VOLUME XXX (1) - GENNAIO-GIUGNO 2010
AZIENDA OSPEDALIERA ISTITUTI CLINICI DI PERFEZIONAMENTO (ICP)
– Fondata nel 1956 –
RIVISTA MEDICO-SCIENTIFICA DEL PRESIDIO OSPEDALIERO “E. BASSINI”
Azienda Ospedaliera Istituti Clinici di Perfezionamento (ICP)
Volume XXX Fascicolo 2/2010 Gennaio - Giugno
IL BASSINI
Rivista medico-scientifica del Presidio Ospedaliero “E. Bassini”
Direttore Responsabile: Di Marino Oscar Direttore Scientifico: Felisati Dino Direzione di Redazione: Lecchi Gianluca Editing: Chiarelli Pasquale Redazione: Arisi Elena Ospedale E. Bassini Via Massimo Gorki, 50 20092 Cinisello Balsamo (Mi) Tel. 02.61765229 - 02.61765218 Fax 02.61765446
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ne, trattati in forma sintetica (1-2 pag. al massimo). 7) Articoli di cultura: problemi di organizzazione sani-taria, etica medica, storia della medicina, arte, letteratura (4-5 pag.). 8) Dai libri, dai lavori, dai Congressi: la rivista pubbli-cherà le recensioni di libri inviati e il resoconto di congressi. 9) Lettere al Direttore: possono far riferimento a pro-blemi di interesse medico-chirurgico di attualità, ad arti-coli già pubblicati nella rivista, in questo ultimo caso la lettera verrà preventivamente inviata agli Autori dell’articolo e l’eventuale risposta dagli stessi pubblicata in contemporanea. La loro estensione non dovrà superare le due pagine dattiloscritte. Le bozze inviate agli Autori per la correzione devono essere restituite alla redazione con cortese sollecitudine; le bozze non restituite entro il tempo indicato nella lettera di invio, saranno
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Sommario / Contents Editoriale / Editorial L’avvento delle fibre ottiche ha rivoluzionato la chirurgia ORL Optical fibbers advent and their revolution in ENT surgery ......................................................................................... 7 A. Franzetti Lavori Originali / Original articles La terapia di resincronizzazione cardiaca: curare lo scompenso cardiaco cronico con un pace-maker Cardiac Resynchronization Therapy: treating chronic heart failure with a pace-maker .......................................... 9 E.T. Montani, A. Lippolis, P. Motta, G. L. Tommasini, V. Dadone, C. Bencini, M. Cazzaniga, D. Esposti Obesità e rene Obesity and kidney .......................................................................................................................................................... 17 I. Baragetti, L. Buzzi, V. Terranno, C.Sarcina, C.Pozzi Diabete: la”sfida” del terzo millennio e la necessità di un approccio multidisciplinare Diabetes: the “challenge” of third millennium and the necessity of a multidisciplinar approch ............................... 21 F. Paleari, P. Mingazzini e il “Gruppo Inter-disciplinare sul piede diabetico” Fotodinamica nei tumori della vescica Photodynamic diagnostic system in bladder cancer ...................................................................................................... 26 G. R. Strada, L. Barana Studio randomizzato e controllato sull’efficacia del trattamento osteopatico verso il trattamento usuale nel migliorare la qualità della vita in pazienti affetti da osteoporosi A randomized control trial on the effectiveness of osteopathic manipulative treatment in reducing pain and improving quality of life in elderly patients affected by osteoporosis ........................................................................... 30 L. Papa, A. Mandara, M. Bottali, S. Orfei Tumore endocrino della papilla di Vater. Osservazione su un caso clinico A case report of a neuroendocrinal ampullary tumor ................................................................................................... 37 M. Pichi Graziani, S. Benyacar, S. Bettazza, C. Bergamo, A. Pavesi, F. E. Saporiti, F. Stock, F. Rodio, D. Cacioli Ascesso epatico amebico: presentazione di un caso clinico Amebic liver abscess: a case report ................................................................................................................................ 40 G. Traverso, G. Loche, E. Manca, A. Salvioni, C. Arlati, M. Gariboldi, M. Strada, L. Roffi Iter diagnostico e gestione clinica delle diarree nell’adulto Diagnostic strategy and clinical management of diarrhoea in adult ........................................................................... 47 A. Frosi La diagnosi di appendicite acuta è ancora una sfida? Leukocytosis in acute appendicitis is still a challenge? ................................................................................................ 54 B. Sala Aspetti medico-legali / Legal aspects La contenzione nell’anziano e nel paziente complesso: evoluzione etica verso una più ampia tutela della persona Juridical and medico-legal aspects of preventive devices and contention of aged and complex patients are analysed ........................................................................................................................................................................... 59 A. Flores La pagina della storia / History page Leonardo e l’Anatomia Leonardo and Anatomy .................................................................................................................................................. 62 P. Mingazzini
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EDITORIALE
L’AVVENTO DELLE FIBRE OTTICHE HA RIVOLUZIONATO LA CHIRURGIA ORL Andrea Franzetti Direttore Dipartimento Chirurgico I.C.P. Milano e Direttore U.O.C. ORL Ospedale “E. Bassini”
Operare in spazi stretti, profondi, male illuminabili e difficilmente raggiungibili è sempre stato il vero problema dello specialista otorinolaringoiatra. E questa è anche la ragione del fatto che la specialità di otorinolaringoiatria ha un suo sviluppo clinico-diagnostico e chirurgico importante soprattutto nel corso del 1900 fino ad oggi. Non che i nostri predecessori mancassero di idee e di immaginazione. Nell’armamentario medico che ci è pervenuto e che ha segnato secoli di storia della medicina esistono embrioni di molti strumenti che oggi noi utilizziamo. Nel XIV secolo per esempio Guy de Chauliac era molto fiero del suo “speculum ad solem”, uno speculo dilatatore per il condotto uditivo ed il naso che sfruttava la luce del sole con varie posizioni. Tutto questo arsenale, però, non fu mai in realtà veramente utile prima della “conquista della luce”, cioè prima della messa a punto di sorgenti luminose costantemente disponibili e maneggevoli. Le grandi date della conquista della luce sono tutte nella seconda metà del XIX secolo. Il primo obiettivo fu quello di disciplinare i raggi luminosi che avrebbero potuto permettere l’ispezione degli organi e la constatazione delle lesioni. Già nel 1700 Archibald Cleland inventò l’antenato dello specchio di Clar. Nel corso del 1800 molti furono i medici che stimolarono progressi tecnici ed innovazioni per convogliare la luce a scopo diagnostico nelle cavità dei distretti ORL, ma la vera scoperta fu ad opera di un non medico, di un professore di canto, Manuel Garcia, che introdusse nella pratica clinica il laringoscopio grazie ad un sistema di specchietti che convogliavano i raggi luminosi. Fu nella seconda metà del 1800 e nei primi del 1900 che questo sistema per la laringoscopia ebbe il suo sviluppo iniziando ad apportare conoscenze importantissime. Solo verso la fine del 1800 l’otologia e la rinologia iniziarono a considerare l’utilizzo di questi sistemi di specchi fino ad ipotizzare uno specchio riflettente concavo sulla fronte del medico dotato di un foro per la visione. Alla fine del 1800 l’invenzione da parte di Edison della lampada ad incandescenza rivoluzionò i metodi di illuminazione e diede un’opportunità straordinaria a tutte le tecniche di indagine diagnostica che si basano sull’elettricità. Ci vollero però più di trent’anni perché queste nuove tecniche iniziassero ad essere utilizzate sulle
prime vie aeree con le esperienze di Kirstein e di Killian a Friburgo. Nella seconda metà del 1900 la scoperta delle proprietà ottiche del quarzo e l’introduzione dei microscopi fu la seconda vera svolta storica per gli specialisti otorinolaringoiatri. Fu così che negli anni ’60 si svilupparono la microlaringoscopia diagnostica e chirurgica, l’otochirurgia microscopica così come l’utilizzo del microscopio nelle patologie naso - sinusali. Quella del microscopio fu una vera rivoluzione culturale per lo specialista ORL; prima del suo avvento, infatti, lo sforzo chirurgico era quello di inventare vie di apertura e di accesso agli spazi del massiccio facciale, del collo e dell’orecchio che esponessero nel modo più ampio le cavità e gli organi da operare con interventi destruenti, spesso apparentemente eccessivi in relazione alle patologie affrontate, non sempre oncologiche o così gravi da giustificate tali demolizioni. Via via nel corso del 1900 le tecnologie hanno tentato di rendere sempre più coerente ed efficace questo tipo di chirurgia. Se è vero che già nel 1888 Carl Zeiss introdusse l’industrializzazione del microscopio ci sono voluti più di 50 anni nel corso del 1900 per farlo diventare anche per la chirurgia ORL lo strumento principe sia per la diagnostica che per la chirurgia. Il suo utilizzo ha permesso anche di sviluppare l’acquisizione fotografica delle immagini, un valore clinico inestimabile, prima ovviato solo con disegni. La chirurgia nasale dei seni paranasali fu l’ultima, in ambito ORL, ad avvalersi dei dispositivi ottici di ingrandimento (anni ‘70); e la sua diffusione era molto dibattuta. Le ragioni di tutto questo travagliato ritardo nell’applicazione di tali scoperte tecnologiche sono molteplici; infatti una variazione di tecnica operatoria così radicale e continua impone grossi sacrifici; sono necessari un addestramento adeguato e continuo, teorico e pratico, ed un profondo cambio di mentalità dovuto alla cura meticolosa dei particolari, al maggiore impegno di pazienza, alla differente gestualità e all’allungamento dei tempi chirurgici oltre ai costi sempre più onerosi. In questo panorama Wigand nel 1977 e poi Wullstein e Messerklinger in Europa e Mark May negli Stati Uniti nei primi anni ’80 hanno sistematizzato l’utilizzo clinico e chirurgico delle fibre ottiche con la creazione di endoscopi rigidi e flessibili da applicare sia
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Andrea Franzetti
nella diagnosi che nella terapia chirurgica delle prime vie aeree. Così l’utilizzo sistematico della fibra ottica ha permesso di migliorare la visione, la fotografia e gli atti chirurgici in tutto il distretto ORL.
Pare superfluo sottolineare come il ricorso alla microendoscopia diagnostica rappresenti, con il superamento delle metodiche tradizionali, un progresso importante nella diagnosi precoce delle affezioni otorinolaringoiatriche potendo contribuire in molti casi ad una più precisa indicazione terapeutica medica o chirurgica ed alla riuscita della terapia farmacologica. Inoltre l’apporto alla tecnica chirurgica è stato decisivo e rivoluzionario introducendo in ambito ORL quei concetti chirurgici propri dell’evoluzione chirurgica di altre specialità come la microchirurgia laparoscopica, la microchirurgia ortopedica, la microchirurgia endoscopica urologica. Così anche la chirurgia dello specialista otorinolaringoiatra è diventata sempre più precisa, poco distruttiva, microchirurgica e mirata al mantenimento della fisiologia. Nella chirurgia funzionale endoscopica naso-sinusale, l’approccio con le fibre ottiche e con i nuovi strumenti microchirurgici motorizzati e dei laser ha permesso di ridurre al minimo l’esigenza del fastidiosissimo tamponamento nasale, di affrontare la maggior parte delle patologie nasali e sinusali benigne e maligne passando dalle fosse nasali senza più accessi dall’esterno. Tale tecnica permette di eseguire sempre per via transnasale anche interventi neurochirurgici per la chiusura di fistole cranioliquorali, per la chirurgia dell’ipofisi e per la chirurgia della rinobase. Con gli oculisti si sono messe a punto tecniche chirurgiche endoscopiche per le patologie del dotto naso - lacrimale e dell’orbita. Con gli odontoiatri è ormai consueta la collaborazione per tutta la chirurgia del pavimento mascellare. Infine, la cura di molte algie facciali o cefalee trova applicazione di queste sofisticate tecniche endoscopiche. Presso l’unità operativa ORL dell’ospedale Bassini oggi collegata anche con l’Ospedale di Sesto San Giovanni e con l’Ospedale dei Bambini Buzzi di Milano dal 2002 si esegue in modo sistematico questo tipo di diagnostica in ambulatori dedicati di secondo e terzo livello e interventi
di microchirurgia endoscopica con l’utilizzo di fibre ottiche nei distretti ORL: In modo particolare si esegue chirurgia endoscopica nasale con trattamenti incruenti al setto nasale ed ai turbinati con l’ausilio di laser a diodi che vengono eseguiti in regime di Day Hospital senza tamponamento nasale, chirurgia endoscopica naso-sinusale per le patologie flogistiche e allergiche in modo particolare per le sinusiti e per la poliposi nasale con la riduzione delle recidive dal 30% dei casi operati all’8%. L’introduzione dell’uso di schiume emostatiche e di tecniche con palloncini per la dilatazione degli osti dei seni paranasali ha ridotto al minimo la necessità dei tamponamenti naso sinusali. Sempre endoscopicamente vengono trattate le patologie del dotto naso lacrimale e dell’orbita, molte patologie tumorali benigne e maligne, le fistole cranio liquorali. Con le fibre ottiche ha trovato applicazione anche la microchirurgia delle ghiandole salivari, con interventi per via trans orale e la diagnostica foniatrica delle patologie della voce e della deglutizione, con la fono-micro-chirurgia. L’utilizzo della fibra ottica, associato all’utilizzo del laser, ha innovato anche l’approccio della chirurgia oncologica laringea. Per quanto riguarda la diagnostica otologica già oggi l’utilizzo delle ottiche e dei sistemi di acquisizione immagini ha apportato notevoli innovazioni ed in futuro probabilmente anche la chirurgia otologica verrà interessata da queste tecnologie. Concludiamo con una considerazione che nasce dall’esperienza professionale quotidiana che ci insegna a mantenere i giusti equilibri tra la tecnologia e chi la usa. Non possiamo permetterci di sostituire il bene del Paziente e la professionalità del Medico con la frenesia dell’innovazione o con l’uso imperativo di alcune tecniche. Ogni cosa ha il suo posto ed è solo l’uomo che deve servirsene e non viceversa.
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LAVORO ORIGINALE
LA TERAPIA DI RESINCRONIZZAZIONE CARDIACA: CURARE LO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO CON UN PACE-MAKER Elena Teresa Montani°, Antonio Lippolis°°, Patrizia Motta°, Gian Luca Tommasini°, Viola Dadone*, Chiara Bencini*, Maria Cazzaniga°° e Davide Esposti°° U.O. Cardiologia –Presidio Ospedaliero “E. Bassini”, Azienda Ospedaliera Istituti Clinici di Perfezionamento, Cinisello Balsamo (Milano) ° Laboratorio di Aritmologia ed Elettrostimolazione - *Laboratorio di Ecocardiografia - °° Settore degenze Riassunto Nei pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico (SCC) i ritardi di conduzione (blocchi atrio-ventricolari e blocco di branca sinistra) possono determinare desincronizzazione interventricolare, intraventricolare ed atrio-ventricolare che contribuiscono al rimodellamento cardiaco ed alla progressione della malattia. La terapia di resincronizzazione cardiaca (CRT) mediante pace-maker biventricolare aumenta la gittata cardiaca, migliora i sintomi e riduce ospedalizzazioni e mortalità. Nella nostra esperienza anche nei pazienti più anziani (>75 anni) sintomatici nonostante terapia medica ottimale e con QRS >120 msec la CRT è risultata efficace nel migliorare lo stato funzionale senza un aumento delle complicanze procedurali. Problemi ancora irrisolti sono la definizione dei criteri per la selezione dei soggetti responsivi e la migliore strategia di gestione della CRT nei pazienti con SCC in fibrillazione atriale. Abstract Cardiac Resynchronization Therapy: treating chronic heart failure with a pace-maker In patients with heart failure (HF) conduction delays (atrioventricular blocks and left bundle-branch block) are responsible of intraventricular, interventricular and atrioventricular dyssynchrony that contributes to myocardial remodeling and disease progression. Cardiac resynchronzation therapy (CRT) using biventricular pacing enhances cardiac output, improves symptoms, reduces hospitalizations and mortality. In our experience even in oldest HF patients (> 75 years) symptomatic despite optimal medical therapy and with QRS >120 msec CRT has been shown to improves functional status without increasing adverse events. Unsolved questions are the selection criteria to define responders and how to manage CRT in HF patients in atrial fibrillation. Parole-chiave: scompenso cardiaco, terapia di resincronizzazione cardiaca Key words: heart failure, cardiac resynchronization therapy
Introduzione Epidemiologia e storia naturale dello scompenso cardiaco Nei paesi industrializzati l’invecchiamento della popolazione e l’aumento della sopravvivenza dopo infarto miocardico acuto sono alla base del progressivo incremento dei casi di scompenso cardiaco cronico (SCC) nonché della conseguente crescita della spesa sanitaria. Nell’anno 2003, in Italia i ricoveri per scompenso sono stati 211.183 (1.6% del totale) contribuendo nella misura del 2% alla spesa ospedaliera complessiva (1). Nonostante i progressi ottenuti negli ultimi decenni grazie all’uso di ACE-inbitori, sartani, antialdosteronici e betabloccanti di nuova generazione, la storia naturale dello scompenso rimane attualmente ancora gravata da una qualità di vita molto scadente e da una prognosi paragonabile a quella della malattia neoplastica: il 70% dei pazienti va incontro ad almeno un secondo ricovero nell’arco di un anno, il 30% a più di due ricoveri e la mortalità ad un mese dal primo ricovero è del 19%, a 6 mesi del 30% ed a 4 anni del 50% (2). Individuare pertanto nuove prospettive terapeutiche è una sfida sia per i cardiologi che per le aziende farmaceutiche e produttrici di apparecchiature elettromedicali. In quest’ottica si è rivelato particolarmente fruttuoso lo studio della sequenza di attivazione ventricolare mediante mappaggio elettrocardiografico endocavitario. Nei pazienti con blocco di branca sinistra (BBS), che costituiscono circa il 25-30% della popolazione affetta da SCC, tale tecnica ha permesso di valutare il ruolo del ritardo di conduzione nel contribuire alla dilatazione ventricolare ed alla progressione dello scompenso, fornendo il razionale per un nuovo approccio terapeutico basato sull’impianto di un pace-maker in grado di correggere il ritardo di conduzione mediante la stimolazione simultanea di entrambi i ventricoli (3). Fisiopatologia dello scompenso cardiaco: il rimodellamento ventricolare Trattandosi di una sindrome che origina dal sommarsi di molteplici fattori anatomici, funzionali e bioumorali che interagiscono in modo complesso fra loro e con il substrato genetico ed ambientale, è naturale che il modello interpre-
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Elena Teresa Montani°, Antonio Lippolis°°, Patrizia Motta°, Gian Luca Tommasini°, Viola Dadone*, Chiara Bencini*, Maria Cazzaniga°° e Davide Esposti°°
tativo dello SCC sia in continua evoluzione. Alla semplicistica visione emodinamica secondo cui lo SCC era espressione di un deficit della funzione di pompa del cuore, si è affiancato nel tempo il modello neuro-ormonale che riconosce all’attivazione del sistema simpatico e dell’asse angiotensina-renina-aldosterone un’iniziale funzione compensatoria ma nel lungo termine un effetto tossico su cuore e circolo periferico responsabile della progressione della malattia (4). Il modello emodinamico e quello neuro-ormonale si integrano nel concetto di rimodellamento cardiaco con il quale si intende l’insieme delle modificazioni cellulari e strutturali che si instaurano come conseguenza di un sovraccarico di lavoro, qualunque ne sia la causa (ipertensione arteriosa, valvulopatia, perdita di tessuto contrattile per infarto miocardico). La prima risposta dei miocardiociti ad uno stress emodinamico è la distensione dei miofilamenti che consente di mantenere costante la gittata cardiaca, ma il protrarsi di uno stiramento eccessivo induce la sintesi di proteine ad azione endocrina, cioè citochine e fattori di crescita, in grado di riattivare percorsi molecolari propri della vita fetale, percorsi che nell’individuo adulto sono fisiologicamente quiescenti. Ne consegue la comparsa di ipertrofia, cioè di un meccanismo compensatorio che da un lato riduce lo stress di parete ma che dall’altro comporta una maggiore esposizione al rischio di ischemia, nonchè l’attivazione di programmi di apoptosi (autodistruzione cellulare). Sotto lo stimolo dei fattori di crescita rilasciati durante stress meccanico viene modificata anche la sintesi delle proteine contrattili con produzione di un’isoforma fetale di miosina meno efficiente e si riducono il numero dei recettori per le catecolamine e la produzione delle proteine regolatrici dei flussi di ioni calcio (Ca). Aumenta, invece, la deposizione di collagene nella matrice extracellulare cui fa seguito l’attivazione delle metallo-proteasi ad azione collagenolitica responsabili del progressivo assottigliamento delle pareti del ventricolo scompensato. Il risultato finale e’ una globale riduzione della funzione ventricolare per riduzione della capacità contrattile dei miociti e del loro numero totale che, sul piano funzionale, si traduce in una diminuzione dello svuotamento sistolico del ventricolo sinistro, espresso dal parametro ecocardiografico della frazione di eiezione (FE). Il ventricolo va così incontro a dilatazione e sfericizzazione (rimodellamento geometrico) con conseguente dislocazione dei muscoli papillari che implica la comparsa di insufficienza mitralica funzionale, a sua volta responsabile di un ulteriore sovraccarico del lavoro cardiaco (5, 6). In conclusione, per effetto del rimodellamento ventricolare si instaura un circolo vizioso che determina l’ulteriore progressione dello SCC. Rimodellamento e ritardi di conduzione E’ noto che nei pazienti con SCC la presenza di BBS determina una peggiore prognosi con una diretta correlazio-
ne fra entità del ritardo di conduzione ed aumento della mortalità in quanto il ritardo di conduzione è a sua volta concausa di rimodellamento ventricolare e di ulteriore deterioramento della funzione cardiaca (7). Nel cuore sano la depolarizzazione origina nel nodo del seno, raggiunge il nodo atrio-ventricolare, percorre rapidamente il fascio di His e le branche destra e sinistra e, tramite la rete del Purkinije, si propaga al miocardio comune completando il suo percorso entro 50-80 msec. In presenza di BBS, mentre l’impulso elettrico viaggia rapidamente lungo la branca destra e si propaga alle pareti libere del ventricolo destro permettendone un’attivazione ed una contrazione in tempi fisiologici, l’attivazione del ventricolo sinistro non può che avvenire tramite il miocardio comune, quindi con una sequenza rallentata ed anomala che procede verso il lato sinistro del setto e da qui raggiunge e circonda l’apice ventricolare per poi estendersi alle pareti laterale e posteriore fino ai segmenti basali, completandosi con un sensibile ritardo rispetto all’attivazione ventricolare destra (da 120 fino a 170 ed anche 200 msec). Si determina così un gradiente di pressione a cavallo del setto interventricolare che risulta dislocato posteriormente e trascina con se il muscolo papillare posteriore con conseguente possibile insufficienza mitralica protosistolica. Questo fenomeno è ciò che si definisce desincronizzazione interventricolare. Per effetto del ritardo fra l’attivazione del setto e quella delle pareti posteriore e laterale del ventricolo sinistro esiste anche una desincronizzazione intraventricolare in conseguenza della quale i segmenti miocardici attivati per primi, contraendosi, esercitano uno stiramento su quelli non ancora attivati. Ciò fa sì che zone opposte del ventricolo sinistro si muovano non in fase e l’energia generata in una zona venga dissipata in quella opposta. Inoltre lo stiramento eccessivo di alcuni segmenti miocardici è stimolo diretto alla produzione locale di chinasi ad azione citotossica. Infine la tardiva attivazione della parete ventricolare posteriore e del muscolo papillare di pertinenza possono contribuire a produrre un rigurgito mitralico con ulteriore aggravio del carico emodinamico. Anche la stimolazione cardiaca mediante un elettrodo in apice del ventricolo destro condiziona un’innaturale sequenza di attivazione del ventricolo sinistro, determinando una desincronizzazione interventricolare ed intraventricolare che possono render ragione del deterioramento emodinamico che si osserva frequentemente nei pazienti con iniziale insufficienza cardiaca che vengono sottoposti a impianto di pace-maker convenzionale per blocco atrioventricolare. Si definisce, infine, desincronizzazione atrio-ventricolare la conseguenza emodinamica del blocco atrio-ventricolare (BAV). Normalmente la sistole atriale precede di poco l’inizio della contrazione isometrica dei ventricoli e contribuisce all’ottimizzazione del pre-carico aumentando la distensione delle fibrocellule muscolari. In presenza di BAV
La terapia di resincronizzazione cardiaca: curare lo scompenso cardiaco cronico con un pace-maker di 1° grado il tempo di riempimento dei ventricoli risulta ridotto con conseguente raggiungimento di un pre-carico sub-ottimale; la pressione diastolica ventricolare inoltre raggiunge il suo valore massimo mentre gli atri sono già in diastole ma, essendo la valvola mitralica ancora aperta, il gradiente creatosi determina un rigurgito valvolare telediastolico mal tollerato da un cuore già insufficiente. Complessivamente, quindi, gli effetti meccanici delle varie forme di desincronizzazione, contribuendo alla riduzione della funzione ventricolare, sono ulteriore stimolo alla produzione dei mediatori neuro-ormonali agenti del rimodellamento, quindi all’ulteriore progressione della disfunzione cardiaca (3, 8). Effetti emodinamici della resincronizzazione ventricolare L’impianto di uno stimolatore cardiaco dotato di un elettrodo nell’atrio destro, uno nel ventricolo destro ed uno sulla superficie epicardica della parete laterale del ventricolo sinistro è in grado di correggere queste forme di desincronizzazione facendo contrarre simultaneamente i ventricoli. Una contrazione simultanea dei ventricoli anticipa l’attivazione delle zone del ventricolo sinistro che, a causa del BBS, sarebbero raggiunte per ultime dalla propagazione naturale dello stimolo. Inoltre, qualora sia presente un BAV di 1° grado si ottiene anche l’ottimizzazione dell’intervallo fra sistole atriale e sistole ventricolare. La prima applicazione della terapia di resincronizzazione ventricolare (CRT) venne effettuata in Francia da Cazeau nel 1994 ed i risultati incoraggianti ne promossero la diffusione. Inizialmente in numerosi studi osservazionali minori la CRT risultò in grado di determinare un aumento della gittata sistolica e dell’FE, una riduzione della pressione e del volume telediastolico ventricolare migliorando complessivamente la funzione ventricolare senza determinare un aumento del consumo energetico, ad indicare una maggiore efficienza globale. Seguirono lavori sugli effetti a medio e lungo termine della CRT che documentarono un miglioramento significativo della tolleranza allo sforzo (classe funzionale NYHA) e quindi della qualità di vita (9, 10, 11). Infine, con l’inizio di questo decennio comparvero i grandi trials: 1. MUSTIC (2001): studio randomizzato su 95 soggetti con SCC in III classe NYHA, in ritmo sinusale o in fibrillazione atriale, con QRS > 150 msec randomizzati a ricevere alternativamente per un periodo di 12 settimane la stimolazione biventricolare o nessuna stimolazione. Durante la fase di stimolazione biventri colare i pazienti (pz) che percorrevano una distanza significativamente maggiore al test dei 6’ di marcia presentavano un punteggio piu’ elevato al questionario sulla qualita’ di vita e subivano un minor numero di riospedalizzazioni (12).
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MIRACLE (2002): studio multicentrico randomizzato in doppio cieco su 453 pz in ritmo sinusale con SCC, FE < 35% e QRS > 130 msec randomizzati a terapia medica ottimale con o senza CRT. Il gruppo trattato anche con CRT presentò un miglioramento statisticamente significativo del punteggio nella scala della qualita’ di vita, della classe funzionale e della distanza percorsa al test dei 6’ di marcia (13). COMPANION (2004): su 1520 pz con cardiopatia ipocinetica ischemica o idiopatica, in ritmo sinusale, in classe funzionale III o IV, con QRS > 120 msec ed FE < 35% randomizzati a terapia medica ottimale oppure terapia medica ottimale abbinata a CRT o terapia medica ottimale abbinata a stimolatore biventricolare con funzione di defibrillatore automatico (CRT-D). Confrontati con i pazienti in sola terapia medica, quelli sottoposti a CRT presentavano una riduzione del 35% degli obiettivi combinati di riospedalizzazione e mortalita’ ed una riduzione della sola mortalita’ che è risultata pari al 24% per quelli sottoposti a resincronizzazione e del 36% per quelli sottoposti a CRT-D (14). CARE HF (2005): 819 pazienti in ritmo sinusale con SCC in classe funzionale III o IV con durata del QRS fra 120 e 150 msec associato a segni ecocardiografici di desincronizzazione o con QRS > 150 msec randomizzati alla sola terapia medica o a terapia medica abbinata a CRT. In un periodo medio di 29 mesi il rischio combinato di morte per qualsiasi causa o riospedalizzazione risultò ridotto del 37% nel gruppo trattato con CRT, il solo rischio di morte ridotto del 36% e quello di riospedalizzazione per recidiva di scompenso del 52% (15). MADIT-CRT (2009): 1820 pazienti con cardiopatia ipocinetica (FE < 30%) ischemica e non ischemica, anche solo moderatamente sintomatici (classe funzionale I e II) e con QRS > 130 msec randomizzati a CRT-D o all’impianto del solo ICD. Durante un periodo di osservazione di 29 mesi solo il 17.2% dei pazienti sottoposti a CRT-D andò incontro a recidiva di scompenso o morte, mentre questi eventi si erano verificati nel 25.3% dei soggetti trattati con terapia medica e solo ICD, a riconferma del fatto che è la correzione della disomogenea attivazione ventricolare l’elemento in grado di modificare la prognosi di questi pazienti (16).
