BIG SOCIETY
Nascita ed evoluzione del concetto tra Regno Unito e Italia sulla stampa generalista ed economica
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DOSSIER N. 01
BIG SOCIETY Nascita ed evoluzione del concetto tra Regno Unito e Italia sulla stampa generalista ed economica
Novembre 2009 - Marzo 2011
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1. Uno strumento per la campagna elettorale
1. Uno strumento per la campagna elettorale
Tradizionalmente, il mondo cooperativo nel Regno Unito è un feudo dei
Laburisti. A cavallo tra il 2009 e il 2010, però, qualcosa è cambiato. Nel corso del 2009 David Cameron – leader del partito dei Tories, storicamente opposto al “socialismo” del Labour – ha preparato il suo cavallo di battaglia per la campagna elettorale del 2010, anche se è da molti da anni che lavora alla proposta teorica. In una serie di discorsi, dentro e fuori il partito, ha insistito sulla necessità di ridurre il Big Government e le sue enormi e crescenti spese e favorire, di contro, lo sviluppo dell’iniziativa dei liberi cittadini ad associarsi. In un motto, Cameron si professa favorevole alla “redistribuzione del potere”: alla limitazione del potere statale, unita a un rinascere della spinta dal basso, A 20
sia in termini economici che sociali. Il discorso di Cameron del 10 novembre 2009 “The Big Society” rende bene l’intenzione del futuro premier britannico di andare in questa direzione.
Nel corso dei mesi successivi, in particolare nel periodo che va dal feb-
braio al maggio 2010, periodo di elezioni, Cameron insiste molto sul ruolo che le cooperative, le imprese sociali e il volontariato svolgerebbero in quella che lui chiama “Big Society”. Già il Labour a modo suo aveva provato a spostare la fornitura di alcuni servizi dallo stato alle cooperative, in particolare il tentativo è stato fatto con il Servizio Sanitario Nazionale (NHS). I Laburisti però non sono riusciti a creare le condizioni sufficienti perché il processo potesse svilupparsi e le cooperative fossero più libere di rivendere i propri servizi allo stato. I Tories invece promettono di mettere in pratica le necessarie riforme legislative, anche perché il progetto ha un respiro più ampio dell’originale idea del Labour. La formazione delle imprese sociali e lo spostamento di alcune responsabilità dallo Stato ai cittadini sono sostenuti a tutto campo, per attuare un radicale cambiamento nella società e nel governo. Le reazioni alle proposte dei Tories sono da una parte entusiaste, dall’altra scettiche e preoccupate. Riusciranno i Tories a sostenere dall’alto un processo che deve nascere dal basso? Sembra contraddittorio, infatti, che un progetto fortemente voluto dal premier stesso si possa poi concretizzare dalla base (The Daily A 31
Telegraph, “Dave's Big Society is not a top-down project – that's why it was launched by the Prime Minister”, 19 luglio 2010, G. Warner). E ancora: l’operazione è in realtà finalizzata alla privatizzazione dei servizi? (N. Timmins,
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Financial Times, 16 febbraio 2010, “New ways to prop up old concept hard to find”.)
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2. Decentralizzare i servizi
2. Decentralizzare i servizi, ridurre la burocrazia
La riduzione del peso dello Stato nel Regno Unito ha principalmente due
obiettivi: da una parte risparmiare, dall’altra incentivare l’iniziativa dei cittadini e il senso comunitario (questo secondo fine, in realtà, è anche un mezzo per il primo). Le due strategie proposte dai Tories per conseguire il risparmio sono la decentralizzazione dei servizi e la riduzione della burocrazia. (N. Timmins, Financial Times, 13 aprile 2010, “Tories claim good government will cost less”.)
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Il piano previsto dalla Big Society è apparentemente semplice: sposta-
re i servizi dallo Stato centrale alle comunità locali, e in queste stesse comunità far sì che siano i cittadini stessi a intraprendere direttamente le azioni necessarie al loro benessere, rivendendo i loro servizi allo Stato. Il servizio fornito direttamente all’interno della comunità che lo richiede viene così a costare meno, perché si evita il passaggio dalla comunità al centro governativo e ritorno. Le azioni nel locale, inoltre, possono essere direttamente mirate sulle reali necessità della popolazione, evitando così sprechi. Questi sono alcuni punti dell’agenda della Big Society. Il programma però, come è chiaro a Cameron stesso, non può prescindere dallo spirito di iniziativa dei cittadini, i quali dovrebbero assumersi alcune delle responsabilità tradizionalmente attribuite allo Stato (per fare un esempio, l’istruzione). Non a caso Cameron richiama nei suoi discorsi la sfida che John F. Kennedy rivolse agli americani e dice ai cittadini inglesi: “Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi, chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro paese”.
In Italia – dove il dibattito sulla Big society è arrivato come riflesso del-
le elezioni britanniche e si è sviluppato nei mesi successivi sull’eventuale importabilità del modello inglese – si è sottolineato proprio questo aspetto della Big Society: “esito di una spinta vitale che sale dal basso, di esperienze consapevoli, di passione condivisa rispetto alla realtà e ai problemi che presenta” (Il Sussidiario, 8 settembre 2010, “Un Cameron per l’Italia”, G. Frangi). Fa da
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contraltare all’idea la riconosciuta necessità che questo tipo di cambiamenti siano diretti dall’amministrazione, che deve gestire e organizzarne le forme. Infatti “Il ‘dimagrimento’ dello stato indotto dalle necessarie misure di risanamento della finanza pubblica in favore della ‘big society’ è destinato ad accrescere il ruolo dei privati nella produzioni di beni e servizi collettivi. Questa trasformazione, tuttavia, non potrà avvenire semplicemente mettendo da parte l'amministrazione. Questa, invece, dovrà svolgere un inedito e difficile ruolo di ‘facilitatore’ dell'iniziativa privata”. (Il Sole24Ore, 28 settembre 2010, “Se il funzionario cambia cultura”, G. Napolitano)
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3. Rivendere i servizi
3. Rivendere i servizi: incentivare i cittadini a formare imprese
Come debba esattamente avvenire il passaggio di consegne tra Stato
e privati e in quale misura debba rimanere un controllo statale sui servizi è stato oggetto di molteplici proposte e precisazioni da parte del Governo. Gli interventi dello staff di Cameron (tra cui il ministro del Cabinet Office, Francis Maude) sembrano infatti avere l’esigenza di rispondere ai dubbi esposti dall’opinione pubblica e dalle principali testate nazionali. David Cameron sostiene che lo Stato non può avere il monopolio della fornitura dei servizi pubblici: una percentuale di questi devono essere devoluti al settore privato e a quello del volontariato. Un articolo del Financial Times (N. Timmins e J. A 39
Pickard, “Cameron scraps idea of quotas in service provision”, 21 febbraio 2011), riportando le parole del primo ministro, spiega che la riforma del settore “create(s) a new presumption (…) that public services should be open to a range of providers competing to offer a better service”. Ma il punto secondo il quale “the state does not have to be the default provider” (ibid.) non è condiviso da tutti, tanto che il Financial Times sostiene che “there are tensions over the extent to which that means traditional privatisation” (ibid.).
Alla base delle tensioni c’è anche l’apparente contraddizione di lanciare
un progetto dal basso, fondandolo sull’iniziativa individuale dei lavoratori, atA 41
traverso l’intervento e la direzione dall’alto dello Stato centrale (N.Timmins, Financial Times, “Maude backs private role for public services”, 10 febbraio 2011). Il piano di Cameron invita infatti i cittadini a “partecipare al governo della Gran Bretagna”, andando così a operare a un livello che non è localistico in senso tradizionale, non riguarda cioè quelle che The Economist definisce
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“Britain’s impotent local authorities” (“Second invitation. David Cameron puts muscle into his favourite theme”, 22 luglio 2010); è invece chiaro che chiamando “alle armi” i cittadini, “Mr Cameron wants to push power further down, to the ‘nano’ level. This vision sees parents helping to set up new schools, public-sector workers running their own services as co-operatives, and small groups of people volunteering on local projects”.
Un livello, quello della cittadinanza attiva, che non sembra così facil-
mente coinvolgibile, anche perché i lavoratori sono reticenti ad abbandonare un sistema che li ha sempre sostentati. Forse per colmare queste lacune il governo britannico ha cercato di tradurre la Big Society in azioni e proposte concrete, a partire dal programma di governo presentato dai Tories nelle A 44
elezioni del 2010, definito come “a sort of Five Year Plan without Stalin” (C. Cavendish, The Times, “This is a five-year plan that might really work”, 21
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4. Filosofia e sostanza della Big Society
maggio 2010) per la sua concretezza operativa. Altre proposte sono state avanzate, quali i “laboratori per il decentramento”, o le “enterprise zones”, dieci aree di sviluppo agevolato che sono state commentate anche in Italia (G. Gentili, Il Sole24Ore, “Il nuovo sviluppo è zona franca”, 15 marzo 2011)
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in merito al divario tra Nord e Sud del nostro Paese.
La Big Society e la sua realizzazione risultano essere un tema molto
dibattuto, ma per il momento i verbi che più frequentemente appaiono sui giornali sono “proporre”, “lanciare l’idea”, “annunciare a breve”, “sognare”. Segno che l’attuazione del programma non è così facile e che il cittadino medio non è sempre preparato a una riforma così radicale, che modifica la sua vita di ogni giorno.
4. Filosofia e sostanza della Big Society
Il 31 marzo 2010 il Daily Telegraph (“Eureka! At last, I can see what
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David Cameron is on about”) si dimostra ottimista nei confronti del progetto dei conservatori inglesi: ritiene che, benché molto ambiziosi, gli intenti siano chiari. Ciò che va cambiato è il rapporto tra lo Stato e gli individui e il modo in cui questi si relazionano; il punto è spostare il centro sulle piccole comunità. Su questa linea si tiene anche professore-guru Richard Florida, recentemente assunto dal premier inglese come consigliere. Come riporta Il Sole24Ore il 12 dicembre 2010 nell’articolo “La mia utopia: un Tamigi da Silicon Valley”,
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Florida vede nel progetto di Cameron una forte spinta innovatrice, proiettata verso il futuro, disposta a mettersi in gioco e a rinegoziare l’intero apparato dei rapporti tra Stato e individuo e tra centro e periferia. Felice di un progetto dall’ampia portata anche Joaquìn Navarro-Vals che dice: “‘si devono creare comunità che abbiano verve; quartieri che si facciano carico del proprio destino, che sentano che mettendosi insieme possono plasmare il mondo attorno a loro’. In una parola, si tratta di proporre un grande disegno etico-politico, capace di comprendere e gestire laicamente le dinamiche culturali del momento, e non solo di presentare una serie minimale di punti programmatici.” (Repubblica dell’11 ottobre 2010, “Il Ritorno dei valori in politica”.)
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La Big Society viene spesso enunciata come una riappropriazione delle
libertà individuali contro uno Stato opprimente (19 luglio 2010, The Guardian, "Cameron promises power for the 'man and woman on the street'"). Secondo altre descrizioni dell’idea di Big Society, tra cui a volte quelle del premier inglese stesso, questa visione del progetto è riduttiva. Per Cameron
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4. Filosofia e sostanza della Big Society
la Big Society non è semplicemente una riaffermazione del diritto di impresa o del singolo, essa è allo stesso tempo il rinascere di un sentimento comuA 56
nitario. John Kay sul Financial Times del 22 febbraio 2011 (“Time for the Big Society to get down to the nitty-gritty”) ha enfatizzato proprio questo punto dandone una spiegazione filosofica: secondo il modello filosofico politico del contratto sociale attualmente prevalente, dato da John Rawls e filosofi affini nel ventesimo secolo, le società sono costituite da atomi individuali, uniti da una spinta razionale a costituire un ordine efficiente. In uno scenario di questo tipo viene dato poco spazio ai sentimenti di solidarietà e un gran peso invece alle libertà individuali. Nell’impostazione dell’Inghilterra della Thatcher e di Gordon Brown, invece, sostiene Kay, vi è, di base, una netta distinzione tra la sfera pubblica e quella privata, entrambi con una loro autonomia, dove il singolo e lo stato sono essenzialmente separati (anche se la linea di demarcazione può essere tirata in punti diversi). Ancora diversa l’impostazione di Blair e di questa Big Society, la cosiddetta Terza Via. Qui i confini sono ben più sfumati: le istituzioni locali sono un ibrido di cittadino e Stato; nella Big Society la comunità non è costituita da atomi indipendenti, essa è in un certo senso preesistente agli individui che la abitano.
In Italia si continua a discutere sulla Big Society, sui suoi principi fon-
danti e su quale ne sia l’effettiva sostanza. In un articolo del 22 febbraio 2011 A 58
il Corriere della Sera intervista Lord Wei, l’ideologo dietro il progetto di Big Society (“I tagli da soli non bastano La vera ripresa è la Big Society”). Come per molti inglesi anche qui si fa ancora difficoltà a capire che cosa sia effettivamente la Big Society. Per spiegarlo Lord Wei usa una metafora: “La Big Society è un progetto politico che stimola la comunità ad essere protagonista della modernizzazione. Libera l’iniziativa, promuove la solidarietà. Sposta il baricentro del potere dallo Stato alla società. Riassumo con una immagine: la Big Society è la ‘coral reef’, la barriera corallina, l’ecosistema nel quale i cittadini vivono, partecipano, si associano”. A proposito dell’analogia con Terza Via di Blair, Wei risponde: “In un certo senso è la sua evoluzione. La terza via laburista valorizzava il ruolo e il contributo dei privati ma non parlava di volontariato. Ci sono quattro dimensioni di cui dobbiamo tenere conto: l’individuo, la famiglia, le associazioni di cui è parte l’individuo, le istituzioni. Noi poniamo l’accento non soltanto sull' individuo e sulle istituzioni ma anche sulla famiglia e sul volontariato. La sfida è trovare l’equilibrio fra queste dimensioni.” Per Wei, infatti, esempi di Big Society sono dati dall’iniziativa personale e volontaria a migliorare un servizio pubblico: “se in una zona di Londra, di Manchester, di una qualsiasi città, vi sono un giardino, una scuo-
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5. Big Society e sussidiarietà all’italiana
la, una struttura pubblica che non funzionano bene o che hanno problemi di manutenzione anche perché il titolare del contratto non è all' altezza o è negligente, allora perché non offrire ai cittadini l' opportunità di intervenire direttamente? Si possono coinvolgere i pensionati per il controllo dei parchi, si possono creare gruppi di volontariato sia per supervisionare e correggere le spese destinate ai servizi pubblici sia per vigilare sulla crescita urbanistica. I cittadini, attraverso le organizzazioni del volontariato, decidono con chi stipulare i contratti e controllano il flusso di cassa.” Da una recente inchiesta del Financial Times, però, risulta che la percezione delle piccole e medie imprese non è così chiaramente orientata a considerare la Big Society come diversa dalla Terza Via di Blair (“SMEs divided on big society idea”, 28 febbraio).
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Non mancano i tentativi di comprendere il fenomeno inglese para-
gonandolo a casi italiani e usandone l’ideologia. Il Corriere della Sera del 10 settembre 2010 (“I cittadini ridisegnano la città”) riporta che l’assessore
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all’urbanistica di Milano, per esempio, ha aperto alle osservazioni in materia di chiunque sia interessato a dare il proprio contributo: “Come dice Cameron, dobbiamo cambiare l’approccio verso il governare, perché la gestione dall’alto al basso, con controllo rigido e totale, ha finito con l’indebolire la responsabilità, l’iniziativa locale e l’azione civica”.
5. Big Society e sussidiarietà all’italiana
Un filone importante del dibattito italiano sulla Big Society è costituito
dal paragone con la nostra struttura sociale e dall’evidenziazione di punti in comune e di differenza. Secondo alcuni, infatti, la Big Society da noi c’è già, ed è costituita dall’associazionismo e dalla solidarietà: questa l’opinione di Emanuele, presidente della Fondazione Roma (“Tappa di Lord Wei a Roma, la
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via italiana della Big Society”, Corriere della Sera, 25 febbraio). Si spinge oltre Carlo Borzaga, presidente di Euricse, che in un intervento su Vita del 14 gennaio 2011 (“Il modello italiano che fa invidia a Cameron”) fa notare agli entusiasti della Big Society quanto la situazione italiana sia altrettanto – se non più – interessante: “due le ragioni positive per approcciare almeno con sano realismo le proposte d’Oltremanica: la prima perché l’Italia ha già sviluppato, assai prima degli inglesi, proprie forme di imprenditorialità sociale ampiamente studiate da economisti e sociologi di quei Paesi, e la seconda perché ha fatto di queste nuove forme imprenditoriali un soggetto non semplicemente sostitutivo dell’intervento pubblico, come nella proposta di Cameron, ma nella
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5. Big Society e sussidiarietà all’italiana
maggior parte dei casi aggiuntivo”. Su Italianieuropei Borzaga stesso precisa che nella formula italiana la cooperazione sociale è riuscita ad andare anche oltre: “Poichè una buona parte dei servizi sociali del paese - probabilmente più del 40% - è oggi offerta da cooperative sociali, si può certamente affermare che la cooperazione sociale ha dato un contributo decisivo al passaggio da un sistema di welfare tutto incentrato su erogazioni monetarie a uno più A 66
attento alla domanda di servizi” (“La cooperazione sociale”, marzo 2011).
Lo stesso Phillip Blond, consigliere del primo ministro britannico, ritiene
che in Italia le associazioni religiose costituiscano già il collante sociale che A 71
il Regno Unito sta cercando di ricreare (“Il modello è già in casa: la big society all'italiana”, Il Sole24Ore, 9 settembre 2010). In particolare il modello di sussidiarietà citato da Phillip Blond, è quello della Lombardia, grazie alla sua fitta rete di assistenza cattolica. Blond ha anche incontrato il governatore della regione, proprio per questa ragione (“Big Society, Lombardia modello. Il governo inglese guarda a noi”. Video dal Forum Terzo Settore).
Ma anche alcuni italiani, come Luca Antonini, insistono nel sostenere
che la sussidiarietà sia una delle basi fondanti del nostro Paese e che sia sostanzialmente questo che si intende con “Big Society” (Il Sole24Ore dell’11 A 72
febbraio 2011 “Rinascere da un nuovo 41”). Recentemente Panorama è tornato sull’argomento, presentando i numeri del terzo settore in Italia ed equi-
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parandolo alla Big Society inglese (“Ma quanto è grande la ‘Big Society’ in Italia?”, 15 febbraio 2011).
Il Sussidiario dedica all’argomento una serie di articoli dove si sostiene
che in sostanza la Big Society in Italia ci sarebbe già, ma non è valorizzata, A 75 A 76
né potenziata come dovrebbe. Si ripete del modello virtuoso della Lombardia (“La Big Society? Grazie Cameron, ma in Lombardia c’è e funziona”, 19 settembre 2010). E’ interessante notare come in alcuni passaggi (“Ecco la filiera che manca nell’Inghilterra di Cameron”, 23 ottobre 2010) la stessa testata parli di ciò che è la Big Society non associandola solo al mondo no-profit: “A valle, la Big Society, in italiano, si traduce operativamente come “filiera sussidiaria aziendale” composta da imprese sociali “di sistema” (associazioni, cooperative mutualistiche e sociali, fondazioni, comitati, ong ) ed “ex lege” (L.118/05, D.Lgs.155/06
e decreti attuativi) e imprese private profit che
producono beni e servizi di utilità sociale per l’interesse generale e per il bene comune. La sfida è passare dal principio di sussidiarietà in termini di mission politica e di principio giuridico all’operatività incidente nel sistema tramite i risultati di bene comune perseguiti dalle imprese sociali profit e non profit.” Su questa “linea ampia” di definizione della Big Society, che include terzo
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5. Big Society e sussidiarietà all’italiana
settore, società civile e imprese sociali, si muove lo stesso Cameron nella non facile impresa di dare una chiara idea di quale sia il suo progetto (Financial Times, “Even Cameron struggles to define concept”, 10 febbraio 2010).
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Anche il governo italiano rielabora una sua versione della Big Society e
la esalta come ossatura del piano di sviluppo economico e sociale dell’attuale legislatura: in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il ministro Sacconi sostiene che “Il governo pratica fin dall'inizio una rigorosa disciplina di bilancio, ma lo fa nell' ambito di una visione che si compone di due elementi tra loro incrociati: il federalismo fiscale e il nuovo modello sociale sussidiario (…) vale a dire, l' incrocio della sussidiarietà verticale con quella orizzontale. Meno Stato, più società”. E precisa: “È una rivoluzione nella tradizione. Una rivoluzione che affonda le radici nella tradizione della fraternità francescana, delle opere pie, delle società di mutuo soccorso, delle cooperative laiche e socialiste” (A. Cazzullo, “Sacconi: diamo più spazio alla società. Con la crisi è finito lo Stato pesante”, 30 agosto 2010). Ma un problema grosso, segnala Carlo Borzaga (Il Sole24Ore, “Il terzo settore vince con più reti”, 4 ottobre
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2010) è proprio “il mancato riconoscimento da parte della politica. Non ci sono forme di sostegno né benefici fiscali, né strategie di sviluppo dell’impresa sociale: mentre nel Regno Unito il governo Cameron lancia il progetto di una Big Society qui da noi, dove la società civile è anche più radicata, si naviga a vista”.
Alcune testate, per quanto riconoscano la presenza in Italia di qualcosa
di molto vicino alla Big Society, evidenziano come anche in Italia andrebbe ripensato il rapporto tra lo Stato e i produttori di servizi sociali. La Stampa vi dedica un articolo il 30 novembre 2010 (“Ora serve una svolta straordinaria
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nel sociale”) e su Il Sole24Ore, il primo marzo 2011, Guido Gentili sottolinea che è l’Italia la “culla storico-culturale di un progetto del genere” e qui dovrebbe tornare sebbene il concetto abbia preso piede in Inghilterra (“La Big
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Society? Farebbe bene anche all’Italia”).
Il tema è stato anche al centro delle “giornate sul mondo cooperativo“
tenutesi a Milano inizio febbraio 2011. Legacoop riporta: “‘Per molti anni si sono contrapposti due modelli, quello dello Stato e quello del mercato libero. Il risultato è stata la monopolizzazione dei capitali nelle mani di pochi, Stato o oligarchie di quelli già ricchi”, ha sottolineato Phillipp Blond. “La crisi ha spazzato via entrambi gli approcci”. Ma come si costruisce allora un modello più giusto? Secondo Blond la strada è ridistribuire: ‘L’attività cooperativa, la sussidiarietà, il mutualismo, a lungo considerati marginali nel futuro dell’economia e della società, rappresentano una terza via’”.
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6. Big Society Bank
6. Big Society Bank
La Banca per la Big Society, il tassello fondamentale per l’attuazione
del progetto, dovrebbe prendere finalmente il via quest’anno. Il Financial Times spiega che la storia della banca inizia, in realtà, con il Labour, come A 90
Social Investment Bank, la Banca per l’Investimento Sociale (“Big Society Bank – a decade in the making”, 14 febbraio 2011). La Banca ha vissuto una continua storia di ridimensionamenti: con i Laburisti doveva avere a disposizione due miliardi di sterline di fondi, che poi si è scoperto non essere disponibili. Nell’ultimo periodo del governo laburista la cifra era stata ridotta a 75 milioni di sterline. La notizia era stata accolta positivamente dal mondo del
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volontariato, benché la cifra potesse essere più alta dato che si sarebbe potuto attingere ai conti corrente dormienti (“Social investment wholesale bank will be established”, Third Sector, 24 marzo 2010).
Ora si vuol dare finalmente vita alla Big Society Bank, con una somma
iniziale che oscilla tra i 60 e i 100 milioni di sterline nel primo anno, attinti principalmente dai ricavi della lotteria nazionale. Ci si aspetta però di portare entro i prossimi anni la cifra prima a 200 e poi 400 milioni di sterline, sbloccando il denaro presente sui conti correnti bancari dormienti e attingendo a fondi messi a disposizione dalle banche commerciali. Qui nasce un problema: un’operazione di questo tipo richiede l’autorizzazione dell’Unione Europea, che potrebbe bloccare tutto. Per difendere il progetto di una banca per Big Society, David Cameron torna a difendere l’idea stessa che è alla base, rispondendo così ai critici: “Some people say it’s too vague. Well, if they mean by that there isn’t one single policy that’s being rolled out across the country, A 92 A 94
well yes, I accept that because actually what we are talking about here is a whole stream of things that need to be done.” (“EU obstacle to Big Society plan”, 14 febbraio 2011, Financial Times).
Secondo il Financial Times (“Big Society plan ‘will not plug cuts gap’”,
10 febbraio 2011), però, ci sono molte buone idee e proposte nel progetto ma fondi di questa entità non bastano a coprire l’ampia scala dei tagli. La banca, infatti, dovrebbe avere un capitale iniziale di alcune centinaia di milioni di sterline, cui si vanno ad aggiungere i fondi provenienti da azioni di filantropia e simili; nulla a che vedere, però, con gli annunciati tagli di 81 miliardi di sterline, dei quali tra i 3 e i 5 miliardi colpiranno le organizzazioni di beneficienza.
E’ interessante comunque notare come il governo britannico si stia
sforzando di coinvolgere le banche nella Big Society. La notizie viene data an-
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7. Uscire dalla crisi economica: uscire dalla crisi sociale
che in Italia da Il Sole24Ore (“Accordo tra governo e banche inglesi sui bonus dei ceo e i prestiti alle imprese”, 9 febbraio 2011). Nick Clegg, il vice primo
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ministro britannico, infatti, sta riuscendo in una certa misura a convincere gli istituti finanziari a spendersi in iniziative socialmente utili, anche perché, cosa da non sottovalutare, sembra che questo sia un tema che diventa sempre più caro ai singoli investitori. Questo tipo di investimenti dovrebbe colmare lacune che un governo centrale non può riuscire a colmare e allo stesso tempo permetterebbe di tagliare sui costi statali. Il primo fondo di impatto sociale, di 5 milioni di sterline, proveniente da filantropi e organizzazioni di beneficienza, è stato usato per la prigione di Peterborough, finalizzato al reinserimento nella società degli ex-galeotti. In questo caso, il profitto proverrà dall’auspicata diminuzione dei recidivi. Altri progetti di questo tipo sono in corso di progettazione e istituti come JPMorgan e Deutsche Bank si stanno interessando alla cosa (“Clegg tackles banks on social investing”, Financial Times, 18 gennaio
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2011).
Su la Repubblica (“La Big Society: una storia italiana”, 3 febbraio 2011),
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Leonardo Becchetti ha evidenziato come in Italia esista da tempo un tradizione di banche cooperative, etiche e impegnate in investimenti socialmente utili: “Con tutto il rispetto (…) per le avveniristiche innovazioni promesse per il sistema bancario britannico la ricchezza e vitalità della nostra società civile ha partorito da tempo un sistema di banche cooperative e popolari e, ultimamente di banche etiche, che svolgono da tempo questa funzione e che hanno saputo capitalizzarsi raccogliendo risorse finanziarie e consensi dalla società ‘non dormiente’ dei nostri territori.”
7. Uscire dalla crisi economica: uscire dalla crisi sociale
Negli ultimi tempi il Financial Times è tornato più di una volta sull’ar-
gomento: gli investitori sono sempre più attenti a dove vanno a finire i loro soldi. In particolare, aumenta la sensibilità nei confronti di investimenti tesi non solo a un profitto ma anche ad un vantaggio per la società (“Investors seek returns in social gain”, 10 febbraio 2011) e, chiaramente, se il loro interesse per questi temi cresce, proporzionalmente fa lo stesso quello degli istituti finanziari.
In una certa misura è a pulsioni come questa che si appella David Ca-
meron quando chiede ai cittadini britannici di tornare ad avere un sentimento comunitario. Ancora di più. Il premier ritiene che uscire dalla crisi economica
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8. I critici (1): la Big Society è una scusa per tagliare fondi?
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non sia sufficiente, se allo stesso tempo non si supera anche quella, più grave, che è la crisi sociale (“Cameron targets ‘social recovery’”, Financial Times, 14 febbraio). Con questi argomenti Cameron risponde anche a chi lo accusa di aver messo su l’intero progetto esclusivamente per giustificare gli enormi tagli apportati alla spesa statale: “We need a social recovery to mend the broken society – to me, that’s what the Big Society is all about” (ibid.). Cameron insiste che la Big Society non è solo un progetto passeggero: è la sua mission, l’idea di radicale cambiamento per un Paese in difficoltà.
8. I critici (1): la Big Society è solo una scusa per tagliare fondi e privatizzare?
E’ un dato di fatto che il governo inglese stia mettendo mano ai conti
pubblici, tagliando centinaia di milioni di sterline di fondi. Mancano i fondi. Questa è la ragione principale per cui almeno 400.000 posti di lavoro statali A 105
verranno tagliati nei prossimi 5 anni (B. Groom, Financial Times, “Former public sector workers are a hard sell”, 23 febbraio 2011). Alcuni di questi lavoratori, si auspica, prenderanno l’iniziativa di formare un’impresa sociale, o qualcosa del genere, ma – sempre stando al FT – “More than half of private sector companies say they have no interest in taking on ex-public sector workers and think they lack the right skills, according to a poll by Barclays Corporate and the Financial Times”.
Alcuni critici ritengono quindi che quella dei tagli necessari sia solo
una scusa: il vero scopo è privatizzare tutto. E i primi a sottolineare i problemi sono proprio i dirigenti delle organizzazioni del terzo settore, quelle che dovrebbero essere direttamente coinvolte nel progetto. La priorità in un momento di così grande difficoltà per l’economia mondiale – dicono – dovrebbe A 107
essere risolvere i problemi occupazionali: per la grande società c’è tempo (D. Kruger, “Death by a thousand cuts for Big Society”, 6 febbraio 2011, Financial Times). Di avviso simile Matthew Scott, rappresentante di organizzazioni sociali e di volontariato, che dalle pagine di Third Sector Online spinge i conservatori a chiarire la loro idea di “big society”, prima che venga associata da molti all’idea di “grossi tagli”. Scott loda l’interesse alle attività della società civile, ma sostiene che per riuscire nei suoi propositi il governo deve ascoltare i piccoli gruppi già attivi e dimostrarsi disponibile a fare investimenti nel terzo
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settore, altrimenti le attività locali potrebbero diminuire invece che permeare la società (J. Plummer, “Explain 'big society' or cynicism will kill it, go-
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8. I critici (1): la Big Society è una scusa per tagliare fondi?
vernment is warned”, 12 maggio 2010). Più drastica la denuncia dell’ACEVO (Association of Chief Executives of Voluntary Organisation), secondo la quale, contrariamente a quando annunciato dal presidente Cameron, i progetti del settore volontario vengono tagliati piuttosto che incrementati, e questo prima ancora che siano annunciati i previsti tagli ai vari distretti (N. Timmins, Financial Times, “Voluntary sector projects ‘already being cut’”, 9 settembre 2010).
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E su questo punto insiste anche James Boxell del Financial Times, sostenendo che i “charity bosses have told him [Cameron, n.d.r.] he risks killing the Big Society at birth because of deep cuts to councils’ voluntary sector grants”, tagli che rischiano di rendere inutile la comprovata continuità delle donazioni al no-profit anche in periodo di crisi. Affinché il terzo settore fornisca più servizi sarebbero necessari più fondi, non più tagli.
Secondo quanto riporta The Economist il 10 febbraio 2011 (“Platoons
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under siege”) la mancanza di esiti concreti a quasi un anno dalle elezioni ha portato malumori sia nell’opinione pubblica “David Cameron needs examples (…) to show that his big idea is more than wishful thinking, or worse. His government’s inclusive motto—“We’re all in this together”—is being drowned out by accusations that its grand project is a cynical cover for public-sector cuts” sia nel suo stesso partito, dove “some Tories believe that last year’s general election might have been won outright had Mr Cameron not harped on about his pet philosophy, and are not reconciled to it”.
Anche in Italia le critiche su questo versante non sono mancate, so-
prattutto nel mondo della stampa economica. Il Sole24Ore pubblica il 26 febbraio 2011 un articolo dal titolo “Se la big society non dà la felicità proviamo col Pil”, dove Riccardo Sorrentino sostiene che “la big society non è il tentativo di rivitalizzare e risvegliare la società civile, la partecipazione, l'innovazione e l'"imprenditorialità" - in senso lato, anche non-profit - nella gestione beni pubblici o comuni. È il semplice tentativo di tagliare le spese statali senza dover fare e annunciare scelte impopolari, un po' scaricando la responsabilità e gli oneri su altri soggetti.” Il 2 gennaio 2011 lo stesso Il Sole24Ore aveva commentato aspramente la proposta inglese di tassare gli istituti di credito i soldi per alleviare la stretta sullo stato sociale: “le mani nel portafogli dei banchieri che le associazioni britanniche del volontariato suggeriscono d'infilare, una volta di più e con rinnovata lena, sono l'immagine di un contrappasso dantesco. Ad alta dose di populismo. Sarebbe però riduttivo liquidare solo come propagandistica l'operazione all'esame del cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, chiamato a valutare se un balzello sui bonus dei bankers debba attutire le conseguenze della stretta al welfare imposta dal deficit di
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9. I critici (2): piccole imprese sociali per una grande società?
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bilancio”, operazione che il giornale italiano considera “segno di una verticale caduta di credibilità” (“Se la Big Society inizia in banca”).
9. I critici (2): come possono piccole imprese sociali partecipare a un gioco così grande?
La Grande Società nelle mani delle piccole imprese. L’ossimoro non
sembra solo linguistico, almeno a giudicare dalla seconda ricorrente critica rivolta alla Big Society: le imprese sociali locali e il volontariato delle comunità possono davvero sopperire al bisogno nazionale di assistenza e servizi sociali?
Innanzitutto le organizzazioni che si vogliano mettere a disposizione
devono affrontare problemi enormi: uno dei criteri per ottenere l’accesso ai finanziamenti pubblici (il Transition Fund stanziato è di £100m) stabilisce che l’organizzazione deve avere “prove o sostanziali ragioni per credere che tra aprile 2011 e marzo 2012 subirà un taglio di almeno il 30% dei fondi provenienti dall’offerta di servizi front-line” (Sophie Hudson, Third Sector OnliA 115 A 116
ne, “Transition Fund criticised over eligibility criteria”, 13 gennaio 2011). Il problema è ben chiaro anche ai commentatori italiani: su Bene Comune del 9 marzo 2011 Leonardo Becchetti (“La ‘big society’. Ecco come realizzarla”) scrive che “usare come unico criterio il prezzo finisce per aumentare il rischio che imprese di dubbia reputazione possano vincere, interrompendo a metà contratto l’erogazione del servizio per chiedere altri soldi. Inoltre usare esclusivamente questo criterio vuol dire trasferire precarietà sulle cooperative sociali che vincono la gara, le quali sono costrette a sottopagare il lavoro. Qualità e copertura dei servizi sono gravemente compromesse”. Il 19 novembre 2010 Il Fatto Quotidiano, parlando dell’Inghilterra cameroniana, riporta: “sono molti i settori in cui le coop potranno operare. A patto che presentino un piano di gestione che dimostri la convenienza economica rispetto al servizio statale. Le opposizioni: ‘Dopo i tagli, è la ricetta sicura per il fallimento’”
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(D. Ameri, “‘Big Society’, in Gran Bretagna le cooperative di lavoratori si sostituiscono allo Stato”). Alla base di tutto ci sarebbe dunque una riduzione dei costi, tattica che il governo inglese suggerisce anche all’Italia “Phillip Blond, della think tank ResPublica, che fa da consulente a Cameron, sostiene che il modello di Big Society possa essere esportato anche in Italia. Anzi, il nostro Paese sarebbe avvantaggiato, perchè le numerose organizzazioni religiose incarnano già, pur senza profitto, questo modello di “imprenditoria del sociale”,
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9. I critici (2): piccole imprese sociali per una grande società?
diffuso soprattutto in Lombardia. In Italia inoltre ci sono più di 15.000 cooperative sociali, fondazioni e associazioni. Ci lavorano circa 350.000 persone che forniscono servizi a 5 milioni di utenti” (ibid.).
Ma i numeri del terzo settore sono davvero sufficienti a colmare il vuo-
to statale? Secondo The Economist (“No such thing. What’s wrong with David
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Cameron’s ‘Big Society’”, 10 febbraio 2011) uno dei punti deboli della Big Society è proprio nel volontariato: non sarebbe sufficiente per la parte importante che lo Stato gli riserva nello svolgimento di servizi pubblici. “Britons already do a respectable amount of volunteering by European standards, but there are reasons to doubt that they are willing to do the type or amount that he hopes” (ibid.).
