Do you speak English? Do you speak Italian? di Jacopo Leone Bolis
Nella più che millenaria storia dell’umanità il numero di monarchi dotati di profondo acume, sinceramente disinteressati verso la guerra e la politica e, al contempo, ricolmi di un vivido interesse nei confronti delle arti e della cultura, purtroppo, si può contare sulle dita di una mano. Del resto la guerra è il più antico e funzionale strumento di ‘distrazione di massa’ attraverso cui regnanti, politici e uomini di potere possono ancora oggi rafforzare il proprio controllo sui loro sottoposti. Gridare con forza a qualche minaccia esterna o interna, spesso descritta come un’orda barbarica capace di minacciare la stabilità dell’intera società umana, riesce nel suo malsano intento di sviare l’attenzione delle masse dai reali problemi che l’attanagliano (lavoro, istruzione, giustizia sociale). Così la guerra (che è null’altro che azione politica trasposta dalle assemblee ai campi di battaglia dove il frastuono delle armi sostituisce il normale confronto dialettico) è stata ed è ancora oggi il principale motore della storia. Fortunatamente non sempre le cose vanno come si desidera. Così, seppur assai raramente, la guerra si è talvolta trasformata in una specie di palude dove regnanti e uomini di potere si trovarono irrimediabilmente impiastricciati. A tali empasse, spesso, seguirono profonde rivoluzioni sociali. Esempi storici di ciò furono la Rivoluzione francese del 1789 (nata a causa della crisi economica che attanagliò il regno di Luigi XVI, crisi strettamente connessa all’impegno militare francese nel Nuovo Mondo a sostegno dei ribelli statunitensi) e la Rivoluzione russa del 1917 (la casa regnante dei Romanov pagò con la propria scomparsa, tanto politica quanto fisica, la malsana idea di chiamare alle armi i propri sudditi contro gli Imperi Centrali). Tuttavia, sebbene qualche volta la guerra possa diventare volano di svolte democratiche (come del resto successe anche all’Italia nel corso della Seconda Guerra Mondiale), nella grande maggioranza dei casi la guerra, specie se di natura imperialista, servì (e serve ancora oggi) a rafforzare le classi dirigenti che l’hanno promossa. A causa di ciò, insieme a un inevitabile pizzico di megalomania presente in molti nostri simili chiamati a rivestire ruoli di comando, la storia dell’umanità è ricolma di entità statali che hanno cercato di affermarsi sull’intero globo terracqueo. Il più esteso impero che la storia dell’umanità ricordi fu l’Impero Britannico che tra il 1918 e il 1921, sotto l’egida di Sua Maestà Giorgio V (1865 - 1936), raggiunse l’apice del suo potere comprendendo immensi territori sparsi per tutto il globo (tanto per citarne alcuni: Canada, Australia, India, Sudafrica, Tanzania, Kenia, Sudan e Egitto). Si calcola che intorno al 1921 l’Impero Britannico controllasse quasi un quarto dell’intera superficie delle terre emerse e che nei suoi possedimenti vivesse circa un quinto dell’allora intera popolazione mondiale. Tale politica imperialista realizzata dal Regno Unito si concretizzò durante un lungo lasso temporale. L’Inghilterra, infatti, si affermò sullo scenario mondiale nel corso di oltre quattro secoli (la svolta decisiva avvenne nel 1588 quando la flotta britannica distrusse l’invincibile armata spagnola di Filippo II, segnando così la fine del predominio spagnolo in Europa e nel Nuovo Mondo e aprendo la strada all’allora ancora acerbo imperialismo britannico). Nella pellicola cinematografica L’Ultimo dei Mohicani (The Last of the Mohicans, 1992), regia di Michael Mann, ispirata all’omonimo romanzo dello scrittore statunitense James Fenimore Cooper (1789 - 1851), vi è una frase assolutamente significativa, espressa da un ufficiale inglese (interpretato nel film dall’attore Steven Waddington), nel merito della politica imperialista di Sua Maestà: la politica britannica è di fare di tutto il mondo l’Inghilterra. Oggi del glorioso Impero Britannico non resta che una sua brutta copia, assai rimpicciolita e edulcorata, denominata Commonwealth of Nations (organizzazione intergovernativa che raccoglie gran parte dei passati domini britannici, oggi indipendenti, e che ha come finalità il rafforzamento dei legami culturali e economici tra i paesi aderenti). Tuttavia l’Impero Britannico, scomparso a seguito della Seconda Guerra Mondiale e delle politiche di decolonizzazione che interessarono gran parte dei paesi del terzo mondo fin dalla fine degli anni ‘40 del secolo scorso, ha lasciato in eredità a tutti noi un interessante dato culturale: la