Il rimodellamento inverso Nell’ultimo decennio sono andate raccogliendosi numerose evidenze relative all’efficacia della CRT nell’indurre una riduzione dei marcatori biologici della progressione dello scompenso. Sono stati osservati un aumento della variabilità della frequenza cardiaca ad indicare un più favorevole bilancio fra stimolazione orto- e para-simpatica,
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una riduzione del grado di attivazione del sistema reninaangiotensina e dei mediatori responsabili delle modificazioni cellulari che portano al rimodellamento ventricolare (fattori di necrosi tumorale). Inoltre, è stata riscontrata una significativa riduzione della morte per apoptosi dei miocardiociti e della fibrosi miocardica (17, 18). Queste osservazioni hanno fatto ipotizzare che nei pazienti con risposta clinica favorevole alla CRT si verifichi un rimodellamento inverso, ipotesi che è stata convalidata dai risultati dello studio randomizzato in doppio cieco e controllato REVERS di recente pubblicazione. In tale studio, 610 pazienti in ritmo sinusale, con iniziale disfunzione ventricolare (FE < 40% e diametro diastolico ventricolare > 55 mm), QRS > 120 msec e SC lieve (classe funzionale I e II) sono stati sottoposti a terapia medica ottimale ed impianto di stimolatore cardiaco biventricolare con o senza funzione di defibrillatore, quindi randomizzati ad attivazione o non-attivazione della resincronizzazione. Il controllo ecocardiografico ad un anno ha evidenziato nel gruppo sottoposto a CRT una riduzione dei volumi telediastolico e telesistolico del ventricolo sinistro ed un aumento della FE non osservabili nel gruppo di controllo. Poichè la riduzione delle dimensioni ventricolari non si è accompagnata ad una riduzione della massa ventricolare si è determinata una riduzione dello stress di parete ed è ipotizzabile che proprio questo sia il fattore di innesco del processo di rimodellamento inverso (19, 20). I “non responders” e la selezione dei pazienti Dagli studi che dimostrano l’efficacia terapeutica della CRT nel ridurre mortalità e morbilità per scompenso cardiaco emerge anche che nel 15%-40% dei soggetti tale trattamento, pur non provocando effetti dannosi, non ha ottenuto i risultati attesi (3, 8). Le cause della non responsività possono essere il posizionamento dell’elettrodo per il ventricolo sinistro in una zona non ottimale e la non adeguata programmazione del dispositivo, ma probabilmente l’elemento di maggiore peso è la non corretta selezione dei pazienti. A tutt’oggi non è ancora stato individuato alcun parametro strumentale che identifichi a priori in maniera univoca i soggetti che trarranno beneficio dalla CRT. Il 30-40% dei pazienti con QRS > 120 msec, che è attualmente l’unico indicatore di desincronizzazione riconosciuto dalle linee-guida, non presenta una desincronizzazione meccanica evidenziabile all’ecocardiogramma. Per contro i risultati di un recente studio prospettico multicentrico controllato che ha analizzato in 426 pazienti il potere predittivo di una batteria di criteri ecocardiografici ha evidenziato solo una lieve superiorità di alcuni di essi nel predire la risposta alla CRT, ma con una sensibilità e specificità molto basse, tali da non presentare alcuna utilità aggiuntiva nella selezione dei candidati alla CRT (21). Non sono univoci anche i dati relativi all’eziologia della cardiopatia, anche se da alcu-
ni studi sembra che i pazienti con cardiopatia ischemica più frequentemente traggano benefici minori in quanto la possibile presenza di cicatrici infartuali nella regione posterolaterale del ventricolo sinistro limiterebbe l’effettiva resincronizzazione e quindi l’efficacia della terapia (13). Tecniche di impianto e complicanze L’impianto di uno stimolatore cardiaco per la CRT differisce da quello di un pace-maker convenzionale o di un defibrillatore esclusivamente per il posizionamento di un elettrodo aggiuntivo in ventricolo sinistro. L’accesso avviene necessariamente tramite puntura con tecnica di Seldinger della vena succlavia, preferibilmente la sinistra in quanto consente un più agevole approccio al seno coronarico. Dopo il posizionamento degli elettrodi per l’atrio ed il ventricolo destro, si procede all’inserimento di un sistema telescopico per la veicolazione dell’elettrodo per il ventricolo sinistro, detto “delivery”, che viene fatto avanzare fino al pavimento dell’atrio destro, ove sbocca il seno coronarico, protetto dalla valvola di Tebesio e compreso fra la valvola di Eustachio ed il margine posteriore dell’anello tricuspidalico. Una volta incannulato con il delivery il seno coronarico vi si inietta una modesta quantità di mezzo di contrasto per ottenere un venogramma e localizzare l’imbocco di una vena tributaria, preferibilmente posterolaterale, idonea all’inserimento dell’elettrodo per la stimolazione del ventricolo sinistro. Il corretto posizionamento di tale elettrodo viene valutato sia sulla base della sua localizzazione anatomica al controllo radioscopico sia sulla base dei parametri elettrici: l’ampiezza del ventricologramma rilevato in tale sede ed il suo ritardo rispetto all’inizio dell’attivazione ventricolare destra, la soglia di cattura e l’assenza di stimolazione del nervo frenico o del diaframma. Nel 10%-20% dei casi limitazioni tecniche (ostio del seno coronarico serrato o angolato, prominenza della valvola di Vieussens sul suo decorso, assenza di un vaso venoso tributario di dimensioni adeguate o impossibilità ad evitare la stimolazione diaframmatica ) non consentono di portare a termine l’impianto con approccio percutaneo. In tali casi è possibile ricorrere al posizionamento dell’elettrodo direttamente sulla superficie epicardica con approccio chirurgico tramite mini-toracotomia o toracoscopia. I risultati della CRT ottenuti mediante impianto di elettrodo epicardico non differiscono sostanzialmente da quelli ottenuti con la tecnica percutanea riguardo alla percentuale di “non responders” (8). Prenumotorace, emotorace, versamento pericardico, sanguinamento ed infezioni locali sono eventi potenzialmente gravi, ma relativamente rari (incidenza inferiore a 1%), che possono complicare l’impianto di un pace-maker biventricolare analogamente a quanto si può verificare per un pace-maker convenzionale o un defibrillatore. Una complicanza lievemente più frequente propria della tecnica
La terapia di resincronizzazione cardiaca: curare lo scompenso cardiaco cronico con un pace-maker di posizionamento del catetere per il ventricolo sinistro è invece la dissezione del seno coronarico, che tuttavia solo raramente è responsabile di tamponamento cardiaco (22). Casistica personale La nostra casistica numericamente esigua non consente valutazioni statistiche e pertanto viene riportata solo a scopo esemplificativo per documentare come, anche al di fuori delle popolazioni costituite dai soggetti “ideali” selezionati per i grandi trials, la terapia di resincronizzazione abbia un impatto positivo di grande rilevanza sulla qualità di vita e sulla prognosi dei pazienti. Dall’aprile 2002 al dicembre 2009 sono stati sottoposti con successo a CRT presso il Laboratorio di Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione della Divisone di Cardiologia dell’Ospedale Bassini 23 pazienti (5 femmine e 18 maschi) di età compresa fra 54 e 87 anni (media 73.7+6.45 anni) che dal momento dell’impianto sono stati regolarmente seguiti presso il nostro ambulatorio di 2° livello. In 6 di essi la disfunzione ventricolare era dovuta a cardiomiopatia idiopatica, in 2 era conseguente a patologia valvolare e nei restanti 15 era di origine ischemica. In 14 di essi è stato impiantato dispositivo con funzione anche di defibrillatore. Durante il follow-up medio di 39+30 mesi (range 5-92) non si è verificato alcun decesso e due soli pazienti hanno subito un ricovero per recidiva di scompenso, in un caso a seguito della comparsa di fribillazione atriale con conseguente parziale perdita della sincronizzazione ventricolare e nell’altro in concomitanza con un focolaio broncopneumonico. Le complicanze connesse alla procedura sono state tre casi di dislocazione precoce di un elettrodo, risolte dal riposizionamento, un caso di pneumotorace che ha richiesto il drenaggio chirurgico ed una dissezione del seno coroncarico a risoluzione spontanea. Le sole complicanze tardive sono state la frattura di un elettrodo atriale che ne ha implicato la rimozione con posizionamento di un nuovo elettrodo ed un caso di decubito della tasca, senza infezione, verificatosi dopo la terza sostituzione del generatore. Dal punto di vista dell’efficacia della CRT (tab.I) tutti i pazienti tranne uno hanno riferito un miglioramento della tolleranza allo sforzo con passaggio ad almeno una classe funzionale inferiore ed in 10 di essi a due classi inferiori. Per quanto concerne i parametri ecocardiografici, utilizzando come criterio di responsività una variazione della FE di almeno 5 punti, i non-responders sono risultati due ed entrambi erano affetti da cardiopatia di origine ischemica. Vale la pena di sottolineare come l’età media dei nostri pazienti sia sensibilmente più elevata di quella dei grandi trials (tab. II); nonostante ciò i risultati ottenuti sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli degli studi che costituiscono le pietre miliari della storia della CRT. In
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particolare l’impianto di uno stimolatore biventricolare ha ottenuto un sensibile beneficio sia clinico sia dei parametri ecocardiografici in tutti gli ultra-settantacinquenni, eccetto uno, senza che la procedura risultasse gravata da una maggiore incidenza di complicanze rispetto ai soggetti più giovani. Problemi aperti La CRT rappresenta un efficace trattamento dello SCC in quanto ha dimostrato di prolungare la sopravvivenza, migliorare i sintomi ed aumentare la capacità funzionale nei pazienti con BBS in classe funzionale avanzata. Alcuni aspetti di tale terapia sono tuttavia ancora controversi e necessitano di ulteriori evidenze sperimentali. Si è già fatto cenno alla necessità di individuare un criterio clinico o strumentale in grado di selezionare a priori in modo univoco i soggetti che avranno una risposta favorevole al trattamento. Un altro punto critico è l’utilità della CRT nei pazienti in fibrillazione atriale che risulta essere l’aritmia presente nel 15%-50% dei pazienti con SCC. Poichè l’efficacia della CRT è condizionata dalla percentuale di battiti resincronizzati, la frequenza elevata ed irregolare propria di questa aritmia rende difficile un’ attivazione biventricolare costante e quindi ne limita i benefici. Studi osservazionali su casistiche relativamente piccole di pazienti in fibrillazione atriale permanente sottoposti a CRT documentano anche in tali soggetti effetti clinici ed emodinamici favorevoli, ma i risultati migliori sono stati registrati quando la CRT è stata abbinata all’ablazione del nodo atrio-ventricolare mediante radiofrequenza, procedura che consente di ottenere il 100% dei battiti resincronizzati in quanto rende il paziente totalmente dipendente dallo stimolatore cardiaco (23, 24). Altro argomento di dibattito è l’opportunità di impiantare in tutti i pazienti candidati alla CRT un dispositivo anche con funzione di defibrillatore. E’ ormai ben documentato che pazienti con funzione sistolica ridotta (FE < 35%), indipendentemente dall’eziologia della cardiopatia e dalla durata del QRS, richiedono una profilassi primaria della morte improvvisa mediante l’impianto di un defibrillatore cardiaco (tab. III e IV). Due recenti studi (1-2) hanno dimostrato come la CRT sia in grado di interrompere la progressione naturale dello SCC producendo un fenomeno di rimodellamento inverso capace di determinare un complessivo miglioramento degli indici di funzione sistolica (volumi ventricolari e FE) in pazienti con SCC in classe funzionale meno avanzata. Alla luce di tali dati ci si potrebbe domandare se l’impianto di un defibrillatore cardiaco, indicato dalle linee-guida nei soggetti con FE < 35%, sia realmente necessario in tutti i pazienti sottoposti a CRT, nell’ottica di un possibile miglioramento a medio termine della FE. Per rispondere a tale quesito sarebbero necessari nuovi e più ampi stu-
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di randomizzati in pazienti paucisintomatici con FE < al 35%, studi che però sono attualmente esclusi dai brillanti risultati sulla mortalità ed il miglioramento dei sintomi dimostrati dai trials fin qui condotti sulla CRT e sull’uso di ICD. Rifacendosi ai due lavori citati è possibile ipotizzare che i pazienti in classe funzionale I e II, la cui mortalità è
di per se bassa, vengano trattati inizialmente con la sola CRT qualora l’FE sia compresa tra 35-40% e che solo in un secondo tempo si proceda ad impianto di ICD, qualora si verifichi una progressione della disfunzione ventricolare sinistra per mancata risposta alla CRT(16, 20).
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Il Bassini - Volume XXX - Gennaio-Giugno 2010
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LAVORO ORIGINALE
OBESITA’ E RENE Ivano Baragetti, Laura Buzzi, Veronica Terraneo, Cristina Sarcina, Cecilia Biazzi, Claudio Pozzi Divisione di Nefrologia e Dialisi, Ospedale Bassini, Azienda Ospedaliera ICP, Cinisello Balsamo (Milano) Riassunto Dal 2006 al 2008, negli USA si è registrato un progressivo aumento della prevalenza di pazienti uremici in dialisi, passando da 507.146 pazienti a 553.165. Il 70% dei pazienti che entrano in dialisi sono diabetici ed ipertesi. Posto 1 il rischio relativo di avere un evento cardiovascolare fatale di un paziente con filtrato renale tra 90 e 60 ml/ min, tale rischio aumenta del 40% nei pazienti con filtrato renale tra 60 e 45 ml/min, 200% in quelli con filtrato renale tra 45 e 30 ml/min, del 280% in quelli con filtrato renale tra 30 e 15 ml/min e del 340% nei pazienti con filtrato renale < 15 ml/min. Da questi dati si evince che le patologie nefrologiche che conducono alla dialisi non sono più un problema di ordine “renale”, bensì “cardiovascolare”. L’ipertensione arteriosa, l’obesità, l’intolleranza ai carboidrati e la dislipidemia costituiscono una sindrome denominata metabolica. La sindrome metabolica causa disfunzione renale attraverso l’ipertensione arteriosa e il diabete. Tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che anche l’obesità è di per se stessa causa di disfunzione renale. Non vi è, quindi, dubbio che un approccio farmacologico integrato con statine, ACE inibitori, Sartani, antiaggreganti ed un più stretto controllo glicometabolico rappresentino i cardini della nefroprotezione. Tuttavia non bisogna dimenticare che se l’obesità è associata alla disfunzione renale anche il controllo del peso corporeo rappresenta un pilastro in termini di nefroprotezione Abstract Kidney and obesity From 2006 to 2008 in the U.S. there has been a progressive increase in the prevalence of uremic patients on dialysis, from 507,146 to 553,165 patients. 70% of patients who enter dialysis are diabetic and hypertensive. Place a relative risk of having a fatal cardiovascular event in a patient with renal filtration between 90 and 60 ml / min, this risk increases by 40% in patients with renal filtration between 60 and 45 ml / min, 200% in those with filtration between 45 and 30 ml / min, 280% in those with filtration between 30 and 15 ml / min and 340% in patients with renal filtrate <15 ml/min. From these data we can infere that the nephrological diseases leading to dialysis are no longer a problem of “kidney pertinence”, but of “cardiovascular relevancy”. High blood pressure, obesity, carbohydrate intolerance and
dyslipidemia are a widespread problem in the world and define a syndrome called metabolic syndrome. The metabolic syndrome causes renal dysfunction by hypertension and diabetes. However we must not underestimate the fact that obesity is itself a cause of renal dysfunction. There is therefore no doubt that a pharmacological approach integrated with statins, ACE inhibitors, Sartans, ASA and a tight glycometabolic control represent the cornerstone of renal protection. However we must not forget that, if obesity is associated with renal dysfunction, also weight control is a mainstay in terms of improving renal dysfunction progression and cardiovascular risk. Parole chiave: rene, obesità, aterosclerosi Key words: kidney, obesity, atherosclerosis Introduzione Dal 2006 al 2008 negli USA si è registrato un progressivo aumento della prevalenza di pazienti uremici in dialisi, passando da 507.146 pazienti a 553.165. Tale incremento di casi di patologie renali che conducono alla dialisi trova spiegazione nel radicale cambiamento dell’epidemiologia delle patologie renali. Infatti, mentre nei primi anni ottanta le patologie renali prevalenti erano le glomerulonefriti e le nefropatie congenito - familiari, nell’ultimo decennio si è assistito ad un esponenziale incremento di complicanze renali correlate al diabete ed all’ipertensione arteriosa (nefropatia diabetica, nefropatia ischemica e nefroangiosclerosi). Negli USA il 70% dei pazienti che entrano in dialisi sono diabetici ed ipertesi, mentre quelli che vi entrano per cause prettamente nefrologiche sono una minoranza: 2% per rene policistico, 6% per glomerulonefriti, 1% per uropatie congenite. A questo riguardo dallo studio di Collins et al (1) si evince che il paziente a rischio di sviluppare una malattia renale è il paziente diabetico e anziano con o senza ipertensione. Prevalenza della disfunzione renale Considerando la popolazione generale e sulla base degli studi NHANES III e LIFE si evince che in America ed in Europa la prevalenza di soggetti con filtrato renale inferiore a 30 ml/min è dello 0.2-0.4 % (IRC grave). Essa rappresenta la punta di un gigantesco iceberg (Fig 1). Infatti, se valutiamo i soggetti con filtrato renale compreso tra i 60 ml/min e i 30 ml/min essi rappresentano il 4.3-4.9% della
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popolazione generale (IRC moderata), mentre (dato ancor più sconvolgente) quelli con filtrato renale tra 90 ml/min e 60 ml/min sono il 31-44 % della popolazione generale (IRC lieve). Se dovessimo rapportare questi dati all’Italia avremmo 23 milioni di italiani affetti da IRC lieve, 2.8 milioni affetti da IRC moderata e 600000 persone affette da IRC grave. Disfunzione renale e rischio cardiovascolare Nello Studio di Go et al., (2) condotto su 1120000 persone della baia di S Francisco, si osserva un esponenziale incremento del rischio cardiovascolare con il progredire della disfunzione renale. Posto 1 il rischio relativo di avere un evento cardiovascolare fatale di un paziente con filtrato renale tra 90 e 60 ml/min, tale rischio aumenta del 40% nei pazienti con filtrato renale tra 60 e 45 ml/min, 200% in quelli con filtrato renale tra 45 e 30 ml/min, del 280% in quelli con filtrato renale tra 30 e 15 ml/min e del 340% nei pazienti con filtrato renale < 15 ml/min (fig 2). Dai dati di questo studio si evince che le patologie nefrologiche che conducono alla dialisi non sono più un problema di ordine “renale”, bensì “cardiovascolare”. Anche lo studio di Keith et al. (3) dimostra che le malattie renali sono un problema di ordine cardiovascolare, ancor prima che renale. In questo studio si evidenzia come il 45.7% dei pazienti con filtrato renale tra i 30 e i 15 ml/min muore di un evento cardiovascolare ancor prima di entrare in dialisi, mentre solo 19.9% arriva alla dialisi; il 24.3% dei pazienti con filtrato renale tra i 30 e i 15 ml/min muore di un evento cardiovascolare e solo l’1.3 % arriva alla dialisi. Infine, il 19.5% dei pazienti con filtrato renale tra i 90 e i 60 ml/min muore di un evento cardiovascolare e solo l’1.1% arriva alla dialisi (Fig.3). La spiegazione di questi dati sta proprio nel cambiamento dell’epidemiologia delle patologie renali. Infatti, esse sono correlate ai classici fattori di rischio cardiovascolare come l’ipertensione arteriosa, l’obesità, la sedentarietà, il diabete, il fumo, la dislipidemia. E’, quindi, chiaro che tali fattori, oltre che condizionare la progressione della disfunzione renale, sono anche causa di patologie cardiovascolari. Questo giustifica la sempre maggiore incidenza di eventi cardiovascolari con il progredire della malattia renale (3). L’ipertensione arteriosa, l’obesità, l’intolleranza ai carboidrati e la dislipidemia costituiscono una sindrome denominata sindrome metabolica. Sindrome metabolica e rene Dai criteri di classificazione dell’IDF la sindrome metabolica è definita come segue: - Circonferenza addominale > 94 cm negli uomini e 80 cm nelle donne; - Trigliceridemia > 150 mg/dl o in trattamento farmaco logico; - Colesterolo HDL < 40 mg/dl negli uomini e < 50 mg/dl
nelle donne o in trattamento farmacologico; - Pressione arteriosa > 130/85 mmHg o in trattamento farmacologico; - Glicemia a digiuno > 100 mg/dl. Se sono presenti > di 2 criteri si è in presenza di sindrome metabolica. La sindrome metabolica rappresenta un problema endemico in Italia. Infatti, si stima che in Italia almeno il 45% dei soggetti ha almeno 2 dei sopramenzionati fattori di rischio. In particolare il 33% degli italiani è iperteso, il 50% è in soprappeso od obeso, il 35% è dislipidemico, il 7% è diabetico. La sindrome metabolica è a sua volta associata alla disfunzione renale. Il numero dei suoi componenti correla con la prevalenza di microalbuminuria (4), passando dal 12.5% nei soggetti con una componente al 22.5% nei soggetti con >3 componenti. Il numero dei componenti della sindrome metabolica correla anche con la prevalenza di disfunzione renale (5): quest’ultima passa dallo 0.9% nei soggetti con una componente al 9.2 % nei pazienti con 5 componenti. La sindrome metabolica causa disfunzione renale attraverso l’ipertensione arteriosa e il diabete. Tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che anche l’obesità è di per se stessa causa di disfunzione renale. Posto, infatti, 1 il rischio di dialisi per soggetti con Indice di Massa Corporea (BMI) tra 18.5 e 24.9 Kg/m2, tale rischio aumenta a 1.87 per soggetti con BMI tra 25 e 29.9 Kg/m2, 3.57 per soggetti con BMI tra 30 e 34.9 Kg/m2, 6.12 per soggetti con BMI tra 35 e 39.9 Kg/m2 e 7.07 per soggetti con BMI > 40 Kg/m2. Il rischio permane elevato anche aggiustandolo per i vari fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete, dislipidemia, sedentarietà, fumo etc..) (Fig 3). La lesione istologica renale che si reperta nei pazienti con nefropatia da obesità è la glomerulosclerosi focale e segmentaria. Terapia della disfunzione renale Sino a due decenni fa si riteneva che la disfunzione renale fosse un patologia lentamente progressiva che inesorabilmente conduceva alla morte renale ed alla dialisi. Questo poteva essere vero per le patologie strettamente nefrologiche, tuttavia il cambiamento dell’epidemiologia delle patologie renali a cui si è assistito e in particolare il fatto che la disfunzione renale è in realtà divenuta anche un problema di ordine cardiovascolare ha aperto nuovi scenari. E’ fuori discussione che il controllo farmacologico dei fattori di rischio cardiovascolare rallenti la progressione della disfunzione renale, oltre che quella del danno cardiovascolare. Tale approccio deve essere intensivo e multifattoriale in quanto deve intervenire su tutti i fattori di rischio cardiovascolare. Lo studio STENO (6) è stato condotto su due braccia di diabetici: un braccio in terapia convenzionale e uno in terapia intensiva. Nel braccio in terapia intensiva si
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sono ottenuti target pressori di 132/73 mmHg (vs146/78 mmHg in terapia convenzionale), livelli di HbA1c del 7.8% (vs 9% in terapia convenzionale), colesterolo LDL di 81 mg/dl (vs 118 mg/dl in terapia convenzionale), uso di ASA e statine dell’86% (vs il 45% in terapia convenzionale) ed un 97% di prevalenza di uso di ACE inibitori e sartani (vs il 70% in terapia convenzionale). Nel braccio di pazienti in terapia intensiva si è osservata una riduzione di incidenza di eventi cardiovascolari del 18%, ma anche una riduzione di incidenza di nefropatia conclamata del 25%. Non vi è, quindi, dubbio che un approccio farmacologico integrato con statine, ACE inibitori, Sartani, antiaggreganti ed un più stretto controllo glicometabolico rappresentino i cardini della nefroprotezione. Tuttavia non bisogna dimenticare che se l’obesità è associata alla disfunzione renale anche il controllo del peso corporeo rappresenta un pilastro in termini di nefroprotezione. La metaanalisi di Farsad et al. (7) prende in considerazione 13 studi con 522 pazienti (4 studi randomizzati caso - controllo, 1 non randomizzato e 8 studi osservazionali prospettici). Nonostante le eterogeneicità di tali studi (n° di pazienti da 8 a 94, durata dello studio da 4 a 104 settimane, differenti target pressori, differenti BMI di partenza, differenti terapie farmacologiche) l’autore ha evidenziato come tutti i tipi di intervento sul peso corporeo avessero un effetto positivo sulla progressione del danno renale. La chirurgia bariatrica si è dimostrata in grado di ridurre del 92% (IC 35 - 149%) i livelli di albuminuria e l’approccio farmacologico all’obesità del 28% (IC 24 - 34%). Tuttavia il dato più importante è quello inerente l’approccio sullo stile di vita, ove la dieta ha ridotto del 55% (IC
23 - 87%) i livelli di microalbuminuria, del 58% (IC 41 76%) i livelli di microalbuminuria e l’esercizio fisico del 49% (IC 5 - 100%) i livelli di albuminuria (Fig 4). L’analisi statistica multivariata ha infine evidenziato come per ogni Kg di peso corporeo perso si abbia una riduzione di 110 mg di proteinuria, indipendentemente dall’uso o meno di ACE inibitori e 1.1 mg di microalbuminuria, indipendentemente dal declino della pressione arteriosa.
Bibliografia 1) Collins AJ, Vassalotti JA, Wang C, et al. Who should be targeted for CKD screening? Impact of diabetes, hyperten sion, and cardiovascular disease. Am J Kidney Dis 2009;53:S71-7 2) Go AS, Chertow GM, Fan D, et al. Chronic kidney disease and the risks of death, cardiovascular events, and hospitalization. N Engl J Med 2004;351:1296-305 3) Sarnak MJ, Levey AS.Cardiovascular disease and chronic renal disease: a new paradigm. Am J Kidney Dis 2000;35:S117-31 4) Hoehner CM, Greenlund KJ, Rith-Najarian S, et al.
5) 7)
Conclusioni L’approccio alla disfunzione renale è sicuramente un problema complesso in quanto richiede un intervento integrato e multidisciplinare coinvolgente il fronte ipertensivologico, quello delle dislipidemia e quello diabetologico. Il nefrologo non ha più, quindi, il compito di occuparsi di insufficienza renale solo quando il paziente arriva in dialisi, ma si trova a dovere fare opera di prevenzione primaria e secondaria negli stadi più precoci della disfunzione renale, in cui non basta più a se stesso, ma deve acquisire competenze in ambito cardiovascolare e diabetologico interfacciandosi con le specifiche specialità. Deve, pertanto, lavorare in team con diabetologi e cardiologi. Inoltre, la gestione del paziente con disfunzione renale sta diventando sempre più complessa in quanto è sempre più evidente che la malattia renale può trarre beneficio dalla modifica di certi stili di vita come l’alimentazione e l’attività fisica. E’, quindi, chiaro come sia importante che il nefrologo abbia anche competenze in ambito dietologico e come sia di vitale importanza un’interazione con dietologi e dietisti e che prima ancora di trattare farmacologicamente il paziente è mandatario “educarlo”.