La “devolution” inglese delle responsabilità statali alle imprese sociali e
ai privati cittadini sembra avere anche delle ricadute sul respiro generale della politica cameroniana: ripiegata sul localismo e incapace di guardare al resto del mondo, l’Inghilterra potrebbe affondare. Il rischio di una visione troppo ristretta per l’Inghilterra viene presto segnalata dagli addetti ai lavori italiani, a partire da Filippo Addarii, Direttore esecutivo di Euclid, che scrive su Vita un commento dal significativo titolo “BIG SOCIETY. Una grande società per
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un piccolo paese” (13 ottobre 2010). Incalza il Volontariato del Lazio con un intervento dal titolo “La taglia small della Big Society”, dove si ribadisce che
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“in teoria si passa da un primo ad un secondo Welfare, più efficace e vicino ai cittadini, in pratica si scivola da una sussidiarietà circolare ad una della delega. In cui difficilmente gli ultimi saranno i primi”.
Le problematiche dunque non mancano. Irene Tinagli riassume bene
sulle pagine de La Stampa (“Grande società. L'illusione di Cameron”, 21 luglio 2010) gli snodi fondamentali della critica: “il problema che Cameron non considera o non vuol vedere è duplice. Il primo è che, se davvero lo Stato vuole stimolare e supportare degnamente le associazioni civili in tutti i settori di assistenza in cui attualmente opera, con la stessa capillarità territoriale, il costo dell'operazione non sarà inferiore al costo dello Stato attuale. La seconda (…) questione riguarda l'effettiva adeguatezza della società civile, pur grande e dinamica che sia, di raggiungere e mantenere su tutto il territorio nazionale quel livello qualitativo e quel minimo di omogeneità territoriale che serve per far crescere il Paese e attutire le diseguaglianze tra regione e regione. (…) tutti i grandi passi avanti delle società moderne (…) sono stati compiuti grazie alla capacità di investimento massivo, costante e d'avanguardia che gli Stati hanno fatto in istruzione, in ricerca, in infrastrutture, in servizi sociali che consentissero al Paese di muoversi tutto intero verso un obiettivo
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9. I critici (2): piccole imprese sociali per una grande società?
condiviso, di qualità, di competitività internazionale. Purtroppo le numerose comunità sociali che si creano a livello locale, pur avendo centinaia di pregi lodevolissimi e meritevoli di supporto, tuttavia hanno anche dei limiti intrinseci legati alla qualità dei servizi che sono in grado di fornire, alla loro capacità di visione strategica di lungo periodo e di comprensione delle dinamiche economiche e sociali globali”. E conclude sostenendo che “da questo punto di vista il problema principale della Big Society (…) è proprio quello di frammentare il Paese in un mosaico di iniziative locali che non saranno in grado di garantire omogeneità e qualità (…), accentuando le disuguaglianze che si propone di affrontare”.
Secondo alcuni giornali italiani questi timori si sono già rivelati fon-
dati proprio in Italia, nel caso della recente riforma della Social Card. Un emendamento inserito nel cosiddetto decreto “Milleproroghe” ha rilanciato la social card anche in versione privatista con l'entrata in campo degli enti A 129
“caritativi” impegnati nel volontariato. Secondo Roberto Mania (La Repubblica Affari&Finanza, “Torna la social card, una beffa con pochi fondi, gestita dai privati”, 18 febbraio 2011) “si vuole affidare anche agli enti ‘caritativi’ un pezzo della gestione della social card. Saranno loro, una volta selezionati (entro trenta giorni dall'approvazione arriverà un decreto del ministero del Lavoro), a individuare i soggetti davvero bisognosi. Un esame empirico, sul territorio. Senza i soggetti pubblici. Ma chi controllerà? Quale sarà, se ci sarà, il ruolo dei Comuni?”. E ancora Tito Boeri dalla prima pagina de La Repubblica scrive, facendo appello a un altro aspetto dell’assistenza privata: “lo Stato assegnerà la carta acquisti a imprecisati "enti caritativi" e saranno questi ultimi a dover decidere a chi dare la social card e a chi no, sottraendo questo compito ai servizi assistenza dei Comuni. (…) chi deciderà quali enti caritativi sono degni di ricevere e distribuire le carte acquisti e quali no? Nel vuoto delle nostre politiche di assistenza, mortificate ulteriormente dai tagli ai bilanci dei Comuni (…), spesso sono gli enti religiosi o associazioni culturalmente se non politicamente caratterizzate ad assistere i più poveri. Finché gestiscono risorse proprie che, in principio, dovrebbero integrare le prestazioni pubbliche, non c'è nulla di male. Ma perché obbligare un immigrato di religione musulmana a doversi rivolgere a un ente caritatevole cattolico per ricevere l' assistenza cui
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ha diritto secondo una legge dello Stato?” (“Welfare, l' inganno della carità”, 23 febbraio 2011).
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10. L’Unione Europea e la Big Society
10. L’Unione Europea e la Big Society. Ci sono state reazioni da parte delle istituzioni?
L’Unione Europea, intesa come le sue istituzioni centrali, ha dovuto
confrontarsi con la Big Society non solo a fronte delle richieste inglesi girate alla legislazione europea (eliminare la regola Ue secondo cui ogni contratto del valore superiore di 156.000 sterline deve essere pubblicizzato e soggetto a una gara d’appalto, oppure avere il via libera per impossessarsi dei fondi racchiusi nei cosiddetti conti bancari dormienti), ma anche rispetto a un generale impulso al rinnovamento del welfare che ha attraversato l’Europa in questa fase di crisi. Non era forse possibile per l’UE evitare l’argomento, in quanto la Big Society appare come una delle poche proposte concrete avanzate dai governi membri a riguardo. Agli occhi de Il Sole24Ore infatti “David Cameron rischia di trovarsi nella posizione di unico faro ideologico pienamente funzionante su scala europea” dopo che “la sinistra europea ha la febbre ancora alta” e “l'impressione è che le punte del centro-destra europeo siano impegnate nella gestione dell'emergenza piuttosto che nella manutenzione di un orizzonte ideale che possa essere fonte di ispirazione per le altre forze conservatrici” (A. Romano, “Cameron e l'equivoco della ‘big society’”, 8 otto-
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bre 2010).
In uno speciale de Il Sole24Ore dedicato alla Big Society, Paolo Venturi
evidenzia uno dei percorsi intrapresi dalle istituzioni europee per rispondere all’esigenza di ripensare lo Stato sociale. Si tratta delle proposte per un Single Market Act, esposte dalla Commissione Europea nell’ottobre 2010, in cui l’imprenditorialità sociale diviene il centro vivo di un mercato unico europeo che si rafforza dando supporto al business che “fa bene” alle relazioni sociali. Scrive Venturi: “‘Più società, meno stato’: questo era lo slogan che ha alimentato la richiesta di politiche capaci di esaltare il protagonismo in Italia dell’impresa sociale. A più di tre decenni dalle esperienze pioniere, in una fase in cui siamo chiamati a costruire un nuovo modello di welfare occorre recuperare il senso di queste parole, traducendole in una nuova stagione di politiche ‘per’ e ‘con’ l’impresa sociale. Soltanto nel momento in cui la costruzione della dimensione sociale verrà percepita non come un costo, bensì quale investimento si potrà affermare di aver messo le fondamenta per un competitivo e duraturo mercato unico. La Big society europea passa da questa sfida che non possiamo più rinviare” (“Il Single Market Act libera talenti e risorse finanziarie”, 28 novembre 2010).
Leggiamo infatti tra le proposte della Commissione Europea (“Verso
un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato altamente competitiva”, 27 ottobre 2010) la seguente idea: “n. 36: nel 2011 la Commis17
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10. L’Unione Europea e la Big Society
sione proporrà un'iniziativa per l'imprenditoria sociale intesa a sostenere e ad accompagnare lo sviluppo di progetti imprenditoriali innovativi sul piano sociale nell'ambito del mercato unico, utilizzando in particolare il rating sociale, l'etichettatura etica e ambientale, gli appalti pubblici, l'attuazione di un nuovo regime per i fondi di investimento e la raccolta del risparmio ‘dormiente’”. La Commissione europea sembrerebbe quindi venire incontro alla volontà inglese di rafforzare e finanziare il settore, ma allo stesso tempo avverte: “l'applicazione delle regole europee in materia di servizi pubblici solleva numerose questioni di ordine pratico per le autorità pubbliche competenti e alcuni operatori del settore, in particolare nell'ambito dei servizi sociali. L'Unione e i suoi Stati membri devono pertanto continuare a farsi garanti dell'esistenza di un quadro regolamentare che consenta ai servizi pubblici di compiere la loro missione e di soddisfare effettivamente le esigenze di tutti i cittadini”. Il potenziamento dell’economia sociale viene dunque inquadrato dall’UE in termini transnazionali, di mercato unico, contrariamente a quella che è la visione localistica spesso propugnata dal governo inglese.
Alla recente la notizia della conclusione della procedura di consultazio-
ne da parte della Commissione europea sul documento, potrebbe seguire una validazione anche da parte di Parlamento, Consiglio, Comitato Economico e Comitato delle Regioni delle proposte che auspicano un “rafforzamento della A 138
solidarietà mediante (…) l’accesso ai nuovi mezzi per l’economia sociale di mercato” (Guido Antolini, Milano Finanza, “Mercato unico ed economia sociale”, 25 marzo 2011).
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APPENDICE
BIG SOCIETY Gli articoli
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Appendice
10 NOV 2009 di: David Cameron
David Cameron: The Big Society
There are many things to admire about Hugo Young and his writing. The elegance of his prose. The doggedness of his curiosity. The strength of his integrity. Above all, you had to read him - he mattered. He understood that the size and role of the state was a key issue in politics and returned to it often - and that is my subject today. I want to extend and deepen the argument I made in my party conference speech this year, that the size, scope and role of government in Britain has reached a point where it is now inhibiting, not advancing the progressive aims of reducing poverty, fighting inequality, and increasing general well-being. Indeed there is a worrying paradox that because of its effect on personal and social responsibility, the recent growth of the state has promoted not social solidarity, but selfishness and individualism. But I also want to argue that just because big government has helped atomise our society, it doesn’t follow that smaller government would automatically bring us together again. Yes, there are specific instances where the very act of rolling back the state will serve to roll forward society, for example when organisations that have been dependent on the state are asked to go outside government for funding, and thereby improve their record of engaging with the public and society. But I believe that in general, a simplistic retrenchment of the state which assumes that better alternatives to state action will just spring to life unbidden is wrong. Instead we need a thoughtful re-imagination of the role, as well as the size, of the state.
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The first step must be a new focus on empowering and enabling individuals, families and communities to take control of their lives so we create the avenues through which responsibility and opportunity can develop. This is especially vital in what is today the front line of the fight against poverty and inequality: education. But I also want to argue that the re-imagined state should not stop at creating opportunities for people to take control of their lives. It must actively help people take advantage of this new freedom. This means a new role for the state: actively helping to create the big society; directly agitating for, catalysing and galvanising social renewal. So yes, in the fight against poverty, inequality, social breakdown and injustice I do want to move from state action to social action. But I see a powerful role for government in helping to engineer that shift. Let me put it more plainly: we must use the state to remake society. PROGRESSIVE VISION The size, scope and role of the state is of course the scene of a vigorous political debate. But I believe it is pointless to draw dividing lines where none exist - so I want to start my contribution with where we all agree. Ask anyone of any political colour the kind of country they want to see and they’ll say a Britain that is richer, that is safer, that is greener but perhaps most important to us all, a country that
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is fairer and where opportunity is more equal. Not far from here the incredible wealth of the City exists side-by-side with some of the poorest neighbourhoods in our country. For every tube station along the Jubilee Line, from Westminster to the East End, Londoners living in those areas lose almost an entire year of expected life. Bringing these two worlds closer is a multi-faceted endeavour: moral, social, and of course economic. Research by Richard Wilkson and Katie Pickett has shown that among the richest countries, it’s the more unequal ones that do worse according to almost every quality of life indicator. In “The Spirit Level”, they show that per capita GDP is much less significant for a country’s life expectancy, crime levels, literacy and health than the size of the gap between the richest and poorest in the population. So the best indicator of a country’s rank on these measures of general well-being is not the difference in wealth between them, but the difference in wealth within them. Of course in a free society, some people will be richer than others. Of course if we make opportunity more equal, some will do better than others. But there’s a massive difference between a system that allows fair reward for talent, effort and enterprise and a system that keeps millions of people at the bottom locked out of the success enjoyed by the mainstream. We all know, in our hearts, that as long as there is deep poverty living systematically side by side with great riches, we all remain the poorer for it. That doesn’t mean we should be fixated only on a mechanistic objective like reducing the Gini co-efficient, the traditional financial measure of inequality or on closing the gap between the top and the bottom. Instead, we should focus on the causes of poverty as well as the symptoms becau21
se that is the best way to reduce it in the long term. And we should focus on closing the gap between the bottom and the middle, not because that is the easy thing to do, but because focusing on those who do not have the chance of a good life is the most important thing to do. THE DEVELOPMENT OF THE STATE For centuries, the state expanded in order to help achieve a fairer society. This expansion took many forms. There was the passing of legislation - like the Poor Laws and Factory Acts. There was the introduction of financial help - like sickness benefits. There was the empowerment of institutions - such as local authorities being charged with clearing sums. And in one particularly progressive moment, there was the marshalling of the whole power of the state to abolish slavery. All this meant that by the eve of World War Two, central authorities were involved in setting minimum wages as well as controlling rents and helped provide unemployment insurance, pensions, and public housing. And in the immediate post-war period we saw the creation of the welfare state. Both main political parties backed a comprehensive system of social security that included universal healthcare and education, and unemployment and pensions benefits. What was the effect of this state expansion? It is difficult to be completely certain because for much of the twentieth century, research on poverty levels used inconsistent measures. But from the evidence we have, we can say with some confidence that that up until the 1930s poverty fell compared to the years before. Understandably, in the immediate aftermath of the Great Depression, poverty did begin to rise. But during the 1940s there was a fall in poverty of between ten and twenty percent compared to the 1930s. By the 1960s we are on firmer ground, as consistent statistics on household income
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began to be produced for the first time. And this data shows that between 1961 and 1968, the number of people living in severe poverty fell by 900,000 and the gap between the richest and poorest fell.
conditions for people to live the good life as they see fit.
So the evidence suggests that up until the late 1960s, the expansion of the state to advance social justice was not only well-intentioned and compassionate, but generally successful. However, even in this period, it’s important to look at the complete picture. Some state extensions helped tackle poverty, others were less effective. Some did so while encouraging responsibility and local pride at the same time others undermined these virtues. SINCE 1997 But since the immediate post-war period, the most significant extension of the state has taken place under the current Labour government. In 1997, government spending as a proportion of GDP was 38.2 percent. Next year, it is forecast to rise above fifty percent. Margaret Thatcher’s government introduced an average of 1,724 new laws every year. In 2007, Tony Blair and Gordon Brown passed a record-breaking 3,071 new laws. More than one in every three jobs created since Labour came to power have been in the public sector. Funding for the official list of quangos has grown by nearly 90 per cent. And the state and its agencies now collect and store huge amounts of information about British citizens in various databases. This trend of continuous central state expansion was not politically inevitable. Just as there is a strong liberal, civic tradition within Conservative thinking, stretching back from Edmund Burke through to Michael Oakeshott, that celebrates the small and local over the big and central, the same is true for Labour. In Hobson and Hobhouse, Labour have a rich intellectual tradition of radical liberalism, a strand of thinking that believes that the state’s role is simply to provide the 22
But this tradition lost out to another intellectual tradition, Fabianism, which was seen to best meet the perceived needs of the age. This held a more mechanistic view of the state - that it could and should command and control. And with the pressures of what Tony Blair described as a “24 hours a day, 7 days a week” news schedule, insisting that every day be fought like a general election, Fabianism offered a compelling narrative, one in which every issue demanded government intervention and every problem could be solved by a state solution. Gordon Brown’s Budgets when he was Chancellor of the Exchequer - top-down, fiddling, micro-managing - were the quintessence of this approach. BIG GOVERNMENT FAILING So did it work? Did the rapid expansion of the state since 1997 succeed in tackling poverty? Did it reduce inequality? Well, it would be churlish to deny that some progress has been made. Indeed it would be rather amazing if there had been no progress. In the past decade, public spending has doubled. Health spending has almost trebled. Since 1997 the Government has spent £473 billion on welfare payments alone - that’s as big as our whole economy in 1988. Much of this has been channelled through tax credits and income transfers and as a result, there has been a measure of success in lifting those just below the poverty line to just above it. But, quite apart from the fact that it turns out much of this has been paid for on account, creating debts that will have to be paid back by future generations; a more complete assessment of the evidence shows something different - that as the state continued to expand under Labour,
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our society became more, not less unfair.
global economy.
In the past decade, the gap between the richest and the poorest got wider. Indeed, inequality is now at a record high. The very poorest in our society got poorer - and there are more of them. The incomes of the bottom ten percent actually fell by £6 per week between 2002 and 2008 before housing costs, and £9 per week after housing costs. The number of people living in severe poverty has actually risen - not fallen, risen - by 900,000 in the past ten years.
A key part of Labour’s response to this trend has been more and more redistribution, means-tested benefits and tax credits. They have been trying to swim against the tide. But as we have seen, that approach is reaching the limits of its effectiveness - to put it mildly.
Youth unemployment has also increased - with nearly one million 16-24 year olds now out of work. And studies by the Sutton Trust indicate that social mobility has effectively stalled - people are no more likely to escape the circumstances of their birth than they were thirty years ago. If you think about it, these are astonishing facts. How is it possible for the state to spend so much money, to devote so much energy, to fighting poverty - only for poverty and inequality to win the fight? Within that broad question, however, lies a more nuanced and perhaps more interesting one. Not so much: ‘why has the state failed to tackle poverty?’ but: ‘why has the state more recently failed to tackle poverty?’ We know that for a long period of time, up until the late 1960s, the state was broadly effective at tackling poverty and reducing inequality. So why did the state start becoming broadly ineffective? A big part of the reason, in economic terms at least, lies in the global trend of rising returns to education because of new technologies and globalisation. So while people with good skills are able to benefit and indeed those who can best capture the opportunities of globalisation see rewards that are off the scale, those without are increasingly shut out of the 23
We have surely learnt that it is not enough merely to keep funding more and more generous tax credits. Indeed, the harm that means-tested benefits do to work incentives is beginning to undo the good they do in raising people’s incomes. As the Institute for Fiscal Studies observed of the Government’s approach: “Its current strategy of increasing ... [means-tested] child tax credit is effective at reducing poverty directly, but its indirect effect might be to increase poverty through weakening incentives for parents to work.” This is a vital point. We cannot separate the economic from the social, as the big government approach mechanistically tends to do. The social consequences of economic reforms do matter. It is because they include undermining personal and social responsibility that the big government approach ends up perpetuating poverty instead of solving it. So what’s the alternative? Our answer is two-fold: first, making opportunity more equal - in which education plays the key role and second, actively helping to create a stronger, more responsible society. MAKING OPPORTUNITY MORE EQUAL To begin with, we must make opportunity more equal - throughout a person’s lifecycle. That means better early years provision for the poorest families. It means better education so if families fail, children have a second chance. And it means better adult education so people without skills can lift themselves
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up later in life. This is why, consistently over the last few years, we have elevated three sets of reforms as being of pre-eminent importance in our programme: families, schools, welfare. Focus on these, and you have some prospect of standing up to those powerful global forces that lie behind rising inequality. But of course it is not simply a question of prioritisation. It is all about the approach you take. In each of these areas we plan a clean break with the current big government approach. For families, Sure Start should stay, but it must better involve voluntary bodies and charities and increase its focus on the poorest. In education, the model of state-run schools, accountable to ministers and education bureaucrats will be replaced by self-governing state schools accountable to parents, with a new pupil premium creating an incentive for the best schools to attract children from the poorest families. And in welfare, the model of payment by right will be replaced by payment by results, for both welfare recipients and welfare to work providers; and we will extend help to the long-term unemployed left on the scrapheap by Labour. And we also have significant ambitions for changing the benefit system. We have set out plans to end the couple penalty in the tax credits system by increasing working tax credits for couples who stay together. As we end the couple penalty, there will be an immediate benefit - the poorest couples with children will gain, on average, £1500 a year, lifting up to 300,000 children out of poverty. But there are longer-term benefits too. By incentivising responsible behaviour, the state sends an important signal about 24
families staying together so more children have a better start in life. It is a clear example of our aggressively pro-family, pro-commitment, pro-responsibility approach. SELFISHNESS AND IRRESPONSIBILITY This emphasis on responsibility is absolutely vital. When the welfare state was created, there was an ethos, a culture to our country - of self-improvement, of mutuality, of responsibility. You could see it in the collective culture of respect for work, parenting and aspiration. You could see it in the vibrant panoply of civic organisations that meant communities looked out for one another; the co-operatives, the friendly societies, the building societies, the guilds. But as the state continued to expand, it took away from people more and more things that they should and could be doing for themselves, their families and their neighbours. Human kindness, generosity and imagination are steadily being squeezed out by the work of the state. The result is that today, the character of our society - and indeed the character of some people themselves, as actors in society, is changing. There is less expectation to take responsibility, to work, to stand by the mother of your child, to achieve, to engage with your local community, to keep your neighbourhood clean, to respect other people and their property, to use your own discretion and judgement. Why? Because today the state is everpresent: either doing it for you, or telling you how to do it, or making sure you’re doing it their way. We can see it most starkly when it comes to children. Through a range of measures
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aimed at protecting children, the state is actually making them more vulnerable.
for free.
The Independent Safeguarding Authority was established to stop children coming into contact with dangerous adults, but by forcing responsible adults to go through the rigmarole of a vetting procedure it will actually reduce the amount of care and love in children’s lives as adults will give up volunteering to help children. The benefit system was weighted to help single parents the most, but by encouraging parents to live apart it denies children a stable family home. The tick box inspection regime was designed to improve the quality of social work, but by stopping trained professionals from using their discretion and judgement it has harmed children instead of helping them. The big government approach has spawned multiple perverse incentives that either discourage responsibility or actively encourage irresponsibility. Far too many of the people I see in my constituency surgery are, thanks to the state, financially better off if they do the wrong thing than if they do the right thing. A couple with no children where the head of the family works sixteen hours a week at minimum wage would be better off if they both just claimed benefits. Parents with a disabled child could have more money if they put that child into residential care than if they looked after them at home. The pensioner who has saved their whole life gets little or no pension credit, but the person who hasn’t saved gets their income topped up. And the elderly person who has saved, bought a house and has assets of more than £23,000 has to pay for residential care, sometimes by selling their home, whereas someone who didn’t save gets it 25
This is where the moral failure of the big government approach is most evident. We hear the Prime Minister talking about his moral compass. But when you are paid more not to work than to work, when you are better off leaving your children than nurturing them, when our welfare system tells young girls that having children before finding the security of work and a loving relationship means a home and cash now, whereas doing the opposite means a long wait for a home and less cash later; when social care penalises those who have worked hard and saved hard by forcing them to sell their home, rather than rewarding them by giving them some dignity in old age; when your attempts at playing a role in society are met with inspection, investigation, and interrogation, is it any wonder our society is broken? In this world where state control is a substitute for moral choice and personal responsibility, obligation and duty are in danger of becoming dead concepts instead of living value systems. What has come to matter most is not our place in wider society, but our own personal journey and our right to pursue our own happiness regardless of others around us. In the words of Phillip Blond, director of ResPublica: “the state ... has dispossessed the people and amassed all power to itself ... This centralisation of power has made people passive when they should be active and cynical when they should be idealistic. This attitude only makes things worse the more people think they can’t make a difference, the more they opt out from society.” And here lies the rub. The paradox at the heart of big government is that by taking power and responsibility away from the individual, it has only served to individuate them. What is seen in principle as an act of
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social solidarity, has in practice led to the greatest atomisation of our society. The once natural bonds that existed between people - of duty and responsibility - have been replaced with the synthetic bonds of the state - regulation and bureaucracy.
vely”.
STATE RETRENCHMENT
Well I think we can all agree with that. Of course the state should be smart. Of course it should be strategic. But isn’t this the very least we should expect from government? I think we should expect an awful lot more.
So how do we turn things around?
RE-IMAGINED ROLE FOR THE STATE
Some on the centre-right have argued that the answer to the failures of big government is a simple retrenchment of the state. That government should step back and give space for an organic and unprompted flourishing of personal responsibility and civic renewal.
Our alternative to big government is not no government - some reheated version of ideological laissez-faire. Nor is it just smarter government. Because we believe that a strong society will solve our problems more effectively than big government has or ever will, we want the state to act as an instrument for helping to create a strong society.
But I’m not sure that is right. Just because big government has undermined our society, it does not follow that retrenchment of the state will automatically trigger its revival. As Francis Fukuyama has said: “There is a certain assumption that civil society, once having been damaged by the excessive ambition of government, will simply spring back to life like brine shrimp that have been freeze-dried, and now you add water to them and they become shrimp again. It is not something that you can take for granted.” SMART, STRATEGIC STATE Another alternative has come from the centre-left - what Peter Mandelson described in this lecture last year as a “smart, strategic state”. He said it should be one that uses “existing resources better, connecting up different parts of the government charged with this work and asking what we can do more”. He made the case for government to “steer and shape the networks and institutions of a globalised economy and society” so it could better “manage the system so as to minimise and deal with the shocks”. And he argued for active policy to ensure “markets function effecti26
Our alternative to big government is the big society. But we understand that the big society is not just going to spring to life on its own: we need strong and concerted government action to make it happen. We need to use the state to remake society. REDISTRIBUTING POWER The first step is to redistribute power and control from the central state and its agencies to individuals and local communities. That way, we can create the opportunity for people to take responsibility. This is absolutely in line with the spirit of the age - the post-bureaucratic age. In commerce, the Professor of Technological Innovation at MIT, Eric von Hippel, has shown how individuals and small companies, flexible and able to take advantage of technologies and information once only available to major multinational corporations, are responding with the innovations that best suit the needs of consumers. This year’s Nobel Prize winner in Economics, Elinor Ostrom, has shown through her life’s work how non- state collective action
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is more effective than centralised state solutions in solving community problems. So I am confident that a major redistribution of power can really help us tackle our stubborn social problems and our three key approaches will be decentralisation, transparency and accountability. Our plans for decentralisation are based on a simple human insight: if you give people more responsibility, they behave more responsibly. So we will take power from the central state and give it to individuals where possible - as with our school reforms that will put power directly in the hands of parents. Where it doesn’t make sense to give power directly to individuals, for example where there is a function that is collective in nature, then we will transfer power to neighbourhoods. So our new Local Housing Trusts will enable communities to come together, agree on the number and type of homes they want, and provide themselves with permission to expand and lead that development. Where neighbourhood empowerment is not practical we will redistribute power to the lowest possible tier of government, and the removal of bureaucratic controls on councils will enable them to offer local people whatever services they want, in whatever way they want, with new mayors in our big cities acting as a focus for civic pride and responsibility. This decentralisation of power from the central to the local will not just increase responsibility, it will lead to innovation, as people have the freedom to try new approaches to solving social problems, and the freedom to copy what works elsewhere. A necessary counterpart to decentralisation is greater transparency.
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That’s because information is power, so by giving people more information we give them more power. This is true internationally, where our plans for aid transparency will allow poor people in developing countries to see whether what has been promised is being delivered. And it’s true back home, where our plans to publish details of all central and local government spending will not only provide a powerful check on waste, they will help open up the provision of state services to small businesses, social enterprises or charities as they see what is being done by the state and how they could do better. The third element of the power shift we want to see is accountability. Today, the relationship between the state and the people it is trying to help, especially the poorest, is top-down, adult-tochild, unaccountable. Here is what we will do for you, take what you’re given and be grateful for it. No. This must change. We will require the people and organisations acting for the state to be directly accountable to the people they are supposed to serve. They will have to stop treating them like children and start treating them like adults. A good example is our plan to require the police to hold local beat meetings so people can challenge the police, face to face, about their crimefighting performance, or lack of it. Through decentralisation, transparency and accountability we can give people power over the services they use, over the way their tax money is spent, over how their local area is run. But the state must go further than enabling these opportunities. It must actively help people take advantage of them. Our enabling reforms depend for their success on a social response: and that is not something we can leave to chance.
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How do we get parents to come forward and demand new schools in their area? How do we make sure people actually go to beat meetings and use them to put pressure on the police? How do we find successful social programmes and make sure they’re introduced everywhere there is a need? In other words, how do we guarantee that the big society advances as big government retreats? HELPING CREATE THE BIG SOCIETY This, then, is our new role for the state. Galvanising, catalysing, prompting, encouraging and agitating for community engagement and social renewal. It must help families, individuals, charities and communities come together to solve problems. We must use the state to remake society. We must use the state to help stimulate social action. STRATEGY FOR SOCIAL ACTION Social action is already a core part of modern Conservatism. When I was elected leader of the Conservative Party, I asked our Parliamentary Candidates to undertake social action projects in their constituencies. Today, there are now around 150 of these projects up and down the country. But if we win the election, the role of social action will be transformed. It will become a core part of our policy agenda, because unless we stimulate social action, we will not create the responsible society that is vital for the success of our policies. Our efforts will focus on three groups. SOCIAL ENTREPRENEURS First, we will identify and work directly with the social entrepreneurs who have the capacity to run successful social programmes in communities with the greatest needs.
Social entrepreneurs like Debbie Scott, whose fantastic organisation Tomorrow’s People is celebrating its twenty-fifth anniversary today and who I am delighted to say we are nominating to join the Conservative team in the House of Lords. At the moment, the work of social entrepreneurs is disparate.For over a decade, those working in the field have complained about the challenge of growing and replicating successful social programmes. For example, the Lighthouse Group has a proven track record in getting young people who have gone off the rails and been excluded from school back on track with mentoring and education. But at the moment, the amazing work of this group is confined to just four cities. This is the precisely the sort of thing we need to spread across the country. So we will identify proven social programmes, franchise them to social entrepreneurs with a track record of success and fund them directly from existing state budgets to deliver public services - the same kind of approach we are applying in school reform. If we find the right people, a relatively small number can make a huge difference. In America, two thirds of all new job growth is created by less than one percent of the population, the fast growth economic entrepreneurs. It can be the same with social enterprise and social wealth here. COMMUNITY ACTIVISTS The second group of people we need to engage in our social action strategy are those I would describe as community activists. Unlike social entrepreneurs, they do not play a formal role in their communities, they don’t have the time or inclination to run a social programme with all the
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responsibility that involves, but they do want to help.Running parents groups, organising beat meetings with the police, getting people together in a front room to discuss ways to improve the neighbourhood. All this goes on today, but not enough. We need more community activism, and more community activists. But again, it would be naïve to think this will happen quickly enough on its own. The state has an important role to play. As Archon Fung, Professor of Democracy and Citizenship at Harvard University, has said: “centralised support” has a vital role in “providing training and other supports... often necessary for local actors to exploit” new opportunities. Our experience of social action in opposition has shown us the importance of this. People need help to start up even the smallest projects, get the information they need, understand the dynamics of social activism. This is already happening elsewhere. Chicago’s Alternative Policing Strategy has engaged some of the city’s most deprived neighbourhoods in local policing strategies, leading to a significant reduction in crime. And the Harlem Children’s Zone in New York has created block captains who have not just made that area safer and a better place to live but also helped set up new schools. This is exactly the kind of social action we will stimulate here. MAJORITY OF THE POPULATION But the third piece of the jigsaw is much harder. Social entrepreneurs and community activists already exist, they want to do more, and we will help them do it. But the big society also needs the engagement of that significant percentage of the population who have no record of getting invol29
ved - or a desire to do so. The big society demands mass engagement: a broad culture of responsibility, mutuality and obligation. But how do we bring this about? Of course there are no easy answers, short cuts, or simplistic levers we can pull. But there are lessons we can learn from the latest academic research which shows how government, by going with the grain of human nature, can better influence behaviour. The behavioural psychologist Robert Cialdini argues that one of the most important influences on how we behave are ‘social norms’ - that is, how other people behave. Cass Sunstein and Richard Thaler have argued that with the right prompting, or ‘nudge’, government can effect a whole culture change. It needn’t even involve government doing anything. For example, if Facebook simply added a social action line to their standard profile, this would do more to create a new social norm around volunteering or charitable giving than any number of government campaigns. We can also learn from evidence that physical connection is paramount in building trust and strong communities. In a big state bureaucracy, where everything is distant and removed, it is hard for trust to grow. That’s why we want to build up strong local institutions which are tangible and where people - literally - come together to meet and mingle. So we will strengthen civic institutions that already exist - like local shops, the post office and the town hall. But we can also create new ones. Our plan for National Citizens’ Service will bring together sixteen year olds from
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across the country in a three-week programme where they can learn what it means to be socially responsible, to serve their community, and to get on and get along with people from different backgrounds.
We will feel it in the strength of our relationships - the civility and courtesy we show to each other.
I hope it will help inspire social action and co-operation amongst a new generation of teenagers. CHANGING WHITEHALL This new role for government means a new role for Whitehall too - and new skills for civil servants. They need to become civic servants. We need people capable of engaging with social entrepreneurs and civic institutions who can agitate and encourage social action, and help people to build the type of sustainable organisations we need. And if we are to break the culture of charities and social bodies being dependent on the state for hand-outs we need to look at how government can use loans alongside grants to help make them more sustainable and effective, an approach already being used by funders like Acumen Capital in the States and the Young Foundation here in Britain.
Just as we have felt this coarsen in the past decade, so I believe we will feel it change for the better in the years ahead. And we will feel it in our culture - a new can-do and should-do attitude where Britons once again feel in control of their lives. This is not the work of one parliamentary term, or even two. Culture change is much harder than state control. It will take more than a generation. But it is because I believe the appetite for change is there that I know that change will come. The era of big government has run its course. Poverty and inequality have got worse, despite Labour’s massive expansion of the state. We need new answers now, and they will only come from a bigger society, not bigger government. That’s why it’s now clear to me that the Conservatives, not Labour, are best placed to fight poverty in our country.
CONCLUSION What I have spoken about today combines optimism about the potential for social renewal with realism about the role of the state in fighting poverty and inequality. If we stick the course and change this country then we will have a national life expanded with meaning and mutual responsibility.
url: http://www.conservatives.com/News/Speeches/2009/11/David_Cameron_The_Big_Society.aspx Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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19 LUG 2010 di: Gerald Warner
Dave’s Big Society is not a top-down-project that’s why it was launched by the Prime Minister Of all the Blairesque chimeras pursued by David Cameron, none has more the resonance of a political epitaph than “Big Society”. Since very few people became aware of it during the course of the general election campaign, a skilful politician would have allowed it to fall into desuetude; but Dave, with that streak of selfdefeating stubbornness that those of us who detest his policies find highly encouraging, is pressing on with this scam. He has now launched it in Liverpool, with a generous infusion of the prolific Daveguff to which we have become accustomed: “It’s my hope – and my mission – that when people look back at this five, 10-year period from 2010, they’ll say: ‘In Britain they didn’t just pay down the deficit, they didn’t just balance the books, they didn’t just get the economy moving again, they did something really exciting in their society.’ ” Sorry, Dave, that is not what people will be saying when they look back at your time in government: they will be saying something very similar, though more venomous, to what they are currently saying when they look back on the Blair/ Brown years; but, after all, as the Heir to Blair, presumably you would wish to share his legacy, so you will not have a problem with that. The important thing to know about Big Society is that it is not a top-down exercise; that is why it is being launched by – er – the Prime Minister. It will be funded by state confiscation of private bank accounts in which there has been no activity for 15 years, thus creating the Big Society 31
Bank to redistribute this wealth (they had something similar in Moscow from 1917 to 1990). If you feel there is not a lot voluntarist about this, remember that the Big Society blueprint acknowledges Marxist revolutionary Saul Alinsky as its first begetter; but it has had a thorough bluerinse to sanitise it and it is now reassuringly Conservative Marxism. Supporting Dave in launching this exciting new vision was television executive Phil Redmond, whose name speaks for itself, being synonymous with all things voluntarist and free-market, as the Thatcherite tenor of his television dramas has long testified. Four areas have been selected as “vanguard” (a good Trotskyite term, that) regions for enhanced voluntary activity. That enhancement will be enforced – sorry, facilitated – by dedicated civil servants, because this is not a top-down exercise. Officials will identify local residents with particular aptitude to participate in Big Society projects and will train them as community organisers, because this is not a top-down exercise. There will eventually be 5,000 community organisers – the instruments Alinsky defined as crucial to promoting revolution, except that this will be a Compassionate Conservative revolution and therefore a good thing, particularly since it is not a top-down exercise. Anybody who is concerned that this free-wheeling experiment in local initiative could get out of hand will be reassured to know that neighbourhood “group leaders” will be equipped with a code of conduct that “will protect neighbourhood groups against extremist causes”. So there will be no danger of infiltra-
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tion by the Turnip Taliban, UKIP voters or climate deniers. Civil servants will have their contribution to community organisation taken into account in their career assessments, which will motivate them to take part, in the classic spirit of voluntarism. Windsor and Maidenhead, one of the privileged Potemkin villages already selected, is already experimenting with a scheme of financial incentives (note the truly voluntarist character of this initiative) to induce residents to improve recycling rates. Some of you may feel that this is not quite how your existing voluntary organisations – your local tennis club, the WRI, the Boy Scouts – came into existence; but these are changed times and Dave needs an appropriate legacy. That will not be provided by groups of undisciplined enthusiasts in different parts of the country getting together to do their own thing, as has happened too often in the past. When Dave gets round to launching his Contract with Britain we shall have a National Citizen Service for every 16-year-old “to help bring the country together”. Nobody has any time for this absurd scheme, except politicians and civil servants. It will crash and burn, like the rest of Dave’s fantasy programme; but you have to give it one thing – at least it is not a top-down project.
url:http://blogs.telegraph.co.uk/news/geraldwarner/100047805/daves-big-society-is-not-a-top-downproject-thats-why-it-was-launched-by-the-prime-minister/ Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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16 FEB 2010 di: Nichoilas Timmins
New ways to prop up old concept hard to find
What has been announced? The Conservatives have entered - or more accurately re-entered - a crowded political field by advocating co-operatives, or social enterprises, to run public services. The Liberal Democrats have long favoured social enterprise and for the better part of a decade Labour has been encouraging the idea, but with decidedly patchy results. What are the Tories proposing? Allowing public sector staff, whether community nurses, teachers or those in job centres or social work, to quit public sector employment while contracting their services back as a not-for-profit social enterprise or John Lewis-style co-operative. Staff would, at least initially, be barred from taking assets with them and they would have to comply with national standards. The move is intended to unleash creativity among staff, who could set their own pay rates, with co-ownership producing more commitment and willingness to tackle poor practice. Joint ventures with private sector partners would be permitted. What do critics say? Some will argue this is no different to Labour’s policy of allowing NHS staff a “ right to request” to form a social enterprise - an approach that, 18 months in, has seen only some 20 groups of workers reach that stage of the process.
