì all’America. ‘Na vota semo ite all’alberito co’ madroma, meno male, perché pe’ la torretta era pino de marocchini, americani , ci stevano tutti cammi dalla parte de sotto de la via. Invece chella vota che semo ite nui n’ci stevano, n’ci steva più nisciuno però quando semo arrivate alloco ci steva sto signore co’ glio bastone, ‘nsegnava ‘n’albero, era ‘n’albero de fichi ma i fichi de chigli tempi n’ci stevano, nui eravamo ite pe’ raccoglie du’ pomodori, ca poca ‘nsalata ‘ntanto tenemo ca’ cosa invece semo scappate come i fulmini. Quando a successo c’ao sparato a chiglio aglio bucio?! Alessia: A chi? Oliva: Chiglio a sparato co’ ‘na pistola tedesca, ha sparato a ‘no tedesco, erano fatto ‘no gruppo de partigiani e ci steva de meso chisto, la pistola ne saccio da ando’ ‘a ‘scita, ‘a sparato, ‘a sparato a ‘no tedesco e s’ammorto e chigli, quando sparano agli tedeschi…10 italiani ogni tedesco, ‘io bucio era pino, pino de’ tedeschi, sai chi ci à ita, c’a ita Teresa, si gl’à misso sotto braccio e gl’à portato agl’ospedale, dopo ao iti i tedeschi ao sbordellato la casa, comunque quando ao iti s’era morto non c’ao potuto fa’ niente, s’era morto già, Teresa gl’à trascinato fino alloco agli ospedale pe’ ni fa trovà, chella vota succedivo ‘no maceglio, se chiglio no’ s’era morto già erano razziati tanti omini, gli accidevano tutti, tutti gli accidevano, glio tedesco era cattivo. La bonanema de padremo me diceva sempre che isso era stato prigioniero, me l’à raccontato tutto padremo sta cosa però ‘io paese andò a stato no’ mi so’ potuto arecordà, à ditto che la sera de Natale i tedeschi ci ao dato tante de chelle botte, tante tante, la sera della vigilia, ‘nfatti isso la vigilia de Natale diceva sempre: “eh nui stamo a ride, i’ quando stavo prigioniero a che st’ora me stevano attrippa de botte”, à ditto ch’erano cattivi, ‘nfatti quando che se portavano gli omini, chiglio tedesco ‘no pezzo d’ome, ‘no tedesco grosso, chiglio era proprita tedesco, “raus raus”, (alza la voce) co’ la pistola ‘nmai te se presentava ‘nanzi , nui che eravamo mammoccie , eravamo bambine che ci potavamo fa’, tenivi chiudi la porta tu ‘ntenivi guarda’, te tenivi chiudi dentro e te tenivi sta’, quando se ‘nerano iti potivi ‘sci’, capito? Erano cattivi i tedeschi erano cattivi invece gli austriaci erano bonacci, matroma ci voleva da’ l’uva nassa ca ci piaceva ma issi però sapevano ca matrona n’ci teneva nisciuno ‘n cima alloco perché n’a’ vedeva portacci a magna’. Però parecchi ao scappati, tu t’arecordi, da ‘io granale pe’ ì a glio bagno le sai ando’ tenevano i’? tenevano i’ agl’angolo della terrazza che ci steva, tenevano ‘sci da chella porta, tenevano i’ alloco agli angolo, dopo se calavano le scali, le scali ci stavo ancora mo’, ci stava ‘na porta ando’ abitava Spasiona n’so se te l’arecordi. Alessia: No, non me l’arecordo. Oliva: Quando ci ievano ‘n tanti più de cauduno s’enfilava dentro da Tuta Mastrogiorgio, se metteva i panni da femmena, calava le scali se ficcava a casoma e da cosoma ‘nzombava alla parte dellà, a via Volpe, capito? Parecchi n’ao scappati però quando se n’ao accorti ca gli omini diventavano sempre demeno ci ao stati più addosso, no’ gl’ao fatti scappà più e dopo se gl’ao proprio portati, dopo ci ao stai chigli della Piave, chigli dormevano a glio granale, tenevano la paglia che te cridi che tenevano. La guerra è brutta è meglio n‘apassa’, è brutta, ‘na vota, ero piccola, matroma me disse : va’ a piglia’ l’acqua aglio bucio” co’ ‘no 180
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piatto smaltato, teneva i manici a de qua e de la, era come ‘na bagnoroletta, m’à ditto va a mette l’acqua, i’ so’ ita a glio bucio a mette l’acqua e alloco i’ da sola a mettemela ‘n capo n’ero bona perché no’ ce la faceva, teneva ‘spetta cauduno che passava che m’aiutava a mette n’capo, ‘nfatti à passata ‘na persona che ci so’ ditto ca pe’ piacere…m’era fatta la groglia, ‘sta persona manco m’arecordo chi era, ero troppo piccola, me so messa a cammina’ quando so’ arrivata de fronte a via Volpe, alloco c’erano fatta ‘na cannonata, quando so’ arrivata alloco so’ cominciato a sentì ‘n’apparecchio lontano ma gli apparecchi arrivano lesto allora i’ me so messa de corsa e chella cosa me delluzzava ma quando so’ arrivata a casoma gli apparecchi stevano già dentro glio portone allora me so’ messa drete a ‘n’angolo e dicevo “levateme sta cosa ‘n capo levateme sta cosa ‘n capo” e nisciuno m’à levato sta cosa ‘n capo, allutemo za’ Linda che te fa’ acchiappa me l’anfrocia denanzi, tutto ‘no bagno, era d’inverno, portava ‘no zinaletto bia, che dici ca portavi la maglia assotto e dopo gli apparecchi ao trigato a issene e quando se ne ao iti arevenevano continuamente e chello ‘nfusso me le so’ tenuto finchè n’sa’ assutto però i’ da grossa le so’ pagato perché i malanni ao cominciato a venì e iesso, erano cose accosì, chella vota so’ tenuto proprio paura, ‘nfatti me s’ammalao ‘na ‘recchia, la paura no, sta ‘recchia la tengo sempre ‘n pò… ci sento poco, dopo tenavamo tanti animali attorno, lassa perde, cimici, piducchi, eravamo piene, matroma metteva a bolle i panni, li coceva, quando gli cacciava ‘scevano più piducchi de prima, perché ci stevano le nuvole pe’ l’aria dopo gli americani ao ittata la roba, sennò…tanto li tenavamo tutti, non se ne salvava una. Fratemo stava tutti i giorni con le reti a dacci foco però ce ne stevano più de prima, ando’ ‘scevano chigli cosi no’ se sa’. Guarda ch’è brutta lassa perde, ne possa passa mai, no’ fosse mai il Signore che fa areveni’ la guera perché chisti de mo…nui eravamo abituati ‘n pò alla miseria ma chisti de mo’ accome fao, accome farinno a tenesse tutta chella sporcizia, io bia che ci penso me s’aggrifa la pelle, bia che ci penso pe’ la sporcizia che tenavemo, pe’ gli animali, n’era sporcizia perché nui ci lavavemo toglievamo l’acqua aglio puzzo e ci sciacquavemo, l’acqua de ‘io puzzo era pulita. Che atro vo sapè’? de i marocchini le semo ditto, dei tedeschi le semo ditto, i tedeschi erano cattivi e padremo se gli era pure misso uno dentro. Alessia: Dentro casa? Oliva: Allora padremo, quando issi tenevano partì pe’ Cassino, perché dice a cassino fare caput, allora padremo stava a dà l’indirizzo a ‘no austriaco perché accome te so ditto gli austriaci erano bonacci. Alessia: Come riconoscevate i tedeschi dagli austriaci? Oliva: Eee s’areconoscevano, s’areconoscevano pure da ‘io parlà, ca issi te capiscevano invece ‘io tedesco no’ te capisceva. Alessia: La divisa era sempre la stessa? Oliva: Credo da ‘io colore della pelle gli areconescevamo, i’ mo’ preciso preciso no’ m’arecordo però la divisa sempre tedesca era, però gli areconoscevamo da ‘io colore della pella ma mesa’ che la divisa la portavano diversa perché ‘io tedesco la portava ‘na specie d’azzurrino, mo preciso preciso manco m’arecordo comunque t’era esse accosi. Però s’areconosceva pure perché gli austriaco te capisceva, quando ci dicivi ca’ cosa isso veneva a fatica a capì però t’aresponneva. 181
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Allora padremo gl’à fatti ‘mbriacà, ci à cacciato tanto vino, ci à dato da beve a tutti. Chisto ragazzo che c’era dato l’indirizzo se ne stava a i’, se metteva ‘io zaino da ‘na parte e ci cadeva dall’atra, me steva a fa quasi pena pori uttri perché quando te dicono andare a fare caput anche che ci sta la guerra sempre ‘no cristiano è, te dispiace; allora padremo ci divo gl’indirizzo e ci à ditto “se te trovi in difficoltà, se te salvi torna qua, ci à ditto padremo. ‘No tedesco, figlio de puttana, o ce gl’à tuto perché chisto s’ammorto o se gl’à scritto mentre che padremo li stava a da’ a chiglio, à venuto co’ glio ‘ndirizzo. Quando à venuto a dimannenne a dimannenne “Tomeucci Angelo Tomeucci Angelo” ci’à aretrovati. Alessia: questo è accaduto dopo la guerra o in quei giorni? Oliva: Sempre che ci steva la guerra però dopo i tedeschi se ne tenevano i’ perché erano arrivati gli americani allora dopo ao ittato glio banno : chi teneva i tedeschi dentro casa li teneva caccià perché sennò ci fucilavano tutta la famiglia. Alessia: Chi l’aveva ordinato? gli americani? Oliva: Che ne saccio chi l’era ditto se gli americani o gl’taliani però era ‘na legge, era ‘scita sta legge, chi teneva i tedeschi dentro li teneva caccia’. Alessia: Pure le altre famiglie tenevano i tedeschi in casa? Oliva: Però mica tutti i’ mo no’ le saccio, padremo come t’arepeto forse ‘st’austriaco forse ci piaceva, ci faceva pena e ci disse se te salvi torna qua. Dopo quanno ao ittato ‘sto banno padremo c’à ditto “adesso andare via”, ce l’a fatto capì senno nui ci passavamo li guai, e isso ci’à ditto…li chiamava papà, ci dicivo: “papà no’ m’abbandoni”. Alessia: Quando ‘sto tedesco è venuto al posto dell’austriaco non li s’ete areconosciuto che non era isso? Olina: Padremo gli era areconusciuto che n’era chiglio. Alessia: E gl’à fatto entra’ lo stesso? Oliva: Chiglio ‘a venuto co’ chiglio biglietto ‘nmai che ci ivi a di’? c’à stato ca mese a casoma, sai ando s’assedeva sempre co’ la sedia? A glio muro tra Margherita e Anna, isso se toglieva la sedia e se ieva assede alloco, ci steva ‘io sole, perché era d’inverno e allora quando vedeva ca’ guardia isso piano piano se ficcava dentro. Ca’ mese ‘a stato a casoma e nui ce ne semo dovute i’, ci semo ite a dormi’ da za’ Stella nui femmine. Doppo ‘no mese itterono ‘sto banno dice chi te’ i tedeschi in casa li t’era caccia’ sennò ci fucilano tutta la famiglia e allora padremo ci spiegao che isso li portava a dessa’ ‘n cima a Boschetto e isso c’a ditto “papà portare da mangia’”, “si, si” ci’à ditto padremo invece ‘nsemo saputo più niente . Alessia: Tuo padre lo chiamava papà? Oliva: Si, si li chiamava papà, pure madroma chiamava mamma… madroma pensava sempre a fratemo, ‘nfatti fratemo a certe lettere dice che isso steva presso ‘na famiglia russa, steva a 30 km dalla battaglia allora la sera isso quando era fatta la battaglia se se salvava arieva alloco da chella famiglia, ‘a ditto che ‘na fetta de pano la spartevano, ‘no pezzo pe’ tu, le diceva sempre isso, alle lettere le diceva, diceva “‘no pezzetto de pane le spartono, no’ ci so cattivi”, à ditto i russi ‘nc’erano cattivi, fratemo accosì diceva alla lettera e accosì te stongo a dice. Nui le semo trovate tutte dopo che s’ammorto padremo prima padremo no’ n’à 182
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fatte vede’. Quando s’ammorto semo trovate ‘ste lettere le semo lette quanti pianti ci semo fatti. Stella Romagnoli
Stella: Quando Mussolini, l’8 settembre, quando vide che bombarderono Roma, a cimitero ‘na signora portao ‘no bambino morto davanti a Mussolini e Mussolini…era commovente, smittio la guerra diede le dimissioni ma Hitler no’ voleva allora nui italiani ci credavemo che era finita la guerra invece s’emposseserono i tedeschi e i tedeschi comannavano pure ‘n cima de nui, steva la guerra pure pe’ nui, nui stavemo in guerra co’ Hitler perché ne chiamava traditori. Dopo vennero i tedeschi, a Piperno s’empio de tedeschi. L’8 settembre Mussolini no’ voleva combatte più poro uttro, s’era avvilito de vede’ tutti chigli morti, dopo vennero i tedeschi, a via Rose, i’ abitavo a via Paolina n.1, a via rose ci steva il comando tedesco, m’arecordo quando venevano i tedeschi, se mettevano in fila, nui eravemo curiose tenavemo 15-16 anni stavemo sempre meso a senti’, a vede’ infatti ci steva ‘n’americano che era venuto dall’America dalla moglie e ci dicemmo se capisce ca cosa, “ca ditto?”, à ditto guai a chella persona che ve’ a glio comando, che commette ca cosa, passate li guai perche no’ tenete tocca’ nisciuno. Alessia: Nessun tedesco? Stella: No, ci disse chesto allora nu’ iavemo a mette l’acqua a Santa Nicola comodamente alle 9 alle 10 e le sentinelle stevano a de qua e de là, nui le tenavemo vicino, quando veneva lo pane pe’ gli tedeschi veneva proprio di fronte a casa mea, venevano i cammi grossi co’ lo pane, lo pane era fatto a du’ pagnottelle, i’ m’arecordo ‘na vota ce ne cadio una sotto glio cammio, fratemo, i’ ci vado 4 anni prima, guardao bene bene se ficcao sotto chiglio cammio e rubao chiglio coso, chella cica de pano e gl’iemmo a mette meso a glio letto, meso agli scartocci che se le trovavano ne fucilavano a tutti quanti, dici mo’ la guera, nui stavemo proprio in prima linea, de qua sotto ando’ stemo abita’ nui ci facevano la frontiere, accome se chiamano… facevano scava’… Alessia: Facevano le trincee? Stella: Facevano le trincee pe’ vede’ quando passavano gli apparecchi che ci mitragliavano, de qua sotto era pieno de trincere, issi nascosti alloco sotto, ‘na vota ‘nfatti accoglierono una, nui stavemo aglio bucio ma che ne capisciavemo fratemo teneva 12-13 anni i’ 16-17, stavemo a glio bucio a godecci chesto ma non pensavemo che se chella cosa se ieva accosì accideva a nui, n’ci pensavamo alla morte fi’, st’apparecchio americano ieva a sbatte, co’ tutto lo foco a glio culo, a perciò me piace vede’ la storia perché la semo passata fi’, ieva a sbatte ‘nfaccia a Roccasecca subito tutte le camionette pe’ aretrova’ glio paracadutista chisà ando’ gli erano anguattato , pe’ glio stabbio, i roccaseccani, no’ gli aretroverono però issi s’addannavano che gli volevano proprio aretrova’. Dopo, ‘no giorno il 31 gennaio, nui stavemo de qua sotto perché de qua sotto ‘n ci steva nisciuna casa e ci ieva sempre gl’io sole allora ognuno se portava la maglia da fa’o da cuci’ o ‘reppezza’, prima rappezzavamo gli panni fi’, e ci stavemo fino verso le 2, le 3, il 31 gennaio era ‘na giornata come d’estate, bella, dopo mentre che arez183
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zezecchemo ci fermemmo a glio bucio, eravamo tante sa’, quando vedimmo spunta’ quattro apparecchi come chi da Terracina, siccome meso a nui ci steva ‘no soldato della Piave che n’se ne potte i’ alla casa perché le ferrovie erano tutte rotte, isso abitava a Treviso n’se ne potte i’, aremanio in Italia anzi me voleva pure a mi’, faceva l’amore co’ meco, allora ci steva pure sto’ soldato meso che capisceva la guera accom’era, ognuno fi’ s’abbassava e mitragliava, si visto ando’ venneva la frutta Occhialona? Alessia: Si. Stella: Ci ficchemmo tutti alloco eravamo ‘na sessantina, mino male che chiglio coso steva aroperto perché ci lavorava uno che faceva glio ferraio: Ferdinando Stivali era, ‘ntremmo alloco quando Mario glio soldato della Piave vide sgancia’ la bomba, sopra come a che stava alla stazione, isso già sapeva glio spostamento d’aria, era la nostra era de glio bucio della pallina perché aglio bucio della pallina ci steva Romolo glio fagocchio, ci teneva da fa’ i favori pe’ forza chiglio agli tedeschi, pe’ogni cosa ievano alloco. Alessia: ‘Sto signore ci faceva i favori? Stella: E si senno t’accidevano co’ glio fucile, accosì stevano, e chglio ce li faceva Alessia: E che tipo de favori ci faceva sto’ Romolo? Stella: Romolo era glio padre de Dario chiglio che t’è glio bare a Sant’Antoni, che s’ammorto, faceva glio fagocchio Alessia: Che è glio fagocchio? Stella: Glio fagocchio è chi aggiustava le cose de legname. Alessia: Tipo falegname? Stella: Si, faceva le rote ai caretti. ‘Na sera venne ‘na macchina grossa grossa drete la porta nostra, aglio bucio della pallina, erano in due, uno steva de guardia uno s’addormeva dopo faceva chiglio de guardia e uno s’addormeva allora nui vicine de casa che eravamo gli facemmo addormi’ aglio letto, chisti erano polacchi che ievano contro li tedeschi. Abbussarono sti du’ polacchi, ma nui figlia eravamo piccole eravamo contenti, drete casoma tenaveno i’ no’ gli saccio chiama’, ‘no coso grosso grosso . Alessia: Ma ‘no carro armato ? Stella: Come ‘no carro armato, era grosso. Venne ‘no ragazzo a bussenne a nu’ e gli facemmo entra’ poro uttro, chisto a ditto era della Polonia era ito in licenza e era arentrato pochi giorni prima a glio comando e s’era portato le fico secche uguali a chelle nostre, gli aranci, dopo n’saccio che se fece arescalla’ aglio foco, isso era pigliata n’affezzione, allora ce disse ‘no vicino de casa “addormete aglio letto meo che i’ m’addormo alla branda”. Alessia: Ma n’ tenavate paura Stella: Noo chisti erano polacchi, erano a favore a nui. Ma n’te so raccontato quando ao fatto glio rastrellamento, de ottobre fecero glio rastrellamento, era ‘na mattina d’ottobre n’saccio glio giorno, era d’ottobre quando vedemmo azzecca’ pe’ tutte le vie tutti tedeschi co’ i fucili, “te’” facemmo “che volarao?!” era de mattina verso le sette, sette e mezza, ‘nfatti chiapperono pure patremo che era ito alla campagna e se li porterono, ievano casa pe’casa. Vicino casa mea s’era morta ‘na criatura piccola, però erano rispettosi, senti (voce più bassa quasi in184