trasformazione dell’inglese da semplice lingua nazionale a lingua franca studiata e parlata in tutto il globo. Oggigiorno l’inglese non è soltanto una delle lingue più parlate al mondo ma, soprattutto, è la lingua franca che più di altre permette a persone provenienti da realtà geografiche e culturali assai differenti di poter comunicare efficacemente tra loro. Tutto ciò è oggigiorno possibile proprio perché la passata espansione militare e economica britannica su tutto il globo terracqueo comportò una contemporanea espansione della lingua inglese in tutte le realtà geografiche toccate, direttamente o indirettamente, dalle politiche imperialiste britanniche (senza dimenticare anche i complessi fenomeni migratori che coinvolsero parte degli abitanti del Regno Unito, fin dal XVII secolo, e che portarono alla costituzione di colonie anglofone in numerosi territori extraeuropei). Eppure, sebbene l’inglese avesse iniziato a muovere i primi passi in qualità di lingua franca internazionale già sul finire del XIX secolo, la lingua anglosassone è riuscita a penetrare in profondità nella cultura italiana solo recentemente. Come mai? La risposta è piuttosto semplice. Prima di tutto l’Italia ha alle spalle una cultura millenaria, estremamente complessa e di cui giustamente possiamo (e dobbiamo) andare orgogliosi. A questa cultura millenaria è associata anche una importante storia linguistica segnata inizialmente dal sorgere della lingua latina e dal suo divenire lingua non unicamente connessa a finalità pratiche ma tramutatasi, con l’incedere dei secoli, in lingua di cultura e in lingua ufficiale del passato Impero Romano (insieme al greco, parlato prevalentemente nelle aree orientali del Mar Mediterraneo sottoposte al controllo romano). Al latino succedette l’italiano volgare che fin dal XIV secolo, grazie alle cosiddette tre corone della lingua italiana (Petrarca, Dante e Boccaccio), trovò una propria identità colta (tanto in poesia quanto in prosa) che gli permise d’imporsi nel panorama culturale europeo di epoca tardo medioevale e rinascimentale. Non solo, ma in età moderna, con la nascita e l’affermarsi del melodramma (nato a Firenze agli inizi del seicento), l’italiano divenne una delle più apprezzate e conosciute lingue europee durante tutto il XVII secolo e la prima metà del XVIII secolo. Alla luce di ciò è facile evincere come l’inglese fece estremamente fatica ad attecchire in Italia, paese che possedeva e possiede una lingua patria estremamente complessa e importante sia sotto un punto di vista prettamente storico-culturale, sia meramente quantitativo (il numero dei suoi parlanti è piuttosto elevato) e che, conseguentemente, non ha mai avuto, se non in tempi recentissimi, una reale motivazione economica o politica per inglobare nella sua quotidianità l’idioma anglosassone. Prima dell’inglese, la lingua straniera per antonomasia in Italia era il francese. L’idioma d’oltralpe trovò terreno piuttosto fertile in Italia non solo per la vicinanza geografica tra Italia e Francia ma, soprattutto, poiché la Francia giocò un ruolo fondamentale, per tutto il XIX secolo, nella politica italiana (la stessa famiglia reale dei Savoia, proveniente dall’omonima regione alpina francese, iniziò a parlare un italiano fluente solamente quando gli fu chiaro, fin dal XVIII secolo, che il proprio futuro politico era maggiormente connesso alla politicamente frammentata penisola italiana