Social enterprises have been successfully spun out of some parts of local government - including social care and social housing, with about 30 per cent of leisure services now run by social enterprises. But despite the existence of a £100m fund and a social enterprise unit in the health department for more than three years, progress with spin-outs - as opposed to the creation of small, new health and social care enterprises which then contract to provide taxpayer-funded services - has been snail-like. Access to capital is a recurring problem. And in the NHS, only recently has it finally been agreed that staff who transfer - though not new recruits - can stay in the NHS pension scheme which is worth about 25 per cent of pay. The public sector unions such as Unison and Unite are actively opposing social enterprises running public services, arguing it will lead to privatisation by the back door as social enterprises lose the service when it is retendered. FT verdict Like motherhood and apple pie, it is easy to be in favour of social enterprise. Its role has been slowly growing. But Labour has found it hard to find top-down levers to support the bottom-up initiative that staff need to get a business going. It is not clear the Conservatives have any new ones to offer.
url:http://www.ft.com/cms/s/0/c07c9372-1a99-11df-bef7-00144feab49a.htmlt-a-top-down-projectthats-why-it-was-launched-by-the-prime-minister/ Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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13 APR 2010 di: Nicholas Timmins
Tories claim good government will cost less
David Cameron on Tuesday launched the Conservative party manifesto by echoing John F. Kennedy’s famous challenge to Americans “ask not what your country can do for you, ask what you can do for your country”. Promising a “big society” in place of “big government” Mr Cameron said Britain can deal with its debts but “only if millions of people are fired up to play their part”. The manifesto, dubbed an “invitation to join the government of Britain”, offers the chance for local parents and teachers to take over schools and set up new ones, for millions of public sector workers to set up co-operatives and sell their services back to the state, for local people take over parks and local facilities, and for them to have a veto over council tax rises. Mr Cameron promised “a change from one political philosophy to another”. From the role of the state being to “direct society and micro-manage public services” to the idea that it is there “to strengthen society and make public services serve the people who use them”. Good government would cost less under the Conservatives, he claimed, because public sector workers would themselves find ways to run services cheaper, and because the publication of all government spending would mean the population will demand that waste is cut out and local communities “will solve the social problems that cause spending to rise in the first place”.
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Directly challenging Margaret Thatcher’s famous quote that “there is no such thing as society”, Mr Cameron said there was such a thing, but that “it is not the same as the state”. The state, however, needed to be the enabling partner of “the big society”, he said, not its micro-manager. But while large on the way the Conservatives want to change the way government and society works, neither Mr Cameron’s speech nor the manifesto provides any fresh detail about how the Conservatives intend to cut the deficit. Instead its detailed policies include the already well-trailed proposals for a tax break that would give £150 a year to about a third of married couples; an increase in the inheritance tax threshold to £1m; a promise to cut immigration to 1990s’ levels; the threat that people who refuse a reasonable job offer could lose their benefit for “up to three years”; and a quango cull that will see ministers taking back decisions now made by arms’ length bodies. The Conservatives pledge to increase NHS spending each and every year and to scrap the “politically motivated” targets for waiting times and services, while getting family doctors to commission care with an independent board running the NHS at national level. The party’s radical plans to let parents and teachers assume control of schools and run new ones were confirmed, while the manifesto also seeks “a mandate” to negotiate with the European Union for the return to the UK of powers on human
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rights, and social, employment and criminal justice legislation. A Tory government will legislate to ensure that any future transfer of powers to the EU requires a referendum, the manifesto says. Labour and the Liberal Democrats rounded on the package. Alan Johnson, the home secretary, said it was about “the abandonment rather than the empowerment of individuals” while Nick Clegg, dubbed the Conservative’s “big society” as a “DIY society”. Copyright The Financial Times Limited 2011. You may share using our article tools. Please don’t cut articles from FT.com and redistribute by email or post to the web.
url: http://www.ft.com/cms/s/0/9314ebdc-46e5-11df-bb5a-00144feab49a.html#axzz1LZ3EfvAe Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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08 SET 2010 di: Giuseppe Frangi
Un Cameron per l`Italia
Primo, la Big Society non può essere frutto di un laboratorio o di un think tank. Ferrera nel suo intervento parla in più di un punto della «creazione di una società civile ben funzionante». Non c’è alchimia istituzionale né culturale che possa “creare” una realtà come quella auspicata. Il compito della politica semmai è quello di incoraggiare delle realtà in atto, di sostenerle nella crescita, nel lasciare loro spazio. La Big Society se nascerà (nel senso che diventerà “big,” perché in quanto “society” già esiste, eccome se esiste...), sarà esito di una spinta vitale che sale dal basso, di esperienze consapevoli, di passione condivisa rispetto alla realtà e ai problemi che presenta. Secondo, la Big Society proprio perché non è prodotto di laboratorio, non sarà una realtà neutra, asettica, universale. Sarà un insieme di realtà con fisionomie ben definite e ben chiare. Non c’è espressione compiuta della società civile che non faccia leva su un ideale, su una visione del mondo e della vita. In forza di questo ideale agirà poi in direzione di un bene comune. Sarà cioè una realtà libera e insieme aperta. Ma guai a privarla del suo volto, a slegarla dalla sua storia e dalle sue ragioni.
problema si presenti davanti alla nostra vita, avremo molte probabilità di imbatterci in realtà non profit pronte a darci una risposta. Il problema quindi è che queste realtà prendano piena consapevolezza della propria decisiva funzione davanti ad uno stato sempre più in affanno. Che ne nascano di nuove. Che tutte s’incamminino con coraggio sulla strada della crescita. Per spingerle non c’è bisogno di grandi alchimie istituzionali. Per iniziare bastano alcune decisioni semplici, ma che contengono chiare indicazioni sulla direzione che si vuole percorrere. Ad esempio, se si stabilizzasse finalmente la legge del 5 per mille, semplice meccanismo di sussidiarietà fiscale che ha dimostrato di funzionare benissimo, sarebbe già un passo verso la Big Society.
Infine: realtà come queste non c’è bisogno di crearle, in quanto già esistono. Nell’assistenza, nella ricerca, nell’educazione e formazione. Inutile stare ad elencarle, ma ovunque ci si giri, qualunque url: http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2010/9/8/Un-Cameron-per-l-Italia/2/111206 Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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28 SET 2010 di: Giulio Napolitano
Se il funzionario cambia cultura
La pubblica amministrazione è una struttura complessa. Evolve nel tempo in modo spesso invisibile. Solo in parte le sue trasformazioni sono la conseguenza d’interventi diretti di riforma, anche perché le resistenze interne all’innovazione possono risultare molto forti. Più profondi, invece, sono gli impulsi al cambiamento che provengono dal contesto istituzionale, economico e sociale in cui l’amministrazione opera. Tra questi, particolare importanza assumono quattro fattori. Identificarli correttamente può essere utile per promuovere gli opportuni adattamenti nell’organizzazione e nell’azione amministrativa. Il primo impulso al cambiamento deriva dall’internazionalizzazione di molte politiche pubbliche. Il ruolo degli stati è ancora insostituibile, ma fondamentale diventa la capacità di farne valere gli interessi in sede internazionale. Ogni struttura pubblica, dunque, dovrebbe imparare a sviluppare una propria strategia di cooperazione a livello europeo e globale, per massimizzare i vantaggi che da ciò possono essere tratti in sede nazionale. La seconda causa di trasformazione è la moltiplicazione dei rapporti centroperiferia. Il tema della collaborazione tra diversi livelli di governo è diventato fondamentale, con lo sviluppo del federalismo amministrativo e poi di quello fiscale. Se ai poteri locali compete la gestione diretta di un numero crescente di servizi sul territorio, le amministrazioni centrali hanno il delicato compito di verificare costi e di misurare prestazioni al fine di facilitare i confronti e di assegnare risorse perequative in modo equo ed efficiente. 37
La trasparenza dei dati e delle misure che producono effetti interistituzionali assumono così una rilevanza ignota nel vecchio ordinamento decentrato della Repubblica. Il terzo fattore di stimolo è la pressione del mercato. Nonostante liberalizzazioni e semplificazioni, l’amministrazione continua a interferire con una moltitudine di decisioni imprenditoriali, spesso condizionandone i tempi e gli esiti. Il ruolo di regolazione e di controllo dell’amministrazione, naturalmente, non può essere ridotto oltre un certo limite, se si vogliono prevenire gravi “fallimenti del mercato”. Ma in uno scenario economico così profondamente mutato, nel senso di una elevata competitività nazionale e internazionale, la pubblica amministrazione deve assicurare, ben più di prima, rigore di valutazione, rapidità di deliberazione, imparzialità delle decisioni. Il quarto impulso all’innovazione proviene dalla società. Il principio di sussidiarietà orizzontale introdotto con la riforma costituzionale del 2001 invita i pubblici poteri a promuovere l’autonoma iniziativa dei cittadini nello svolgimento di attività d’interesse generale. L’indicazione potrebbe diventare ancora più stringente nel prossimo futuro. Il “dimagrimento” dello stato indotto dalle necessarie misure di risanamento della finanza pubblica e da eventuali opzioni politico-ideologiche in favore della “big society” è destinato ad accrescere il ruolo dei privati nella produzioni di beni e servizi collettivi. Questa trasformazione, tuttavia, non potrà avvenire semplicemente mettendo da
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parte l’amministrazione. Questa, invece, dovrà svolgere un inedito e difficile ruolo di “facilitatore” dell’iniziativa privata. Tutte queste sfide possono essere affrontate dalla pubblica amministrazione soltanto con un profondo cambiamento culturale e con una diversa formazione professionale dei suoi funzionari. In una realtà come quella italiana, naturalmente, le competenze giuridiche rimangono fondamentali. Lo studio del diritto amministrativo, però, deve essere integrato con quello del diritto comunitario e del diritto internazionale, che ormai definiscono le teste di capitolo di molti istituti giuridici nazionali. L’insegnamento del diritto, inoltre, deve svolgersi non ex cathedra, ma prospettando problemi ed esaminando soluzioni alternative. Soltanto così i funzionari pubblici possono imparare a fare scelte strategiche entro il quadro di vincoli e d’incentivi dati dall’ordinamento. Infine, le conoscenze giuridiche devono accompagnarsi a quelle economiche e di scienza dell’amministrazione, per meglio valutare presupposti e conseguenze delle decisioni pubbliche, sia nei rapporti con gli altri livelli istituzionali, sia nelle relazioni con le imprese e i cittadini. Una buona formazione, in conclusione, gioca un ruolo fondamentale nel promuovere gli opportuni adattamenti dell’amministrazione a un mondo che (la) cambia.
url: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-09-28/funzionario-cambia-cultura080508.shtml?uuid=AY4iHPUC&fromSearch Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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21 FEB 2011 di: Nicholas Timmins and Jim Pickar
Cameron scraps idea of quotas in service provision
David Cameron has scrapped the idea of a fixed proportion of public services having to be delivered by the private and voluntary sectors, even as he underlined his determination to end the public sector “monopoly” of provision. In an article in the Daily Telegraph on Monday, the prime minister promised that a forthcoming public services white paper would “create a new presumption . . . that public services should be open to a range of providers competing to offer a better service”. That would be “backed up by new rights for public service users, and a new system of independent adjudication” to ensure that happened. In future, he said, “the state will have to justify why it should ever operate a monopoly” not just in education and health but elsewhere. However, Whitehall sources said that did not – as it seemed to imply – involve the creation of a new statutory regulator to enforce the “presumption” of diversity of supply. It emerged that the government had scrapped the idea of setting targets or quotas for private and voluntary involvement in public service delivery.
social care, early years, community health, pathology, youth, court and tribunal services. On Monday, however, Whitehall sources confirmed that the idea of quotas had been dropped, not least because – as lawyers warned – it looked likely to fall foul of competition law. While both Mr Cameron and his Liberal Democrat deputy, Nick Clegg, are determined that the state “does not have to be the default provider”, as the spending review put it, there are tensions over the extent to which that means traditional privatisation. There are also disagreements over how much more emphasis will be placed on the use of the voluntary sector and the promotion of mutuals – where staff leave the service to sell their services back through social enterprises. One Whitehall figure said: “If this becomes just about traditional privatisation, it will collapse pretty quickly.” Nonetheless, Brendan Barber, the Trades Union Congress general secretary, branded Mr Cameron’s words as “a naked rightwing agenda that takes us right back to the most divisive years of the 1980s”.
That idea was set out in last October’s comprehensive spending review, which said the government would “look at setting proportions of appropriate services across the public sector that should be delivered by independent providers”.
“The prime minister has been telling us that the cuts are sadly necessary, not a secret political project to destroy public services. Yet today’s proposal to privatise everything that moves is exactly the kind of proposal that voters would reject if put at an election,” he said.
It said it would explore the idea first in 39
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Some parts of Whitehall said the ideas in the forthcoming white paper had been “overhyped” by Number 10. The white paper will set out a presumption that the state will have to explain why it should be allowed to operate as a monopoly. But the NHS legislation already creates a new regulator with a duty to promote competition, “where appropriate”, along with the ability of “any willing provider” to bid to supply NHS care. In education, parents can set up “free” schools – although for now, for-profit ones have been ruled out. The localism bill contains provisions on competition in local government services. Francis Maude, the Cabinet Office minister, is promoting the “right to provide” – for staff to form mutuals – across almost all of the public sector, including prisons, probation, social security and social work. According to Whitehall sources, the “principle of diversity” will be applied in different ways in different parts of the public sector, without the introduction of unifying legislation to achieve that.
url: http://www.ft.com/cms/s/0/95150620-3dfb-11e0-99ac-00144feabdc0.html Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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10 FEB 2011 di: Nicholas Timmins
Maude backs private role for public services
Francis Maude, the cabinet office minister, has a vision in which hundreds of thousands of civil servants, NHS and council staff quit their jobs and sell their services back to the public sector as social enterprises. More than 20 pilot schemes have received the backing of a wide range of mentors, including the John Lewis Partnership, PwC and the Office for Public Management. His “poster people”, he says, are Central Surrey Health, the 650 nurses and therapists who four years ago took a £1 notfor-profit share apiece, forming a mutually owned business. Jo Pritchard and Tricia McGregor, former directors at the local primary care trust and founders of the business, sing the praises of the innovations the staff, as co-owners, have felt free to implement as costs are cut and awards are won for their services. But while they are cautious about biting the hand that feeds them, it is clear that their relationship with their primary purchaser – the cash-strapped local primary care trust – has not been easy. It has expected the business to hand back much of the savings Central Surrey Health has made. While the business made a small surplus each year and diversified – winning some school contracts, for example – it still looks fragile, with less than a month’s wages
as a reserve. In spite of being, in theory, a freestanding business, it has felt the need to get the PCT’s agreement to try to raise that reserve. Ed Mayo, secretary-general of Co-operatives UK and a member of Mr Maude’s task force aimed at encouraging these new mutuals, says such organisations need development capital just like any other business. It is not always easy to come by. “And there is a tension that if you want to build your reserves to more than a month’s wages, and you essentially have just one purchaser for the service, then it is taxpayers’ money that is being used to do that. “But what you need to do is build organisations like this into proper freestanding businesses over five to 10 years. Taxpayers’ money will have to go into that.” Mr Mayo, a long-time advocate of social enterprise, says he is “very positive” about the coalition’s programme. It is doing the right thing in giving people the right to bid for business, rather than try to mandate change, he believes. But he acknowledges that most mutuals – whether co-ops or building societies – have grown from the ground up. “It is far from straightforward to have a top-down [government] programme to start bottom-up enterprise,” he says.
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22 LUG 2010 di: -
The big society: second invitation
David Cameron puts muscle into his favourite theme POLITICIANS of the young and slick variety are often accused of dressing up hollow ideas in alluring language. David Cameron, PR man-turned-prime minister, found a way of giving a promising set of ideas a lousy name. The “big society” was his theme for this year’s general election campaign. As a sign of how well it went down with voters, he now has to share power with the Liberal Democrats. A baggy concept that quickly came to mean too many things, the big society is really about giving power away. Traditionally, this meant beefing up Britain’s impotent local authorities. But Mr Cameron wants to push power further down, to the “nano” level. This vision sees parents helping to set up new schools, public-sector workers running their own services as co-operatives, and small groups of people volunteering on local projects. The Conservative election manifesto was an “invitation to join the government of Britain”. Whatever its faults as a political message, and however fanciful its vision of a renaissance of voluntarism, Mr Cameron was never going to ditch the big society. A politician who usually struggles to strike any tone other than a very English reasonableness, he becomes animated when talking about society. His nearest lieutenants see decentralisation as the whole point of this government, aside from the necessary evil of fiscal austerity. The minister for decentralisation, Greg Clark, has a bigger job than some cabinet secretaries. Sure enough, Mr Cameron revisited the theme in a speech on July 19th. He announced that four eager local councils 42
would be laboratories for centrifugalism: Liverpool, where he spoke, plus Eden Valley in Cumbria, and the south-eastern authorities of Sutton, and Windsor and Maidenhead. Some of the planned projects seem fiddly—community buyouts of pubs, for example, and public consultation on spending decisions—but ministers insist that this is just the beginning. And even small schemes, if they multiply across the country, can add up to a culture change. David Miliband, the slight favourite to win the Labour Party’s ongoing leadership contest, openly mourns the last government’s failure to trust people more. Still, most of his colleagues dismiss the big society as modish decoration for an oldfashioned zeal to cut public spending. In fact, the Tories, who were keen on decentralisation long before the fiscal crisis, do not expect it to save any money. Their goal is to make services better by involving the people who use them and, in the process, to build social bonds among them. Mr Cameron’s speech elucidated the role of government in all this. Although one of his better tropes distinguishes the state from society, he wants the former to cultivate the latter. The government will use money from dormant bank accounts to set up a Big Society Bank, which will finance voluntary activities. The four pilot councils will receive bespoke help from Whitehall officials. And the state will help identify and train community organisers. The depiction of the big society as laissezfaire by another name seems wrong.
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There are more wounding criticisms of the vision, though. The solution to overcentralisation may be localism proper, rather than the avant-garde ideas that grip the prime minister and his court. It is hard to think of comparable countries that are run in as diffuse and communal a way as the Tories hope to see in Britain. Ministers admit that the closest equivalent to their planned giveaway was France’s quite conventional devolution of power to local mayors in the 1980s. The Tories, wary of local government, have ordered a distinctly unlocalist freeze on council-tax rates. (The Lib Dems have the opposite bias, revering town halls over parents desperate for more control over the schools system.) And even if Mr Cameron is slowly turning his vision into policy, it remains esoterically communicated. Too many voters still worry that the big society is one of putupon parents zooming from their office grind to run their children’s school before working a late-shift at the local youth club. Many Tories, including donors, wish the party would stick to bread-and-butter themes. Even those who believe in the idea think Mr Cameron should make less fuss of it. The great hoarding of power at the centre of the British state happened silently, and over a generation. To undo it, Mr Cameron may have to be as stealthy.
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21 MAG 2010 di: Camilla Cavendish
This is a five-year plan that might really work
Its project may be Soviet in scale, but give the coalition credit: it has bold ambitions to shift power to the people Even if you’ve read 100 party manifestos, you’ve never read a document like this one,” said Nick Clegg, introducing the new Government’s programme yesterday as David Cameron benignly looked on.
cies, (although they have been accused of being short of common sense). The fact of coalition has forced the two parties to put a programme on the table for all — not just the Civil Service — to see.
He’s right. The document is a sort of Five Year Plan without Stalin. Just as interesting as its contents, is the fact of its very existence. This feels like grown-up government, more of a business-like approach than the usual fudge we suspect governments create to give themselves wiggle room. It’s different from vague manifesto pledges, which are often watered down or ignored.
For the public, 36 pages of clear plans may feel like a welcome change from vague manifesto pledges. But it is daunting. The new politics already seems to require a lot more reading. Will this drive action? Or spell burn-out?
Momentum is a precious resource that can start to dwindle almost as soon as a new administration takes office. With a coalition it is even more important to build early defences against the twin enemies of ministerial whim and vested interests. The Conservatives saw these threats coming long ago. Oliver Letwin, the Tory policy guru and one of the few Cabinet members to have held ministerial office, decided two years ago to build Cameron policies into detailed business plans for each department, in conjunction with Shadow Ministers who were mostly expected to carry their portfolios into power. The popular perception that the Conservatives were light on policy could not have been more wrong. In fact, the party was so waist-deep in it that several insiders feared it would prove a hostage to fortune. The Liberal Democrats have never been accused of being short of poli44
Coalition government brings a particular danger of legislation becoming an end in itself, as each side seeks to prove its virility — as has happened in Scotland. But that outcome should be anathema both to Conservatives who believe in smaller government, and Liberal Democrats who want to decentralise. The Queen’s Speech on Tuesday will show where the Government’s priorities lie, and those drafting it must take care to keep it clean, as it were. It seems more likely that the coalition programme will raise the chances of getting things done by trying to limit ministerial whims and disagreements. There will be little time to waste on either if the coalition is to deliver its aims of raising school standards and reforming the welfare system. Both will involve creating new markets by opening up monolithic systems to new providers — and there must be enough of them to provide real competition. The reality of government is that such radical ideas are often stymied by mun-
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dane factors on the ground. When the first “new model school” was set up a few years ago in Queen’s Park, northwest London, by an enterprising group of parents and teachers, led by the think-tank Civitas, it was almost derailed by health and safety requirements. These required the school to have a certain number of toilets — almost impossible to provide in an old building that had not been a school before. And a visionary redesign of prisons led by the social entrepreneur Hilary Cottam some years ago was rejected on the grounds that prison beds could not be placed against outside walls — in case prisoners dug their way out. Governments often work against innovation without even knowing it. A coalition that wants a Big Society, knows it will have to change that. Buried in the coalition document is one lever that will help enormously in handing power to the people. This is the commitment to transparency. Public bodies will have to publish job titles online — perhaps ending a proud tradition of Private Eye satire — with the salaries and expenses of senior officials. Central government will publish all spending and contracts over £25,000, and local councils will have to publish contracts and tender documents in full, which should make it easier for new contractors to break into cosy relationships with authorities. The decision to make councils publish all items of spending above £500 could also have a significant effect: Windsor and Maidenhead Council’s decision to do this online as soon as the money was spent, along with data on hourly energy use, has helped it to reduce council tax by 4 per cent from April, the biggest single cut by a local authority. What we need is a shift of power from
public bodies expecting us to ask and to be grateful when we get it, to actively publishing the information we need — and in a useful form. As a journalist I am frequently told that questions I ask cannot be answered because the information is not collected, or not held centrally, or is collected in the wrong form. Yet more and more people are employed in public services to satisfy central government’s hunger for statistics. Automatic publication of information is an almost costless way to give power to the people. Out would go the need for complicated analysis at the centre, or for decisions about how much to keep secret. In would come journalists and citizens capable of doing the analysis themselves. This has started to happen in the US, where at the usaspending.gov website, people can see every construction contract in their state and how much federal money has been spent. The belief in power to the people sits oddly with hyperactive government. There is a Soviet scale to the 36-page plan, which ranges across 31 aspects of our lives. No department of state has been abolished, yet one of the coalition’s central ambitions is to roll back the state. The Great Repeal Act of next week should be a powerful symbol of this. In its Queen’s Speech the Government will assert its real priorities. It should also spell out what it sees as the limits to government. In the end, the test of Mr Cameron and Mr Clegg will be how they handle unpredictable events. But at least they have understood the need to set about those things they can control in a brave and accountable way. Their plan may be scarily ambitious, but at least it’s free of cynicism.
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15 MAR 2011 di: Guido Gentili
Il nuovo sviluppo è zona franca
Dopo aver proposto il piano per la “Big Society” (in sostanza: meno Stato, più cittadini) il governo del premier David Cameron ha lanciato l’idea delle “Enterprise Zones”, dieci aree a sviluppo agevolato localizzate nel nord dell’Inghilterra. Aree più arretrate rispetto al sud londinese, che richiamano ai problemi del nostro Mezzogiorno tornato in queste settimane al centro dell’attenzione con il piano (portato all’esame europeo) del governo Berlusconi per la fiscalità di vantaggio delle regioni in deficit di sviluppo. L’idea lanciata da Cameron prevede un investimento iniziale di 100 milioni di sterline - cifra non enorme - destinate al “fare più impresa”. Vuol dire meno passaggi burocratici, meno tasse, banda larga veloce, requisiti davvero minimi per aprire un’azienda. Nulla di particolarmente rivoluzionario per la stessa Inghilterra, patria storica del libero mercato, visto che le “Enterprise Zones” furono già lanciate una trentina di anni fa da Margaret Thatcher, che fra l’altro trasformò il ministero del Commercio e industria (in pratica un dicastero per le sovvenzioni alle industrie di Stato, tipo le nostre vecchie partecipazioni statali) nel dipartimento per l’Imprenditoria, col compito di deregolamentare quanto più possibile e favorire l’innovazione e le piccole imprese. Non che sia filato tutto liscio, nel senso che il bilancio è risultato, come si dice, con luci e ombre: alcune aree non sono decollate e l’iniezione di denaro pubblico si è risolta in questo caso in uno spreco. Ma rimane il fatto che il piano di Cameron segna ora una svolta anche per un altro 46
motivo: smaltita l’ubriacatura da finanza, a Londra si torna a parlare di riscoperta del manifatturiero come asse portante dello sviluppo. Dopo meno Stato e più cittadini ecco dunque meno City e più industrie. Bisogna tornare a fabbricare “cose vere”, ha detto il cancelliere George Osborne. Manifatturiero? Rilancio delle aree sottosviluppate anche con la fiscalità di vantaggio? Eccoci nell’Italia del dualismo economico Nord-Sud (secondo il ministro Giulio Tremonti la questione fondamentale che dobbiamo affrontare) dove la manifattura made in Italy ha comunque tenuto (e tiene) in piedi il sistema nonostante la crisi durissima che abbiamo attraversato. Le cifre parlano chiaro. Il Programma nazionale di riforma (Pnr) indica che al Sud il tasso di occupazione (circa 45%) è strutturalmente più basso di 20 punti rispetto al Centro-Nord e con un elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile, pari a quasi il 40% nella fascia d’età tra 15 e 24 anni. Ampio anche il divario di produttività sul territorio: nel 2009 il valore aggiunto per unità di prodotto nel Meridione risultava pari a circa l’83% di quello del CentroNord, andamento «determinato principalmente dalla modesta presenza di settori industriali e dalla ridotta struttura dimensionale delle imprese nel Sud». Da brividi, infine, il gap infrastrutturale: ad esempio, nel Sud quasi il 40% dell’acqua immessa negli acquedotti finisce dispersa. Certo, nessun piano di fiscalità di vantaggio può da solo e in astratto risolvere la situazione e con un colpo di bacchetta magica spingere le imprese del Nord e le
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aziende straniere a sbarcare massicciamente nel Mezzogiorno. L’incentivo fiscale può essere utile ma non sufficiente (nel caso di Pomigliano i problemi erano piuttosto legati ai colli di bottiglia del lavoro in fabbrica) e la questione della legalità, cioè di una maggiore presenza dello Stato su un territorio battuto dalla criminalità organizzata, resta la pre-condizione da assicurare se si vuole davvero parlare di sviluppo. Però, sarebbe anche sbagliato rinunciare a muoversi sul territorio, laddove esistono le condizioni. La “zona franca per la legalità” appena proposta dagli industriali di Caltanissetta ne è un esempio pratico. Come ha spiegato il vicepresidente di Confindustria Antonello Montante, si può chiedere fiscalità di vantaggio per le imprese che investano nel tempo in maggiore occupazione, innovazione e tutela ambientale. Un’Enterprise Zone alla siciliana nel quadro mediterraneo in cambiamento rapido e profondo. Vanno evitati invece gli errori del passato. Tipo i patti territoriali vecchio stampo, di cui un recente studio della Banca d’Italia fornisce una plastica rappresentazione. Con la cosiddetta “programmazione dal basso” partita nel 1996 sono stati poi autorizzati e avviati 220 patti nel Mezzogiorno. Costo, 5,5 miliardi pubblici, sviluppo pochissimo. Un caso di No-Enterprise Zone.
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31 MAR 2010 di: Benedict Brogan
Election 2010: Eureka! At last, I can see what David Cameron is on about We demand vision from our leaders - and the Tories’ plan for society is truly radical, says Benedict Brogan
Above all, you had to read him - he mattered. He understood that the size and role of the state was a key issue in politics and returned to it often - and that is my subject today.
Instead we need a thoughtful re-imagination of the role, as well as the size, of the state.
I want to extend and deepen the argument I made in my party conference speech this year, that the size, scope and role of government in Britain has reached a point where it is now inhibiting, not advancing the progressive aims of reducing poverty, fighting inequality, and increasing general well-being. Indeed there is a worrying paradox that because of its effect on personal and social responsibility, the recent growth of the state has promoted not social solidarity, but selfishness and individualism. But I also want to argue that just because big government has helped atomise our society, it doesn’t follow that smaller government would automatically bring us together again. Yes, there are specific instances where the very act of rolling back the state will serve to roll forward society, for example when organisations that have been dependent on the state are asked to go outside government for funding, and thereby improve their record of engaging with the public and society. But I believe that in general, a simplistic retrenchment of the state which assumes that better alternatives to state action will just spring to life unbidden is wrong.
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The first step must be a new focus on empowering and enabling individuals, families and communities to take control of their lives so we create the avenues through which responsibility and opportunity can develop. This is especially vital in what is today the front line of the fight against poverty and inequality: education. But I also want to argue that the re-imagined state should not stop at creating opportunities for people to take control of their lives. It must actively help people take advantage of this new freedom. This means a new role for the state: actively helping to create the big society; directly agitating for, catalysing and galvanising social renewal. So yes, in the fight against poverty, inequality, social breakdown and injustice I do want to move from state action to social action. But I see a powerful role for government in helping to engineer that shift. Let me put it more plainly: we must use the state to remake society. PROGRESSIVE VISION The size, scope and role of the state is of course the scene of a vigorous political debate. But I believe it is pointless to draw dividing lines where none exist - so I want to start my contribution with where we all agree. Ask anyone of any political
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colour the kind of country they want to see and they’ll say a Britain that is richer, that is safer, that is greener but perhaps most important to us all, a country that is fairer and where opportunity is more equal.
url: http://www.telegraph.co.uk/comment/columnists/benedict-brogan/7542467/Election-2010-Eureka-At-last-I-can-see-what-David-Cameron-is-on-about.html Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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12 DIC 2010 di: Serena Danna
La mia utopia: un Tamigi da Silicon Valley
Forse una “chiamata” di aiuto a ricostruire la società e le speranze dell’Occidente se la sarebbe aspettata più da Barack Obama che da David Cameron. E invece Richard Florida, il professore dell’Università di Toronto che ha fatto della creatività il mantra dello sviluppo degli anni 00, è stato incaricato proprio dal primo ministro inglese di trasformare in realtà quell’idea di Big Society – fondata sulla redistribuzione del potere tra cittadini e governi locali –, pilastro della campagna elettorale dei conservatori. Per Florida c’è poco da sorprendersi: «In Europa sono proprio i conservatori ad aver capito che la società va ricostruita da zero. David Cameron è un uomo pragmatico: sa che per migliorare il paese bisogna partire dalle città rendendole più inclusive, dinamiche, godibili da vivere. Questa destra ha grandi pulsioni libertarie al suo interno». Sulla parola d’ordine per il nuovo decennio, il 53enne professore con i nonni di Avellino e il sogno adolescenziale di diventare una rockstar non ha dubbi: «reset». Riazzerare, ripartire o, per usare un termine entrato anche nel vocabolario di chi non passa la vita davanti al pc, “resettare”: un concetto alla base del suo ultimo libro, uscito negli Stati Uniti in primavera, The Great Reset: How New Ways of Living and Working Drive Post-Crash Prosperity. Con il tono charmante e la determinazione da guru, mentre sta raggiungendo l’aeroporto di Toronto per la prossima conferenza, Florida elogia «la forza progressista della destra europea». «Le categorie politiche del ‘900 non trovano più riscontro nella politica di oggi: la sinistra in Europa è conservatrice, è la parte politica più orien50
tata a ristabilire il vecchio ordine economico e sociale». Mentre in passato è stato «grazie ai liberali che l’Europa è riuscita a superare l’impasse, oggi rappresentano le forze del “vecchio”». Tra i rumori del traffico e le indicazioni al tassista, il direttore dei “Creative Class Group”, società di consulenza creativa per aziende e istituzioni che dirige insieme alla moglie Rana, rispolvera una sua vecchia passione: «Pensi a quanto è stato rivoluzionario Marx nell’intuire la forza e la novità del capitalismo e l’impatto che avrebbe avuto sulla società e sul lavoro». Accadeva due secoli fa, oggi di quella visione restano gli slogan per le proteste. Così se la gauche europea vede le manifestazioni degli studenti delle ultime settimane come un segnale di vivacità e voglia di futuro, Florida ci va cauto: «C’è un forte rigurgito degli anni Sessanta. L’aspetto interessante è che con gli studenti riemerge un’idea di comunità in lotta per gli stessi obiettivi, che nell’ultimo decennio si era decisamente persa. Ma la battaglia politica per ridisegnare il sistema si sta trasformando in una protesta contro i tagli statali: questo mi preoccupa perché, ancora una volta, è un modo per ristabilire un modello passatista».