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credula), alloco dentro figlia quanta gente ci steva, quanta gente ha salvata chella criatura, era entrata tanta gente, “eee” dice “stavo a fa’ glio rastrellamento”, allora chi s’era svegliato cercava de refugiarse siccome sta signora teneva ‘na soffitta ‘n cima ‘n tutto ‘n tutto, ce ne ierono tanti, commare Tomassina poraccia mettio glio morto vicino alla porta allora quando passavano alloco vedevano glio morto (voce più bassa), ‘sti tedeschi se levavano glio cappeglio…come ‘no rispetto a glio morto infatti passavano tutti quanti e tutti co’ glio cappeglio levato, ‘nfatti chella creatura salvao tanti pipernisi, chiapperono glio medico Oliva, i vecchi, ‘io socero meo e li porterono da Champagna e mi dicerono che erano acchiappato pure patremo, nui eravamo piccoli ma no’ capisciavemo la morte stavemo sempre a ride, dopo alloco le pori mogli, le pore madri uno li facerono ‘scì, ci mettevano glio fazzoletto ‘n capo co’ le gonnelle, perché dopo chi scappava no’ le sapevano issi, ‘nsomma ne saccio neanch’i’ che guerra era chesta, parecchi scapparono, basta che se mettevano glio fazzoletto ‘n capo co’ ‘na gonnella, gli iavemo a trova nui, te devano glio diritto de i’ a trovagli e cercavamo de fagli travestì’ da femmena, dopo li porterono a Cassino, arriverono de notte e li metterono dentro a ‘na caserma che già era stata bombardata, à ditto padremo “la notte che passemmo”, allora à ditto s’abbraccierono tutti quanti, chi chiamava la Madonna della Stella, chi chiamava Sant’Antonio, dopo ‘a ditto ‘na ondata finisceva e ‘n’atra ne veneva, una finisceva e ‘n’atra ne veneva e la doma’ aroprevano glio canceglio e picco e pala pe’ i’ a fa’ le trincere, pe’ mettese issi quando bombardavano gli americani ma patremo era contadino sapeva mania’ tutto, era capitato co’ uno che no’ sapeva niente de chesto, era capitato co’, ma tu no’ te gl’arecordi figlia perché i’ tengo 84 anni, la so’ passata tutta la guerra, teneva ‘na radio la vicina de casa e nel ’39 disse stemo in guera: “te’” facemmo” stemo ‘nguera, che è la guera?” dissi i’, eravamo piccoli. Ando’ so’ arrivata fi’? Alessia: Che tuo padre mentre stava a Cassino à capitato co’ uno che no’ sapeva usa’ ne’ la pala ne’ glio picco...co’ uno che no’ sapeva fa’ le trincee. Stella: Dopo tenevano acchiappa le traverse delle ferrovie e le tenevano porta’ pe’ fa’ le trincee pe’ issi quando venevano a bombarda’. Patremo stava co’ uno che non ce la faceva allora patremo chiappao ‘no tedesco ci disse: “guardaci le mani, chisto non ha lavorato mai” (voce bassa) chiglio tedesco se l’incollao isso a glio posto de chiglio ‘nsembra co’ patremo, perché ci stevano i boni e gli cattivi sa’ fi’, ‘nte crede che erano tutti cattivi gli tedeschi, se l’incollao isso, ci d’io glio fiasco e ci disse da i a mette l’acqua, ci disse padremo: “cerca de’ scappa’ che chissi no’ t’aremanneno” invece chiglio, ‘nocente arevenne ‘natra vota. Erano acchiappato pure ‘no frate de patremo, i pianti che se facevano tutti e dova tutta la notte i bombardamenti degli americani e s’abbracciavano tutti quanti. Ah dopo gli atro bombardamento li fecero il 22 maggio glio giorno de Santa Rita, stavano a fa’ la supplica, ‘no bombardamento che acchiappò Largo Cellini, acchiappò vicino da Minotti e alloco se morio ‘no sacco de gente, ‘nsomma ittarono du’ tre bombe allora ne cominciò a entrà la paura vedivi i feriti che li portavano co’ le sedie agli ospedale e la notte siccome che casoma me l’erano bombardata quando itterono la bomba aglio bucio della pallina ci iemmo a dormi’ a ‘na stalla, a sta stalla ci steva la finestra ma era bia la ferraglia ‘n ci steva ne’ vetro ne’ niente, quando la notte, nu’ che no’ le capisciavemo, se veda185
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vemo ‘no foco che veneva de chesto e ‘no foco che veneva de chesto, feci i’ “che sarà che sarà”, ‘n cima tenavemo glio soldato della Piave che me voleva a mi’ e padremo addormiti, calerono chisti subito “facemo i fagotti e spariscemo perché stao a fa’ le cannonate”, gli americani agli tedeschi e gli tedeschi agli americani, stavemo al centro nui, ci n’iemmo de là pe’ le montagne, senz’acqua senza pane senza niente niente niente, portemmo ca pochi stracci accosì, ‘n ci potavamo sciacqua glio musso l’acqua na’ tenavemo, ‘ntenavemo niente, chi s’arifugiava a ‘no posto chi a n’atro, nui ch’ella notte scappemmo, i’ portava ca meso quintale ‘n capo era piccola no’ me le manco accorgeva pe’ la paura, pe’ scappa’ e stemmo parecchi giorni alloco fi’, ‘npotivi stenne ‘no fazzoletto, pure si li lavavi aglio puzzo perché dopo se vedevano ‘no fazzoletto bianco chissà che se credevano e ne sariano accisi e ‘nsomma tenavemo gli tedeschi vicini, passa uno co’ ‘no bastone, dice: “ma ancora a ecco stete” “perché?” facemo nu’, dice “de là pe’ glio campo stavo già gli americani vui passate a ecco, iate alla montagna, calate agli Cricigli e trovate gli americani, “tè” ci dicemmo nu’ “ma ecco i tedeschi e alloco stavo gli americani?!”, “camminate, iatevinne, portate chello che potete che stavo gli americani” ‘nfatti facemmo i fagotti e ci n’iemmo, (voce bassa) gli americani coricati pe’ ttera camminavano, no’ pe’ l’aria co’ glio fucile perché avevano paura fi’, ‘nfaccia a nu’ prima d’allontanacci ci stevano 4 tedeschi ma erano mammocci fi’, “oddio” so’ fatto i’, ma ero mammoccia, ci voleva quasi i a di’ “iatevinni ca mo’ arivano gli americani”, forse erano fatto ‘no consultorio o se voleva arende o se volevano spoglià chisà, s’erano riuniti tutti e quattro e stevano a parla’ fra issi, sentavemo parla’ ma ‘ncapisciavemo chello che dicevano, ‘nfatti nu’ calenne accosi quando vedavemo gli americani, chi spuntava a de qua chi spuntava a de là e ni dicevano “ stavo i tedeschi?” “si, li semo lassati, stavo 4 ragazzetti, no’ gli accidete, so 4 uttri” ci dissi io, chigli forse se stevano a decide d’arrendese, perché già sapevano che gli americani stevano vicini, e s’erano riuniti tutti e quattro e forse se dicevano “arendemoci stao gli americani aiecco che ne’ po’o fa’” che se gli acchiappavano gli americani addavero ci sariano dato da magna’ da beve e la pensione pure, chisà che fecerono, nui ce le dicemmo che ci stevano 4 tedeschi ma erano mammocci ci dicemmo nui, basta. Dopo chi ne deva le caramelle chi ne deva le cioccolate a mi me diedero ‘na bella saponetta da mo’ che no’ vedavemo ‘na saponetta “ a famme addora’, a famme addora’”, a famme addora e no’ m’arevenne più mai’(sorride),eravamo tanta gente fi’, m’arecordo sempre ca ittavano le caramelle, i dolci pe’ le vie romane gli americani, ‘no uttareglio pe’ raccoglie ‘no dolce gli acciaccherono, poracci ci aremanevano male pure issi, calerono da glio cammio pe’ salvagli invece ‘nci steva più niente da fa’…pe’ raccoglie ca caramella, perché semo sofferto fi’, e mo’ chisti soffrono ‘na cica pe’ de la’ e stao arempi’ l’Italia, nui ci semo magnata la biata passata co’ glio macinino, semo fatta la polente, quando ivi de’ corpo tirava glio vento co’ ‘na botta se la portava…semo stati senza magna’ senza sale, ‘no zio de glio meo ieva a mette co’ le botticella l’acqua a glio mare perchè era salata e ci faceva a magna’, ‘ntenavemo sale ‘ntenavemo niente fi’ e a perciò me dico io “ma chisti è possibile che stao peggio de nui?” ‘ntenavamo glio pane ‘ntenavamo niente, niente ‘ntenavamo e chisti quando veo fao pure ‘li prepotenti. Alessia: Co’ chi ce l’ai? 186
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Stella: Chissi che mo’ veo da tutte se’ nazioni, ne’ stai a vede’ che stao a fa’? ma nui semo iti a ca posto co’ tutto chello che semo passato? Dopo la notte figlia era tutta ‘na notte de fochi fra gli americani e gli tedeschi, nui eravemo giovani, alla morte ‘n ci credavamo stavamo a gustacci ste’ girandole de qua de là de qua de là. Dopo nel ’45 se finiscio la guerra, oh me s’arefece l’anema figlia. ‘Na vota entrao ‘no tedesco dentro casoma, figlia co’ glio fucile ‘nmai, forse era bevuto ca cica sennò no’ le saria fatto, perchè sennò uno de nui sceva, ieva a glio comando e chiglio chessa che passava ‘li potevano pure accide, e ‘no zio deglio me’ teneva già ‘no cortelluccio aroperto dopo madroma me d’io la fede e me la fece mette a mi’ fece i’ “so’ sposata chisto è maritemo, è mio marito” ci dissi i’, dopo mettio chiglio fucile sotto glio cammino ca voleva spara’, ma quanta paura ci semo magnata! quando chiglio stava a fa ‘ accosì co’ glio cammino i’ scappao, me ne ieva dentro la camera, ando’ teneva da i, le paure ce ne semo magnate tante fi’, era la guerra, stavemo al centro della guerra. Dopo so sentuso racconta’ ma ne’ saccio se è vero, dice che chigli 4 apparecchi che tenevano veni’ a distrugge Piperno perché stevano troppi tedeschi, ao venuti all’Italia e ao venuti a ecco a Piperno ao iti a magna’ a ‘na trattoria, da Romoletto. Alessia: Chi ‘a venuto a magna’? Stella: ‘Sti quattro americani che tenevano veni’ a bombarda’ Piperno, ma caspita pe’ chigli tedeschi accidavete pure a nui?! Tenevano gl’ordine, à ditto che ci dicerono chigli americani: “ma chi santo tenete a Piperno?”, ci disse Romoletto, m’o chiglio s’ammorto, ci disse: “ecco tenemo la Madonna de Mezzagosto”. Alessia: Aspetta famme capi’ meglio. Stella: ‘Sti quattro tedeschi erano venuti pe’ bombarda’. Alessia: Tedeschi o americani? Stella: Gli americani, invece dice che de fronte a glio vetro stevano ‘no sacco de moschitti, no’ capiscevano più niente ando’ stevano, se telefonavano uno co’ gli altro “me sta’ a succede pure a mi e allora aretornamoci”, s’aretornerono e no’ li poterono bombarda’ più Piperno. Allora chisti s’ao missi d’accordo pe’ veni’ a vede’ a Piperno chello che era succeso. Dice:” guarda nui eravamo comandati de veni’ a distrugge Piperno perché ci stevano troppi tedeschi ma a ‘no certo punti s’ao pini li vetri de moschitti che ‘nsemo potuto cammina più”, ci disse “chi sa’ che va’ protetti a tutti quanti a Piperno”, “tenemo la Madonne de Mezzagosto, sta’ alla campagna”, chesto no’ le so visto me l’ao raccontato però mentre che se dice se vede ch’è vero, che grazia che ci a fatta la Madonna e nui no’ la trattamo pe’ niente, figlia semo passate tante cose che no’ me l’arecordo, tante cose brutte, tenivi paura e ando’ ao passato chigli marocchini figlia che ci ao fatto alle ragazze figlia, che ci ao fatte… Alessia: A Priverno ci so’ stati i marocchini? Stella: No a Piperno no, ao passati dalla parte de Frosinone, più ‘n cima, certa pora gioventù ao remaste ‘ncinta, certe l’ao mannate ai matti, dopo chissi chi sa da quando no’ vedono ‘na femmena dopo so’ chigli cosi brutti che mettono paura pure alla faccia, ca se fossero italiani ci pure guardi alla faccia…e chisti, dicevano, venevano proprio volontari a favore a gli tedeschi, ma dice che facevano le stragi. 187
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Alessia: A favore o contro i tedeschi? Stella: No’ le saccio se erano a favore, o stevano co’ gli tedeschi o co’ gli americani, chesto no’ le saccio ma ando’ ao passati chisti ao distrutto tutto, chiappavano le figlie, le mogli ci facevano ‘nfaccia a tutti quanti, le sfreggiavano, mamma mea…dimme tu ‘na pora ragazzetta, piccoluccia…apperciò chisti che vevo, dico io, ma possibile che glio governo loro…ma nu’ accome stemo a campa’ mo’?! a mi me davo 500 euro a glio mese fi’, bia de medicine e se ci pagassi la pigione accome ci potaria resci’? e chissi perché veo tutti all’Italia? E mo’ 300 e mo’ 500, l’Italia ormai è tutta la loro, l’Italia o se la vinneno o, n’atra cica l’Italia ‘nci sta più, se chiamerà de n’atro nome vedrai tu. Quando viveva Mussolini, non era isso che era cattivo, era glio contorno, perché isso mettio glio sabato fascista, da facci pagà pure la mesa giornata agli operaio, mettio la pensione perché n’ci steva niusciuna pensione invece isso a sessant’anni mettio la pensione agli operai, Mussolini era bono era ‘io vicinato, ‘io contorno ma c’io contro pure ‘io genero, à visto gli fece accide però, accome ‘no traditore gl’à fucilato, perché isso(Mussolini) era troppo onesto. Quando iavemo alla scola la maestra raccontava ch’era figlio de contadini quando alla sera la madre ‘ntneva niente isso se coceva le petata sotto glio foco, l’arebbelava , quando erano cotte se le magnava, veneva da pora gente a ppercio capisceva li poveri, Mussolini era ‘na brava, i’ pe’ conto me’ era ‘na brava persona. Quando stavemo alla scola ci mannava li medici, a chi ci serveva l’olio de merluzzo a chi ci serveva la mistura. Alessia: Che è la mistura? Stella: La mistura era ‘na cosa…quando si emica… emica tu le capisci quando te poco sango Alessia: Anemica? Stella: Anemica, i’ ne’ saccio manco chiama’, a mi me devano la mistura fi’, ci mannava gli medici. Mussolini era proprita…se ci steva Mussolini mo’ no’ stavemo accosì, tu lassavi la casa aroperta ‘ntrava nisciuno, quando metteva ’io carcerato che te cridi che ci deva la televisione? dormivi a glio tavolato e pan’acqua tutti li giorni accosì se pentevano de chello ch’erano fatto, invece mo accidono glio padre, la madre, visto mo’ chiglio esce, vidi mo’ la droga che te fa fa’, chellatra co’ glio spositto acciderono la madre co’ glio frate, ma che sarà sta droga?!e quando comensano no’ poterao finisce più. Prima stavemo male perché ‘mpotavemo magna’ ma mo’ se sta peggio. Dopo dice che in Italia i figli ni fao, ma vao alle discoteche, alle droghe, che li fao a fa’ i figli, te tera mette a piagne da quanno che nasce? Alle discoteche ci voria che no’ci esse nisciuno, no’ iate, nu’ ballavamo prima però casarecci, fra case e dopo che balli so’ chigli invece prima erano glio valzer, t’abbracciavi co’ nome… No’se sta be’ più a sto munno fi’, stavemo più be’ prima quando patisciavemo la fame, tutte le case aroperte… Alessia: Prima si raccontato che quando à venuto glio tedesco a casa ti si messa la fede de mamma tua… Stella: Pe’ dicci che i’ ero sposata. Alessia: Perché le donne sposate no’ le toccavano? Stella: Be’ sa ‘na ragazzetta era più desiderata po’ darsi, così matroma se le188
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vavo la fede e me la mettio a mi’ e giusto giusto ci steva glio soldate della Piave… perché le ragazzette so’ più desiderate...i’ ne manco capiscevo chesso, semo avuto tanta paura fi’,e gli tedeschi li tenavemo sempre denanzi a casoma perché portavano tutti i giorni lo pano, nui le guardavamo bia, ma che era bono o era la fame fi’ o era la fame, ch’era bono chello pane. Alessia: Incidenti forti tra tedeschi e la gente non ci so’ stati? Stella: N’ao acchiappato mai nisciuna dentro la casa, ao fatto glio dovere se’ dentro Piperno dopo agl’atri posti no’ le saccio, una sola ci rubao glio filone ma forse perché isso la voleva ci corio appresso ca ci voleva spara’. Era la guerra fi’ se no’ m’accidi tu te tengo d’accide io a ti, ma è beglio chesto? no’ ci conoscemo e ci tenemo d’accide, che semo fatto de male, se m’accide a mi piagne ch’ella pora madre mea se t’accido io a ti piagne ch’ella pora madre tea e issi co’ le palle ‘n cima le sedie a governa’ ma è beglio chesto?! Ma se venesse ca guerra mo’,chi ci va alla guerra? Ci vao si drogati? Mo’ la guerra no’ la po’o proprita fa più perché so tutti drogati. Le guerre manco a ‘no cane figlia però dice che la lassate Gesù Cristo le guere, la fame, la peste perchè semo troppo cattivi fi’, ‘nsomma era la guera fi’, semo stati meso a du’ fochi, il signore n’aiutato me dispiace pe’ chigli poracci che s’ao morti che potemo da fa’ figlia. Maria L.
