Cap. 7°: Chiamata alle armi.
Il tre febbraio dal Distretto di Foggia mi assegnarono al 48° Reggimento Fanteria, divisione “Ferrara”, a Bari. Fu una mazzata fra capo e collo, avevo sperato di essere mandato in qualche Reggimento di una città del nord, avevo tanta voglia di conoscere quei paesi. Nel distretto incontrai Salvatore Barbano; nel pomeriggio decidemmo di uscire; tornati, alle 22.30 prendemmo il treno per Bari, dove ci portarono alla caserma Pica. Il letto, che accolse tutte le reclute, era fatto da uno strato di paglia di qualche centimetro, situati sul pavimento e lungo le parti della camerata. Il giorno dopo ci tennero in casa senza farci uscire. Nel tardo pomeriggio, Salvatore ed io decidemmo di scavalcare il muro di cinta e andar in città; un caporale ci vide, corse a tirarci giù dal muro e ci portò dall’ufficiale di picchetto. Questi ci mise in prigione, però la sera tardi ci liberò. Il giorno dopo ci adunarono tutti sulla “Piazza d’armi” della Caserma e ci consegnarono: uno zaino, uno zainetto, la gavetta per il rancio, un gavettino per il caffè e una borraccia. Le scarpe e il vestiario ci fu dato alla rinfusa; le divise poi le scambiammo in seguito fra di noi alla meglio, per poterle indossare. Le fasce non ci furono date per evitare di farci uscire dalla Caserma e da eventuali fughe. Tutte le mattine ci facevano marciare in fila indiana. Al centro della piazza vi era un ufficiale che si doveva salutare per imparare il saluto militare; poi, divisi in plotoni, ci facevano marciare avanti e indietro o metterci sull’attenti o sul riposo, plotone a destra, plotone a sinistra fino alle 11.30. Una sera ero con Barbano quando si avvicinarono due militari anziani, che non potendo uscire perché consegnati, ci proposero di scambiarci le fa-
sce in cambio di qualche pacchetto di sigarette. La sera uscimmo dalla caserma insieme agli anziani. Mentre passeggiavamo, d’un tratto vedemmo un personaggio in livrea e tanto di berretto. Ossessionati come eravamo dal saluto militare, lo scambiammo per un alto ufficiale ed entrambi impappinati lo salutammo goffamente; quegli sorrise, così ci accorgemmo che era un portinaio (è curioso ma vero!). La notte del dodici febbraio ci imbarcammo sulla nave “Principe di Piemonte”. La mattina del tredici giungemmo a Durazzo ove fecero sbarcare dei militari; quindi proseguimmo per Valona, dove sbarcarono ancora altri militari. La nave proseguì fino a Porto Edda “Santi Quaranta” dove sbarcammo tutti. A piedi salimmo in paese, a Delvina; a nord vi erano le baracche del nostro Presidio. Nelle baracche ci assegnarono i letti biposto a castello, senza materassi, perciò ci adattammo alla meglio sul telo. In queste condizioni restammo per tutta la permanenza in Albania. Io fui assegnato alla 6ª Compagnia Fucilieri e mortai Brixia - 45. Il mio amico Barbano, essendo fabbro, fu trasferito alla Compagnia Reggimentale. Il capitano Ferrarelli, comandate della Compagnia , era un avvocato, che ci tormentava con una rigida disciplina, per un nonnulla consultava il Codice Militare, minacciando di mandarci al carcere di Gaeta. Il tenente Antonio Giacobini, comandante del mio plotone era buono e comprensivo. Tutte le mattine facevamo esercitazioni e il percorso di guerra. Il mercoledì o il venerdì marciavamo per circa venti chilometri. In Aprile arrivarono le nuove reclute, fra cui un altro compaesano, Michele Ambriola, che fu assegnato alla 6ª Compagnia. Frequentavo assiduamente la palestra; avevo imparato anche il salto mortale e partecipavo a tutte le gare ottenendo anche premi in danaro.
Il sergente capo squadra, era abruzzese: un anziano richiamato, lasciava che mi interessassi della squadra. Riuscii in poco tempo ad avere la fiducia dei militari. Avevo suscitato entusiasmo in alcuni di loro che mi seguirono nel fare il percorso di guerra con salto mortale alla fine dell’ostacolo e nel frequentare la palestra. Il tenente Giacobini per premiarmi mi fece promuovere “Fante scelto”: in seguito mi assegnò come vice alla squadra mortai, dopo un corso di addestramento. Quando si faceva pulizia alle armi e altre esercitazioni, per premiare la mia squadra, ottenevo dal Tenente Giacobini il permesso di smettere prima dell’orario, perché la mia squadra era quella che in meno tempo, riusciva ad eseguire scrupolosamente tutte le operazioni. Durante le marce il tenente ci teneva ad avermi vicino, ero il suo beniamino. A maggio arrivò una richiesta dal Comando del Reggimento per chi volesse partecipare ad un corso accelerato di tre mesi da sottufficiale. Il tenente mi propose di partecipare al corso dicendomi che ero in gamba e che potevo fare carriera e togliermi da quella marmaglia; l’esercito aveva bisogno di graduati qualificati. «Mi dispiace - gli risposi - ho già rifiutato in precedenza di partecipare ad un altro corso da sottufficiale, perché, non appena finiva la ferma, volevo tornare a casa. A Delvina la vita era noiosa, si facevano sempre le stesse esercitazioni e marce. Non c’era un cinema, nessun diversivo; di donne neanche a parlarne. Qualche volta che si girava per il paese, notavi le finestre e gli usci semiaperti. Le donne col viso coperto notavano il nostro passaggio. La sera, per chi se lo poteva permettere, si andava in qualche caffè e la domenica nei pochi ristoranti, tutti gestiti da baresi, dove si mangiava all’italiana. Una sera ero in un bar a sorbirmi un caffè quando vidi in un angolo un militare che discorreva con un civile in lingua albanese; mi meravigliai molto