Per Florida è sbagliato leggere la crisi economico-finanziaria come il risultato del collasso del mercato immobiliare, dei mutui subprime o delle speculazioni: «Gli ultimi due decenni – spiega – hanno visto il boom dei creativi, il problema è che non hanno trovato istituzioni pronte a rendere produttiva la loro energia, ma modelli economici,
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organizzazioni del lavoro, norme sociali appartenenti all’era industriale». Il professore è convinto che non trovando sponde nel mondo dell’industria e del lavoro, una parte di questa spinta innovatrice sia andata «al servizio della speculazione finanziaria». Gli animal spirits di Wall Street sono in realtà dei creativi frustrati? «Sì, e lo saranno ancora se non si riparte da zero». L’idea di The Great Reset è che la crisi rappresenti proprio la grande opportunità per passare da un vecchio a un nuovo ordine mondiale: «Quella del ‘29 ha segnato il passaggio da una società rurale a una industriale. Oggi siamo pronti a una società di idee. Ma se invece di investire in conoscenza, ricerca, tecnologia e arte, i governi pensano a tenere a posto i conti, allora non si può ripartire». Per il professore, dietro le attuali politiche economiche c’è qualcosa di più della volontà di evitare la bancarotta: «In molti sperano ancora di poter tornare indietro, di ristabilire il vecchio sistema capitalista, e non capiscono che solo ponendo le basi per un nuovo contratto sociale ritorneremo a crescere». Il metodo delle tre T che ha fatto la fortuna delle sue teorie – l’idea che dove si concentrano talento, tecnologia e tolleranza lo sviluppo è maggiore: vedi l’area ad alto tasso tecnologico e creativo della Silicon Valley con vicino la gayfriendly San Francisco – è ancora valido. Come si applica all’Occidente malmenato dalla crisi e da pruriti nazionalisti? «La parola chiave è decentralizzare: l’idea socialdemocratica di uno stato che assiste industria e cittadini non funziona più. Essere
incisivi oggi nella gestione della cosa pubblica significa delegare». Meno potere ai ministri, più potere ai sindaci. A marzo Florida incontrerà quello londinese Boris Johnson per discutere della Silicon Valley che sorgerà sul Tamigi. Un’utopia? «No – risponde il guru americano – se lavoreremo sulle forze, le risorse e i talenti locali». Non esistono più Italia, Francia o America ma Milano, Tolosa e Austin. Non più sobborghi ma quartieri con metro, sedi universitarie e caffè: «Grandi città metropolitane dove si riesce a sperimentare un’idea di società più aperta e inclusiva». Il professore è u un grande fan di Sergio Marchionne. «Le case u automobilistiche , u come le città , u sono passate da una dimensione nazionale a una globale . P urima c’erano le aziende americane, italiane, giapponesi , u ora sono mondiali u. La Fiat in questo senso è all’avanguardia perché si muove davvero su scala globale: produce dove le conviene, prendendo i migliori talenti al mondo». Appassionato di Mad Men e convinto che gli a umericani conservino ancora u quella spinta verso il successo descritta dal serial televisivo u, Florida non crede al declino dell’Occidente: u« P uer quant i sforzi possano fare uCina, India e Brasile in cultura, innovazione, università, spettacolo , u fashion, stile, arte ed ueducazione , u noi saremo sempre vincenti. Nessuno può sostituirci. Certo in futuro ugiocheranno un ruolo sempre upiù importante , u ma sono convinto che Stati uUniti e d u Europa continueranno a essere protagonisti». Che l’ottimismo rientri nel contratto firmato col governo Cameron?
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11 OTT 2010 di: Joaqin NavarroValls
Il Ritorno dei valori in politica
Fino a qualche tempo fa, pochi erano coloro che scomodavano l’ etica parlando di politica. Ciò non perché vi fosse insensibilità verso le grandi questioni umane, ma perché era diffuso il pensiero che la gente non avesse interesse a sentir parlare di cose noiose, astratte, impegnative. Oltretutto a fare le prediche ci pensano giài filosofi ed altri, perciò è inutile che le facciano pure i politici. Chi governa deve risolvere semmai la crisi dell’ economia, organizzare il mercato del lavoro, salvaguardare la sicurezza dei cittadini, rilanciare le esportazioni e gli investimenti, senza avanzare inutili pretese. Sembra un discorso sensato, apparentemente, ma è invece totalmente sbagliato. Oggi, infatti, abbiamo scoperto che le cose non vanno quasi mai così. La logica del consenso non autorizza mai l’ estromissione dei contenuti fondamentali, vale a dire di quei valori che non dipendono dalle circostanze, dal novero fluttuante delle proposte che un politico o un partito intendono presentare agli elettori, di volta in volta. Se, come insegnava Niccolò Machiavelli, la politica e la morale sono due cose separate, di certo non possono esserlo etica e consenso. Per lo meno, non senza gravi difficoltà. La gente normalmente si aspetta qualcosa in più di una competenza tecnica da un politico per votarlo. Altrimenti rimane a casa. Non stupisce, di conseguenza, che nei recenti avvicendamenti della nomenclatura al governo, tanto in Inghilterra quanto negli Stati Uniti abbia fatto ritorno la moda delle grandi proposte di sostanza. Possiamo dire che si tratta di una buona norma che si sta propagando un po’ dappertutto, 52
dopo tanti anni di dogmatica indifferenza. Il premier britannico David Cameron, ad esempio, attualmente in carica nel Regno Unito, ha portato nuovamente al successo i Tory nel maggio scorso, proponendo proprio un’ innovativa proposta organica di società. In molti suoi discorsi si è fatto portavoce nel mondo della cosiddetta “Big Society”, ossia di un programma di solidarietàe di liberalizzazione del capitale improduttivo, elaborato teoricamente tra il 1988 ed il 1993 quando era direttore del Dipartimento di Ricerca Conservatore. In uno dei suoi interventi ha chiarito che «si devono creare comunità che abbiano verve; quartieri che si facciano carico del proprio destino, che sentano che mettendosi insieme possono plasmare il mondo attorno a loro». In una parola, si tratta di proporre un grande disegno etico-politico, capace di comprendere e gestire laicamente le dinamiche culturali del momento, e non solo di presentare una serie minimale di punti programmatici. Assiduamente egli utilizza il termine “mission” per far capire il motivo ispiratore della sua politica, dando alla parola un accento persino esageratamente mistico. Fin qui i Conservatori. Ma anche dall’ altra parte, i Laburisti, con l’ elezione pochi giorni fa di Ed Miliband a nuovo leader, stanno vivendo una netta crescita di adesioni, grazie alle attese che il nuovo programma e la giovane figura promettono. Certo, le sue idee politiche sono opposte a quelle di Cameron, almeno in linea di principio, anche se il metodo appare lo stesso. Infatti, medesimo è anche il consenso che produce.
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Secondo gli analisti, Ed Miliband ha battuto suo fratello David non tanto perché questi fosse più moderato di lui, ma perché ha trasferito al popolo inglese una spinta etica di maggiore intensità, accompagnandola efficacemente ad una seria promessa di riscossa del partito e del Paese. È curioso che, saltando l’ Atlantico, si constata un fenomeno analogo anche negli Stati Uniti. Sorvolando sull’ elezione di Barack Obama di due anni fa, che è stata caricata fin troppo da un’ ondata di riscossa morale, il popolo statunitense ha salutato il ritorno in pista dei Repubblicani nelle prossime elezioni del 2 novembre con un notevole entusiasmo. Nei contestati ma efficaci Tea Party elettorali, segnati da un riferimento costante all’ ethos comunitario tradizionale, Sarah Palin, ritenuta fino a ieri una stelletta ormai al tramonto, ha esposto con successo ampie sezioni del suo manifesto politico, pubblicato integralmente su Facebook, in cui carica di colori etici perfino le cose più banali che i conservatori intendono fare per l’ America di domani. Il suo slogan «Pace attraverso la forza e orgoglio americano contro una politica centrata sul nemico» sottende, a ben vedere, una critica severa ai Democratici, ai quali è imputato l’ errore di aver legittimato, per l’ appunto, i nemici “etici” dell’ America, dalla Corea all’ Iran, fino a Cuba e al Venezuela.
profonda che dà combustibile di umanità alla politica, spingendo i cittadini ad impegnarsi e a partecipare attivamente per migliorare la propria esistenza e quella altrui. Alla fine, attualmente non ha più tanta importanza se un leader sia di sinistra o di destra, se sia progressista o conservatore, ma che egli incarni con i suoi gesti, con le sue parole, con la sua capacità di governo e perfino con la sua vita, una prospettiva etica credibilee autentica, cioè non superficialmente legata solo al mantenimento del potere. In definitiva, i cittadini vogliono sapere qual è la verità umana che viene proposta e, soprattutto, chi può attuarla concretamente nel futuro.
La conclusione che si può ricavare da questi esempi emblematici è uno soltanto. La politica può di certo fare a meno dei riferimenti valoriali, ma solo per un breve periodo, perché alla lunga il consenso è legato strettamente alla capacità d’ inserire, nei programmi e nelle proposte che vengono offerte agli elettori, prospettive economiche, sociali e strategiche guidate da idee forti e durature sulla persona umana e sul senso del suo futuro. L’ etica, infatti, non è una vuota retorica o uno sciocco moralismo: è l’ anima culturale url: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/10/11/il-ritorno-dei-valori-inpolitica.html Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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19 LUG 2010 di: Nicholas Watt
Cameron promises power for the ‘man and woman on the street’ PM says ‘big society’ plans will create communities with ‘oomph’ and denies programme is a mask for public sector cuts David Cameron today pledged to deliver a dramatic redistribution of power “from elites in Whitehall to the man and woman on the street” as he set out his plans to create what the Tories are calling the “big society”. In his most important speech since the general election on the devolution of power, the prime minister said he wanted to create communities with “oomph” and end the days in which capable people become “passive recipients” of state help. Delivering the speech in Liverpool, he denied the programme was a mask for public sector cuts. “The big society ... is about liberation – the biggest, most dramatic redistribution of power from elites in Whitehall to the man and woman on the street,” the prime minister said. “And this is such a powerful idea for blindingly obvious reasons. For years, there was the basic assumption at the heart of government that the way to improve things in society was to micromanage from the centre, from Westminster. But this just doesn’t work.” Liverpool will be one of four “vanguard” areas that will receive special help to set up projects, ranging from local transport to improving the provision of broadband. The other areas are Eden Valley in Cumbria, Windsor and Maidenhead, and Sutton. Cameron said that the vanguard communities, each to be given a team of civil servants, will be the “training grounds” of the ‘big society’. In Liverpool, a volunteer programme is being built to keep museums open for longer.
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In Cumbria, the new Tory MP for Penrith and the Borders, Rory Stewart, is trying to improve the provision of broadband. The prime minister made a point of outlining tangible examples of benefits from the “big society” as he answered critics who said during the election that the idea was vague. Shadow ministers claimed the idea was impossible to sell on the doorstep, with one complaining that the term sounded like “Hegelian dialectic” dreamed up by Oliver Letwin. A “big society” bank will be established to finance charities and voluntary groups. This will be funded using “every penny of dormant bank and building society account money allocated to England”, Cameron announced. He said it would eventually allocate hundreds of millions of pounds. But the Financial Times reported today that the bank would only be able to launch with reserves of around £60m. Cameron also outlined three strands of what he called the “Big Society” agenda: • Social action: “Government ... must foster and support a new culture of voluntarism, philanthropy, social action.” • Public service reform: “We’ve got to get rid of the centralised bureaucracy that wastes money and undermines morale.” • Community empowerment: “We need to create communities with oomph – neighbourhoods who are in charge of their own destiny, who feel if they club together and get involved they can shape the world around them.”
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Cameron insisted the “big society” idea was simple as he reminded his audience at Liverpool Hope University that he has been talking about it since he stood for the Tory leadership in 2005.
teering, encouraging social enterprises and voluntary groups to do more to make our society stronger. I was talking about that way before we had a problem with cuts and deficits and all the rest of it.
“The big society is about a huge culture change where people in their everyday lives, in their homes, their neighbourhoods and their workplace don’t always turn to officials, local authorities or central government for answers to the problems they face. But instead they will feel both free and powerful enough to help themselves and their own communities.”
“This would be a great agenda whether we were having to cut public spending or whether we were increasing public spending.”
Cameron conceded that it would be naive to assume that society will miraculously spring up if government rolls back. Government is needed to help devolve power, he said, as he called for a new approach from Whitehall. “The truth is that we need a government that actually helps to build up the big society. This means a whole new approach to government and governing. “For a long time the way government has worked – top-down, top-heavy, controlling – has frequently had the effect of sapping responsibility, local innovation and civic action. It has turned many motivated public sector workers into disillusioned, weary puppets of government targets. “It has turned able, capable individuals into passive recipients of state help with little hope for a better future. It has turned lively communities into dull, soulless clones of one another. So we need to turn government completely on its head.” Earlier, Cameron today denied that his “big society” agenda was a cover for public service cuts. He said: “It is not a cover for anything. I was talking about the “big society” and encouraging volun-
He told BBC Breakfast: “This is not about trying to save money, it is about trying to have a bigger, better society.” Responding for Labour, Tessa Jowell, shadow Cabinet Office minister, said: “The content of today’s speech is simply a brass-necked rebranding of programmes already put in place by a Labour government. Funding for a social investment bank and community pubs was put in place in March, and residents have been involved in setting council budgets for a number of years.” Dave Prentis, the general secretary of Unison, which represents many public sector workers, said: “Make no mistake, this plan is all about saving money, and it will cost even more jobs and lead to more service cuts. The government is simply washing its hands of providing decent public services and using volunteers as a cut-price alternative.” The Labour leadership contender Ed Miliband yesterday accused the Conservative party of “cynically attempting to dignify its cuts agenda, by dressing up the withdrawal of support with the language of reinvigorating civic society”. He said: “People in the voluntary sector know that, for all the talk of a big society, what is actually on the way is cuts and the abandonment of community projects across Britain. “Make no mistake, under the Tories the voluntary sector’s role will be shrunk, not expanded.”
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22 FEB 2011 di: John Kay
Time for the Big Society to get down to the nitty-gritty Last week, David Cameron reiterated his commitment to the Big Society. Like another UK prime minister, Tony Blair, who more than a decade ago talked of stakeholding, Mr Cameron is genuinely trying to articulate a big idea. Like Mr Blair, he runs the risk that his big idea becomes a platitude, dying amid deserved derision. Both Mr Cameron and Mr Blair perceived that the major part of modern social political and economic life is conducted through intermediate institutions, groups with an identity stronger than mere gatherings of individuals but which are not institutions of the state. Such groups are many kinds: the most important are companies, but they include clubs and charities, pressure groups and partnerships, mums’ networks and mutuals. Through these agencies, we achieve the combination of plurality and cohesion that makes the complexities of modern society manageable. If this seems obvious, it is an observation that contradicts the dominant political and economic models of our time. Such political models are commonly based on some sort of social contract of the kind described by John Rawls and similar philosophers, translated into structures that stress individual rights and give little role to feelings of group solidarity. The analogous economic models are those in which atomistic economic agents contract with each other to achieve harmonious equilibrium. An emphasis on the role of intermediate institutions is directly counter to the distinct yet basically similar philosophies 56
of both Margaret Thatcher and Gordon Brown, for whom society is polarised between individuals and the state. Both perceived a clear distinction between private and public spheres, even if they disagreed on where the line should be drawn; both believed that the relationships between private and public spheres could be defined by contracts, regulations and targets. In a Big Society or along Mr Blair’s Third Way, these distinctions are blurred. The modern world is populated by hybrid institutions, and regulation, social and economic, is implemented more through shared values than formal rules. The Big Society might in the end mean no more in practice than the encouragement of volunteers to supervise public libraries, just as stakeholding ended up only as the name for new tax breaks for private pensions. If an emphasis on hybrids is to make the transitions from sound bite to political philosophy to practical policy, the largest group of questions that need to be answered concerns the closely related issues of hybrid capital structure and governance. Faced with opportunities to review these issues in the establishment of new regimes for hospitals, schools or railways, the Treasury resisted giving answers, because to do so would make the transfer of autonomy to the newly established bodies real. The public limited company is the dominant form of economic organisation because, imperfect though the resolution of these issues within that framework may be, they are nevertheless resolved. Most
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other organisational forms do not achieve scale or permanence because they lack capital and often have poor governance and less effective management. Mutuals, which may seem to offer the best solution to these questions, have frequently experienced difficulties from either overcapitalisation or under-capitalisation; and the mutual sector has shrunk because legislation made it too easy to give capital bases away. The John Lewis Partnership, the poster child of the sector today, survives because John Spedan Lewis, its founder, was shrewd enough to make this virtually impossible. The critical governance requirement is to devise supervisory structures that include a sufficiently wide enough range of stakeholders to prevent capture by any particular interest. One common problem that hybrid organisations, including public companies, face is that they end up run mainly for the benefit of some particular group – employees, financiers, local politicians or incumbent management. John Lewis shows how well-run activities can grow organically on the basis of debt and retained earnings. Ideas such as social impact bonds, in which public outcomes determine rewards for investors, can facilitate the provision of equity-like capital. A small fraction of the ingenuity devoted to the construction of complex financial instruments that no one should want could advantageously be applied to the construction of less complex instruments that meet the needs of the Big Society.
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22 FEB 2011 di: Fabio Cavalera
«I tagli da soli non bastano, la vera ripresa è la Big Society»
Parla Lord Wei, l’ inventore del progetto politico di Cameron La Big Society è l’ evoluzione della Terza Via di Tony Blair Ha detto David Cameron: «La Big Society è la mia missione». Ma, in definitiva, che cosa è la Big Society? Partiamo da una domanda semplice per capire il progetto politico dei nuovi conservatori britannici. E lo facciamo con Lord Nat Wei che è il braccio destro del premier: nel Cabinet Office gli è stato affidato il compito di costruirne le fondamenta della Big Society. Lord Wei, che giovedì volerà a Roma per partecipare alla conferenza organizzata dalla Fondazione Roma, è stato indicato dai media londinesi come lo «zar della Big Society». E’ uno «zar» che non può fallire: la credibilità di David Cameron è legata a questa «rivoluzione». Lord Wei, la Big Society è meno Stato e più privato? «La Big Society è un progetto politico che stimola la comunità ad essere protagonista della modernizzazione. Libera l’ iniziativa, promuove la solidarietà. Sposta il baricentro del potere dallo Stato alla società. Riassumo con una immagine: la Big Society è la “coral reef”, la barriera corallina, l’ ecosistema nel quale i cittadini vivono, partecipano, si associano». C’ è curiosità ma anche molta perplessità. Ribilanciare i poteri fra Stato e cittadino appare velleitario. «Oggi c’ è sfiducia nelle istituzioni e nei politici, il cittadino si sente isolato e abbandonato. Quindi parlare di Big Society in un ambiente così diffidente è difficile. Poi, non dimentichiamolo, ci troviamo nel mezzo di una austerità che è determinata dall’ enorme deficit lasciato dal precedente governo». Quindi la Big Society è solo un sogno? «Assolutamente no. E sa perché? La ragione è semplice. Non vi è vera ripresa economica senza ripresa sociale. L’ austerità e i tagli finalizzati alla ricostruzione dell’ economia 58
non servono se non si interviene anche a livello sociale, cioè se non si mettono i cittadini nella condizione di partecipare allo sviluppo. La Big Society non è un sogno lontano. Al contrario, è un progetto di grande attualità per ricostruire l’ ecosistema sociale, la coral reef, la barriera corallina». Come traduciamo uno slogan in qualcosa di reale e di visibile? «La Big Society, innanzitutto, significa servizi pubblici efficienti. In che modo renderli efficienti? Un esempio: i medici del servizio sanitario hanno un rapporto diretto con i pazienti e conoscono bene le carenze delle strutture, hanno il polso delle malattie sociali, hanno il monitoraggio delle patologie tipiche della zona in cui esercitano la professione. E’ allora giusto che i medici, associati fra loro e responsabilizzati, gestiscano e indirizzino i fondi pubblici. Ancora più in concreto: sappiamo che la mancanza di lavoro è causa di stati depressivi. Ci sono aree dove l’ emergenza occupazionale è forte. Il medico può e deve decidere se investire le risorse necessarie a supportare i disoccupati dando un’ alternativa all’ utilizzo di medicinali, spesso molto costosi. Perché non creare una rete fra i medici e i job club, ovvero quei gruppi, che con l’ assistenza di un consulente aiutano alla ricerca del lavoro, assistono il disoccupato e lo relazionano con il mercato? Così il paziente non viene abbandonato. Il medico collabora al suo inserimento nella comunità e la comunità si fa carico dei problemi del singolo». Tutto ciò implica un radicale mutamento di mentalità... «Certo. Ma le alternative quali sono?
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L’ egoismo individuale, la “broken society”, una società fratturata e priva di fiducia e di slancio. Ma facciamo ancora un esempio: se in una zona di Londra, di Manchester, di una qualsiasi città, vi sono un giardino, una scuola, una struttura pubblica che non funzionano bene o che hanno problemi di manutenzione anche perché il titolare del contratto non è all’ altezza o è negligente, allora perché non offrire ai cittadini l’ opportunità di intervenire direttamente? Si possono coinvolgere i pensionati per il controllo dei parchi, si possono creare gruppi di volontariato sia per supervisionare e correggere le spese destinate ai servizi pubblici sia per vigilare sulla crescita urbanistica. I cittadini, attraverso le organizzazioni del volontariato, decidono con chi stipulare i contratti e controllano il flusso di cassa». Meno welfare? «Lo Stato conserva un ruolo importante per il soccorso alle persone più deboli e non garantite. L’ Occidente ha una popolazione che invecchia e, di conseguenza, diminuiscono le entrate contributive. E’ giocoforza riorganizzarlo. In generale siamo costretti a ripensare alla nostra società. Il welfare fu la risposta ai problemi del dopoguerra. La gente chiedeva sicurezza sociale allo Stato. Poi ci fu la riscoperta negli anni Ottanta e Novanta del privato. Adesso occorre compiere un altro passo. Nei prossimi decenni soffriremo di trend demografici diversi dal passato e il governo non riuscirà a rispondere alla domanda di welfare. La Big Society è la risposta ai nuovi bisogni». Come si finanzia la Big Society? «Con una mano operiamo per recuperare miliardi di sterline inghiottiti dagli sprechi e per incanalarli negli investimenti a favore dei cittadini, del volontariato, delle comunità locali. Con un’ altra mano azioniamo la leva della Big Society Bank». La Big Society Bank: è una nuova banca statale? «E’ un fondo che custodisce denaro risparmiato e lo spinge verso la Big Society: è la Banca d’
Inghilterra per il settore sociale. Il fondo lavora con le organizzazioni, con le associazioni, con i gruppi che avviano iniziative imprenditoriali di carattere sociale». La Big Society rischia di essere la maschera dietro alla quale si nascondono i tagli alla spesa pubblica. «David Cameron parla di Big Society da 5 o 6 anni. Dunque non è la maschera dell’ austerità. E’ un’ idea nata in tempi non sospetti, non è un’ invenzione dell’ ultima ora. Aggiungo che tagliare tanto per tagliare non serve a niente se non si trasferiscono i risparmi nella società per renderla più forte e più competitiva». Ci sono analogie fra la Terza Via del New Labour di Tony Blair e la Big Society di David Cameron. «In un certo senso è la sua evoluzione. La terza via laburista valorizzava il ruolo e il contributo dei privati ma non parlava di volontariato. Ci sono quattro dimensioni di cui dobbiamo tenere conto: l’ individuo, la famiglia, le associazioni di cui è parte l’ individuo, le istituzioni. Noi poniamo l’ accento non soltanto sull’ individuo e sulle istituzioni ma anche sulla famiglia e sul volontariato. La sfida è trovare l’ equilibrio fra queste dimensioni«. Una parte dei Tory è molto prudente e resta legata alle tradizioni thatcheriane. «C’ è dialettica. Negli anni Ottanta, Margaret Thatcher concentrò molto potere per raggiungere l’ obiettivo che erano le liberalizzazioni economiche. Ora si compie il cammino inverso: occorre decentralizzare. E’ una missione politica e morale: vogliamo uscire dalla crisi con una economia più forte e con una società più coesa, solidale e responsabile. E’ la grande riforma del secolo». La proposta L’ idea La «Big Society» è la formula che riassume la filosofia «comunitarista» di David Cameron, leader dei conservatori britannici. La «Big Society» è stata al cuore della campagna elettorale L’ applicazione La «Big Society» implica la devoluzione di poteri dallo Stato alla società, intesa come gruppi di cittadini
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28 FEB 2011 di: -
SMEs divided on Big Society idea
David Cameron’s Big Society idea of empowering local communities has divided UK entrepreneurs – with some claiming it is “incredibly entrepreneurial” and others seeing it as “a load of fluff”. The issue is pressing for small and medium enterprises (SMEs), which are often close to their communities and can be broadly expected to become more involved in the prime minister’s proposal to transfer power from politicians to the people. Of the 47 entrepreneurs and SME owners contacted by the Financial Times, 20 were broadly in favour of the Big Society, 18 were against and nine were unsure. Common to all camps, however, was a call for greater clarity. Joe White, chief executive of Moonfruit.com, a website builder, summed up the mood of many entrepreneurs. “I like the idea. I just don’t know what it means,” he said. Liane Hartley, director of Mend, a social enterprise, was concerned about the lack of substance. “The problem with Big Society is that there is no substance on what the pathway is to get there or what success looks like,” she said. “It’s a nice wrapper but there doesn’t seem to be any chocolate bar inside.” Yet for others, including Charlie Mullins, founder and owner of Pimlico Plumbers, the project represents an effective way to engage with local people. He said: “It seems quite reasonable to me that business takes a bit more interest in where we live instead of always expecting others, particularly government, to sort it out for us.” A broader concern is that smaller compa-
nies will be expected to be more involved in the community than larger corporates, because of their closer relationship – and what that might mean financially. Colin Crooks, chief executive of Green-Works, a furniture recycling company, said: “SMEs are already experiencing more requests from their local communities. Budget cuts and an unstable economy have forced many local organisations to go cap in hand to local businesses asking for donations, sponsorship or free services. While SMEs tend to be well integrated in their local community, they simply do not have the resources to meet the demand.” A spokesman for the Cabinet Office, which is overseeing the Big Society, said: “Small businesses, as well as charities and voluntary organisations, can help communities organise and will benefit when state budgets are controlled more locally.” Denis Cummings, principal consultant at the Coverdale Organisation, a management consultancy, said the government faced the obstacle of overcoming SMEs’ “negative cynicism”. He said: “Many care deeply about their local communities and are already involved [but] SMEs have enough to worry about at the moment looking after themselves.” James Murray Wells, executive chairman of Glasses Direct, an online retailer, said he found the whole project “incredibly entrepreneurial” but he had doubts over its longevity. “Am I certain that the Big Society won’t go the way of Tony Blair’s ‘Third Way’? No, I’m not,” he said.
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14 SET 2010 di: Elisabetta Sogilio
Urbanistica, in due mesi la nuova Milano. «I cittadini ridisegnano la città»
Masseroli: da oggi scattano i 60 giorni per le osservazioni al Pgt. Ci aspettiamo grande partecipazione MILANO - Un piano del territorio costruito dai cittadini. L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, aveva lanciato la scommessa aprendo l’iter per la definizione del Piano di governo del territorio, approvato il 14 luglio scorso dal consiglio comunale. E il tema della partecipazione torna oggi, con tanto di presentazione in pompa magna alla Triennale, nel momento in cui cominciano i 60 giorni utili per presentare le osservazioni al piano: «Ci aspettiamo il contributo di tutti, non soltanto dei grandi player, degli esperti di settore, degli urbanisti puri» insiste Masseroli. Il modello è quello individuato dal premier britannico David Cameron quando aveva illustrato la propria idea di big society: «Come dice Cameron, dobbiamo cambiare l’approccio verso il governare, perché la gestione dall’alto al basso, con controllo rigido e totale, ha finito con l’indebolire la responsabilità, l’iniziativa locale e l’azione civica». Così, l’assessore dà appuntamento a chiunque voglia intervenire: «Ogni venerdì dalle 15.30 alle 18.30 sarò in urban center. Noi abbiamo costruito una piattaforma di sviluppo, ma ciascuno può, anzi dovrebbe, migliorarla». Il fulcro del piano, che punta a diventare «un nuovo sistema di welfare», sta nel concetto di perequazione: io ho alcune aree a disposizione in una zona, le metto a disposizione per un servizio pubblico di cui il Comune ha bisogno e trasferisco quei valori immobiliari in un’altra parte della città. Molti hanno gridato alla deregulation, ma Masseroli corregge: «Significa non avere letto il piano e non averlo capito». L’Agenzia degli scambi 61
immobiliari «nasce solo per supportare il processo di spostamento delle volumetrie sostenendo il lavoro dei piccoli immobiliari e delle piccole realtà che altrimenti non sarebbero in grado di farlo». Sarà «una sorta di buono di valore economico e va letta in positivo. Ad esempio, io privato ospito gratuitamente un ufficio di giovani designer in un mio palazzo e in cambio il Comune, riconoscendo l’utilità sociale della proposta, dà al privato la possibilità di avere volumetrie corrispondenti altrove». Serve però una supervisione. A controllare che ci sia equilibrio nello sviluppo ci sarà una sorta di mappa dei bisogni di ogni quartiere, che il consiglio comunale dovrà votare ogni anno valutando, zona per zona, di quali servizi c’è bisogno. In questo, potranno dare un contributo anche i cittadini: «Ci aspettiamo che anche loro ci segnalino i bisogni dei quartieri in cui vivono». Non solo: «Durante i 60 giorni delle osservazioni, io che sono proprietario di un ufficio, io che vorrei avviare una impresa con miei amici neolaureati, io che possiedo un palazzo con molti appartamenti sfitti, posso andare a capire come potrei trovare nel piano uno strumento che aiuti il mio sviluppo». L’amministrazione sta a guardare: «Ma se c’è qualcuno che vuole costruire un impianto sportivo in una zona in cui ne ho accertato il bisogno, li sostengo con la perequazione». Altra critica. Si fa un regalo ai costruttori, che hanno aree in zone periferiche e possono perequare venendo a costruire in centro, dove tutto è più redditizio. «È vero che il privato può avere un vantaggio: ma
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— spiega Masseroli— il senso è proprio di dare un incentivo per avere in cambio servizi anche in periferia». E il verde? Il costruttore può perequare per andare a edificare in un parco? «Assolutamente no. C’è stata una grossa polemica sul futuro del Parco Sud, ma ribadisco che su quelle aree nessuno potrà costruire case. Ricordo anzi che questo vuole essere il piano della riscossa del Parco Sud, 42 milioni di metri quadrati di verde oggi poco accessibili e sconosciuti ai più». Ultimo punto controverso è quello che riguarda l’attrattività di Milano. Il Pgt, infatti, immagina una città in espansione e si prepara ad accogliere nuovi abitanti (si era detto 2milioni, Masseroli non vuole più parlare di numeri). Intanto, però, Milano si sta spopolando: «Ma la nostra sfida è che, con questo piano, si possa volere Milano per scelta decidendo di vivere qui, far crescer qui i figli, sviluppare il proprio business e anche divertirsi». Scegliere Milano? Difficile convincere un giovane che non trova case ad un affitto decente, ad esempio. Masseroli ha la replica anche a questo: «Nel piano c’è una parte consistente che riguarda l’housing sociale, per garantire un’abitazione a giovani coppie, a universitari e altre categorie su cui puntare per far nuovamente crescere la nostra città». Intanto, le osservazioni.
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25 FEB 2011 di: Maria Antonietta Calabrò
Tappa di Lord Wei a Roma, la via italiana della Big Society ROMA - La «Big society», ovvero la ricetta del premier inglese David Cameron contro la crisi del welfare è stata illustrata ieri da Lord Nat Wei, consigliere del governo inglese in una conferenza organizzata dalla Fondazione Roma, presieduta da Emmanuele F.M. Emanuele. Hanno partecipato anche il presidente Antitrust Antonio Catricalà, l’ assessore al Welfare della Regione Lazio, Aldo Forte, Giovanni Moro presidente di Cittadinanza attiva. Emanuele ha spiegato che paradossalmente la risposta alla crisi dello statalismo nel nostro Paese c’ è già ed è nella ricchezza di esperienza della società civile, con i suoi valori laici e cattolici, le associazioni, le fondazioni, le onlus e le società no profit. «Ruota intorno ai due pilastri della famiglia e del risparmio privato («che qualcuno inopinatamente ha proposto di intaccare per risolvere il problema del debito pubblico»)». «Paradossalmente da noi la Big society già c’ è ma non interessa e semmai viene ostacolata, mentre Cameron ha capito che è la chiave della svolta per economia e politica»
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14 GEN 2011 di: Carlo Borzaga
Il modello italiano che fa invidia a Cameron
«E chi lo dice che dovremmo prendere per oro colato il progetto di Downing Street? Sull’imprenditorialità sociale non esiste un sistema più all’avanguardia del nostro. Non dimentichiamolo». La replica di Carlo Borzaga a Phillip Blond L’ENTUSIASMO CON CUI un numero crescente di giornalisti e di esponenti del terzo settore sta accogliendo il progetto della Big Society lanciato dal primo ministro inglese (e ben illustrato dal suo consulente Phillip Blond sullo scorso numero di Vita) che prevede il coinvolgimento massiccio delle imprese cooperative e più in generale del settore non profit e dell’imprenditorialità sociale nell’erogazione di servizi pubblici, può essere giustificato, ma ha davvero bisogno di essere contestualizzato nel nostro Paese. La “confusione” di Londra e... Non c’è da stupirsi che queste notizie trovino spazio sui media in un periodo in cui le persone più attente e sensibili sono alla ricerca di idee per superare la crisi e soprattutto per salvare un sistema di welfare che pare destinato a subire progressivi tagli alla spesa. Ed è del tutto comprensibile che coloro che operano nelle organizzazioni di terzo settore italiane, abituati a essere trattati dalla nostra classe politica come degli “utili idioti” cui battere ogni tanto una mano sulla spalla senza uno straccio di politica di sostegno, vedano con piacere, e con invidia, che almeno in altri Paesi il lavoro dei loro colleghi è apprezzato e riconosciuto. Ma da qui a sostenere che avremmo molto da imparare da queste esperienze ce ne passa, come si suol dire. E ciò non tanto perché le scelte di Cameron siano ancora molto confuse, le sue politiche contraddittorie (da una parte dice di voler sostenere il terzo settore e dall’altra 64
taglia i fondi che il precedente governo aveva stanziato per le organizzazioni di supporto), le sue proposte normative in contrasto con la normativa europea sugli appalti. E neppure perché siano da condividere aprioristicamente le preoccupazioni dei sindacati, dell’opposizione, e anche di una buona parte dello stesso movimento cooperativo inglese circa il fatto che tutta la manovra sia solo un modo per scaricare i costi dei servizi, o parte di essi, sui lavoratori o sugli utenti. ...la nostra impresa sociale Sono in realtà altre due le ragioni positive per approcciare almeno con sano realismo le proposte d’Oltremanica: la prima perché l’Italia ha già sviluppato, assai prima degli inglesi, proprie forme di imprenditorialità sociale ampiamente studiate da economisti e sociologi di quei Paesi, e la seconda perché ha fatto di queste nuove forme imprenditoriali un soggetto non semplicemente sostitutivo dell’intervento pubblico, come nella proposta di Cameron, ma nella maggior parte dei casi aggiuntivo. Infatti con buona pace degli “esperti” che individuano la genesi dell’impresa sociale negli Stati o in Inghilterra, basta una veloce consultazione di un qualche motore di ricerca internet per dimostrare che il concetto è stato utilizzato per la prima volta negli anni 80 in Italia, tanto che viene pubblicata dal 1989 una rivista che ha appunto come titolo Impresa Sociale.
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Un approfondimento veloce del tema consente inoltre di scoprire che il primo Paese a dotarsi di una forma giuridica con le caratteristiche dell’impresa a finalità sociale è stato sempre il nostro, con la legge sulla cooperazione sociale, approvata dal parlamento della Prima Repubblica nel 1991. Un legge che è stata imitata in almeno altri 12 Paesi tra i quali il Giappone e la Corea del Sud. L’Inghilterra ha approvato una legge simile solo nel 2004 e negli Usa hanno cominciato a pensarci solo da un paio di anni con l’approvazione da parte di alcuni Stati di norme istitutive delle cosiddette “L3C”, le Low Profit Limited Liability Company. Nel frattempo l’Italia ha anche approvato una nuova legge generale sull’impresa sociale che consente di creare imprese a finalità sociale utilizzando tutte le forme giuridiche previste dal nostro ordinamento. Ancora: il dibattito scientifico volto ad individuare caratteristiche, utilità e sostenibilità di queste forme di impresa è stato promosso e largamente sostenuto soprattutto da studiosi italiani. Ma quello che più conta è che il modello italiano è diverso nelle sue finalità e nei risultati sia sociali che economici, oltre che nelle dimensioni raggiunte in poco più di trent’anni. È diverso perché esso si è formato non per sostituire servizi pubblici più o meno funzionanti, ma per offrire servizi nuovi, non offerti né da istituzioni pubbliche né da altri soggetti privati. E se con il passare degli anni una parte delle imprese sociali (maggioritaria forse, ma sempre solo una parte) ha sviluppato rapporti di fornitura di servizi per conto terzi e su finanziamento della pubblica amministrazione non lo ha fatto sostituendo preesistenti servizi pubblici, ma a seguito di precise scelte delle pubbliche amministrazioni che hanno preferito non organizzare in proprio una serie
di nuovi (e non di sostitutivi) servizi sociali. Da ciò deriva che la gran parte delle 13mila cooperative sociali oggi operanti in Italia, cui si possono aggiungere almeno altre 7-8mila organizzazioni di diversa natura che operano a tutti gli effetti come imprese sociali, con i loro milioni di utenti e le centinaia di migliaia di occupati, può essere considerata aggiuntiva e non sostitutiva. E sono tali soprattutto le quasi 4mila cooperative sociali di inserimento lavorativo, che occupano almeno 40mila lavoratori svantaggiati, garantendo loro stipendio e pensione; finanziandosi in media per il 50% sul mercato privato e per un 30% attraverso la partecipazione a gare pubbliche. Il cortocircuito informativo Queste osservazioni consentono di affermare che del modello proposto da Cameron c’è ben poco da copiare e che è meglio piuttosto salvaguardare il nostro, cercando di perfezionarlo estendendo ulteriormente il raggio di attività di queste imprese in altri settori di interesse collettivo. Ciò non significa che non ci sia nulla da imparare, anzi. Un primo insegnamento dovrebbe trarlo il nostro circuito mediatico: cercare di essere più attenti a quello che succede nel Paese reale e soprattutto cercare di apprezzare ciò che di buono sa esprimere anche in ambiti così delicati come quello sociale.