che al solido Regno di Francia). Inoltre, è bene ricordarlo, italiano e francese sono entrambe lingue romanze (neolatine) e questa stretta parentela rese il francese meno ‘straniero’ agli occhi degli italiani rispetto a altre lingue che ebbero le medesime opportunità politiche e economiche di insinuarsi nella nostra penisola. Ad esempio la lingua tedesca, lingua dell’Impero Austro-Ungarico che per oltre un secolo e mezzo, tra il 1707 e il 1859, governò direttamente e indirettamente quasi tutta la nostra penisola, non riuscì a imprimersi con forza nella cultura italiana poiché essa venne sempre percepita dal nostro popolo come la lingua dei conquistatori stranieri, sentimento quest’ultimo probabilmente acuito dalla ruvidezza fonetica del tedesco, lingua germanica non appartenente allo stesso gruppo linguistico dell’italiano e del francese, sebbene sia italiano che francese e tedesco siano tutte lingue appartenenti alla macrofamiglia delle cosiddette lingue indoeuropee). Per questi motivi tanto storici quanto culturali e linguistici, la lingua inglese (lingua germanica appartenente al sottogruppo delle lingue germaniche occidentali) non trovò terreno fertile in Italia fino a pochi decenni fa quando la globalizzazione e la sempre più forte internazionalizzazione degli
scambi economici e culturali rese inderogabile la conoscenza della lingua inglese, seppur elementare, in vasti strati della popolazione italiana1. La lingua inglese, infatti, iniziò a mettere piede nelle scuole italiane solamente sul finire degli anni ‘90 del secolo appena scorso (e solo nel 2003, attraverso l’approvazione e l’entrata in vigore della Legge di riforma della scuola primaria voluta dall’allora ministro dell’istruzione Letizia Moratti, l’inglese divenne a tutti gli effetti materia curricolare nelle scuole elementari italiane). A causa di questa lenta e non sempre agevole penetrazione della lingua inglese nella quotidianità del nostro paese, si deve il cimentarsi (talvolta riuscito, talvolta ridicolo) di non pochi musicisti e cantanti anglosassoni con il nostro complesso idioma. Con la fine della seconda guerra mondiale, l’arrivo in Italia di forti quantità di denaro statunitense (ottenute attraverso l’adesione dell’Italia alla Nato e al conseguente annovero dell’Italia tra i paesi destinatari degli aiuti economici del celebre Piano Marshall, denominato in inglese European recovery program) e il boom economico e demografico che scosse la società italiana a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, il nostro paese divenne una succulenta preda per il capitalismo anglosassone. L’Italia era all’epoca un paese che si stava arricchendo e che stava uscendo dalle ristrettezze della passata guerra mondiale. Oltre a ciò, l’Italia dell’epoca era una società che si stava rapidamente assuefacendo ai fumi del capitalismo e che, conseguentemente, stava scoprendo le gioie dell’economia di mercato e, soprattutto, il piacere derivato dalla fruizione e dall’accumulo di beni superflui. In quegli anni di grande fervore consumistico, l’industria discografica straniera (principalmente anglosassone) era desiderosa di arricchirsi esportando i propri prodotti nel bel paese. Per fare ciò, conquistando i favori del pubblico italiano (all’epoca poco avvezzo alla lingua inglese), le strade da percorrersi erano due: o far cantare in italiano artisti di madrelingua inglese o, viceversa, vendere o perlomeno ‘prestare’ le proprie produzioni musicali a cantanti e parolieri italiani che, dopo averle tradotte, rimaneggiate e registrate, sarebbero riusciti a ottenere il plauso del pubblico italiano. Esempio di un artista