Association of the insulin resistance syndrome and microalbuminuria among nondiabetic native Americans. The Inter-Tribal Heart Project. J Am Soc Nephrol 2002;13:1626-34 Hsu CY, McCulloch CE, Iribarren C, et al. Body mass index and risk for end-stage renal disease. Ann Intern Med 2006;144:21-8Gaede P, Vedel P, Larsen N, et al. Multifactorial intervention and cardiovascular disease in patients with type 2 diabetes. N Engl J Med 2003;348:383-93 Afshinnia F, Wilt TJ, Duval S, et al. Weight loss and proteinuria: systematic review of clinical trials and comparative cohorts. Nephrol DialTransplant 2010;25:1173-83
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Ivano Baragetti, Laura Buzzi, Veronica Terraneo, Cristina Sarcina, Cecilia Biazzi, Claudio Pozzi
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 5
Fig. 3
Il Bassini - Volume XXX - Gennaio-Giugno 2010
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LAVORO ORIGINALE
DIABETE: LA”SFIDA” DEL TERZO MILLENNIO E LA NECESSITÀ DI UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE Felice Paleari, Paolo Mingazzini e il “Gruppo Inter-disciplinare sul piede diabetico” Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza - Università degli Studi di Milano – Bicocca GOI “piede diabetico”: F. Paleari, P. Mingazzini, G. Annoni, D. Bonaiuti, C. Conti, R. Corso, M. Del Bene, M. Gardinali, D. Leni, G. Minciotti, A. Sampaolo, A. Stella, V. Villa Riassunto La malattia diabetica è in progressiva crescita a livello mondiale in relazione all’incremento dell’obesità, della sedentarietà e dell’aumentata aspettativa di vita. Essa rappresenta una malattia cronica complessa destinata a diventare un problema sempre più gravoso, sia sanitario che sociale, a causa della sua diffusione e della complessità delle cure che comportano altissimi costi sia in termini economici che di consumo di risorse. La complessità delle cure e di conseguenza i costi crescono con l’insorgere delle complicanze d’organo, legate sia al progredire della malattia diabetica che ad uno scarso controllo metabolico. E’ stato ampiamente dimostrato che una diagnosi precoce ed un trattamento precoce ed aggressivo possono prevenire e ritardare l’insorgenza dei danni d’organo. Solo l’intervento multidisciplinare che coinvolga la medicina territoriale e quella specialistica ospedaliera permetterà di affrontare la sfida rappresentata dal diabete. Grazie ad una maggiore attenzione al “problema diabete” da parte dei medici di medicina generale sarà possibile identificare i soggetti a rischio nella popolazione generale; il supporto degli specialisti delle strutture diabetologiche di riferimento aiuterà a formulare una diagnosi il più corretta possibile ed instaurare una terapia personalizzata e finalizzata ad ottenere il miglior controllo metabolico possibile; infine, l’intervento diagnostico terapeutico multidisciplinare e multispecialistico, mirato alle numerose co-patologie ed alle gravi complicanze della malattia diabetica, potrà prevenire e rallentare la loro evoluzione e contenerne i danni. Abstract Diabetes: the “challenge” of third millennium and the necessity of a multidisciplinar approch Diabetic disease is progressively increasing world-wide with the growing prevalence of obesity, sedentary activities and a longer expectancy of life. Diabetes is a complex chronic disease, becoming a more and more serious problem for Health and Social Care due to its diffusion, and to the complex treatments which are needed, with high costs, both in terms of economics and resources consuming. Moreover therapeutic needs and related costs grow with
arising of complications of the disease related to different organs and progressively increasing with the duration of diabetes and poor metabolic control. Early diagnosis and aggressive treatment have been confirmed able in preventing and delaying target organ complications. Only a multi-disciplinary team linking General Practitioners and Specialized Physicians outside and inside Hospital can oppose to the worsening challenge of Diabetes. Thank to a careful attention to the “diabetic problem” by General Practitioners, subjects “at risk” can be identified in general population, and referred to Diabetologists in Outpatients Centres, where a correct diagnosis and individual therapy is promptly started in order to obtain a good metabolic control. A Poli-Specialistic Hospital Team is also necessary in order to treat associated complex pathologies and serious complications of diabetic disease, preventing and delaying a worse evolution and reducing the more harmful consequences. Parole chiave: Diabete, Complicanze d’organo nel Diabete, Linee Guida nel Diabete. Key Words: Diabetes, Multi-Organ diabetic complications, Guidelines for Diabetes’ management Introduzione ed epidemiologia Il diabete mellito è una malattia cronica complessa e assai rilevante, la cui prevalenza nella popolazione generale, dagli studi epidemiologici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è attualmente intorno al 5-10%, ma è destinata ad aumentare nei prossimi anni. In Italia la prevalenza del diabete mellito noto è di circa il 6% che equivale a circa 3.500.000 soggetti diabetici; a questi si deve aggiungere un altro milione di soggetti sicuramente diabetici, ma che non hanno ancora ottenuto la diagnosi. Nella ASL Monza e Brianza il numero di diabetici noti ed assistiti dal servizio sanitario è di circa 35.000 secondo una stima del 2008 (ultima disponibile ad oggi) con una prevalenza apparentemente inferiore rispetto a quella nazionale in base alla quale nel territorio brianzolo dovrebbero risiedere circa
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Felice Paleari, Paolo Mingazzini e il “Gruppo Inter-disciplinare sul piede diabetico”
48.000 diabetici. La malattia diabetica è in progressiva crescita a livello mondiale in relazione all’incremento dell’obesità, della sedentarietà e dell’aumentata aspettativa di vita; infatti, la prevalenza del diabete cresce parallelamente al diffondersi dell’obesità ed è stato coniato il termine “diabesità” per sottolineare il legame tra le due patologie, essendo ormai accettato che l’obesità rappresenta una vera e propria malattia. A ciò è dovuto il progressivo aumento del numero di diabetici di tipo 2 nell’infanzia e nell’adolescenza, ove la forma di diabete più diffusa era rappresentata in passato dal diabete tipo 1. La correlazione con l’invecchiamento è altrettanto stretta e la prevalenza del diabete nella cosiddetta terza e quarta età raddoppia e triplica nei grandi vecchi. Controllo metabolico e complicanze Oltre che per la sua elevata prevalenza, il diabete rappresenta una “emergenza sanitaria” per la sua caratteristica di malattia cronica evolutiva destinata ad associarsi a complicanze sia acute che croniche in grado di peggiorarne decorso e prognosi. Dagli anni 90 è stata più volte sottolineata l’importanza del controllo glicemico dimostrando una correlazione diretta tra valori di emoglobina glicata (HbA1c) e complicanze d’organo micro-vascolari, mentre la correlazione con i danni macro-vascolari risultava meno stringente (DCCT, UKPDS). Da questo nasce l’idea di fissare obiettivi glicemici molto rigorosi ed attuare terapie molto aggressive con farmaci in grado di raggiungere e mantenere nel tempo le migliori glicemie possibili. Nel corso degli ultimi 2 anni gli entusiasmi sono stati raffreddati dalla pubblicazione di alcuni studi che hanno dimostrato che esiste una memoria glicemica (“legacy”) che condiziona l’evoluzione successiva della malattia. Infatti, sia lo studio EDIC per il diabete mellito 1, sia il follow-up venticinquennale dello studio UKPDS per il diabete di tipo 2 hanno dimostrato che i soggetti trattati intensivamente fin dall’esordio della malattia hanno una prognosi più favorevole in termini di comparsa di danni d’organo rispetto a chi ha avuto un trattamento meno intensivo, anche se nel corso degli anni successivi la differenza nel controllo metabolico, come valori di HbA1c raggiunta, tende ad annullarsi. Si può affermare che il danno dell’iperglicemia, una volta instaurato, non è completamente reversibile e, pertanto, il trattamento intensivo in soggetti con malattia di lunga durata, precedenti cardiovascolari e segni di scompenso cronico, può essere inutile o addirittura dannoso come emerge dai risultati degli studi ACCORD, ADVANCE, VADT. L’approccio corretto quindi non è raggiungere il minor valore di HbA1c sempre e comunque, ma diagnosticare precocemente il diabete ed intraprendere una terapia efficace fin dall’esordio della malattia raggiungendo rapidamente
e mantenendo nel tempo gli obiettivi glicemici giudicati protettivi, come quelli proposti dagli Standard Italiani per la cura del Diabete Mellito 2009-2010 (vedi tabella). Obiettivi glicemici in diabetici adulti di tipo 1 e 2 HbA1c < 7,0%* (< 6,5% in singoli pazienti) Glicemia a digiuno e pre-prandiale 70-130 mg/dl Glicemia post-prandiale < 180 mg/dl§# * Facendo riferimento ai valori di 4,0-6,0% della popolazione non diabetica, con il metodo utilizzato dal DCCT. § La misurazione della glicemia post-prandiale deve essere effettuata 2 ore dopo l’inizio del pasto. # Valori post-prandiali < 140 mg/dl sono perseguibili nel diabete tipo 2 (IDF 2007). - Obiettivi glicemici più stringenti (HbA1c ≤ 6,5%) dovrebbero essere perseguiti in pazienti di nuova diagnosi o con diabete di durata < 10 anni, senza precedenti di CVD abitualmente in discreto compenso glicemico e senza comorbilità che li rendano particolarmente fragili. (Livello della prova III, Forza della raccomandazione A) - Obiettivi di compenso glicemico meno stringenti (HbA1c 7-8%) dovrebbero essere perseguiti in pazienti con diabete di lunga durata > 10 anni soprattutto con precedenti di CVD o una lunga storia di inadeguato compenso glicemico o fragili per età e/o comorbilità. L’approccio terapeutico deve essere tale da prevenire le ipoglicemie. (Livello della prova VI, Forza della raccomandazione B) La realtà quotidiana Se è stato ampiamente dimostrato che una diagnosi precoce ed un trattamento aggressivo fin dalle prime fasi di malattia possono prevenire e ritardare l’insorgenza dei danni d’organo nella realtà è stato calcolato che l’intervallo tra la comparsa del diabete e la diagnosi clinica è di 7-8 anni. A questo si deve aggiungere che, secondo stime dell’AMD (Associazione Medici Diabetologi Italiani) pubblicate negli Annali 2009, passano in media altri 7 anni prima che un diabetico giunga alla prima valutazione specialistica. Un tempo troppo lungo di “non diagnosi” e spesso di “trattamento insufficiente” in grado di determinare negativamente l’evoluzione della malattia. Sempre secondo i dati AMD 2009 il valore medio di HbA1c della popolazione che giunge per la prima valutazione specialistica diabetologica è 7.4%, che rappresenta un valore lontano dall’obiettivo terapeutico fissato dalle Linee Guida (<7%), pur non documentando uno stato di cronico scompenso. Ma, ricordando la “legacy glicemica”, i primi anni di malattia sono cruciali per ridurre il rischio di sviluppare danni
Diabete: la”sfida” del terzo millennio e la necessità di un approccio multidisciplinare d’organo non più reversibili con il raggiungimento di controlli metabolici migliori. Un altro dato sconcertante che si può dedurre dagli Annali AMD 2008 è che l’obiettivo per la HbA1c viene raggiunto solo nel 29,8% dei diabetici di tipo 1 e nel 48,2% dei tipo 2. Nella stessa pubblicazione viene riportato che una valutazione del profilo lipidico è eseguita solo in circa il 71% dei soggetti, che la pressione arteriosa è valutata solo nel 75%, che la nefropatia è monitorata solo in circa il 50% e che il piede viene valutato solo nel 30% dei soggetti a rischio. Inoltre, gli obiettivi terapeutici per il colesterolo LDL vengono raggiunti nel 38,4% dei diabetici tipo 1 e nel 39,7% dei tipo 2, e quelli per la pressione arteriosa nel 64,3% dei tipo 1 e nel 38,7% dei tipo 2. Tutto ciò dimostra che si è ben lontano dal raggiungimento degli obiettivi terapeutici, sia glicemici che non, in una larga fascia di diabetici, e che un altrettanto grande numero di essi non viene valutato adeguatamente per i fattori di rischio cardiovascolare e per lo screening delle complicanze. Le cause dei livelli di cura inadeguati possono essere molteplici e negli ultimi anni sono nate iniziative differenti sia a livello nazionale, che locale con l’obiettivo di armonizzare gli interventi per l’assistenza diabetologica fra Medicina Generale e Servizi Specialistici, attraverso anche l’applicazione di linee-guida organizzative mirate, basate sulle prove e condivise. Tuttavia una corretta gestione di una malattia cronica come il diabete non può prescindere dal coinvolgimento diretto del paziente stesso attraverso un’attività educativa della persona con diabete, finalizzata all’acquisizione delle nozioni necessarie all’autogestione della malattia, alla prevenzione ed al trattamento delle complicanze della malattia, qualora presenti. L’efficacia dell’insieme di tutti questi interventi nel migliorare gli esiti della malattia è sostenuta da numerose evidenze scientifiche. L’esperienza locale Il “piede diabetico” (inteso come l’insieme di alterazioni anatomo-funzionali determinate dall’arteriopatia occlusiva periferica e/o dalla neuropatia diabetica cui si associano fenomeni infettivo-infiammatori e/o ulcerazioni di vario grado fino alla distruzione dei tessuti profondi) è la manifestazione di una malattia sistemica grave ed avanzata con interessamento di più “organi bersaglio”, che può portare a serie complicanze, con rischio elevato di amputazione ed alta mortalità correlate. Esso richiede cure lunghe e costose, degenze ospedaliere prolungate, frequenti e ripetuti ricoveri, l’intervento di numerose figure professionali per la sua gestione: quindi rappresenta una condizione esemplare di intervento pluridisciplinare. Perciò è stato costituito all’interno dell’Ospedale San Gerardo un gruppo di lavoro multidisciplinare comprendente: Direttore Sanitario, Diabetologo, Chirurgo Vascolare,
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Radiologo Interventista, Geriatra, Nefrologo, Chirurgo Ortopedico, Chirurgo Plastico, Chirurgo Generale, al fine di concordare, a livello dell’Azienda Ospedaliera gli interventi di tipo preventivo, diagnostico e terapeutico per il “piede diabetico”, onde ottimizzare il trattamento polispecialistico condiviso di questa patologia, ridurne le gravi complicanze e la mortalità ed ottenere un miglioramento nella qualità di vita dei pazienti, con contenimento dei costi aziendali e sociali. Indicazioni e Trattamento dell’Arteriopatia Diabetica Proprio sulle pagine di questa rivista, in un articolo precedente, abbiamo dettagliato questa situazione patologica: il “piede diabetico”, che riconosce una serie di cause, che ne rendono difficile la diagnostica ed il trattamento. Prime tra queste la Neuropatia e l’Arteriopatia diabetiche. La neuropatia autonomica toglie la secrezione sebacea emolliente e protettiva per la cute; la neuropatia motoria porta ad ipotrofia muscolare e deformità del piede, con cavismo, dita a martello e zone di aumentata pressione plantare. La neuropatia sensitiva toglie gran parte della sensibilità dolorosa ai piedi di questi pazienti, che non si rendono conto dei danni indotti dai ripetuti traumi. L’Arteriopatia Arteriosclerotica è poi particolarmente accelerata e “maligna” nei diabetici, specie nei vasi periferici, determinando quale conseguenza un cattivo trofismo delle estremità e vari gradi di ischemia cronica. La scarsa difesa dalle infezioni e l’iperglicemia stessa offrono facile impianto alla sovrapposizione batterica, che si manifesta ad ogni minima soluzione di continuo dei tegumenti (ulcera diabetica). E’ dunque ai segni iniziali di arteriopatia, quali pallore e cianosi, ipotermia, scomparsa dei polsi periferici che vanno subito poste in atto le misure diagnostiche, come esame doppler con calcolo dell’indice pressorio caviglia/braccio, ecocolordoppler arterioso e rilevazione dell’ossimetria transcutanea. La diagnosi di arteriopatia diabetica richiede ulteriori accertamenti, generalmente con AngioTC od AngioRM, per definirne il grado d’avanzamento e le indicazioni terapeutiche. E’ chiaro che ove esista una grave riduzione dell’apporto arterioso, anche la correzione della glicemia circadiana, la terapia antibatterica mirata, la prevenzione dei traumi con calzature ortesiche ed il trattamento topico delle ulcerazioni con medicazioni avanzate sono destinate al fallimento, se non viene attuata nel contempo una rivascolarizzazione dell’estremità. Naturalmente non deve essere trascurata la polidistrettualità della macroangiopatia diabetica ed il fatto che il “piede diabetico vascolare” può essere spesso un utilissimo marker di una coronaropatia o di una cerebrovasculopatia asintomatiche, ignorare le quali può essere causa di mortalità per i gravi eventi ischemici secondari.
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Felice Paleari, Paolo Mingazzini e il “Gruppo Inter-disciplinare sul piede diabetico” Fig.1 Arteriopatia Diabetica con lesioni trofiche al piede; Angioplastica Percutanea con successo clinico. a): stenosi focale serrata dell’arteria poplitea iuxta-articolare e stenosi ai primi cm della tibiale anteriore. b): stenosi arteria tibiale anteriore, occlusa al 1/3 medio. c): pervietà della sola tibiale posteriore distale, con insufficiente compenso al piede.
a)
b)
c)
Fig.2 Dopo Angioplastica con palloncino 4 mm su poplitea e 2,5 mm su tibiali, a): risolte le stenosi poplitea e tibiale anteriore all’origine, con aumento globale nei tre vasi di gamba. b): ripristino di buon flusso sulla tibiale anteriore alla gamba c): rivascolarizzazione della pedidia e compenso sufficiente al piede.
a)
b)
c)
Diabete: la”sfida” del terzo millennio e la necessità di un approccio multidisciplinare Gli interventi di bypass periferico femoro/popliteo/tibiale per la rivascolarizzazione degli arti inferiori hanno una pervietà a distanza che è ostacolata nei diabetici dalla diffusione della malattia, in particolare nei vasi periferici, inoltre dalla maggior tendenza a sviluppare restenosi nel tempo, specie nei siti anastomotici, con trombosi del pontaggio. Le complicanze peri-operatorie in questi pazienti sono molto frequenti per cardio e nefropatia associate e per la maggior suscettibilità alle infezioni. L’indicazione alla rivascolarizzazione chirurgica va quindi attentamente valutata in funzione del “run off” (accoglimento del flusso dal letto vascolare distale) e della continuità vascolare con l’arcata plantare. I trattamenti endovascolari attraverso dilatazione angioplastica, anche mediante cateterismo arterioso percutaneo in sala radiologica, hanno minor impatto per morbilità e mortalità, essi attualmente rivestono quindi un ruolo preponderante nella cura dell’arteriopatia diabetica. E’ necessario però che ogni caso clinico sia attentamente studiato e valutato, per attuare il trattamento terapeutico che offra il miglior risultato per il singolo paziente: questo è il compito del gruppo di lavoro interdisciplinare che è stato istituito al San Gerardo (vedi Figure). Conclusioni Il diabete rappresenta una malattia cronica complessa destinata a diventare un problema sempre più gravoso sia
Bibliografia 1) Associazione Medici Diabetologi (AMD) – Società Italiana di Diabetologia (SID). Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito – 2009-2010, Ed. Infomedica 2010 2) Associazione Medici Diabetologi. Annali AMD 2009: analisi prospettica degli indicatori di qualità dell’as sistenza del diabete in Italia (2004-2007), Ed. AMD 2009 3) Associazione Medici Diabetologi. Annali AMD 2008: analisi prospettica degli indicatori di qualità dell’as sistenza del diabete in Italia (2004-2007), Ed. AMD 2008 4) The Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) Research Group. The effect of intensive treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications in insulin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 1993;329:977-986 5) UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group. Intensive bloodglucose control with sulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk of complications in pa tients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 1998;352:837-853 6) UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group. Effect of intensive blood-glucose control with metformin on complications in overweight patients with type 2 diabetes (UKPDS 34). Lancet 1998;352:854-865 7) Stratton IM, Adler AI, Neil HA, et al. Association of glycaemia with macrovascular and microvascular complications of type 2 diabetes (UKPDS 35): prospective observational study. BMJ 2000;321:405-412 8) Nathan DM, Cleary PA, Backlund JY, et al. Diabetes Control and Complications Trial/Epidemiology of Diabetes
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sanitario che sociale a causa della sua diffusione e della complessità delle cure che comportano altissimi costi sia in termini economici, che di consumo di risorse. La complessità delle cure e di conseguenza i costi crescono con l’insorgere delle complicanze d’organo, legate sia al progredire della malattia diabetica, che ad uno scarso controllo metabolico. E’ stato ampiamente dimostrato che una diagnosi precoce ed un trattamento precoce ed aggressivo possono prevenire e ritardare l’insorgenza dei danni d’organo. Solo l’intervento multidisciplinare che coinvolga la medicina territoriale e quella specialistica ospedaliera permetterà di affrontare la sfida rappresentata dal diabete. Grazie ad una maggiore attenzione al “problema diabete” da parte dei medici di medicina generale sarà possibile identificare i soggetti a rischio nella popolazione; il supporto degli specialisti delle strutture diabetologhe di riferimento aiuterà a formulare una diagnosi il più corretta possibile ed instaurare una terapia personalizzata e finalizzata ad ottenere il miglior controllo metabolico possibile; infine, l’intervento diagnostico terapeutico multidisciplinare e multispecialistico, mirato alle numerose co-patologie ed alle gravi complicanze della malattia diabetica potrà prevenire e rallentare la loro evoluzione e contenerne i danni. La costituzione di un gruppo di lavoro interdisciplinare per la gestione del piede diabetico è una prima risposta dell’Azienda Ospedale San Gerardo alle necessità di assistenza diabetologica nella provincia di Monza e Brianza.
Interventions and Complications (DCCT/EDIC) Study Research Group. Intensive diabetes treatment and cardiovascular disease in patients with type 1 diabetes. N Engl J Med 2005;353:2643-2653 9) Holman RR, Paul SK, Bethel MA, Matthews DR, Neil HA. 10-year follow-up of intensive glucose control in type 2 diabetes. N Engl J Med 2008;359:1577-1589. 10) The Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Study Group. Effects of Intensive Glucose Lowering in Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2008;358:2545-2559 11) The ADVANCE Collaborative Group. Intensive Blood Glucose Control and Vascular Outcomes in Patients with Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2008;358:2560-2572 12) Duckworth W, Abraira C, Moritz T, et al.; the VADT Investigators. Glucose Control and Vascular Complications in Veterans with Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2009;360 (10.1056/NEJMoa0808431) 13) Mingazzini P, Paleari F, Annoni G, et al. Il Trattamento del “ Piede Diabetico”. Il Bassini 2009; 29(1): 32-35. 14) De Feo ME, Manicardi V, Romagnoli F, et al. Lower extremity amputations in diabetic patients: comparison of regional experiences within Italy. Diabetes Nutr Metab 2003; 16(3): 194-196 15) International Diabetes Federation. Time to act: diabetes and foot care. International Diabetes Federation Ed; Brussels 2005 16) Jeffcoate WJ, Bakker K. World Diabetes Day: footing the bill. Lancet 2005;365:1527 17) Bus S, Yang QX, Wang JH. Intrinsic muscle atrophy and toe deformity in the diabetic neuropatic foot. Diabetes Care 2002;25:1444-1450
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Il Bassini - Volume XXX - Gennaio-Giugno 2010
LAVORO ORIGINALE
FOTODINAMICA NEI TUMORI DELLA VESCICA Guido Raffaele Strada– Luigi Barana U.O. Urologia – H Bassini, Azienda Ospedaliera ICP – Cinisello Balsamo (MI) Riassunto Il carcinoma uroteliale non invasivo della vescica, nel quale sono comprese le forme Ta T1 e in situ (CIS), costituisce, per la sanità pubblica, un impegno economico importante dovuto alle frequenti recidive e alla necessità di mantenere il follow-up per tutta la vita del paziente. La storia naturale ovvero la prognosi di questa patologia ed il trattamento necessario variano considerevolmente da paziente a paziente secondo le caratteristiche cliniche ed istologiche della neoplasia. Sono stati identificati fattori prognostici relativi sia al rischio di recidiva: la quantità di recidive, il numero delle localizzazioni neoplastiche e la dimensione della singola neoplasia; sia al rischio di progressione della malattia: la categoria T, il grado e la presenza di CIS. L’identificazione dei fattori prognostici e del rischio di recidiva o di progressione è il prerequisito fondamentale per definire programmi di trattamento e di follow-up più appropriati per il singolo paziente. L’endoscopia a luce bianca (WL) è considerata il gold-standard per la resezione delle neoplasie vescicali. Recenti studi dimostrano peraltro come l’endoscopia a fluorescenza indotta dall’acido 5-aminolevulinico (5-ALA) migliori la visualizzazione del tumore vescicale superficiale, e come di conseguenza la diagnostica fotodinamica (PDD) possa migliorare le capacità diagnostiche. Abstract Noninvasive urothelial carcinoma of the bladder, which
Introduzione Il tumore della vescica risulta di frequente riscontro in Urologia: è al quarto posto fra le neoplasie più frequenti nell’uomo ed al quinto posto in quelle della donna. L’aumento della vita media e l’inquinamento ambientale ne hanno aumentato l’incidenza. Viceversa, per il miglioramento della diagnosi, più tempestiva e dettagliata, e per il trattamento terapeutico sempre più precoce il tasso di mortalità è in riduzione.
encompasses patients with stage Ta T1 tumors and patients with carcinoma in situ (CIS), causes an enormous economic burden to public health systems due to its life-long character and frequent recurrences. The natural history or treatment-related prognosis of these patients varies considerably from one patient to the next based on the patient’s clinical and the tumor’s pathological characteristics. Based on a review of the literature, the most important prognostic factors for recurrence are the prior recurrence rate, number of tumors, and tumor size; whereas for progression, the most important prognostic factors are the T category, grade, and presence of CIS. Assessment of a patient’s prognostic factors and his or her risk of recurrence and progression is a prerequisite for determining the most appropriate treatment and frequency of follow-up for a given patient. While white light (WL) cystoscopy is considered to be the gold standard for transurethral resection of the bladder, several studies have shown that 5-aminolevulinic acid (5-ALA)-induced fluorescence cystoscopy improves the detection of superficial bladder cancer, so that photodynamic diagnostic (PDD) has been shown to improve diagnostic activity. Parole chiave: tumore superficiale della vescica, diagnostica fotodinamica, acido 5-aminolevulinico Key-Words: superficial bladder cancer; photodynamic diagnostic; 5-aminolevulinic acid (5-ALA)-
L’incidenza in Italia è di 14.000 nuovi casi diagnosticati all’anno nel sesso maschile e di 3.000 nelle donne, con un rapporto di 3:1. Il comportamento biologico dei tumori non muscolo-invasivi, è oggetto di numerose ricerche; la sua variabilità nella crescita, nella possibilità di recidivare, il rischio di progressione verso un tumore infiltrante la muscolare, costituiscono altrettanti interrogativi ai quali il clinico spesso non sa dare risposte (2).
Fotodinamica nei tumori della vescica L’asportazione endoscopica della neoplasia (TURV) costituisce il momento fondamentale per l’inquadramento diagnostico-terapeutico della malattia. L’accuratezza nell’esecuzione della metodica è fondamentale. E’ altresì fondamentale l’eventuale ripetizione della procedura, entro 4-6 settimane, quando non sia presente nel prelievo della base d’impianto della neoplasia la tonaca muscolare, o quando il tumore è voluminoso a larga base d’impianto e/o ad alto rischio (Guidelines 2009 EAU). In letteratura sono numerose le citazioni sui limiti della resezione endoscopica della neoplasia: • Persistenza e/o evoluzione della neoformazione per incompleta resezione (10-20% dei casi) • Presenza di nuova neoformazione asincrona (60%) • Possibilità di impianto di cellule neoplastiche esfoliate (10-15%) • C I S (lesione piana, spesso non visibile all’esame endoscopico standard (10%) Pertanto è molto sentita l’esigenza di aumentare la possibilità di evidenziare i tessuti neoplastici non sempre francamente visibili con la metodica endoscopica standard. In letteratura sono state citate da circa 10 anni alcune sostanze fotosensibilizzanti utilizzate per creare un contrasto cromatico tra il tessuto sano e quello neoplastico. Fra queste l’acido 5 aminolevulinico (5 ALA), precursore della protoporfirina IX (PP-IX) è stato utilizzato direttamente in vescica allo scopo di ottenere una buona fluorescenza del tessuto neoplastico rispetto a quello sano, attraverso illuminazione della mucosa vescicale con luce blu. Il 5 ALA, sostanza naturale presente in tutte le cellule del nostro organismo, deriva dal Succinil-CoA e dalla glicina. 2 molecole di ALA portano alla formazione di protoporfirina (PPIX) convertita in EME dell’enzima ferrochelatasi inserendo una molecola di Fe. L’enzima ferrochelatasi ha un’attività ridotta a livello endocellulare, pertanto si realizza un maggior accumulo nella cellula di PP-IX. Ciò rende la cellula neoplastica caratteristicamente fluorescente se viene stimolata da una luce con lunghezza d’onda di 375-400 mm, di colore blu. Attualmente l’unica molecola in commercio con tali caratteristiche è l’esaminolevulinato (Hexvix®), estere del 5 ALA che presenta maggior fluorescenza con necessità di permanenza endocavitaria ridotto di circa 1 ora. La metodica fotodinamica nei tumori non muscolo invasivi particolarmente minuti, piatti e scarsamente visibili (come
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il Ca in situ) con le metodiche endoscopiche standard, consente di aumentare significativamente la radicalità chirurgica, con conseguente riduzione del tasso di recidive. Il trattamento endoscopico, condotto con l’ausilio di questa metodica, consente di eseguire resezioni complete anche dei margini chirurgici sospetti di interessamento neoplastico. Pertanto viene progressivamente ridimensionata la validità del “mapping vescicale random” con rischio di prelievi falsi negativi, legati ai limiti della metodica stessa (prelievo in punti vescicali standardizzati) e per l’esiguità del materiale bioptico prelevato rispetto alla superficie della vescica. La biopsia guidata dalla fotodinamica consente biopsie precise, mirate nel tessuto sospetto e quindi più accurate. Infine, nei casi in cui la cistoscopia sia negativa con CTM urinario positivo, è possibile eseguire diagnosi differenziale di origine della neoplasia fra vescica ed alto apparato urinario. Il 5 ALA è dotato di alta sensibilità (93-97% a secondo degli AA) e buona specificità 43-65%) (2). Il tasso di tumore residuo va dal 4,5 al 32,7 % con l’utilizzo di PDD rispetto a WLE (dal 15,2 al 53,2%) (2). La sopravvivenza libera da malattia recidiva con PDD va dal 71% ad 8 anni fino all’ 88% a 2 anni, mentre con WLE va dal 45% ad 8 anni fino al 73% a 2 anni. (3)
Casistica Tra set ’08 e feb ’10 sono state eseguite 24 cistoscopie dopo instillazione in vescica di Hexvix almeno 1 ora prima della procedura. Il riassunto globale in tabella 1. I controlli endoscopici sono stati eseguiti da due operatori così da valutare in maniera uniforme la presenza di aree sospette a luce blu. In presenza di sospette recidive macroscopicamente evidenti si è proceduto ad analizzare con luce blu anche la restante parete vescicale. L’età media dei pazienti, 23 uomini e 1 donna, è stata di 72,72 anni (38 – 85). Sono stati sottoposti alla procedura pz con storia di recente TCC vescicale superficiale o in situ. Solo 2/24 pz non hanno presentato questa caratteristica ma per il rilievo di ricerca CTM dubbia, eseguita per ematuria macroscopica. In nessuno dei due casi si è diagnosticato un TCC vescicale bensì 1 cistite cronica e 1 displasia.