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28 MAR 2011 di: Carlo Borzaga
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09 SET 2010 di: Davide Rondoni
Il modello è già in casa: la big society all’italiana
Da chi copiare per uscire dalla crisi? Da noi stessi. Bisogna avere il coraggio di guardarsi allo specchio, e vedere cosa c’è di buono e cosa da buttare. Questo è il paradosso italiano. Sempre intenti a recitare, in politica come in strada, non guardiamo più a noi stessi. Lo si fa solo per narcisismo. Per compiacimento. Ma non ci guardiamo davvero più. E smaniamo di copiare a destra e a manca, di ispirarci ad altri modelli, pur di recitare la parte delle vittime o dei fighi cosmopoliti. In questi giorni si è discusso in varie sedi sul modello migliore che l’Italia dovrebbe seguire per rimettersi sulla via dello sviluppo. Tedesco, dicono alcuni. Inglese, dicono altri. Fa quasi sorridere dunque il fatto che almeno per uno dei due casi, quello inglese, succede che i suoi teorizzatori e realizzatori d’Oltremanica dicano che qua da noi, o almeno in certe zone del Nord, quel loro modello c’è già, e che di fatto ce lo stan copiando. Lo ha detto Mr. Blond, influente consigliere del premier Cameron. Lo hanno denominato “big society”, indicando un allargamento dell’iniziativa e della responsabilità sociale, rispetto all’attuale pretesa dello stato di garantire un troppo costoso welfare. Tradotto in lingua (e cultura italiana) si tratta di riconoscere più spazio alla società e alle iniziative che, sorte dal suo interno, sono in grado di rispondere alle pubbliche necessità in vari campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla assistenza. Mr Blond aveva in mente certe zone del Nord, in particolare la Lombar-
dia, dove una storia di secoli (e non solo la recente) ha sempre mostrato un tessuto sociale vivo e operativo nel campo degli affari ma anche della creatività sociale. Lo testimonia l’esistenza in quelle terre di grandi enti nati da realtà sociali di varia espressione (socialista, cattolica, filantropica) che svolgono grandi servizi per la collettività. Anche il Papa ha ricordato come la Rerum Novarum di Leone XIII nascesse dalla lettura di tale creatività sociale pur in mezzo a difficoltà enormi. La big society all’italiana c’è già da un pezzo. E non a caso abita le zone più sviluppate del paese. Solo che gli italiani sono diventati bravissimi a distrarsi da se stessi. Che è il peggior male, si diventa bambocci schizofrenici. Si divaga. Si perde tempo, scambiando per lotta politica sorde lotte di potere senza vero contenuto politico. Del resto ieri su questo giornale, il direttore generale di Confindustria, dava voce alla difficoltà di molti, quando indicava nell’opacità di norme e nella lentezza burocratica della pubblica amministrazione una delle cause dello sviluppo frenato. Intanto, però, gli attori sul proscenio della politica intrattengono gli astanti con schiamazzi per ritagliarsi un ruolo, non per cambiar le cose. Sarebbe interessante, invece, guardare perché abbiamo in casa cose che fan da modello ad altri. E puntare su queste peculiarità. Ma per fare questo occorre smettere di essere attori narcisi e diventare padri e madri, coltivatori di futuro, essere nidi, essere panettieri, operai della vita.
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11FEB 2011 di: Luca Antonini
Rinascere da un nuovo 41
Sorprendono molto alcune reazioni (ad esempio, Michele Ainis sul Sole 24 Ore di ieri) alla proposta governativa di modifica agli articoli 41, 97 e 118 della Costituzione. Dimostrano, infatti, una strana schizofrenia che scatta appena si cerca di riformare qualche aspetto della Costituzione: da un lato questa viene considerata sacra e intoccabile, anche rispetto a qualsiasi intervento pur solo di aggiornamento. Dall’altro qualsiasi cambiamento viene giudicato inutile, perché tanto le cause di quello che non funziona non deriverebbero dalla Costituzione. Qui sta la schizofrenia: se è vera la seconda deduzione, perché tanto accanimento sulla prima conclusione? La proposta del governo non intacca nessuno dei veri e grandi valori di fondo alla base della Costituzione italiana. È il contrario: la proposta va nella direzione di valorizzare l’antropologia positiva già implicita nel principio personalista dell’articolo 2. Basti ricordare quanto affermava Aldo Moro presentando l’articolo in Assemblea costituente: «Lo stato assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell’uomo che non è soltanto individuo, ma che è società nelle sue varie forme, società che non si esaurisce nello Stato». Valorizzare questa antropologia positiva non solo supera la ormai stantia contrapposizione tra liberisti e statalisti, ma individua - lo ha chiarito Tremonti - una delle reali direzioni intorno a cui costruire il rilancio dell’intero paese. Il sistema italiano è infatti complicato da un’atavica e quasi irremovibile resistenza degli apparati e da un’intricata frammentazione delle competenze; è soprattutto affossato da radicate 72
interpretazioni costruite sulla convinzione di un’antropologia negativa, stigmatizzata nella formula hobbesiana homo homini lupus. Se l’uomo è lupo per l’altro uomo, ci vogliono fiumi di regole per ingabbiare l’”animale”, e tutto si risolve in quel paradosso per cui le regole non bastano mai. Il nostro paese si colloca al 78° posto in termini di libertà d’impresa. Continuando così, in un contesto globale dove la competizione non è più solo tra imprese ma tra interi sistemi, la deriva verso il declino è inevitabile. Forse alcuni intellettuali non si rendono ben conto che in Italia ci vogliono a volte tre o quattro anni per ottenere una “Via”, mesi e mesi per aprire una pizzeria (consiglio la lettura del libro di Luigi Furini, Volevo solo vender la pizza), o che una Sopraintendenza e un ufficio ministeriale possono bloccare per oltre un decennio la realizzazione di un’arteria stradale strategica. Salvo poi scoprire che mentre l’alluvione di regole bloccava chi voleva intraprendere onestamente, nella stessa Italia venivano alla luce 2 milioni di “case fantasma” scoperte dalle mappature aeree dell’Agenzia del territorio. È anche vero che nessuna legge di semplificazione è stata bloccata dall’attuale articolo 41, ma è altrettanto vero che nessuna legge di complicazione ha mai potuto essere dichiarata incostituzionale in forza del testo attuale. Per questo occorre tagliare, in nome di una antropologia positiva, il nodo gordiano dell’eccesso di burocrazia statale, regionale o locale: quando ogni altro tentativo sembra poco efficace, l’unica soluzione è agire al livello del patto costituzionale, rinnovandolo e aggiornandolo in modo da superare alla radice l’ostacolo.
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L’antropologia positiva è la stessa prospettiva assunta dal modello di Big Society proposto da David Cameron e che ha conquistato il dibattito pubblico europeo. Sono programmi veramente riformisti: rappresentano la rivincita in chiave moderna di una tradizione di sussidiarietà scritta nel profondo della nostra storia come il segreto del suo sviluppo. Una tradizione che è stata combattuta in nome di un lusso ideologico: don Bosco tirò fuori 100mila ragazzi dalla strada, ma la sua opera rischiò di finire nazionalizzata sul finire dell’800. Sarebbe interessante festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia nella prospettiva di rivalutate le vere energie che hanno costruito il paese. Sarebbe anche interessante un referendum confermativo, nel caso la riforma non ottenesse la maggioranza dei 2/3, per vedere se la gente angariata dalla burocrazia la pensa come alcuni intellettuali. Luca Antonini è vicepresidente Fondazione per la sussidiarietà
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15 FEB 2011 di: Massimo Morici
Quant’è grande la “Big Society” in Italia?
Gli esperti di statistica lo chiamano terzo settore, ma da quando il premier conservatore David Cameron ne ha fatto uno dei cavalli di battaglia in campagna elettorale, ormai il termine diventato di moda è Big Society, per lo meno nei giornali. Per spiegare cosa significhi potremmo utilizzare una formula: meno Stato e più volontariato, nel sociale ma non solo, ossia associazioni, cooperative sociali e fondazioni. Questo promette in Gran Bretagna Cameron. E in Italia, quali sono i numeri reali del terzo settore e dove è più diffuso? Le ultime statistiche Istat purtroppo sono di otto anni fa, anche se entro il prossimo anno partiranno nuove rilevazioni, spiegano a Panorama.it quelli del Forum Terzo Settore, che riunisce i principali attori del nonprofit in Italia.
rispetto al totale in Italia. Il colore rosso indica una maggiore presenza di organizzazioni, via via a scalare verso il giallo, che indica una percentuale più bassa.
Dalla cartina emerge come la diffusione del volontariato vada di pari passo con il numero della popolazione residente e il livello del Pil: le regione più popolose e ricche risultano in genere quelle con una presenza più alta di organizzazioni (fatta eccezione per la Sardegna).
Stando agli ultimi dati, in Italia la Big Society si compone di 235.232 unità (pari al 5,4% di tutte le unità istituzionali), che danno lavoro a 488.523 addetti e dove operano 3,2 milioni di volontari. Per avere un’idea economica del settore basti pensare che la Fondazione Cariplo stima risorse pari a 8 miliardi di euro derivanti dall’attività di 94.000 enti di base, con 350.000 lavoratori e 1,6 milioni di volontari Per fotografare la situazione abbiamo riassunto in una mappa con Google Chart la presenza delle associazioni di volontariato regione per regione in percentuale url: http://blog.panorama.it/economia/2011/02/15/quante-grande-la-big-society-in-italia Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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19 SET 2010 di: Giulio Boscagli
La Big Society? Grazie Cameron, ma in Lombardia c’è e funziona Ci voleva David Cameron con la sua “Big Society” per riaprire un dibattito sulla riforma del nostro welfare e sulle possibilità di realizzare l’obbiettivo coinvolgendo le diverse espressioni della società. Può essere che la nostra cultura, così spesso ammalata di esterofilia, trovi moderno parlare di Big Society, tuttavia sarebbe miope dimenticare che questo tipo di politica si rifà al metodo della sussidiarietà già da tempo presente nel dibattito politico e a cui si ispirano da oltre tre lustri le politiche di Regione Lombardia. Politiche che non vogliono sostituirsi alla libertà e responsabilità dei cittadini, ma riconoscere e valorizzare quello che nella società esiste e funziona fungendo da moltiplicatore delle esperienze positive in atto. È da qui che prende le mosse la grande riforma della sanità lombarda, ma vanno in questa direzione le esperienze della dote scuola, dei voucher e, più recentemente, la riforma dei servizi alla persona. Le famiglie e le loro associazioni, i gruppi informali e le organizzazioni del terzo settore sono identificate come potenziali “unità di offerta” e vengono di conseguenza coinvolte nella programmazione, progettazione e realizzazione delle attività sociali e socio-assistenziali. Non viene loro riservato un coinvolgimento residuale, a posteriori, ma è pienamente riconosciuta e valorizzata la funzione sociale che di fatto svolgono. La difficoltà di introdurre in Italia il concetto di “big society” non sta quindi nell’assenza di soggetti della “società civile” ma nel per-
manere di una cultura statalista incapace di riconoscerli e valorizzarli. In Lombardia, in particolare, c’è una storia secolare che documenta la capacità di “prendersi cura” dell’altro, soprattutto nei momenti della sua maggiore fragilità. A partire dalla “Ca’ Granda” e dalle grandi opere caritative ed educative fino alle associazioni, cooperative e fondazioni contemporanee si è costruito nel tempo un tessuto di opere e relazioni che la politica e le istituzioni devono saper valorizzare. L’erompere della crisi economica internazionale ha messo in questione radicate certezze sulla politica del welfare che non può più essere delegata solo alle istituzioni dello Stato ma deve garantire il coinvolgimento di tutti i soggetti, pubblici e privati, profit e non profit secondo competenze e capacità. All’Amministrazione non deve più essere chiesta la gestione diretta dei servizi, ma la regolazione, vale a dire la programmazione, la diffusione delle informazioni, il controllo degli standard, la valutazione dei risultati. Maggior coinvolgimento della società non significa arretramento dello Stato, ma miglior definizione di limiti e ruoli: oggi non si può più avere la pretesa assolutista di costruire dall’alto il presunto benessere generale, ma si può e si deve favorire la nascita dal basso di un welfare plurale fondato sulla corresponsabilità di tutti. (Giulio Boscagli - Assessore regionale alla Famiglia, Conciliazione, Integrazione, Solidarietà Sociale)
url: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/9/19/CRISI-La-Big-Society-Grazie-Cameron-ma-in-Lombardia-c-e-e-funziona/2/113322/ Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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23 OTT 2010 di: Giorgio Fiorentini
Ecco la filiera che manca nell’Inghilterra di Cameron
Big Society vuol dire condividere a monte un’ idea di uomo che sviluppa la sua individualità come persona che si raccorda con altre persone per il tramite di enti intermedi pubblici e privati che sono la condizione indispensabile per attuare la sussidiarietà. A valle, la Big Society, in italiano, si traduce operativamente come “filiera sussidiaria aziendale” composta da imprese sociali “di sistema” (associazioni, cooperative mutualistiche e sociali, fondazioni, comitati, ong ) ed “ex lege” (L.118/05,D. Lgs.155/06 e decreti attuativi) e imprese private profit che producono beni e servizi di utilità sociale per l’interesse generale e per il bene comune. La sfida è passare dal principio di sussidiarietà in termini di mission politica e di principio giuridico all’operatività incidente nel sistema tramite i risultati di bene comune perseguiti dalle imprese sociali profit e non profit. Altrimenti è narrativa convegnistica. Nell’impresa sociale non profit si integrano la mutualità interna ed esterna che diventa operativa nell’implementazione della sussidiarietà orizzontale. Essa struttura la “concorrenza collaborativa” e si inserisce nel processo di tendenza a una integrazione sempre più consistente fra pubblico e privato, non tanto in un possibile arretramento dello stato a vantaggio di diversi operatori privati, ma nella migliore combinazione fra capacità regolativa dello stato e capacità produttiva del privato rappresentato dalle imprese sociali. La concorrenza collaborativa fra stato e imprese sociali trova nella sussidiarie76
tà un principio sociale-economico che è un processo. Il principio di sussidiarietà si attua e attualizza tramite il sistema di “sussidiarietà aziendale” che è composto da una o più filiere sussidiarie attive per il raggiungimento degli obiettivi/risultati del sistema stesso e percepiti/fruiti dai cittadini. La relazione fra le aziende della filiera è biunivoca. Attraverso una progressiva ridefinizione concordata delle funzioni aziendali del rapporto sussidiante/sussidiato, degli ambiti di controllo del sussidiante (origine della filiera) e del fruitore (fine della filiera) e un concomitante e progressivo aumento dell’autonomia del sussidiato, si attua un circolo virtuoso di crescita che si alimenta nella reciprocità dei rapporti funzionali e aziendali. Tutto ciò al fine di mantenere la costanza di funzione di interesse generale tramite servizi di utilità sociale prodotti ed erogati dall’impresa sociale. Ed essa presidia la coerenza strategica ove si conciliano operativamente le strategie di “partnership” fra pubblico e privato e fra privato e privato. In essa si conciliano le combinazioni dei fattori di produzione e di consumo a fronte di un coordinamento di operazioni economiche il cui modello è stato concordato “ex ante” e di cui la persona e la “ricchezza” condivisa sono elementi vitali. Le caratteristiche della “filiera sussidiaria aziendale”, intesa come processo di integrazione aziendale, (e quindi di integrazione di attività) sono: continuità ove si deve sviluppare la coerenza alla programmazione sussidiaria del sistema per il tramite dell’attività integrata fra lo stato
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(nella sua articolazione) e le imprese sociali; assetto progressivo ove si deve mantenere un costante ed equilibrato dinamismo temporale. Spirito cooperante ove il processo di filiera sussidiaria si basa sull’opzione cooperativa finalizzata al bene comune e collettivo; sequenzialità composta da aziende pubbliche e aziende non profit/for profit in combinazioni diverse e tali da convergere verso risultati (outcome) di produzione di utilità pubblica correlata allo sviluppo economico e finanziario, all’ erogazione di beni e servizi sincroni e adeguati alla domanda (espressione del bisogno) della comunità come insieme di persone/cittadini con cittadinanza o soggetti istituzionali (aziende pubbliche o private); integrazione organica di aziende che realizzano il dinamismo aziendale della filiera sussidiaria. Le relazioni organizzative non si basano solo ed eventualmente sulla similitudine di organigrammi, funzionigramma e ruoli ma, in prevalenza, tramite collegamenti di condivisione dei risultati da raggiungere e quindi scelte organizzative che facilitano tali risultati; relazione di feedback fra le varie aziende e quindi processo di valutazione esterno determinato dai fruitori/clienti dei beni/ servizi di utilità pubblica prodotti o erogati e interno alla filiera stessa determinato da autovalutazioni e reciproche valutazioni aziendali che migliorano i livelli di performance/output intermedio da raggiungere per avere risultati di soddisfazione del sistema a cui si appartiene ed in cui si opera;
post”/cambiamento della realtà. Quindi processo completo “input-output-outcome” con verifica che innesca una circolarità virtuosa e sedimenta la ricchezza economica e sociale del sistema; valorizzazione dei risultati dell’attività della “filiera sussidiaria” attivando strumenti di verifica quantitativa dei risultati raggiunti (per esempio il bilancio d’esercizio e il bilancio sociale in una prospettiva di bilancio socio-economico); trasversalità culturale degli operatori che devono condividere i principi della “vision” da cui traggono azioni non omologhe e standardizzate, ma comunque standardizzabili in competenze che raggiungono risultati coerenti alla vision stessa; logica dell’equilibrio dell’utile da trasferire al destinatario dell’utile finale e quindi un risultato di utile inteso come equilibrio economico finanziario che remunera i fattori produttivi e persegue un differenziale positivo di gestione per dare dinamismo all’impresa sociale. Questa la Big Society tradotta in italiano di cui però abbiamo già un vocabolario concettuale e operativo sedimentato nella società.
capacità di lettura dell’“ex-ante” di contesto in cui si inserisce la “filiera sussidiaria” e quindi monitoraggio del processo di produzione/erogazione e lettura dell’“exurl: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/10/23/BIG-SOCIETY-4-Ecco-la-filiera-chemanca-nell-Inghilterra-di-Cameron/3/121462/ Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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10 FEB 2011 di: Nicholas Timmins
Even Cameron struggles to define concept
What is the “Big Society”? The prime minister himself has struggled to produce a crisp definition. Perhaps the most concise comes from Dame Helen Ghosh, Home Office permanent secretary. “We in [central] government need to focus on doing the things that only government can do,” she told MPs. Then “what we need to facilitate is that – at the most local, most individual level – people both identify and solve problems in the way that they wish to solve them”. Even that, needless to say, begs more questions than it answers. But it will be built on the third sector? It will. But the third sector, often used interchangeably with the voluntary sector, is riddled with jargon and with theological disputes about how to define it that makes gauging its size difficult. And the coalition now prefers the term “civic society” which includes faith organisations and trade unions. But it does include charities and social enterprises. What is a social enterprise? There is not even agreement on that. Some insist a business must be non-profit to count as a social enterprise. Others include for-profit enterprises with some shareholders as long as their core goal is a social mission. So give me some examples The John Lewis Partnership, an employeeowned mutual, is probably the biggest
and best known British social enterprise. By contrast Bupa, the health insurer, is a not-for-profit business, even if it behaves very much like a for-profit one, raising big sums from the City. It is technically a provident association, though few in the third sector would class it as a social enterprise, in spite of it fitting the rules. How far does the definition get stretched? Andrew Lansley, health secretary, has tried to paint National Health Service foundation trusts as social enterprises on the grounds that their governing bodies are elected by patients, the public and staff, and they cannot distribute their surpluses. No one else in the movement sees them that way. Have any new ones emerged? Yes. Some 700 nurses and other staff now work for Central Surrey Health in an employee-owned mutual that sells its services back to the NHS. And then there are membership-owned mutuals like building societies and Ebbsfleet football club, which was bought by its fans. Can it get more complicated? It can. There are myriad ownership structures from mutuals, industrial and provident societies to provident associations and bodies like the Office of Public Management, which is an employee-owned consultancy with a public interest “lock” on its activities.
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30 AGO 2010 di: Aldo Cazzullo
Sacconi: diamo più spazio alla società. Con la crisi è finito lo Stato pesante
L’ antropologia positiva investe anche il tema della libertà d’ impresa. Si tratta di passare dai controlli «ex ante», ai controlli «ex post» «Modello Pomigliano per le relazioni industriali: nei contratti locali la modulazione delle tutele» Con la crisi termina il Leviatano. Finisce lo Stato pesante, invasivo, costruito sulla base del presupposto di Thomas Hobbes «Con la crisi mondiale finisce il Leviatano. Finisce lo Stato pesante e invasivo, più o meno consapevolmente costruito sul presupposto di Hobbes, ovvero sulla base di quell’ antropologia negativa a sua volta fondata sull’ homo homini lupus, sulla malfidenza verso la persona e la sua attitudine verso gli altri. Sta emergendo ovunque, per convinzione o per convenienza, un’ antropologia positiva». Ministro Sacconi, dove ne vede i segni? «Nel discorso alla nazione del nuovo premier britannico Cameron, sulla Big Society opposta al Big Government che lui imputa ai laburisti e in particolare a Gordon Brown. Nella neo-governance americana che riconosce la collaborazione tra il pubblico e la crescente filantropia nella società. E rivendico a questo governo di aver cominciato la legislatura con una visione di antropologia positiva». Cosa intende per “antropologia positiva”? «Avere fiducia nella persona e nella sua attitudine a potenziare l’ autonoma capacità dell’ altro. Una scelta che ha molte conseguenze. E’ una premessa fondamentale per costruire la crescita futura, non più fondata sulla diffusa presenza pubblica nell’ economia e nella società ma su un nuovo assetto regolatorio, capace di sviluppare le tante potenzialità della comunità nazionale».
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Quali sono state secondo lei le conseguenze sull’ azione del governo italiano? «Il governo pratica fin dall’ inizio una rigorosa disciplina di bilancio, ma lo fa nell’ ambito di una visione che si compone di due elementi tra loro incrociati: il federalismo fiscale e il nuovo modello sociale sussidiario descritto nel mio libro bianco; vale a dire, l’ incrocio della sussidiarietà verticale con quella orizzontale. Meno Stato, più società. Non “più mercato”; più società. Ne deriva un grande spostamento di potere dal centro alla periferia e dal pubblico verso le persone, le famiglie e le tante forme associative che le persone e le famiglie sanno produrre in un paese in cui c’ è una straordinaria tradizione di esperienze comunitarie. E’ una rivoluzione nella tradizione. Una rivoluzione che affonda le radici nella tradizione della fraternità francescana, delle opere pie, delle società di mutuo soccorso, delle cooperative laiche e socialiste. E nella stessa tradizione delle parti sociali, che in nessun paese sono importanti come in Italia. Altro che algide tecnocrazie centrali». La “rivoluzione” di Berlusconi doveva essere innanzitutto fiscale. «Ma tutto questo è il presupposto finanziario e culturale della stessa riforma fiscale. Il federalismo costruito sui buoni costi standard è destinato a responsabilizzare l’ impiego delle risorse, quindi a liberare coperture per la riforma fiscale.
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Anche la sussidiarietà orizzontale può e deve concorrere a contenere il perimetro delle funzioni pubbliche e della relativa spesa. E la nuova fiscalità disegnata da Tremonti corrisponde alla maggiore autonomia dei poteri locali e della stessa società. Ne usciranno privilegiati il lavoro, la famiglia. E il non profit, che non va più definito terzo settore: un nome che evoca una residualità destinata a venire meno». E il ruolo delle parti sociali? «Pomigliano è un simbolo evidente del “meno Stato, più società”. Un tempo la Fiat investiva nel Mezzogiorno se incoraggiata da incentivi pubblici. Oggi non chiede incentivi allo Stato, ma cerca nella stessa comunità dei lavoratori la convenienza a realizzare l’ investimento. Come diceva Marco Biagi, non c’ è incentivo finanziario che possa compensare un disincentivo regolatorio da norme o da contratti. Solo i lavoratori e le loro organizzazioni possono determinare quella produttività che garantisce il ritorno dell’ investimento». Resta lo scoglio dell’ articolo 18. E dei due sistemi: quello per i garantiti, e quello per gli altri. «Il governo, nei primi giorni di agosto, ha approvato un piano triennale per il lavoro fondato sul riconoscimento della capacità delle parti di costruire nelle aziende e nei territori percorsi condivisi. Meno Stato, più società significa limitare ai diritti fondamentali le norme inderogabili di legge e consentire alla contrattazione locale la modulazione delle tutele in modo da stimolare crescita economica, partecipazione, incremento dei salari, nuova occupazione. Il governo ha detassato tutta la parte del salario conseguente a questi accordi, perché l’ antropologia positiva porta ad avere fiducia negli effetti virtuosi dell’ autonomia contrattuale prossima alle persone». Sui tre di Melfi lei non si è ancora espresso. «Lascio al giudice vagliare il caso concreto e consiglio alla Fiat di evitare forzature. Ma il caso solleva un problema generale. 80
Dagli anni ‘ 70 si è affermato un metodo di lotta sindacale, per fortuna sempre più desueto, per cui chi sciopera, anche se minoranza, cerca di impedire agli altri di lavorare. E tutto questo non può essere più consentito non solo dalla competizione globale ma anche dal rispetto che meritano tutte le persone e, perché no?, le stesse imprese». A proposito delle imprese, avete ipotizzato la modifica dell’ articolo 41 della Costituzione. «L’ antropologia positiva investe anche il tema della libertà d’ impresa. Si tratta di passare dai controlli “ex ante”, tipica espressione dell’ antropologia negativa, ai controlli “ex post”. Basti ricordare la norma di Visco sul controllo preventivo all’ atto della richiesta della partita Iva, fondata sul sospetto che la partita Iva sia una forma di elusione fiscale e non uno strumento per promuovere iniziativa economica. Dobbiamo capovolgere i termini della questione: io mi fido, fino a prova contraria». Il governo sembra avere altre priorità, a cominciare dalla giustizia. «Ma lo stesso tema della giustizia vede un discrimine tra antropologia positiva e negativa. L’ esigenza fondamentale della persona e delle forme comunitarie che genera, a partire dall’ impresa, è di disporre di un quadro di certezze. E quindi la giustizia è giusta se è certa. La nostra anomalia è l’ incertezza che domina la giustizia civile, penale, del lavoro, amministrativa, contabile. Tempi lunghi, schizofrenia giurisprudenziale, imponderabilità. Ci deve essere riconosciuto che, a parte la contingenza della doverosa difesa di Berlusconi dalla giustizia politicizzata, ci siamo sempre posti il tema della giustizia certa, che coincide, ancor più oggi, con una imprescindibile esigenza del Paese». Quali sono altri segni di “antropologia negativa”? «I radical-chic e i loro giudizi sprezzanti sul meeting di Rimini. Uno non capisce Rimini, quella grande folla di giovani e di giovani coppie, quei 3120 volontari pa-
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ganti, se non muove dall’ antropologia positiva. Questo discrimine, tradotto in politica, segna l’ ambito del confronto, circoscrive l’ ambito del dialogo e della possibile alleanza politica. Berlusconi è una sorta di simbolo vivente dell’ antropologia positiva. Ma tutto il mondo cattolico moderato muove da un’ antropologia positiva: i cattolici della maggioranza, l’ Udc, i cattolici moderati del Pd. Nella sinistra di formazione comunista vedo invece il persistere di un’ antropologia negativa, una domanda di Stato pesante e invasivo, di Leviatano». E il Manifesto per la vita e la sussidiarietà lanciato a Rimini? «Servirebbe a far ritrovare i molti che nelle organizzazioni sociali e politiche muovono da questi obiettivi condivisi, a partire dal riconoscimento del valore della vita. Non solo i credenti, per i quali la persona è immagine di Dio, ma anche i non credenti che muovono dall’ antropologia positiva, nel momento in cui riconoscono la ricchezza della persona, sono portati a difendere il valore della vita. Credenti e non credenti si troverebbero così riuniti da una condivisa laicità adulta: adulta perché riconosce e pratica la verità dei valori della nostra tradizione. Il governo ha presentato la propria agenda biopolitica, con l’ indicazione dei temi di cui ci siamo occupati, ci stiamo occupando, ci occuperemo nel nome della difesa della vita. Ho visto che alcuni hanno reagito nervosamente a questa agenda non perché legittimamente non la condividono ma perché disturba l’ opportunismo delle alleanze anomale».
pillola abortiva o del percorso eutanasico di Eluana Englaro. Confido invece che nel prossimo futuro, grazie anche a quell’ ideale Manifesto che io sollecito soprattutto agli attori sociali di buona volontà, i rapporti politici risultino positivamente condizionati dai valori e dalle conseguenti visioni. In un tempo nel quale la politica è chiamata a ricostruire fiducia nel futuro, si è parlato e si parla di coalizioni a prescindere, sostenute solo dall’ ostilità a Berlusconi. Al contrario, i temi della vita, del profondo ridisegno del rapporto tra Stato e società, della libertà delle persone, del libero gioco associativo sono i contenuti di una rivoluzione nella tradizione che già in questa legislatura possono dare luogo a più ampie maggioranze parlamentari».
Casini parla di “esibizionismo valoriale”. «Non vorrei che questa battuta indicasse la propensione a mettere sotto il tappeto i valori fondamentali per avere mano libera nel gioco delle alleanze, che a quel punto diventerebbe cinico. Basti pensare al sostegno dell’ Udc alla Bresso in Piemonte nonostante le sue posizioni nel caso della url: http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/30/Sacconi_diamo_piu_spazio_alla_co_9_100830012. shtml Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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04 OTT 2010 di: Elio Silva
Il terzo settore vince con più reti
Progettazione condivisa, partnership gestionali, alleanze strategiche. Il cantiere del no profit e, più in particolare, l’impresa sociale sta offrendo, negli ultimi mesi, segnali inequivocabili di accelerazione sul fronte delle collaborazioni. Esaurita la spinta alla crescita numerica, che aveva caratterizzato gli anni scorsi, la scelta delle organizzazioni è ora quella di espandere per quanto possibile le pratiche collaborative. Con una novità: per la prima volta rallentano i rapporti con le pubbliche amministrazioni, che pure rappresentano ancora la forma di partnership più comune, e calano anche quelli con le imprese, condizionati dal contesto della crisi economica. A crescere, invece, sono le alleanze all’interno dello stesso mondo no profit, ossia le relazioni e le reti operative tra organizzazioni diverse, che fanno squadra intorno a obiettivi condivisi. Il trend Sono i dati dell’osservatorio Isnet sull’impresa sociale, pubblicati pochi giorni fa, a segnalare il trend: l’ente locale resta l’interlocutore privilegiato, ma la quota di organizzazioni che dichiarano rapporti in diminuzione passa dal 6,5% del 2008 e dall’11,8% del 2009 al 16,8 per cento. Negativi anche gli indici di gradimento: diminuiscono i «soddisfatti» (al 34%) e aumentano gli «insoddisfatti» (al 28%). Andamento analogo nelle relazioni con le imprese: la crisi di molte aziende ha determinato conseguenze anche nelle partnership commerciali. Le organizzazioni con rapporti in diminuzione, che erano il 13% nel 2009, sono ora il 17,3%, mentre quelle con alleanze in aumento calano dal 22 al 16 per cento. Le relazioni con altre organizzazioni no profit sono le uniche ad aumentare, sia pure di poco (dal 31 al 82
32,8%). Per Carlo Borzaga, presidente di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, queste criticità sono congiunturali, mentre la dinamica di fondo resta positiva. In particolare, lascia ben sperare il processo di differenziazione e innovazione, che sta portando le organizzazioni a occupare spazi economici con formule inedite. «Dalla sanità leggera all’housing sociale – afferma Borzaga – sono oltre 20mila i soggetti che fanno impresa, con 350mila addetti e cinque milioni di utenti. Basta ricordare, per avere un’idea di quanto sia vivace il fenomeno, che abbiamo oltre 3.500 cooperative di inserimento lavorativo, delle quali un migliaio operano con i carcerati». Da qui la convinzione che «il vero problema è il mancato riconoscimento da parte della politica. Non ci sono forme di sostegno – commenta Borzaga – né benefici fiscali, né strategie di sviluppo dell’impresa sociale: mentre nel Regno Unito il governo Cameron lancia il progetto di una Big Society qui da noi, dove la società civile è anche più radicata, si naviga a vista». Modelli di sviluppo Ma l’impresa sociale, alla luce del timido esordio dopo l’istituzione con il decreto legislativo 155/06, potrebbe sostenere il decollo di una Big Society all’italiana? Per Paolo Venturi, direttore di Aiccon, centro studi sulla cultura no profit promosso da università di Bologna e organizzazioni del Terzo settore, «l’investimento sulla società civile, come soggetto in grado di intervenire direttamente nella produzione di beni e servizi di protezione sociale, richiede di fare i conti con la solidità delle sue istituzioni. Non basta stimolare la domanda, o lavorare sui parametri di effi-
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cienza delle unità di offerta, prendendo a riferimento tecniche aziendali. Quello che serve, piuttosto, è completare il percorso di Institution Building avviato dagli anni Novanta, per dotare i soggetti del sociale di un sistema giuridico adeguato». Secondo Flaviano Zandonai, segretario di Iris Network, quella dell’impresa sociale è la veste più adatta, ma «se fino ad oggi lo sviluppo è avvenuto espandendo e qualificando la sfera del welfare pubblico, oggi è evidente che questo ciclo non è in grado di compiere un ulteriore salto di qualità. E non è solo un problema di tagli nei trasferimenti agli enti locali: le vie del welfare si moltiplicano perché cambiano i bisogni e gli stili di vita». «Per questo – conclude Zandonai – servirebbe una spinta alla liberalizzazione del settore, dei suoi modelli organizzativi e dei campi di attività».
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30 NOV 2010 di: -
Speciale fondazioni, lo scenario secondo il presidente della fondazione Roma: “Ora serve una svolta straordinaria nel sociale’’ Emmanuele Emanuele: «E’ l’eredita da lasciare al futuro» Bisogna ripensare il concetto e i confini del walfare. Dove lo Stato, i privati e gli organismi senza fini di lucro concorrono nell’offerta di servizi alla persona. Con questo principio la Fondazione Roma ha concentrato ogni attenzione ed ogni energia all’attivita’ filantropica. E di alcuni giorni fa il primo confronto pubblico organizzato proprio dalla Fondazione sull’«Esigenza di una Big Society in Italia». Si tratta, in sostanza, di un modello basato sulla compartecipazione dei privati alla gestione della cosa pubblica. Un modello promosso gia’ da qualche anno anche dal presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, secondo cui lo Stato si deve alleggerire di alcune sue mansioni e la collettivita’ (associazioni, fondazioni, ONG, cooperative e imprese sociali, organizzazioni di volontariato), con spirito filantropico, si deve responsabilizzare per concorrere all’offerta di vari servizi e alla soluzione dei problemi della comunita’ di appartenenza. Sulla possibile applicazione di questa teoria anche in Italia, il dibattito e’ oggi definitivamente aperto. Diversi, del resto, sono i punti di vista: dal recupero di quella flessibilita’ tipica del passato attraverso una nuova riforma in senso liberale, alla necessita’ che vengano sviluppati rapporti in senso orizzontale, anziche’ solo verticale, dall’esame del peculiare localismo che affligge il nostro Paese, fino alla proposta di riformare l’art. 118 della Costituzione, ampliando il principio di sussidiarieta’ in esso contenuto.