e siccome il fatto mi interessava perché in caserma avevamo bisogno di interpreti, aspettai finché si lasciarono e interpellai il militare chiedendogli come avesse imparato l’albanese in così poco tempo. Mi rispose che era della provincia di Foggia, di Casalvecchio, dove si parla l’albanese. Ai primi di giugno si doveva partire per il campo perciò ci ordinarono di prepararci lo zaino e di portare tutta la roba che avevamo in datazione. Lo zaino si era appesantito, pesava più di venti chili. Una notte alle due suonò l’allarme e ci adunammo in Piazza d’armi. Si partì in fila indiana lungo i lati della strada rotabile. Dovevamo percorrere più di venti chilometri per accamparci nei pressi di Argirogastro; per ogni ora di marcia c’erano dieci minuti di riposo. La seconda tappa, il giorno dopo, ci condusse Tepelene, alla confluenza del fiume Drina nella Voiussa. Si alzarono le tende per restare tutta la durata del campo. Ci diedero della paglia che spargemmo sul terreno, sotto la tenda dove si doveva dormire. Un giorno alla settimana si facevano le manovre di guerra. Il maggiore Beato, Comandante del Battaglione, ci addestrava. Con gli ufficiali dello stato maggiore si appostava su un’altura e seguiva tutti i nostri spostamenti e ripetutamente gridava: «Prima di avanzare dovete trovare un riparo, un sasso, un cespuglio, non dovete restare a lungo in piedi perché così diventate un facile bersaglio del nemico. Se non trovate un riparo buttatevi a terra, perché da lontano non si vede facilmente un uomo». Il maggiore era convinto, e non si sbagliava, che la guerra si doveva fare. Le compagnie del battaglione si alternavano a questo addestramento. Si era creato un poligono dove si facevano i tiri di addestramento con varie armi. Io ero stato insegnato come tiratore scelto di fucile e di mortaio. Si facevano marce di continuo su per i monti. Il vitto era mediocre, per non dire
scadente, perché si mangiava quasi tutti i giorni pasta e lenticchie; la domenica e qualche giovedì pasta asciutta. Era proibito entrare nei villaggi. Le donne erano quelle che lavoravano di più i campi. La sera si vedevano passare con delle fascine sulle spalle più grandi della soma degli animali; le mani sferruzzavano calze o maglie. I fannulloni uomini si vedevano sempre seduti intorno alle casupole a discutere con una sigaretta appiccicata sulle labbra e un’altra sull’orecchio; le mani su una corona con grosse palline che facevano scorrere fra le dita in continuazione. A fianco vi era l’orticello con piante di tabacco: infatti, essiccavano le foglie e le fumavano. Le donne avevano sempre il viso coperto. Finito il campo rientrammo a Delvina, dove il Plotone Mortai passò all’8ª Compagnia e con questa formazione di mortai e mitraglieri si entrò in guerra. Il tenente Giacobini rimase alla 6ª Compagnia, così anche il mio compaesano Michele Ambriola. All’8ª Compagnia assegnarono il sottotenente De Carolis che, per mia disgrazia, era di San Marco in Lamis. Non ho capito mai il perché, quando seppe che ero di San Giovanni Rotondo, anziché avere piacere perché eravamo quasi paesani, cominciò a perseguitarmi. Infatti,quando mi vide con la giubba e i pantaloni un po’ arrangiati mi diede un giorno di consegna. Un altro fece altrettanto perché pretendeva la stecca nella bustina. Era un fanatico della disciplina e in poco tempo fu odiato da tutta la compagnia. La mattina appena suonava la sveglia si presentava nella baracca a controllarci. A chi ritardava era comminato un giorno di consegna. La sera faceva altrettanto dopo il silenzio: puniva chi non era ancora a letto. Non potevamo più sopportarlo. Una sera si decise di fargli il gavettino. Ci procurammo un barattolo di tre litri, lo riempimmo d’acqua e lo sistemammo sulla porta dell’entrata. Do-
po il silenzio, come al solito venne e il barattolo, che era in bilico, come aprì, si rovesciò su di lui. Altre sere si spegneva la luce come apriva la porta e si scaricavano su di lui pagnotte di pane indurite. Nel giro di poco tempo si arrese, non reclamò ai superiori ma si vendicava diversamente. Un giorno, nel rientrare nella baracca, tutti erano usciti per prelevare il rancio, non trovai la mia gavetta, dovevo arrangiarmi, ma come? Era rimasta appesa a un chiodo la gavetta dell’anziano Caporal Maggiore che non era ancora rientrato. Risoluto la prendo, esco e con la punta del coltello incido ai due lati un aeroplano e la testa di Mussolini, rendendola irriconoscibile. Una sera , non ero andato in libera uscita; ero sdraiato sulla branda quando si avvicinò un militare dicendo che gli avevo fregato la divisa di panno. Lui era in tenuta di telo, perciò doveva arrangiarsi. Io, per non essere complice, uscii e dopo un po’ lo vidi con la divisa di panno. Per il mio silenzio prese cinque lek e voleva darmeli, ma non accettai, dicendo che lo avevo lasciato fare non per essere pagato, ma perché nella vita militare il più fesso paga.
Giorno 20 ottobre: Come al solito quando ci dovevamo spostare di notte, suonava l’allarme. Lasciammo per sempre le baracche per raggiungere il confine della Grecia; nel pomeriggio giungemmo al villaggio di Ierguzat e tutti si disposero per accamparsi. Erano poco lontani intenti a montare la tenda, Intenso, il romano e il legionario, quando vidi arrivare il sottotenente De Carolis. «Rinaldi - disse - tu vieni con me perché sei di corvè!». Io gli risposi: «Sai bene che sono venuto a piedi e ho fatto più di 20 chilometri, gli uomini di corvè sono partiti dopo di noi e sui camion con l’apparato della cucina, perciò non mi tocca».