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Prima della seconda metà del secolo scorso, la lingua inglese in Italia era quasi completamente sconosciuta. Essa era padroneggiata, seppur spesso assai superficialmente, solamente dalle fasce sociali più alte della popolazione le quali, fin dalle prime decadi del XIX secolo, avevano studiato, chi più chi meno, l’idioma anglosassone sia per motivi politici e economici (l’Inghilterra giocò un ruolo tutt’altro che secondario nell’unificazione politica italiana) sia per motivi letterari e culturali (la letteratura inglese iniziava a conquistare una sempre maggiore attenzione internazionale di pari passo con l’espandersi dei domini britannici). A cavallo tra le due guerre, inoltre, il fascismo cercò di mettere un argine al proliferare di prodotti culturali anglosassoni sul mercato italiano (musica compresa) ma, in realtà, tali politiche furono piuttosto inefficaci e si rivelarono essere dei semplici slogan propagandistici. L’autarchia culturale propinata dal Ministero della Cultura Popolare e dalla propaganda di regime non riuscì a fare altro che dare vita a un semplice insieme di grottesche norme censoree assolutamente incapaci di mettere un freno ai primi significativi contatti che si stavano verificando tra la cultura italiana e quella inglese e statunitense. Del resto erano gli anni in cui la musica jazz proveniente dagli Stati Uniti stava conquistando le attenzioni internazionali. Nessuna politica autoritaria poté dare reale concretezza all’assurda pretesa di mettere al bando un linguaggio musicale capace di conquistare rapidamente innumerevoli simpatie tra tutti gli strati della popolazione europea. In quegli anni non mancarono aspre contese in ambito culturale tra artisti e intellettuali sostenitori della musica jazz (e del dialogo tra cultura italiana e cultura anglosassone) e letterati, artisti e intellettuali rigidamente fedeli alle direttive del PNF (Partito Nazionale Fascista). Ad esempio, il musicista torinese Alfredo Casella, nel numero del 14 Giugno 1926 de L’Impero, pubblicò l’articolo Difesa del Jazz Band dove prese le aperte difese della cultura musicale jazzistica (e dell’energia e del vigore di tale musica d’oltreoceano) dalle prime accuse che l’allora regime fascista avanzò nei confronti di questa musica giudicata tanto indecente quanto foriera di decadimento morale e materiale poiché di origine afroamericana. Alle accese parole di Casella risposero, seppur più tardi a livello cronologico, Filippo Tommaso Marinetti e Bruno Corra con un articolo dal titolo Contro il teatro morto, contro il romanziere analitico, contro il negrismo musicale (1934) e Aldo Giuntini che nel suo Manifesto della aeromusica (1934) usò parole durissime contro la musica jazz e ogni possibile influenza statunitense nei confronti della musica accademica e popolare italiana. Il fascismo, fortunatamente, fallì nel suo tentativo censore e la cultura musicale anglosassone iniziò a muovere i primi passi in Italia, seppur in punta di piedi, già intorno ai primi anni ‘20 del secolo scorso.
nostrano che portò al successo in Italia una canzone straniera fu Adriano Celentano2. Il celebre molleggiato d’Italia, nel 1962, riscosse un ottimo successo commerciale con il brano Pregherò, rimaneggiamento della celebre canzone Stand By Me del 1961 a firma del cantautore statunitense Ben E. King (brano che a sua volta venne composto manipolando un precedente canto gospel del 1955 scritto dai The Staple Singers, gruppo musicale statunitense formatosi nel 1948 e famoso per le sue composizioni gospel e soul). Pregherò venne lanciata sul mercato discografico italiano sfruttando, oltre agli allora normali canali comunicativi e commerciali, la sua esecuzione nella pellicola cinematografica Uno Strano Tipo (regia di Lucio Fulci, 1962) con protagonista lo stesso Adriano Celentano (il quale già da tempo si divideva freneticamente tra apparizioni televisive, cinematografiche e fatiche discografiche)3. Nel 1966 venne pubblicata un’altra canzone che riscosse sul mercato italiano un grosso successo commerciale e che altro non era che una rilettura e manipolazione di un brano straniero: Un ragazzo di strada de I Corvi (il brano originale, I ain't no miracle worker, registrato nel settembre 1965, venne composto da Nancie Mantz e Annette Tucker e