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Emmanuele Emanuele, riprendendo i concetti espressi nel suo libro dal titolo «Il Terzo Pilastro. Il non profit motore del nuovo Welfare», nel corso del convegno, ha commentato: «Bisogna rafforzare il dettato costituzionale che ha introdotto il concetto di sussidiarieta’ per arrivare al pieno e massimo riconoscimento del maggior ruolo cui e’ chiamata la cittadinanza nella ricostruzione dello stato sociale. In questa prospettiva lo Stato deve fare un passo indietro e intervenire per fissare le regole del gioco e per assicurare la tutela di quelle fasce veramente indigenti». Allo Stato, dunque, spetterebbe il ruolo di responsabile delle scelte strategiche e programmatiche di fondo, oltre che di controllore del rispetto degli standard qualitativi e dei principi di universalita’. Perche’ il progetto della welfare community si realizzi occorrono, tuttavia, due condizioni imprescindibili: un contesto giuridico coerente, che valorizzi e rafforzi il principio di sussidiarieta’, e uno sforzo concorde e deciso del terzo settore per superare le proprie obiettive criticita’. La Fondazione Roma, che proviene dalla societa’ civile e conosce bene il proprio territorio di riferimento, opera gia’ da anni in questa direzione. Orientata a sostenere la crescita del territorio in settori strategici per lo sviluppo civile, come la sanita’, la ricerca scientifica, l’arte e la cultura, l’istruzione, l’assistenza alle categorie sociali deboli, in un’ottica orientata a fare rete con altri soggetti pubblici e privati, ha saputo misurarsi con i cambiamenti del
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contesto sociale, aggiornando gli strumenti della sua attivita’ e approfondendo la propria scelta nei confronti del modello operativo, che prevede la realizzazione di progetti complessi e stabili, realizzati in proprio o con altri soggetti, nella prospettiva concreta della costruzione di una nuova welfare community. «Perche’ quando le future generazioni guarderanno indietro a questi anni - e’ la speranza di Emanuele - potranno ricordarli come l’avvio di un cambiamento straordinario a livello sociale».
url: http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=10859427 Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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01 MAR 2011 di: Guido Gentili
La Big Society? Farebbe bene anche all’Italia
Sussidiarietà, comunità locali, corpi intermedi sono concetti che appartengono all’Italia. Quella nuova, che compie 150 anni, e quella molto più vecchia. Sussidiarietà deriva dalla parola latina subsidium, che al tempo dei formidabili eserciti romani stava a indicare le forze di riserva posizionate dietro la prima linea della battaglia, pronte a intervenire in caso di bisogno. Sulla sussidiarietà e sul bene comune rifletteva San Tommaso. Nel 1931, con l’enciclica Quadragesimo anno, Pio XI fissò il principio ispiratore della funzione suppletiva in modo che possa essere «più felice e più prospera» la condizione dello Stato stesso: «Ciò che gli uomini possono fare da sé con le proprie forze non può essere loro tolto e rimesso alla società». Ancora, nel 1961, nel pieno del boom economico, Giovanni XXIII con un’altra enciclica, la Mater et magistra, affermava che «l’esperienza attesta che dove manca l’iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica; ma vi è pure ristagno dei settori economici». Infine, come non ricordare che il principio della sussidiarietà è stato introdotto dalla riforma dell’articolo 118 della Costituzione e che lo stesso ispira il nuovo federalismo fiscale? Insomma, la sussidiarietà come occasione di sviluppo, dove lo Stato non gioca da “invasore”, non è un’invenzione inglese. E fa dunque una qualche impressione, nella Roma del subsidium, che sia un 34enne lord inglese, immigrato cinese di seconda generazione, a decantarne le eccezionali potenzialità. Già, perché invitato (lodevole iniziativa) dalla Fondazione Roma e dal suo presidente Emmanuele Emanuele, 86
Lord Nat Wei, capo progetto politico della “Big Society” lanciata dal premier inglese David Cameron, ci ha spiegato il sogno per un nuovo sviluppo civile dove lo Stato fa un passo indietro e la libera iniziativa si coniuga all’associazionismo solidale. Big Society per Nat Wei è la barriera corallina, l’ecosistema nel quale i cittadini vivono, partecipano e si associano. Come dice Cameron, lo Stato si fa da parte e lascia spazio alle comunità locali: un arretramento operoso e virtuoso, all’insegna della considerazione che non può esservi ripresa vera senza ripresa (e fiducia) sociale. I soldi pubblici scarseggiano ovunque, la sola logica dei “tagli” alla spesa è insufficiente. Bisogna inventarsi qualcosa di nuovo e funzionale. Una scuola pubblica non funziona come dovrebbe? Un parco pubblico ha problemi di gestione? I fondi pubblici per la sanità sono amministrati male? Bene, nella Big Society ci si associa dal basso per correggere e controllare meglio. E ci sarà anche la Big Society Bank (una specie di Banca d’Inghilterra per il settore sociale) dotata di circa 400 milioni di sterline che funzionerà da leva per lo sviluppo civile. Naturalmente non mancano le critiche. Una fra tutte: è una mossa politicamente furba per mascherare e far digerire meglio ai cittadini il taglio drastico alle spese sociali. Controreplica: non si tratta solo di un problema economico, perché il fortissimo disagio sociale (si pensi per esempio all’impennata dell’alcolismo giovanile) pone in Inghilterra il problema di nuove forme di solidarismo civile. Sia come sia, il dibattito sulla Big Society
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è rimbalzato in Italia. Che è insieme la culla storico-culturale di un progetto del genere e il paese che al momento ha un problema urgente di crescita dopo 15 anni di sviluppo stentato, come ha detto il governatore di Bankitalia Mario Draghi sabato scorso. Nella ricerca low cost per le “frustate” all’economia, un posto (se non una poltrona d’onore almeno una solida seggiola) potrebbe insomma essere riservato alla spinta per la Society all’italiana, che per Giuseppe De Rita coincide, più che nelle geometrie secche di Lord Nat Wei, nel fluido “corpaccione” nostrano. Non che sia facile. Lo abbiamo visto col “cinque per mille” fiscale a favore della ricerca scientifica e del volontariato, nato con la legge finanziaria 2006 per la felice intuizione del ministro Giulio Tremonti. Nel 2008, alla vigilia delle elezioni, sollecitati da un mio articolo, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi presero sul Sole 24 Ore un impegno bipartisan per stabilizzare (senza un tetto) il meccanismo. Siamo nel 2011, l’impegno è ancora sulla carta.
url: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-03-01/society-farebbe-bene-anche-064014. shtml?uuid=AaDlhUCD&fromSearch Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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13 GEN 2010 di: Legacoop
Sesta sessione - Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione Sussidiarietà, mutualismo, valori cardine dell’agire cooperativo, al centro del confronto che si è tenuto stamattina nel corso delle Giornate dell’economia cooperativa organizzate a Milano da Legacoop. Protagonisti dell’incontro, moderato da Marco Sodano de La Stampa, il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, dal Regno Unito il direttore della fondazione “ResPublica” Phillip Blond, il direttore dell’istituto di ricerca AAster Aldo Bonomi e Luca Bernareggi di Legacoop, intervenuti sul tema “Beni comuni e politiche pubbliche: il ruolo della cooperazione”, disegnando da diversi punti di vista un nuovo approccio, sempre di più visto come soluzione possibile per realizzare una società e un’economia giusta, ridistribuire la ricchezza e soprattutto farlo dal basso. “Per molti anni si sono contrapposti due modelli, quello dello Stato e quello del mercato libero. Il risultato è stata la monopolizzazione dei capitali nelle mani di pochi, Stato o oligarchie di quelli già ricchi”, ha sottolineato Phillipp Blond. “La crisi ha spazzato via entrambi gli approcci”. Ma come si costruisce allora un modello più giusto? Secondo Blond la strada è ridistribuire: “L’attività cooperativa, la sussidiarietà, il mutualismo, a lungo considerati marginali nel futuro dell’economia e della società, rappresentano una terza via”. “Io sostengo l’avvento di un’era di redistribuzione. Attraverso la mutualizzazione. Se tutti i servizi pubblici diventano cooperative, si crea un’ondata di efficienza di tipo cooperativo, un modello più 88
redditizio che contiene incentivi per migliorare”. In generale il “mettersi insieme” e fare convergere l’associativismo per Blond è un modo per trasformare questi soggetti in destinatari di benefici economici, aprendo nuovi scenari di economia politica: “Mi interessano molto in questo senso alcuni buoni esempi che sono stati realizzati in Lombardia. Quando le persone si coalizzano riescono ad ottenere diritti, beni collettivi. Il liberismo ha creato classi di povertà permanente. Solo cooperando si può avere una società caratterizzata da prosperità e sussidiarietà”. L’approccio è anche un cambiamento culturale, quello che il primo ministro inglese David Cameron ha definito Big society, come ha ricordato il presidente Formigoni: “La sussidiarietà è saper cogliere la trama fittissima dei corpi sociali intermedi, i tanti soggetti presenti nella società: imprenditori, artigiani, imprese cooperative, giovani, famiglie soggetti no-profit, associazioni, movimenti, aggregazioni d’interesse, che si rischia di trascurare. E valorizzare le nuove forme d’iniziativa che questi soggetti riescono a far nascere. Obbligo fondamentale del governo resta sussidiare dove l’iniziativa privata non riesce ad arrivare”. Così si favorisce uno spostamento del potere dal pubblico verso le persone e le famiglie, valorizzando ciò che nella società esiste e funziona. Formigoni prende poi come esempio le esperienze positive realizzate in Lombardia: “L’impostazione e il successo della riforma sanitaria, punto di riferimento indiscusso nazionale e internazionale, nasce proprio dalla fiducia data ai soggetti privati profit
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e no profit, capaci di agire in favore del pubblico e contribuire ai livelli d’eccellenza raggiunti. Nel contempo, il sistema pubblico non rinuncia al suo ruolo di controllo delle regole e della qualità”. Tre i punti su cui ha insistito Aldo Bonomi: “In primo luogo anche in Italia, come in altri Paesi su altri versanti, abbiamo dei campioni del capitalismo. Un capitalismo di territorio, su cui abbiamo tessuto le cooperative. Un pezzo del nostro capitalismo che parte dal basso”. Il secondo è un aspetto negativo: “Non tutta la società e la comunità è sempre buona: c’è un comunitarismo rancoroso contro tutto ciò che è altro da sé”. Infine, una possibile soluzione: “C’è una forte comunità di cura che ancora tiene, e di cui anche voi del mondo cooperativo fate parte. È una comunità fatta del meglio esistente nel welfare”. Le cooperative hanno dunque un ruolo fondamentale nella big society, nel fare un’alleanza operosa tra chi fa economia e chi produce coesione sociale. Voi cooperative dovete operare questa mediazione sul territorio”, ha concluso Bonomi. Luca Bernareggi di Legacoop ha sottolineato infine il peso della coooperazione: “È cresciuta molto facendosi impresa sul mercato. Ha sviluppato un profilo autonomo dalla politica. E poi parte della società italiana si è accorta che può essere utile per sviluppo paese. Il welfare ad esempio è un settore dove in assenza della cooperazione sociale interi settori sarebbero totalmente abbandonati a regole brutali del mercato: asili, assistenza, anziani”. Bernareggi ha poi affrontato il tema della gestione dell’acqua: “Ai cittadini che hanno firmato per il referendum dico: organizzatevi in cooperative. È la forma migliore di gestione dei beni pubblici. Altrimenti arriveranno oligarchie transnazionali ad occuparsene, lasciando problemi irrisolti da nord a sud”.
url: http://www.legacoop.it/multimedia/Sestasessione.pdf Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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14 FEB 2011 di: Nicholas Timmins
Big Society Bank – A decade in the making
The Big Society Bank should get going this year – though in part by raiding funds raised by the National Lottery. It will mark the beginning of the end of 10 years of tortured history. The BSB began life, under Labour, as the Social Investment Bank. Early estimates were that it could have access to £2bn of unclaimed, or orphaned, assets across the UK. It turned out that a large amount of them were in National Savings and Investments – which is essentially government-backed money – and in building societies, which are mutually owned and where the money is for the benefit of members.
Under Labour, use of the unclaimed assets was complicated by internal party politics, with Gordon Brown wanting it spent on youth centres and financial education. So in its last incarnation under Labour, only £75m was to be made available for a social investment, or “Big Society” bank. Monday’s announcement promises more than that, with Francis Maude, the Cabinet Officer minister, claiming that the file on the social investment bank was “empty”, and that the coalition has more or less had to start from scratch. But even Monday’s announcement concedes that the government is still “on the brink” of realising the bank’s creation.
Once they were largely excluded, that left the banks, and the potential sums available shrank. “Then,” says Ms Charlesworth who is now senior economist at the Nuffield Trust, “you have to decide how vigorously you search to reunite the original account holder with their money – and the internet is making that much easier than it used to be”. So, again, the sum available shrank to the point where there is now expected to be only £400m available in orphaned assets, and of that, only between £60m and £100m will be available in the first year, with European Commission approval needed even to be sure that sum can be spent. url: http://www.ft.com/cms/s/0/ebebb54a-3827-11e0-8257-00144feabdc0. html#ixzz1FyAM6JsT Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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24 MAR 2010 di: David Ainsworth
Social investment wholesale bank will be established But announcement is described as a ‘bittersweet pill’ by Acevo leader Stephen Bubb A social investment wholesale bank to provide more capital for third sector lenders will be developed using a ‘fund of funds’ structure, the Government announced in today’s Budget.
whether to bid to administer the fund when it knows more details, he added.
The Government has promised it will invest up to £75m in a fund that will invest money in other social investment funds, and will attempt to leverage more cash from private individuals. “The Government will work actively with potential co-investors and will look to appoint a fund manager after an open competition, selecting on the basis of their ability to leverage in private capital for social investment,” the Budget report said.
Geoff Burnand, co-founder of Investing for Good, which matches social investors and companies, said the fund of fund structure could be a good method for channelling funds into the sector. “It will be interesting to see how they leverage in capital,” he said. “This will be a good opportunity to get cash to existing providers.”
Stephen Bubb, chief executive of Acevo and chair of social lender Social Investment Business, who has campaigned for the formation of such a bank, said the announcement was a “bittersweet pill”. “It’s good they’ve announced they’ll put £75m into this,” he said, “but all the money from dormant bank accounts should have gone into it.” He said he thought the structure of the bank, and the amount of money that might go into it, might change if a Conservative administration took power. Social Investment Business will look at url: http://www.thirdsector.co.uk/news/archive/992647/Social-investment-wholesale-bankwill-established/?DCMP=ILC-SEARCH Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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14 FEB 2011 di: Nicholas Timmins
EU obstacle to Big Society Bank plan
Approval from the European Commission will be needed for the Big Society Bank to use hundreds of millions of pounds of money locked up in dormant bank accounts, the government revealed on Monday – and the £200m on commercial terms that was pledged to the bank last week by Britain’s biggest banks is dependent on them approving its business plan and structure. Sir Ronald Cohen, director of Social Finance, who is advising the government, said he had yet to have talks with the donor banks, but hoped that commercial terms merely meant “the money should not be seen as a grant that just gets written off”. The disclosures came as Francis Maude, the Cabinet Office minister, published the coalition’s “vision and strategy” for the Big Society Bank, and as David Cameron, prime minister, stepped up his defence of “the Big Society”. “What this is all about is giving people more power and control to improve their lives and their communities. That, in a nutshell, is what it’s all about,’’ said Mr Cameron. Countering criticism of the vagueness of his initiative, the prime minister said: “`Some people say it’s too vague. Well, if they mean by that there isn’t one single policy that’s being rolled out across the country, well yes, I accept that because actually what we are talking about here is a whole stream of things that need to be done.’’ The “vision” document envisages a day when charitable foundations invest 92
perhaps 5 per cent of their £95bn endowments in social enterprise and other social ventures. In other words, they put money into businesses that essentially have a social purpose, while accepting that the returns may, or may not, match commercial ones. A few have already done that, and final guidance is expected from the Charity Commission to provide comfort for others to do so. The day could also come – although the strategy paper is not clear entirely about how this would happen – when ordinary citizens would invest in social Isas, a chance to “invest for good, as long as they believe there is a reasonable chance of getting their money back, possibly with a financial return”. Those two changes, plus 0.5 per cent of existing institutional money going into social investment, could unlock about £10bn of new finance for businesses that regenerate rundown areas, provide employment – often to the disadvantaged – and compete for a much wider range of public service contracts than at present. The bank could also help staff leave their public employment in order to sell their services back as social enterprises. That £10bn, however, compares with less than £200m going into social investment at present from foundations and high net worth individuals. And while the Big Society Bank is seen as a key driver to expand that market, it is likely to have, at best, £300m available, or 3 per cent of the potential £10bn, as it starts business later this year.
Appendice
That will be made up of £200m, on commercial terms, from the big four British banks, but only once they have approved the Big Society Bank’s “business plan and structure.”
web.That will be made up of £200m, on commercial terms, from the big four British banks, but only once they have approved the Big Society Bank’s “business plan and structure.”
In addition, the bank hopes to have £60m to £100m available in the first year from the £400m in dormant bank accounts. Only part of that money can be drawn down for two reasons.
In addition, the bank hopes to have £60m to £100m available in the first year from the £400m in dormant bank accounts. Only part of that money can be drawn down for two reasons.
First, to cover the risk that people might emerge to claim their money. And second, because the government needs European Commission state aid approval to use the dormant accounts cash. While that is being sought, the document says, cash from the Big Lottery Fund will be accessed to allow the bank to start lending this year.
First, to cover the risk that people might emerge to claim their money. And second, because the government needs European Commission state aid approval to use the dormant accounts cash. While that is being sought, the document says, cash from the Big Lottery Fund will be accessed to allow the bank to start lending this year.
Mr Maude said the issue of state aid was “a technicality” and it was “pretty inconceivable” that the commission would refuse use of the assets. But he added: “There is no plan B. We will find a way to do it [the bank}, but it will all be much smaller.”
Mr Maude said the issue of state aid was “a technicality” and it was “pretty inconceivable” that the commission would refuse use of the assets. But he added: “There is no plan B. We will find a way to do it [the bank}, but it will all be much smaller.”
It will act as a wholesaler – lending to others to lend to social ventures, rather than doing so direct. Some have questioned whether that is the right approach.
It will act as a wholesaler – lending to others to lend to social ventures, rather than doing so direct. Some have questioned whether that is the right approach.
The vision document acknowledges that changes to the social investment market “will not take place overnight”. But the Big Society Bank and the growth of other forms of social investment “will be transformative in allowing social ventures to scale up and take on new challenges,” Mr Maude and Nick Herbert, the minister for civil society, said. .Copyright The Financial Times Limited 2011. You may share using our article tools. Please don’t cut articles from FT.com and redistribute by email or post to the
The vision document acknowledges that changes to the social investment market “will not take place overnight”. But the Big Society Bank and the growth of other forms of social investment “will be transformative in allowing social ventures to scale up and take on new challenges,” Mr Maude and Nick Herbert, the minister for civil society, said.
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10 FEB 2011 di: Nicholas Timmins
Big Society plan ‘will not plug cuts gap’
The Big Society Bank and other social finance initiatives will not be enough to replace charitable projects hit by government spending cuts, according to figures compiled by the Financial Times and the Young Foundation think-tank. Geoff Mulgan, former strategy director at Number 10 and head of the Young Foundation, said: “There are a lot of fertile ideas about [raising money] and things are starting to happen. But even on the most optimistic scenarios there is a vast gap between the scale of new money coming into social ventures and the sheer speed and scale of the spending cuts.” An additional £50m-£100m is likely to be added from dormant bank accounts to help build David Cameron’s Big Society. But even with existing investment in social enterprise and the development of new finance vehicles such as social impact bonds, the cash available is a minute fraction of the £81bn of spending cuts to come. New Philanthropy Capital estimates that those cuts will hit charities to the tune of £3bn to £5bn. Mr Maude rejected suggestions that the bank – once touted under Labour potentially to have access to £2bn of orphaned assets – is a damp squib. “It’s not designed to fill the gap on spending cuts – how could it?” he said. “This is capital. This is not revenue. This is capital for social enterprises and voluntary charity organisations, and there is already a social investment market. This will bulk it up.” 94
A comprehensive review of the social investment market to be published by the Young Foundation next week calculates, however, there was only £192m of private investment in social enterprises last year. The Institute for Fiscal Studies said the cut in government investment, capital spending, over the next four years was £17bn. Banks say “a new asset class” where people invest for social returns, not just a commercial return, is starting to emerge. And advocates of social impact bonds say they have the potential in time to raise hundreds of millions of pounds. Mr Maude said he was making operational a concept Labour had failed to deliver. “When I arrived, I asked to see the file [on Labour’s social investment bank] and it was blank, empty.” “They’d done pretty much the square root of bugger all, and so we had to start pretty much from scratch”. In time, he said, it will have “significantly more funds” and would become “a very substantial exercise. It will not have very much to begin with but we started off with no bank, no money, nothing happening, zero, zilch”. .Copyright The Financial Times Limited 2011. You may share using our article tools. Please don’t cut articles from FT.com and redistribute by email or post to the web. That will be made up of £200m, on commercial terms, from the big four British banks, but only once they have approved the Big Society Bank’s “business plan and structure.”
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In addition, the bank hopes to have £60m to £100m available in the first year from the £400m in dormant bank accounts. Only part of that money can be drawn down for two reasons. First, to cover the risk that people might emerge to claim their money. And second, because the government needs European Commission state aid approval to use the dormant accounts cash. While that is being sought, the document says, cash from the Big Lottery Fund will be accessed to allow the bank to start lending this year. Mr Maude said the issue of state aid was “a technicality” and it was “pretty inconceivable” that the commission would refuse use of the assets. But he added: “There is no plan B. We will find a way to do it [the bank}, but it will all be much smaller.” It will act as a wholesaler – lending to others to lend to social ventures, rather than doing so direct. Some have questioned whether that is the right approach. The vision document acknowledges that changes to the social investment market “will not take place overnight”. But the Big Society Bank and the growth of other forms of social investment “will be transformative in allowing social ventures to scale up and take on new challenges,” Mr Maude and Nick Herbert, the minister for civil society, said.
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09 FEB 2011 di: Nicol Degli Innocenti
Accordo tra governo e banche inglesi sui bonus dei ceo e i prestiti alle imprese Il “Progetto Merlino” é finalmente diventato realtá. Dopo mesi di negoziati dietro le quinte, trattative tese, rivelazioni, voci e smentite, oggi in parlamento il cancelliere George Osborne, a sorpresa, ha rivelato i contenuti dell’accordo tra il governo e le maggiori banche che operano in Gran Bretagna. Due i punti principali dell’intesa: innanzitutto le banche si sono impegnate a concedere crediti per almeno 190 miliardi di sterline alle imprese britanniche, soprattutto alle pmi, un aumento del 15% rispetto allo scorso anno. Lo stipendio annuale degli amministratori delegati delle maggiori banche, ha sottolineato Osborne, sará collegato alla performance relativa ai crediti concessi. La Banca d’Inghilterra avrá il compito di monitorare l’accordo. «Le banche concederanno più crediti, pagheranno piú tasse, elargiranno meno bonus, saranno piú trasparenti e contribuiranno di piú all’economia locale», ha dichiarato il cancelliere. Il secondo punto riguarda la “vexata quaestio” dei bonus. Osborne ha detto che il totale elargito in bonus sará inferiore allo scorso anno e che i dettagli sui compensi ricevuti dal ceo e dagli altri 6 maggiori dirigenti di ogni banca verranno resi noti. «Ora la Gran Bretagna ha le regole sulle retribuzioni bancarie piú trasparenti e piú dure in tutto il mondo», ha detto il cancelliere.
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Per quanto riguarda Rbs e Lloyds, le due banche “salvate” dal Tesoro durante la crisi, la parte in contanti dei bonus sará limitata a duemila sterline e il resto dovrá essere pagato in azioni che non potranno essere convertite prima del 2013. Stipendi e bonus inoltre dovranno essere approvati dal consiglio di amministrazione. La settimana prossima le banche interessate annunceranno i loro risultati e dovranno rivelare le ricompense per i dirigenti e si prevede che in totale la City elargirà 6 o 7 miliardi di sterline. L’intesa é stata siglata da Royal Bank of Scotland e Lloyds Group, da Hsbc e Barlays, e solo per la parte crediti alle imprese anche alla divisione britannica del colosso spagnolo Santander. Standard Chartered, che aveva partecipato alle prime riunioni del Progetto Merlino, ha poi preso le distanze. Osborne ieri aveva sorpreso le banche con un aumento di 800 milioni di sterline delle tasse sugli utili, portando il prelievo totale a 2,5 miliardi di sterline all’anno per tutta la legislatura. Un annuncio poco gradito dalle banche ma che, secondo il cancelliere, ha “spianato la strada” all’annuncio di oggi. Come dire: le banche avrebbero potuto concedere di piú in fase di negoziato ma il Tesoro sa come “vendicarsi” e avere l’ultima parola. Ci sono stati progressi anche sul fronte della “Big society”, il grande progetto di riforma sociale dal basso fortissimamente voluto da David Cameron. Il premier ha annunciato stamani in Parlamento che il settore bancario contribuirà 200 milioni di sterline alla “Big Society Bank”, che finan-
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zierá progetti sociali, organizzazioni locali e enti del volontariato. Altre centinaia di milioni verranno prelevati da tutti i conti bancari dormienti da oltre quindici anni. La banca dovrebbe aprire i battenti nella seconda metá dell’anno.
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18 GEN 2011 di: Nicholas Timmins
Clegg tackles banks on social investing
Banks are to be challenged on Wednesday by Nick Clegg, the deputy prime minister, to help create a new class of investment where private cash is put into projects that produce public good as well as a potential return to those who invest. Amid the row over bankers’ bonuses, Mr Clegg is expected to urge the banks to put something back into society by supporting social impact bonds and other forms of social investment. “There is the potential here,” he will say, “for the financial services industry to enter into a new social contract with the nation by becoming part of a new movement for social investment.” Further details of the government’s social investment strategy, including more about the “Big Society” bank, are due next month. Social investment, ministers believe, offers a way to raise money for public projects that are difficult to get off the ground because of the departmental nature of central government, where the benefits from an investment in prevention leads to savings in other departments. It also offers a way to offset some of the impact of the £81bn in public spending cuts over the next four years. Britain’s first social impact bond has been launched at Peterborough prison, where
£5m is being used to fund a programme aimed at cutting reoffending by working with short-term prisoners before and immediately after release. The cash has been put up by charitable foundations and philanthropists. If St Giles, the third sector organisation running the programme, reduces re-offending sufficiently, it receives a financial return. If not, it loses its money. Mr Clegg, who is due to speak at the launch of a government report on early intervention on Wednesday, will also highlight a similar project in Greater Manchester where all 10 authorities are hoping to raise a much larger sum to invest in preventative work with problem families. The authorities are working with Social Finance and the Number 10 strategy unit. Work with families can cost £8,000 to £20,000 per family. But down the line, according to figures the strategy unit is using, it can save £87,000 to £500,000 in cutting costs from foster care and reduced crime, police and court time, and imprisonment. A number of banks – notably JPMorgan and Deutsche Bank – are exploring and supporting these forms of social investment, believing that in time they could become a tradeable asset class.
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03 FEB 2011 di: Leonardo Becchetti
La big society: una storia italiana
Fa certamente piacere che nel Regno Unito abbiano scoperto le virtù della società civile. Si tratta di una scoperta in parte “interessata” perché la crisi finanziaria che ha messo in ginocchio le finanze del paese ha richiesto una cura draconiana con tagli di spesa senza precedenti. Bisogna riconoscere che il premier Cameron con il suo piglio giovanile e la sua capacità di comunicazione ha fatto digerire al paese una medicina amara con perdite di consenso e conflitti (che pure ci sono stati) tutto sommato limitati. Molto ha contribuito l’appello all’orgoglio e alle energie della società civile, all’azione dal basso e alle motivazioni intrinseche delle organizzazioni sociali che possono sopperire alla mancanza di risorse. E’ anche un dato di fatto che Cameron ed Obama sono accomunati dal fatto di essere i primi leader, anche se provenienti da schieramenti diversi, che per generazione ed esperienze sanno veramente cos’è il terzo settore e le organizzazioni not for profit. Rileggendo uno dei documenti costitutivi della big society (la dichiarazione di Cameron a Liverpool del 19 Luglio 2010) il premier conservatore sostiene di voler creare “una banca della Big Society, per aiutare a finanziare imprese, enti benefici e gruppi di volontariato” affermando poi di volerla creare “usando ogni penny dei conti dormienti nelle banche e nelle società di mutui di tutta l’Inghilterra.” Devo dire che fa impressione che, in un paese nel quale ha prosperato un riduzionismo economicista che ha “desertificato” (proprio nel settore dell’intermediazio99
ne finanziaria) ogni spazio tra le banche d’affari e la filantropia, una tappa fondamentale e un obiettivo della nuova era sia il nostro punto di partenza. Con tutto il rispetto per i penny dei conti dormienti e per le avveniristiche innovazioni promesse per il sistema bancario britannico la ricchezza e vitalità della nostra società civile ha partorito da tempo un sistema di banche cooperative e popolari e, ultimamente di banche etiche, che svolgono da tempo questa funzione e che hanno saputo capitalizzarsi raccogliendo risorse finanziarie e consensi dalla società “non dormiente” dei nostri territori. Sarebbe bene ricordare tutto questo ai regolatori di Basilea che non avendo forse compreso appieno l’origine della crisi finanziaria globale (sia dal lato degli strumenti che degli intermediari finanziari) sembrano perversamente dediti a porre nuovi ostacoli a quella biodiversità bancaria che ha salvato il nostro paese da una catastrofe del debito pubblico che per noi, visti i livelli di partenza, sarebbe stata letale. Insomma l’entusiasmo dei neofiti che scoprono la big society ricorda quello del pur validissimo Yunus nel libro “Un mondo senza povertà” quando, avventurandosi in terreni diversi rispetto al suo microcredito, dichiara, sulla scia dell’esperienza della joint venture tra Grameen e Danone, di aver inventato l’impresa sociale saltando a piè pari secoli di tradizione e di cultura economica italiana ed Europa che parte dalle cooperative tradizionali di lavoro e di consumo ed arriva oggi alle cooperative sociali.
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Concetti che sembrano banali suonano molto meglio quando li diciamo in inglese ma ogni tanto un po’ di orgoglio italico ogni tanto non guasta, soprattutto quando guardiamo alla ricchezza di capitale sociale di alcuni nostri territori. La big society ? Una storia italiana….
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10 FEB 2011 di: Nicholas Timmins e James Boxell
Investors seek returns in social gain
“Our alternative to Big Government is the Big Society” David Cameron declared in 2009, before the general election. Government has certainly shrunk since then. Some £81bn of spending cuts, the biggest since the second world war, are to take place over the next four years. But even as public services face their biggest beating in more than 60 years, a brave new world is being promised that harnesses new, not-so-new and some very old ideas in a model aimed at transforming the way public services and society work. It is a universe in which suppliers of anything from welfare-to-work services to prisoner rehabilitation and the management of patients with long-term conditions are paid purely by results. In this world, staff quit the public service only to sell their services back through employeeowned, not-for-profit, mutual businesses. Meanwhile, social enterprises also help regenerate rundown areas, creating employment and keeping post offices open by combining them with other businesses, while volunteers run libraries or community facilities. New forms of finance are becoming available to help fund this “Big Society”. The aim is to raise money that can help with social enterprise development but also tackle some of the issues with which society has long struggled by supplying upfront private investment at little or no risk to the public purse if the projects fail.
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Serious spending on dysfunctional families through parenting and childcare programmes can produce a huge pay-off in terms of lower crime rates and higher personal earnings. The problem is that the investment has to come from council budgets while the savings accrue to the police, courts, prisons, probation and the welfare budget many years down the line. And to help make this possible, “a new asset class” is starting to emerge, according to bankers at JPMorgan and Deutsche Bank – one where investors put their money in for social gains, not just a return, though in time these products should produce returns and become tradeable. “This is being led and is likely to be led by high net worth individuals through private banks, their private foundations or family offices,” says Nick O’Donohoe, global head of research at JPMorgan. “But they are the people who took the lead in the development of other new asset classes such as hedge funds and private equity. “The reason is that they are not bound by the same level of fiduciary duty as, for example, a pension fund where the trustees have a primary duty to maximise their risk adjusted return. If you are a pension fund, much as you might like to invest for a social impact it is very difficult to do that at the moment”. Investments, he says, vary from those looking for a commercial return but also a social impact, to investments in more deprived areas “where there is very unlikely” to be a full commercial return.
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“Most banks are now at least looking at this. Deutsche has invested in Bridges [a fund that invests in social enterprises] but plenty of others, HSBC and RBS for example, are getting a lot of questions from their private banking clients about this, even if that has not yet translated into cash.” JPMorgan itself will soon invest, he says. “It is part of the post credit crisis zeitgeist. There is disillusionment with banks and finance and more desire to create some positive impacts from investment” – drawing partly on the impact of microfinance in the developing world
says Toby Eccles, the development director of Social Finance, the body that has launched the first one. But its £5m bond is “a drop in the ocean” in the face of the spending cuts. “This has the momentum to build in to something significant. But we are talking five to 10 years when the spending cuts bite over the next four. This is not something that gets government spending out of its hole”.
But can these new forms of investment, and the Big Society Bank, possibly plug the gaping holes left by the spending cuts? In the short term, absolutely not. A comprehensive review of the sector to be published by the Young Foundation next week shows the scale of the challenge. While £81bn is being cut from public spending, £17bn of it capital expenditure, total private social investment was estimated at £192m last year. The Big Society Bank is likely, initially, to have only about £300m available. And while the Young Foundation report says there are “hundreds” of organisations dedicated to helping social ventures grow, many such enterprises do not have good business plans, and “many social investors struggle to find investible ventures”. The Triodos ethical bank closed a social enterprise fund in Julyafter making just one deal. Yet, at the same time, few social ventures are able to access the £50,000-plus needed for serious expansion. Social impact bonds have big potential, url:http://www.ft.com/cms/s/0/f1593f76-3556-11e0-aa6c-00144feabdc0. html#ixzz1DsLynofS Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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14 FEB 2011 di: Nicholas Timmins e James Boxell
Cameron targets ‘social recovery’
David Cameron said Britain needed “social recovery” to accompany economic recovery as the prime minister spelt out his vision for the Big Society and the role of the government’s social investment bank. In a speech defending the policy he has described as his “mission in politics” but which has been criticised as a figleaf for spending cuts, Mr Cameron said volunteering was not the only idea in his plan. The Big Society would also give more power to local people and open up public services to private and voluntary operators. In separate media interviews, he insisted that he was “different to Margaret Thatcher, different to past Conservative governments”. However, charity bosses have been lining up to tell him his Big Society project is being derailed by council funding cuts. Dame Elisabeth Hoodless, head of Community Service Volunteers, said last week that volunteering was being “devastated” by the cuts. Sir Stephen Bubb of the Association of Chief Executives of Voluntary Organisations on Monday welcomed the commitment to get voluntary groups more involved in public services and the creation of a Big Society bank. But he criticised the £1bn of spending cuts to the sector over the next year. “He [Cameron] would only have answered all of our worries if he had said the £1bn of cuts to the sector over 103
the next year were not going to happen. How do you build a Big Society if you are cutting the heart out of it at the same time?” Critics also fear that opening up public services will lead to privatisation by the back door, as companies such as Serco, Capita and PwC exploit their greater access to capital to outbid voluntary groups. The Big Society bank has been set up to boost investment in charities and social enterprises, which have struggled to attract cash from traditional lenders. It will be run independently from government and will provide wholesale lending to smaller investment groups, which will in turn invest in local groups. But the bank will have, at most, only £300m to invest in its first year. It also emerged that the government would need to secure approval from the European Commission, under state aid rules, to let the bank access up to £400m of unclaimed assets from dormant bank accounts. Francis Maude, Cabinet Office minister, said the issue was “a technicality” and it was “pretty inconceivable” that the Commission would refuse. But if it did “there is no plan B. We will find a way to do it [the bank], but it will all be much smaller”. The £200m being pumped into the Big Society bank by high street lenders is also coming on commercial terms – which im-
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plies it would have to lend at commercial rates, potentially undermining its impact. Sir Ronald Cohen, former chairman of Apax Partners and veteran social investor who is advising the government, said he hoped commercial terms merely meant that “the money should not be seen as a grant that just gets written off”. He said loans at commercial rates “would not be ideal”.
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23 FEB 2011 di: Brian Groom
Former public sector workers are a hard sell
Gill Walker plans to create her own social enterprise, Patchwork People, when her job as assistant director of children’s services at Darlington borough council in north-east England is axed at Easter. The 54-year-old former primary school head hopes to create a shop, run by and for young people, where they can buy and sell fashion items – a model she would like to roll out to other towns. The staff would get retail training and a few hours’ paid work a week. With at least 400,000 public sector jobs set to go over the next five years, workers are going to have to be imaginative in finding ways to use their skills. More than half of private sector companies say they have no interest in taking on ex-public sector workers and think they lack the right skills, according to a poll by Barclays Corporate and the Financial Times. In the north-east, with a smaller private sector than other regions, it will be particularly hard.
Lorna Moran, the recruitment company’s chief executive, doubts whether private sector growth in the region will be strong enough in the short term to absorb those made redundant in the public sector. For those with transferable skills, such as accountancy or information technology, there may be openings, but others are likely to struggle. “The world of finding work has probably changed since they last looked,” she says. According to the Barclays/FT poll, businesses with turnovers of £100m-£500m are the most open to hiring ex-public sector workers, whereas small businesses with turnover below £5m are the least keen – 70 per cent are not interested. Simon Topman, managing director of Acme Whistles, a Birmingham company founded in the 1860s that employs 65 people – it made the whistles used by the crew of the Titanic – says he would think twice before hiring someone from the public sector.