La discussione si prolungò e alla fine gli dissi: «Sono stufo di essere perseguitato; voglio mettermi a rapporto col Maggiore per essere trasferito». Mi rispose: «Ti farò mettere a rapporto su quelle montagne», indicando il confine. Io che ho un carattere impulsivo e facile alla ribellione sull’ingiustizia, furibondo imbraccio il fucile e gli dico: «Quando saremo su quei monti ti farò provare le pallottole del mio fucile!». Senza rispondere lui se ne andò via. Il giorno dopo aspettavo di essere deferito per insubordinazione e minacce, ma questo non avvenne. Durante la mattinata ci spostammo nella boscaglia di Longon, sotto il confine. Per non essere individuati dal nemico, non suonarono più le trombe e per evitare di fare fumo con le cucine, il rancio arrivava da lontano. A Giannina pioveva quasi tutti i giorni ed eravamo costretti a rimanere sotto le tende nel fango e tutti bagnati. La mattina del 27 ottobre gli Ufficiali dello Stato Maggiore ci riunirono alla meglio e ci fecero questo discorsetto: «È giunta l’ora, non possiamo più aspettare; all’alba di domani, l’Italia dichiara guerra alla Grecia e pochi giorni basteranno per spazzare via quei pochi soldati greci. Il nostro obiettivo è Giannina; ci saremo fra otto giorni, li avrete tutto quello che qui non avete avuto. Avrete le caserme e dormirete finalmente da cristiani, su brande con materassi e lenzuola, pasta asciutta tutti i giorni e donne; il resto lo conoscerete se saprete battervi da leoni. Siamo italiani e ci dobbiamo comportare da veri italiani. Dobbiamo, come dice il Duce, spezzare le reni alla Grecia». I nostri ufficiali ci fecero le ultime raccomandazioni assicurandoci che sarebbero stati sempre in contatto con gli uomini della propria squadra e del proprio plotone. I migliori consigli di guerra ce li diede il legionario, che era reduce della guerra di Spagna. «In guerra - diceva - non dovete mai lasciare la gavetta e la
borraccia; la roba superflua potete anche buttarla via, ma tenetevi a tutti i costi una coperta, il telo da tenda e il pastrano, ciò che trovate da mangiare prendete tutto, non abbandonate mai le armi che devono fare parte integrante di voi stessi a costo di qualsiasi sacrificio». Non avevamo la minima idea della guerra; infatti, nessuno, la mattina del 27, quando il Comando mise a disposizione le casse di gallette per rifornirsi di una scorta, si degnò di penderle e metterle nello zaino. Il legionario mi disse: «Rinà, prendi quante più gallette puoi». Si pensava che a mezzogiorno arrivasse il rancio, ma questo non ci fu perché distribuirono una razione di carne in scatola e la stessa cosa si ripeté la sera. Quelli che avevano preso le gallette, a malincuore incominciarono a rosicchiare rassegnati, gli altri si diedero alla ricerca delle casse che il mattino erano state abbandonate. Per tutto il giorno aveva piovuto e quei pezzi di pasta dura e senza sale, la pioggia le aveva rese rigonfie e spappolate. I soldati si tuffarono alla ricerca di quelle meno bagnate, buttando a destra e sinistra nel fango le altre e altri, sprezzanti, dissero che per un giorno non sarebbero morti di fame. A sera inoltrata venne l’ordine di raggiungere il confine, che si trovava sulla cresta della catena montuosa del fiume Drina, infatti, si incominciò a salire con difficoltà in fila indiana fra sterpi e boscaglie: ogni asperità del terreno era segnalata dal primo all’ultimo uomo. Dopo qualche ora di marcia giungemmo al confine fra il cippo 24 e 25. Qui ci fermammo; eravamo bagnati per la pioggia che cadeva incessante fin dalla sera; il freddo si faceva sentire e tutti quelli della mia squadra, come pecore, ci stringemmo l’uno all’altro con la speranza che il contatto ci scaldasse un po’. Nonostante tutto si riuscì a dormire. Ci svegliammo di soprassalto per il rombo dei cannoni delle nostre batterie: erano le sei. Mezz’ora durò il bombardamento, senza reazione alcuna da parte dei greci. Questo ci diede la certezza che i greci non reagivano come ci
avevano fatto credere e come la Radio Fante diceva, cioè che il ministro Ciano si era accordato con i capi greci per un’occupazione pacifica. Un ufficiale gridò: «Avanti, siamo in guerra!» e si cominciò a scendere sul versante greco. C’era un silenzio greve e sospettoso e qualche raffica di mitragliatrice si fece sentire in lontananza. Si continuò a scendere mentre io sentivo le gambe che mi tremavano, non per la paura, ma per l’emozione, Intenso mi disse la stessa cosa. Ai piedi del monte il fiume Drina ostacolava la nostra avanzata, mentre un’altra raffica fischiò sulle nostre teste: era quasi giorno. Venne l’ordine di oltrepassare il fiume, si scelse l’ansa dove l’acqua era più bassa e ci tuffammo per salire sull’altro versante. Incoscienti del pericolo si camminava in piedi, in ordine sparso, come durante le manovre. Si sentì qualche colpo di cannone e lo scoppio delle granate in lontananza, mentre le mitragliatrici cessarono del tutto. Eravamo a mezzo castone quando il sole si affacciò splendente e caldo e dopo un po’ le nostre divise bagnate incominciarono ad evaporare asciugandosi addosso. Giungemmo sulla cima verso le 10.30, due ore prima del previsto, rimanendo in piedi. Per noi era ancora un gioco e non una guerra: infatti, non c’era stato alcun morto o ferito. Il Maggiore urlava di stare nascosti, a pancia a terra, imponendoci di piazzare le nostre mitragliatrici e mortai lungo la cresta. Incoscienti aspettavamo il rancio! Qualcuno reclamò, ma il maggiore rispose che il rancio non poteva arrivare in pieno giorno. Notammo a destra lungo il costone appostamenti di cemento d’armi leggere, rendendoci conto del pericolo corso. Bastava una sola mitragliatrice per decimarci tutti appena varcato il fiume. Eppure c’era una squadra greca,