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Guido Raffaele Strada– Luigi Barana
I riscontri istologici globali sono riassunti in tabella 2. In 7 pazienti è stata visualizzata, durante la cistoscopia, almeno una recidiva. In tre casi non si è valutato l’eventuale positività alla luce blu per l’estensione della neoformazione a muschio. Negli altri 4 casi si è eseguita una resezione anche di aree sospette alla luce blu: due sono risultate po-
sitivi (TCC alto grado). In 3 pazienti si è individuato, durante procedura endoscopica, un sospetto macroscopico confermato dal riscontro a luce blu. In un caso il riscontro istologico è stato di presenza di Cis, in due casi si è rilevata la presenza di TCC vescicale a basso grado.
In 14 casi si è eseguito la resezione sulla scorta del solo sospetto a luce blu. I risultati sono riassunti in tabella 3. Entrambi i pazienti sospetti a luce blu e con istologico Tis sono stati sottoposti a cistectomia. L’istologico del pezzo operatorio è risultato pTis . Nel terzo caso di positività a luce blu e istologico TCC ad alto grado si è preferito mantenere un programma conservativo per l’elevato rischio operatorio. In conclusione dei 17 casi (14 sospetti alla sola luce blu + 3 sospetti anche macroscopicamente), 6 (35,30%) hanno presentato effettivamente riscontri istologico di malignità,
4 (23,5%) hanno presentato riscontri di alterazione istologica non maligna; in un caso, una TURV 6 mesi dopo la valutazione a luce blu ha permesso di diagnosticare un TCC HG pT2a ed il pz è stato sottoposto a cistectomia. Infine 7 (41,2%) non hanno presentato alterazioni se non flogistiche. Conclusioni La nostra casistica, nel frattempo aumentata a 29 casi, è comunque troppo “acerba” per trarre conclusioni statisticamente significative. Inoltre la identificazione delle aree
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sospette a luce blu non è così univoca e la decisione di affidare l’attività a due soli operatori è sicuramente nel senso corretto, almeno fino alla completa acquisizione della metodica. Dai nostri primi dati emerge che l’identificazione di neoplasie vescicali con l’ausilio di luce blu, rappresenta
un valore aggiunto soprattutto nella diagnostica dei tumori superficiali in situ di alto grado non altrimenti identificabili con la semplice luce bianca. Occorre, per ottimizzare i risultati, il completamento di una corretta curva di apprendimento.
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4) 5)
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Il Bassini - Volume XXX - Gennaio-Giugno 2010
LAVORO ORIGINALE
STUDIO RANDOMIZZATO E CONTROLLATO SULL’EFFICACIA DEL TRATTAMENTO OSTEOPATICO VERSO TRATTAMENTO USUALE NEL MIGLIORARE LA QUALITA’ DELLA VITA IN PAZIENTI AFFETTI DA OSTEOPOROSI Liria Papa1, Alfonso Mandara1, Michele Bottali1, Stefano Orfei2 International College of Osteopathic Medicine, 2Unità Operativa di Geriatria, Ospedale Bassini (Milano, Italia)
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Riassunto Introduzione: Nella popolazione geriatrica una diminuzione della densità ossea (osteoporosi) è spesso associata ad una diminuzione della qualità della vita (QOL) ed ad un aumento di dolore di natura poli-algica con insorgenza non direttamente riferibile alla patologia in corso[1-7]. Scopo: Scopo di questo studio è verificare l’effetto del trattamento manipolativo osteopatico (OMT) nel ridurre dolore e qualità della vita in pazienti anziani affetti da osteoporosi. Disegno sperimentale: Studio randomizzato e controllato in singolo cieco. Metodi: L’arruolamento dei soggetti è avvenuto presso l’unità operativa di geriatria dell’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo. I pazienti sono stati assegnati dopo randomizzazione al gruppo trattamento osteopatico (GT; n=29) e sottoposti a terapia usuale e a 6 sedute a cadenza settimanale di trattamento osteopatico. Il trattamento osteopatico è stato strutturato nella sua tipologia caso per caso. I pazienti assegnati al gruppo placebo (GP; n=27) sono stati sottoposti a terapia usuale e 6 sedute a cadenza settimanale di trattamento osteopatico placebo. Il dolore è stato mediante una scala VAS, mentre la qualità di vita è stata misurata mediante la somministrazione del questionario QUALEFFO -41. Le variabili numeriche estrapolate sono state analizzate con ANOVA a 2 vie con level α a 0,05. Risultati: Nei pazienti sottoposti a trattamento osteopatico vi è stata una significativa riduzione della disabilità rispetto ai pazienti sottoposti a trattamento placebo. Questo effetto è dimostrato dalla significatività del questionario QULEFFO -41 (p=0.004) e dalla significatività delle sottoscale del questionario inerenti le Funzioni Mentali (p=0.049), la Percezione della Salute (p=0.029) e il Dolore (p=0.007). Non ci sono state differenze significative per quanto riguarda il dolore misurato tramite VAS e per le rimanenti sottoscale del questionario (p>0.05). Discussione: Questo studio dimostra che nel gruppo di soggetti anziani affetti da osteoporosi il trattamento osteopatico è stato in grado di aumentare la qualità di vita, men-
tre sul dolore i dati non sono chiari. Questo aumento complessivo della qualità di vita è legato al miglioramento dei fattori psicologici più che fisici, secondo i dati riscontrati nelle sottoscale del QUALEFFO -41. L’effetto sul dolore è poco chiaro: infatti non si riscontrano differenze significative per la misura VAS, mentre la sottoscala del questionario relativo al dolore mostra un miglioramento significativo. Questo potrebbe essere in relazione alle proprietà metriche dei due metodi di valutazione: la VAS dà una valutazioni più quantitativa mentre la sottoscale del QUALEFFO -41 più qualitativa. Abstract A randomized control trial on the effectiveness of osteopathic manipulative treatment in reducing pain and improving quality of life in elderly patients affected by osteoporosis Introduction: In the elderly population, a decrease in bone mineral density (osteoporosis) in often associated with a decrease in Quality of Life (QOL) and an increase in self reported bodily pain. This pain originates from the musculoskeletal system and potentially can affect different areas of the body. Aim: The aim of this study was to investigate the effect of osteopathic manipulative treatment on self reported pain and quality of life in an elderly population. Design: Randomized placebo controlled trial. Methods: Patients were recruited from the Geriatric Department, Bassini Hospital (Milan, Italy). Patients were randomly assigned to either 6 sessions of osteopathic manipulative treatment (OMT; n = 29) or an equivalent number of sham manipulative treatment sessions (SMT; n = 27). The main outcome variables were QOL measured by QUALEFFO -41 and overall bodily pain measured using a visual analog scale (VAS). Data were analysed using a two factor ANOVA (treatment x time) for repeated measures with an α level set at 0.05. Results: Overall, OMT significantly decreased disability compared to SMT in this study. This effect was demonstrated by a significant interaction in the overall disability
Studio randomizzato e controllato sull’efficacia del trattamento osteopatico verso trattamento usuale nel migliorare la qualita’ della vita in pazienti affetti da osteoporosi score (p =0.004) and the Mental wellbeing (p =0.049), Health perception (p =0.029) and Pain (p =0.007) QUALEFFO -41 subscales. There was no significant difference (no interaction) for pain as measured by VAS and for the Daily activities, Walking, Household cleaning and Leisure time activities QUALEFFO -41 subscales (p > 0.05). No adverse events were recorded during the study. Discussion: This study demonstrated that, in a group of elderly subjects affected by osteoporosis, OMT was able to increase self reported QOL while the effect on bodily pain perception is unclear. This overall improvement in QOL appears to be caused by an improvement in psychological factors (i.e Mental wellbeing and Health perception) rather than physical factors. In fact, all QUALEFFO -41 subscales related to physical function demonstrated no significant interaction. The effect of OMT on Pain perception are less clear. In fact, there was no effect on pain as assessed by VAS while a significant improvement was observed when the QUALEFFO -41 subscale was used. This could be due to the metric properties of the two pain measurement methods; an alternative explanation could be that VAS measures mainly pain quantity while QUALEFFO -41 subscales measures mainly pain quality. The lack of effect of OMT on physical function needs to be confirmed by more direct measures of this variable. Parole chiave: osteoporosi, trattamento osteopatico, qualità della vita, dolore. Key words: osteoporosis, osteopathic treatment, quality of life, pain. Introduzione La definizione della malattia osteoporotica si basa essenzialmente su criteri anatomopatologici che attribuiscono allo scheletro particolari caratteristiche di fragilità tali da rendere l’osso suscettibile di frattura per traumi anche modesti. Già a partire dalla quarta decade di vita si verifica una progressiva perdita della massa ossea ed hanno inizio quei processi di trasformazione dell’osso che possono causare deformazioni dell’architettura ossea stessa ed aumentare la suscettibilità alle fratture(1,2,3,4). Diversi studi hanno dimostrato la relazione esistente tra densità minerale dell’osso (BMD) e peggioramento di alcuni aspetti della qualità della vita(5,6,7,8,9,10,11). Il costo a carico del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) per i farmaci a nota 79(12) utilizzati per l’osteoporosi si aggira sui 5-600 euro all’anno per ogni malato(13-17); se si calcola che l’incidenza dell’osteoporosi negli anziani, in Italia, si aggira attorno al 18% negli uomini ed al 25% nelle donne(24) e che i benefici della nuova Nota 79 si estendono a 1,2 milioni di pazienti(14-17) è facile dedurre che l’incidenza sulla spesa sanitaria dell’osteoporosi sia notevole. A tutto questo va aggiunto il costo sociale per ricoveri ospedalieri in attività lavorativa e per la perdita
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di autonomia che implica impossibilità di svolgere determinate attività senza l’ausilio di altre persone (infermieri, badanti) o di collaborare con famigliari lavoranti (curare i nipoti, rassettare la casa, fare la spesa). Le limitazioni funzionali e il dolore che interessano i soggetti affetti da osteoporosi e che ne inficiano la qualità di vita, portando ai suddetti costi sociali della patologia, sono di pertinenza del sistema muscolo-scheletrico e pertanto possono essere trattate attraverso la terapia osteopatica. Il trattamento osteopatico agisce sul sistema neuro-muscoloscheletrico, in base al principio della relazione esistente tra struttura e funzione, al fine di stimolare il processo di autoregolazione intrinseco dell’organismo (per il raggiungimento di tale obbiettivo verranno effettuate tecniche su qualsiasi distretto corporeo che l’osteopata riterrà essere correlato con il dolore e la limitazione funzionale del paziente). Utilizzando metodologie di trattamento mirate al miglioramento della propriocezione e della postura(18) sarà possibile modificare condizioni predisponesti a complicazioni della malattia quali ad esempio la diminuzione dell’equilibrio e l’aumento del rischio di cadute dovuti all’ipercifosi ed alla riduzione della forza muscolare(19,20,21). L’approccio osteopatico si avvale di un’ampia gamma di tecniche: la presenza di demineralizzazione ossea e il suo grado deve essere tenuta in considerazione durante l’esecuzione del trattamento in quanto costituisce una controindicazione all’applicazione di alcune manovre(22). Al fine di migliorare la mobilità articolare e di migliorare le risposte muscolari in corso di osteoporosi, l’approccio terapeutico osteopatico si avvale di tecniche funzionali(23) e tecniche sui tessuti molli(24) finalizzate ad aumentare la possibilità di accettare più agevolmente i cambi di lunghezza e tensione e quindi a migliorare la capacità delle strutture di adattarsi ai movimenti con plausibile diminuzione del dolore e delle limitazioni funzionali(25) ed aumento dell’autonomia (autosufficienza, indipendenza) dei soggetti. Questo studio è volto alla valutazione dell’utilità del trattamento osteopatico in aggiunta al trattamento usuale nell’approcciare una patologia altamente invalidante quale l’osteoporosi, che comporta notevoli conseguenze “personali” e “sociali” nel tentativo di migliorare la qualità di vita dei pazienti. Soggetti e metodi Design Studio randomizzato e controllato in doppio cieco per gruppi paralleli. La assegnazione al “gruppo trattamento osteopatico” o al “gruppo placebo” è stata effettuata in modo cieco al momento dell’inclusione del paziente nello studio. Soggetti L’arruolamento dei soggetti è avvenuto dopo visita medico-specialistiica presso l’unità operativa di geriatria
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dell’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo. I criteri di inclusione applicati sono stati: età compresa tra 60 e 90 anni, ambo i sessi con presenza di osteopenia o osteoporosi. I criteri di esclusione applicati sono stati: eccessiva demineralizzazione ossea (T score oltre -7), presenza di frattura in atto. Trattamenti I pazienti assegnati al gruppo trattamento osteopatico (GT) sono stati sottoposti a terapia usuale, stabilita a seguito della visita medico-specialistica, e a 6 sedute a cadenza settimanale di trattamento osteopatico. Il trattamento osteopatico, della durata di 30 min, è stato strutturato nella sua tipologia caso per caso, pur rispondendo ai seguenti criteri generali: 1) rispetto del paziente e del suo dolore; 2) esecuzione di un’indagine posturale obiettiva del soggetto, che miri alla ricerca della causa del dolore e delle limitazioni funzionali; 3) utilizzo di diverse tipologie di tecniche, scelte sulla base degli esiti dell’esame posturale, nel rispetto delle caratteristiche di ogni individuo. Per il raggiungimento di tale obbiettivo sono state effettuate tecniche su qualsiasi distretto corporeo che l’osteopata ha ritenuto essere correlato con il disturbo e la limitazione funzionale del paziente. È stata posta particolare attenzione alle restrizioni di mobilità ad ogni livello: articolare, miofasciale, viscerale e cranico in accordo con il principio che la restrizione di mobilità è un fattore predisponente la comparsa di dolore, impotenza funzionale e instabilità(25). I pazienti assegnati al gruppo placebo (GP) sono stati sottoposti a terapia usuale, stabilita a seguito della visita medico-specialistica, e a 6 sedute a cadenza settimanale di trattamento osteopatico placebo. Il trattamento osteopatico placebo, della durata di 30 minuti, consta di esame obiettivo posturale e palpazione aspecifica di diversi distretti corporei in diverse posizioni di clinostatismo. Variabili Il dolore corporeo del paziente è stato valutato prima dell’inizio del ciclo di trattamento tramite una scala VAS.
I pazienti sono stati istruiti di valutare il dolore in vari distretti corporei e di assegnare ad esso un valore su una scala visuale da 1 a 10. Il dolore valutato è dunque da considerarsi un dolore generale aspecifico e non necessariamente causato dalla patologia in atto. All’inizio della prima e dell’ultima seduta è stata chiesta ai pazienti la compilazione del questionario sulla qualità di vita QUALEFFO -41 con il supporto (su necessità) di uno sperimentatore non a conoscenza del gruppo di assegnazione (11,26,27,28). Il questionario QUALEFFO -41 fornisce una valutazione globale della qualità della vita del paziente utilizzando una scala da 41 a 205; il punteggio globale è a sua volta suddiviso in sottoscale (“dolore”, “percezione della salute”, “benessere mentale”, “attività quotidiane”, “lavori domestici”, “attività del tempo libero” e “cammino”) con punteggi compresi tra 0-3, 0-4, 0-5. Analisi statistica Le variabili numeriche estrapolate sono state analizzate con una analisi della varianza a 2 vie (2way anova) per misure ripetute con i gruppi (trattamento vs placebo) come variabili indipendenti. Tutti i dari sono stati riportati come medie ± deviazione standard. In tutte le analisi il livello di significatività è stato fissato a 0,05.
I gruppi non presentavano differenze statisticamente significative in età nonostante una minima differenza nelle medie dei due gruppi I risultati delle VAS per il dolore sono presentati nella figura 1. Non è stata riscontrata nessuna differenza significa-
tiva (p = 0,498) fra gruppo trattamento e gruppo controllo per questa variabile misurata prima delle 6 sedute di trattamento (GT1 = 4,2 ± 3,1, GT6 = 4,1 ± 3,2, GP1 = 4,2 ± 3,2, GP6 = 4,6 ± 2,9).
Risultati Sessantasei pazienti aderenti ai criteri di inclusione ed esclusione sono stati reclutati per questo studio, 56 hanno completato lo studio e sono stati inclusi nell’analisi. I 10 soggetti che non hanno completato lo studio si sono ritirati per motivi non dipendenti dallo studio in questione, 4 per complicanze di patologie concomitanti e 6 per difficoltà nel raggiungere il luogo di svolgimento dello studio. I 56 soggetti che hanno completato lo studio sono stati randomizzati in 2 gruppi: trattamento osteopatico (n = 29 ) e gruppo placebo (n = 27). I dati demografici dei soggetti reclutati possono essere trovati in tabella 1.
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Figura 1: Valori delle VAS registrati alla prima visita (1) ed alla sesta visita (2) nel gruppo di trattamento (linea tratteggiata con triangoli) e nel gruppo placebo (linea continua con quadrati) Per quanto riguarda i risultati del questionario di qualità della vita è stata riscontrata una differenza significativa (p = 0,004) fra gruppo trattamento e gruppo controllo nel punteggio totale del questionario QUALEFFO -41 alla prima e alla sesta seduta di trattamento (GT1 = 103 ± 28, GT6 = 93 ± 25, GP1 = 116 ± 30, GP6 = 115 ± 29).
L’analisi delle sottoscale da cui è composto il questionario ha evidenziato una differenza significativa fra i due grup-
pi per quanto riguarda i campi di indagine “dolore” (p = 0,007), “percezione della salute” (p = 0,029) e “benessere mentale” (p = 0,049). I grafici di queste variabili possono essere trovati nelle figure 2, 3 e 4 rispettivamente. Nessuna differenza significativa è stata riscontrata nei campi di indagine “attività quotidiane” (p = 0,319), “lavori domestici” (p = 0,290), “attività del tempo libero” (p = 0,170). Infine un trend verso la significatività è stato riscontrato nel sottogruppo “cammino” del questionario (p = 0,052).
Figura 2: Valori delle sottoscala “dolore” del questionario QUALEFFO -41 registrati alla prima visita (1) ed alla sesta visita (2) nel gruppo di trattamento (linea tratteggiata con triangoli) e nel gruppo placebo (linea continua con quadrati)
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Figura 3: Valori delle sottoscala “percezione salute” del questionario QUALEFFO -41 registrati alla prima visita (1) ed alla sesta visita (2) nel gruppo di trattamento (linea tratteggiata con triangoli) e nel gruppo placebo (linea continua con quadrati)
Figura 4: Valori delle sottoscala “benessere mentale” del questionario QUALEFFO -41 registrati alla prima visita (1) ed alla sesta visita (2) nel gruppo di trattamento (linea tratteggiata con triangoli) e nel gruppo placebo (linea continua con quadrati)
Studio randomizzato e controllato sull’efficacia del trattamento osteopatico verso trattamento usuale nel migliorare la qualita’ della vita in pazienti affetti da osteoporosi Discussione I risultati di questo studio dimostrano l’efficacia del trattamento osteopatico nel migliorare a breve termine la qualità della vita misurata dal QUALEFFO -41 in un gruppo di pazienti di un reparto geriatrico affetti da osteoporosi. Al contrario, il cambiamento del livello di dolore misurato con scala VAS riportato dai pazienti non ha dimostrato alcuna differenza fra i due gruppi di studio. Il miglioramento della qualità della vita generale appare essere legato ad un miglioramento del benessere mentale legato alla percezione dello stato di salute e, almeno in questo questionario, al miglioramento del dolore. Le ragioni della differenza fra le due scale del dolore (VAS e item del dolore del QUALEFFO -41) verrà discussa in seguito. Il miglioramento della percezione della salute mostra un dato che appare confermare i risultati di Licciardone et al in pazienti affetti da dolore muscolo scheletrico sottoposti a trattamento manipolativo osteopatico somministrato sia in ambito ambulatoriale che ospedaliero (29-30-31). Il miglioramento della qualità della vita riscontrato in questo studio è riferito alla percezione del paziente immediatamente dopo la fine del periodo di trattamento ed è dunque da considerarsi un effetto a breve termine. Non è possibile, in base ai dati di questo studio, stabilire se gli effetti dimostrati potranno essere mantenuti nel tempo e quindi questo studio è limitato dal fatto che non è presente una valutazione follow up. La scelta di non effettuare questa misurazione è legata al fatto che questa sperimentazione, tra le prime del suo genere in Italia, è stata condotta per verificare la fattibilità di un trattamento osteopatico all’interno di un reparto Geriatrico. Studi futuri dovranno verificare l’effetto a medio lungo termine del trattamento osteopatico. Per quanto concerne il dolore i dati rilevati sono contrastanti: la VAS non mostra una differenza significativa tra i due gruppi, nonostante una differenza fra le medie tra la 1° e la 6° seduta sia a vantaggio del gruppo trattati, mentre la sottoscala specifica del QUALEFFO -41 mostra un’alta significatività a favore della riduzione del dolore nel gruppo trattati.
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Questo andamento discordante può essere ricondotto alla metodologia di valutazione: la VAS fornisce un dato quantitativo della percezione del dolore, mentre il QUALEFFO -41 chiede una caratterizzazione qualificante il dolore, in particolare relazionato alla colonna vertebrale. I pazienti arruolati per le caratteristiche di partenza si presentano con poliartralgie e diverse alterazioni funzionali legate al dolore(5,6,7,8,9,10,11): la VAS è stata somministrata con l’intento di una valutazione globale del dolore e non specifica per i singoli distretti algici presentati da ogni paziente, questa scelta metodologica potrebbe aver limitato la verifica per mezzo VAS dello stato di dolore. Inoltre, si è riscontrata una difficoltà nel far comprendere ai pazienti la compilazione della scala visuo-analogica, legata soprattutto all’età e all’estrazione socio-culturale. I risultati dimostrati dalla sottoscala del questionario mostrano come il trattamento osteopatico manipolativo sia efficace nel ridurre la percezione del dolore legata alla qualità di vita del paziente: il dato è particolarmente associato alla localizzazione vertebrale del dolore e pertanto in linea con i risultati avuti in diversi studi clinici sull’efficacia del trattamento osteopatico nella lombalgia cronica aspecifica (32). Il questionario somministrato presentava delle sottoscale riferibili alle limitazioni funzionali legate all’età e al processo osteoporotico: la differenza nei due gruppi di queste non è risultata significativa, tuttavia il trend delle differenze medie mostra un miglioramento in particolare per quanto concerne la sottoscala “cammino”. La possibilità di introdurre una valutazione standardizzata più oggettiva potrebbe evidenziare miglioramenti funzionali non valutabili tramite il questionario e non influenzate dalla percezione del singolo paziente. In conclusione, questo studio dimostra l’efficacia del trattamento osteopatico nel migliorare a breve termine la qualità della vita in un gruppo di pazienti di un reparto geriatrico affetti da osteoporosi. Gli effetti sul dolore sono meno facili da interpretare e necessitano ulteriori studi che dovrebbero includere inoltre valutazioni a medio e lungo termine e misure oggettive di funzionalità fisica.