Maria: nui stavamo abità a glio bucio della pallina, arrivavano i carri, i camion dei tedeschi, co’ gli carri armati e venivano a bussà pure a casa pe’ alloggià, loro facevano il cambio ogni ora smontava uno e attaccava l’altro, c’avevano la radio trasmittente, comunicavano co’ gl’altri forse che stavano agli altri paesi, mo’ non so’ e venivano, gentilmente loro bussavano a casa chiamavano quello in tedesco, usciva e se mettio a dormì lui un’oretta. Alessia: dormivano proprio dentro le case vostre? Maria: proprio dentro casa mia. Alessia: e voi restavate là o vi cacciavano? Maria: Stavamo là ma come te mettevi a dormì? La casa era tanto piccola non c’entravamo tutti, dopo lui portava da mangià, portavano le scatolette, se le cucinavano da loro e se le mangiavano e ce le offrivano pure a noi se le volevamo, dice domani mattina ve porto i panni da sciacquà, da lavà insomma, la camicia, ci dicio a mamma, invece la notte alle tre loro bussavano alla camera dove dormiva papà: noi partire, una chiamata urgente da Cassino, se noi vivi tornare qua facevano, se non tornare dice morti, invece li bombardarono proprio quando ievano a Cassino, bombardarono qua a Mezzagosto, alla strada che andavi verso Frosinone, verso Cassino e morirono tutti dopo i’ me ricordo pure il camion da Belmonte, andavano là a cucinà’, facevano il pane infatti ‘na ragazza de Priverno, no’ me ricordo come se chiamava, ‘sta ragazza prese un filone, se lo mise sotto il cappotto che portava. Alessia: Ma l’aveva rubato? Maria: Rubao, un tedesco la vide e ci sparò, a quella ragazza. Alessia: Ed è stata uccisa? 189
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Maria: No la ferio andò all’ospedale, ma il comando quel tedesco lo mandò al fronte. Alessia: Cioè venne mandato al fronte perché aveva fatto questa cosa? Maria: Si perché ha ditto pure che lei aveva rubato lui non ci doveva spara’ ecco, la riprendevano ce lo prendevano insomma, pe’ l’azione che aveva fatta, capito? Dopo nui abitavamo proprio qua a glio buco della pallina, qua buttarono ‘na bomba, nu’ stavamo tutti sotto… ci stava un garage co’ la volta e stavamo tutti là sotto ma basta che spostava de poco che ci prendeva tutti e faceva un massacro invece fece proprio la buca pe’ chello è chiamato glio buco della pallina perché ci steva talmente ‘no buco grosso che fece sta bomba, la buttarono là e la buttarono a largo Cellini, insomma i morti non ci so’ stati. Alessia: E queste bombe che venivano sganciate erano americane o tedesche? Maria: E si americane, i tedeschi io me ricordo andavano casa pe’ casa, vedevano se ci stavano gli uomini pe’ fa’ la razzia, facevano la razzia, ci stava ‘na casa la vicino da me era pieno pieno de omini nascosti però ci stavano du’ ragazzini gemelli erano nati e s’erano morti, allora stavano morti alla sala dentro la culla allora issi entravano ma la padrona de casa ci diceva vedi che stanno i morti e loro se ne andarono e se salvarono tutte ‘ste persone, capito? me ricordo quando stavano giù a la caciara, stavano a glio stabilimento de Gatti, co’ gli carri armati, i camion, c’ao stati tanto tempo là però ao spariti quasi tutti quando a cominciato ‘io fronte a Cassino, so’ andati tutti là a Cassino e chi a’revenuto? n’arevenuto nisciuno perché là ao fatto i macelli proprio, i’ tante cose no’ me l’arecordo non è che ero tanto grossa. Alessia: Di che millesimo è? Maria: Del ’33, ‘ste cose me le ricordo perché stavo co’ papà, n’è che ero grande e me ne andavo in giro e allora vedevi le cose. Alessia: E come avete vissuto la presenza dei tedeschi, avevate paura? Maria: Nui all’età che c’avevamo non avevamo paura, dopo quando semo sfollato ce ne semo iti a glio campo, nui andavamo tutti sfollati dellà perché stevano i tedeschi, tenevano paura gli uomini, stavamo poi co’ tutte l’atre famiglie riunite, ci stavano i fratelli, dopo stevano la femmene, le sorelle mie erano giovanotte, se le pigliavano se le portavano, papà allora sempre a nascondele, invece dopo che iavemo più in là de glio campo cominciammo a ‘ncontrà’ gli americani, ci davano le caramelle, dicevano se ci ci stevano i tedeschi, ma tutti che correvano, scappavano i tedeschi, cauduno che ‘ncontravi non cercava da pigliatte, cercavano da butta la roba, buttavano zaini, cose così e correvano, scappavano dicevano bia caput caput e se n’ievano. Alessia: ‘Sta parola è rimasta impressa a tutti. Maria: Caput caput. Teodoro: Perché avevano rotto il fronte a Cassino. Maria: Ao spariti tutti quando a comenzato Cassino, ao spariti se n’ievano, chisti che stevano ‘n’cima a glio bucio della pallina ogni ora carri armati ‘nfatti dicevano che quando hanno buttato la bomba a noi perché stevano gli tedeschi, chisà chi a stato a mannagli, ma i tedeschi se n’erano iti, se n’ao iti alle tre de notte, ao scappati tutti quanti, co’ ‘no momento ao spariti, c’ao lassata pure la roba a noi, ‘n po’ de scatolette. 190
Intervista
Teodoro: E quello de Largo Cellini te lo ricordi? Maria: De Largo Cellini glio bombardamento so ditto, a chiglio n’ci stevano i tedeschi, era ‘no bombardamento de gl’americani, bombardarono alloco e da Bucciarelli. Teodoro: Alloco è chiamato proprio bombardamento. Maria: Sempre pe’ sentito di’ perché nui sole ando’ iavamo eravamo troppo piccole invece steva ‘sta sorella mia che è morta chella se ricordava perché quella andava da pe’tutto basta che sapeva che steva ‘no camion de tedeschi “iamo a vede se me da ca’ cosa” invece a nu’ piccoli n’ci mandavano sempre pe’ paura che ci perdavamo o che ci prendevano capito? Alessia: Co’ l’arrivo degli americani sono arrivate anche l’altre truppe come i marocchini? Maria: Siii, m’arecordo che erano bruuutti co’ chelle trecce co’ chigli turbanti ‘n capo, de chigli teneva paura, scappava io perché dicevano ca’ chigli se pigliavano le ragazze, le donne e allora scappava m’arecordo nui tenavemo certi zii nostri che stevano al cimitero, facevano glio custode al cimitero e c’avevano le figlie femmine, ragazze, chisti ierono alloco, i marocchini, volevano le signorine. Glio giorno erano iti, ao guardato e la sera erano iti ca’ volevano le signorine, m’arecordo chiglio zio de glio me’ le pigliao tutte dova, loro erano pratici de dellà, vicino steva ‘na tomba aperta e ce le buttò dentro, le figlie. Teodoro: Pe’ nasconderle. Maria: Pe’ nascondele senno le pigliavano. Alessia: Si ho saputo che alcuni hanno murato le figlie per non farle prendere dai marocchini. Maria: Senno se le pigliavano perché chigli no’ volevano gl’omini chigli ievano cerchenne le femmene, i marocchini, m’arecordo e come no’ me gl’arecordo pe’ glio fontanino prima c’arrivi…vicino alla banca, me gl’arecordo tutti chissi. Alessia: Ce ne stavano tanti allora. Maria: Eeeee ce ne stavano tanti si, ce ne stavano tanti, bruuutti già a vedelli chigli te mettevano paura, bia quando vedavamo gli americani ‘nsomma, gl’americani te devano le gomme le caramelle nui iavemo pe’ le gomme e le caramelle non pensavamo all’atro che ne poteva accide, dopo i’ teneva ‘na casa che bia i passerotti s’appoggiavano ‘n cima e già se sfonnava e venevano a da’ guai tutti chigli tedeschi.
Maria: Dellà ao fatto danno i marocchini a de qua…perlomeno non s’a sentuso c’ao acchiappato le femmene, magari ao rastrellati i tedeschi gli uomini ma…andò stavo abita io n’ao passati tanti de tedeschi perchè venivano dalla Caciara, azzeccavano co’ gli carri armati ma quanti se ne fermerono a ecco a glio bucio, tanti tutto pieno era. Teodoro: E poi? Maria: Non m’arecordo atro non è che… Alessia: Ma va bene signora, quello che mi ha detto è interessante. Maria: Ero piccola, tengo 75 anni mo’, ao passati tanti anni magari una s’arecorda perché no’ le vedavamo mai chelle cose. Teodoro: Solamente di Priverno ti interessa a te? 191
Guerra, racconto e memoria
Alessia: Bè la tesi è su Priverno, perché lei di che parte è? Teodoro: Io so’ di Collepardo, in provincia di Frosinone. Alessia: Collepardo non era molto distante dal fronte gli ha vissuti da vicino quei momenti, le va di raccontarmeli? Teodoro: No niente io mi ricordo solamente che quando si ritiravano che avevano sfondato il fronte di Cassino che bombardarono, io c’avevo otto anni, bombardarono lungo la strada bombardarono i carri co’ tutti i cavalli e c’avevano quei cavalli grandi noi praticamente andavamo a taglia’ la carne de cavallo pe’ magnarcela, solamente questo…e gli americani bombardarono e noi eravamo piccoli stavamo a guarda’ mentre bombardavano col pericolo che c’acchiappavano pure a noi, i tedeschi praticamente venivano al paese mio appunto pe’ rifugiarse, per riposarsi per poi andare al fronte di Cassino come praticamente pure qua perché tutta ‘sta zona, il medio e basso Lazio si riposavano per poi andare a Cassino, poi arrivarono gli americani, i marocchini, arrivarono i polacchi. Alessia: C’erano diverse truppe addirittura maori e neozelandesi. Teodoro: I neozelandesi si si ma più che altro polacchi e marocchini da queste parti infatti a Cassino ci sta un cimitero apposta pe’ i polacchi, con i cingoli di un carro armato hanno fatto una croce e l’hanno piazzata a sto cimitero ‘do stanno sepolti tutti i polacchi. Maria: ce ne stao tanti seppelliti a Cassino, alloco ao fatto stragi propria, ‘no paesetto, Patrica, prima che se va a Frosinone m’arecordo le sentio racconta’ che li tedeschi pigliarono du’ ragazze chello che ci fecero, dice che se so levate de mente chelle ragazze pe’ chello che facevano, no i tedeschi chigli… Alessia: I marocchini? Maria: I marocchini! Teodoro: Be’ Priverno l’hanno un po’ massacrato pure èh. Maria: E si, chisti che se fermerono a ecco ‘n cima glio bucio se ierono a rifugia da Pipetto ‘nsomma. Teodoro: A via Leone Leo, qua sopra. Maria: Ci steva ‘no stabilimento, era grosso, se rifugiavano alloco i tedeschi però non te cacciavano èh, padremo diceva iateve a mette a glio letto vu’ ca ci penso i’, allora era giovane papà, steva sveglio non s’addormeva a vede chisti che montavano e smontavano, se facevano a magnà se scallavano la carne. Teodoro: A me me punturano il fucile in fronte. Alessia: Chi? I tedeschi? Teodoro: Si perché io, noi co’ altri amici c’andavamo a ruba’ le munizioni allora a un certo momento ci scoprirono, a me me punturano il fucile, n’attimo che lui se rigirò io girai l’angolo e scappai, c’avevo otto anni, lo facevamo apposta pure, pe’ facci i dispetti lo facevamo, poi facevamo il fuoco e sentivamo schioppettà tutte quelle pallottole. Ad esempio quando venivano i tedeschi per fare gli uomini da portare a Cassino noi che eravamo ragazzini li vedevamo i tedeschi arrivare allora quando vedavamo i tedeschi arrivare con i camion avvertivamo tutto il paese in modo che tutti gli uomini scappavano infatti molti se so salvati appunto per questo. Poi da noi c’erano parecchi sfollati perché da Frosinone ecc. venivano tutti a rifugiarse a Collepardo. Alessia: Come da noi arrivavano da Terracina, da Minturno. 192
Intervista
Teodoro: Infatti loro hanno ospitato ‘na famiglia de Minturno e so rimasti in amicizia poi non s’è saputo più niente perché se so’ morti i genitori ed finito lì. Maria: Stevano le sorelle ch’erano più grosse chelle s’arecordavano tante cose perchè basta c’arrivava ’na… già esse stevano sul posto a vede’ chi erano pe’ farse da’ lo pane, pe’ farse da’ le scatolette. Alessia: La paura per il tedesco da cosa era scatenata, i rapporti con la popolazione erano conflittuali cioè c’erano contrasti tra tedeschi e i cittadini di Priverno? Maria: No. Teodoro: La cosa principale pe’ gli uomini, per portare gli uomini a Cassino, infatti io mi ricordo che Ugo Onorati, tu non te lo ricordi, prima c’era la società romana elettricità dopo è diventata Enel, e ‘sto Ugo Onorati che comandava la società romana elettricità lo presero, Raniero Oliva, lo stesso, lo portarono a Cassino. Maria: Glio padre de Stella. Teodoro: Il padre de Stella Coccia, sarebbe il nonno de Angela Romagnoli, li portarono a Cassino, li portarono a scavare le trincee principalmente e poi anche per sparare. Alessia: Da quello che ho capito il danno lo hanno fatto più gli americani. Teodoro: Si è logico con i bombardamenti che hanno fatto gli americani hanno fatto più danno. Maria: Loro dicevano che facevano chigli bombardamenti pe’ acchiappa i tedeschi però i tedeschi scappavano ma acchiappavano i civili perché i tedeschi c’arrivava ‘na soffiata e issi scappavano. Teodoro: Il tedesco lì per lì era solamente per prendere gli uomini principalmente ma i danni c’hanno fatto, i morti so’ stati pe’ gl’americani cioè gl’americani lo dovevano fare loro dicono perché altrimenti non vincevano la guerra poi si sa che quando uno bombarda prende tutti. Alessia: Eppure quando sono arrivati eravate contenti gli avete accolti bene. Maria: Si si. Teodoro: Ma pure da noi era lo stesso, gli abbiamo accolti bene perché era ‘na liberazione cioè perché ad un certo momento specialmente per i partigiani è stata ‘na liberazione perché i partigiani andavano contro i tedeschi per vincere la guerra per cui quando so’ entrati gl’americani si c’hanno fatto danno però hanno liberato l’Italia da questi invasori questa è la cosa principale, però noi l’odio l’avevamo di fronte ai tedeschi ma no’ contro gl’americani. L’americano lo doveva fare, se non era per gli americani noi la guerra non la vincevamo, noi come italiani. Alessia: L’odio quindi era per i tedeschi. Teodoro: E si perché il tedesco era l’invasore, qua non hanno fatto tanto danno ma quanti ne hanno ammazzati i tedeschi perché quello faceva la spia (alza la voce) oppure andava a favore perché poi gl’americani avevano pure messo delle spie, a Priverno pure l’hanno messe per cui quando i tedeschi scoprivano queste spie le fucilavano oppure i partigiani li prendevano e li fucilavano, là non c’era scampo, li fucilavano i partigiani. Per cui tu vieni a comandare a casa mia…l’odio è per chi è venuto a casa mia a cacciarmi fuori da casa invece 193
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l’americano viene accolto perché è stato il liberatore. Voi no’ l’avete vissuto ma noi l’abbiamo vissuto appunto io l’odio da bambino già lo vedevo l’odio contro i tedeschi, per esempio io nel mio piccolo che andavo dal tedesco, passavo sotto il tunnel col pericolo che m’hanno preso, lo facevo pe’ pigliarci le munizioni in modo che se ne andavano. Poi i tedeschi diciamocelo hanno violentato pure le donne, ‘nfatti le donne che ci andavano insieme volontariamente ci tagliavano i capelli. Alessia: A zero? per farle riconoscere? Teodoro: Quando so’ venuti i partigiani prendevano queste donne e gli tagliavano i capelli per punizione a queste ragazze che erano state con i tedeschi volontariamente, mi ricordo una donna si chiamava Clara ci tagliarono i capelli a zero i partigiani. Maria: Quando spararono a Vittoria, così se chiamava? chella che ci sparao glio tedesco perché c’era rubato ‘no filone de pane, chiglio ci fece alt ma non se fermao e ci sparao, steva a chiedici perdono alla barella iessa no’ ci aresponnio niente ma glio comando li mannao al fronte. Teodoro: Se tu ci spari solamente per quello allora no…poi che altro bè questo nella storia è tanto intendiamoci. Maria: No’ m’arecordo nient’atro perché no’ le so’ vissute, cheste perché le so’ proprio vissute, chesto che te so’ ditto non è che me l’ao ditto, le so’ vissute perché stavo co’ papà ma stavano chelle sorelle più grosse chelle ievano pe’tutto, n’ci stavano ma’ a casa ‘ntravano bia la sera, ievano a vede ci diceva patremo: ”se ve chiappano ve se portano”. Teodoro: Da noi un’altra cosa noi per esempio che eravamo bambini, 8-10 anni, andavamo dai tedeschi a farci dare pure da mangiare perché c’era qualche tedesco pure bravo, come persona che era brava infatti quando loro ci vedevano che la fame la soffrivamo da noi ad esempio c’era un tedesco che a me mi chiamava quando avevano finito de mangia’, dentro la pentola, c’erano quei pentoloni grossi, il tedesco ci faceva rimmediare, specialmente riso e patate. Alessia: Vi faceva ripulire le pentole?! Teodoro: Ci faceva ripuli’ ‘ste pentole ma intanto c’avevamo da mangia’, questo me lo ricordo benissimo, c’era pure qualche tedesco non bisogna dire che tutti i tedeschi c’era pure quello che capiva le esigenze della popolazione poi però quando cominciò a veni’ le SS quelli no, quelli erano terribili, le SS non guardavano ‘n faccia a nessuno. Alessia: C’erano quindi squadroni diversi. Teodoro: Le SS portavano la divisa scura, erano terribili, i più cattivi, non guardano ‘n faccia a nessuno. Da noi se ne so’ visti pochi però a Priverno ce n’erano tanti poi tutti ‘sti fascistoni andavano tutti co’ i tedeschi e ci andavano d’accordo. Maria: Chi ci ieva d’accordo le vidivi, pure che n’te le dicevano ma vidivi come…alla casa tenevano da magna’ invece nui… Teodoro: Esatto. Maria: Issi tenevano glio pane che se pure sprecava perché chigli ci devano tutto, issi facevano la spia. Teodoro: Facevano la spia specialmente co’ gli ebrei, i tedeschi andavano là 194
Intervista