interpretato dalla band californiana dei The Brogues). Altri celebri esempi di tale manipolatoria attività artistica, entrambi del 1966, furono i brani Io ho in mente te degli Equipe 84 (rilettura in salsa italiana di You were on my mind di Sylvia Fricker, membro del duo folk Ian & Sylvia) e Bandiera gialla di Gianni Pettenati (manipolazione e rielaborazione del brano The Pied Piper a firma di Artie Kornfeld e Steve Duboff). Tuttavia è bene ricordare che non sempre i discografici e i musicisti italiani dichiaravano apertamente i rapporti genetici intercorrenti tra le loro canzoni e i brani stranieri da cui tali canzoni si erano generate. In tal caso, più che di vere e proprie cover, sarebbe corretto parlare di plagi4 o quantomeno di appropriazione indebita di creatività altrui. Che vi siano state, talvolta, intenzioni e finalità fraudolente da parte dei discografici e dei musicisti italiani o che, al contrario, tutto ciò avvenisse alla luce del sole e, al massimo, senza eccessive attenzioni di natura burocratica, non è argomento di cui discutere in questa sede. Tuttavia, personalmente concordo con quanto espresso in passato da Maurizio Vandelli, leader degli Equipe 84, il quale dichiarò (Corriere della Sera del 6 gennaio 1994, articolo a firma di Polese Ranieri e Podda Vincenzo) che tali copiature, più o meno lecite, svolsero all’interno dell’allora realtà musicale italiana un’ottima funzione ammodernatrice (permettendo alla cultura musicale italiana di fare propri alcuni stilemi e alcune sensibilità sonore d’oltralpe capaci di svecchiare il panorama musicale italiano ancora eccessivamente legato tanto alla canzone popolare, prevalentemente legata alla tradizione partenopea, quanto alla propria gloriosa tradizione operistica): "Concedo che, ascoltando come carbonari Radio Luxembourg, abbiamo copiato tutto quel che c'era da copiare. Ma del resto che altro potevamo fare? La musica italiana, ancorata a Claudio Villa e alla canzone napoletana, aveva assoluto bisogno di essere rinnovata. Persino gli 2
Prima ancora di Celentano e altri cantanti ‘urlatori’, la musica anglosassone era giunta in Italia attraverso le fatiche musicali del Quartetto Cetra, quartetto vocale formato da Felice Chiusano (1922 - 1990), Giovanni ‘Tata’ Giacobetti (1922 - 1988), Lucia Mannucci (1920 - 2012) e Antonio Virgilio Savona (1919 - 2009). Il celebre quartetto, infatti, nel 1956 propose sull’allora effervescente mercato discografico italiano la canzone L’orologio matto, rifacimento della celebre canzone statunitense Rock Around the Clock incisa nel 1954 da Bill Haley (leader della formazione Bill Haley & His Comets). Nel 1977 lo stesso Adriano Celentano riprese e incise Rock Around the Clock tramutando tale fatica discografica nel brano A Woman In Love-Rock Around The Clock (canzone dove il celebre brano rock venne mischiato con passaggi musicali in stile ‘musica da balera’ e dove si può ascoltare un Adriano Celentano sufficientemente a suo agio con l’idioma inglese). 3
Nel 2006 Adriano Celentano tornò a eseguire canzoni anglosassoni in lingua italiana. Quell’anno, infatti, riprese il noto successo Diana (1957) di Paul Anka e, dopo averlo intelligentemente manipolato (con il non secondario aiuto del re di tutti i parolieri italiani, Mogol), lo registrò in lingua italiana con il titolo Oh Diana inserendo tale canzone nel fortunato album Unicamentecelentano. 4
Per chi fosse interessato a conoscere più approfonditamente questa particolare pagina della storia della musica italiana consiglio l’attenta lettura del Piccolo dizionario delle cover del bitt (a firma di Cesare Rizzi e Fulvio Beretta), breve allegato alla Enciclopedia del rock italiano (1963 - 1993), collana Grandi Opere Rock, edita da Arcana Editrice nel 1993.
strumenti musicali, chitarre elettriche e batterie, facevano a pugni con la nostra tradizione. Comunque senza di noi, non sarebbe esistita l'era del beat. Altro che scandalo. Visto col senno 5 di poi, il fine ha giustificato i mezzi".