che vedemmo ripiegare in lontananza. Non riuscimmo a capire perché da quella posizione così favorevole non c’era stata una raffica di mitraglia. Avanzando poco più sotto scoprimmo tre tende nemiche e nelle gavette abbandonate c’era ancora il rancio caldo. Si passò la voce che nessuno toccasse gli alimenti. Nel pomeriggio si cominciò ad avanzare verso nord e prima del tramonto, entrammo in un villaggio abbandonato. Nelle abitazioni non si trovò niente da mangiare e in qualche casa si trovarono delle madie piene di pasta pronta per fare il pane, ormai inacidita. Qualcuno portò via delle noci e dei peperoni sotto aceto. Una macelleria era piena di carne fresca, che pendeva dagli uncini, ma non fu toccata per il timore che fosse avvelenata. Proseguimmo lungo la rotabile che era già buio, mentre la pioggia cominciò a cadere di nuovo. Ogni tanto in lontananza si sentiva il brontolio e lo scoppiò di qualche granata. Stava giungendo una colonna motorizzata, seguita da piccoli carri armati leggeri, perciò la strada doveva essere lasciata libera e ci toccò camminare sul ciglio e nei campi dove si affondava nella terra bagnata. Gli automezzi avanzavano quasi al buio e facilmente uscivano fuori strada, perciò non mancarono gli incidenti, si vociferava che c'era stato un morto e dei feriti. Venne l’ordine di fermarsi, eravamo bagnati fino alle ossa e pieni di fango e poi ci distribuirono una pagnotta di pane in due. Così finì la prima giornata di guerra. Era ancora buio la mattina quando ci mettemmo in marcia, la strada era sgombra di automezzi. Giunti sulla riva di un fiume il ponte era stato fatto saltare ma l’artificiere fu fatto prigioniero. Il fiume era in piena ed era pericoloso attraversarlo, ma di questo non fu tenuto conto dai primi; qualcuno riuscì a passare con difficoltà. Un portamunizioni carico come era non riuscì a mantenersi a galla e fu trascinato dalla corrente e annegò fra le urla di dispe-
razione. Dopo si provvide con le funi legate dall’una all’altra riva in modo che ognuno si teneva aggrappato per attraversare il fiume. Questo tardò di molto la nostra avanzata. Compiuta la traversata continuammo sulla rotabile per diversi chilometri, mentre il sole fece capolino fra le nuvole e con i suoi raggi ci riscaldò un po’. Rasentammo un lago proseguendo ancora sulla rotabile. Giunti nei pressi di una collina boscosa ci ordinarono di lasciare gli zaini e tutta la roba, perché si dovevano attaccare delle posizioni nemiche e il nostro equipaggiamento era di ostacolo. La roba, dissero che ci sarebbe stata restituita dopo la conquista. Io e qualche altro della mia squadra seguimmo il consiglio del legionario: arrotolammo una coperta e il telo da tenda, messi a tracolla e presi anche gavetta e borraccia. Tutti gli altri, tranne pochi, rimasero con la sola divisa per tutta la durata della guerra. Fu la più grande fesseria che commisero i nostri superiori. Rimpiangevo la perdita della mia Laica e tutte le foto ricordo, il libretto della Banca di Tirana con i miei cinquecento lek di risparmio e altri oggettini d’oro da portare in Patria. Prima della salita di una collina boscosa, lungo la strada, io ed Intenso ci avventurammo in una casa, resa pericolante dalle cannonate greche, per cercare qualcosa da mangiare; ma era già stata saccheggiata: per fortuna, in un angolo, trovai una forma di formaggio pecorino. Continuammo l’avanzata e la nostra compagnia fu trasferita al lato destro del Battaglione, perciò ci trovammo nella pianura allo scoperto. I greci che senz’altro ci osservavano, lasciarono che tutti fossimo un buon bersaglio, poi, di colpo si sentirono tuonare decine di batterie che scaricarono su di noi i loro proiettili micidiali e ci inchiodarono al suolo senza nessuna possibilità di difenderci o di avanzare. Subito dopo il maggiore che era in mezzo a noi
diede l’ordine di spostarci sulle colline al riparo dei boschi. Ci furono dei morti e feriti fra i quali il romano, una scheggia gli aveva rotto una gamba. Una volta scomparsi nel bosco i greci cessarono il fuoco. Fu un errore madornale e tattico scendere in pianura per avanzare allo scoperto e senza uscita, perché la pianura finiva in un acquitrino lacustre. Avanzammo al coperto dai boschi fino alla collina di Sant’Elia. Si organizzò la compagnia con altri militari per tentare, nel pomeriggio, un secondo attacco che fu più a nord. Distribuii il formaggio agli uomini della mia squadra per gabbare lo stomaco. Verso le due venne l’ordine di proseguire l’avanzata e si cominciò a discendere la collina, ma il nemico con la stessa tecnica del mattino, giunti a mezzo costone e allo scoperto, incominciò il bombardamento con le artiglierie ed i mortai; erano tanto erano vicini che i colpi di partenza si confondevano con quelli d’arrivo. Lo scoppio delle granate era così massiccio che non avemmo più la possibilità di muoverci. Rimanemmo tutti sul pendio con il corpo e la testa verso il basso; dopo qualche ora in quella scomoda posizione sentivo il viso gonfio, gli occhi mi uscivano fuori delle orbite, il naso mi colava, i nostri corpi erano coperti di terra e sassi. I morti non parlavano ma i feriti chiedevano aiuto. Frattini, un ragazzo abruzzese, diceva che aveva una gamba staccata; era uno strazio sentire i lamenti di tanti feriti. Purtroppo nessuno poteva aiutarli, significava aumentare il numero dei morti. Una raffica di mitragliatrice rasentò i miei piedi: ero già arrotolato come un riccio, ma cercai di ritirare ancora le gambe di qualche centimetro; la raffica si ripeté più volte per mia fortuna senza spostarsi. Forse il sole si era fermato; lentamente girai la testa per guardare se fosse al tramonto, ma il tempo non passava mai. Non appena buio, le artiglierie si fermarono. Al buio si raccolsero i feriti, ma Frattini era morto dissanguato. Ci spostammo dietro la collina, al ri-