e prendevano ‘sti ebrei pure qua a Priverno è successo. Alessia: Anche qua a Priverno c’erano delle famiglie ebree? Voi li conoscevate? Maria: Stevano di fronte da Bucciarelli a chiglio vicolo, com’erano chiamati? Teodoro: I giudii. Maria: I giudii. Alessia: E loro so’ stati presi? Teodoro: Qualcuno s’è salvato, c’era pure qualche pipernese che gl’ha portati a casa sua e gl’ha nascosti gli ebrei. Alessia: Chissà chi(quasi fra me e me). Teodoro: Chi è? Te lo dico subito è Fulvio de Loreta, il marito. Infatti quando ogni anno che fanno la festa no’ mi ricordo come è chiamata dagli ebrei Fulvio lo invitano a Roma ad andare a questa festa, questo è importante. Alessia: Allora provo a chiamarlo. Voi lo conoscete bene, sa come posso contattarlo? Teodoro: Il numero te lo posso dare io, questo me la detto lui, un giorno lo vidi vestito e dici “ando’ vai”, dice “ vado a Roma perché così e così, ho salvato degli ebrei durante la guerra e m’hanno invitato”, ogni anno lo invitano non mi ricordo come si chiama questa festa. Alessia: Anche lei quando so’ arrivati gli americani ha visto i marocchini? Teodoro: Se so’ stati poco, si, insieme co’ i francesi e io mi ricordo, ‘sta fotografia lampante che ciò che io ero ‘no ragazzotto alto così(indica con le mani un’altezza di circa un metro)e me passavano ‘sti carri armati davanti e io ‘mpalato, quello m’ha fatto impressione, m’è rimasto sempre ‘mpresso. Maria: Diceva la mamma che isso era chiglio che portava a casa, n’se areduceva mai. Teodoro: Quando ammazzarono ‘sti cavalli, quando ci fu la ritirata che avevano sfondato il fronte di Cassino io vedevo tutta ‘sta fila de cavalli grossissimi, io proprio dal paese viddi gli aerei che me sfrecciavano da dietro bombardarono e ‘chiapparono tutti ‘sti cavalli dei tedeschi. Quando viddi tutti ‘sti cavalli da lontano dico mo’ vado a chiama’ mio fratello che era più grande. Alessia: Adesso se fa festa! Teodoro: E mo’ se magna ‘nfatti tutte quelle cosce de cavallo, porca miseria me ricordo mio fratello tagliava e io ragazzino che poi era lontano era circa 3-4 kilometri, co’ ‘sta carne sopra alle spalle ce ne andavamo a casa. Viddi proprio mitragliare tutti ‘sti cavalli…com’è che dèsirèe ha pensato di…? Maria: Quando ha telefonato so’ pensato che Teodoro era lasciato ca’ cosa in farmacia. Alessia: Perché le stavo dicendo che dovevo raccogliere altre informazioni e poco prima avevamo parlato di sua nipote e così le è venuto in mente lei e l’abbiamo chiamata. Maria: Chello che c’arecordamo come no! Teodoro: Un’altra cosa che io me ricordo pure, me ricordo sempre che le cannonate, loro gli americani sparavano da Guarcino vicino Fiuggi e io sentivo ‘sti proiettili de cannone che attraversavano tutto il paese per sparare a distanza a Cassino e noi che dormivamo sui tavoli sentivo ‘sti botti de cannone che spara195
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vano verso Cassino. Alessia: Alcune persone m’hanno detto che anche a Priverno si sentivano le cannonate che provenivano da Anzio quando c’è stato lo sbarco, e Anzio è distante da noi. Maria: Se sentivano si come no, guarda chesta bomba ‘n cima a glio bucio, n’so ci stavano du’ anziani, videro ‘na bomba da ando’ la scagliarono e dice “la bomba ne ve’ a colpi’ a nu’ ” e arrivò proprio ‘n cima a glio bucio, perché ‘n po’ de giorni prima ci stava ‘no fagocchio ’n cima a ecco a glio bucio. Teodoro: Sarebbe il nonno di quello che c’a il bar total giù a Sant’Antonio. Alessia: E’ quello che faceva il falegname mi sembra. Teodoro: Faceva le ruote dei carretti. Maria: Allora i tedeschi se ci fermavano pe’ farse fa’ ca’ riparazione, ca’ giorno o gl’atro pe’ Romolo ci bombaradano a nu’ dicevano chigli più anziani e ‘nfatti la bomba proprio alloco. Quando la itterono a Largo Cellini la sorella mia chella più grossa, ch’è morta non c’è più ando’ a vede’ Largo Cellini, se mise sotto braccio ‘na signora e la portao a gli’ospedale a rischio de fasse accide pure essa ma basta che ieva a vede’, bombardarono a glio bucio e dopo, ‘n’atra vota fecero da Bucciarelli. Teodoro: adesso so’ passati tanti anni per cui certe cose, e rimangono impresse quelle più eclatanti… ci stanno persone che sanno più di quello che t’abbiamo raccontato noi intendiamoci però uno di questi fatti è Fulvio de Loreta.
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DALL’ALTO, DAL BASSO… ATTRAVERSO di Giovanni Raponi
Durante la Seconda guerra mondiale la provincia di Littoria, dopo il gennaio del 1944, fu assediata tra due fronti (Cassino e Anzio) per più di quattro mesi, e conobbe il tallone di ferro nazi-fascista per circa otto mesi. La pupilla del Duce, la provincia più cara a Mussolini, soprattutto per le opere che fecero seguito alla Bonifica Integrale voluta dal fascismo negli anni Trenta, soffrirà in forme assai cruente gli eventi del Secondo conflitto mondiale fino al maggio del Quarantaquattro e anche dopo (le violenze subite dalla popolazione civile, soprattutto dalle donne, si protrassero fino al mese di agosto del 1944 e numerose furono le vittime degli ordigni rinvenuti, più o meno casualmente, nei mesi successivi alla liberazione portata dagli Alleati). Fra tanto dolore, pubblico e privato, collettivo e individuale, i bambini come se la cavavano? come sopravvivevano alla paura? all’orrore? alla fame? alla perdita della protezione che normalmente ricevevano dagli adulti (troppo impegnati adesso a racimolare quanto serviva alla sopravvivenza per curarsi di loro con la solita premura)? L’intervista al signor Cataldo Botticelli, che qui di seguito proponiamo, risponde a buona parte di quelle domande che abbiamo appena elencato. E risponde, secondo noi, più in forma implicita che esplicita. E vogliamo dire che si ha l’impressione nel leggere la trascrizione delle parole del signor Cataldo che, al di là degli eventi, dei fatti accaduti, a sostenere la Sua personale Resistenza (e intendiamo il termine nell’accezione storiografica più compiuta, ossia come Lotta di Liberazione)… a sostenere le terribili prove di un bambino che perde la madre, gioca con i residuati bellici, protegge il fratellino dalla fame e dalle violenze… a Sostenere il volto di Medusa, capace di pietrificare, ci sia stata la Fantasia. Il bambino Cataldo Botticelli, novello Perseo, guarda la realtà riflessa nello scudo della fantasia, e grazie al suo scudo è in grado di non farsi aggredire dal Male. Il Male che lo circonda. Male che non è la povertà, della quale racconta come se si trattasse di parlare di una vecchia conoscente, quanto piuttosto qualcosa di indefinibile, indeterminato, un totale non-senso. E’ a questo non-senso che il bambino Cataldo risponde, e risponde immedesimandosi nel ruolo dell’eroe come solo può fare un bambino, un bambino dotato di una grande Fantasia. Ed ecco, allora, che gli aerei non ti fanno più paura! Anzi, ti diverti a vederli sparare prima di nasconderti sotto un ponte perché non possano ferirti. E se qualcuno dei tuoi ci rimane… rimane colpito veramente dalle pallottole: Niente Paura! Tanto se la cava con poco! Quando la realtà è orribile, insostenibile, l’unico rifugio per un bambino è la Fantasia. Chi se lo ricorda il film di Benigni, La vita è bella! Proprio così. Anche il bambino Cataldo Botticelli, finché ha potuto, ha cercato di pensare che alla fine un carro armato se lo sarebbe portato a casa! L’intervista al Signor Cataldo Botticelli (nato a Priverno, il 10.05.1935) è stata realizzata, presso l’Istituto “Teodosio Rossi” di Priverno, il 20 dicembre 2014 dal Prof. Giovanni Raponi in collaborazione con gli studenti Emanuele Neve e Gaetano Tornese. Ha trascritto l’intervista la Prof.sa Paola Marroni; la Prof.sa Loretta Cardarelli ne ha curato la revisione tipografica. L’intervista è stata realizzata con telecamera Sony Handycam 3.0 megapixel. Qui, in volume, riportiamo circa i tre quarti dell’intervista che complessivamente risulta di 60 minuti primi. Coloro che volessero consultare nella forma audiovisiva, e nella sua interezza, l’intervista possono rivolgersi alle Prof.sse sovra menzionate, docenti presso l’Istituto Teodosio Rossi di Priverno.
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Guerra, racconto e memoria
Torniamo a Cassino. Torniamo alla realtà. A febbraio del 1944 arrivava sotto l’abbazia, per sconfiggere i Tedeschi, il neozelandese (come amava autodefinirsi) generale Freyberg. Tocca ai suoi uomini adesso l’assalto. E, il generale ne è convinto, l’assalto riuscirà se si toglieranno dalle scatole i Tedeschi sistemati dentro la millenaria abbazia. Inutile ribadire oggi, per allora, che di Tedeschi dentro l’abbazia di Montecassino non ce n’erano. Per il generale c’erano però, e questo è quel che conta. I Tedeschi nella fattispecie erano nella mente del generale Freyberg, nella sua Fantasia viene voglia di dire! Come si sa, l’abbazia di Montecassino venne rasa al suolo a metà febbraio, circa un mese dopo la stessa sorte toccherà alla città di Cassino (la piccola Stalingrado la chiameranno i soldati della Wehrmacht). Sia la distruzione dell’abbazia che quella della città di Cassino non permetteranno al generale Freyberg di battere i Tedeschi, piuttosto le macerie prodotte aumenteranno la capacità difensiva dei soldati di Hitler. Perché parliamo di Freyberg allora? Perché abbiamo letto che fu amico di James Matthew Barrie… Nome che letto di primo acchito sembra quello di un illustre sconosciuto ma che, non appena si rivela essere l’autore di un famosissimo romanzo per ragazzi, Peter Pan, si illumina a lettere d’oro. Ecco! Crediamo che se un archetipo, un eroe eponimo, abbia ispirato (consapevolmente o meno non importa) le gesta del bambino Cataldo Botticelli sia proprio Peter Pan (anche se a leggere le cronache della battaglia di Montecassino sembra che Peter abbia ispirato anche il generale Freyberg, ma questo non depone certo a suo onore). Come Peter, il bambino Cataldo non ha paura! E non ha paura neanche degli uomini, degli adulti! Come Peter, è astuto! Con il fratellino, spinto dalla fame, si avvicina all’accampamento dei soldati Tedeschi ma lo avverte che stia lontano, per chiedere aiuto se occorre! Come Peter, Cataldo porta sempre con sé un coltellino, è la sua arma di difesa; va in giro con altri bambini come lui che, in quel tragico momento, a ragione possono indicarsi come altrettanti bambini smarriti (proprio come chiama i suoi amici del Paese-che-non-c’è Peter Pan). Ma, soprattutto, come Peter Pan, Cataldo non parla mai della sua mamma (del resto a chi avrebbe potuto parlarne?!) e, come Peter, il bambino Cataldo Botticelli sembra non averne bisogno, quasi che le mamme potessero ritenersi persone sopravvalutate (come si può leggere nel romanzo di James Barrie). Proprio così: la cosa che di più inquieta, nel possibile parallelismo tra le vicende di vita del signor Cataldo e quelle dell’autore del romanzo del bambino che aveva deciso di non crescere più, riguarda proprio il rapporto con la mamma. Il signor Cataldo ci ha narrato del terribile lutto che lo colpì ancora bambino proprio nei mesi terribili della guerra a Littoria e pare che anche James Barrie per più di un anno (dopo la morte dell’amato fratellino David che aveva quattordici anni) rimase al capezzale della madre, incapace di riprendersi dalla grave forma i depressione che la colse. Insomma, quella che presentiamo qui è una storia terribile e drammatica ma, nello stesso tempo, una storia a lieto fine. Una storia che registra il successo della vita, della speranza, della fantasia contro la morte, la disperazione, la realtà violenta della guerra. La storia di un uomo che porta con sé la coscienza di valori profondi che ha difeso, ancora bambino, dalla terribile violenza degli adulti capaci di offendere l’innocenza dell’infanzia da tutti i punti di vista: dall’Alto e dal Basso, grazie alle bombe degli Alleati che piovevano dal cielo e grazie alle minacce dei Tedeschi con i quali si era costretti a condividere lo spazio geografico, il suolo del paese natio. Una vittoria che il bambino Cataldo ha ottenuto passando per il suo tempo attraverso… la fantasia. 198
Intervista
Cataldo Botticelli R: Signor Cataldo alla persona che intervisto chiedo sempre se posso dare del tu. Possiamo darci del tu? B: Sì, come no? Possiamo darci del tu. R: Bene, grazie Cataldo. Io mi chiamo Giovanni. Di solito le interviste le comincio così e faccio così anche con te. Se tu dovessi raccontarci la tua vita. C’è un momento particolare della tua vita da cui, secondo te, si potrebbe cominciare a dire: lì ci sta già Cataldo Botticelli; in quest’evento io già mi vedo consapevole e protagonista e …. B: Non ho capito bene …
La scuola R: Rifaccio la domanda, rifaccio la domanda. Da bambino,ti hanno mandato a scuola? Hai fatto le scuole elementari? B: Sì, io ho fatto la prima, la seconda, la terza e a Ciriara (Ceriara), perché c’era la scuola quella dell’obbligo e allora, in quel periodo,era solo fino alla terza elementare, chi voleva fare la quinta come me che volevo andare a fare il carabiniere doveva venire a Priverno a piedi, a piedi passando per le Quattro Strade per chi capisce, chi conosce Priverno e non per Madonna delle Grazie, perché da settembre, ottobre ad aprile pioveva e c’era sempre mezzo metro d’acqua quindi Cataldo a piedi, ripeto, senza cappotto,senza incerata,senza ombrello- chi ce l’aveva l’ombrello, quarantenni, in quegli anni l’ombrello, non c’avevamo l’ombrello, niente quindi manco a me mi prendeva un acquazzone alle Quattro Strade così che io passavo per la Torretta e me ne andavo a scuola a Santa Chiara, quando arrivavo io tutto bagnato, tutto sporco e lercio non era raro prendersi qualche … qualche …. non dico insulto, ma presa in giro dai ragazzi, era comprensibile … arriva ‘sto straccione, tutto bagnato, tutto zozzo, dice … ma che vai girando R: Chi era l’insegnante? B: Lattao. Lattao e poi … R: Maestro? B: Maestro Lattao e il maestro Galli. Questi sono stati i mie insegnanti, i primi che mi hanno insegnato veramente l’interessante perché io ho perso la mamma (china la testa commosso )... (Lunga pausa)
La mamma R: Che età avevi? B: Ho perso mia madre che avevo sette anni ma praticamente mia madre ha fatto gli ultimi due anni a Ceriara dentro una piccola stanza come questa qua, c’avevamo una cucinetta da un’altra parte, eravamo povera gente, non è che c’avevamo una casa grande e lei non poteva vedere nemmeno la luce, quindi mia madre sveglia …; già a sette anni allora eravamo meno, forse, ripeto,meno svegli di oggi, però poi quando la mamma è per gli ultimi due anni, prima di morire, è rimasta chiusa al buio perché non poteva vedere la luce, questo almeno mi dicevano, a me, ragazzo, e quindi mi riportavo qualcosa da mangiare e … (Scuote la testa) … sentivo solo la sua voce, io mi commuovo, adesso sto parlando di questo 199
Guerra, racconto e memoria
qua però il mio pensiero sta a questa madre no? che sta male, c’ha un figlio di sette, ott’anni, sett’anni e mezzo e un altro, sett’anni compiuti e un altro di tre anni R: Più piccolo. B: Più piccolo. Non era da tanto che io non vedevo mia madre, allora quando io penso a ‘ste cose: la tragedia de questa mamma che dice: “Io forse non riuscirò a sopravvivere e questi figli dove andranno, chi se ne prenderà cura?”; mio padre, tra l’altro, era richiamato, stava a Roma per soccorrere qualche bombardamento perché gli americani- io sono filoamericano- gli americani c’hanno liberato dalla dittatura, però gli americani è meglio non averli nemici, quando bombardano, bombardano a casaccio, così, insomma, cioè, a me non m’è piaciuta la storia di Montecassino, per esempio, potevano rimanere là dentro i tedeschi, che facevano. Comunque non entriamo, non travisiamo la cosa dei tedeschi … erano stranieri … molto probabilmente …. R: Ascolta. C’è questo ricordo molto emozionale della tua vita, no? Addirittura fino a commuoversi veramente e narra che tu sei bambino e la tua mamma poverina sta male. Papà tuo … tu di che classe sei? Qual è la tua data di nascita? B: Sono del 35 R: Sei nato nel 1935. Quindi tu c’hai sei - sett’anni B: Io c’ho … io c’ho … a maggio prossimo … il giorno di S. Cataldo … io sono nato il giorno di S. Cataldo alle 18.30. Mia nonna è entrata col carretto tutto infiocchettato. Era andata a Supino, a Supino allora c’era un santuario molto … come la Santissima ...’na volta la Santissima Trinità … ma in quel periodo anche il Santuario di S. Cataldo a Supino era molto, molto frequentato … io mi ricordo che mia nonna, mia nonna ... non quando sono nato, perché me l’hanno raccontato, che lei invece di stare vicino a mia madre, si partoriva in casa con la levatrice, ora uno muore pure all’ospedale, ma allora era più facile morire in casa, bastava un piccolo problema, un incidente, non c’erano manco i mezzi, né che c’erano le macchine adesso uhm …”prendi quella,non parte quella prendi un’altra macchina ...”, lì non c’era niente, neanche le biciclette, io venivo da scuola a piedi, andavo a scuola a piedi, quindi diamoci una regolata. R: Quindi questa tua nonna va a San Cataldo … B: Questa mia nonna va a San Cataldo; la sera, quando rientra, -“Evviva San Cataldo!”-, scendevano dal carretto, come immagino perché io l’ho visto da bambino perché questa cosa ha continuato, mi hanno raccontato mia nonna o mia zia, nonna era una credente, praticante … invece di stare vicina a tua madre ci sono dovuta stare io da Piperno a piedi, lei stava lì ... le solite cose, insomma quand’è arrivata sentivano: “Evviva, San Cataldo!”, quando scendevano dal carro, no? “Evviva San Cataldo! Evviva San Cataldo!” e quindi quand’è appena entrata dice: “Questo bambino lo chiameremo Cataldo! E quindi m’hanno chiamato così. R: 10 maggio è la data. B: 10 maggio, 10 maggio, il giorno di San Cataldo. Quindi il 10 maggio prossimo faccio 80 anni. R: Tanti auguri. B: Grazie 200
Intervista
R: Allora … papà tuo, m’ hai detto, è richiamato nell’esercito e … papà come si chiamava? B: Silvestro R: E Silvestro che lavoro faceva? B: Mio padre … non aveva un lavoro fisso, lavorava … era un operaio … lavorava in campagna … R: Era un bracciante? B: Era un bracciante. Lavorava … all’inizio, da giovane, ha lavorato anche nell’Opera Pontina R: Ha fatto i canali di bonifica? B: Sì, sì, ha fatto anche i canali di bonifica. Ha fatto pure i lavori di … ha lavorato molto. Era un lavoro duro. A suo dire era molto duro, molto pericoloso stare in quelle zone, in quel periodo … R: Senti, te la devo fa’ ‘sta domanda. Papà Silvestro il Duce magari l’ha pure incrociato a Littoria, a Sabaudia … B: No, non … ma non credo, se l’avesse detto … forse lui faceva dei lavori nelle zone … no, non mi ha mai raccontato, non ha mai raccontato di avere incontrato. Può darsi pure che l’ha fatto, ma non me l’ha raccontato R: Da bambino non hai avuto ‘sto racconto. A te bambino non t’è arrivata mai ‘sta narrazione B: No, no. Mio padre ha detto, quando si parlava, perché poi, quando i tedeschi hanno rotto gli argini, hanno allagato per difendersi la ritirata, hanno mandato l’acqua, lui allora lui mi diceva - Sai noi abbiamo fatto tanto... - e da qui uscì ‘sta cosa - Noi abbiamo fatto tanto per bonificare, un sacco di lavoro, gente è morta di malaria eccetera e non l’andavano neanche a prendere; questo l’ho saputo anche dopo, che, a un certo punto quando si moriva in quelle zone rimanevano lì, nessuno li andava a prendere, tant’ è vero che poi si fece una confraternita, un’organizzazione di volontariato che andava a raccogliere ‘sti poveri miserabili che morivano magari abbandonati nelle fratti … R: Confraternite della Buona Morte. B: Eh, esatto. R: Ci stanno ancora. B: Queste cose così, per linea di massima, mi venivano raccontate da mio padre.