An absence of like-for-like jobs in the private sector will force many to look at other options, such as creating businesses, social enterprises or simply becoming self-employed and working for a variety of outlets. None is easy, particularly in view of the shortage of social investment capital and the squeeze on charities.
“I wouldn’t rule it out completely, but I would take some convincing,” he says. “There is quite a difference in mindset and speed of work and the way of working. A lot of people are going to struggle to find jobs at the kind of salary rates and employment benefits they have been used to.”
Ms Walker’s plan was hatched on a threeweek programme run by Northern Recruitment Group, aimed at finding ways to retain senior staff hit by the recession in the north-east.
Larger companies tend to be more openminded, but are not necessarily expecting floods of applicants. “I think it might well be that a lot of people opt for portfolio careers or completely different careers.
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They might decide to retire,” says Barry Hoffman, human resources director at Computacenter, the information technology services group.
web.
Not that the opportunities are huge: Computacenter’s UK staff of 4,500 is growing slowly. Another sympathetic company is G4S, the security contractor. “We have taken on public sector workers in the past and it’s always worked out quite well,” says Irene Cowden, human resources director. “People in the public sector are getting a bad press, in terms of how flexible they are.” Some have arrived with technical expertise and then been able to build their commercial skills, she says. But with unemployment at 2.5m and threatening to rise further, applicants may find themselves up against more qualified competitors from the private sector. Public sector workers who might find a home at G4S include ex-police officers and prison staff for roles in its justice business, such as electronic monitoring, prisons and immigration centres. G4S employs 49,500 people in the UK and Ireland, up from 29,000 in 2006, and is still growing. Nationally, recruitment companies say there will be opportunities but they may not be attractive. “There is a huge chance that the vast majority will have something if they want it – whether it is the thing they want is completely different,” says Steven Kirkpatrick, managing director of Adecco UK, part of the Swiss recruitment agency. .Copyright The Financial Times Limited 2011. You may share using our article tools. Please don’t cut articles from FT.com and redistribute by email or post to the url:http://www.ft.com/cms/s/0/002e8154-3f99-11e0-a1ba-00144feabdc0. html#ixzz1Fs9PXLNO Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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06 FEB 2011 di: Danny Kruger
Death by a thousand cuts for Big Society
The Big Society is in a little trouble. A chorus of charity bosses is chanting their disillusion. Reports last week suggested senior government figures are worried the “agenda” is not “delivering”. Meanwhile the recusant Tory right are only emboldened by grim economic news. The coalition is out of touch with the concerns of ordinary people, they say: low growth and high youth unemployment call for a bigger economy; the bigger society can wait. It is the end of a honeymoon for an idea Conservatives once believed would never be loved at all. In May 2010, after a poor election campaign in which the concept was ignored, senior Tories consigned it to the back room. But something happened. Over the summer polling reported an astonishing level of recognition. Even if people had little idea what the phrase meant, they liked the sound of it. For a while, the Big Society outplayed “the cuts” as the government’s chief motif. So the idea is too abstract and granular for our politics. Part airy philosophy, part grassroots movement, it is a big idea about small public parks and local post offices. It may be the prime minister’s passion, but it has no minister or department. Instead the weight of the government’s primary social mission rests on the 34-year-old shoulders of Nat Wei, an entrepreneur whom David Cameron made a peer and told to make it happen. Lord Wei has, quietly, been doing just that. Two potentially radical bills on localism and the public sector have been introduced, as has an important white paper on giving to charities. The £400m
Big Society Bank will soon pour money into local social enterprises. Charities and community groups will be licensed to provide public services and paid for their results. Later this year a national citizen service for school-leavers will launch, “free schools” will open and new mutuals run by doctors and nurses will spin out of the NHS. Despite all this, the Big Society is suffering from its defining contradiction: a central government initiative that casts central government as the enemy; a grassroots movement born in Whitehall. Recognising this, the coalition has embraced a neoliberal interpretation, in which the Big Society simply means free men and women taking power into their own hands, where the only job of the state is to get out of the way. Covert nudges may enjoin good behaviour, but the government’s role is a negative one: to police the laisser-faire regime where what happens, happens. This is coherent, but it is cowardly. It avoids the charge of authoritarianism but it invites the charge of indifference. It denies the fact that too little is being done to smooth the transition from a statist system to a liberalised one. Charity heads, squealing about their funding, are engaged not only in special pleading. There is a problem with the way cuts are being passed on to charities by councils and quangos, which find it easier to end a grant than to fire an employee. At the same time, the Big Society lacks an economic story. As “red Tory” Phillip Blond has argued, the government should
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be breaking up entrenched interests in the commercial as well as the statutory sector. The Big Society is too associated with volunteers and public services, too little with breaking up banks. Some advocates think the Big Society, like privatisation, will win support when people see it working. That is a noble but misguided idea. The concept needs leadership and the reassurance of personality. If Big Society had a Facebook page, there is no question who the biggest face should be. Last August Mr Cameron saved free milk for under-fives. The move ran counter to his government’s policy direction but showed sensitivity to the realities of his reforms. He should now step in to mitigate the pain felt by the local charities he claims to support. As prime minister he is not – or should not be – a nightwatchman patrolling the perimeter of national life. He is a leader, asserting the values he knows we need and supporting the families, small businesses and neighbourhoods that weave the nation together. In short, this social revolution needs a revolutionary-in-chief, to direct the forces that have been unleashed. Lenin arrived in St Petersburg just in time. David Cameron: to the Finland station.
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12 MAG 2010 di: John Plummer
Explain ‘big society’ or cynicism will kill it, government is warned
Community Sector Coalition says many fear David Cameron’s idea is code for cuts The Conservatives must explain their ‘big society’ idea quickly before it is destroyed by cynicism, according to the Community Sector Coalition. Matthew Scott, director of the coalition, whose members include local infrastructure body Navca, volunteering charity BTCV and Community Matters, which represents community organisations, said there were widespread fears that big society was a codeword for “big cuts”. He said unless something was done to address these concerns the project might be doomed before it had begun.
ve common goals and better outcomes” and hoped the new government adopted this approach to the voluntary sector. “The Community Sector Coalition welcomes an election outcome that encourages collaborative working,” he said. “We hope that the new government will improve on the ‘pick-and-mix’ approach to third sector policy in the manifestos. “Without a clear policy for investment in supporting communities and neighbourhood groups, there is a likelihood that local activity will decline.”
“Community action is not a soundbite; it grows up over years of hard work, and this needs protecting and investing in,” said Scott. “Now is the time to get real about what it takes to build society from the grass roots.” He praised the Conservatives’ support of a wider approach to civil society but said the new coalition government needed to listen to small community groups about what worked if it wanted to make a difference. Scott, whose organisation has a membership of 25 umbrella organisations, said coalitions were “an inclusive way to achieurl: http://www.thirdsector.co.uk/channels/Volunteering/Article/1002840/Explain-big-society-cynicism-will-kill-it-government-warned/ Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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09 SET 2010 di: Nicholas Timmins
Voluntary sector projects ‘already being cut’
Councils and NHS bodies are already cutting funding for third sector projects even ahead of the spending review, according to chief executives of voluntary organisations. Despite David Cameron’s call for a “big society”, in practice “precisely the opposite is starting to happen on the ground,” Stephen Bubb, chief executive of the Association of Chief Executives of Voluntary Organisation said on Thursday. In a letter to George Osborne, 370 leaders of third sector organisations urged the chancellor to set up a “fairness panel” drawn from their number “to scrutinize the final stages of the spending review process”.
tions backed by former Labour advisers in Downing Street and by Philip Blond, the “red Tory” who is director of Respublica, to retain the savings structure for the so-called “baby bonds” even though the coalition has announced that it will stop paying in to them from next year. Retaining the infrastructure would mean that “an effective instrument to boost savings, increase financial capability and to promote responsibility around children’s savings” would still exist, to be built on in future, the Save Child Savings organisation argues.
They fear the coalition’s commitment to fairness “will slip unintentionally into cuts that hit the most vulnerable hardest”. As they also published an opinion poll showing that four out of five people fear that the cuts to come will hit the most vulnerable in society, they say “we are already starting to see cuts on the ground at local level. “The very state-charity partnerships that could enable us to square the circle – to cut spending while protecting those most in need – are being eroded”. Meanwhile the government is being pressed by a coalition of children’s organisaurl:http://www.ft.com/cms/s/0/139f741a-bc21-11df-8c02-00144feab49a. html#axzz1LZLVGC4z Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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10 FEB 2011 di: -
The Big Society. Platoons under siege
The “Big Society”, David Cameron’s flagship policy, is under attack—and not only from his Labour opponents AT THE Burton Addiction Centre (BAC), a handsome redbrick building in the industrial town of Burton-on-Trent in Staffordshire, a group of addicts meets for a therapy session. One describes a childhood of violent abuse, followed by heroin and alcohol dependency. In reception, the phone rings constantly; calls are connected to the detox unit, probation service and a team of former addicts who now counsel current ones. It’s a spider’s web of rehab services, with one determined woman, Noreen Oliver, at the centre of it. A recovering alcoholic, she set up the centre “because I saw from my own treatment that rehab needed to be closely linked into the community to have longterm results.” Now the BAC offers residential patients a four-month therapeutic programme before helping them to find housing and work. Alongside government funding, it raises money from local businesses and charities; Ms Oliver is opening a café in the town that will employ former addicts. She is a staunch supporter of communities doing more to help their weakest members. “I don’t expect money to always just be there,” she says. “You also have to go out and get people involved.” As he struggles to save the “Big Society” from the blasts of opponents and infighting on his own side, David Cameron needs examples like this to show that his big idea is more than wishful thinking, or worse. His government’s inclusive motto—“We’re all in this together”—is being drowned out by accusations that its grand project is a cynical cover for public-sector cuts: the “Big Con”, as one Labour MP puts it. 111
The Big Society evolved in opposition as the Conservatives sought to slough off their reputation as a heartless bunch, fixated only on economic outcomes. Besides reminding the Tory party to sound nice (never a bad idea), the concept had ideological roots. Mr Cameron and his allies are keen on pushing power away from central government. They want to encourage pluralism and competition in the delivery of services—and to dilute the British tendency to think that the public purse should be the first and only port of call for everything from libraries to children’s centres. In its first year, the coalition government has begun to deliver policies that reflect those beliefs (broadly shared by the Liberal Democrats, the Tories’ coalition partners). A first, smallish wave of “free schools” are being set up (see article). There are to be more directly elected mayors in major cities and new, elected local police commissioners. The welfare system is being overhauled to let private firms and charities compete for more contracts. But the Big Society has come up against the rough business of cuts: to shrink Britain’s gaping fiscal deficit, the government is implementing drastic reductions in public spending. Protests about the impending closure of libraries and messy plans to remove woodland from public ownership have put ministers on the defensive. Even some of the Big Society’s devotees in Number 10 admit that the upbeat message of mutual reliance has got lost in the rows over deficit reduction, and the consequences for charities and others that depend on local councils for money.
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Councils such as Tory-controlled Hammersmith and Fulham in London that are selling off buildings used by charities stand accused of undermining the voluntary activity the Big Society is supposed to encourage. Liverpool’s Labour council has withdrawn from a scheme intended to give community groups and volunteers more control over services. Meanwhile Lord Wei, Mr Cameron’s Big Society adviser, has reduced his own voluntary commitment to the task. Phillip Blond, a thinker who helped popularise the idea, has warned that it “is still not widely grasped or shared across all departments”. The Big Society’s woes are not just a gift to the Labour Party. Some Tories believe that last year’s general election might have been won outright had Mr Cameron not harped on about his pet philosophy, and are not reconciled to it. But its Tory critics are not restricted to the ranks of the unreconstructed right. One prominent new backbencher says the Big Society is already “dead in the water.” Far better, he says, to focus on saving the economy and be judged on that.
sees the Big Society as a cover for cuts; polling by the Sun, a tabloid newspaper, showed that 46% thought it was “a good idea”, but only 28% thought they knew what it meant. A sounder indicator that the coalition might be unwise to forsake this agenda is its opponents’ mimicry. Ed Miliband, Labour’s leader, wants to build an “army” of 10,000 community volunteers. While decrying Mr Cameron’s plan as a sham, he is likewise keen to revitalise people power. More thoughtful Labourites worry that dismissing localism leaves them stranded as the party of the bossy, big state. Ultimately, the Big Society, flaky as it sounds to some, represents an ambition to make the state do less, do it better and encourage Edmund Burke’s “little platoons” to take on more responsibility. Those aims are at the heart of Mr Cameron’s new Conservatism. Whatever the label, he can’t afford to give them up.
Danny Kruger disagrees. He was an early proponent of the concept in his days as a Tory aide. Now he runs Only Connect, near Kings Cross station in London, a project for ex-offenders and youths in danger of drifting into crime. Mr Kruger’s project, which boasts low reoffending rates of around 15%, relies mainly on donations from the City. He wants Mr Cameron to intervene when councils cut charitable grants instead of trimming their own payrolls. The Big Society, he says, needs “a revolutionary leader” in Number 10. Downing Street says the idea isn’t supposed to be driven by top-down meddling. At least the term has caught on, even if people are doubtful about what it signifies. Some surveys suggest the public url:http://www.economist.com/node/18114719?story_id=18114719 Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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26 FEB 2011 di: Riccardo Sorrentino
Se la big society non dà la felicità proviamo col Pil
Addio Pil. Non sarai più al centro delle attenzioni dei britannici. Così almeno vorrebbe David Cameron, il premier di Londra. Da aprile l’ufficio di statistica sarà in grado di misurare il grado di soddisfazione dei cittadini, con il placet autorevole del premio Nobel Joseph Stiglitz, che aveva proposto l’adozione di questo indicatore nella commissione voluta da Nicholas Sarkozy; e la soddisfazione di arrivare prima dei francesi. Sta davvero cambiando tutto, Cameron. A colpi di slogan indovinati: la big society, il nuovo paradigma della politica monetaria, il nuovo Pil della felicità. Tutto molto fresco e nuovo, ma anche - direbbero i britannici - self-serving: molto utile ai suoi immediati obiettivi politici, di immediata rilevanza. Sì, perché c’è molto poco, dietro quelle parole. La big society non è il tentativo di rivitalizzare e risvegliare la società civile, la partecipazione, l’innovazione e l’”imprenditorialità” - in senso lato, anche non-profit - nella gestione beni pubblici o comuni. È il semplice tentativo di tagliare le spese statali senza dover fare e annunciare scelte impopolari, un po’ scaricando la responsabilità e gli oneri su altri soggetti. Il nuovo paradigma della politica monetaria è l’auspicio - molto, molto irrituale - che la banca centrale, impegnata per legge a centrare un obiettivo d’inflazione, sostenga invece la crescita in un momento difficile per la politica fiscale. Una sfortunata coincidenza fa ora appa-
rire il Pil della felicità come il desiderio di nascondere la dura realtà, la difficile crisi dell’economia britannica che nel quarto trimestre del 2010 - forse per un’irripetibile congiunzione di difficoltà - ha nuovamente segnato una brusca contrazione. Anche se il pensiero non può che andare alla deindustrializzazione del paese e poi alla perdita di prestigio e forse di peso della City nel panorama internazionale. Grandi slogan per piccoli obiettivi, dunque. E tutto questo per concludere, come un qualunque post-comunista un po’ nostalgico della mano visibilissima del governo, che «il mercato è un mezzo, non un fine»: una frase quanto mai ambigua, che può essere letta in molti modi diversi, persino in contraddizione con l’idea della big society ma - di questi tempi - molto popolare. È una politica vecchia, dunque, e una politica cattiva. In vestiti nuovi ed eleganti. Non c’è nulla di peggio, per un leader politico o per un imprenditore, che voler vendere necessità contingenti come strategie di lungo periodo di cui domani il paese potrà pentirsi. Cameron è caduto nella tentazione, in pieno. Senza l’intelligenza dei liberali, né il rigore dei conservatori: quasi come un populista qualunque. David Cameron Premier inglese «Il benessere non si scambia in Borsa ma dipende dalla qualità della cultura, dalla bellezza della natura e dalla solidità delle nostre relazioni»
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02 GEN 2011 di: -
Se la big society inizia in banca
Le mani nel portafogli dei banchieri che le associazioni britanniche del volontariato suggeriscono d’infilare, una volta di più e con rinnovata lena, sono l’immagine di un contrappasso dantesco. Ad alta dose di populismo. Sarebbe però riduttivo liquidare solo come propagandistica l’operazione all’esame del cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, chiamato a valutare se un balzello sui bonus dei bankers debba attutire le conseguenze della stretta al welfare imposta dal deficit di bilancio. Far riferimento di continuo ai pacchetti retributivi dei banchieri, improbabile panacea per risolvere qualsiasi male delle società post credit crunch, è segno di una verticale caduta di credibilità. Il sistema bancario paga il prezzo del salvataggio garantito dalla mano pubblica, dai tax payers, i contribuenti, come i media inglesi non si stancano di sottolineare. Denari dei cittadini che ai cittadini devono tornare, è divenuta la rampogna quotidiana. Con dosi d’indiscutibile verità, ma altrettanto intense pennellate di demagogia. Inevitabile? Forse, ma senza dimenticare che tutto ciò non sarebbe potuto accadere se lo stato non fosse accorso, due anni fa, al capezzale del mondo del credito.
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13 GEN 2011 di: Sophie Hudson
Transition Fund criticised over eligibility criteria Charities can apply only if they expect to lose 30 per cent of taxpayer-funded income for front-line services
Charities have criticised the application deadline and criteria for the government’s £100m Transition Fund on the grounds that they are unlikely to know whether they are eligible before the fund closes on 21 January. One of the six application criteria is that organisations must have “evidence or substantial reason to believe, that between April 2011 and March 2012, your organisation will experience a reduction of at least 30 per cent of the taxpayer-funded income you receive for the delivery of front-line public services in England”. Charities have complained that they will not have a clear enough financial plan in place before the deadline because public sector funders will not have made final decisions on funding by then. Iona Joy, head of charity analysis at the think tank New Philanthropy Capital, said most charities would not hear details about their other statutory funding until February. “The fact that they can’t apply when they are facing a fairly acute crisis is going to reduce their chance of survival,” she said. Catherine Lacey, director of Oxfordshire Children and Voluntary Youth Services, said it would be hard for organisations in the area to apply because the county council was not going to be releasing information on its grants for the sector until February. “Most of them aren’t applying at all as it’s hard to justify applying for something they don’t think they’re going to get,” she
said. Paul Lawrence, chief executive of the Oxfordshire Association for Young People, said:”We are going to apply but I think it’s going to be very difficult to obtain the funding. 2011 is going to be a very nervous year for us; we’re already looking at redundancies.” Some charities said they were also frustrated by the transition fund criterion that says an organisations can only apply for a grant if 60 per cent of its total income comes from taxpayer-funded sources. Paul Tuohy, chief executive of the drug prevention charity Mentor, said it was unfair that charities that have acted on advice to diversify their income sources could now be ineligible to apply for a grant because of this. “It leaves a sour taste in the mouth,” he said. “I don’t think it’s a level playing field.” A Cabinet Office spokesman said the application period had been designed to ensure the money got to organisations on the frontline as quickly as possible. “This is a short-term fund designed to give civil society organisations and social enterprises breathing space to adjust to a new funding environment,” he said. “Where organisations do not have concrete evidence of the reductions in funding by 21 January, but have strong reason to believe they will be facing reductions of at least 30 per cent in their public funding in 2011/12, they are able to make an application on this basis.”
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09 MAR 2011 di: Leonardo Becchetti
La “big society”. Ecco come realizzarla
I vincoli di bilancio spingono le amministrazioni pubbliche dei paesi dell’UE ad alimentare la retorica della big society. La sussidiarietà (delega dell’erogazione di un bene o servizio pubblico a una realtà diversa dallo stato centrale, locale, più piccola e più prossima all’utente finale) non è più una curiosità per esperti di dottrina sociale ma una necessità. C’è modo e modo di realizzare la sussidiarietà e di creare partnership tra pubblico, privato e società civile. Vediamo alcuni esempi positivi e negativi. Gli appalti della pubblica amministrazione. Esagerare nei risparmi nelle gare di appalto crea danni molto superiori ai risparmi di costo. E’ ben noto agli studiosi che usare come unico criterio il prezzo, e non anche la reputazione dell’azienda che gareggia, finisce per aumentare il rischio che imprese di dubbia reputazione possano vincere, interrompendo a metà contratto l’erogazione del servizio per chiedere altri soldi. Inoltre usare esclusivamente questo criterio di valutazione vuol dire trasferire precarietà sulle cooperative sociali che vincono la gara le quali sono costrette a sottopagare il lavoro. Qualità e copertura dei servizi sono gravemente compromesse. I ritardi nei pagamenti delle fatture della pubblica amministrazione. In violazione delle norme comunitarie che stabiliscono vincoli sui ritardi di pagamento, le amministrazioni pubbliche in Italia pagano con sempre maggiori ritardi le cooperative che erogano servizi. In alcuni comuni del Sud il ritardo ammonta a due anni. A Roma siamo tra gli ottanta e i centoventi giorni. Le cooperative non hanno quasi mai la 116
liquidità necessaria per effettuare le spese per svolgere la loro attività prima di essere pagate e sono costrette a farsi anticipare il pagamento delle fatture dalle banche. Le banche, che prendono il danaro dai risparmiatori pagandolo come minimo l’1.5 percento sono costrette a chiedere tassi attorno al 3 percento. I ritardi delle amministrazioni finiscono dunque per erodere le somme effettivamente messe a disposizione delle cooperative che erogano i servizi. Le conseguenze dei due fenomeni perversi di cui sopra sono che molte cooperative chiudono o rischiano di chiudere, i servizi non sono erogati e gran parte dei lavoratori delle cooperative sociali, per tenere in vita i posti di lavoro, devono trasformare parte del loro lavoro da remunerato a volontario. Le soluzioni macro. Ci sono due soluzioni macro a questo problema. Il fatto che il rubinetto di fondi debba prosciugarsi non è un destino ineluttabile. A parità di saldo complessivo per la finanza pubblica è possibile agire in due direzioni. A livello nazionale i 2 miliardi nel settore dei servizi sociali tagliati dal 2008 ad oggi potevano essere recuperati da varie altre fonti come ricorda puntualmente la contro-finanziaria di Sbilanciamoci che è spesso stata d’ispirazione per provvedimenti effettivamente varati in finanziarie successive dai governi. A livello internazionale la discussione sulla tassa sulle transazioni finanziarie è ormai in fase avanzata con tre governi UE (Francia, Germania e Austria) chiaramente a favore. In un appello di 130 economisti italiani, riprendendo un lavoro di ricerca del Fondo Monetario Internazionale, abbiamo evidenziato che la tassa non
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ha niente di trascendentale assomigliando alle tradizionali imposte di bollo esistenti su tutti i mercati finanziari ed è praticabile anche in un ristretto numero di paesi. Si consentirebbe in questo modo alla finanza di restituire parte delle risorse che i bilanci pubblici hanno perso non perché i dipendenti pubblici “fannulloni” hanno passato un’ora in più al bar ma (soprattutto nei paesi dove la crisi finanziaria globale è stata più acuta) per i comportamenti incauti delle banche d’affari.
e li portano al finanziamento della banca stessa. Nessuno è così ingenuo da non sapere che le cose potrebbero non andare esattamente così ma le potenzialità per un circolo virtuoso, laddove esso è più importante e urgente, ci sono tutte.
Le soluzioni micro. Nel frattempo bisogna ingegnarsi in tutti i modi e le attuali ristrettezze devono diventare un’opportunità per creare sinergie tra pubblico, privato profit e privato sociale. Un esempio micro interessante cui ho partecipato direttamente è quello della formazione al microcredito dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche del Centro-Sud che lavorano agli sportelli informativi per gli immigrati e coloro che sono alla ricerca di lavoro. Il sogno è che si passi da scenari nei quali un dipendente pubblico, che si limita a dare informazioni in uno sportello, si trasformi in un valutatore di progetto in grado di aiutare un giovane senza lavoro o un immigrato a fare un business plan per far nascere un’impresa. Sembra un sogno irrealizzabile ma la posta in gioco è molto alta e vale la candela. Si tratta di far comprendere che le risorse vanno create prima di poter essere redistribuite proprio laddove la cultura imprenditoriale è più scarsa e non ancora estinta l’idea che le proprie energie vadano impegnate per mettersi alla corte di qualche potente in grado di passare parte della propria rendita di posizione. Nel concreto: una Ong esperta in percorsi di inserimento lavoro per immigrati organizza la formazione selezionando i dipendenti pubblici più motivati, una banca si occupa nel concreto della formazione alla preparazione del progetto e all’istruttoria. I partecipanti selezionano nel concreto i progetti migliori url:http://www.benecomune.net/news2010.php?notizia=1288 Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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19 NOV 2010 di: Deborah Ameri
“Big Society”, in Gran Bretagna le cooperative di lavoratori si sostituiscono allo Stato
Scuola, trasporti, rifiuti. Sono molti i settori in cui le coop potranno operare. A patto che presentino un piano di gestione che dimostri la convenienza economica rispetto al servizio statale. Le opposizioni: “Dopo i tagli, è la ricetta sicura per il fallimento”. Blond, consulente di Cameron: “Un modello da esportare in Italia” Potere al popolo, purché “costi meno” dello Stato. Per quanto possa essere una contraddizione in termini questa è la nuova rivoluzione conservatrice in Gran Bretagna. Ha il nome pomposo di “Big Society” e l’obiettivo, non meno ambizioso, di cambiare l’indirizzo del potere. Dalle stanze dei bottoni di Whitehall alle case dei cittadini. Il governo incentiva a organizzarsi in cooperative e a farsi carico dei servizi, soprattutto in campo sociale. Per riuscirci però le coop devono presentare un piano di gestione e dimostrare di avere costi inferiori a quelli attuali. Scuole, ospedali, prigioni, servizi di assistenza. Ma anche pulizia e decoro delle strade, rete dei bus, riciclo dei rifiuti, fornitura di internet veloce, potranno essere gestiti dalle donne e dagli uomini che già lavorano nel settore o che intendono mettersi in associazione con altri cittadini. Ce l’ha fatta, per esempio, il Central Surrey Health, una costola del Servizio Sanitario Nazionale in Surrey, che è stato rilevato dai 770 impiegati e che produce ogni anno servizi per il valore di 26 milioni di sterline. La Grande Società, come la vede il premier David Cameron, è in grado di sostituirsi allo Stato. Trasferendo i poteri dalla centralità del governo alle autorità locali, fino ai cittadini. In tempo di globalizzazione un’ode al localismo. “Si tratta della più grande ridistribuzione di potere dalle elite della politica agli uomini e alle donne della strada”. Così l’ha spiegata Cameron. 118
Phillip Blond, della thin tank ResPublica, che fa da consulente a Cameron, sostiene che il modello di Big Society possa essere esportato anche in Italia. Anzi, il nostro Paese sarebbe avvantaggiato, perchè le numerose organizzazioni religiose incarnano già, pur senza profitto, questo modello di “imprenditoria del sociale”, diffuso soprattutto in Lombardia. In Italia inoltre ci sono più di 15.000 cooperative sociali, fondazioni e associazioni. Ci lavorano circa 350.000 persone che forniscono servizi a 5 milioni di utenti. Un modello da non prendere in considerazione, secondo il modello inglese, sono invece le ronde padane: in Gran Bretagna, infatti, gli unici settori che rimarranno interamente a carico dello stato sono la difesa e la sicurezza. In un fondo speciale sono stati depositati 10 milioni di sterline per finanziare i progetti in fase di partenza. Inoltre nascerà a breve la Big Society Bank, un serbatoio cui andranno a finire tutti i soldi depositati nei cosiddetti conti bancari dormienti, ovvero non più attivi da 15 anni. Secondo una nuova legge il governo potrà appropriarsi di questi beni che saranno dirottati per realizzare il sogno di Cameron. Opposizione e parti sociali non sono entusiasti. Il Labour accusa Cameron di mascherare sotto buone intenzioni i brutali tagli alla spesa pubblica. E i sindacati sostengono che con questo sistema il governo stia solo tentando di scrollarsi di dosso
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le sue responsabilità. Temono anche che questo smantellamento dello stato possa portare a privatizzazioni selvagge, come quelle degli anni Ottanta sotto Margaret Thatcher. I detrattori fanno notare che cambiare gestione dei servizi proprio dopo i tagli è una ricetta sicura per il fallimento. “Trasferire la responsabilità sulla gente per indurla a fare di più con meno denaro è assurdo”, ha attaccato sulle pagine del Times Dave Prentis, segretario generale di Unison, uno dei più grandi sindacati del settore pubblico. E Londra potrebbe anche essere richiamata dall’Unione Europea. Secondo le regole Ue ogni contratto del valore superiore di 156.000 sterline deve essere pubblicizzato e soggetto a una gara d’appalto. Mentre nel progetto dei Conservatori gli impiegati intenzionati a formare la cooperativa non avrebbero nessuna concorrenza da battere.
url:http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/19/big-society-in-gran-bretagna-le-cooperativedi-lavoratori-si-sotituiscono-allo-stato/77710/ Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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10 FEB 2011 di: -
British politics. No such thing
What’s wrong with David Cameron’s “Big Society” THE fuss about the fate of England’s forests looks like a perfect example of the “Big Society” ethos that David Cameron wants to foster. Hundreds of thousands of people have protested and petitioned in support of cherished local amenities, in a spontaneous outburst of civic activism. There is a ferment of interest in the country’s beloved woodlands, and how they can best be looked after. The hitch is that the policy that has provoked it— the planned sell-off of some state-owned forests to charities or private firms—is itself part of the prime minister’s Big Society agenda. In this, and in other ways, Mr Cameron’s pet philosophy is in trouble (see article). The Big Society—always more popular in Number 10 than in Mr Cameron’s Conservative Party, let alone the country at large—is based on a valuable insight: that the British state has become too big, impersonal and monolithic. The Big Society, a concept Mr Cameron developed in opposition, is his solution. The term is intended to convey a positive vision of Britain’s future, an optimism that every government needs to project, especially one committed, as his is, to the fiercest programme of public-spending cuts in living memory. The problem is that the Big Society amounts to less than the sum of its parts, some of which are rather more convincing than others. Take the good bits first. The coalition government wants to see much more pluralism and competition in the provision of publicly funded services, with greater roles for private companies, charities and employee-owned co-operatives: groups 120
funded by the state, but embedded in society. It has made a start by, for example, encouraging the creation of Swedish-style “free schools”, to be set up by parents and others, and by seeking to increase the use of private welfare-to-work specialists. That approach is right, overdue and should go further. The coalition also wants to distribute more power from Whitehall to local councils and individual citizens, devolving decisions and making officials more accountable. For example, it wants more cities to have elected mayors. And it wants to make government more transparent, through online “crime maps” that show the incidence of crime street by street, the release of more detailed information on spending, and so on. Those are both sound principles, too. The problematic part of the agenda is voluntarism. Mr Cameron would like voters to be more engaged in actually running services, such as libraries or parks, as well as in monitoring them. Britons already do a respectable amount of volunteering by European standards (if less than Americans), but there are reasons to doubt that they are willing to do the type or amount that he hopes. Many don’t have the time: they already work longer hours than most other Europeans and spend relatively few with their children— something Mr Cameron says he wants to remedy. It is telling that Lord Wei, the government’s volunteer (ie, unpaid) adviser on the Big Society, has cut down his hours, avowedly to devote more time to his family and earning a living. Another difficulty is that, as the rumpus over
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forests demonstrates, Britons seem to be more easily mobilised to prevent something undesirable happening than to create something new. They are perhaps a little too conservative for current Conservative tastes. Not big or clever The risk is that the emphasis on voluntarism makes it seem that the whole Big Society programme is merely elaborate camouflage for cuts: that Mr Cameron slyly expects volunteers to do what used to be the work of government. Opinion polls suggest that is indeed how the Big Society is widely perceived. This week there was an outcry among volunteering groups, who say that the funds they need in order to organise the little platoons of the willing are being withdrawn. Their complaints compound the impression that all the talk of engagement and responsibility is a distraction from the government’s real, state-slashing mission. This matters precisely because, as the other ambitions corralled under the fuzzy Big Society rubric attest, Mr Cameron’s real goal is much subtler. He wants to craft a slimmer state, but also a nimbler and more responsive one. This aim is admirable, and localism, pluralism and transparency are excellent ways of furthering it. Pushing voluntarism on a sceptical population is not; nor is the mystifying and increasingly unpopular label with which Mr Cameron has tried to yoke these ideas together. He would do well to ditch both.
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13 OTT 2011 di: -
Big Society. Una grande società per un piccolo paese Il commento di Filippo Addarii, Direttore esecutivo di Euclid, sul discorso del Premier britannico David Cameron al congresso dei Tories
sono i Labour che hanno portato il Paese al limite della bancarotta e in una profonda crisi di valori.
Londra - Era da un decennio che un primo ministro conservatore non si rivolgeva ai membri del proprio partito con la sicurezza di chi non ha più avversari. La scelta di Ed Miliband quale leader dell’opposizione era esattamente quello che i conservatori volevano: un’opposizione senza alcuna chance di vincere. La sicumera del premier britannico, David Cameron, e’ tale da cimentarsi persino in un rap nell’elencare i successi del governo di coalizione. Durante il suo intervento all’ultimo Congresso dei Tories, la platea era esultante. Neppure Blair aveva osato tanto. Il messaggio del Primo Ministro è stato semplice. Bisogna risanare il debito pubblico, tagliare la spesa pubblica, e ridare slancio all’economia sostenendo gli imprenditori, inclusi quelli sociali. Le banche sono state aiutate quando era necessario. Ora devono fare il proprio dovere e riaprire il credito ai cittadini. E’ venuto il momento di metter in atto la ‘Big Society’. Il governo deve mettersi al servizio dei cittadini. Sono loro a guidare la nazione non lo Stato. Le parole chiave sono libertà, giustizia, sostenibilità e decentralizzazione. Bisogna superare gli interessi di parte per il bene del Paese. Tutte parole scelte a puntino. Sembrerebbe di sentir parlare Blair, con l’unica differenza che i cattivi della storia 122
Il discorso di Cameron risponde perfettamente allo spirito del momento e viene incontro alla rabbia e alla disillusione dei cittadini. Basta con le favole, le bugie e gli sprechi. Si deve tornare a una gestione rigorosa e restituire ai cittadini la libertà e la responsabilità. Questa è presentata come l’unica soluzione possibile. Ma sarà vero? Il Primo Ministro forse dimentica che la fortuna del Paese si è costruita sull’ internazionalizzazione prima e la globalizzazione poi. A giudicare dalle parole del Primo Ministro, quello che un tempo era un impero mondiale sembra quasi una delle autonome comunità alpine (con tutto il rispetto dovuto a queste realtà locali). Pochi cenni alla politica estera, peraltro limitati all’Afghanistan, un riferimento all’India e ai Paesi del Commonwealth. L’Europa è stata menzionata di sfuggita, niente invece sull’ONU e la cooperazione internazionale. L’unica preoccupazione è la difesa: risanare le finanze dell’esercito e proseguire nella costruzione del sottomarino atomico di nuova generazione, nonostante il disaccordo dei Liberal Democratici. In questo mese usciranno le previsioni sulla manovra finanziaria dell’anno prossimo e seguiranno i tagli al bilancio pubblico. Nel 2011 la coalizione sarà messa alla prova dal referendum sul sistema elettorale – i Social Democratici sono a favore, i Conservatori contrari – e dalla revisione
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del Budget Europeo 2014 -20. Al momento Cameron si gode la pace del suo paesino. Però la tempesta già si staglia all’orizzonte. Forse per questo il Primo Ministro ha messo tanta enfasi nel rendere omaggio a Margaret Thatcher, la Lady di Ferro.