Tuttavia, molti artisti stranieri non cedettero le proprie canzoni a musicisti e cantanti italiani ma, viceversa, decisero, mostrando una certa dose di coraggio, di cantare in italiano (forse anche per evitare che qualcuno nel bel paese si impossessasse indebitamente delle proprie creazioni). Lo fece nel 1963 il rocker statunitense Elvis Presley (1935 - 1977) registrando la canzone Santa Lucia. Tre anni più tardi, nel 1966, i The Rolling Stones cantarono in italiano, sbattendoci un poco il grugno, la canzone Con le mie lacrime (fallimentare rimaneggiamento della loro più celebre e apprezzabile As tears go by, 1966). Il 1968 vide due giganti della musica afroamericana cimentarsi in canzoni in lingua italiana: Steve Wonder (1950) incise per la RCA (su licenza Motown) i brani Il sole è di tutti (versione italiana della canzone The Place in The Sun) e Passo le mie notti qui da solo, mentre Louis Armstrong (1901 - 1971) presentò al Festival di Sanremo la canzone Mi va di cantare. Nel 1969 il suddito di sua maestà David Bowie (1947) rimaneggiò la propria celeberrima Space Oddity trasformandola nella comunque apprezzabile Ragazzo solo, ragazza sola. Casi simili si possono riscontrare anche in anni più recenti. Ad esempio, nel 2007 Sting (Gordon Matthew Thomas Sumner, 1951) registrò il brano Muoio per te e nel 2010 lo statunitense Mike Patton (1968), celebre voce e frontman dei Faith no More, realizzò l’album Mondo Cane (fatica discografica completamente incentrata sulla riproposizione di canzoni italiane degli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso dove la voce di Mike Patton, intenta a esprimersi in un italiano un po’ zoppicante, è accompagnata da vibranti passaggi orchestrali). Tuttavia non tutti gli artisti anglosassoni si avvicinarono alla lingua italiana per mere finalità economiche/commerciali o per dare vita a un breve esperimento artistico-espressivo di natura ludica. Un jazzista statunitense dalla pelle bianca e dall’animo scuro e introverso (costui aveva veramente i cosiddetti blue devils) elesse l’Italia a sua patria d’adozione e utilizzò in alcune sue registrazioni l’idioma di Dante raggiungendo vette estetiche assolutamente apprezzabili (egli amava veramente molto l’Italia e la sua cultura). Costui era il trombettista e cantante Chet Baker (1929 - 1988), uno dei padri del cool jazz (musica quest’ultima dal carattere tanto austero quanto riflessivo e intimista). A cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, nell’allora spensierata Versilia, Chet Baker faceva incetta di concerti (specialmente presso l’allora frequentatissimo locale Caprice di Viareggio), applausi e sregolatezze. In quegli anni Chet Baker registrò in Italia molte proprie fatiche discografiche. Tra il settembre e l’ottobre del 1959 registrò una serie di canzoni che vennero poi pubblicate in un album per il mercato statunitense dal titolo Chet Baker in Milan (etichetta Jazzland). Questa fatica discografica venne realizzata da Chet Baker assieme a diversi musicisti italiani tra i quali è doveroso ricordare un allora giovanissimo chitarrista milanese di nome Franco Cerri (figura cardine nella storia del jazz italiano). Sempre nello stesso periodo, ma questa volta in compagnia anche del celebre sassofonista italiano Fausto Papetti, Chet Beker registrò altre canzoni che entrarono a far parte di un altro album per il mercato statunitense: Chet Baker with Fifty Italian Strings (sempre per etichetta Jazzland). Tuttavia fu il 1962 l’anno più interessante nel periodo italiano di Chet Baker. Nel gennaio di quell’anno, per la casa discografica italiana RCA, Chet Baker registrò l’album Chet is Back (insieme a musicisti quali il bassista francese Benoit Quersin e il pianista italiano Amedeo Tommasi). Tuttavia i suoi esperimenti più interessanti, realizzati proprio nel 1962, furono alcune canzoni ch’egli scrisse e cantò in lingua italiana collaborando con il paroliere Alessandro Maffei e il compositore e direttore d’orchestra Ennio Morricone. Queste collaborazioni portarono alla realizzazione di quattro canzoni: Chetty’s Lullaby, So che ti perderò, Motivo su raggio di luna, Il mio domani. Ascoltandole si nota un pensiero compositivo apertamente intimista ma al contempo mai eccessivamente dolente. Il pessimismo bussa appena alla porta di queste 5