La scuola R: Allora,Cataldo, ma tu bambino quando vai a scuola a sei anni, quindi nel 41, così, sai che Benito Mussolini, però, è il duce del fascismo. Com’era l’aula scolastica? Ci stava il Re, la Regina … com’era? B: La scuola, io andavo alla scuola di Ceriara, che io abitavo vicino alla chiesa, proprio di fronte alla chiesa, poi lì c’è una stradina, adesso[…], passava la strada che andava dalla 156, vicino alla chiesa, a 200 metri dalla chiesa, c’era una stradina che andava alla scuola, adesso praticamente poi se l’ha incorporata mio fratello che abita lì, a Ceriara, Gino Botticelli e c’era la scuola, c’è ancora, un bell’edificio molto grande, a due piani molto grande ed era, davanti la scuola, c’erano degli alberi di acacie, nel mese di maggio, in primavera fiorivano bellis201
Guerra, racconto e memoria
simi, fatti, messi a un certo modo, intorno c’era un’aiuola, delle aiuole di gigli di Sant’Antonio, con l’infiliate di legno, tutte stecche di legno, ma una perfezione devo dire, pulito, devo dire un’organizzazione eccezionale, l’aiuole sempre pulite, gli alberi sempre potati, le erbacce […], adesso se io vado a prende mio nipote a Roma, stiamo all’Eur, una zona un po’ periferica, davanti all’ingresso della scuola c’è l’erba alta così (indica l’altezza con la mano) e nessuno la taglia, apriamo ‘sta parentesi. Lì era veramente tutto pulito. Un giorno, un giorno, io stavo prendendo un giglio di Sant’Antonio e me sento un calcione nel sedere ed era un’insegnante, mi ha detto: “Perché stai prendendo …”, “Lo voglio portare alla tomba di mia mamma”, ma non era vero niente perché cercavo una scusante plausibile per strappà … per dire ancora come si curava, come si curavano le cose. Il giorno dopo passavano gli aerei e noi ci mettevamo i ragazzi a guardare gli aerei che andavano verso il nord, passavano le fortezze volanti, protette dai caccia che poi arrivavano i tedeschi che volevano fa’ cadè le fortezze, allora quindi c’erano ‘ste battaglie aeree, no?allo stesso tempo mentre guardavo quelle cose io avevo un temperino piccolo, io lo portavo sempre in tasca il temperino, io quand’ero piccolo ‘sto coltellino lo tenevo sempre appresso, purtroppo … R: Chi te l’aveva regalato? B: Non lo so chi me l’ha regalato. R: Ce l’avevi. B: Io me ritrovo ‘sto coltellino, così (indica la grandezza con le mani), c’erano, ancora adesso a Ceriara ancora ce n’è rimasto qualcuno lungo la strada […], c’erano dei pali, allora erano piccoli così, li avevano appena messi, per dirti come funzionava allora … le cose, come si proteggeva la proprietà dello Stato, la proprietà di tutti, della comunità, con un coltellino [levai] la corteccia, e lì n’altro calcione nel sedere era … era il guarda strada perché c’era lo stradino con una fascia nera qua, poi mi sono informato dopo, dopo qualche anno, ma perché portavano, come i ferrovieri, vicino a Ceriara c’era una ferrovia ‘na volta, sa che c’era una ferrovia per Terracina, e lì addirittura ci stava pure la fermata quando ero piccolo io, dopo la guerra, nel ‘45, anni ’50, e lì c’era un ferroviere, anche lui portava ‘sta cosa, allora un giorno l’ho chiesto, ma perché portano ‘sta fascia nera e dice che era un simbolo del regime e questo qua, praticamente, mi disse te lo faccio vedere, erano due, tre giorni ch’era successo il fatto del giglio, m’ha detto.”Ma perché devi levare la corteccia? Non lo sai che la pianta si secca se gli levi la corteccia?”,ora, magari se ce ne levi tanta, però, intanto, la presenza del controllore che oggi,forse, manca un pochino, un controllore. R: Allora ti divertivi a vedere questi aerei che volavano. B: Questi aerei allora, noi praticamente sì, andavamo a scuola, ma studià, non è che poi c’era qualcuno che te ti diceva studia; adesso io i miei nipoti, io c’ho ottant’anni, quando vengono i miei nipoti a casa mia li martirio; molte volte non vogliono venì proprio perché nonno ci fa studià troppo. Quando io venivo a Priverno, appena tornavo a Ceriara, appena tornavo a Ceriara, dovevo andà a fare un collare, un collare noi lo chiamavamo era un albero normalmente grosso così (indica l’ampiezza con le mani), perché siccome lo dovevamo taglià con la sega non è che potevi fa un albero così grande, cioè tagliato e mangiato, l’albero, dovevamo riscaldarci, c’avevamo un camino, non è c’è il gas, la luce, non c’era 202
Intervista
nulla, a Ceriara la luce e l’acqua so’ arrivate dopo gli anni ’50 quindi stiamo parlando … non c’era niente; allora io quando ritornavo da nonna non è che c’era qualcuno che mi diceva: “Vai a fare i compiti”, no,” Vai a Perone su, sopra pruneto a fare il collare, il collare non è altro che un albero più o meno così (indica l’ampiezza con le mani), che riuscivi a tagliare con una sega che non tagliava niente, potevi stà lì un quarto d’ora, a un certo punto t’usciva l’anima, una volta fatto fuori lo pulivi, telo mettevi sulle spalle, un ragazzo di quell’età, passando in mezzo pel pruneto, tutte strade fangose, specialmente d’inverno perché ‘ste cose le andavamo a fa’ d’inverno, perché mica le andavamo a fa’ l’estate, no, l’estate non facevamo niente, l’albero lo andavamo a taglià e poi lo mettevamo al foco, immagini, immagini come si bruciava, no? quindi il fumo a rotta di collo dentr’a ‘sta stanza e non è che potevi aprì perché se aprivi quel po’ di calore se lo portava via, sempre co’ ‘sto fume, sembrava un inferno dantesco e quindi o facevi quello oppure ti dicevano prendi gliò porco e via a pascolà glio porco a prunella, perché non è che c’è come adesso, vai da Picozza, compri il mangime, compri questo, fai quell’altro, allora dovevi andà a prende delle determinate piante i lioni, li chiamavamo noi, i lioni, che erano delle piante grasse, che le prendavamo con un po’ di [bucca?]un po’ di cose, si bolliva, si faceva in una pentola, si faceva questo beverone e si dava al maiale dopo che l’avevi portato a pascolà, dopo che l’avevi portato a pascolà, quando rientrava lo mettivi dentro il mandriglio, no? è? io parlo in dialetto pe fattè capì come … sto raccontando la mia vita … R: Sì, sì. B: Allora gli rimettevi dentro glio mandriglio, mittivi, normalmente toccava sempre ai ragazzini, pure pe’ altre cose, facevamo bollire quest’acqua, ci mettevamo ‘sti lioni, ci mettevamo ca cosa de zucca, ca cosa de quando tagliavano i contadini, anche vicini di casa perché ce l’andavi a rubbà, perché adesso l’erba non la taglia nessuno, ma lì alla strada quando ievano i conigli, per dar da mangiare ai conigli non è che c’avevamo tanti terreni, tante zone a erba medica, chi la faceva l’erba medica all’epoca?era erba che nasceva spontanea, un po’ de biava, un po’ de cose, quindi le fosse avanti alla strada, a confine, una volta hanno sconfinato mezzo metro a taglià l’erba [il vicino ha detto]:” Oh, questa è l’erba mia, la devo dà ai conigli miei, capito?”. Le fosse sempre pulite, non solo perché forse credevamo a cert’altri valori che oggi se so’ un po’ persi forse, ma serviva pure pe’ fa’ mangià i conigli, perché poi il coniglio è a bono. R: Tutto serviva e tutto era difficile da realizzare. B: Tutto veniva sfruttato. Noi praticamente, ecco l’assurdità di questo è perché noi andavamo all’orto di casa vicino o molte volte andavo in bicicletta andavo ai Gricilli, dove mettevano i contadini, quelli che avevano i terreni, c’erano quando tagliavano il cavolfiore, il cappuccio rimaneva ‘sto gambo, ma non solo prima per i maiali, Cataldo con la fame che aveva prendeva quelli più freschi quando andavi lì li avevano tagliati qualche giorno prima, se erano induriti non riuscivi a mangiarli, ne potivi fa’ quanti te pare ma quando era sicco era sicco, però se te ritenivi fortunato e andavi lì e li avevano presi la mattinata oppure il giorno prima c’erano quei bei cosi che rimanevano attaccati sul gambo dove avevano levato il cavolfiore, tu lo pulivi col coltellaccio sempre pronto, sempre 203
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pronto pe’ mangià qualche cosa, serviva pure pe’ mangia quello, non è pe’ scorcettare gli alberi e quindi, praticamente, pulivo ‘sto coso e me lo mangiavo; quando m’ero pieno la pancia io, coglio suricchio. R: Pensavi al maiale … B: Coglio suricchio, tagliavo, riempivo la cosa, mettevo sopra la bicicletta, da Ceriara andavo io ai paludi,n’è che dici, e quella roba insieme a … insieme a …. facevamo il beverone pe’ glio porco perchè glio porco era, era una salvezza. Non è ch’andavi ... la macelleria non c’era. A Ceriara c’era solo la dispensa di legno, quella di Mazzon, prima abitavano proprio affianco, affianco alla chiesa, c’era ‘na baracca di legno a due piani, bella fatta bene, era carina, peccato che l’hanno … non so’, io quando so’ andato a fa’il carabiniere ancora stava lì, nel ‘54 ancora stava lì, poi stà di fatto che non c’è più ...e c’era un genere alimentari, punto, vendeva qualche cosa, n’è che c’era tutto. Andavo lì. E quindi ecco … queste sono … R: Raccontaci questa tua vita di bambino che guarda le battaglie aeree … B: Ecco, praticamente quando pomeriggio stavamo, eravamo sempre tredici, quattordici, n’è … eravamo parecchi perché allora Ceriara … adesso s’è allargata, saranno duemila abitanti, sono venuti da fuori, tutti benvenuti, ma lì ci vivono le famiglie quelle classiche, Fiore, noi, Sbrigoli erano …. era il centro storico, diciamo, però c’erano un sacco di bambini, eravamo sempre sette,otto bambini, eravamo in mezzo alla strada e vedevamo queste fortezze volanti che andavano verso il Nord, andavano nel nord Italia, andavano in Germania in modo particolare,a Dresda, che poi, col senno di poi, ho capito, gli americani, come ho detto prima, non li voglio come nemici, ma amico sì perché finché ci stanno gli americani forse anche la nostra libertà forse, ci sarà ancora comunque questa è la mia opinione, può darsi pure che mi sbaglio. Ma gli americani io non li vorrei come nemici, ho saputo che Dresda poi è stata anche bombardata pure dopo … lei me lo può confermare, anche dopo che la Germania s’è dimessa continuavano a bombardarla non ho capito perché e allora noi vedevamo ‘ste fortezze, queste non se movono, queste so’ cariche di bombe, non è che se potevano difendere, poi ho saputo, quando ho fatto il militare che queste fortezze avevano normalmente un mitragliere però quello sta lì, se l’aereo va dall’altra parte, n’è che se po’ girà lì, [guarda l’attacco, da ‘no bocchettone], quelli che li difendono erano i caccia, erano gli aerei molto piccoli, veloci, rapidi, i tedeschi avevano dei caccia gli americani non erano da meno, ma naturalmente i due aerei erano veloci, manovrieri … vedevi delle picchiate, se rincorrevano uno dietro l’altro, allora noi scappavamo-Questi ci vengono addosso!- invece riprendevano. Tutte queste evoluzioni ci vedevamo e loro si sentivano il crepitio delle mitragliatrici, noi stavamo lì, stavamo lì, spesso capitava che, quando c’era la battaglia, di notte vedevamo Montecassino, la battaglia di Montecassino, ma prima che Cassino lo distruggessero le notti, le notti, durante la notte noi sentavamo dei rumori, proprio i bombardamenti: era tutto un bagliore. Sai, tutta la notte verso Frosinone, se vedeva una luce, una luce, proprio dei bagliori e dei colpi che arrivavano attutiti delle bombe che scoppiavano. Durante i giorni, quando noi stavamo lì, molte volte venivano dei caccia americani, no tedeschi, perché i tedeschi umm … normalmente si vedevano, gli unici aerei tedeschi che si vedevano nelle battaglie 204
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aeree per difendere cioè, che il caccia tedesco voleva abbattere la fortezza e quello americano voleva salvarla, voleva difenderla, mentre spesso, molto volentieri dalle Quattro Strade verso Mezzagosto, a un certo punto noi vedevamo degli caccia, degli caccia americani che si mettevano a bassa quota e mitragliavano lungo la strada. Noi praticamente una volta, mi ricordo io, c’era ‘na madre di uno … Sergio, si chiamava, si chiama, ancora è vivo, praticamente c’era un ponte, noi praticamente stavamo sempre a giocà lì, quando c’erano queste cose quello che aveva paura s’andava a mette lì, io guardavo, ero sconsiderato e guardavo, molti avevano paura e s’andavano a mette sott’al ponte, ci ficcavamo sott’al ponte. Dopo che erano passati, ci rimettavamo a giocare, allora ho detto: “Oh, l’aereo, il caccia, il caccia” tutti sotto e uno è rimasto lì fuori a guardare quello che … per sentì l’aereo che mitragliava lungo la strada. R: Tutti i bambini. B: Noi, i bambini: eravamo quattro, cinque, di solito tre, quattro, cinque. Praticamente noi c’infilavamo sotto il ponte proprio all’ultimo momento perché volevamo vedè st’aereo sott’al ponte non vedi niente. Capito la cosa? Allora noi che eravamo lì fuori, guardavamo fuori così, passava st’aereo così, vuuuuum, mitragliando. Bastava che vedesse un carretto, ‘na cosa e mitragliavano tutto, non è che stavano a guardà e un giorno, purtroppo, una ragazza che non ha fatto in tempo a ficcarsi sotto al punto, Lisa, adesso sta in Canadà, ha preso una pallottola qui, al polpaccio della gamba sinistra, gli l’ha passata a parte a parte, l’ha presa … non ha fatto in tempo a ficcarsi sott’al ponte. R: E poi che succede a ‘sta ragazzina? B: Niente, poi l’hanno portata … è stata soccorsa, l’abbiamo portata ... che abitava a cento metri da dove stavamo giocando, i genitori l’hanno soccorsa, i parenti, chi era, adesso non ricordo, sta di fatto che si è salvata, la ragazza, dopo sette,otto anni i familiari sono andati in Canadà ... so che è ancora viva, ha l’età mia, insomma, ha l’età mia. R: Il cognome ce lo puoi dire? B: Pagliaroli. Credo che si chiamasse … della famiglia Pagliaroli, sono parenti di questi che c’hanno il genere alimentari. Pagliaroli, lei era figlia di Alfonso Pagliaroli, sì, Lisa Pagliaroli. I giochi R: E che giochi facevate, oltre a guardare gli aerei? B: I giochi, i giochi, te puoi scordà i giochi di oggi. Adesso vado da mia figlia e non riesco a fa’ io de solito passo sempre al seminterrato, ci stanno cinque- sei biciclette, ci stanno dei giocattoli de tutti i generi, mia figlia:” Devo aggiustà [?”]. “Virgì, tu non devi aggiustà, ‘sse cose, devi acchiappà tutto, perché ‘sso sempre gli stessi e stanno sempre lì, chiappa tutta ‘sta roba, portala da qualche parte, prima o poi finirà. Allora non c’erano i giocattoli, non c’era niente. Allora il nostro gioco veniva prendere, andare a prendere i fichi d’india, cercare i fichi d’india perché ci sono dei fichi d’india allora che non avevano le spine. Noi prendavamo una foglia di fico d’india senza le spine, poi prendavamo un’altra foglia di cose e facevamo le ruote: infilavamo da una parte all’atra dei pezzi delle canne oppure andavamo a prendere dei vimini che stanno, di quei certi cosi di rame, 205