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LAVORO ORIGINALE
TUMORE ENDOCRINO DELLA PAPILLA DI VATER. Osservazioni su un caso clinico Pichi Graziani Monaldo°, Benyacar Samuele°, Bettazza Simona°, Bergamo Chiara°, Pavesi Aureliano°, Saporiti Fabio Ettore°, Stock Fabio°, Rodio Francesco°e Cacioli Dario° °Unità Operativa di Chirurgia Generale 2° Presidio Ospedaliero di Sesto San Giovanni Azienda Ospedaliera ICP Sesto San Giovanni (Milano)
Riassunto Gli autori espongono un caso clinico di tumore ampollare neuroendocrino. Abstract A case report of a neuroendocrinal ampullary tumor Parole chiave: Ampullomi, Tumore Endocrino della Papilla del Vater Key word: Neuroendocrinal ampullary tumor Caso Clinico H.E., femmina di 30anni, viene ricoverata presso la Divisione Medica del nostro nosocomio per dolore epigastrico e vomito in paziente con storia clinica di patologia peptica duodenale e pregressa resezione colica nel 2004 per dolicocolon. Durante la degenza viene sottoposta ad esame tac dell’addome che dimostra la presenza di lesione a carattere espansivo a partenza dal retroperitoneo (sarcoma duodenale?) e che si estende sino ad assumere stretti rapporti con il rene destro senza infiltrarlo. L’alterazione risulta plurilobata con diametro massimo di 114mm. La testa pancreatica risulta mal riconoscibile e verosimilmente infiltrata da parte della lesione. La paziente viene quindi trasferita presso il nostro reparto di Chirurgia Generale e sottoposta ad intervento chirurgico di duodenocefalopancreasectomia. Il decorso risulta complicato da anemizzazione e fistola pancreatica trattata conservativamente sino alla completa chiusura del tramite cutaneo. La paziente viene dimessa in 20 giornata in buone condizioni generali. Il referto dell’esame istologico concludeva per carcinoma endocrino ben differenziato con interessamento a piccoli nodi della regione della papilla di Vater. Generalità Con il termine tumori dell’ampolla di Vater o tumori od-
diani si fa riferimento ai soli tumori che si sviluppano nell’area anatomica dello sfintere del coledoco terminale, del dotto pancreatico principale, del dotto comune biliopancreatico, della sua dilatazione ampollare e del versante duodenale intraluminale della papilla. Secondo tale definzione occorre quindi distinguere gli ampullomi da tutti quei tumori che, pur avendo un analogo quadro clinico, hanno sedi ed origini diverse come quelli della testa del pancreas, del coledoco retropancreatico e del duodeno che vengono appunto definiti come periampollari. Esistono delle oggettive difficoltà allo studio epidemiologico di queste forme tumorali legate essenzialmente alla loro relativa rarità ed alla difficoltà di stabilire criteri morfologici precisi per un’omogenea interpretazione dei dati nella casistica presente in letteratura. I tumori della papilla di Vater vengono classificati in benigni, rari e maligni e la loro incidenza in rapporto a tutti cancri oscilla dal 1% al 2% sec. Howard (4) e Jordan (5). I tumori benigni comprendono le forme epiteliali (papillomi, adenomi, e tumori villosi), le forme connettivali (rare) e gli pseudotumori disontogenetici (pancreas ectopico e cisti duodenali paraoddiane). Fra i tumori rari si annoverano i tumori neuroendocrini (carcinoide e somatostatinoma), l’amartoma, il sarcoma di Kaposi ed il carcinoma a piccole cellule. I tumori maligni comprendono, infine, i carcinomi differenziati (villosi, ghiandolari, Lieberkuhniani, Brunneriani, colloido-mucosi), i carcinomi indifferenziati (epidermoidi ed anaplastici), i carcinomi metaplastici o metatipici (epidermidi ed adenoacantomi), il carcinoide ed i sarcomi. I tumori neuroendocrini I tumori neuroendocrini (NET) vengono tradizionalmente considerati come patologie rare ma suscitano un sempre più crescente interesse per le nuove scoperte del settore, in particolare per i progressi fatti nel campo della classificazione istologica, nei criteri legati all’aggressività clinica ed alle nuove conoscenze in campo biomolecolare. La componente predominante è soprattutto appannaggio dei tumori neuroendocrini a localizzazione nel tratto gastro-
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Pichi Graziani Monaldo, Benyacar Samuele, Bettazza Simona, Bergamo Chiara, Pavesi Aureliano, Saporiti Fabio Ettore, Stock Fabio, Rodio Francesco e Cacioli Dario
enterico i cosiddetti GEP, i NET possono originare anche dall’ampolla di Vater. Aspetti epidemiologici e fattori di rischio Da un punto di vista generale, i NET rappresentano un gruppo eterogeneo di neoplasie con localizzazione ubiquitaria e con un comportamento biologico alquanto variabile. Essi costituiscono meno dello 0,5% delle neoplasie maligne con una leggera prevalenza per il sesso femminile. La loro reale incidenza è però sottostimata per il fatto che nella maggior parte dei casi sono patologie asintomatiche e solo nel 20% dei casi queste neoplasie producono una serie di sostanze ormonali che, riversate nel torrente circolatorio, danno origine alle cosiddette sindromi da carcinoide. Anche in questi casi comunque la sintomatologia è la più varia spaziando dalla malattia peptica recidivante alle manifestazioni dermatologiche , alla diarrea ed ai disturbi del metabolismo glucidico. Circa il 60% dei NET insorge nel tratto gastro-enterico, mentre nel 25% dei casi nel sistema broncopolmonare. In circa il 20% dei pazienti con NET si associano forme maligne con istotipi vari ed ad insorgenza sincrona e metacrona. Eziologia L’origine dei tumori endocrini resta a tutt’oggi sconosciuta e l’unica prova convincente di predisposizione ereditaria è data dal riscontro di queste neoplasie nell’ambito delle sindromi multi endocrine MEN 1 sostenute da un disordine genetico autosomico dominante legato alla perdita del gene oncosoppressore MEN 1 sul braccio lungo del cromosoma 13 (1,2). Tumori neuroendocrini gastro-enterici Tumori neuroendocrini dello stomaco Rappresentano il 5% di tutti i NET con l’eccezione della popolazione giapponese in cui la loro percentuale sale al 30%. I tumori endocrini dello stomaco più frequenti sono i carcinoidi che sono classificati in considerazione del quadro clinico all’interno del quale si sviluppano: • Tipo 1: associato a gastrite cronica atrofica • Tipo 2: associato a sindrome MEN di tipo 1 • Tipo 3: sporadico Le differenze legate a questa classificazione sono espressioni soprattutto di diversi comportamenti prognostici. In particolare il tipo 3, a differenza delle due forme precedenti, non è associato alla gastrite cronica atrofica, mostra una predilezione per il sesso maschile e si associa nel 70% dei casi alla presenza di metastasi. Pertanto, tale forma necessita di un approccio terapeutico aggressivo ed un follow-up stretto del tutto analogo a quello delle forme non neuroendocrine. Ancora più aggressive sono, infine, le forme scarsamente
differenziate perché sono caratterizzate da una prognosi infausta. Tumori neuroendocrini appendicolari Rappresentano senz’altro la forma tumorale più frequente a livello di questo distretto (60-70%) pur rappresentando appena lo 0,3-0,5 di tutte le appendicectomie (3). Caratteristicamente sono tumori incidentali in corso di appendicectomie eseguite per cause infiammatorie. Nella casistica della Mayo Clinic solo il 4% dei carcinoidi appendicolari ha mostrato un capacità di metastatizzare che giustifica l’alto tasso di sopravvivenza (95%) dei pazienti affetti da carcinoide appendicolare. Tumori neuroendocrini dell’esofago Rappresentano appena lo 0,05% di tutti NET e sono pertanto entità nosologiche estremamente rare insorgendo principalmente nel terzo distale dell’organo. Tumori neuroendocrini dell’intestino tenue Sono i più frequenti rappresentando la forma più comune di neoplasie insorte a questo livello e la propensione a svilupparle aumenta in maniera considerevole in direzione ab orale. I carcinoidi che insorgono dal duodeno e dal digiuno prossimale sono prevalentemente gastronomi associati alla sindrome di Zollinger-Ellison e generalmente hanno un alto tasso di sopravvivenza dell’ordine dell’ 84% a 10 anni. All’atto della diagnosi circa il 60% dei pazienti presenta localizzazioni a distanza con una sopravvivenza a cinque anni di circa il 60% che cala al 30% se sono presenti metastasi epatiche. Tumori neuroendocrini del colon retto Le forme scarsamente differenziate si sviluppano più frequentemente a carico del colon e colpiscono in prevalenza i soggetti di sesso maschile, mentre le forme ben differenziate sono più frequenti a livello del retto. La bassa incidenza di occlusioni legate a queste neoplasie determina un diagnosi piuttosto tardiva e, pertanto, vi è un frequente riscontro di metastasi all’atto diagnostico. Tumori neuroendocrini del pancreas Rappresentano circa il 2% di tutte le neoplasie pancreatiche e possono essere classificati in funzionanti e non funzionanti. Manifestazioni Cliniche e Diagnosi I sintomi locali sono simili a quelli causati dalle altre neoformazioni situate in questa sede e sono costituiti da melena, crisi ricorrenti di pancreatite, dolore addominale ed ittero. Il quadro endoscopico dei tumori neuroendocrini dell’ampolla è aspecifico. Gli esami bioptici, la colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP) ed il transito baritato non sono determinanti per la diagnosi. Il carcinoide è tra le neoplasie neuroendocrine quella più frequente ed ha spesso caratteristiche di malignità con invasione dei tessuti e degli organi viciniori e metastasi
Tumore endocrino della papilla di vater linfonodali regionali ed a distanza. Il quadro clinico dei carcinoidi ampollari si manifesta più spesso con segni di ittero ostruttivo; tuttavia per le piccole dimensioni, questi tumori sono raramente individuabili in corso di esame endoscopico. Il criterio clinico più fedele per determinare la natura maligna del carcinoide ampollare è la presenza di metastasi. Il trattamento chirurgico resettivo con duodenocefalopancreasectomia (DCP) rappresenta a tutt’oggi il gold standard terapeutico. La natura non specifica dei sintomi clinici dei cancri dell’ampolla, la povertà dei segni obiettivi, la molteplicità degli eventi patologici capaci di dare un quadro clinico simile obbliga dunque oggi ad un approccio diagnostico sistematico. L’ittero ostruttivo è il fenomeno d’esordio delle neoplasie dell’ampolla nella stragrande maggioranza dei casi e la diagnosi differenziale si pone con quelle che sono le cause più comuni dell’ittero da stasi, quali la litiasi coledocica e le neoplasie della testa pancreatica. La litiasi della via biliare principale in particolare pone non pochi problemi di diagnostica differenziale con i tumori ampollari che comunque rappresentano la seconda causa di colangite. Di notevole rilevanza, non solo terapeutica ma anche prognostica, è la diagnosi differenziale con i cosiddetti tumori periampollari; gli esami fondamentali sono rappresentati dalla endoscopia digestiva e dall’ERCP i cui dati, confrontati con quelli ecografici e della tac, forniscono un’accuratezza diagnostica accettabile.
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Trattamento e Risultati La resecabilità per gli ampullomi è mediamente più elevata di quella delle neoplasie periampollari ed in particolare pancreatiche. Ciò è dovuto alla diagnosi precoce ed ad un atteggiamento più aggressivo in considerazione della miglior prognosi a distanza. Il tasso medio di resecabilità reperibile in letteratura è stato del 79% (7,8,9). La DCP è considerato l’intervento di scelta in quanto l’escissione locale va riservata ai piccoli tumori non infiltranti o in paziente defecati che non sopporterebbero un trauma chirurgico maggiore. La mortalità post-operatoria
è scesa nelle diverse casistiche dal 21,3% al 10,2% in relazione alla più consolidata tecnica chirurgica ed al miglior supporto medico e nutrizionale (7, 10,11,12). La mortalità post-operatoria dopo ampullectomia risulta ancora minore attestandosi intorno al 8,8% (7). Mentre il trattamento chirurgico rappresenta la terapia d’elezione in tutti i casi con malattia tecnicamente resecabile, la terapia medica sistemica viene invece considerata come prima opzione terapeutica nei casi con malattia disseminata a livello extraepatico, nei casi con recidiva di malattia ed anche nel caso in cui l’obiettivo consista nel ricondurre all’operabilità una soluzione localmente avanzata inoperabile. Per quanto riguarda la scelta del trattamento medico , questa si basa fondamentalmente sulle caratteristiche prognostiche dei NET-GEP affidate alla classificazione WHO. In generale, il trattamento dei tumori endocrini ben differenziati, una volta noti come carcinoidi e neoplasie insulari del pancreas, siano essi associati o meno alla sindrome da carcinoide, consiste principalmente nella bioterapia. La terapia con analoghi della somatostatina e/o interferone, sebbene non garantisca nella maggioranza dei casi un’obiettiva riduzione della massa tumorale, risulta essere estremamente efficace nel controllo della sintomatologia clinica e del rilascio in circolo degli ormoni tumore correlati ovvero nell’ambito della risposta soggettiva e biochimica . Il trattamento chemioterapico rappresenta la terapia più indicata per le forme di tumore neuroendocrino a grado intermedio od elevato di aggressività, inquadrabili nelle forme di carcinoma endocrino ben differenziato e carcinoma endocrino scarsamente differenziato, che risultano essere maggiormente responsive ai trattamenti citotossici. Al momento non esiste una terapia antineoplastica standard ed il trattamento chemioterapico rimane estremamente eterogeneo influenzato dall’esperienza delle Istituzioni dedicate allo studio della patologia, che possiedono le casistiche più numerose. La polichemioterapia ha, di fatto, dimostrato sia in studi di fase II sia di fase III randomizzati, di essere la terapia di scelta per la netta efficacia.
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LAVORO ORIGINALE
ASCESSO EPATICO AMEBICO: PRESENTAZIONE DI UN CASO CLINICO Grazia Traverso*, Giancarlo Loche*, Elena Manca*, Alessandra Salvioni*, Chiara Arlati**, Massimiliano Gariboldi **, Mirella Strada**, Luigi Roffi * *Divisione di Medicina Generale, Ospedale E. Bassini, Cinisello Balsamo **Servizio di Radiologia, Ospedale E. Bassini, Cinisello Balsamo
Riassunto Descriviamo il caso di un paziente di 24 anni giunto alla nostra attenzione per febbre, versamento pleurico destro e dolore addominale. L’esecuzione di ecografia e TC dell’addome hanno permesso di individuare la presenza di un ascesso epatico. La diagnosi di ascesso epatico amebico è stata formulata in base all’assenza di condizioni riconducibili ad ascesso piogenico, all’imaging, alla sierologia ed all’efficacia della terapia con Metronidazolo. Abstract Amebic liver abscess: a case report We are describing a 24 year old patient who came to our attention for fever, right pleural effusion and abdominal pain. Abdominal US and CT let us find liver abscess. Diagnosis of amebic liver abscess was based on the absence of symptoms due to pyogenic abscess, on imaging, on sierology and effectiveness of Metronidazolo therapy. Parole Chiave: ascesso epatico amebico, ascesso epatico piogenico, drenaggio percutaneo. Key Words: Amebic liver abscess, pyogenic liver abscess, percutaneous drainage Introduzione L’amebiasi è responsabile di circa 100.000 decessi/anno a livello mondiale (1). La maggior parte dei soggetti infettati rimane asintomatica o paucisintomatica, mentre nel 10%
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dei casi la malattia si manifesta con interessamento intestinale o extraintestinale ed è spesso grave (2). L’ascesso epatico amebico è la manifestazione più comune di patologia extraintestinale dell’amebiasi. I pazienti giovani più spesso hanno un esordio acuto con febbre e dolori addominali al quadrante superiore destro. Frequente è il versamento pleurico; raro l’ittero; meno di un terzo presenta diarrea. I pazienti più anziani delle aree endemiche presentano con maggior frequenza un decorso subacuto con calo ponderale ed epatomegalia, un terzo manifesta febbre. L’ecografia rivela generalmente gli ascessi, ma la TC rimane l’esame più affidabile. Descrizione del caso Maschio, 24 anni. In anamnesi, infezioni recidivanti delle vie urinarie. Negati viaggi in Paesi in via di sviluppo. L’attività lavorativa, peraltro, lo portava a contatto con persone provenienti da aree in cui l’ameba è endemica. Giunto in PS per febbre TA: 38,5, algie addominali al fianco sinistro e fossa iliaca sinistra, alcune scariche alvine con feci sfatte. P.A. :120/70; FC :98 r; Obiettività: Cuore: toni validi, ritmici, frequenti, pause libere. Torace: MV ridotto alla base destra Addome:trattabile, dolorabile alla palpazione profonda al fianco sinistro, organi ipocondriaci nei limiti, non edemi declivi. La radiografia del torace mostrava limitata falda pleurica alla base polmonare destra (Fig.1a-b).
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Figura 1. Rx Torace 2 Pr (a,b): minima falda di versamento pleurico alla base destra (freccia) in assenza di addensamenti parenchimali bilaterali.
Ascesso epatico amebico: presentazione di un caso clinico Gli esami di laboratorio documentavano leucocitosi neutrofila (7.740 per mmc), modesto incremento di transaminasi (SGOT 38 UI/L, SGPT 46 UI/L) e gamma-glutamil transpeptidasi (82UI/L), notevole elevazione di PCR. (32.32 mg/dl). Il paziente veniva ricoverato e veniva impostata terapia antibiotica empirica a largo spettro (Levofloxacina). Poiché all’esame obiettivo il dato saliente era costituito dalla spiccata dolorabilità addominale al fianco e fossa iliaca sinistra, veniva sottoposto ad ecografia addominale, che evidenziava, al VII-VIII segmento epatico, voluminosa formazione tondeggiante a profili polilobulati del diametro di 87 mm x 93 mm, ecostruttura disomogenea sospetta per ascesso. La TC addome con mezzo di contra-
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sto confermava la presenza di una formazione ascessuale, con cercine periferico ipodenso con sottile impregnazione contrastografica di parete dalla quale originavano alcuni filiformi sepimenti , ma senza bolle aeree nel suo contesto (Fig.2a-c). All’esame TC si evidenziava, inoltre, trombosi di un ramo di divisione portale per il VII segmento, reperto frequente nelle infezioni amebiche dato che il parassita colonizza il fegato attraverso i rami portali (Fig.3a-b). Tali reperti corroboravano il sospetto diagnostico di ascesso amebico. Sotto guida eco-fluoroscopica, venne posizionato un catetere di drenaggio 8 FR ( Fig 4a-b) e si aspiravano 140 cc di materiale denso “a pasta d’acciuga” suggestivo per eziologia amebica.
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2c Figura 2. Lesione epatica a profili regolari del lobo epatico destro: nella fase precontrastrografica (a) è presente un cercine periferico lievemente iperdenso (punte di freccia), con contenuto disomogeneamente ipodenso (freccia). Dopo mdc in fase arteriosa (b) ma soprattutto in fase venosa (c), è più evidente l’anello periferico (punte di freccia) dal quale originano alcune sepimentazioni (freccia).
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3b Figura 3a, b: trombosi segmentaria di un ramo di divisione portale per il VII segmento epatico (freccia) in fase arteriosa (a) e venosa (b), con parziale arterializzazione del segmento stesso (punta di freccia, a).
Ascesso epatico amebico: presentazione di un caso clinico
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Figura 4a, b. Sotto guida ecografica (a) e fluoroscopica (b) si posiziona catetere di Drenaggio 8 Fr nel contesto dell’ascesso, che viene quindi visualizzato mediante opacizzazione con mezzo di contrasto radiopaco (freccia).
Negativa la ricerca di anticorpi anti HIV; coprocoltura negativa; esame batterioscopico e colturale del drenaggio negativi. Gli anticorpi anti ameba risultarono positivi con titolo: 100 (negativo< 50) (IFI), e veniva, pertanto, instaurata terapia con Metronidazolo. Nei giorni successivi si osservava defervescenza, rapido miglioramento clinico e dei parametri bioumorali. Al con-
trollo ecografico (Fig 5), si osservò una riduzione delle dimensioni dell’ascesso epatico. Rimosso il drenaggio, il paziente veniva dimesso con indicazione a proseguire la terapia con Metronidazolo. Alla visita di controllo, dopo due settimane, si osservava normalizzazione dei parametri bioumorali ed ulteriore cospicua riduzione delle dimensioni dell’ascesso epatico.
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Figura 5. Controllo ecografico a 3 mesi dal drenaggio: residua piccola area tondeggiante disomogeneamente iperecogena riferibile ad esiti fibrotici (freccia).
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Grazia Traverso, Giancarlo Loche, Elena Manca, Alessandra Salvioni, Chiara Arlati, Massimiliano Gariboldi , Mirella Strada, Luigi Roffi
Discussione Nei Paesi sviluppati gli ascessi epatici da Entamoeba histolytica non sono comuni; inoltre, in circa 2/3 dei casi non vi è diarrea (3). Spesso, poi, il quadro clinico è dominato dalla semeiotica caratteristica degli organi interessati (4). E’ da tempo noto che un processo infiammatorio toracico può esordire come dolore addominale. D’altra parte, complicazioni polmonari di un ascesso epatico sono state confuse con processi flogistici polmonari ed anche tumori (5). Caratteristiche distintive sono la rapida insorgenza di difficoltà respiratorie e marcata dolenzia addominale. La
reale incidenza non è nota, ma alterazioni cliniche o radiologiche sono riportate in almeno la metà dei casi di ascesso epatico amebico (2). L’interessamento pericardico è presente in un numero limitato di casi (circa il 2%), ma può associarsi ad un tamponamento cardiaco potenzialmente fatale (6). In assenza di specifiche patologie, gli ascessi epatici sono più frequentemente amebici o batterici. La diagnosi differenziale è importante, in quanto prognosi e trattamento differiscono (7). La tabella I illustra le più comuni caratteristiche dell’ascesso amebico rispetto a quello epatico
Tabella I. Diagnosi differenziale ascesso amebico/ascesso da piogeni nel fegato L’indagine ultrasonografica è indagine di prima istanza in caso sospetto di ascesso amebico. La TC è di particolare aiuto nell’identificazione delle calcificazioni e del gas intralesionale oltre che nell’identificazione di particolari pattern di enhancement contrastografico. Il ricorso alla RM, più costosa, è eccezionale perché non apporta particolari vantaggi rispetto alla TC. All’ecografia l’ascesso amebico si manifesta come una lesione ovale o tonda, localizzata in genere vicino alla capsula epatica, a struttura mista, prevalentemente ipoecogena (9). Nelle lesioni di più recente insorgenza si osserva un cercine periferico ipoecogeno legato all’edema perilesionale, mentre nelle forme inveterate il cercine è iperecogeno in relazione al tessuto di granulazione. Nelle forme poi con maggiore componente necrotica prevale l’aspetto uni-multiloculare con pattern ipo-anecogeno (10). Si differenzia
dall’ascesso piogenico, che presenta una ecostruttura più disomogenea (le lesioni più recenti sono iperecogene con alone ipoecogeno per l’edema, mentre quelle più vecchie, con maggiore necrosi, sono ipo-anecogene). L’ascesso da piogeni è situato in profondità nel parenchima epatico ed è spesso caratterizzato da sepimentazioni, calcificazioni e bolle d’aria (che pur patognomoniche sono presenti nel 30% dei casi). Il riscontro di una lesione ecografica epatica tipica, in un paziente che presenta un sospetto clinico e laboratoristico di amebiasi è sufficiente per confortare la diagnosi. Per una migliore definizione della lesione, specie se con caratteristiche atipiche all’ecografia, quali ascessi multipli, microascessi o più grandi di 20 cm, posti profondamente rispetto alla capsula epatica o ascessi settati o nel caso di complicanze, si completa l’imaging diagnostico mediante
Ascesso epatico amebico: presentazione di un caso clinico l’esecuzione della TC con mezzo di contrasto (9). All’indagine TC con mdc l’ascesso amebico appare più frequentemente come una lesione unica, a margini ben definiti, ipodensa (con valori di attenuazione intorno a 1020 UH, talvolta lievemente più elevati per la presenza di un liquido corpuscolato, dovuto ai detriti cellulari ed alla necrosi), con una parete iperdensa nelle scansioni di base, spessa da 3 a 15 mm, dotata di enhancement in fase portale (a differenza delle lesioni fungine costantemente ipodense prima e dopo mdc), legata alla reazione infiammatoria del parenchima epatico circostante e, più perifericamente, da una zona di edema periferico, ipodensa dopo mdc. Talvolta l’ascesso può apparire multiloculato ed in fase portale si evidenziano delle sepimentazioni a partenza dall’anello periferico infiammatorio (meno estese e meno frequenti rispetto alle lesioni da echinococcosi tipo II). Dimostrare l’E histolytica nelle feci è arduo in caso di amebiasi extraintestinale. Cisti o trofozoiti sono riscontrabili al massimo in un terzo dei casi dei pazienti con ascesso epatico. I trofozoiti non sono neppure comunemente visti nel materiale intra ascesso (6). Scarsissimi, se non del tutto assenti, sono i leucociti nell’ascesso amebico, a causa dell’elevata attività citolitica dell’ameba (11). L’eosinofilia non è una caratteristica dell’amebiasi ed i test epatici sono modicamente elevati, con la sola eccezione della fosfatasi alcalina. Specifici test di laboratorio, quali anticorpi ed antigeni del parassita si sono resi disponibili in anni recenti (12). Anche se gli antigeni ricercati nelle feci hanno sensibilità e specificità del 95%, nelle forme extraintestinali della malattia sono, di solito, assenti (13). La ricerca del DNA con PCR nelle feci e in altri liquidi biologici, pur essendo promettente, non è attualmente disponibile per la pratica clinica (14). La diagnosi è ottenibile con la sierologia ed un reperto di
Tabella II. Complicazioni dell’infezione amebica
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imaging già nel 90% dei casi. La terapia standard è medica, con una efficacia in oltre il 90% dei pazienti (15). Nel nostro caso, infatti, l’orientamento verso la genesi amebica dell’ascesso è stato supportato dalla mancanza di condizioni che usualmente riconducono ad ascesso batterico, i contatti connessi all’attività lavorativa del paziente, i dati sierologici e di imaging. La terapia dell’ascesso epatico amebico e delle sue complicanze, gravate da alta mortalità, pone alcuni problemi soprattutto nelle aree in cui l’ameba non è endemica. Talvolta sia la diagnosi che la terapia pongono problemi ed è pertanto necessario ricorrere al drenaggio sotto guida ecografica o TC. Le indicazioni per il drenaggio sono: dimensioni > 5 cm, diagnosi differenziale dall’ascesso piogenico; il dolore e l’imminente rottura; il peggioramento clinico nonostante le terapie mediche o in caso di pazienti che non rispondono alle terapie mediche; la sierologia negativa; l’ascesso al lobo epatico di sinistra, che può complicarsi con la perforazione in pericardio, con prognosi infausta nel 30 % dei casi; la gravidanza (15). L’E. histolytica è citotossica e può provocare la distruzione della parete intestinale e dei parenchima epatico e polmonare. La superinfezione batterica aumenta significativamente la morbidità e la mortalità. La rottura intratoracica (pleura, pericardio o bronchi) o intraddominale (peritoneale, nei dotti biliari o nell’intestino) sono complicanze gravate da alta morbidità e mortalità. In queste evenienze si ricorre al drenaggio chirurgico con una probabilità di successo variabile dall’42% all’85% dei casi(15). La Tabella II elenca le più comuni complicanze dell’infezione amebica. Nel nostro caso è stato eseguito un drenaggio percutaneo a conferma del sospetto clinico ed iconografico.
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Grazia Traverso, Giancarlo Loche, Elena Manca, Alessandra Salvioni, Chiara Arlati, Massimiliano Gariboldi , Mirella Strada, Luigi Roffi
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Il Bassini - Volume XXX - Gennaio-Giugno 2010
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LAVORO ORIGINALE
ITER DIAGNOSTICO E GESTIONE CLINICA DELLE DIARREE NELL’ADULTO Alberto Frosi Unità Operativa Semplice Dipartimentale di Epatogastroenterologia Presidio Ospedaliero di Sesto San Giovanni Istituti Clinici di Perfezionamento (Milano)
Riassunto Nella scelta degli argomenti e delle decisioni cliniche proposte in questa revisione dell’argomento “diarrea nell’adulto”, sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico, in un tema così vasto e complesso, si è tenuto conto della personale esperienza calata nel contesto in cui quotidianamente operiamo. Più specificatamente, sono state considerate la nostra situazione epidemiologica, di tipo urbano occidentale sviluppato (in continua evoluzione in conseguenza degli intensi movimenti migratori degli ultimi anni e dei sostanziali cambiamenti demografici) ed anche le dotazioni diagnostiche e terapeutiche di cui possiamo comunemente disporre nei nostri laboratori e nei nostri centri medici, ospedalieri e territoriali. Di fronte ad una sindrome diarroica, si propone di privilegiare una strategia che ne preveda la sua tipizzazione, al fine di restringere il campo delle innumerevoli eziologie possibili, evitando l’impiego indiscriminato e standardizzato di esami di laboratorio e strumentali. Abstract Diagnostic strategy and clinical management of diarrhoea in adult This is intended to be a review of an extremely vast and complex topic, diarrhoea in adults: that’s why in choosing the subjects and the clinical decisions suggested, both from a diagnostic and a therapeutic point of view, we considered above all our personal experience, framed in the context we daily work in. In particular, we took account of two points: a) our epidemiological situation, which is of western urban developed type (though constantly evolving in the last few years because of intense migratory fluxes and substantial demographic changes) b) the diagnostic and therapeutic equipment we commonly have at our disposal in our laboratories, and in our medical, hospital and territorial centres. When facing diarrhoea syndrome we suggest selecting a strategy aimed at its categorization, in order to limit the field of the innumerable possible aetiologies, thus avoiding an indiscriminate and standardized use of laboratory tests and instrumental procedures.