paro delle raffiche delle mitragliatrici che per tutta la notte, a intervalli, sparavano. Per tutta la notte quel pezzo di formaggio che avevamo mangiato diede a tutti una sete, che ci costrinse a scendere più volte all’acquitrino sottostante per dissetarci. Tutto il giorno rimanemmo a sant’Elia perché il tempo era inclemente: pioveva di continuo ed eravamo tutti bagnati. Gli assalti fallirono e la roba non ci fu più restituita, così rimanemmo con la sola divisa alle porte dell’inverno su quelle impervie montagne per tutta la durata della guerra Si organizzò alla meglio ancora una volta la compagnia mitraglieri che aveva avuto tante perdite. La fame si faceva sentire ancora di più. E pensare che, appena dopo pochi giorni, dovevamo desiderare ardentemente quelle gallette che vilmente erano state abbandonate con disprezzo sotto la pioggia, fitta e penetrante che ridusse quelle casse piene e rigonfie a una poltiglia gialla dorata. La Radio Fante diceva che a pochi chilometri vi era il villaggio di Duliana, dove si poteva trovare da mangiare. Appena buio, io, Intenso e Tarantino partimmo e giunti al villaggio provammo una grande delusione, perché le case erano state saccheggiate da centinaia e centinaia di soldati. Tutto era stato devastato, i mobili svuotati, la biancheria sparsa sui pavimenti e calpestata, era diventata un cumulo di fango che faceva pena. Nei paraggi scoppiò un incendio; allora i greci intuirono la presenza di italiani e incominciarono a bombardare, perciò ci allontanammo in fretta. A noi si erano uniti altri due militari; cercando nella legnaia di un casolare abbandonato, trovammo una capra che in un attimo fu uccisa scuoiata e messa a bollire in una grossa caldaia. Il fegato il cuore e i polmoni furono mangiati quasi crudi, passati pochi minuti sulla fiamma. Poi giunsero altri quattro militari; intanto la capra prima che si cuocesse era già stata mezza divorata. Arrivarono poi altri militari ubriachi e affamati che finirono il ban-
chetto, con loro portarono ciò che avevano trovato, noci e acquavite. Una volta sazi e stanchi ci addormentammo intorno al fuoco. Al mattino, prima di giorno, si ritornò sul colle Sant’Elia. Nel tardo pomeriggio partimmo in direzione Nord Est e dopo qualche ora di cammino ci fermammo a ridosso di una collina. Era il quarto giorno di guerra. Durante la notte ci svegliò un tramestio di voci e si sentì dire che era arrivato il rancio, perciò scendemmo giù nella radura ove trovammo le marmitte da campo sparse sul terreno, vuote e ripulite da altri giunti prima di noi. Infatti,quei pochi che si erano trovati quando giunsero i rifornimenti, affamati come erano, avevano divorato tutto. Tornammo ai nostri posti sotto gli sterpi del bosco con la rabbia nell’animo e un senso di ribellione. La mattina del quinto giorno di guerra, verso le nove, pochi colpi di mortaio del nemico bastarono per centrare in pieno con incredibile precisione la tenda dello Stato Maggiore: morirono il Maggiore Beato e altri ufficiali. Tutto il giorno ci furono pochi e sporadici colpi di artiglieria. Nel pomeriggio ci spostammo ancora a Nord Est, ma giunti su una collinetta ai piedi di una grande catena di monti, ci appostammo perché la radio fante diceva che su quei monti c’era la fortezza di Kalibaca. Verso sera, io e altri tre decidemmo di trovare qualcosa da mangiare e di raggiungere un villaggio che si intravedeva a pochi chilometri di distanza sulla parte opposta. C’era, però, da attraversare allo scoperto una piccola pianura; quando stavamo per addentrarci nel bosco, il nemico ci scoprì e credendo che ci fossero reparti italiani, incominciò un bombardamento che durò fino a sera inoltrata. Noi, nonostante tutto, eravamo contenti di aver fatto consumare munizioni a vuoto al nemico. In una abitazione del villaggio trovammo un anziano greco che ci implorò in un italiano strascinato di lasciargli quelle poche galline che aveva, di-
cendoci che nel villaggio era rimasto solo lui e che altrove potevamo trovare altra roba. Fummo fortunati perché in varie abitazioni trovammo abbondante riso, delle noci e otto galline. Ritornammo dal vecchio e cuocemmo il tutto. Una volta sazi, a turno, uno faceva la guardia e gli altri dormivano. Il vecchio greco ci raccontò che durante la guerra 1915-‘18 era con i nostri reparti in Albania. Al vecchio lasciammo tutto il riso. Prima di giorno ritornammo al reparto e portammo due galline lesse al tenente ed ad altri. In mattinata venne l’ordine di avanzare. I greci ci lasciarono attraversare la valle, ma, quando fummo all’inizio del costone e allo scoperto, incominciarono un bombardamento a tappeto con mortai e artiglieria e con l’ausilio di una grande quantità di mitragliatrici; come le altre due volte, ci inchiodarono al suolo senza avere neanche la possibilità di alzare la testa. Contro chi dovevamo combattere? Il nemico non si vedeva e per evitare perdite inutili, ripiegammo in disordine sulle nostre posizioni. Nel tardo pomeriggio sulle grandi montagne si cominciò a sentire il crepitio delle mitragliatrici che avanzava verso occidente e, dopo un po’, si sparse la voce che eravamo stati accerchiati dal nemico. In quel frattempo arrivarono i conducenti con i viveri a secco, scaricarono tutto in fretta al centro dell’avamposto e andarono via con i loro muli. Il panico investì tutti; anche se non mangiavamo da tanti giorni, incuranti della fame e senza degnarci di prendere dei viveri, abbandonammo anche le armi e scappammo via. Ricordando i consigli del Legionario, cercai di fermare gli uomini della mia squadra e raccomandando loro di non abbandonare mai le armi e di fare provvista di quel ben di Dio che c’era li per terra.