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cioè facevamo l’asse, lo infilavamo da una parte all’altra, le ruote erano sempre doc, doc di fichi d’india, quattro ruote, co ‘no laccio, oppure la stramma, perché il laccio, i lacci non era facile, perché se trovavo ‘no laccio e nonnema vedeva che steva ‘no laccio attaccato a ‘nna parte … il laccio pe tirà la carrozzella, me faceva osservazioni. Stiamo parlando di miseria, di miseria. R: La carrozzella … B: Quindi entravamo colla stramma, perché ‘ste cose poi servivano oppure la ginestra, materiale che noi lavoravamo quando si legava la vigna, non è che adesso vai da Picozza prendi quei cosetti, ticchete, no? O colla stramma o con la ginestra però non è che … a mettevi là, se seccava, c’era un sistema, mezz’all’acqua, se faceva e poi diventavano bone, quindi, noi queste cose, usavamo queste cose qui per giocare, giocavamo con queste cose qui oppure per giocare adesso ci stanno le frecce, le cose, noi la chiamavamo la mazzafionda, la mazzafionda era un pezzo de cosa co’ due cose, le tagliavamo, co’ ‘no coso, mette la mano, co’ due elastici, adesso vedi copertoni da tutte le parti, ma allora se trovavi ‘na camera d’aria c’accidevamo perché co’ ‘nna camera d’aria de bicicletta che la riparavano, me ricordo ‘na volta avevo bucato io, c’erano settanta pezze, perché non è che bucavi e la buttavi, adesso magari, dopo che l’hanno riparata un paio di volte, la buttano, se la riparano. Allora praticamente era talmente tutta piena di cose che praticamente non era bona come elastico perché ci stavano tutte pezze attaccate, perché quel poco che rimaneva allora ce lo dividevamo, quindi per fare mettavamo un oggetto da ‘na parte, un barattolo, normalmente, mettavamo un barattolo e scoprivamo chi era più bravo; erano sempre più bravi di me, io non c’ho mai preso, no, non ero molto bravo. R: Eri coraggioso … B: Non ero coraggioso. Sì, più che coraggioso ero ... sì, coraggioso lo sono stato, perché andavamo, l’estate andavamo alla fiumetta ai Gricigli, c’era una fiumetta d’acqua zolfa, adesso c’è ancora, per un certo periodo s’era prosciugata. Adesso ho visto, ci so’ andato l’anno scorso per...”Fammi vedere dove andavamo a farci il bagno, d’estate?” C’era un laghetto, quindi questo era un emissario di questo lago e andavamo lì a farci il bagno, lì uno studente si stava affogando, io poi sapevo nuoticchiare così, ma, nuotamme per salvare me; so’ andato lì, ma appena so’ andato ma ficcato sotto, perché quello che se stà affogà questo fa, due volte m’ha capitato, anche da carabiniere: ‘sto ragazzo se stà affogà alla fiumetta, vado là e quello me ficca sotto, se non pigliavo mio cugino, Botticelli, che ancora abita al ponte de Ceriara, se non veniva pure lui in soccorso, quello me ficcava sotto, me faceva affogà a me, lui se salvava e a me m’affogava. E n’altra volta m’è successo da carabiniere: ero fidanzato, stavo a Foce Verde dalla mia fidanzata, a un certo punto c’erano delle persone che sene stavano andando troppo verso gli scogli, io gliel’ho detto, ma forse loro non m’hanno sentito:” Non andate troppo verso gli scogli!”, perché visto le onde come fanno? Le onde fanno così (gesto della mano), e scavano, quindi, l’acqua c’arivava qua (gesto della mano), ma se vai verso gli scogli, io l’ho premunito, gliel’ho detto, però forse non m’hanno sentito. Sta di fatto, c’erano tre donne che se stavano affogà, tre, so’ andato lì e n’ho chiappata una, e quella pure me se stava a ficcà sotto, allora ormai ero più robusto, avevo fatto il corso si salvamento, allora sapevo che fare, gli ho dato 206
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un cazzottone capo, l’ho acchiappata e l’ho portata fuori; poi [ ]ho chiamato altri ragazzi, se so’ buttati, tutti, guarda, non se n’era accorto nessuno, poi ho cominciato a urlare e questa me stava a ficca sotto veramente, mia moglie me lo racconta:” tu sei stato sempre ‘no spregiudicato”, (Cataldo risponde)” Sì, vabbè erano tre donne che se stavano affogà, almeno una la potevo salvà”, però me stava a ficcà sotto, gli ho dato un cazzottone in testa, s’ha stordita, perché praticamente erano arrivati già agli scogli, lì più andavi vicino agli scogli, più era profondo e affoghi. Perché poi lì … R: Senti a sentirti raccontare, sembra la tua infanzia una vita di un bambino avventuroso, cioè tra prati ... B: Sìììì! Facevamo pure, anche, perché poi, tra l’altro, ho fatto pure un corso, ci siamo iscritti all’accademia, io e un altro paio di amici R: E quanti anni avevi? B: Quindic’anni, sedic’anni. R: Un ragazzino! B: Un ragazzino. Abbiamo scritto, praticamente c’ho messo pure il telefono sull’indirizzo, pensa, sull’indirizzo. “Accademia, Roma”, no? Corso per attori, volevo fa’ l’attore. R: Tu volevi fa’ l’attore. B: Io volevo fa’ l’attore. Io e n’altro, volevo fa’ l’attore. Allora abbiamo scritto all’accademia e…via e …telefono ... ci ho messo pure il telefono (ride), me ricordo sempre, ma che scemo … R: Accademia di arte drammatica. B: Sì, era una scuola che faceva corsi per corrispondenza per attori. Poi siamo andati un paio di volte lì, ch’anno fatto:”Andate, andate a Ceriara!”. R: Io adesso … è’ bellissimo quello che ci racconti. Però ti devo far fare un passo indietro: perché m’impressionò molto l’anno scorso, quando ce l’hai raccontato … l’anno scorso, a maggio, quando l’hai raccontato … m’hai detto: “Poi mamma purtroppo è morta”, no? e l’avete accompagnata al camposanto. B: Ecco, allora è successo che mia madre, come dicevo, mia madre stava sempre chiusa, per anni è stata sempre chiusa dentro una stanza come questa qua, al buio, c’era solo la finestra, sempre chiusa, non c’era corrente, non c’era luce, avevamo qualche candela; i più fortunati a Ceriara avevano la centilena col carburo, ma non se la potevano permette tutti ‘sta centilena, perché il carburo costava. A casa mia non ce la siamo potuta permette quindi avevamo i lumi col gasolio, co’ questi prodotti che puzzavano, maledizione!, ma la notte, quando ti svegliavi, era un putiferio, un freddo da cane, e l’illuminazione a casa mia era coll’olio di oliva, mettevamo degli oli , delle cose ... e questa era la mia illuminazione: quando andavo da mia madre a portarci qualcosa io cercavo di vederla, lei si nascondeva, può darsi … non lo so … io, gli ultimi anni, non ho mai potuto vedere mia madre in faccia, io la volevo vedere com’era. Quando proprio stava morendo, e meno male che è morta di malattia … ma è morta perché non l’hanno curata, perché i medici non c’erano a Priverno, l’ospedale … ci sarà stato qualcuno che sapeva … ma … R: C’era un medico condotto, magari passava un medico, ti ricordi? B: A casa mia, dei ricordi che c’ho io, non è mai venuto nessuno a visitare 207
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mia madre, mai, mai, mai (gesto perentorio con la mano). Veniva la levatrice che poi faceva tutto, c’erano le donne, c’era Assunta ... in questo casello ci abitava una certa Assunta, Assunta Desideri...che avevano … i Desideri so’ quelli che hanno pure … il coso adesso … Ernesto, come si chiama questo qui che adesso porta sempre il bastone? R: Vabbè, non lo so, però … B: Comunque c’era una famiglia Desideri, la famiglia Desideri, che abitavano in questo, in questo casello, lui era ferroviere, la moglie, […] tanto è vero che da piccolo soffrivo di dolori di orecchie, ma dolori terribili, io andavo da lei e lei diceva a mia madre: “Vai da Tizia e Caio, fatti da’ un po’ di latte del bambino e ce lo fai mette dentro”, era un toccasana; a me mi si passava l’orecchio. Praticamente io soffrivo maledettamente di dolori d’orecchi quand’ero piccolo, nove diec’anni, adesso non mi ricordo bene, nooo, era viva mia madre quindi avevo sette anni, otto, sett’anni, sett’anni e mezzo, praticamente mi curavano il dolor d’orecchio con il latte delle lattanti, delle mamme, insomma, che davano il latte ai bambini. Queste donne facevano un po’ tutto, ecco,qualche volta, venivano qualche persona, portavano qualche cosa pe’ misericordia, ma i dottori non li ho mai visti. Quando, evidentemente, non ce la faceva più, un giorno è venuto uno che abitava al palazzo della Paura, non so se lo sapete qual è il palazzo della Paura, adesso è abbandonato, allora era una zona fiorente, quando prima lei … tu m’hai fatto la domanda che cosa faceva mio padre, mio padre maggior parte del tempo di lavoro lo faceva in quella zona là, perché c’erano uliveti, c’erano vigne, prima si zappavano le vigne, prima si zappavano le olive, era una cosa pregiata; adesso le olive per la Torretta stanno abbandonate; l’anno scorso m’ha detto uno: “Se te voi andà a fa du’ ‘live”, ma erano cariche de’ ‘live buttate lì, le spine che arrivano di sopra all’ultima … cioè le ‘live … tutto abbandonato. Ma prima le zappavano. Mio padre - t’ho detto - era un bracciante e zappava le olive, zappava le viti, zappavano altre cose e poi (fine primo dischetto). R: Una cosa che io ho trovato terribilmente toccante dal tuo racconto di tua madre nel portare a camposanto ‘sta pora donna e poi ch’è successo? B: E’ successo questo; intanto torniamo a qualche giorno prima, è stata un paio di giorni all’ospedale, cioè a un certo punto mia madre si è aggravata, era già grave, secondo me, si è aggravata e quindi praticamente per portarla non è che c’erano le macchine, c’erano i cosi, mia madre è stata caricata su un carretto, questo carretto, il proprietario abitava a Palazzo della Paura, dove mio padre lavorava, zappava le vigne, zappava le olive eccetera, dove io andavo a mezzogiorno, naturalmente, quando all’ora di pranzo mi scappava un bel piatto di minestra, pasta e fagioli con le cotiche con una fetta de pane sotto e stavi apposto, finiva lì, non è che c’era l’antipasto, la cosa, i bambini adesso ... lasciamo perde’. R: Come si chiamava il proprietario del palazzo? B: Il proprietario del palazzo sinceramente non mi ricordo come si chiamava, comunque erano di Frosinone: erano due famiglie, non erano parenti, però era come una famiglia perché se scambiavano ‘na pagnotta de pane, andavano avanti e ‘ndietro, facevano tutto lì, non me lo ricordo come si chiamavano, ma delle persone veramente di cuore, allora questo qua col carretto, naturalmente lavorava lì con loro, era un loro dipendente, tra virgolette, saltuariamente e venne co ‘sto 208
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carretto, me ricordo mia madre avvolta in una coperta, neanche lì in questa occasione sono riuscito a vederla, l’hanno messa su ‘sto carretto e l’hanno portata all’ospedale, dove non mi hanno mai portato e questo lo avuto sempre con la sorella mia zia Adele che abitava qui a Santa Chiara e con un altro mio zio’, Gidio, buonanima, è andato in Francia, è morto nelle miniere perché è morto a quarant’anni, quindi doveva andà all’azione eccetera, a questi gli ho sempre rimproverato:”Perché non m’avete mai fatto vedere mia madre, all’ospedale mica era coperta, all’spedale magari era scoperta e quindi volevo ricordare bene il viso di mia madre. Niente! a via Pergola, qui a Priverno, a via Pergola è ‘una laterale di via Zaccaleoni per arrivare all’ospedale, a via Pergola lì sulla destra ci abitava la mia bisnonna, una centinaia, è morta perché è caduta, s’è rotto un braccio sennò ‘nse moriva più ,ancora era viva. Praticamente io dai Carabinieri la prima visita che faceva in Caserma a firmà, firmava in uniforme, firmavi quando arrivavi e quando partivi, te tenevano sotto controllo, il Comandante doveva sapè che arrivavano tutti e doveva controllà, penso era per questo e la [prima visita?]la facevo a questa mia bisnonna perché anche lei nella sua miseria, nella sua cosa, mi regalava i fichi secchi, aveva tutte le cose sfiziose, ‘ste cose sfiziose le aveva tutte quante lei, arance, perché c’aveva il secondo marito, eh?, ne ha sepolti due, l’ultimo, praticamente gli portava sempre le arance, le cose … le arance adesso se perdono, no?io c’ho le olive sotto il cavalcavia, quando vado io non c’ho niente, l’ho piantate io ‘mpo de piante ma ancora so’ piccole, ma prima ch’arrivo lì ci stanno tre- quattro piante di limoni e tre- quattro piante di arance cariche così; l’altro giorno n’ho portato mezza cassetta, mia moglie ha cominciato a fa’ ‘una lagna:” E tu, da accattone …” “Ma quale accattone, ci stanno le piante, stao pe’ tera, stanno un quintale tutte pe’ tera!”, N’ho presa mezza cassetta, adesso mi faccio la spremuta, e me le bevo, ma qual è il problema? Stanno lì per terra, lì pe’ terra, vicino la strada, semmai me devi di’: “Non prende ‘ste cose che c’è lo smog, che te fanno male!”. Il padrone sta lì, sta mezzo quintale pe’terra, tre quintali sopra, se stanno a perde’. Allora gli aranci erano ‘na cosa preziosa, erano ‘na cosa preziosa, quando io andavo a Priverno che andavo a scuola, passavo da nonna, pe’ salutalla, la mia bisnonna pe’ salutalla e tutto, andavo lì pure colla speranza, non lo nascondo, di avere qualche arancio e lei mi dava sempre qualche arancio, mi dava i fichi secchi, mi dava i lupini, i lupini e io me li metteva in saccoccia, non è come mò, ‘ssi capito? “T’è, mitti ‘n saccoccia”, chiaramente bagnato, ma tanto era sempre bagnato dall’acqua, da altre cose, sporco da altre cose e quindi ecco questa è la mia fanciullezza. Quando io stavo lì’a via Pergola a giocare, mia madre stava all’ospedale e allora dato che stava all’ospedale, allora so’ stato due giorni da questa mia nonna, dormivo e mangiavo lì da lei, a un certo punto mia madre è morta e l’hanno portata lì all’ospedale e noi stavamo lì a giocare co’… Del Frate ancora è vivo anche lui, ha fatto pure lui il carabiniere, stavo a giocà a pallina,visto stavano i selci per terra, allora facevamo chi arrivava a un certo punto passando dentro le cose, co ‘na pallina, ‘na pallina di terracotta era, mi sembra e passa questo … passano tre - quattro persone, quattro - cinque persone co ‘sta cosa; quando l’ho vista ho pensato: ”Quella è mia madre” e Del Frate ha detto … Io non l’avevo manco vista, me s’era annebbiata la vista, quando io ho vista ‘sta cosa, perché io stavo sempre a pensà che mia madre poteva morì, 209
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potevo rimanere solo, ero terrorizzato, quindi quando l’ho visto, guardavo solo la bara, ho guardato, no?e non me so’ reso conto che dietro ci venivano mio padre, mio zio, mia zia e un’altro paio di persone, erano quattro -cinque persone e quando ho detto: “E mo è morta mia madre e non me l’hanno fatta manco rivedè” e questa è una cosa che mi ha dato sempre molto fastidio. Mio padre mi ha raccontato che sono arrivati a via Torretta Rocchigiana prima del cimitero, c’è ‘na cona, a un certo punto arrivano i soliti americani co’ ‘sti caccia che bombardavano a vista e allora hanno mitragliato sulla strada, hanno abbandonato la cassa della morta sulla strada e loro si sono rifugiati dentro questa cona di pietra, per salvarsi da eventuali … colpi di mitraglia, capito? Poi, per quanto riguarda il mio futuro, l’ho detto, ho fatto tutti i mestieri, andavo a coglie i pomodori … R: Tu te li ricordi gli americani quando arrivarono? B: Sì, quando so’ arrivati gli americani … sì hai fatto bene a farmi questa domanda perché quando sono arrivati gli americani, a parte che mio padre poi è scappato quando c’è stato l’8 settembre mio padre è andato via, chi è scappato da una via,chi da una parte chi dall’altra; quindi, mio padre non dormiva mai in casa, andava a dormì in un canneto a cento metri, figurati quant’ era furbo perché se arrivavano i tedeschi non lo beccavano! Perché poi i tedeschi venivano, prendevano e se i portavano via e mio padre dormiva dentro un canneto a cento metri da casa in mezzo a un’altra proprietà, la notte non dormiva mai: era un cacasotto terribile! Aveva paura mio padre, era un fifone! E forse se preoccupava pure,dice, questi non c’hanno la mamma , questi qua perdono pure me, rimangono in mezzo alla strada, forse pure questo, comunque mio padre non era un grande … io ero più che coraggioso spregiudicato so’ stato io e mi ricordo ecco che, siccome i tedeschi si erano un po’ incattiviti, perché tengo presente, voglio dire una cosa, io dei tedeschi, quando so’ stati da noi non posso che dire del bene, contrariamente agli americani, gli americani, quando so’ arrivati i marocchini, no gli americani o i francesi, ma quelli che portavano dietro, ricordiamoci Campo di Mele, Cassino, lo sapete ragazzi che disastro, allora questi qua hanno lasciato il segno pure a Ceriara, a Ceriara, quando so’ arrivati gli americani, un paio di negri hanno stuprato una signora di Ceriara, non mi ricordo com’è, io la conoscevo questa famiglia, va bene?subito dopo si parlò di questa cosa qua, quindi si so’ comportati male, diciamo, i marocchini, gli americani, non è che lo facevano gli americani, gli americani erano più civili, più cose … però questi dicevano, si dicevano, non so se era vero, che quando facevano all’arma bianca qui verso Frosinone, gli dicevano ai marocchini:”Fate la cosa e dopo fate quello …, gli davano carta bianca, questo si diceva, però visto i misfatti che hanno fatto a Campo di Mele, in quelle zone, a Pontecorvo, da quelle parti là devo dire che molto probabilmente molte cose sono vere. Ecco, ritornando alla cosa, gli americani …. ah! un’altra cosa è importante dei tedeschi: io abitavo vicino alla scuola, quando so’arrivati i tedeschi, lì c’è stato un campo dei tedeschi, quindi io avevo a cento metri da casa … c’era un campo tedesco co’ ‘na cucina; faceva da mangiare a tutti i tedeschi che stavano [controllando] i vari punti, forse pure quelli di Fossanova, non so’ sicuro, sicuramente a Fossanova erano autonomi, molti di quelli di Fossanova, comunque c’era una cucina, allora io vi dico questo: la fame era la fame; allora io andavo lì, ai bordi della cosa ando’ c’era …, ho detto ancora la scuola era tutta 210