Parole chiave: diarrea, adulto, diagnosi, trattamento Key words: diarrhoea, adult, diagnosis, treatment Introduzione La diarrea si presenta in modo assai diverso nei paesi sviluppati rispetto a quelli economicamente e socialmente arretrati. Nei primi, infatti, determina per la società costi elevati ma bassa mortalità, la quale colpisce prevalentemente gli anziani e poco i bambini. Al contrario, nei paesi meno sviluppati è stimata una mortalità infantile da sindromi diarroiche dell’ordine di grandezza di milioni di individui l’anno. La diarrea può essere definita in vari modi, secondo il criterio che si adotta (1). Definizioni 1.Diarrea come sintomo o come segno La diarrea definita come sintomo consiste in una diminuita consistenza delle feci e/o in un aumento della frequenza delle evacuazioni, con un intervallo di normalità convenzionalmente stabilito da un massimo di 3 evacuazioni al giorno ad un minimo di 3 la settimana. In alternativa la diarrea può essere definita in modo più obiettivo come segno ed in questo caso si manifesta con l’aumento del peso o del volume delle feci al di sopra del valore fissato di normalità di 200 g / 24 h. Che si opti per la definizione come sintomo oppure come segno, l’importante è rendersi bene conto della quantità di feci emesse giornalmente (in pratica, nella maggioranza dei casi, basta un’anamnesi accurata) (1,2,3). Infatti, è necessario distinguere la diarrea vera e propria da tre condizioni che non sono propriamente o affatto diarrea, quali la pseudodiarrea, l’incontinenza fecale e la diarrea paradossa. La pseudodiarrea consiste in frequenti evacuazioni di consistenza normale legate ad un aumento della motilità intestinale. L’incontinenza fecale, spesso definita diarrea dal paziente, affligge dal 2 al 10% della popolazione (e raggiunge fino 50% nei pazienti anziani ospiti di RSA); può associarsi alla diarrea. La diarrea paradossa, infine,
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che è spesso anch’essa presentata come diarrea dal paziente e dai suoi famigliari, consiste in ripetute perdite di materiale fecale, in genere liquido nella stipsi grave. Rara nella stipsi del giovane, è tipica dell’anziano. 2. Diarrea acuta, persistente, cronica Una diarrea si definisce acuta se è presente da meno di 2 settimane; persistente quando si prolunga dalle 2 alle 4 settimane e cronica quando va oltre le 4 settimane. La distinzione in base alla durata è molto importante perché gli approcci diagnostico e terapeutico sono assai differenti. I termini acuto e cronico riferiti alla diarrea, che, come abbiamo visto, è un sintomo e/o un segno, non si correlano al concetto di malattia acuta né a quello di cronicità. Una diarrea acuta può rappresentare l’esordio di una malattia cronica o una sua riacutizzazione, così come una diarrea cronica, anche di durata di 2, 3 o più mesi, può risolversi definitivamente in guarigione (anche spontanea) (2). Classificazione fisiopatologica di diarrea La classificazione della diarrea dal punto di vista fisiopatologico è indubbiamente problematica e ne esistono diverse e differenti. Queste difficoltà discendono dal fatto che nella fisiopatologia della diarrea si attua spesso una sovrapposizione di alterazioni di natura fisica, chimica e funzionale. Inoltre la stessa causa può agire con più meccanismi. Ne deriva che la classificazione della diarrea che, in ambito clinico, è finalizzata ad orientare il medico verso la causa della diarrea stessa, o almeno a restringere il campo delle innumerevoli possibili cause, non è sempre di agevole applicazione pratica. Tra le diverse classificazioni fisiopatologiche presenti in letteratura, ne proponiamo qui in modo schematico una che ci è parsa più agevolmente applicabile: 1. Diarrea osmotica: una sostanza idrosolubile e non assorbibile rimane nell’intestino e trattiene acqua. Es.: intolleranza al lattosio, lassativi osmotici. 2. Diarrea secretoria: l’intestino secerne più elettroliti ed acqua di quanti non ne possa assorbire. Es.: tossine batteriche (vibrio cholerae), virus, farmaci. Ne consegue diarrea acquosa. 3. Diarrea infiammatoria: la mucosa infiammata e/o danneggiata determina la fuoriuscita di plasma, proteine, sangue, muco, di conseguenza si verifica nel lume intestinale un aumento di contenuto fluido e di massa fecale. Es.: colite ulcerosa, M. di Crohn, TBC, linfoma, neoplasia intestinale, alcune diarree infettive. L’esito è una diarrea con presenza di pus e sangue. Il termine dissenteria, usato spesso impropriamente come sinonimo di diarrea, indica diarrea ematica. 4. Diarrea da diminuito assorbimento di acqua: si realizza quando il tempo di contatto del chimo con la superficie intestinale che deve riassorbire l’acqua è insufficiente e di conseguenza aumenta la velocità di transito. Es.: gastroresecato, resezione intestinale, serotonina,
prostaglandine, farmaci. 5. Diarrea da malassorbimento: si manifesta per l’azione di un doppio meccanismo, osmotico (carboidrati) e secretorio (lipidi D secretogoghi). Es.: celiachia D steatorrea (1,2,5). Nella pratica clinica si può operare un’ulteriore semplificazione in 3 tipi: • diarrea acquosa o osmotica: bassa concentrazione di elettroliti o secretoria: alta concentrazione di elettroliti • steatorrea (malassorbimento): feci untuose, positività alla colorazione di Sudan III. • diarrea infiammatoria: presenza di sangue/pus. Il medico dovrebbe tenere presente almeno questa semplice differenziazione (tipizzazione). (2,5,6). Diarrea Acuta E’ una diarrea che dura da meno di 2 settimane. Per il 90 % è dovuta ad agenti infettivi (batteri, parassiti, virus; nell’adulto più il norovirus che il rotavirus) e solo per il restante 10% è causata da una o più altre noxae: farmaci, sostanze tossiche, ischemia, esordio di malattia infiammatoria intestinale (IBD), o altro ancora (2). Nel condurre l’anamnesi di una diarrea acuta è necessario concentrarsi sui seguenti punti: contesto epidemiologico, viaggi recenti, cibi e bevande consumati di recente, partecipazione a banchetti, pasti nei ristoranti, picnic, cibi mal conservati, consumo di dolci alla crema, maionese, funghi, mitili, salame, carne trita poco cotta, farmaci in uso o di uso recente (1,2,3,4). Devono essere valutati sintomi e segni associati alla diarrea, quali nausea, vomito, dolore addominale, febbre, feci ematiche, che accompagnano a volte in varie combinazioni una diarrea infettiva. Inoltre, la diarrea si può presentare nel contesto di varie malattie infettive, quali epatite virale, morbillo, listeriosi, legionella, che saranno identificate per la presenza di altri sintomi e segni e confermate dagli opportuni esami di laboratorio specifici (1,2). Una diarrea acuta è nella maggior parte dei casi autolimitantesi e non è opportuno eseguire sempre degli esami. Esami di laboratorio devono, invece, essere eseguiti se la diarrea acuta è grave (6 o più scariche al giorno), se persiste più di una settimana e/o se ci sono le seguenti condizioni associate: • importante disidratazione • > 38,5° di TC • feci ematiche o con pus • immunocompromissione • età avanzata • dolore addominale intenso in soggetto con età > ai 50 anni • uso di antibiotici • nell’ambito di un’epidemia di diarrea (conoscenza di più casi nella stessa area) (1,2,3,4).
Iter diagnostico e gestione clinica delle diarree nell’adulto Quando si verificano le condizioni sopraindicate nella diarrea acuta è consigliato eseguire approfondimenti diagnostici, quali la coprocoltura, l’esame parassitologico delle feci, l’endoscopia del tratto digerente inferiore, esami ematochimici. Coprocoltura. La coprocoltura deve essere prescritta di routine per Salmonella non tifoidea, Shigella e Campylobacter e talvolta per Yersinia. Anche se nella nostra esperienza il riscontro di coprocoltura positiva per Shigella o per Campylobacter è rara, tutti gli esperti consigliano di eseguirne la ricerca, contrastando la tendenza di molti laboratori a limitarsi alla sola Salmonella non tifoidea. La ricerca della Yersinia non è considerata di routine dalla maggior parte degli esperti, sia per la rarità del riscontro nelle nostre aree geografiche sia perché l’infezione intestinale da Yersinia si risolve, nella maggior parte dei casi, anche senza terapia. Si aggiunga che la ricerca della Yersinia è più complicata di quella degli altri tre patogeni sopramenzionati, richiedendo una tecnica colturale speciale e specifica. Analoghi problemi tecnici si presentano per la ricerca dei vari ceppi di E. Coli patogeni, tanto che la loro identificazione, enfatizzata nella letteratura anglosassone, non è appannaggio dei nostri laboratori, almeno nella nostra esperienza. La ricerca della tossina del Clostridium Difficilis, infine, deve essere eseguita nei casi in cui, sulla scorta dell’anamnesi, si sospetta tale infezione, cioè nel caso di precedente uso di antibiotici, spesso dimenticato dai pazienti. Il laboratorio deve molte volte essere indirizzato. Nessun laboratorio esegue tutte le ricerche batteriologiche sulle feci che sarebbe in grado di eseguire. E’ il caso ad esempio del Vibrio Cholerae, di fronte a una diarrea acquosa grave con disidratazione importante. Il colera è praticamente scomparso in Italia da molti anni, tuttavia non si può escluderne il riapparire. Esame parassitologico delle feci. Accanto alla coprocoltura, si deve eseguire l’esame parassitologico delle feci, consegnando al laboratorio feci “fresche” (recentemente emesse, l’ideale 1 ora al massimo) o, se proprio non è possibile, quanto meno, tenute in frigorifero. Di routine, l’esame coproparassitologico è eseguito al microscopio e l’attendibilità del suo esito dipende moltissimo dall’esperienza dell’esecutore. Questo esame può rappresentare l’occasione per diagnosticare microscopicamente la presenza nelle feci di abbondanti granulociti neutrofili (dunque pus e non muco, all’apparenza simili) e di emazie, il che rappresenta il quadro delle feci infiammatorie. Infatti quasi nessun laboratorio esegue più l’esame specifico per “caratteri infiammatori” delle feci, semplice e poco costoso, in quanto ritenuto a torto poco sensibile.
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L’esame coproparassitologico può diventare utile in tal senso se il laboratorista è sensibilizzato e sensibile al problema. Altri esami, ematochimici, si eseguono in casi particolari e la loro indicazione è legata alla gravità del paziente e alla persistenza della diarrea: emocromo, sodiemia, potassiemia, VES, azotemia e/o creatinina, ALT. Dal 20 al 40% delle diarree infettive rimane non diagnosticato dal punto di vista eziologico. Infatti, la resa diagnostica di una coprocoltura va dall’1,5 al 5,6 %, dunque è bassa e, pertanto, non è corretto eseguire l’esame in tutti i pazienti. Alcune accortezze per aumentare la resa diagnostica di coprocoltura ed esame coproparassitologico: • raccogliere le feci prima di iniziare gli antibiotici; • non è utile raccogliere più campioni per la coprocoltura mentre può essere utile ripetere l’esame parassitologico, magari in un laboratorio diverso dal primo e che dia maggiori garanzie di esperienza nella ricerca parassito logica; • richiedere un esame mirato, segnalare il sospetto (Yersinia, Clostridium Difficilis, Vibrio Cholerae) (1,2,3,4); • per l’esame parassitologico, consegnare le feci al laboratorio in non più di 1 ora. Pochi sono i casi in cui è indicato l’esame endoscopico del tubo digerente inferiore in una diarrea acuta. In pratica si esegue solo se la diarrea acuta è emorragica e non si riesce a identificare un agente eziologico infettivo capace di provocare diarrea emorragica, trattando adeguatamente il quale il quadro non regredisca. Tali microrganismi sono i seguenti: Salmonella non tifoidea, Shigella, Campylobacter, Yersinia, Clostridium difficilis, Ameba (1,2,4). La colonscopia nella diarrea acuta grave deve essere evitata in favore della rettosigmoidoscopia perché la prima può essere pericolosa, con rischio elevato di perforazione. Le indicazioni al ricovero ospedaliero in caso di diarrea acuta sono le seguenti: - disidratazione grave; necessità di terapia parenterale; - sepsi, con 2 o più dei seguenti segni o sintomi: • febbre elevata, tachicardia, dispnea, leucocitosi neutro fila o grave leucopenia; - compromissione stato di coscienza; - sospetto problema chirurgico acuto. Terapia della diarrea acuta E’ sempre necessaria la reidratazione, proporzionata alla gravità della diarrea. Nei casi lievi – moderati essa può essere fatta per os, con i preparati in commercio o con quelli “artigianali” (1L di acqua + 1 cucchiaino da tè di sale + 8 cucchiaini di zucchero + 1 bicchiere di spremuta d’arancia). Si inizia con quantità elevate, fino a 1 L in 1-2 ore. Se la diarrea sembra peggiorare, diluire di più il soluto o cambiare prodotto ma non rinunciare mai all’idratazione.
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Alberto Frosi
Successivamente, si continua in base al numero di evacuazioni e alla quantità di feci emesse. Nei casi gravi si procede all’idratazione endovenosa utilizzando Ringer lattato o soluzione fisiologica + KCl + bicarbonato di Na. E’ meglio non tenere il paziente a digiuno, ma prescrivergli una dieta povera di scorie, senza latte (riso cotto, crackers salati, banana, mela grattugiata) (1,2,3,4). La terapia farmacologia della diarrea acuta ha come caposaldo la Loperamide e/o gli antispastici. La loperamide è al tempo stesso un antiperistaltico e un antisecretorio, non entra nel SNC e provoca scarsa dipendenza. Si può prescrivere con sicurezza solo se la diarrea è moderata, senza febbre elevata e senza sangue e/o pus. Infatti, questi farmaci possono rallentare l’escrezione dei microrganismi e delle loro tossine e in caso di colite diffusa da IBD all’esordio o da Clostridium Difficilis, possono provocare megacolon tossico (con mortalità elevatissima). Si possono inoltre utilizzare i probiotici e gli agenti addensanti (1,2,3,4). A prescindere dagli esami microbiologici o in attesa del loro risultato, la terapia antimicrobica empirica è appropriata nei seguenti casi selezionati: • febbre elevata. L’antibiotico di scelta nell’adulto è la ciprofloxacina, 500 mg per 2 volte al giorno per 3-5 giorni. • nel sospetto di Giardiasi (diarrea + gonfiore, flatulenza, nausea, eruttazioni sulfuree, durata di più di 7 giorni), impiegare metronidazolo 250 mg per 4 volte al giorno per 7 giorni. • nel sospetto di Campylobacter in soggetto proveniente dal Sud dell’Asia: i ceppi di Campylobacter presenti in tali aree sono sensibili all’ Eritromicina. Ovviamente se e quando perviene l’esito degli esami colturali si instaurerà la terapia antibiotica mirata. La terapia antibiotica è raccomandata per i seguenti microrganismi identificati: • Shigella (antibiotico di scelta: ciprofloxacina) • tutti i parassiti • diarrea del viaggiatore (ciprofloxacina o Bactrim o rifaximina) • Clostridium Difficilis / colite pseudomembranosa (antibiotico: metronidazolo) • Yersinia, se diarrea prolungata e/o ematica (antibioti co: fluorochinolonico o Bactrim o doxycyclina) • Salmonella, non sempre: non allevia la malattia e prolunga lo stato di portatore (se si attua, utilizzare un fluorochinolonico o il Bactrim) (1,2,3,4). Non sempre la diarrea da salmonella non tifoidea deve essere trattata con antibiotico. La batteriemia, con pericolo di diffusione in altri organi, si verifica, infatti, nel 2-4% dei casi di diarrea da salmonella e solo in questi il trattamento è certamente necessario. D’altra parte, bisognerebbe eseguire sempre delle emocolture, il che non è in pratica proponibile. Per porre indicazione all’antibioticoterapia nella
salmonellosi si adottano perciò criteri empirici, che sono: • 65 anni di età o più (alcuni autori abbassano a 50 anni questo limite); • malattie linfoproliferative e neoplastiche; • emoglobinopatie; • AIDS; • trapiantati; • cardiopatie vascolari; • protesi vascolari e protesi articolari; • artropatie degenerative; • paziente in terapia corticosteroidea o immunosoppres siva; • IBD (3,4). La terapia antimicrobica di una diarrea acuta è sempre indicata indipendentemente dall’identificazione della causa che, come si è visto, è ottenuta in una minoranza di casi, nel paziente immunocompromesso, debilitato, neoplastico, anziano, con cardiopatia valvolare, portatore di valvola cardiaca meccanica, con recente impianto vascolare, con protesi ortopediche, portatore di anemia emolitica (1,2). Non tratteremo la diarrea del viaggiatore. Ci limitiamo a ricordare che l’antibioticoprofilassi sistematica nel viaggiatore è controversa. Gli esperti optano per una profilassi in casi selezionati: pazienti con IBD, immunocompromessi, con emocromatosi, con acloridria gastrica (in genere a causa dell’impiego di inibitori di pompa protonica che non si possano sospendere temporaneamente in occasione del viaggio). Per la profilassi nel viaggiatore si impiegano gli stessi antibiotici utilizzati nella terapia, cioè ciprofloxacina, Bactrim, rifaximina. Un altro criterio per la profilassi della diarrea del viaggiatore potrebbe essere che il viaggio si svolga in paesi ad alto rischio di diarree infettive gravi ed un altro ancora, basato sul buon senso comune, è che il viaggio rivesta, per i più disparati motivi (di lavoro o di diporto), un’importanza molto elevata per l’individuo che lo intraprende e non può essere rovinato da un episodio diarroico, sia pur di breve durata. (1,2,3,4). Diarrea Cronica Il limite temporale che definisce una diarrea cronica è di 4 settimane. Ancor più che nella diarrea acuta, in quella cronica è importante tenere presente la classificazione in diarrea acquosa, steatorrea, diarrea infiammatoria (2,5,6). Il 75% delle diarree croniche può essere diagnosticato con un’anamnesi accurata e con l’esame obiettivo assieme ad alcuni esami di screening e altri mirati. Il 25% può richiedere ospedalizzazione (includendo ospedalizzazione breve in pronto soccorso, ove possibile o day hospital) ed esami più estesi (1). Nel condurre l’anamnesi in una diarrea cronica bisogna tenere presente i seguenti elementi: inizio, durata, fattori aggravanti (cibi) o allevianti (ad esempio il digiuno che orienta verso il malassorbimento), numero di evacuazioni,
Iter diagnostico e gestione clinica delle diarree nell’adulto quantità e caratteri delle feci, incontinenza, febbre, dolore addominale e sua sede, perdita di peso, farmaci impiegati per vari motivi, contatti, viaggi, familiarità per IBD o celiachia, familiarità per neoplasia del colon (1). Nell’eseguire l’esame obiettivo di un paziente con diarrea cronica, si deve porre particolare attenzione ai seguenti
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aspetti: stato di idratazione, nutrizione, sanguificazione, edemi, epatomegalia, masse addominali (M. di Crohn, neoplasia), linfoadenopatia, lesioni cutanee e mucose (IBD, celiachia), fistola perianale (M. di Crohn), artrite (M. di Crohn, S. di Reiter, M. di Whipple) (1).
A tal proposito si veda la tabella seguente:
Di fronte a una diarrea cronica, a differenza che nella diarrea acuta, eseguire esami di laboratorio e/o strumentali è d’obbligo. Gli esami di primo livello che noi proponiamo sono i seguenti: emocromo, VES, PCR, sodiemia e potassiemia, ALT, GGT, fosfatasi alcalina, creatinina, glicemia, TSH, anti-transglutaminasi, anti-HIV ed esami sulle feci (1,2,5). L’esito patologico di alcuni di essi permette talvolta di porre rapidamente diagnosi o almeno di orientare assai bene le fasi diagnostiche successive, circoscrivendo di molto la miriade di possibilità. Gli esami sulle feci sono gli stessi di cui si è detto a proposito della diarrea acuta, cioè la coprocoltura e l’esame parassitologico delle feci. Solo pochi degli agenti infettivi che provocano diarrea cronicizzano in una malattia intestinale, tuttavia essi possono sovrapporsi a una malattia cronica intestinale facendola peggiorare o fungere da fattore scatenante di una sua fase acuta, anche d’esordio (7). Inoltre in una diarrea cronica è utile la ricerca del sangue occulto nelle feci, solitamente riservato dal medico alla diagnosi di processi neoplastici. Infine, può essere utile l’esame microscopico delle feci per lo studio dei processi digestivi, tramite la colorazione Sudan III, per la diagnosi di malassorbimento lipidico e, quindi, di steatorrea. Come già detto nel paragrafo della diarrea acuta, purtroppo la ricerca microscopica dei “caratteri infiammatori” delle feci è considerato un esame obsoleto, in quanto si giudica la sua sensibilità scarsa, sia pur opportunamente potenziata tramite la colorazione dei leucociti con blu di
metilene. Oggigiorno se ne ha riscontro solo incidentalmente nel corso di un esame parassitologico, sempre che il laboratorista ritenga suo compito segnalare tale aspetto (dato che il quesito è un altro, è a sua discrezione). Tale esame è stato sostituito dal dosaggio nelle feci della calprotectina (un costituente dei neutrofili) con sensibilità del 60% e specificità dell’80-90%. Ad esempio, la calprotectina è positiva nelle IBD ma non nel colon irritabile (1,2), cosicché diventa possibile in molti casi evitare un inutile esame endoscopico in una persona peraltro in completo benessere, giovane e con negatività della ricerca del sangue occulto nelle feci. Dal punto di vista metodologico - diagnostico due affermazioni fondamentali devono essere tenute presenti: 1. è’ difficile confondere feci ematiche di una diarrea infiammatoria con una diarrea acquosa; 2. la diagnosi di diarrea acquosa rispetto a una steatorrea può essere fatta con accuratezza nell’80-95% dei casi (1). Anche il seguente prospetto può essere di aiuto alla diagnosi.
CARATTERI DELLE FECI RISPETTO A SEDE E CAUSA DELLA MALATTIA - scariche frequenti ma non molto abbondanti D malattia del colon più che del tenue - diarrea e tenesmo D coinvolgimento anale, rettale
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Alberto Frosi feci abbondanti e acquose D piccolo intestino feci untuose, abbondanti, che galleggiano, si lavano con difficoltà, con presenza di macchie d’olio D steatorrea sangue rosso vivo D patologia anale o rettale sangue misto a feci D malattia infiammatoria o neoplasia del colon diarrea e calo di peso D malattia organica (e non colon irritabile) calo di peso marcato D neoplasia del colon, IBD (M. di Crohn più che Colite Ulcerosa), malassorbimento
Ulteriori esami e gestione della diarrea cronica Una diarrea acquosa dopo il pasto, specie se con latte o latticini, con gonfiore addominale e crampi, che cessa a digiuno, in un giovane adulto per il resto sano, pone l’indicazione a eseguire un semplice test di eliminazione del lattosio dalla dieta e/o il breath test per l’intolleranza al lattosio (1,2). In generale, di fronte a una diarrea acquosa, bisogna chiedersi se risponde al digiuno. Se sì, orientarsi verso allergia o intolleranza alimentare, lattosio, fruttosio (succhi di frutta), sorbitolo (edulcorante artificiale), altro alimento o bevanda. Se no, pensare a precedenti interventi chirurgici sull’addome, una pregressa colecistectomia, diarrea da farmaci (ad esempio orlistat, acarbosio, metformina). Se invece c’è dolore prima dell’evacuazione che migliora dopo, con senso di evacuazione incompleta, la diagnosi più probabile è colon irritabile. Altre cause di diarrea acquosa da non dimenticare sono l’abuso di lassativi, denominabile anche diarrea factitia (Sindrome di Munchausen). A esserne vittima sono quasi esclusivamente donne, spesso infermiere, con disordini alimentari associati, con uso in più anche di diuretici ed i casi sono caratterizzati da marcata ipopotassiemia. Di una diarrea acquosa, ma non da malassorbimento, sono responsabili anche i tumori neuroendocrini, i quali richiederanno, se sospettati, un iter diagnostico specifico: dosaggio di acido 5-idrossiindolacetico urinario, cromogranina A, gastrina, fino ad arrivare a sottoporre il paziente a octreoscan. E’ importante infine ricordare che le coliti microscopiche sono “infiammatorie” ma danno spesso origine a diarrea acquosa! Se non sono eseguite biopsie in un colon dalla mucosa apparentemente normale esse non possono essere diagnosticate. Una diarrea osmotica con malassorbimento e steatorrea si diagnostica dalla presenza di feci oleose, positive al Sudan e induce ad eseguire le ricerche ematochimiche che documentino possibili vari tipi di malassorbimento, cioè: attività protrombinica, elettroforesi, ferro, acido folico, vitamina B12, anti-transglutaminasi, test allo xilosio e a completare lo studio del caso con ecografia dell’addome (o TC se ecografia non dirimente), per evidenziare pos-
sibili anomalie del pancreas. Il passo successivo prevede gastroscopia con visione e biopsia del duodeno distale; se negativa, indagare il pancreas più approfonditamente con TC con mezzo di contrasto e/o RM. Se non si perviene alla diagnosi il passo successivo è il clisma del tenue e/o l’enteroscopia con videocapsula. In presenza di diarrea infiammatoria ed altri elementi che orientino verso IBD, è necessario procedere a colonscopia, meglio se con ileoscopia retrograda e biopsie multiple in varie sedi. L’aspetto istologico permette sempre (o quasi) di differenziare una IBD da una diarrea infiammatoria infettiva. Anche la colite ischemica ha un’istologia tipica. La diagnosi di colon irritabile si fa per esclusione. Ecco di seguito un semplice prospetto ad hoc.
Nel COLON IRRITABILE escludere: • malassorbimento a lattosio, fruttosio • coliti microscopiche • malassorbimento di acidi biliari • ipersensibilità ai cibi • diarrea postinfettiva • celiachia • giardiasi (1). Casi particolari, che però non possono essere ignorati perché frequenti, sono la diarrea del cirrotico e delle biliopatie, da insufficienza biliare, che dà origine a steatorrea; la diarrea della post-colecistectomia (tende a regredire spontaneamente e spesso risponde alla colestiramina); la diarrea dell’alcolista, che è a sua volta di due tipi diversi, da “sbornia” dovuta a danno mucoso acuto reversibile prodotto dalle elevate quantità di alcol ingerito e che dura al massimo 1 giorno e la diarrea da alcolismo cronico dalla patogenesi più complessa, legata a insufficienza biliare e/o pancreatica, a transito accelerato e che regredisce più lentamente con l’astinenza. Infine è molto frequente la diarrea del diabetico, a sua volta da neuropatia autonomica, nel diabete tipo 1 e tipo 2 non controllati, di difficile trattamento (in tali casi considerare terapia con octreotide, clonidina) e la diarrea da metformina, osservabile nel diabete di tipo 2 in terapia con tale farmaco e che è la causa più frequente di diarrea nel diabetico (1). Terapia della diarrea cronica La terapia della diarrea cronica, diversamente che nell’acuta, deve essere il più possibile eziologica. Dunque, anche per questo si richiede un maggior impegno diagnostico rispetto alla diarrea acuta. Schematicamente, si distinguono tre tipi di trattamento. Il primo è il trattamento curativo di cui sono esempi la resezione chirurgica di una neoplasia, la terapia antimicrobica nel caso di un’infezione, la sospensione o sostituzione
Iter diagnostico e gestione clinica delle diarree nell’adulto
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di un farmaco nella diarrea da farmaci. Il secondo tipo di trattamento volto al controllo della condizione patologica, quando non sia possibile rimuoverne la
causa in modo definitivo, è schematizzato nella sottostante tabella che prende in considerazione alcune condizioni.
Infine, si considera un trattamento empirico, quando l’eziologia sfugge o come sintomatico. Esso contempla l’impiego di loperamide e antispastici che, come già ricordato, sono controindicati nella diarrea ematica, specie se non ancora indagata con colonscopia, e nelle IBD gravi; cautela anche nella diarrea del viaggiatore grave e nella colite da antibiotici. Anche i probiotici rientrano nel trattamento empirico delle diarree (1,2). Conclusioni Di fronte a una diarrea cronica vi sono tre diverse strategie gestionali: 1. programmare fin dall’inizio una serie estesa di esami; 2. attuare un trattamento empirico d’amblée;
3. tentare di “categorizzare”, tipizzare la diarrea (acquosa, steatorrea, infiammatoria, segni/sintomi associati, ecc.), per restringere il campo eziologico ed evitare esami inutili, a volte molto costosi, spesso invasivi. Valutiamole brevemente, una per una. 1. La prima opzione è nella maggior parte dei casi impra ticabile perché troppo onerosa (per molti esami la probabilità pre-test è molto bassa); 2. puntare sul trattamento empirico non è scorretto purché, sulla base della storia, esame obiettivo e alcuni semplici test, si sia ragionevolmente sicuri di aver escluso malattie gravi o potenzialmente tali o ancora condizioni per cui esistano terapie specifiche e dunque si pensi a condizioni funzionali o autolimitantesi; 3. il tentativo di tipizzare la diarrea appare probabilmente la miglior strategia in molti casi (6).
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Il Bassini - Volume XXX - Gennaio-Giugno 2010
LAVORO ORIGINALE
LA DIAGNOSI DI APPENDICITE ACUTA È ANCORA UNA SFIDA? Bruno Sala U.O.S. Dipartimentale di Chirurgia d’Urgenza e Pronto Soccorso, Presidio Ospedaliero “E. Bassini,” Azienda Ospedaliera Istituti Clinici di Perfezionamento Milano
Riassunto Generalmente si ritiene che la leucocitosi sia sinonimo di appendicite acuta. Basta però consultare le ultime edizioni di noti testi di Medicina e Chirurgia d’urgenza dedicati all’appendicite acuta per rendersi conto che la leucocitosi non dovrebbe mai essere l’unico fattore decisionale per porre indicazione all’intervento chirurgico. Nonostante le innovazioni tecnologiche (laparoscopia) e nuove metodiche radiologiche la diagnosi di appendicite acuta nei tempi ottimali per ridurre le complicanze soprattutto nei pazienti molto giovani o anzianii può ancora rappresentare una sfida. Abstract Leukocytosis in acute appendicitis is still a challenge? Leukocytosis is generally considered as being a synonym of acute appendicitis,but recent editions of well-known texts in emergency medicine and surgery dealing with the subject of acute appendicitis show that leucocytosis should never be the only factor when deciding on carryng out a surgical procedure. In spite of technological innovations (laparoscopy) and new radiological methods, the timely diagnosis of acute appendicitis required to reduce complications above all in elderely patients,still represents a challenge. Parole chiave: Appendicite acuta – Leucocitosi nell’appendicite acuta Key words: Acute appendicitis – Leukocytosis in acute appendicitis Introduzione Generalmente si ritiene che la leucocitosi sia sinonimo di appendicite acuta. Consultando però le ultime edizioni di noti testi e leggendo i capitoli dedicati all’appendicite acuta ci si rende conto che questo non è sempre vero. A riprova di quanto detto,di seguito si riportano alcuni passi salienti di tali testi. Harrison’s : “ La leucocitosi non dovrebbe essere mai l’unico fattore decisionale per porre indicazione o meno all’intervento chirurgico... Una conta normale dei globuli bianchi non è un rilievo raro in casi di perforazione di visceri addominali “ E ancora “ Sebbene una leucocitosi moderata ( 10.00018.000 con neutrofilia ) sia frequente , l’assenza di leucocitosi non esclude una appendicite acuta.