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GEN 2011 di: -
La taglia small della “Big Society”
L a parola dell’anno 2010, secondo l’Università di Oxford, è Big Society, in quanto “rappresenta il clima politico ed economico” attuale. Se ne parla soprattutto sull’onda del recente lancio del progetto definito “The Big Society” del premier inglese Cameron, sintetizzato nell’assunto “meno Stato, più Società”. Secondo l’Oxford Dictionary la Big Society è «un concetto politico che prevede il trasferimento a comunità locali e a volontari di una notevole parte della responsabilità di gestione dei servizi sociali». Anche in Italia, in questo momento, convegni e dibattiti affrontano il tema del ruolo decisivo che può giocare la società civile organizzata nel sostegno alle politiche sociali a fronte di un declinante impegno pubblico. Se per alcuni ciò è frutto di una “moda mediatica”, più osservatori sostengono invece con forza che l’autonoma iniziativa dei cittadini organizzati è in grado di garantire le analoghe prestazioni fornite tradizionalmente dallo Stato in settori come la sanità, la scuola, i servizi alla persona, la cultura, così da ridurre il prelievo fiscale e avere più risorse per lo sviluppo. Tale processo comporta la necessità che lo Stato faccia un passo indietro, sia “meno invasivo” e attui piuttosto il principio di sussidiarietà, attraverso riforme normative e fiscali che liberino risorse per le organizzazioni non profit. L’assunto è che il “terzo pilastro” del sistema, come viene definito il non profit, sia il motore di un nuovo Welfare. L’innovazione viene dai cittadini. La “scoperta” del contributo della società civile in Italia non è così originale né così recen124
te come si intende rappresentare, mentre la densità del fenomeno è invece statisticamente nota da poco, dal censimento Istat sul nonprofit del 1999. Solo le organizzazioni che gravitano intorno al sistema dei Centri di Servizio per il Volontariato superano abbondantemente le 40 mila unità e poi vi è tutta la galassia dell’associazionismo di promozione sociale che accorpa le storiche reti nazionali (Arci, Acli…). Ad esse si aggiunge il mondo della cooperazione sociale e delle imprese sociali (oltre 7.000 unità attive), delle fondazioni (circa 4.000), delle migliaia di altre associazioni Onlus, che svolgono servizi e fanno attività sul territorio. L’emersione di una Big Society è però il risultato di un processo culturale e di un cambiamento strutturale e non semplicemente di una necessità contingente. Infatti, l’evoluzione o la nascita di nuovi soggetti della società civile segnalano un cambiamento significativo nel rapporto tra Stato e cittadini, questi ultimi sempre più in grado di partecipare, di organizzarsi per rispondere ai bisogni e occuparsi dell’«interesse generale», di operare sul territorio. Tutto ciò ha determinato processi di innovazione sociale, che si è tradotta in alcuni casi in innovazione organizzativa, come attesta la nascita di forma giuridiche e organizzative nuove (es.: cooperativa sociale, auto mutuo aiuto, banca del tempo, commercio equo e solidale). L’iniziativa dei cittadini, con le loro organizzazioni private, si è venuta via via affermando nel nostro Paese, assieme ad una legislazione che ha concepito il rapporto tra cittadini (amministrati) e istitu-
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zioni da “bipolare” a “circolare”. Lo stesso sviluppo impetuoso del Terzo settore si accompagna ad un orientamento che gli attribuisce un ruolo decisivo nella realizzazione del sistema di welfare. Da qui la copiosa legislazione e la legittimazione definitiva ad operare come soggetti autonomi e in grado di svolgere una funzione pubblica nel perseguimento dell’ “interesse generale”, che si ha con l’art. 118 ultimo comma della Legge n. 3/Cost. che costituzionalizza il principio di sussidiarietà e vincola le istituzioni pubbliche alla sua attuazione. Decentramento e partecipazione. Importanti sono altresì le leggi che determinano profondi cambiamenti nel rapporto tra Stato e autonomie locali e tra autonomie locali e cittadini con le loro organizzazioni. Si configura un nuovo sistema politico-organizzativo (dalla eleggibilità diretta dei sindaci alla riforma della Costituzione) e di welfare, del quale i principi cardine sono la dislocazione delle competenze e delle decisioni di spesa verso il territorio e la concezione di un sistema integrato di servizi e interventi a cui concorrono tutti gli attori di un territorio. Sono le leggi che riformano le competenze istituzionali sulla base del principio della sussidiarietà verticale e orizzontale. Ciò ha comportato una reale democratizzazione dello Stato, segnando il passaggio da un sistema centralizzato e burocratico ad un sistema decentrato e partecipato. Pertanto l’affermarsi di una Big Society nel nostro paese si basa sui paradigmi essenziali della cittadinanza attiva e del decentramento istituzionale. La crescita di protagonismo della società civile non è semplicemente un fenomeno di occupazione di uno spazio abbandonato dal pubblico, ma soprattutto il patrimonio culturale di soggetti che nascono e operano in quanto sono in grado di rappresentare meglio i bisogni dei cittadini e di gestire con maggiore efficacia e innovazione i relativi servizi. La china della privatizzazione. Oggi si auspica il superamento del Welfare, nato alla metà del secolo scorso, con 125
un nuovo Welfare, in cui la platea degli erogatori privati dei servizi prevalgono rispetto a quelli pubblici. Tuttavia nell’analisi che viene fatta del ruolo delle organizzazioni civiche si tende oggi a rimarcare gli aspetti di dipendenza dai finanziamenti pubblici, peraltro in calo vertiginoso negli ultimi anni, e a segnalarne la scarsa efficienza, se non anche trasparenza, nell’uso delle risorse. Inoltre non vi è una convinta strategia sul piano fiscale a liberare risorse per il non profit o a garantire qualche fonte certa di finanziamento (per legge) come il 5 per mille. Insomma si fa leva sulla speranza del “dono” dei cittadini (come si legge nella campagna governativa per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale) e della maggior spesa delle famiglie-formica italiane chiamate a supplire al Welfare declinante. Più indicatori fanno pensare che stiamo scivolando in modo accelerato verso una china in cui i grandi sistemi universalistici e di inclusione del Welfare vengono erosi a vantaggio di un sistema di risposte ai diritti dei cittadini sempre più privato, del Terzo settore, del welfare aziendale (si pensi agli accordi integrativi sui “benefici non monetari” della Luxottica), di categoria (contratto bancari, assicurativi), filantropico e della compartecipazione crescente del cittadino alle spese. Quello che preoccupa è che ciò tende ad accentuare la disparità nel trattamento dei cittadini che già caratterizza i 20 sistemi di welfare regionali e il federalismo fiscale. Il volontariato nel secondo Welfare Cosa può significare questa deriva verso il “secondo Welfare” per il volontariato? Che esso dovrà farsi carico dei servizi alla persona, così come degli esclusi e dei poveri? Che si sospingeranno le organizzazioni a diventare piccole imprese per gestire servizi a basso costo? I segnali sono ormai molti e concreti, basta segnalare la circolare dell’Agenzia delle entrate del 21 aprile 2010 che consente ad una organizzazione di volontariato la possibilità di svolgere attività commerciali attraverso un’impresa sociale (come di fatto avviene nel mondo Pubbliche Assistenze e delle Misericordie) e ammette che le entrate
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derivanti da tale attività, superino quelle derivanti dalle attività istituzionali. E si guarda con interesse all’Europa, dato che nella maggior parte dei casi è già così. E con la prospettiva, derivante dal diritto dell’Unione Europea, di tornare alle gare di appalto aperte a tutte le forze del Terzo settore. Si passerà così da una sussidiarietà “circolare” ad una sussidiarietà come “delega” delle politiche sociali al volontariato e al Terzo settore. C’è il rischio che si affermi un’idea confusa di Big Society, che consiste in un Terzo settore protagonista totale di servizi esternalizzati dagli Enti Locali, che scaricano così la responsabilità delle politiche sociali e della loro promozione. In questo caso si ha il passaggio da un Welfare centralizzato e monopolistico a quello delegato e frammentato, dove la sussidiarietà è concepita come espressione di liberismo (tutti possono fare tutto in ordine al principio di libertà) e non di solidarietà. Ciò significa fare Welfare dove si può, come si può, a vantaggio di chi può contribuire alle spese, senza alcuna garanzia di livelli essenziali di assistenza per tutti.
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21 LUG 2010 di: Tinagli irene
LE IDEE Grande societa’ L’illusione di Cameron
Una «grande societa’»: e’ questo il cavallo di battaglia del premier britannico Tory, David Cameron. Una societa’ dinamica, attiva, solidale, che stimoli i cittadini a riunirsi, occuparsi una buona volta della propria comunita’ dandogli la possibilita’ di decidere cosa e’ meglio per loro. Una grande societa’ in movimento contrapposta ad un grande Stato lento e invasivo, che imbriglia l’iniziativa individuale e che costa troppo ai cittadini. Un’idea che in verita’ Cameron aveva gia’ lanciato molto tempo fa e sulla quale aveva impostato buona parte della sua campagna elettorale. Un’idea affascinante perche’ in realta’ mutua tutta una serie di concetti molto vicini al «labour», come l’idea della solidarieta’, della collettivita’, della vicinanza alla gente e della lotta alla poverta’ e alle ineguaglianze, ma che declina questi stessi concetti in chiave «tory» enfatizzando il ruolo dell’individuo e la necessita’ di ridurre il peso dello Stato che e’ poco efficiente e grava sulle tasche dei cittadini. Quindi la comunita’ locale e la societa’ civile come dimensione piu’ adatta a supportare l’individuo, come mezzo per consentire alle persone di muoversi e attivarsi in modo snello, senza burocrazie, per affrontare al meglio le diverse necessita’ di ognuno. E soprattutto come sostituto dello Stato in una serie di funzioni che le persone e le associazioni di cittadini possono gestire da sole. «Il potere alla gente», questo uno degli slogan piu’ accattivanti di Cameron, che sembra quasi rompere steccati ideologici e distinzioni destra-sinistra. Ma cosa significa questo in concreto? Questo e’ quello che molti si stanno chiedendo. Di fatto la grande idea di Cameron, che da un punto di vista teorico e’ molto ricca di spunti culturali, con numerosi riferimenti 127
alle ricerche sociali e psicologiche, non e’ pero’ ancora molto chiara sulle azioni nelle quali si concretizzera’. Tuttavia non e’ difficile interpretare il pensiero teorico, anche alla luce di una serie di tagli annunciati, e tradurre la grande idea in sostanza pratica: significhera’ meno pensioni sociali e ammortizzatori statali, ma piu’ liberta’ e supporto per le associazioni di volontari che fanno assistenza agli anziani a livello locale, meno asili e scuole statali e piu’ scuole di quartiere gestite dai genitori, e cosi’ via. Il ruolo dello Stato non sara’ piu’ quello di sobbarcarsi le spese di tutta questa assistenza che, secondo Cameron, non fa altro che deresponsabilizzare l’individuo, ma supportare e coordinare il proliferare di organizzazioni spontanee locali che non solo stimolano l’attivita’ e la solidarieta’ ma che costano anche meno. Il problema che Cameron non considera o non vuol vedere pero’ e’ duplice. Il primo e’ che, se davvero lo Stato vuole stimolare e supportare degnamente le associazioni civili in tutti i settori di assistenza in cui attualmente opera, con la stessa capillarita’ territoriale, il costo dell’operazione non sara’ inferiore al costo dello Stato attuale. La seconda e ancor piu’ importante questione riguarda l’effettiva adeguatezza della societa’ civile, pur grande e dinamica che sia, di raggiungere e mantenere su tutto il territorio nazionale quel livello qualitativo e quel minimo di omogeneita’ territoriale che serve per far crescere il Paese e attutire le diseguaglianze tra regione e regione. Gli apparati statali certamente tendono a produrre inefficienze e alti costi. Ma non dovremmo scordarci che tutti i grandi passi avanti delle societa’ moderne, dalla sfida dell’alfabetizzazione a quella della conquista dello spazio
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o quella dell’innovazione tecnologica e dell’internettizzazione del mondo, sono stati compiuti grazie alla capacita’ di investimento massivo, costante e d’avanguardia che gli Stati hanno fatto in istruzione, in ricerca, in infrastrutture, in servizi sociali che consentissero al Paese di muoversi tutto intero verso un obiettivo condiviso, di qualita’, di competitivita’ internazionale. Purtroppo le numerose comunita’ sociali che si creano a livello locale, pur avendo centinaia di pregi lodevolissimi e meritevoli di supporto, tuttavia hanno anche dei limiti intrinseci legati alla qualita’ dei servizi che sono in grado di fornire, alla loro capacita’ di visione strategica di lungo periodo e di comprensione delle dinamiche economiche e sociali globali. Da questo punto di vista il problema principale della Big Society ipotizzata da Cameron e’ proprio quello di frammentare il Paese in un mosaico di iniziative locali che non saranno in grado di garantire omogeneita’ e qualita’ in tutto il Paese, accentuando le disuguaglianze che si propone di affrontare. Ed e’ questo il vero rischio della grande strategia di Cameron, che anziche’ costruire una grande societa’ che liberi l’Inghilterra, finisca per alimentare minicomunita’ che intrappoleranno gli inglesi in piccoli destini locali. Insomma, il dilemma di fronte al quale si trovera’ presto David Cameron e’: Big Society o Small Communities?
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18 FEB 2011 di: Roberto Mania
Torna la social card, una beffa con pochi fondi, gestita dai privati
Solo 750 mila beneficiari, il governo tenta il rilancio. Perché si è scelta questa strada e non il sostegno diretto al reddito? ROMA - Poveri ma esclusi dalla social card. I poveri più poveri senza fissa dimora, i poveri immigrati perché non cittadini italiani, i nuovi poveri giovani e precari. Poveri. La social card è stata l’unica misura contro la povertà realizzata dal governo ma ha fallito il bersaglio. Ha portato un beneficio a non più del 3-4 per cento delle famiglie, lasciando fuori la stragrande maggioranza di chi ne avrebbe avuto bisogno. L’emendamento inserito nel cosiddetto Milleproroghe, decreto omnibus che ha rilanciato la social card anche in versione privatista con l’entrata in campo degli enti “caritativi” impegnati nel volontariato, ne è l’implicita conferma. La social card non ha funzionato mentre l’Italia - come ha scritto Marco Revelli nel suo “Poveri, noi” - continua a essere “un Paese strutturalmente fragile, fortemente esposto al rischio diffuso di deprivazione, con sacche di povertà superiori alla maggior parte dei nostri partner europei”. Abbiamo otto milioni di persone in condizione di povertà relativa e più di tre milioni in povertà assoluta. In tutto quasi quattro milioni di famiglie povere. In poco più di due anni sono stati 750 mila coloro che hanno utilizzato la carta acquisti. Più al sud che al nord. Ma in quel numero del ministero dell’Economia c’è anche chi ha comprato con la carta una sola volta. Dunque sono molto meno le persone che la usano costantemente, 4-500 mila. Perché basta che cambi uno dei requisiti (l’età, per esempio) per non averne più diritto. Eppure il governo stimava in 1,3 milioni i potenziali beneficiari della carta prepagata. Perché è andata così? Perché si è scel-
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ta la social card anziché uno strumento di sostegno diretto al reddito come accade in Europa? Perché i più poveri sono rimasti esclusi? Perché, ora, si apre all’ingresso dei privati? E quali privati? LE ESCLUSIONI La social card non è stata pensata per tutti. Intanto ha tagliato fuori gli stranieri per quanto residenti e, in molti casi, poveri. La social card è solo per gli italiani, mentre la quota di stranieri che ha perso il lavoro a causa della lunga crisi globale è costantemente in crescita. Lo dicono le tabelle dell’ultimo “Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale” consegnato al governo prima dell’estate: nel 2007 gli stranieri senza lavoro erano il 9,3 per cento del totale, sono passati al 13,5 per cento nel 2008 e al 16,6 per cento nel 2009. A Torino ogni cento nuovi iscritti nelle liste di mobilità 37 sono stranieri. Ma sono fuori dalla social card. Fuori come i giovani con lavoro instabile e senza figli con meno di tre anni. Perché a parte i requisiti di reddito (tra questi non superare i 6.300 euro annui circa o gli 8.300 se pensionato e tanti altri vincoli) per la social card si deve essere o over 65 oppure under 3. L’Italia, appunto, non è un Paese per giovani. I quali, però, sono sempre più poveri: gli under 34 erano il 4,6 per cento del totale, oggi sono saliti al 4,8 per cento; e la classe di età compresa tra i 35 e i 44 anni è passata dal 5 al 5,6 per cento. È una metamorfosi sociale, accelerata dalla recessione, che il governo sembra non aver visto. “Hanno pensato solo a una ristretta tipologia di famiglia, a una parte
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dei pensionati, ma non ai giovani. Per loro i giovani non sono poveri”, sostiene Stefania Trombetti, responsabile del Sistema servizi della Cgil. Nemmeno la Cisl, questa volta, è d’accordo con il governo. Pietro Cerrito, segretario confederale: “La reintroduzione della social card è una misura sbagliata, perché ha la pretesa di intervenire a favore dei pensionati poveri. Ma dietro c’è invece l’idea culturale e politica secondo al quale bisogna combattere solo la povertà assoluta, mentre si diffonde e cresce l’impoverimento di chi riceve pensioni medio-basse”. LE LOBBY E forse c’è anche questo dietro l’emendamento voluto dal titolare del Lavoro, Maurizio Sacconi, e presentato dal senatore del Pdl Maurizio Castro, strettissimo collaboratore del ministro, e che negli anni Novanta guidò le relazioni industriali alla Electrolux proponendo forme ardite di partecipazione sindacale introducendo per primo anche il job on call, il lavoro a chiamata. Ma qual è l’obiettivo della modifica voluta da Sacconi? Quali sono le lobby che si vogliono favorire? Di certo c’è un elemento ideologico. C’è la versione italiana della Big society che teorizza il premier conservatore inglese David Cameron. C’è l’idea di un welfare state leggero post-fordista e molto privato che, in fondo, echeggia le parole d’ordine dell’annuale meeting riminese di “Comunione e Liberazione” con il suo esercito di volontari, la sua rete, e gli intrecci con il business cooperativo delle mense e dei servizi alle persone. Gli individui anziché lo Stato, che hanno sedotto pubblicamente Giulio Tremonti come Maurizio Sacconi, un tempo socialisti ora ciellini d’adozione. “È la sussidiarietà classica: più società, meno Stato”, spiega Castro. Per questo si vuole affidare anche agli enti “caritativi” un pezzo della gestione della social card. Saranno loro, una volta selezionati (entro trenta giorni dall’approvazione arriverà un decreto del ministero del Lavoro), a individuare i soggetti davvero bisognosi. Un esame empirico, sul territorio. Senza i soggetti pubblici. Ma chi controllerà? Quale sarà, se ci sarà, il ruolo dei Comuni? Ci 130
sono 50 milioni aggiuntivi a disposizione (per la social card ce ne sono ancora 550 da spendere mentre ne sono stati spesi 500), per una prima sperimentazione in una decina di città con più di 250 mila abitanti. “Perché - dice ancora Castro - il “centro” ha per sua natura un approccio giuridico-burocratico. Il “centro” non vede i poveri, i suburbi, i quartieri degradati”. Ecco: l’implicita ammissione di un semifallimento. Perché, appunto, i clochard la social card, con la sua carica di 40 euro mensili più 20 per chi utilizza il gas naturale, non l’hanno mai vista, né chiesta. La vedranno attraverso i privati? E i giovani precari saranno inclusi? O resteranno invisibili? IL MODELLO Ma cosa pensano i potenziali “enti caritativi”? La Caritas per esempio. Attacca il vicedirettore Francesco Marsico: “La Caritas non ha mai chiesto una modifica di questo tipo”. Non l’ha mai chiesto perché non la condivide. Marsico: “Il problema della social card è che esclude una larga fetta di famiglie povere e la sperimentazione decisa dal governo non risolve questa criticità di fondo. Anzi, ne aggiunge altre. Perché pone il problema del rispetto del principio costituzionale di equità sia per ciò che riguarda i soggetti destinatari, sia sul versante dei soggetti erogatori”. Non è questo che vuole la Caritas. Il modello social card, comunque, si sta diffondendo lungo la Penisola. Ci sono Regioni, Province e Comuni che hanno deciso di integrare la carta. L’ha deciso il Friuli (120 euro a bimestre), la Provincia di Latina (40 euro), i Comuni di Alessandria (80 euro), di Susegana (40 euro), di Cassola (80 euro), di Grado (80 euro ma solo per i bimbi sotto i tre anni). È una strada. Cristiano Gori, docente di politiche sociali alla Cattolica di Milano, coordinatore della proposte delle Acli per una diversa social card, ha un approccio pragmatico. Ricorda, per esempio, che aver aumentato il reddito delle famiglie che hanno ottenuto la carta di circa l’8 per cento non è poca cosa. Ma non basta. Perché la social card
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tremontiana-sacconiana non può dare di più. Neanche nella versione privatista. “Serve uno strumento universalistico dice Gori - Una misura base per tutta la popolazione in condizioni di povertà assoluta. Non è più una questione di risorse perché rimangono quasi 500 milioni”. Propone una carta prepagata per tutte le famiglie povere, che sia estesa agli stranieri, che preveda 129 euro al mese destinati a salire nelle zone dove il costo della vita è superiore, che dia accesso anche ai servizi alla persona e non solo agli acquisti alimentari, che, infine, attribuisca un ruolo ai Comuni. Un’altra strada alla social card. E per tutti i poveri.
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23 FEB 2011 di: Tito Boeri
Welfare, l’inganno della carità
L’ ITALIA è il paese dell’ Unione europea che spende meno per politiche di contrasto alla povertà: lo 0,1% del reddito nazionale contro circa 13 volte tanto negli altri paesi, compresi i nuovi entrati dell’ Est europeo. Non certo perché in Italia ci sono pochi poveri. Erano nel 2007 più di 3 milioni le persone che vivevano in condizioni di povertà assoluta, non potendosi permettere con il proprio reddito un livello di vita “minimamente accettabile”. Vale a dire livelli nutrizionali adeguati, un’ abitazione con un minimo di acqua calda e riscaldamento e abiti decenti. Un terzo di queste persone, si tratta soprattutto di chi ha perso il lavoro e non ha accesso a cassa integrazione, indennità di mobilità e agli altri ammortizzatori groviera, ha redditi medi inferiori ai 4.000 euro all’ anno. La situazione non può che essere peggiorata durante la crisi, dato che il reddito medio pro capite degli italiani è calato del 5 per centoe più famiglie sono presumibilmente scese sotto la soglia di povertà. Se decidessimo di aiutare queste persone, portando il loro reddito al di sopra della soglia di privazione, raggiungeremmo la quota di spesa per assistenza degli altri paesi dell’ Unione europea che hanno da tempo introdotto programmi in grado di assicurare un reddito minimo a tutti i cittadini. Ma continuiamo a non volerlo fare. I governi si succedono e, in genere, fanno finta di nulla. Qualche volta, per salvare le apparenze, scrivono “libri bianchi” che annunciano immancabilmente “un programma straordinario contro la povertà”. Quando proprio non possono farne a meno, introducono delle misure “sperimentali”, circoscritte ad una fascia limitata di popolazione, e transitorie. Durante la Grande Recessione del 2008-9 non si po132
teva far finta di niente. È stata così introdotta una carta acquisti che escludeva a priori persone senza dimora, indigenti con figli più di 3 anni o con meno di 65 anni e destinata ai soli cittadini italiani. Il risultatoè che si è speso ancora meno di quanto previsto, raggiungendo una platea di beneficiari inferiorea un terzo di quanto inizialmente preventivato. Sarebbe bastato abolire i criteri anagrafici permettendo anche a chi ha meno di 65 anni ed è povero di fruire della carta per allargare la platea di beneficiari, rendendo questa misura di un qualche significato nel contribuirea ridurre, pur marginalmente, la povertà. Invece, il governo ha deciso di seguire una strada tortuosa, preludio di sprechi e nuove iniquità. L’ articolo 2 del Milleproroghe arrivato ieri in Aula alla Camera e giustamente bloccato dal Capo dello Stato perché contiene tutt’ altro che semplici proroghe di norme vigenti, prevede che nei soli Comuni con più di 250.000 abitanti venga “avviata una sperimentazione in favore degli enti caritativi” della durata di 12 mesi. La relazione tecnica allegata al provvedimento precisa meglio cosa si intende fare: “La norma identifica come beneficiario non già il destinatario ultimo della carta, ma l’ associazione che si impegna a distribuirla”. In altre parole, lo Stato assegnerà la carta acquisti a imprecisati “enti caritativi” e saranno questi ultimi a dover decidere a chi dare la social card e a chi no, sottraendo questo compito ai servizi assistenza dei Comuni. È una scelta che suscita alcuni inquietanti interrogativi. Primo, chi deciderà quali enti caritativi sono degni di ricevere e distribuire le carte acquisti e quali no? Nel vuoto delle nostre politiche di assistenza, mortificate ulteriormente dai tagli ai bilanci dei
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Comuni come documentato ieri su queste colonne, spesso sono gli enti religiosi o associazioni culturalmente se non politicamente caratterizzate ad assistere i più poveri. Finché gestiscono risorse proprie che, in principio, dovrebbero integrare le prestazioni pubbliche, non c’ è nulla di male. Ma perché obbligare un immigrato di religione musulmana a doversi rivolgere a un ente caritatevole cattolico per ricevere l’ assistenza cui ha diritto secondo una legge dello Stato? Perché vincolare una persona culturalmente o ideologicamente poco affine a un partito politico a dover dipendere dai trasferimenti di una organizzazione collaterale di quel partito? In altre parole, si tratta di assistenza sociale o di promozione di un partito politico o di una religione? Secondo, sulla base di quali criteri questi non meglio definiti “enti caritatevoli” procederanno alla distribuzione delle social card? I servizi assistenza dei Comuni dispongono sulla carta di informazioni molto più accurate per valutare la presenza di condizioni di bisogno, a partire dalle dichiarazioni Isee e possono incrociare queste informazioni con quelle provenienti da altre banche dati amministrative. Sono lastricate le vie delle metropoli lombarde di enti assistenziali che favoriscono famiglie che non sono certo in condizioni di bisogno ... Basti pensare alle pie assegnazioni di dimore a canoni stracciati nel pieno centro di Milano anche in epoca molto recente. Colpisce in queste assegnazioni non solo l’ entità degli sconti praticati sui canoni di mercato praticati, ma anche l’ enorme difformità di trattamenti nello stesso anno e stabile, come se i locatori del Pio Albergo Trivulzio avessero libertà totale nel decidere chi favorire e quanto regalare a famiglie tutt’ altro che bisognose. È noto, inoltre, che molte scuole private concedono borse di studio e buoni pasto con criteri molto meno restrittivi delle scuole pubbliche. Insomma, attribuendo la scelta dei beneficiari al terzo settore il
rischio che i soldi non vadano ai poveri è più forte che lasciando alle amministrazioni pubbliche questa funzione. Terzo, chi coprirà i costi legati all’ individuazione delle famiglie bisognose da parte degli “enti caritatevoli”? Sulla carta non sono previsti stanziamenti aggiuntivi per la gestione della “sperimentazione”. La relazione tecnica stima in circa 100.000 le nuove carte da erogare. Essendo queste del valore di 40 euro al mese cadauna, la loro assegnazione comporterebbe una spesa di 48 milioni di euro a fronte dei 50 disponibili. Bene chiarire subito comunque che ogni euro risparmiato non potrà essere destinato agli “enti caritatevoli”. Auspicabile anche che non si trovino altre forme di compensazione meno trasparenti per gli enti erogatori. Anche di queste partite di giro sono costellate le vie della transazioni fra le amministrazioni pubbliche e molte associazioni del terzo settore. Quarto, dov’ è la “sperimentazione”? Nel Milleproroghe non si fa alcun riferimento ad una valutazione di questo “esperimento”. Nonè contemplata, ad esempio, la raccolta di dati nelle città coinvolte dal provvedimento e in città in cui non cambia nulla rispetto alla normativa vigente. Dal raffronto si potrebbe capire se il coinvolgimento del terzo settore ha portato a migliorare la capacità della carta acquisti di raggiungere i più poveri. Fin quando non si faranno in Italia valutazioni delle politiche pubbliche, meglio limitarsi a dire le cose come stanno. Sperimentazione è solo un termine nobile per dire che non ci sono soldi per tutti. E nasconde un’ altra verità: i soldi non ci sono semplicemente perché non si è voluto trovarli.
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08 OTT 2010 di: Andrea Romano
Cameron e l’equivoco della «big society»
Se la sinistra europea ha la febbre ancora alta, mentre i socialisti spagnoli si apprestano a rottamare Zapatero per evitare la disfatta elettorale, la destra non sta molto meglio. Sarkozy è alle prese con un declino di consensi tutto personale. Angela Merkel sta tentando di agganciarsi alla ripresa economica tedesca per ribaltare un’estate densa di difficoltà politiche. In entrambi i casi, l’impressione è che le punte del centro-destra europeo siano impegnate nella gestione dell’emergenza piuttosto che nella manutenzione di un orizzonte ideale che possa essere fonte di ispirazione per le altre forze conservatrici. Su questo sfondo, David Cameron rischia di trovarsi nella posizione di unico faro ideologico pienamente funzionante su scala europea. Grazie al privilegio di godere ancora della benevolenza che gli elettori garantiscono ai governi appena avviati, ma anche perché la sua leadership non sembra avere ancora archiviato l’ambizione di ridefinire il Dna dei Tory. Lo conferma da ultimo il discorso tenuto a Birmingham, dove Cameron è tornato su alcuni dei temi che hanno qualificato la sua opera di rinnovamento nel partito che fu thatcheriano. L’attenzione alla sfera dei servizi pubblici fondamentali, innanzitutto, che lo ha visto ribadire la centralità occupata dal Servizio sanitario nazionale nel nuovo pantheon dei conservatori («proteggeremo il National Health System dai tagli mostrando che esso continua ad avere quella priorità che abbiamo sempre rivendicato»). Non era affatto scontato che il Nhs, mitica bandiera laburista solo recentemente acquisita dai Tory, si trovasse al riparo dai tagli nella stessa settimana che ha visto l’annuncio di drastiche 134
riduzioni di benefici pubblici. Al contempo, Cameron ha tentato di declinare secondo i tempi nuovi della crisi un’idea di giustizia che tenga conto dei sacrifici chiesti a consistenti quote della società britannica. Di qui lo slogan secondo il quale «coloro che hanno le spalle più larghe dovranno sostenere un peso maggiore». Che nell’immediato giustifica il taglio degli assegni familiari per i più abbienti, ma che oltre la contingenza punta a incalzare i laburisti sul terreno per loro più naturale. Quello di un’idea di fairness che sotto la spinta della crisi si è resa inevitabile in qualsiasi agenda politica anche di segno conservatore. Siamo dunque alle prese con una riedizione in chiave britannica dell’ampia veste del “conservatorismo compassionevole”? Non esattamente, perché la vera novità del discorso di Cameron è nel suo tentativo di guardare oltre l’angolo della crisi economica. In direzione di una stagione di crescita nella quale Londra potrebbe trovarsi nei prossimi mesi, e dunque tastando il terreno di un ottimismo forse prematuro secondo i dati economici ma in sintonia con lo spirito pubblico che ha segnato la Gran Bretagna nell’ultimo decennio. Cameron ha rivendicato la purezza dello spirito imprenditoriale di «coloro che fanno, che inventano e che fanno muovere la nostra economia». Pensando non solo al «riccone nella sua torre di vetro», ma a «coloro che si alzano prima dell’alba per pulire le vetrine», alle «donne che lavorano fino a tardi per far quadrare i conti della loro piccola azienda», ai «lavoratori che lasciano la si-
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curezza di un salario mensile per provarci in proprio». È una retorica del piccolo e piccolissimo imprenditore nella quale si leggono echi del populismo democratico thatcheriano, che non fu mai ideologia del “Big Business” ma fiducia nelle capacità di ogni singolo cittadino di cimentarsi con la produzione di ricchezza. Soprattutto è una formulazione che chiarisce definitivamente cosa intendeva essere lo slogan della Big Society che lo stesso Cameron aveva lanciato in luglio. Non tanto una traduzione inglese della sussidiarietà di matrice cattolica, secondo la frettolosa interpretazione di alcuni politici di casa nostra (come il ministro Sacconi), ma piuttosto l’indicazione di un percorso pienamente liberale di rinascita economica che possa scommettere sulla capacità della società di tornare a produrre crescita e valore.
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28 NOV 2010 di: Paolo Venturi
Il Single Market Act libera talenti e risorse finanziarie Erroneo è il pensiero che porta a interpretare il concetto di competizione quale contesa all’interno dei mercati in cui le imprese agiscono. A ben guardare “competere” significa andare insieme verso un obiettivo: è fondamentalmente questo il senso che permea il Single Market Act della Commissione Europea. L’obiettivo è quello di costruire un mercato unico competitivo a livello europeo. Per farlo la Commissione individua le istituzioni dell’economia sociale e, in particolare, indica l’imprenditorialità sociale quale elemento fondamentale.
Inoltre, 421 esponenti del mondo accademico, docenti e ricercatori, hanno sottoscritto una lettera aperta alla Commissione Europea - cui è seguita il 13 ottobre un discussione al Parlamento europeo - con la quale sono state avanzate proposte concrete di iniziative politiche trasversali ai paesi membri dell’Unione Europea volte a supportare cooperative e imprese sociali, tra le quali l’adozione di politiche fiscali in grado di riconoscere le specificità di questi soggetti e lo sviluppo di azioni di supporto all’economia sociale attraverso la ricerca.
Il Single Market Act contiene 50 proposte per rinnovare il mercato unico e sviluppare il potenziale di risorse umane ed economiche al fine di promuovere, con l’integrazione europea, un nuovo modello per uscire dalla crisi. L’origine del documento della Commissione Europea è da ricercare nella risoluzione del Parlamento europeo “Rapporto sull’economia sociale (2008/2250, Ini)”, approvato il 19 febbraio 2009, di cui si è fatta portavoce Patrizia Toia: ampio respiro veniva dato a iniziative per lo sviluppo dei soggetti dell’economia sociale. Alla luce della crescente rilevanza del settore (a oggi rappresentano il 10% di tutte le imprese europee e il 7% del totale dell’occupazione dipendente), la risoluzione chiedeva alla Commissione di riconoscere il ruolo essenziale di tali soggetti, di adottare misure e di sviluppare programmi per garantire sostegno finanziario (includendo agevolazioni per gli investimenti), informazione, consulenza e formazione nonché di semplificare il processo di costituzione di tale tipologia di imprese.
Tuttavia, il mercato unico europeo non prevede la convergenza dei soggetti imprenditoriali verso un’unica forma di impresa, anzi: il suo fine è quello di creare le condizioni affinché tutte le forme di impresa possano coesistere, valorizzando particolarmente l’operato di quelle piccole e medie imprese che fino a oggi non hanno ancora potuto dimostrare il loro potenziale in termini di competitività e di occupazione. Molto spesso sono queste imprese che, più di altre, si avvicinano al concetto di sviluppo sostenibile quale paradigma sottostante l’agire economico e sociale.
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La visione che a livello europeo si sta sviluppando è quella della costruzione di una società fondata sulla cittadinanza partecipativa e sulla coesione e l’inclusione sociale, costruzione che si svolge non al di fuori del mercato ma al suo interno e con un forte contributo da parte dei soggetti che lo compongono. Si tratta di portare e di enfatizzare la dimensione sociale dentro al mercato. Un mercato composto da cittadini-imprese, cittadini-consumatori e
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cittadini-lavoratori. Un mercato che diventa condizione sine qua non per sviluppare iniziative - pubbliche e private - orientate ad affrontare i problemi legati a coesione sociale, occupazione, sicurezza e cambiamenti climatici.
come un costo, bensì quale investimento si potrà affermare di aver messo le fondamenta per un competitivo e duraturo mercato unico. La Big society europea passa da questa sfida che non possiamo più rinviare.
La necessità primaria è quella di costruire un luogo di scambio con basi fiduciarie forti e solide. Proprio per tale ragione, la Commissione Europea ha individuato il volàno per la costruzione del mercato unico nei soggetti dell’economia sociale. Le proposte suggerite dalla Commissione Europea per il potenziamento del mercato unico concernenti l’imprenditorialità sociale riguardano innanzitutto la dimensione delle risorse umane, in particolare, la possibilità di “liberare le riserve di talento e di risorse finanziarie esistenti negli Stati membri, riconciliando i professionisti della gestione e del finanziamento con gli imprenditori promotori di soggetti innovativi sul piano sociale e portatori di crescita” (si pensi, ad esempio, al dato anticiclico che mostra come in Italia l’unico saldo occupazionale positivo atteso a fine 2010 sia quello dell’impresa sociale, 1%). Oltre a ciò la Commissione propone iniziative per migliorare la qualità delle forme giuridiche (fondazioni, cooperative, mutue, etc) nel quale si struttura una parte delle attività dell’economia sociale, al fine di ottimizzarne il funzionamento e promuoverne lo sviluppo nel mercato unico. “Più società, meno Stato”: questo era lo slogan che ha alimentato la richiesta di politiche capaci di esaltare il protagonismo in Italia dell’impresa sociale. A più di tre decenni dalle esperienze pioniere, in una fase in cui siamo chiamati a costruire un nuovo modello di welfare occorre recuperare il senso di queste parole, traducendole in una nuova stagione di politiche “per” e “con” l’impresa sociale. Soltanto nel momento in cui la costruzione della dimensione sociale verrà percepita non url: http://www.politichecomunitarie.it/comunicazione/17552/il-single-market-act-liberatalenti-e-risorse-finanziarie Ritaglio stampa ad uso privato del destinatario, non riproducibile
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25 MAR 2011 di: Guido Antolini
Mercato unico ed economia sociale
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