Anch’io presi un sacco e lo riempii con pane, formaggio e qualche scatoletta di carne; lo legai e me lo misi a tracolla. Era quasi buio quando partii; presi la strada di campagna dove avevo visto ripiegare i nostri pensando che forse solo io mi ero reso conto che avevamo di fronte soltanto delle pattuglie isolate e non l’avanzata del nemico. Dopo diversi chilometri da un avamposto mi fu dato l’altolà. Quando risposi che ero un italiano, vollero sapere tanti particolari per assicurarsi che non fossi un nemico infiltrato. Giunto a un casolare capii che nel pagliaio e nei dintorni dormivano gli sbandati. Mi sedetti per terra e cominciai a mangiare, avevo più sete che fame. In un attimo fui circondato dagli affamati; misi tutto a loro disposizione in cambio di una borraccia d’acqua. All’alba gli ufficiali costrinsero tutti quelli che avevano abbandonato le armi la sera precedente ad andare a recuperarle, altrimenti decretavano la decimazione. Tutti poi ritornarono con le proprie armi; intanto del nemico non c’era nessuna traccia, mentre io mi riunii alla mia Compagnia. Il 5 novembre, il settimo giorno di guerra, aggirammo il villaggio di Duliana, incominciando la ritirata. Nel salire sulle montagne adiacenti notammo delle macchie bianche e di altri colori, pensammo a un trucco dei greci, perciò avanzammo con circospezione; ma, giunti sul posto, trovammo lenzuola, coperte e altra biancheria che i nostri militari avevano preso nelle abitazioni durante la ritirata e poi abbandonato una volta pregne d’acqua, dopo essersi riparati dal freddo e dalla pioggia. Si indietreggiava su quelle aspre montagne tutto il giorno e parte della notte. Giunti su una radura a mezzo costone, il sole si affacciò fra le nuvole, con i suoi raggi ci riscaldò; ma, ad un tratto, dall’alto ci investì una gragnola di schegge micidiali senza avere nessuna possibilità di riparo, erano proiettili
shrapnell. Per fortuna dopo un po’ cessò il fuoco, erano stati i nostri che ci avevano scambiati per il nemico. Continuando la ritirata giunti sul ciglio del costone sentimmo a valle gridare: «Non sparate, siamo Italiani!». Subito dopo però si sentì un colpo di fucile seguito da altri e dalle grida di un italiano che era stato ferito, dalla divisa Kaki si accorgemmo che erano greci. Si gridò: «Tutti a terra e ognuno prenda di mira un nemico». Era una pattuglia di franchi tiratori che spesso si infiltrava in mezzo a noi per creare lo scompiglio. Ne vidi uno allo scoperto che avanzava, lo presi di mira e sparai: lo vidi cadere e poi attesi che si alzasse; ma questo non avvenne. Per maggiore sicurezza sparai su quella massa altri tre colpi, ero un tiratore scelto di fucile e mortai. Aspettai ancora, ma quel corpo rimase immobile. Non sentimmo altri spari perché li facemmo fuori tutti, o, forse, perché, visto il pericolo, cessarono di sparare. Aspettando l’oscurità si continuò a retrocedere. Il tenente Giacobino mi affidò l’esplorazione di una certa zona per portare in salvo la compagnia da un presunto accerchiamento. Allora presi con me tre volontari, con il compito di raggiungere un villaggio dove dovevamo incontrarci al mattino con i bersaglieri. Tutta la notte si fece la spola dalla zona esplorata alla Compagnia per farla avanzare. La mattina, giunti al paesino, ci unimmo ai bersaglieri con i loro piccoli carri armati d’assalto per completare la ritirata ed evitare un accerchiamento. In prossimità del confine albanese i bersaglieri proseguirono sulla rotabile, mentre noi ci inoltrammo sulle montagne, attraversammo una vallata e prendemmo posizione su una collina. Nella vallata c’era un grande fabbricato, forse la caserma delle guardie confinanti greche, che mi fece venire la tentazione di visitarlo, sempre per cercare qualcosa da mangiare, anche perché avevo notato un via vai di militari. Presi un uomo della mia squadra e partii. Fummo fortunati perché trovammo sì poche gallette, ma una certa quantità di zucchero che al ritorno distribuì agli uomini della mia squadra.
I greci erano imprevedibili perché usavano molte astuzie. La mattina seguente ci fu su tutto il costone, dove erano i nostri, un bombardamento di artiglieria. L’accaduto fu collegato a due pastori (forse esploratori) che con un gregge attraversarono quella zona. Casi del genere si erano verificati in altri nostri reparti, perché di notte c'erano infiltrazioni di pattuglie nemiche, camuffate da pastori, con passaggio di greggi, e al mattino si trovavano su posizioni impreviste e strategiche, portando lo scompiglio nei nostri reparti. Nel pomeriggio si oltrepassò il confine albanese e ci piazzammo sul Drina, ma una pattuglia nemica aveva già occupato la vetta e ci investì con raffiche di mitragliatrici. Qui fu ferito il sergente della mia squadra, un richiamato della classe del 1912. Prima di andare, via lo pregai di lasciarmi il suo fucile Breda 38, più maneggevole del mio 91, della guerra 1915-'18. Da vice mi trovai, per mancanza di sottufficiali, a caposquadra. Il tenente Giacobini mi diede ordine che appena faceva buio, dovevo stanare i greci dalla vetta, con un assalto di mortai e col rincalzo di una squadra mitraglieri. La sorpresa disorientò il nemico, che lasciò sul terreno una mitragliatrice; così la nostra compagnia prese posizione sulla cima. I rifornimenti viveri, per i continui spostamenti, non arrivavano. La notte nevicò e anche il giorno dopo. Noi, nudi e affamati come eravamo, restammo lassù per diversi giorni. Il tenente Giacobini mi disse che aveva già segnalato due giorni prima al Comando Generale per farmi decorare della medaglia di bronzo e che poi aveva fatto richiesta di un'altra medaglia per il colpo di mano e la conquista della vetta, più il recupero di una mitragliatrice nemica. Circolava la voce che a mezzo costone ci dovevano essere dei viveri abbandonati dagli alpinik, che erano stati avviati oltre confine per ostacolare l’avanzata dei greci.