http://archiviostorico.corriere.it/1994/gennaio/06/era_ragazzo_che_copiava_Beatles_co_0_9401062272.shtml
registrazioni che, per tutta risposta, palesano una forte strizzata d’occhio alla tradizione musicale italiana arricchendola di elementi sonori di matrice jazz e, seppur più raramente, sinfonica. Inoltre, Chet non è affatto a disagio nell’uso della lingua italiana e talvolta riuscì addirittura a piegare quest’ultima alle proprie esigenze espressive. Ben prima di molti suoi colleghi anglosassoni, Chet Baker riuscì a inaugurare un rapporto assai proficuo con la cultura italiana e, cosa di cui pochi possono fare vanto, fu uno dei rari artisti stranieri a padroneggiare con intelligenza il complesso idioma italiano. Le ‘canzoni italiane’ firmate da Chet Baker sono ancora oggi assolutamente godibili e apprezzabili. La sua voce, calda e avvolgente, sebbene alle prese con una lingua estremamente ostica quale l’italiano, non è mai imbarazzante o grottesca. Se oggi un qualsivoglia artista anglosassone decidesse di cantare in italiano, farebbe bene, prima di cimentarsi in tale difficile impresa, a ascoltare con attenzione le sopraccitate fatiche musicali di Chet Baker per farne tesoro. Sebbene i risultati estetici raggiunti sia dai musicisti italiani dediti alla riproposizione, seppur variata, di successi d’oltralpe, sia dagli artisti stranieri che in passato decisero di cimentarsi con l’idioma italico furono talvolta discutibili, questi scambi culturali tra Italia e mondo anglosassone, scambi avvenuti a suon di musica, permisero alla cultura italiana di aprirsi alla lingua inglese e, al contempo, di restare al passo con la modernità. Oggi è impensabile non conoscere, neppure a livello elementare, la lingua inglese. Una così grave mancanza non può far altro che estromettere un giovane dal mondo che lo circonda, tanto da un punto di vista culturale quanto lavorativo (e, quindi, economico). L’Italia deve anche (e forse soprattutto) alla musica il suo essersi aperta alla lingua inglese. Chi oggi nel nome di un incomprensibile ultranazionalismo propina l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, dall’euro e l’abbandono dello studio della lingua inglese e di altri idiomi stranieri nelle scuole italiane non solo si fa portavoce di politiche che azzopperebbero la cultura e l’economia del nostro paese ma, al contempo, non fa altro che sbandierare ai quattro venti le proprie scarse capacità intellettive. Conoscere una o più lingue straniere non svilisce la propria cultura nazionale ma, al contrario, ci permette di esportare all’estero le nostre sensibilità culturali e di confrontarci costruttivamente con quelle altrui. Chiudersi in una campana di vetro nel nome di una insensata superiorità tanto nazionale quanto individuale è, sempre e comunque, una scelta storicamente perdente e l’esplicito manifestarsi di paure prive di qualsiasi fondamento. La musica ha insegnato l’inglese agli italiani. Niente vieta che in un futuro più o meno prossimo l’arte dei suoni possa, a distanza di molti secoli dalla nascita del melodramma, tornare a insegnare l’italiano in vaste aree del globo. Tutto ciò, ovviamente, sarà possibile solamente se l’Italia tornerà a essere un faro di cultura nel mondo. Per fare ciò vi è una sola strada da seguire e sulla quale insistere: aumentare i fondi destinati alle scuole, alle università, alla ricerca e alle attività culturali. Peccato che la cultura e il sapere, essendo ingredienti fondamentali alla base dell’agire critico e rivoluzionario degl’individui, siano da sempre osteggiati dal potere (sia ch’esso abbia lo schietto e malvagio volto della dittatura autoritaria sia ch’esso, viceversa, sia abituato a mostrare il falso volto bonario della democrazia). Bibliografia essenziale . Cesare Rizzi e Fulvio Beretta, Enciclopedia del rock italiano (1963 - 1993). Con un piccolo dizionario delle cover del bitt, collana Grandi Opere Rock, Italia: Arcana Editrice, 1993. . James Gavin, Chet Baker. La lunga notte di un mito, Milano: Dalai editore, 2004. . Luciano Vasapollo, Hosea Jaffe, Henrike Galarza, Introduzione alla storia e alla logica dell’Imperialismo, Milano: Jaca Book SpA, 2005. . AA. VV., a cura di Arturo Cattaneo, Chi stramalediva gli inglesi. La diffusione della letteratura inglese e americana in Italia tra le due guerre, Milano: Vita e Pensiero, 2007.