Tintinalli et al. : “ La conta dei globuli bianchi è di valore limitato. La sensibilità di un valore di leucociti superiore a 10.000 nell’appendicite acuta è del 70-90 %, ma la specificità è molto bassa “. Rosen’s “ Circa l’80-90 % dei pazienti con appendicite acuta ha una conta superiore a 10.000. Questa è però inferiore negli anziani e nei pazienti molto giovani. Harwood-Nuss : “ L’appendicite acuta è classicamente associata a leucocitosi con neutrofilia. In un ampio studio , nell’88% dei pazienti adulti con appendicite acuta era presente una conta superiore a 10.000 … ma circa il 10% dei soggetti con appendicite acuta ha una conta dei bianchi normale e assenza di neutrofilia “ . L’infiammazione acuta dell’appendice, dopo circa 130 anni dalla sua prima rimozione ad opera di Lawson Tait e la coniazione del termine “ appendicite “ da parte di Reginald Fitz al primo meeting dell’Association of American Physicians, rimane ancora un notevole problema gravato da una certa percentuale di errori diagnostici. Nonostante il progresso culturale, le innovazioni tecnologiche ( laparoscopia ) e l’introduzione di nuove metodiche diagnostiche ( soprattutto radiologiche ), la diagnosi di appendicite acuta nei tempi ottimali per ridurre le complicanze, può ancora rappresentare una sfida. Da una parte, la mancata diagnosi si verifica in almeno il 20% dei casi e, dall’altra, nel 15 - 40% dei pazienti sottoposti ad appendicectomia, l’analisi istologica rileva un quadro di normalità. Alcuni testi riportano una accuratezza diagnostica con i soli criteri clinici pari al 75-80% per i medici esperti e reputano più prudente sbagliare nel senso di una over-diagnosis piuttosto che ritardare l’intervento. Il ritardo della diagnosi è, infatti associato ad un aumento delle perforazioni e questo, a sua volta, a un aumento drastico di morbilità e mortalità. L’incidenza di complicanze, inoltre, dopo rimozione di una appendice normale è del 3% circa , ma arriva fino al 9-12% dopo la perforazione . La mortalità, che nelle appendiciti non complicate è inferiore allo 0,1% , sale notevolmente se si verifica la perforazione : 1,66% secondo uno studio che confronta la mortalità con il quadro chirurgico.( 18 ) Se poi, si analizzano i “ gruppi a rischio “ i valori di mortalità aumentano. Secondo l’Harrison’s,infatti, la mortalità nei pazienti anziani con appendice perforata è pari al 15% , ma secondo altri Autori si arriva al 30% in soggetti con età superiore a
La diagnosi di appendicite acuta è ancora una sfida? 70 anni ed appendicite acuta gangrenosa. ( 8 ) La diagnosi dell’appendicite acuta rappresenta quindi un problema in considerazione delle possibili gravi complicanze in caso di ritardo o errore nel suo riconoscimento, dal momento che nessun esame radiologico (compresa la tac ) o di laboratorio ha una sensibilità pari al 100%. Epidemiologia L’appendicite rappresenta una delle malattie più frequenti in generale ed è la prima causa di addome chirurgico. Colpisce entrambi i sessi a tutte le età, ma soprattutto nella II e III decade di vita. Nei neonati è piuttosto rara a causa della scarsità di tessuto linfatico. Dopo la pubertà e fino all’età adulta, prevale nel sesso maschile. Circa il 7 % della popolazione nel mondo occidentale va incontro ad un attacco appendicolare e l’1% subisce un intervento di appendicectomia. La malattia è invece, poco diffusa in Africa ed Asia. In Italia si praticano circa 60.000 interventi l’anno di appendicectomia. Anatomia L’appendice è una piccola struttura tubulare collegata alla parte inferiore e mediale del cieco 2 o 3 centimetri al di sotto del punto in cui termina l’ileo. E’ anche chiamata vermiforme per la somiglianza con un lombrico. Ha una lunghezza variabile da 2-3 cm fino a 25 cm. La superficie è rosea-grigiastra, liscia ed uniforme, ma in caso di infiammazione l’appendice assume un colore rosso vivo o violaceo e si presenta tumefatta. A livello istologico è formata da una tonaca sierosa,una muscolare, una sotto-mucosa ed una mucosa. La sua caratteristica consiste nella presenza di abbondante tessuto linfatico nello strato sotto-mucoso. Reperi Chirurgici : L’appendice ha un rapporto fisso con le tenie che decorrono in senso longitudinale lungo il cieco. Seguendo verso il basso la tenia anteriore si raggiunge la base di impianto dell’appendice. Ha un rapporto costante con il cieco: ha origine sempre sul suo versante infero- mediale subito al di sotto dell’angolo ileo-ciecale ed essendo solidale con il cieco ne segue le anomalie di posizione. Di conseguenza, oltre che in fossa iliaca destra, può trovarsi più in alto in sede sottoepatica o in fossa iliaca sinistra. Nei casi in cui il viscere è lungo può anche essere ascendente (10-15 % dei casi) e decorrere posteriormente al cieco (retrociecale) fino al fegato oppure può essere discendente (50 % dei casi) e, quindi, penetrando nella pelvi può avere rapporto con gli organi ivi presenti (vescica, utero, ovaio , retto). Può essere laterale (20-25 % dei casi) ed essere rivolta verso la spina iliaca anteriore oppure essere mediale (10-17 % dei casi) e rivolgersi verso la cavità addominale, tra le anse intestinali.
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Fisiopatologia L’appendicite acuta è una infiammazione che ha origine da una ostruzione del lume con un progressivo aumento della pressione endoluminale, per l’ininterrotta produzione di secrezioni all’interno del viscere. In questa prima fase della infiammazione appendicolare, il meccanismo algogeno consiste nella distensione del viscere con conseguente stimolazione delle fibre afferenti che entrano nel midollo a livello della X vertebra toracica. Esiste, quindi, una fase iniziale in cui il dolore è di tipo viscerale ( mal definito , talora anche crampiforme e con iperperistalsi , per lo più riferito nell’area periombelicale ed epigastrica ) e si associa a sintomi neurovegetativi, quali anoressia, nausea e vomito. Il periodo del dolore viscerale dura solitamente circa 4-6 ore, ma può anche non essere riportato in anamnesi se , ad esempio, si è verificato durante il sonno. E’ facile comprendere che in questa fase vi è il rischio di maggiori errori diagnostici , anche perché i pazienti possono riferire una indigestione o lo stimolo a defecare con meteorismo e altri disturbi gastrointestinali che, soprattutto nelle categorie a rischio, sono molto comuni. In seguito nella seconda fase, si arriva ad un punto in cui la pressione endoluminale raggiunge e supera la pressione di perfusione del circolo venoso, determinando ischemia, lesione della parete con invasione da parte della flora batterica e conseguente irritazione delle strutture circostanti la parete appendicolare. In questo stadio vengono stimolate le fibre somatiche che innervano il peritoneo : il dolore assume le caratteristiche del dolore somatico e tipicamente “ migra “ , localizzandosi a livello del quadrante addominale inferiore destro . La terza ed ultima fase, rappresenta l’evoluzione naturale del processo non curato che esita in gangrena e necrosi. Segue un indebolimento della parete del viscere, disteso dall’ipertensione endoluminale, che può determinare la perforazione del viscere con liberazione all’interno del peritoneo del contenuto appendicolare infetto e con conseguente ascesso localizzato o peritonite diffusa. Il tempo che intercorre tra l’inizio dei sintomi e la perforazione è abbastanza variabile ( bambini ed anziani si perforano più facilmente e prima), ma in genere è pari a circa 24-36 ore. Sintomatologia Il quadro classico che deriva da una tale evoluzione fisiopatologica nel caso l’appendice si trovi nel quadrante inferiore destro, prevede quindi un esordio con dolore periombelicale od epigastrico, seguito da anoressia, nausea e vomito, e successiva migrazione del dolore in fossa iliaca destra . Può comparire anche febbricola e di leucocitosi neutrofila. Questo quadro clinico” ideale “ si verifica in realtà solo nel 50-60 % dei casi, secondo l’Harrison’s . L’appendice non sempre si trova dove ci aspettiamo che sia La “sede anatomica “ è, infatti, importante sia per la presentazione clinica sia per il rischio di sviluppare la patologia; cosi’ il Rosen , riportando i risultati di uno studio su 10.000 autopsie in cui l’appendice risultava retrociecale
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Bruno Sala
nel 65% dei soggetti e pelvica nel 31% , fa notare come tale rapporto sia quasi invertito rispetto a quello che si trova nei pazienti sottoposti ad appendicectomia . Sembra , infatti, che la posizione retrociecale rendesse meno probabile l’ostruzione . Effettivamente in uno studio condotto su 71.000 appendici rimosse chirurgicamente risulta che la sede retrociecale è presente solo nel 26% dei casi ed il quadrante superiore destro è interessato dalla sintomatologia solo nel 4% dei casi. (19) Con la localizzazione retrociecale è possibile che il dolore venga riferito non all’addome ma al fianco destro o, nei maschi, si irriti l’uretere con dolore testicolare. Se aggiungiamo che l’esame delle urine può essere positivo per leucociti e che nell’appendicite pelvica abbiamo anche dolore sovrapubico , stranguria e pollachiuria , oltre che tenesmo rettale derivante dalla irritazione del retto, la sfida di competenza tra chirurghi ed urologi può inasprirsi ulteriormente. Diagnosi Nei pazienti con dolore addominale che accedono ad un Dipartimento di Emergenza , la probabilità pre-test di appendicite è di circa del 10-25 %, ma pochi elementi dell’anamnesi ed esame obiettivo hanno un likelihood ratio (LR) positivo di sufficiente potenza da porre indicazione ad un approfondimento diagnostico radiologico. (3) Quando ci avvaliamo invece del likelihood negativo per escludere la diagnosi di appendicite la situazione migliora, ma nessun elemento clinico da solo è comunque sufficientemente accurato per escludere o porre la diagnosi di appendicite. Nell’anamnesi il dolore addominale è presente praticamente nella totalità dei pazienti:è epigastrico all’esordio nel 74% dei casi e migra nel quadrante addominale inferiore destro (Q.I.D.) in circa la metà/ un terzo dei casi. La maggioranza dei pazienti, però, non ha mai avuto un dolore simile e questo dato anamnestico ha una importante rilevanza per escludere la diagnosi ( episodi pregressi con analogo dolore , LR negativo). In una metanalisi la sensibilità e specifità del dolore nel Q.I.D. erano rispettivamente dell’81% e 53 % , con un aumento della specificità all’82% (ovviamente accompagnata da una riduzione della sensibilità al 64 %) quando era presente anche la migrazione tipica del dolore ; LR positivo pari a 8 per il dolore addominale nel Q.I.D. , ed a 3 per la migrazione. (3) Tipicamente al dolore addominale seguono e non precedono anoressia , nausea e vomito. L’anoressia si accompagna a vomito o nausea rispettivamente nel 78 % e 54 % dei pazienti, ed è il sintomo più comune dei tre essendo presente in circa il 90% dei pazienti, con una sensibilità del 68 % ed una specificità del 36 %. Anche i rilievi obiettivi dipendono dal timing di osservazione del paziente. Nelle fasi iniziali può essere presente una dolorabilità localizzata. Il segno più affidabile è la dolorabilità al Q.I.D. , presente quasi nella totalità dei casi di appendicite. Con l’evoluzione del processo dovrebbero comparire i se-
gni tipici: dolorabilità alla palpazione profonda sul punto di McBurney , segno di Rovsing (dolore riferito in Q.I.D. durante la palpazione in altra sede) , positività al test del rimbalzo . Il rebound test (test del rimbalzo o manovra di Blumberg) che si esegue applicando una pressione graduale per 5-10 sec sopra l’area di dolorabilità per poi togliere rapidamente la mano , mostra un LR positivo e negativo con valori quasi pari ad 1 , quindi non utile ai fini diagnostici. (4) Il riscontro, invece, di rigidità addominale ( presente nel 30% dei casi), implica solitamente una seria patologia sottostante e mostra un LR positivo pari a 3,76. Al dolore addominale fa seguito , in un certo numero di pazienti , la comparsa di febbre. La febbre, comunque, è un rilievo tardivo, e nelle fasi iniziali è probabile che il nostro paziente abbia una temperatura normale e, quando presente, è solitamente di basso grado e quando supera i 38,3 è suggestiva di perforazione . Nella pratica clinica,la febbre è considerata un elemento clinico affidabile, ma in realtà dai dati provenienti da oltre 2000 pazienti ,risulta essere solo il V segno in ordine di frequenza: è presente solo nel 16% dei casi non perforati e nel 39,6% dei casi dopo la perforazione. (20) In una Review su dieci studi diversi in cui si valutavano 13 tra segni e sintomi, fra tutti solo il dolore in Q.I.D., la rigidità addominale e la migrazione tipica avevano un LR positivo elevato in grado di identificare i pazienti con appendicite acuta. (12) Meno probabile invece la diagnosi , quando il dolore è presente da oltre 48 ore, dolori pregressi analoghi, assenza di dolore in Q.I.D. e di migrazione , e l’assenza di equivalenti del test al rebound. Il medico, deve cercare di porre la diagnosi di appendicite acuta semplice, prima della evoluzione in perforazione, dato che, il ritardo delle cure comporta un aumento delle complicanze in generale (infezioni locali,ascessi intra-addominali, ostruzioni del piccolo intestino,polmoniti, ritenzioni ed infezioni urinarie). Complicanze inoltre tardive possono essere peritoniti generalizzate,sepsi con esito di infertilità per ostruzione delle tube di Falloppio. La perforazione raramente si verifica prima di 24 ore dall’esordio dei sintomi, ma dopo 48 ore la percentuale può arrivare anche all’80 %. L’incidenza della perforazione è variabile con una media del 20-30 % con notevole aumento nelle età estreme. Almeno un 20 % dei pazienti con appendicite acuta sfugge alla clinica del medico esperto; d’altra parte, a colmare questa lacuna intervengono gli strumenti diagnostici, quali l’ecografia addominale e talora la Tac spirale dell’addome. Ai fini diagnostici, tra gli esami ematochimici, è di valore limitato la conta dei leucociti per la scarsa specificità ed ,inoltre, la leucocitosi così come la neutrofilia può essere assente nel 10% dei soggetti con appendicite acuta . Di solito, comunque, una conta leucocitaria con valori superiori a 20.000 si osserva nelle perforazioni dei visceri, ma può essere presente una perforazione con leucociti normali.
La diagnosi di appendicite acuta è ancora una sfida? La sensibilità della proteina C- reattiva , varia dal 40 al 99 % . Cardall et al.(2004 ) sulla rivista Academic Emergency Medicine affermano che una leucocitosi con valori > a 10.000, anche se statisticamente associata con la presenza di appendicite, ha una sensibilità e una specificità molto scarse ed è priva di utilità clinica. (15) Nei 92 pazienti con diagnosi di appendicite acuta confermata , infatti, la sensibilità era del 76% e la specificità era del 52 % con un LR positivo era pari a 1,59 e l’LR negativo era pari a 0,46 %. Gli stessi autori valutando il valore diagnostico della temperatura ottengono risultati ancora peggiori : LR positivo di 1,3 e LR negativo di 0,82. Nguyen et al (2005) ribadiscono la stesso concetto . (16) Dati gli errori diagnostici frequenti , si è diffusa la pratica comune di osservare il paziente, talora utilizzando le Unità di Breve Osservazione , con l’intento di migliorare l’accuratezza diagnostica. L’abitudine di ripetere il dosaggio dei leucociti senza una rivalutazione dell’esame obiettivo, non ha alcun senso. La letteratura recente indica che nella maggioranza dei casi di appendicite acuta una diagnosi accurata può essere fatta con esami obiettivi seriati (17) ed in una review recente di 12 studi , utilizzando un periodo di osservazione nei pazienti con quadro dubbio limita al 6% la percentuale di appendicectomie negative senza alcun aumento dell’incidenza di perforazioni. (4) La diagnosi differenziale con le malattie dell’apparato urinario è frequente, e spesso si richiede un test sulle urine .In uno studio su pazienti con appendicite istologicamente confermata , il 30 % aveva una anormalità all’esame delle urine (piuria, ematuria e batteriuria), anomalie che salivano fino la 50 % quando l’appendice era in sede retrociecale o pelvica. In particolare, un’appendice con flogosi che sta irritando l’uretere può determinare una lieve piuria .(21) Se invece, la piuria è importante ci orienteremo verso una patologia del tratto urinario. Indicazioni utili sulla Gestione dei pazienti con sospetta appendicite acuta I pazienti dei gruppi ad alto rischio sono costituiti dai pazienti con dolore addominale e sono rappresentati da anziani , gravide , bambini , immunocompromessi . Dal momento che solo il 20 % dei soggetti con età superiore a 60 anni l’ appendicite mostra un quadro clinico tipico, in questa fascia di età, gli errori diagnostici possono superare il 50 % , con una percentuale di perforazione che va dal 40 al 70 %. In una case series solo il 51 % dei soggetti con età superiore a 60 anni e diagnosi di appendicite acuta provata aveva ricevuto la giusta diagnosi nel Dipartimento di Emergenza (3). La mortalità degli anziani è pari a 23 volte quella dei soggetti adulti non anziani e la probabilità di perforazione è tre volte superiore a quello della popolazione generale . Elementi classici quali il dolore e la dolorabilità nel Q.I.D. , la migrazione del dolore , il rebound e la resistenza sono presenti in misura assai variabile e solo la dolorabilità al
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fianco destro rimane ancora frequente (80-90 %) . La diarrea ed i disturbi urinari non escludono la diagnosi, la febbre è assente in un terzo dei casi ed i dati di laboratorio possono essere fuorvianti (la maggior parte degli studi indica che almeno il 20 % dei pazienti ha valori dei G.B < a 10.000 e fino al 17 % degli anziani con appendicite acuta mostra un aumento della bilirubina (che può confondere). Appena il 20 % degli anziani con appendicite acuta presenta febbre , nausea , vomito , dolorabilità al Q.I.D. e leucocitosi. Alcuni pazienti possono esordire con una occlusione intestinale causata da una sindrome aderenziale secondaria a una appendice acuta perforata. Nelle donne in stato di gravidanza , l’appendicite rimane l’urgenza chirurgica addominale extrauterina più frequente , con un notevole incremento della mortalità fetale (fino a 4 volte più elevata in caso di perforazione e peritonite e con un 20 % di aborti in caso che la perforazione abbia avuto luogo) . Il rischio di appendicite non è diverso da quello della popolazione generale e si verifica in un caso ogni 1000 gravidanze . I cambiamenti fisiologici rendono la diagnosi difficile, soprattutto nel II e III trimestre, perché l’appendice si sposta nel quadrante superiore destro e la mortalità per appendicite è più elevata. L’eccesso di steroidi limita le normali risposte alla flogosi ed i disturbi iniziali sono identici a problemi gastro-intestinali che le donne possono avere già di base. Inoltre la leucocitosi è comune in gravidanza. In generale i dati indicano che le donne (non gravide) che presentano una sintomatologia suggestiva per appendicite acuta il 45 % ha in sala operatoria un reperto normale, e circa 1/3 di quelle con appendicite acuta vera riceve inizialmente una diagnosi errata. Terapia La terapia dell’appendicite acuta è esclusivamente chirurgica e l’orientamento attuale è quello di intervenire precocemente. L’intervento può essere eseguito con una tecnica tradizionale “aperta “ o con quella “ chiusa mini-invasiva più recente. Tecnica aperta ( open ) -Incisione sec. MacBurney : piccola incisione obliqua che passa nel punto di di McBurney: consente un rapido accesso alla fossa iliaca destra ed una ricostruzione della parete addominale con ottimi risultati estetici .Ha lo svantaggio che in caso di posizione anomala del cieco o dell’appendice, dà una scarsa visibilità e deve essere allargato con risultati estetici scarsi. -Incisione sec. Sprengel (incisione longitudinale eseguita lungo il margine esterno del muscolo retto di destra): offre una ottima esposizione ed in caso di difficoltà può essere allargato senza difficoltà. Richiede una ricostruzione della parete più lunga e viene di solito utilizzata nei casi di appendicite complicata. -Incisione mediana ombelico-pubica (ampia incisione che dall’ombelico scende fino a pochi cm dalla sinfisi pubica):
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Bruno Sala
è utilizzata nel caso di dubbio diagnostico o quando si prevede di intervenire anche sugli organi pelvici. Tecnica chiusa (laparoscopica ) Questa tecnica implica una minore invasività ed un decor-
so post-operatorio più rapido. Offre,inoltre la possibilità di esplorare tutta la cavità addominale e di intervenire in eventuali patologie concomitanti. Un limite può essere l’appendicite complicata .
Bibliografia 1) Silen W. Abdominal pain. Cap 14 in : A.A.VV: Harrison’s Principles of Internal Medicine. 15th ed.McGrawHill, New York, 2002. 2) Silen W. Acute appendicitis. Cap. 291 in AA.VV Harrison’s Principles of internal Medicine. 15 th ed. McGrawHill, New York, 2002. 3) Acute appendicitis .Cap.78 in . Tintinalli JE. Emergency Medicine: a comprensive study guide 6 th ed. McGrawwHill, New York , 2004 4) Acute appendicitis . Cap 92 in : AA.VV. Rosen’s Emergency Medicine: concepts and clinical practice. 5 th ed. Mosby, St. Louis, 2002. 5) Acute appendicitis. Cap. 68 in Harwood-Nuss AL. et al. Clinical Practice of Emergency Medicine. 4 th ed. JB. Lippincott, Phliladelphia, 2005. 6) SealA. appendicitis.Ahistorical review. Can J Surg 1981 ; 24: 427. 7) McColl I. More precision in diagnosis appendicitis. New Engl J Med 1998 ; 338: 190. 8) Franz M, Norman J, Fabri PJ. Increased mortalità of appendicitis with advancing age. Am Surg 1995; 61: 40. 9) Chung JL et al . Diagnostic value of c-reactive protein with perforated appendicitis. Eur J Pediatr. 1996 ; 155: 529. 10) Watters JM et al . The influence of age on severity of peritonitis . Can J Surg 1996 ; 39 : 142. 11) Wakely CPG. The position of vermiform appendix as ascertaneid by analysis of 10.000 cases. J Anat 1933 ; 67: 227.
12) Wagner J et al . Does this patient have appendicitis? JAMA 1996; 276: 1589. 13) Vemeulen B. et al . Influence of white cell count on surgical decision making in patients with abdominal pain in the right lower quadrant. Eur J Surg 1995 ; 161 : 483. 14. Snyder BK. et al . Accuracy of leukocyte count in diagnosis of acute appendicitis .Ann Emerg Med 1999 ; 33 : 565. 15) Cardall T et al . Clinical value of the total white blood cell count and temperature in the evalutation of patients with suspected appendicitis. Acad Emerg Med 2004; 11 (10): 1021-1027. 16) NguyenAVT et al : Learning from medical errors. Clinical problems. Radcliffe Publishing Oxford, 2005. 17) Jones Pf. Suspected acute appendicitis : Trends in management over 30 years : Br J Surg 2001 ; 88 : 1570. 18) Velanovich V. et al. Balancing the normal appendi cectomy rate with the perforated appendicitis rate: implications for quality assurance. Am Surg 1992; 58:264. 19) Collins DC. 71,000 human appendix specimens. A final report, summarizing forty years study. Am J Proctol 1963; 14:365. 20) Pieper R. et al. acute appendicitis: a clinical study of 1018 cases of emergency appendicectomy. Acta Chir Scand 1982; 148: 51-52 21) Puskar D. et al . Urinalysis, ultrasound analysis and renal dynamic scintigraphy in acute appendicitis. Urology 1995; 45:108.
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ASPETTI MEDICO-LEGALI
LA CONTENZIONE NELL’ANZIANO E NEL PAZIENTE COMPLESSO: evoluzione etica verso una più ampia tutela della persona. Antonio Flores Specialista in Medicina Legale, Presidente Comitato Etico Indipendente, Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo di Melegnano
Riassunto Vengono analizzati i principi giuridici ed i riflessi medicolegali della contenzione nel paziente non autosufficiente, vero e proprio atto terapeutico-preventivo della persona non autosufficiente. Abstract Juridical and medico-legal aspects of preventive devices and contention of aged and complex patients are analysed. Parole chiave: Dispositivi di protezione; Gestione del rischio; Medicina Legale Key words: Protective devices; Risk management; Legal medicine La presente nota trae spunto da un recente convegno sulla figura dell’Amministratore di sostegno e gli strumenti di protezione, tenutosi presso la Fondazione Castellini di Melegnano lo scorso settembre (**). In tale sede la seconda sessione di lavori ha approfondito, con l’intervento di bioeticisti e di chi scrive, gli aspetti, umani, etici e giuridici della contenzione protettiva nel paziente complesso, atto di necessaria prevenzione e protezione del paziente non in grado di autoproteggersi da un rischio di possibile danno alla sua integrità fisica, già per altro minata da complessi morbosi ed invalidanti. La contenzione del paziente richiama immediatamente la classica immagine del paziente psichiatrico, potenzialmente etero ed auto-aggressiva e anche paradigmatica per improvvisi ed inconsulti gesti e comportamenti produttivi di pericolo per sé e per gli altri. L’uso dei mezzi di contenzione fisici e/o chimico-farmacologici ha sempre suscitato interrogativi etici e clinici, cui spesso si è risposto in modo semplicistico o paternalisticoprotettivo. Il riferimento prevalente al malato di mente non esclude per altro che esistano nella pratica clinica più ampie ipotesi di condizioni per cui si renda necessario il contenere il paziente onde evitare l’accadere di un maggiore danno,
ad esempio, per una caduta dal letto. Ben segnala Canepa (1) come vi possa essere l’obbligo clinico di contenere un paziente non necessariamente malato di mente, ma in condizioni cliniche, come nel caso di anziani o invalidi, foriere di un rischio di prodursi lesioni, come appunto, a seguito di una caduta dal letto. Chi scrive gia ha avuto occasione (2) di proporre alcune considerazioni sull’argomento e qui si proporranno alcune riflessioni giuridiche e sostanzialmente pratiche per meglio illustrare le possibili condizioni cliniche che possano rendere necessaria e umanamente accettabile e terapeuticamente utile la contenzione del paziente. L’utilità terapeutico-preventiva è infatti, seppur di non frequente necessità, la chiave interpretativa del trattamento contenitivo. Appare qui utile richiamare l’amarezza di un medico psichiatra e di una infermiera professionale, da lungo impegnati in un reparto clinico psichiatrico, nell’esprimere la loro impotenza tecnica o meglio “ …il vivere come impotenza i limiti intrinseci alle possibilità terapeutiche “ (3). E certo questo è umanamente vero in quanto il procedere alla azione contenitiva è indubbiamente una soluzione imposta da una limitazione delle possibilità terapeutiche, ma spesso anche da anomalia comportamentale del paziente, cui il clinico ed il suo pur valido ausiliare non sono in grado di porre rimedio se non con un atto di forza, che può nascere da una sensazione di paura umana prima che strettamente clinica. L’analisi e l’interpretazione clinica del trattamento contenitivo può portare, anche sotto il profilo giuridico, alla sua legittimazione e liceità. Sotto tale profilo possono quindi essere valutati pazienti anche non strettamente psichiatrici, nei quali un transitorio turbamento psichico, quale uno stato confusionale del tutto indipendente da una condizione di stretta natura psichiatrica, può indurre una condizione di reale rischio di possibile evento dannoso. In tale situazione può essere riconosciuta clinicamente e tecnicamente la lecita facoltà di ricorrere alla contenzione del paziente, solo che la si consideri quale trattamento di necessità terapeutica, extrema ratio, quando altri mezzi
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Antonio Flores
non siano realisticamente ed utilmente proponibili, ovvero in casi definibili eccezionali (4). Elemento di eccezionalità clinica per altro già si trova espresso nella ormai antica normativa degli inizi del secolo scorso, di cui al Regolamento manicomiale del 1909 (R.D. 16 agosto 1909, n. 615 Regolamento per l’esecuzione della legge 14 febbraio 1904, n.36 sui manicomi e sugli alienati). All’articolo 60 si precisava infatti come “ Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura del mezzo di coercizione “. Concetto di eccezionalità che spesso viene individuato in uno “ stato di necessità “, inteso semplicisticamente come un insieme di circostanze, che impongono per forza una determinata condotta. In tal senso si deve invece ben richiamare e sottolineare il significato giuridico di “stato di necessità”, come delineato all’art. 54 del Codice Penale. Articolo che così precisa al primo comma : “ Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo “. Ai fini della liceità giuridica di un comportamento esimibile per stato di necessità deve rendersi evidente il concorso di vari requisiti, alcuni dei quali concernenti la condizione di pericolo, altri l’azione lesiva, come ben delineati e rappresentati da Antolisei nel suo fondamentale Manuale di Diritto Penale (5). La condizione di pericolo può quindi meglio delinearsi con i seguenti requisiti: a) b) c) d)
pericolo attuale ovvero la concreta possibilità che si verifichi l’evento temuto; il pericolo deve consistere in un danno alla persona ovvero cioè in primo luogo alla vita e alla sua integrità fisica; il danno deve avere requisiti di gravità oggettiva e non mera opinione dell’agente condizione di pericolo in cui l’agente non deve porsi di propria volontà.