Con me presi Tarantino e andai alla ricerca, notando che a una certa distanza vi erano dei militari che scavavano nella neve. Ci unimmo a loro. Dopo tante ricerche affiorarono delle casse di gallette, poi trovai una cassa piena di sei confezioni di cinque chili di tonno sott'olio: due le lasciai a quei militari e quattro le presi io. Un sacchetto lo riempii di quaranta porzioni di gallette, che Tarantino portò. Quando giungemmo al nostro plotone eravamo stanchi e bagnati. Fui circondato dagli affamati, che, piangendo, mi ringraziavano e mi mandavano benedizioni, per averli più volte riforniti di qualcosa da mangiare. In 15 giorni di guerra erano arrivati solo due volte i viveri. Chi si trovò nei dintorni, dove scaricavano i conducenti, si poté sfamare. Era una giornata splendida e piena di sole quando venne l’ordine di scendere in pianura, per sostare sul fiume Drina. Qui ognuno approfittò per spidocchiarsi, lavarsi e dissetarsi. Il mio paesano Ambriola Michele si tolse le scarpe per lavarsi i piedi, ma al momento di ripartire non potè più calzare le scarpe, perché i piedi e le gambe si erano gonfiati per il congelamento. Fu portato all’ospedale da campo, poi seppi che gli erano state amputate le dita di un piede. Noi proseguimmo la ritirata fino ad Argirogastro. Il giorno seguente giungemmo vicino a Tepelen, dove attraversammo il Drina e ci appostammo sulle montagne. Avevamo perso il senso del tempo, non sapevamo che giorno fosse. I greci erano già sul suolo albanese e spesso si sentivano in lontananza i combattimenti, con assalti alla baionetta, o con bombe a mano, o corpo a corpo, per la conquista di una quota o di una collina, che l’altra parte eroicamente difendeva. La mia compagnia fu inviata con urgenza nei pressi di un villaggio, sulle cui montagne erano state avvistate delle pattuglie nemiche. Prendemmo
posizione lungo il costone, al riparo; ma verso sera, una tramontana con nevischio ci ridusse agli estremi. Il tenente De Carolis, poiché non c’era nessun pericolo, diede il consenso di poterci ritirare e ripararci nelle abitazioni. Io trovai una casa isolata, entrai e chiusi porte e finestre, accesi una candela e poi il fuoco. Mentre mi asciugavo la divisa, sentii il canto di un gallo sulla legnaia; l’acchiappai e poco dopo era già sul fuoco. La fame non mancava, perciò lo divorai tutto. Prima dell’alba eravamo già tutti sulle nostre posizioni. Tutto il giorno regnò il silenzio, ma verso sera si sentì il crepitio di una mitragliatrice: era la tattica dei greci per logorarci i nervi. Col tenente De Carolis fu preso l’accordo di stanare da quella posizione il nemico. Allora con la mia squadra-mortai e il tenente ci dirigemmo verso l’appostamento, poi lui rimase sul bordo del costone con gli uomini del plotone; invece noi ci inoltrammo nella valle. Mentre si avanzava cautamente si sentì un grido, forse era l’Altolà, seguito da raffiche di mitraglia. Subito ordinai ai miei uomini di stare uniti a pancia a terra, perché al buio non potevano prenderci di mira; poi piazzammo i nostri mortai e bombardammo nei paraggi dove avevano visto il fuoco della mitragliatrice. Occupammo il costone, dove prendemmo posizione, mentre il resto della compagnia ci raggiunse prima dell’alba. Diverse pattuglie nemiche durante la notte si erano unite e con grande nostra sorpresa, appena giorno, ci attaccarono da occidente alle nostre spalle. Ci fu un disorientamento fra noi prima che prendessimo posizioni al riparo dell’avvallamento. Avemmo diverse perdite. Nella mia squadra, tra morti e feriti, ne mancavano cinque. Durante il giorno ci raggiunse il Battaglione e ci spiegammo su tutta la montagna. Rimanemmo lì per lungo tempo, finché non arrivò l’ordine di spostarci giù, verso Tepelene per riorganizzarci e ricolmare le perdite avute con nuove truppe giunte dall’Italia.
Della mia squadra, fra congelati ed ammalati, non era rimasto più nessuno dei vecchi commilitoni, perché la fame e il freddo ci avevano debilitati. Il vestiario non ci fu mai cambiato, avevamo ancora la divisa e la camicia di prima della guerra, mentre i pidocchi ci mangiavano vivi. La Radio-Fante divulgava la notizia che il Generale Cavallero prendeva il comando dello Stato Maggiore Generale in Albania. Il resoconto della situazione del Generale Saddu era catastrofico. Viveri nulla, equipaggiamento minimo, munizioni zero. Ognuno di noi allora capì il perché di quanto accadeva: non era perché i conducenti non potevano arrivare a portare i viveri, ma anche perché non esistevano.
Un
militare
un
giorno
mi
disse
che
i
conducenti
dell’approvvigionamento si fermavano la notte nei pressi del Comando Battaglione, che era accampato al riparo dei dirupi di un avallamento sopra il fiume Drina, dove c’era la compagnia Comando e altri militari: scaricavano tutto quel poco che potevano e andavano via, dopo aver raccolto le marmitte vuote. I presenti magari si abbuffavano di quella poca minestra, mentre ai militari, dislocati sulle montagne innevate, arrivava solo qualche razione di pane, quando il tempo permetteva. Da quel giorno, la notte quando potevo, scendevo giù, aspettavo i conducenti, mi confondevo fra gli uomini di corvè e prendevo ciò che mi capitava sottomano. Una notte, con altri tre affamati, riuscimmo a sottrarre una marmitta da campo da 24 razioni di rancio e lo divorammo tutto. Quando il bottino che facevo era abbondante lo portavo anche ai miei uomini. In febbraio si presumeva un attacco dei Greci per la conquista di Tepelene. Verso la metà del mese, la nostra compagnia fu trasferita sulla vetta del monte, su un’altura strategica per la difesa del monte Golico, in caso di ritirata. L’avamposto dominava il passaggio obbligato sulla cresta del monte. Si scavarono le trincee nella neve di oltre un metro e mezzo di profondità, sen-