Intervista
recintata, allora la tenevano tutta bella pulita, era molto ordinata e tutte ‘ste cose qua, allora un tedesco una volta m’ha chiamato, m’ha fatto così (gesto della mano). Ero terrorizzato” Che mi fa questo, se vado là dentro?”. M’ha detto: mi fece così:”Vuoi mangiare?”. C’ero io e mio fratello, ho detto: “Vieni pure tu”. Lui non voleva venire Natalino. “No! Andiamo tutti e due così almeno se ci fanno qualcosa tu scappi e ce lo vai a di’ che c’hanno fatto del male, no?”. Siamo andati lì. Questo tedesco m’ha dato … “Tu vuoi mangiare?” , c’hanno fatto mangiare del riso: riso era riso in bianco condito con lo zucchero, dolce! Me ne so mangiato ‘na cosa così. Poi parlavano in tedesco, non si capivano, m’ha detto: ”Porta domani, tu domani vieni, porta i cosi, noi ti diamo …”. Io non ho capito, ho capito “domani”, “domani”, forse ci ridanno un’altra volta qualcosa. Il giorno appresso siamo andati senza niente perché so non c’era un piatto, qualche cosa, non è che andavamo in giro col piatto, non me ricordo nemmeno se ce l’avevamo i piatti, sono andato lì, questo … praticamente ‘sto tedesco m’ha dato ‘na gavetta, quella d’alluminio, ‘na gavetta d’alluminio, me l’ha ripiena colma; prima mangiavano loro ovviamente, non è che … comunque a me m’ha dato ‘na gavetta! Per diversi giorni io andavo lì, andavamo io e mio fratello sempre in due, ci dicevo: “Appena me toccheno a me tu scappa e vai avvertì”, invece questi c’hanno trattato bene, io questo posso dire. R: Per giorni tu … B: Per diversi giorni, per parecchio periodo, forse un mese, adesso non me ricordo, io andavo lì colla gavetta che m’avevano dato loro, loro me la riempivano quasi sempre, quasi sempre o patate … tutto a base de patate, le patate tutti i giorni c’erano, pure se te davano il riso poi sopra sopra ci mettevano tre – quattro patate tagliate, fatte in un modo … ma le patate stavano sempre in mezzo e il riso bollito, bianco, con lo zucchero, tant’è vero che l’ho detto a mia moglie, l’altro giorno quando stavamo parlando de ‘sta cosa, gli ho detto, :”Sai, gli devo raccontà al professore ‘sto fatto delle cose, me devi fa’, Lina, mi devi fare un piacere: me devi prende un chilo di riso, lo devi bollire e ci metti due etti di zucchero, me ne voglio fa’ ‘na magnata”. “Ma vedi ‘mpo’ che devi fa’”. ‘Sta disgrapata ancora non me l’ha fatto, ancora non me l’ha fatto, però … R: Per ricordare questo bravo tedesco … B: Questo riso tedesco condito bianco, bollito per me, quello che ricordo io era bollito nell’acqua e poi messo lo zucchero. R: Catà, te voglio fa’ ‘na domanda, perché sennò me perdo. Mamma in che mese morì? In che anno e in che mese? B: Mia madre morì il tredici dicembre del ….(esitazione) tredici dicembre del ‘42, ‘42 R: Poi ci pensiamo. Tu te lo ricordi quando sbarcarono gli americani nel gennaio del ’44 ad Anzio? B: Io non mi ricordo degli americani, ma mi ricordo questo, che noi, dicevo prima, stavamo lì, affianco ai tedeschi,quindi mio padre disse, stavano arrivando gli americani da Perone, stavano sopra a Perone, tant’è vero che i tedeschi, poi l’ho scoperto dopo, alla scuola c’era la parete che dava verso la montagna, avevano fatto un buco, circa di un diametro di un metro,no? poi abbiamo saputo che lì c’era una mitragliatrice che serviva solo per tenere fermi perché venivano da 211
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Perone, venivano gli americani, allora stava lì, come ‘n’altro stava pure da Greci, dove c’è il negozio, sulla 148, c’è Greci; 100 metri più avanti, lì c’era una piccola garitta e lì li hanno lasciati, perché loro, quando indietreggiavano, lasciavano sempre tre – quattro persone che erano destinate praticamente nove volte su dieci a morire, alla scuola no, perché sennò’ l’avrei saputo, ma lì però gli americani hanno buttato una bomba, pare che l’hanno fatti fuori tutti e tre, perché agli americani gli avranno detto: “Guarda che ci stanno, c’è ‘na mitragliatrice sulla 156” per dirci, infatti poi noi siamo andati a vedere là, quando passavamo che andavamo al cinema, allora a 17 anni andavamo al cinema, quando passavamo lì, passavamo di corsa perché dicevano che uscivano gli spiriti perché lì c’erano tre tedeschi che erano stati ammazzati da ‘sta bomba, si parlava di questo qua, questo dopo … dopo la guerra. Ma quando ai tedeschi è successa ‘sta cosa qua, noi siamo andati alla banca, non so se lo sa dov’è, dove ci sono le cave, giù al ponte di Ceriara, sul confine co’ Sezze, c’è ‘na montagna sulla sinistra, c’è una banca, un fabbricato grandissimo, anche lì durante la guerra era sempre gente sfollata, che stavano lì … prima di arrivare a questa cosa lì dopo, dove stanno le prima cave c’era ‘na grotta, ‘na grotta molto profonda e noi siamo stati lì una notte intera ficcati là dentro, quando ci stava la ritirata; era un momento brutto perché i tedeschi erano diventati cattivi a quel punto, quindi potevano ammazzare: non hanno fatto niente però tutti dicevamo: “ tedeschi sono arrabbiati dobbiamo scappare da casa, ci siamo infilati là sotto. Tieni presente che mio fratello, Natalino, tutte le notti a un certo punto se metteva a cantà e questa cosa era risaputa dai vicini di casa. Quando noi siamo andati là dentro, quando siamo andati dentro a ‘sta grotta, qualcuno ha detto: “Guarda che il figlio più piccolo di Silvestro canta la notte” … allora … R: Invece era sonnambulo? B: Ma non lo so, cantava … faceva eh … eh … eh …(intona una cantilena), faceva così, cantava. Di notte, nel sonno cantava, cantava. Allora tu capisci, dice: “Ma noi stavamo lì sotto”, però a 100 metri, a 200 metri più sotto c’era ‘na strada che veniva dalla montagna e c’erano gli ultimi tedeschi che passavano: noi sentivamo, erano centinaia, trenta , quaranta alla botta, passavano e andavano dietro al Monte … Colle Rotondo, sai al ponte di Ceriara c’è quel monte là, loro facevano, si mettevano tutti dietro quel monte lì, io poi una mattina l’ho notato ‘sto fatto qui quando siamo … poi so’ arrivati gli americani e stavano sopra, loro, durante la notte, passavano e se ne andavano là, quelli che non hanno fatto in tempo, perché che facevano, se mettevano dietro dentro questo monte poi dal monte c’era un fosso, c’è quel fosso lì al confine con Sezze, c’è un fosso, questo fosso da dietro al monte a forza de fa’, saranno trecento metri, loro li facevano di corsa, questo poi l’ho capito dopo quando facevo il carabiniere, dicevo io: “Ma perché non s’abbassano?”, allora andavano dritti, correvano dritti, no’, ma guarda che fesso, perché c’erano le mitragliatrici che, gli americani che da sopra con le mitragliatrici gli sparavano, loro dovevano fare quel pezzo libero il più presto possibile, allora noi da ragazzini dicevamo. “Ma perché non s’abbassano?”. Quando ho fatto l’addestramento al combattimento me l’hanno spiegato che in guerra, quando tu stai allo scoperto, se c’è un pezzo scoperto lo devi fare, devi correre e basta, non te devi abbassà perché se t’abbassi corri de meno oppure inciampi e 212
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cadi e te fanno, te fanno secco, quindi allora ho capito … perciò quelli correvano forte col mitra, portavano il mitra in mano così con lo zaino se vedevano che correvano, se sentiva il crepitio della mitragliatrice che faceva le cose, non ho visto nessuno cadere, grazie a Dio, erano figli di mamma pure loro, ecco ho visto queste cose qua, della guerra, vera e propria, mi ricordo … questi sono i ricordi: del riso tedesco che mi hanno sfornato per parecchio tempo, queste battaglie aeree, queste fortezze volanti che andavano verso il Nord, tredici, quattordici, a volte quindici, venti cariche di esplosivi e questi caccia che cercavano quelli di proteggere gli altri di far cadere qualcosa, non ho mai visto cadere una fortezza, mai niente,neanche aerei però ecco, questi aerei che mitragliavano lungo le strade, qualsiasi cosa che vedevano pensavano fosse … tant’è vero ‘sta ragazzina era alta così (gesto con la mano) avrà avuto otto -nove anni … questi sono i ricordi della guerra. R: Ascolta, arrivano a maggio del ’44 gli americani, no? tu un pezzo di cioccolata … B: Gli americani, ecco gli americani poi noi siamo rimasti sempre lì, ho detto che stavano sopra, che mitragliavano, quindi i poveri tedeschi cercavano di andare dentro al fosso, poi dal fosso andà pe’Suso, quindi il fosso era ‘na protezione, andavano sotto dentro il fosso, la mattina so’arrivati gli americani e siamo andati su, gli americani ci hanno dato delle pagnotte, portavano del pane bianco, mai visto il pane così bianco, delle pagnotte di pane così (gesto con le mani), anche gli americani c’hanno portato pure la roba, eh? Gli americani però, ai negri non te ci potevi avvicinà, erano schivi, anche perché non comandavano niente loro, tutto stava in mano agli americani infatti siamo andati lì, burro, scatolette di carne … ci davano le scatolette di carne piene di ... mica a me, purea tutti, ci davano la roba, io il primo pane, quello che facevamo noi pe’ fare presto, glio collare serviva pe’ riscalda’, poi faceva la brace, pulivamo bene sotto perché sotto c’era il mattone, prendevamo la farina, di solito di mais, grano era … lo tenevano i ricchi, pure noi lo avevamo, ma finiva dopo quattro- cinque mesi, c’era la mola qua, a via Cellini c’era glio mulino, che macinava sia il grano, il granturco sia il grano, però il grano era poco, dopo un po’ finiva, invece il granturco ce l’avevamo perché avevamo del granturco alto così, quello d’agosto, ci facevamo pure le “signòre”, come si chiamano ... il granturco che te mangi al cinema … R: Ah, i popcorn … B:Ah sì, le popcorn. R: Così le chiami, le signòre ... È bellissimo! B: Noi le chiamavamo le signòre! Questo granturco d’agosto, non è che c’erano le irrigazioni, c’è tutta una motivazione, perché non le chiamano mais per esempio? Poi ai Gricilli l’abbiamo avuto, dopo la guerra so’ stati espropriati e noi c’avevamo un terreno, lo davano a questi più poveri e noi pe’ tanti anni mettevamo il granturco, ma quello non era buono a fa’ le signore, le popcorn, capito? Lì manco l’innaffiavamo, c’era tutt’acqua ai Gricilli, quindi facevamo il granturco così, praticamente poi pigliavamo ‘sto granturco e l’andavamo a portà al coso quando a un certo punto pulivamo, facevamo ‘sta farina di mais, facevamo la pizza, ci mettevamo un testo sopra, prendevamo ‘sta cosa e facevamo la pizza, quella era la cosa più … l’alimentazione principale era quella, la polenta, 213
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la polenta co’ ‘no pezzo de maiale, poi voglio dì ‘n’altra cosa del maiale. Il maiale era ‘na ricchezza perché lì meno i peli, che poi c’era chi usava pure i peli pe ‘fa altre cose, ma noi meno i peli ci magnavamo tutto: zampe, zampette, orecchi, gli orecchi erano boni pe’ fa’la cotica coi fagioli, la minestra, bone sa?, il maiale si mangia tutto: meno i denti, meno l’ossa il resto te mangi tutto, era ‘na ricchezza chi aveva il maiale, quindi praticamente questo maiale durava quasi tutto l’anno, noi facevamo i prosciutti e lì, quando mio padre diceva ...”Papà, quando mangiamo il prosciutto?”, “Quando glio cuculo … quando canta glio cuculo glio prosciutto è bono crudo”, diceva mio padre e ‘sto cuculo non cantava mai, noi vedavamo ‘sto prosciutto che stava lì, lardo, tutti pezzi di lardo…cose…salcicce, allora facevamo la polenta, ‘na spasella perché eravamo quattro - cinque a mangià naturalmente era solo quello non è che poi c’era la verdura, le verdure le piantavi, poi alla fine era solo la polenta, se mettevano due- tre piatti [ al centro ] poi pe’ mangià la carne dovevi andà a fa’ il buco pe’ arrivà, te facevi ‘na pancia così pe’ mangià un pezzo de salciccia, ecco il maiale, un’altra cosa che mi devo ricordare io sì so’ stato un po’ di tempo qui a Priverno quando mia madre è morte ma normalmente da bambino dopo che è morta mia madre, stavo da mia nonna paterna, che stava lì vicino alla chiesa e lì c’avevamo un maiale e andavamo sempre facendo la solita storia pe’ campà sto’ maiale, lo dovevamo fa’ grande, grasso, bello, più era grasso e meglio era, mò più è magro è meglio, invece prima più era grasso e meglio era perché così uscivano certi pezzi di lardo, abbiamo accudito io, l’altre mie cugine che poi sono andate sono andate tutte ... i Serapiglia, una decina di cugini sono tutti emigrati, da piccoli, adesso c’hanno tutti la casa, ch’hanno i nipoti, insomma ch’anno l’età mia. Allora praticamente c’avevamo ‘sto maiale, tutti aspettà ‘sto maiale, tutti quanti ad aspettà ‘sto maiale, ‘na sera arrivano tre - quattro persone all’imbrunire, se prendono ‘sto maiale e se lo portano via. R: Hanno rubato i porci però … B: C’hanno rubato. So’ venuti. A mia nonna l’hanno minacciata con un pugnale, mia nonna s’ha inginocchiata, s’è messa a piange: “Mò come, mo a questi qua che ci faccio mangià”. Oltre a me e a mio fratello c’erano tutti sti cugini miei che i genitori erano andati a..., a lavorà alle miniere, tutti a urlare, a implorare e c’avevano detto che erano degli sbandati. Ma ‘sta di fatto che è stata ‘na disgrazia, questo maiale, se so’ portati via questo maiale. Mia nonna in ginocchio, col pugnale, poi uno ch’aveva messo il pugnale: “Stai zitta! Se non la smetti di urlare ti scannamo”. Noi tutti terrorizzati, praticamente un anno a dà a magnà a ‘sto maiale, era ormai bello grosso così se lo so’ venti a prende; non è che lo tenavamo in mezzo la strada, a fallo vedè, nascosto, eh, però evidentemente i soliti informatori.