Per quanto attiene l’azione essa deve avere i requisiti di : a) essere assolutamente necessaria per la salvezza propria e altrui, ovvero il pericolo non deve essere altrimenti evitabile se non con quell’azione o con altri mezzi ; b) essere proporzionata al pericolo così che il danno arrecato non possa essere maggiore di quello minacciato. Applicando queste caratteristiche alla specifica condizione della contenzione si possono proporre alcune considerazioni. Innanzitutto si deve equiparare il concetto di eccezionalità quale presupposto della contenzione a quello di stato di
necessità, ammettendo quindi che immobilizzare una persona privandola della sua libertà sia un reato. Il fatto-reato della contenzione non sarebbe quindi punibile solo al ricorrere di tali requisiti. Lo stato di malattia poi può configurare di per sé e per sua intrinseca gravità uno stato di necessità come previsto dalla norma? Certamente no, dovendosi comunque delineare quelle condizioni di grave pericolo attuale non altrimenti evitabile. Per altro, come già considerato ed evidenziato in ambito psichiatrico (4), la contenzione appare ammissibile, sia pure nella sua eccezionalità e senza dover comunque sempre invocare lo stato di necessità. E se è vero che la legge non disciplina la contenzione è pur altrettanto vero che non la proibisce. Con opportuno ragionamento analogico si deve riconoscere al sanitario la possibilità di ricorrere alla contenzione del paziente solo considerandola un opportuno ed utile atto terapeutico o trattamento preventivo in senso lato, seppur spiacevole e di extrema ratio quando altri mezzi non siano opportunamente proponibili od attuabili e quindi come condizione eccezionale. Anche Benci (6), ricordando ed analizzando un emblematico e drammatico caso sentenziato dal Tribunale di Napoli nel giugno 1977, rileva e sottolinea l’ esclusivo e rilevante interesse terapeutico tale da poter giustificare la grave e limitativa misura. Si evince quindi, sulla base delle considerazioni proposte, in sostanziale accordo con li Autori citati, come la contenzione debba essere considerata evento eccezionale, vero e proprio atto terapeutico-preventivo. E come tale applicato dal medico dopo meditata ed ampia valutazione di ogni altro elemento alternativo di cura e prevenzione individuale, comunque e sempre proporzionato rispetto al fine terapeutico e indispensabilmente, come anche richiamato dall’art. 1 della legge 180/78, nel pieno rispetto della dignità della persona, che neppure la legge può violare, come ben richiamato dall’art 32 della nostra Carta Costituzionale. Nella fattispecie clinica, che qui rileva, la condizione del paziente anziano o complesso (7,8) dovrà essere attentamente valutata dal medico, che dovrà dettagliatamente annotare in cartella clinica ogni particolare clinico e circostanziale, che giustifichi terapeuticamente e/o preventivamente, per la sola incolumità del paziente, la decisione di contenere “quel“ paziente. In tal senso merita qui ricordare la possibilità, in senso omissivo di un utile e mirato provvedimento di contenzione, dell’ipotesi di reato di cui all’art. 591 c.c. “Abbandono di persone minori o incapaci “ oltre che all’ art. 590 c.c. “Lesioni personali colpose “. Dovranno poi emergere nel diario clinico la chiara indicazione di tutti i doverosi e prudenti controlli dell’andamento della contenzione e del suo effetto sul paziente. Altrettanto necessaria ed indispensabile sarà la precisazione della durata del provvedimento, che ovviamente dovrà cessare non appena vengano meno le condizioni e le indicazioni, che lo hanno legittimato e reso necessario. Precisazioni del tutto indispensabili, ma che non debbo-
La contenzione nell’anziano e nel paziente complesso: evoluzione etica verso una più ampia tutela della persona. no richiamare lo stato di necessità in quanto clinicamente non deve sostanziarsi il grave attuale pericolo, ma seppur eccezionale, la condizione può essere solo indicativa di un pericolo, che appare doveroso prevenire con tempestività e coerente prevedibilità clinica. Questo elemento clinico deve sempre contraddistinguere il comportamento del medico, e deve essere sempre finalizzato alla tutela più ampia dell’integrità fisica del paziente affidato alle sue cure e della équipe da lui diretta. Dovere quindi professionale e tecnico che non deve essere demandato e riservato all’esclusivo stato di necessità, che come tale viene tollerato sotto il profilo giuspenalistico, ma deve essere coerente ed adeguato alla oggettiva situazione clinica e circostanziale. Si delinea quindi il dovere giuridico di provvedere con diligenza e prudenza alla tutela del bene salute e della integrità fisica di ogni individuo, che malato di mente o meno non sia in grado, in quella circostanza, di autodifendersi, attuando quindi in tal senso ogni misura preventiva utile ed idonea a scongiurare ogni possibile fatto lesivo. Queste indicazioni comportamentali ed in particolare l’inquadramento in concrete situazioni di pericolo per un soggetto, che non è in grado di autodifendersi per sua condizione patologica temporanea o cronica o per inabilità e non autosufficienza, fanno si che possa essere legittimo anche in campo geriatrico, un provvedimento eccezionale di contenzione provvisoria e temporanea sino al venir meno della situazione di pericolo. E ciò in ossequio anche all’obbligo di maggiore tutela e sorveglianza di quei pazienti, che ricoverati anche in reparti non psichiatrici, abbiano dato segni di squilibrio tali da suggerire l’adozione di adeguate misure di sorveglianza, come ricordato ancora da Benci (6) con riferimento alla Sentenza del Tribunale di Milano del 13 luglio 1989. Emerge quindi da questa seppur breve analisi del contesto giuridico, che si sottende alla tematica del trattamento sanitario obbligatorio e coercitivo, come il provvedimento di contenzione possa e debba essere adottato dal medico quale reale, vero ed esclusivo atto terapeutico-preventivo nel solo interesse del paziente e della tutela della sua integrità fisica. E ciò quando si verifichi una reale condizione di pericolo dal quale il paziente non appare in grado di autodifendersi .
Bibliografia 1) Canepa G. “ Nota introduttiva allo studio della responsabilità dello psichiatra in ambito ospedaliero “Ri.It.Med.Leg. V, 19, 1983. 2) Flores A. “ La contenzione del paziente anziano : abuso o atto terapeutico mirato? “Geriatric & Medical Intelligence X, 1, 66,2001 3) FloresA., Magni L., SalteriA. “ I mezzi di contenzione in ambito psichiatrico. Una visione integrata. Psichiatria oggi VII, 2, 47, 1994 4) Castiglioni R., Flores A. “ Sull’uso dei mezzi di contenzione in ambito psichiatrico. Considerazioni giuridiche e medico-legali. Riv. Sperim. Freniatr. CXI, 137, 1987 5) Antolisei F. Manuale di diritto penale. Parte generale. Giuffrè Ed., Milano 1982 6) Benci L. L’ infermiere e i mezzi di contenzione fisica. In: Aspetti giuridici della professione infermieristica. Mc Graw-Hill Libri Italia Ed. Milano, 1995, pag. 150 7) Scandellari C. L’invecchiamento della popolazione e
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Paradigmatiche in tal senso le tipiche condizioni cliniche del malato di mente. Ma anche altre e non rare condizioni peculiari del paziente geriatrico o complesso non autosufficiente possono in determinate condizioni imporre al Curante l’adozione di un provvedimento eccezionale di contenzione temporanea. Provvedimento che dovrà essere adottato dopo meditata e motivata analisi e valutazione di tutti gli elementi circostanziali, clinici e di possibilità preventive alternative di cui sempre dovrà essere data formale espressione in cartella clinica, dove il medico inoltre dovrà sempre precisare modalità, controlli e durata del provvedimento contenitivo prescritto. E ciò in quanto, merita ancora una volta sottolinearlo, il trattamento contenitivo deve essere interpretato ed attuato, sia pure quale provvedimento eccezionale, solo ed esclusivamente quale atto terapeutico-preventivo mirato. Come per ogni atto diagnostico-terapeutico e preventivo, qualora il paziente ancorché inabile e non autosufficiente, mantenga una reale capacità di autodeterminarsi dovrà essere coerentemente informato circa ogni trattamento terapeutico adottato, ivi compresa la temporanea contenzione. Qualora tale capacità di autodeterminazione venga meno per deterioramento parafisiologico o patologico delle condizioni neuro-psichiche del paziente anziano o complesso con polipatologia d’organo, come ben rilevano Comacchio e Moreni (9), fondamentale appare il ruolo e la figura dell’amministratore di sostegno, vero e proprio rappresentante giuridico del paziente, cui dovrà essere rivolto il momento informativo dei curanti per la condivisione delle scelte diagnostico-terapeutiche e preventive . Tale rappresentante si sostituirà infatti per tutti gli effetti giuridici al paziente incapace di autodeterminarsi e potrà condividere con i curanti, sulla base delle informazioni ricevute, il piano diagnostico terapeutico da attuarsi. A conclusione della presente analisi certo non esaustiva di tutti gli aspetti giuridici e anche clinici coinvolti nelle procedure di contenzione del paziente non autosufficiente e non in grado di autodifendersi, emerge come la contenzione del paziente debba essere sempre interpretata come un eccezionale, ma pur sempre reale e mirato atto terapeutico-preventivo.
8) 9)
la cronicizzazione come fattori di cambiamento nell’agire del medico. In : La continuità di cura e assistenza al paziente complesso a cura di Destro C e Sicolo N. C.G. Ed Med. Scientifiche, Torino , 2009, pag. 14 Maggi S., Noale M., Crepaldi G. Disabilità nell’anziano e necessità di assistenza nelle attività della vita quotidiana. In : La continuità di cura e assistenza al paziente complesso a cura di Destro C. e Sicolo N. C.G. Ed Med. Scientifiche, Torino, 2009, pag. 19. Comacchio A., Moreni P. L’informazione e il consenso alle cure. Il consenso del paziente complesso. Aspetti medico-legali. In : La continuità di cura e assistenza al paziente complesso a cura di Destro C e Sicolo N. C.G. Ed Med. Scientifiche, Torino, 2009, pag. 164.
** Convegno “ L’ amministratore di sostegno e gli strumenti di protezione “, Fondazione Castellini Onlus, Melegnano (MI), 17 settembre 2009
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LA PAGINA DELLA STORIA
LEONARDO E L’ANATOMIA Paolo Mingazzini Università degli Studi di Milano – Bicocca Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza
Riassunto Leonardo da Vinci si accosta agli studi di Anatomia Umana attraverso l’Anatomia Artistica, praticata da alcuni pittori del ‘400, per meglio raffigurare il corpo umano. Ma la “maravigliosa macchina umana” affascina ben presto l’animo di artista e di scienziato in Leonardo, che dall’Anatomia Artistica di superficie, dei muscoli e delle ossa, passa allo studio degli organi interni. Egli darà anche impulso all’Anatomo-Fisiologia, che si sviluppa proprio in quegli anni nelle Università italiane, studiando i movimenti del corpo, le leve che utilizza l’apparato muscolo - scheletrico umano e le forze che produce. Quindi, analizza i sensi, il sistema nervoso, circolatorio, urinario e l’apparato riproduttivo; approda, infine, all’Anatomia Patologica, considerando le modificazioni prodotte nell’organismo con l’età ed indaga persino sulle cause di morte. Con il suo metodo rigoroso d’indagine, le sue innovative scoperte, le accurate descrizioni e le meravigliose illustrazioni delle sue tavole anatomiche, Leonardo può quindi a pieno titolo essere considerato precursore della Scienza Medica moderna.
Summary Leonardo and Anatomy Leonardo da Vinci approached anatomic studies through the“Artistic Anatomy”, practised by painters of his age for a better reproduction of human features. But the “wonderful human machine” fascinates abruptly Leonardo, who, in addition to muscolo-scheletric apparatus searched into internal organs and into movements and forces produced through levers by the human body; he also studied circulatory, urinary and reproductive systems. Leonardo gave an important impulse to Anatomo-Phisiology in Europe and also to the beginning branch of Anatomo-Pathology, investigating the modification of organs with age and even looking for the causes of death. Parole chiave: Leonardo da Vinci, Anatomia, Anatomia Artistica, Codice Windsor Key Words: Leonardo from Vinci, Anatomy, Anatomy of Art, Windsor Codex
Fig.1: Mondino de’ Liuzzi – Anatomia (1316)
Leonardo e l’anatomia Introduzione I primi anni dell’artista - Le “botteghe fiorentine” L’accostamento di Leonardo da Vinci all’Anatomia avviene già negli anni della sua giovinezza, quando frequenta la “Bottega” di Andrea del Verrocchio a Firenze. Andava, infatti, diffondendosi tra gli artisti del Quattrocento il costume di dedicarsi allo studio delle forme del corpo umano attraverso la dissezione, per meglio renderlo nelle proprie opere. Questa disciplina viene dunque denominata “Anatomia Artistica”. Leonardo nasce da Caterina il 15 aprile 1452 nella cittadina di Vinci, nei pressi di Firenze, nella piccola frazione di Anchiano, quale “figlio naturale” del notaio Ser Piero. Viene poi allevato da Albiera Amadori, moglie del notaio,
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che non avrà figli. Ad 8 anni si trasferisce con la famiglia a Firenze, ove Piero diviene notaio di Lorenzo de’ Medici, signore della città. Assecondando forse l’inclinazione del giovane Leonardo al disegno, Ser Piero lo affida ad Andrea Cione detto “il Verrocchio” , che teneva una rinomata bottega artigiana in Firenze. Ha così modo di formarsi in una delle migliori botteghe fiorentine, che, con il fiorire delle importanti opere artistiche dell’epoca, costituivano vere e proprie Scuole d’Arte e di Architettura. Così il giovane Leonardo prende parte anche ai lavori per la chiesa di Santa Maria del Fiore; inoltre comincia a distinguersi subito come pittore, a lui è infatti attribuito un angelo della pala del Verrocchio denominata il Battesimo di san Giovanni, esposta alla Galleria degli Uffizi a Firenze (Fig. 2).
Fig.2b: particolare dell’angelo attribuito a Leonardo
Fig.2a: Andrea del Verrocchio – Battesimo di Cristo - 1476 Firenze, Uffizi
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Paolo Mingazzini
Dall’Anatomia Artistica all’Anatomo - Fisiologia Per comprendere meglio l’importante apporto di Leonardo allo sviluppo dell’Anatomia e dell’Anatomo-Fisiologia, fiorite in Italia durante il Rinascimento, è necessario ricordare almeno a grandi linee l’evoluzione degli studi anatomici prima di lui. La dissezione dei cadaveri era storicamente considerata un sacrilegio, proibita anche dalle leggi romane. Solo la Scuola Medica di Alessandria, con Erofilo di Calcedonia, aveva praticato dissezioni sull’uomo. Non è sicuro se Ippocrate abbia eseguito studi sul cadavere, ma sappiamo che Aristotele e Galeno avevano studiato anatomia sugli animali, trasponendo quindi all’uomo le loro osservazioni. L’Anatomia Artistica nasce soprattutto in Grecia durante l’ellenismo, per la ricerca di pittori e scultori nella rappresentazione del corpo umano. La civiltà romana che segue quella ellenica s’ispira, dopo gli studi alessandrini e galenici, ai modelli di scultori e pittori greci. La Chiesa vieta
quindi decisamente la dissezione di cadaveri, sino al 1215, quando Federico II imperatore-scienziato la consente con apposita ordinanza, ma nel 1299 papa Bonifacio VIII con la bolla papale “de sepolturis” vieta nuovamente la manipolazione dei cadaveri. Sarà solo nel 1300 che, all’Università di Bologna, Mondino de’ Liuzzi riprende legalmente tali studi settori, fondando la prima Scuola di Anatomia Umana in Europa. Mondino pubblica l’Anatomia nel 1316 (Fig.1), il suo trattato risente però l’influenza delle teorie di Galeno, Aristotele ed Avicenna. Il libro è sicuramente noto a Leonardo e resterà testo fondamentale nelle Università Europee per un paio di secoli. Dopo che l’Anatomia fu insegnata presso la Scuola Medica di Bologna, diversi pittori del 400 vi si accostarono, praticando loro stessi studi settori, per rendere fedelmente l’anatomia di superficie, come nei dipinti di Pollaiolo (Fig. 3) e Signorelli (Fig. 4).
Fig.3: Pollaiolo – La battaglia dei nudi - 1465 – (Cleveland, Museum of Art)
Leonardo e l’anatomia
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Fig.4: Luca Signorelli - L’Inferno - 1499 - Duomo di Orvieto Successivamente al trattato di Mondino, nel 1491 fu pubblicato a Venezia il Fasciculus Medicinae di John Ketham, quindi, arricchendosi sempre più d’illustrazioni, nel 1521 l’Anatomia Humani Corporis di Berengario da Carpi e, nel 1543 il celebratissimo De Humani Corporis Fabrica di Vesalio, ove l’autore per la prima volta prende posizione contro le teorie di Galeno. Ecco allora che Leonardo inizia le sue dissezioni a Firenze, ove talora le autorità concedevano i cadaveri dei giustiziati ai medici, per dissezione a scopo scientifico. Sono i muscoli e le ossa sotto di questi che inizialmente raccolgono l’attenzione dell’artista nei suoi studi, come scriverà poi nel Libro della Pittura (“o Maravigliosa Scienza, tu riservi in vita le caduche bellezze dei mortali”), ove raccomanda: “il pittore deve sapere la notomia dei nervi, ossa, muscoli e lacerti”, ed ancora: deve studiare l’anatomia “a vestir l’ossa di carne e di pelle e di ciò che serve alla vita, al moto, secondo la provvida disposizione della natura”. Leonardo considera, dunque, da principio soprattutto il lato estetico degli studi anatomici; ciò è anche confermato da una sua nota a margine dei fogli, ove egli scrive della
sua intenzione di comporre un trattato anatomico e di intitolarlo “De Figura Umana”. La continua sete di ricerca in ogni campo del sapere e la tendenza al perfezionismo assoluto, proprie di Leonardo, spiegano il fatto che egli abbia iniziato moltissimi studi, dimostrando il suo poliedrico ingegno, lasciandone però anche “incompiuti” in gran numero. In particolare, riguardo alle attività di dissezioni anatomiche, ha sempre conservato i suoi disegni ed i suoi commenti scritti in fogli staccati, quali appunti provvisori, in attesa di organizzarli nel trattato che progettava. Questo trattato, però, non fu mai completato né dato alle stampe, impedendo quindi che la sua opera potesse influire direttamente sulla Medicina del tempo. La prima pubblicazione dei Fogli Anatomici di Windsor sarà infatti curata da Teodoro Sabachnikoff solo a fine ottocento, a distanza di secoli dalla morte di Leonardo. Il dipinto in cui per primo sono visibili le ricerche di anatomia artistica è forse il San Gerolamo, conservato al museo del Louvre, a Parigi, che dimostra lo studio accurato dei muscoli della spalla e del collo (Fig.5).
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Fig.5.a) San Gerolamo (1482) - Louvre
5b) Studi anatomici di spalla e collo(Fogli di Windsor)
Scopo dell’Anatomia Artistica è anche quello di studiare le proporzioni del corpo; era infatti ben radicato all’epoca il concetto che la bellezza è fatta di proporzioni. Per questo nelle tavole di Leonardo trovano spesso spazio le
misurazioni delle fattezze umane e dei loro rapporti, come in particolare nel noto uomo vitruviano (1490 - Venezia, Gallerie dell’Accademia) (Fig. 6a e 6b).
Fig.6a. Studio di proporzioni del volto
Fig.6b. Proporzioni del corpo umano
Leonardo e l’anatomia Un particolare che denota il passaggio all’anatomia fisiologica, nato dalla ricerca artistica, è l’osservazione che i muscoli aumentano di volume in contrazione, mentre si afflosciano a riposo. Il concetto è ripreso nel Libro della Pittura, ove Leonardo insegna: “fa che s’ingrossino i muscoli alle membra in operazione … e quelle che non sono in operazione restino semplici”(Fig.16c), ed ancora: “bisogna capire come i muscoli agiscono nelle varie posature del corpo e come talor si nascondono e talor si discoprano agli occhi nostri, secondo che la operazione o l’atteggiamento il richiede”. Proprio a questo proposito Leonardo critica il suo contemporaneo Michelangelo Buonarroti, che esagera il suo “stile muscolare”, senza precise cognizioni di fisiologia (Fig.7). Lo studio anatomico e della funzione articolare aiuta l’artista a migliorare l’espressività dei suoi dipinti, in particolare per quanto riguarda gli atteggiamenti delle mani; alcuni precisi movimenti delle tavole anatomiche si possono infatti ritrovare in varie opere di Leonardo, come nella Vergine delle rocce o nel ritratto di Cecilia Gallerani (Fig.8, 9).
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Fig.7. Michelangelo Buonarroti 1510 Cappella Sistina (particolare)
Fig.8 (a,b,c,d,e). Studi anatomici e degli atteggiamenti delle mani
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Fig.9: La vergine delle rocce (1483) - Museo del Louvre - (particolare delle mani)
Fig.10: La dama con l’ermellino (1490) - Museo di Cracovia (particolare della mano)
Leonardo e l’anatomia Un aspetto di grande interesse nei fogli di Leonardo è quello dedicato agli studi di Fisiognomica. L’espressione del volto riflette i moti del cuore, ma anche il carattere dell’individuo, che Leonardo accosta per similitudine all’indole di alcuni animali. Ad esempio il carattere
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feroce ed iracondo, simile a quello del leone (fisiognomia leonina). Il risultato di questi studi sarebbe riscontrabile nelle violente espressioni dei combattenti della Battaglia di Anghiari, affresco di Leonardo andato perduto, di cui ci resta solo una copia fatta da Rubens (Fig.11).
Fig.11: Peter Paul Rubens “La Battaglia di Anghiari” (1603, copia da affresco di Leonardo) – Parigi, Museo del Louvre Leonardo sovverte lo schema dei trattati di anatomia, che al tempo erano soprattutto scritti: nella Sala Anatomica il trattato veniva letto dal lettore, il dissettore (cerusico/barbiere) eseguiva materialmente l’autopsia mentre il medico commentava la lettura, mostrando con un’asta gli organi interni. Leonardo sostiene invece l’importanza dell’illustrazione, scrive infatti “e tu che vogli con parole dimostrare la figura dell’omo con tutti gli aspetti della sua membrificazione, removi da te tale opinione, perché quanto più minutamente descriverai, tanto più confonderai la mente del lettore e più lo rimoverai dalla cognizione della cosa descritta”.
Lo scritto di Leonardo è infatti sempre semplice ed essenziale, costituendo quasi sempre solo un commento a margine della parte grafica. Il suo linguaggio chiaro e sintetico gli ha meritato il riconoscimento di uno stile preciso: la “prosa leonardesca”, sinonimo di chiarezza e rigore, vera antesignana del moderno linguaggio scientifico. La bellezza dei disegni anatomici di Leonardo hanno indotto Antonio de Beatis, segretario del Cardinale Luigi d’Aragona, che lo accompagna nel 1517 in visita a Leonardo al castello di Cloux ove era ospitato dal re Francesco 1°, a scrivere di tali disegni che ritraggono l’anatomia “de modo non è stato mai anchora facto da altra persona”.
Fig. 12: Le articolazioni delle vertebre cervicali (F.W.)
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L’anatomia è scomposizione (letteralmente, dal greco, “separare le parti”). Leonardo vuole rendere comprensibili le forme complesse del corpo umano, così seziona per capire l’anatomia e disegna per spiegare ciò che ha compreso. Alla dissezione (separazione) delle varie parti, segue la ricomposizione, attraverso il disegno, di ciò che era stato separato (Fig. 12).
Fig. 13: Le complesse inserzioni dei muscoli del cingolo scapolare sulla colonna cervicale (F.W.)
Ma la vera innovazione nei suoi studi è la ricerca che Leonardo fa della funzione degli organi ed apparati da lui esaminati. Egli applica costantemente lo studio fisiologico
a quello anatomico, caratteristiche della “ricerca della funzione” sono le “vedute esplose”, che scompongono nello spazio i particolari, per meglio comprenderli (Fig.14).
Fig. 14 a e b: Articolazione della spalla - in alto: parzialmente “esplosa”, per mostrare le inserzioni muscolari. – in basso e a destra: i muscoli sono schematizzati come corde, per spiegarne la funzione, secondo linee di forza (F.W.)
Leonardo e l’anatomia Altro artifizio di cui si serve Leonardo è il rappresentare i muscoli come corde tese tra le loro inserzioni ossee, per spiegare come si applicano le linee di forza nella loro contrazione (Fig. 13 / 16), “farai solo confusione nel dimo-
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strare i muscoli … se non li disegnerai come corde, così potrai rappresentarli l’un sopra l’altro, come la natura li ha posti”, ed ancora: “ogni muscolo usa la sua forza lungo la linea della sua lunghezza”.
Fig. 15: a) Leva azionata nella flessione dell’avambraccio; b) Movimenti dell’articolazione del gomito e di prono-supunazione della mano (F.W.)
Fig.16.a) Studio dell’articolazione del ginocchio; b) Studio muscolare nella flessione dell’arto inferiore
Fig.16c. Contrazione muscolare nel movimento di sollevarsi “in punta di piedi”
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La proporzione e l’armonia delle forme sono estese da Leonardo al di là della superficie, nelle descrizioni e nei dise-
gni delle dissezioni degli organi interni (Fig. 17/18).
Fig. 17.a) Studio dei visceri addominali, b) Sistema vascolare e biliare del fegato Nella ricerca dei rapporti e delle proporzioni create dall’ ”armonia della natura”, Leonardo, specie negli ultimi anni
dei suoi disegni anatomici, tende a “stilizzare” le rappresentazioni degli organi ed apparati (Fig. 17 e 18).
Fig.18. Resa schematica dei vasi dei visceri addominali
Leonardo e l’anatomia Il riconoscimento del valore degli studi di Leonardo per l’evoluzione della Medicina non gli fu attribuito, se non a tre secoli di distanza, quando il medico inglese William Hunter, professore d’Anatomia alla Royal Academy of Arts, scoprì i suoi manoscritti nella biblioteca reale al Castello di Windsor, ove era stato ammesso dal re Giorgio III (1783 c.a). Dopo averli esaminati Hunter proclamò che “Leonardo era il più grande anatomico al mondo nel suo tempo”.
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Leonardo aveva saputo unire arte e scienza come mai nessuno prima di lui, ma aveva realizzato anche innumerevoli scoperte anatomiche, basti citare Kenneth Keele, che esprime il suo imbarazzo nel chiamare “Antro di Igmoro” (da Highmore, medico inglese che lo ri-scoperse nel 1651) e non “Antro di Leonardo” il seno paranasale sotto orbitario, perfettamente descritto da Leonardo più di un secolo e mezzo prima (Fig. 19).
Fig.19. Descrizione dei seni paranasali e dell’ “Antro di Igmoro” Dall’Anatomo - Fisiologia all’Anatomia Patologica Leonardo avvia anche fra i primi gli studi di Anatomia Patologica, dimostrando così di essere un vero precursore della Scienza Medica. Il passaggio dall’Anatomo-Fisiologia all’Anatomia Patologica è forse maggiormente apprezzabile nello studio che egli fa del corpo umano dall’infanzia alla vecchiaia. Espo-
nendo le differenze riscontrate nelle arterie dei giovani e dei vecchi, ci dà probabilmente la prima dettagliata descrizione delle caratteristiche della “Malattia Arteriosclerotica”. Egli disegna l’allungarsi dei vasi ed il loro farsi tortuosi, nonché le loro pareti che s’ispessiscono col passare degli anni: “si fan di tal grossezza di pelle ch’ella serra il transito del sangue” (FW-B; 10v).
Fig. 20. Il cuore e le arterie coronarie
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La ricerca anatomopatologica di Leonardo culmina nelle indagini sulla causa di morte: a Firenze, ove era tornato tra due soggiorni a Milano (1508 c.a), nell’Ospedale di Santa Maria Nuova, parla ad un vecchio ultracentenario in fin di vita, che gli racconta la sua estrema spossatezza e muore di lì a poco. Scrive allora “ne feci notomia per vedere la causa di sì dolce morte” (W 19027 v), stabilendo con questa che era morto per un’occlusione vascolare. Il pensiero del trascendente è spesso presente in Leonardo, anche se egli crede innanzitutto, come indiscutibile verità, in ciò che la Scienza può dimostrare.
Si dedica, infine, come altri anatomici prima di lui, alla ricerca del sito dell’anima nel corpo umano, riconoscendo le funzioni vitali del respiro e della circolazione del sangue, che porta il nutrimento. Esamina il cuore, che descrive come “un vaso fatto di spesso muscolo, vivificato e nutrito da arterie e vene, come avviene per gli altri muscoli”, ma che ”si move da sé e non si ferma, se non eternalmente“ (Fig. 20). Ma Leonardo individua nel cranio il luogo ove risiede l’anima, il “senso comune” in cui convergono le impressioni sensoriali ed ha luogo la loro elaborazione razionale (Fig. 21).
Fig.21. Studi della cavità cranica e del “confluire dei sensi”
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