za arrivare alla roccia. Eravamo ancora con la sola divisa; i più fortunati avevano una coperta o un telo da tenda per coprirsi. La mattina del 20 era una giornata splendida e piena di sole. Nella pianura sotto il Golico, parte della famosa divisione greca “Creta” avanzava sulla neve, inquadrata come quando si fanno le sfilate in piazza d’armi. Aveva già attraversato metà della pianura senza che le nostre batterie fossero intervenute. Allora ci siamo rivolti e lagnati con i nostri ufficiali, chiedendo perché le nostre batterie, che erano sotto Tepelene, a pochi chilometri di distanza, non intervenivano. Come nella valle dell’Isonzo a Caporetto, nel 1917, che determinò la ritirata, anche qui non è stato sparato un colpo. I greci scomparvero indisturbati dietro il monte. Se le nostre batterie fossero intervenute su quella massa compatta che avanzava allo scoperto, certamente avrebbero fatto una strage di nemici e scompaginato il loro piano. Forse tanta perdita di uomini da parte nostra non ci sarebbe stata e neanche la perdita del monte Golico. Quale fu la causa? La nostra mancanza di collegamento telefonico con le batterie? O altro? Verso le otto le batterie greche incominciarono un bombardamento a tappeto da mezzo costone in su, fino alle ore 10. Il monte Golico da bianco di neve divenne nero per lo scoppio delle granate. Le batterie cessarono e per tutta la mattinata si sentì il crepitio della mitragliatrice e l’infuriare della battaglia. Ogni tanto giungeva dal fronte qualche ferito leggero e spiegava: «I greci iniziarono l’avanzata con il solito trucco, per non fare intervenire gli italiani: cantavano inni fascisti e gridavano “siamo italiani”, poi di sorpresa attaccavano i nostri, già decimati dai bombardamenti e poi, assaliti da una truppa agguerrita, fummo sopraffatti». Nel pomeriggio i greci si videro spuntare allo scoperto, sulla vetta, mentre il nostro appostamento si trovava in una posizione di vantaggio rispetto al nemico che, per avanzare, era costretto a camminare in fila indiana sulla cresta; infatti, a Nord c’era lo strapiombo sulla Voiussa, a sud la rapida
scoscesa nevosa del monte. Li lasciammo avanzare, ma, quando furono a tiro delle mitragliatrici e dei mortai, aprimmo il fuoco e li bloccammo. Si fermarono in gruppo e furono falciati dalle nostre armi. I morti ammucchiati furono di ostacolo e quanti ne arrivavano aumentavano il mucchio dei morti. Alcuni tentarono di aggirare a sud, ma si videro precipitare e scivolare lungo il costone. Le scorte dei mortai furono esaurite, poco dopo una mitragliatrice si inceppò, mentre l’altra continuò il suo fuoco micidiale finché ci fu l’ultimo nastro di proiettili. Poi il nemico lentamente oltrepassò l’ostacolo e si unirono per attaccarci. Quando però giunsero a tiro, uscimmo dalle trincee e si cominciò il fuoco con i fucili e poi con le bombe a mano. Nella confusione mi accorsi che il braccio e la mano mi sanguinavano. Allora il tenente De Carolis mi sollecitò ad andare via, anche perché il volto mi sanguinava. Scivolai sulla neve verso giù, lontano dal combattimento, dove cercai e trovai la pista a Nord verso Tepelene. Ricordai le raccomandazioni che si facevano ai feriti, cioè di non fermarsi per via, altrimenti c’era il pericolo di morire assiderati. Ogni tanto notavo un cumulo di neve: erano soldati morti. Giunto nel bosco, gli alpini stavano arrivando in nostro aiuto. Un barelliere prese un pacco di medicazioni e mi fasciò le ferite, poi mi pulì il volto assicurandomi che c’era solo una piccola ferita sul lobo dell’orecchio e sul volto. Proseguii verso la valle, mentre un militare mi accompagnò al Comando dello Stato Maggiore, dove un Colonnello mi interrogò e io gli spiegai tutto l’accaduto della giornata. Un portaferiti mi accompagnò in una grande tenda in cui c’erano altri feriti e congelati, rannicchiati nel fango. La mattina seguente ci portarono a Tepelene, nelle case abbandonate dai civili, nell’attesa che giungesse qualche automezzo per portarci all’ospedale di Valona. Il 2 marzo, prima di giorno, giunse un'autocarretta SPA 38 guidata da un mio paesano Pasquale Pompilio, che ci portò all’Ospedale da campo H03 a Valona. Durante la giornata ci diedero da mangiare e ci cambiarono la nostra divisa, se così si poteva ancora chiamare, dopo tanti mesi che l’avevamo addosso.
Appena notte, per la stanchezza, mi addormentai. Mi svegliai la mattina, al tremulo e melodioso canto delle suore che diceva: «Dio del ciel, o Dio Salvator, salvate la Patria nostra col Vostro Sacro Cuor». Mi commossi tanto che mi veniva da piangere. Chiesi e mi diedero delle cartoline militari e scrissi alla mia amata e agli zii. La notte dell’otto marzo ci trasferirono sulla nave Francesco Crispi, per sbarcare il nove a Brindisi, da dove, con un treno ospedale, giunsi a Foggia il 10 marzo, per essere ricoverato alla Croce Rossa Italiana. (ospedale D’Avanzo). Scrissi subito a mio fratello Domenico, a Trieste, che giunse a Foggia il giorno dopo che ero stato trasferito sul treno-ospedale e ricoverato all’ospedale militare di Castelfranco Veneto il 18. L’otto aprile fui dimesso con 40 giorni di convalescenza, così il giorno dopo giunsi a Trieste da mio fratello Domenico. Trovai mia cognata con le bambine, mentre lui prestava servizio a Punta Grossa, da richiamato nella finanza. Trascorsi 10 giorni fra Punta Grossa e Trieste, poi il 29 partii per San Giovanni Rotondo. I giorni della convalescenza passarono veloci. Era troppo bello incontrarci tutte le sere con la mia amata Nicoletta. Dopo tanti stenti e sofferenze, mi sembrava di vivere nel paese della felicità. Il 24 aprile con gli amici mi trovavo nei pressi del Municipio, quando sentii strombazzare dagli altoparlanti della radio del comune, la resa dei greci e la gloriosa vittoria dei nostri eserciti. Così finì la fatidica passeggiata in Grecia. Dal libro: 2ª Guerra Mondiale, di Enzo Biagi. - 52.108 malati di stenti perché ma l nutriti e parte finiti in case di cura;
- 12.368 congelati, maggiormente per mancanza di vestiario; - 13.755 morti; - 50.874 feriti; - 24.067 dispersi (una perdita, anche se temporanea, di 154.172).
Alla scadenza dei 40 giorni di convalescenza, mi presentai all’ospedale militare di Bari e il 21 maggio rientrai al mio Reggimento del 48° Fanteria a Bari.