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UN PROGETTO PER LA RIFLESSIONE E LA CONSAPEVOLEZZA di Luisella Fanelli Il progetto ”Settant’anni dopo. La memoria della seconda guerra mondiale sul territorio della Regione Lazio” ci è stato proposto dall’allora Assessore alla Cultura e Pubblica Istruzione del Comune di Priverno: Elvira Picozza. Vi abbiamo subito aderito con entusiasmo per vari motivi, intanto perché da sempre la nostra scuola “Istituto Comprensivo S. Tommaso d’Aquino” è stata attiva nel ricercare metodologie, approcci diversi all’insegnamento della storia, per meglio coinvolgere i giovani con riflessioni sul problema delle motivazioni, della disponibilità e delle condizioni che favoriscano l’apprendimento. Inoltre perchè siamo convinti che la scuola debba essere un centro propulsore di cultura e quindi aprirsi al territorio e che la partecipazione al progetto dei comuni in rete di Priverno, Sonnino, Roccasecca e Prossedi si muoveva nella direzione di ritrovare il senso di appartenenza ad un territorio e alle sue comunità. Infine il progetto poteva essere un momento di riflessione su eventi della seconda guerra mondiale a 70 anni dalla sua conclusione. Ricordare non doveva essere una semplice celebrazione, come ritualità ma un modo per ricostruire pezzi di storia del proprio territorio, con l’obiettivo di avvicinare i giovani alla conoscenza della storia contemporanea e acquisire consapevolezza. Particolare attenzione si è rivolta alla storia locale con ricerche utilizzando fonti scritte come diari, lettere, autobiografie, ma soprattutto con un approccio alle fonti orali con interviste a chi quel periodo lo ha vissuto. E’ importante fissare la memoria per non correre il rischio che vada dispersa. Grazie all’incontro con i nonni, con gli anziani, si sono ricostruite microstorie spesso sconosciute, non riportate nella storia ufficiale; quella che si studia sui libri di testo parla per lo più di grandi avvenimenti politici, militari, degli eroi, dei grandi statisti ma non viene ricordato il soldato con le sue paure, sofferenze o le donne che pure hanno avuto un ruolo sociale fondamentale poichè hanno dovuto sostituire completamente gli uomini chiamati al fronte. Infiniti gli spunti da cui i ragazzi hanno tratto storie, poi presentate in uno spettacolo teatrale, ordito dalle classi della scuola primaria di Madonna del Calle e dalle classi prime e terze della scuola media di Sonnino e Priverno. Intensa è stata la giornata del 26 maggio, quando tutti i ragazzi si sono ritrovati in piazza, per assistere ad un monologo desunto dalle infinite storie di “donne in guerra”. Sul piano didattico Luisella Fanelli è nata ad Urbino dove si è laureata in materie letterarie presso l’Università “Carlo Bo”. Docente di lettere nella scuola media, prima a Trento poi dall’anno scolastico 1981 nella scuola S.Tommaso di Priverno. E’ passata di ruolo nelle scuole superiori nel 1999 all’ ISISS “Teodosio Rossi” di Priverno. Nell’anno 2005 ha avuto incarico di presidenza e dal 2007 nominata Dirigente Scolastico presso l’Ist. Comprensivo “S.Tommaso d’Aquino” a Priverno. Ha avuto esperienza come amministratore locale per il Comune di Priverno come delegata alla Pubblica Istruzione. Assessore del Consiglio di Amministrazione del Consorzio delle Biblioteche dei Monti Lepini con funzione di promozione culturale nel campo delle biblioteche, archivi storici, musei a livello intercomprensoriale. Consulente e direttore del laboratorio di Democrazia Partecipata per il Comune di Priverno. Responsabile tecnico e progettuale per le attività della locale ludiche e ricreative per minori. Dal corrente anno scolastico 2015-16 in pensione.
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lo studio della storia locale è stato uno strumento di integrazione ed ampliamento di quella nazionale ed è servito per uscire da una visione astratta rendendo lo studio del passato una realtà viva, verificabile, un viaggio nel passato per munirsi di strumenti mentali capaci di orientare nel presente. Per conservare la memoria dei racconti mantenendone l’immediatezza e la vivacità si è deciso di riportarli in una trasposizione teatrale. Come non ricordare l’emozione provata quel pomeriggio quando si è aperto il sipario dello spettacolo: in prima fila i testimoni commossi, alle loro spalle famiglie in attesa… sul palco i giovani, che hanno raccolto le storie e che, per questo, le hanno adeguatamente rappresentate. Partendo dai materiali raccolti, dalle suggestioni e argomentazioni svolte in classe sono state realizzate trasposizioni dei racconti in chiave teatrale, realizzando così” la memoria in scena”. Gli alunni nel loro Giornalino “Voci di corridoio” nell’ultimo numero di chiusura dell’anno scolastico, hanno riportato delle considerazioni sulla loro partecipazione che mi fa piacere trascrivere: “Anche se è calato il sipario, resta nel nostro cuore e nella nostra mente il ricordo di un progetto che ci ha fatto conoscere momenti della storia dei nostri nonni e delle loro lacrime e fatiche. Momenti legati al triste periodo della guerra quando -nulla era sicuro, neanche la vita-”. Esprimo la mia soddisfazione per il percorso didattico fatto, nella convinzione che questa esperienza rimarrà nel cuore dei nostri alunni. Speriamo di aver dato loro l’amore per lo studio, per la ricerca, per la riflessione e la consapevolezza che conoscere il nostro passato è importante per conoscere il presente, evitare gli errori e costruire un mondo migliore. 218
LA MEMORIA SI FA STORIA di Soledad Agresti e Benedetto Supino ‘La memoria si fa storia’, inserito all’interno del progetto sulla storia che ha coinvolto i comuni di Prossedi, Roccasecca dei Volsci, Sonnino e Priverno, e i diversi gradi di scuola, dalla primaria alla scuola secondaria di primo grado, è uno spettacolo teatrale che prende vita dai ricordi di uomini e donne della valle dell’Amaseno. E dai loro ricordi raccontati sul palco prendono vita le varie scene che sono vita vera, reale, pezzi di storia. Di quella microstoria che spesso è sconosciuta, scritta tra lacrime e povertà, che non troveremo mai sui libri di storia, ma che è la storia che ognuno porta dentro. Il lavoro teatrale è nato dall’esigenza di raccontare e far conoscere alle nuove generazioni quali siano state le atroci vicende vissute dai loro parenti e vicini durante il secondo conflitto mondiale. Attraverso la raccolta e lo studio di testimonianze, diari personali, e materiale fotografico si è arrivati alla stesura di una sceneggiatura, che ha fatto rivivere agli studenti – attori, e spettatori - i momenti cruciali del conflitto, in modo particolare dalla firma dell’armistizio, quando i tedeschi da alleati si sono trasformati in nemici, fino all’arrivo degli alleati, e quindi alla fine del conflitto mondiale. Ampio spazio è stato dato alla donna, figura spesso poco ricordata, ma che ha svolto un compito essenziale. I racconti delle donne hanno quindi aiutato a conoscere altri aspetti della guerra: non quella combattuta al fronte tra uomini, ma di quella piccola, quotidiana e terribile guerra da affrontare nei mercati, nei rifugi, nelle cucine. Una guerra fatta di fame, paura di perdere i propri affetti e terrore per le violenze subite… donne che si sono trasformate in un esercito silenzioso e generoso con il compito di nascondere e proteggere non solo i propri familiari dai continui rastrellamenti, ma anche i ricercati, rivestendo soldati e sfamando gli sbandati. Voci femminili che, con la delicatezza del loro sguardo e la lucidità dei loro ricordi, ci hanno fatto rivivere le distruzioni della guerra, il tormento per le restrizioni alimentari, l’orrore della perdita dei propri cari ed il dramma estremo delle violenze subite.
*Soledad Agresti è un'artista poliedrica: lo scopo di ogni sua azione artistica è volto alla comunicazioni, alla rappresentazione di stati emozionali e concetti che tocchino le corde più intime dell'anima. Nasce come pittrice/scultrice: espone a Roma, Napoli, Milano, Spoleto, Torino, Prato, Alatri ed altre. Ben presto sente il richiamo della scena e, dopo alcuni anni di attività attoriale, è una delle fondatrici della Compagnia Imprevisti e Probabilità per la quale cura anche costumi e scene. Grande rilievo assume anche la sua carriera drammaturgica che nel 2010 la conta quale vincitrice del premio internazionale "La scrittura della/e differenza/e" col testo "La gamba di Sarah Bernhardt" portato in scena con enorme successo dalla compagnia cubana "Macuba Teatro" per quattro anni consecutivi.
* Benedetto Supino, docente di Lettere, ha esordito come attore nella compagnia “Costellazioni” e “Teatrarte”. Membro della compagnia teatrale “Imprevisti e probabilità” ha recitato in vari spettacoli della compagnia che tramite le sue capacità di adattamento ai vari ruoli ha avuto modo si calcare le scene in ruoli comici e drammatici. Di questi ultimi mesi è la sfida per cui unisce alla scrittura drammaturgica la regia dei testi prodotti.
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L’ESPERIENZA EDUCATIVA di Donato Maraffino Riportiamo alcuni riferimenti delle tappe del percorso di ricerca e rielaborazione storica, finanziate dalla Regione Lazio (in base alla determinazione n. G03172 del 17/03/2014 ) che si sono snodate nelle attività dall’ottobre 2014 fino a ottobre 2015, con un ultimo incontro sul presente volume.
Motivazione Il percorso ha portato alla definizione di forme di ricomposizione della memoria, sia nella sua circolarità trasmissiva ed empatica nella raccolta di testimonianze che nella loro rielaborazione documentaria e teatrale. L’intero lavoro è stato scandito anche dalla partecipazione di eminenti studiosi di storia contemporanea, antropologi e ricercatori (di cui alleghiamo le locandine degli incontri pubblici come quello del 13 giugno 2015 sui Campi di Prigionia e Memorie di guerra) oltre che lo spettacolo ed il monologo teatrali (Quando la memoria va in scena del Martedì 19 e 26 Maggio 2015 e La voce delle donne del 26 Maggio 2015). Inoltre dal 26 maggio al 2 giugno 2015 nei Portici del Palazzo Comunale di Priverno (LT) si è tenuta la mostra: Reperti e immagini della II Guerra Mondiale.
Finalità, argomento e metodi Le direzioni di ricerca e analisi sono state le seguenti: • la prima (eventi e ricerche della memoria) ha inteso promuovere attività educative di un uso della storia e delle memorie della guerra: corrispondenze tra soldati e famiglie; la memoria dei profughi e dei rastrellamenti, dei bombardamenti, delle condizioni alimentari, delle violenze e delle immagini. Tale percorso scandito diversamente per scuole dei quattro comuni, (come richiede il bando regionale negli art. 1-2-3) ha inteso coniugare modalità laboratoriale coordinata dai docenti, incontri di approfondimento, partecipazione degli anziani (memoria orale) e presenza di tutti i soggetti agli incontri specifici (di ogni scuola o comune). Le tematiche e le attività sono state scelte dai docenti e allievi , in collaborazione con le associazioni; • la seconda (eventi della memoria) ha inteso sottolineare alcuni momenti di rilievo e importanti (profughi illustri/ eccidi di guerra/ distruzione della bonifica/ che hanno anche loro alimentato la memoria collettiva. In questi eventi si è favorita la partecipazione, il dialogo, il confronto tra la memoria consolidata, quella frammentata e le riflessioni su alcuni quesiti aperti, circa il senso del ritorno dalla dimensione retorica della guerra alla realtà della società con il suo disorientamento e i suoi dolori ma anche le speranze circa la futura democrazia italiana. 221
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Argomenti rilevanti: • la violenza dei fronti di guerra, i campi di prigionia e la ricaduta dei fenomeni bellici (1940-1944) sulle comunità locali; • il vissuto diretto e la vita quotidiana e gli eventi dopo lo spostamento del fronte militare dal sud pontino ai Monti Lepini; Obiettivi -avvicinare i giovani alla conoscenza della storia contemporanea al fine di acquisire consapevolezza e non disperdere la memoria; -sviluppo dell’idea che la storia locale è parte della storia generale; -far ricostruire ai giovani studenti un pezzo di storia che rischia di essere dimenticato, attraverso l’ascolto di lezioni didattiche – storiche e visite guidate ai luoghi della memoria; -ritrovare le origini e l’identità della propria comunità per progettare insieme un futuro migliore; riuscire a far interagire i giovani con gli anziani attraverso la memoria condivisa (racconti, testimonianze familiari etc Localizzazione degli interventi Scuole Medie e superiori dei quattro Comuni della Rete, Centri anziani dei Comuni, Musei e archivi comunali, luoghi della memoria collettiva. Ideazione Donato Maraffino, Elvira Picozza, Pierina Carfagna.
Organizzazione Il gruppo che ha condiviso l’ipotesi progettuale è composto da docenti che operano in scuole diverse (primaria, secondaria di primo grado e superiori) dei quattro comuni della rete. Gli alunni interessati e coinvolti sono stati oltre 150, divisi per classi nei diversi comuni. La fase iniziale del progetto ha visto il team impegnato in attività di aggiornamento e approfondimento incentrate sulle fonti scritte, audiovisive e orali della memoria territoriale (vedi sito http://wordpressprov.altervista.org/ ). La seconda fase ha visto l’inizio delle attività di consultazione e ricerca attraverso: • Testimonianze orali • Reperimento fonti fotografiche, visive e audio; • Fonti archivistiche comunali e provinciali • Approfondimenti tematici su punti storiografici rilevanti. I prodotti finali sono stati: documentazioni in mostra, testimonianze orali e immagini, spettacolo teatrale, pubblicazione; sito web Referenti didattici e organizzativi • Responsabile amministrativo: Dott.ssa Carla Carletti • coordinatore di rete e Coordinatore storico-scientifico e didattico: prof. Donato Maraffino • Referente sito web (in costruzione) Luigi Teodonio 222
Donato Maraffino
• Referente Teatrale: prof Benedetto Supino • I Dirigenti scolastici: Luisella Fanelli e Anna Maria Bilancia
Docenti referenti: • ISISS "Teodosio Rossi" di Priverno: Loretta Cardarelli, Giovanni Rapone, Marroni Paola Carla • Scuola secondaria di primo grado "Leonardo da Vinci" Sonnino-Roccasecca dei Volsci: Katia Zuccaro, Sabrina Gatti, Floris Rosina; • I. C. "San Tommaso d'Aquino" di Priverno: Di Giorgio Arnalda, Elvira Picozza; Santelia Melina, Anna rita Mattarolo e Pina Caradonna • I. C. "San Tommaso d'Aquino" Prossedi: Rita Reali
Al progetto hanno preso parte nelle fasi programmatorie e degli eventi i rappresentanti dei Comuni della Rete: • Priverno (Responsabile amministrativo: fino al febbraio 2015 Elvira Picozza poi Dott.ssa Carla Carletti) • Roccasecca (referente Giuseppe Papi) • Prossedi (referente Franco Greco) • Sonnino (referente Maurizia De Angelis) Adesioni • Il Centro Anziani del Comune di Priverno • Associazione Combattenti di Prverno • Associazione dei Carabinieri di Priverno • Croce Rossa di Priverno • Museo della Terra di Sonnino • Associazione Culturale Ricercatori Militaria Priverno
Fasi operative 1. Attivazione progetto: settembre 2014 /incontri aggiornamento e preparazione percorsi con docenti, centri anziani ed associazioni; 2. Prima fase: ottobre-febbraio 2014-2015 attività didattiche e scambi della memoria/ attivazione laboratori della memoria nelle classi degli alunni dei Comuni della rete; Attivazione sito web; Incontri con anziani, registrazioni e schedatura delle memorie e degli eventi; rielaborazione; visite museali o percorsi documentari; 3. Seconda fase: marzo 2015 –aprile 2015 combinazioni fonti archivistiche e bibliografiche e memoria; interpretazioni eventi della memoria diffusa e tradizione storiografica 4. Terza fase: maggio-settembre 2015 sistemazione e comunicazione con video, teatro mostre e pubblicazione del volume Guerra, Racconto e Memoria.
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Il progetto è finanziato dalla Regione Lazio (in base alla determinazione n. G03172 del 17/03/2014)
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Fonti delle immagini:
Si riporta l’elenco delle fonti delle immagini, chiedendo comprensione per qualche possibile errore. Si ringraziano gli autori, gli enti depositari o proprietari.
Copertina: Bundesarchiv_Bild_101I-177-1459-32,_Korfu,_italienische_Soldaten https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bundesarchiv_Bild_101I-177-145932, _Korfu,_italienische_Soldaten.jpg Pag 6. Arrivo degli americani a Pisterzo, immagine in uso del team di progetto, gentilmente concessa dalla signora Troini Rosina (Prossedi); Pag 10 Robert Capa e l’incontro con Matteo a Radicosa http://www.dalvolturnoacassino.it/asp/doc.asp?id=296; Pag 15 Entrata degli americani a Cisterna; http://digilander.libero.it/historia_militaria/attaccofinale2.htm; Pag 24 i resti di Itri, http://digilander.libero.it/historia_militaria/attaccofinale2.htm; Pag 43 Prigionieri tedeschi vengono convogliati ai campi di detenzione, nelle retrovie; della testa di sbarco https://it.wikipedia.org/wiki/Sbarco_di_Anzio#/media/File:Prigionieri Pag 50 Un pasto freddo per questo soldato tedesco della 65ª divisione di fanteria sul fronte di Anzio-Nettuno, http://digilander.libero.it/historiatris/anzio6.htm; Pag 59 Sfollati in val di sangro 2 guerra, http://www.sansalvo.net/notizie/tradizioni/; Pag 64 Prigionieri tedeschi vengono convogliati ai campi di detenzione, nelle retrovie della testa di sbarco https://it.wikipedia.org/wiki/Sbarco_di_Anzio#/media/; Pag 157 Sowjetische Kriegsgefangene in Marschkolonne, unbek. Ort und Datum, Archiv der Gedenkstätte Ehrenhain Zeithain; Pag 158 La guerra a Frosinone, http://www.cronachecittadine.it/liberazione-frosinone; Pag 160 https://it.wikipedia.org/wiki/Marocchinate#Dati_sulle_violenze; Pag 216 Donne durante la guerra a Fondi, http://digilander.libero.it/historia_militaria/; Pag 220 Verso Roccasecca dei Volsci, http://www.dalvolturnoacassino.it/asp/doc.asp?id=296;
Le altre foto o immagini sono contenute o allegate alle opere pubblicate.
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Finito di stampare nel mese di Ottobre 2015 Tipolitografia LATINAGRAFICA SRL Via A. Colette, 22/24 Latina
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