Metodologie e percorsi per la didattica, l’educazione, la riabilitazione, il recupero e il sostegno
Collana diretta da Dario Ianes
Anna Cardinaletti, Francesca Santulli, Elisabetta Genovese, Giacomo Guaraldi e Enrico Ghidoni (a cura di)
Dislessia e apprendimento delle lingue Aspetti linguistici, clinici e normativi
Indice
11 Introduzione (Anna Cardinaletti e Francesca Santulli)
Prima parte Normativa e indirizzi ministeriali CAP. 1 I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: 17
dall’approccio clinico alla «cura educativa» (Raffaele Ciambrone)
25 CAP. 2 I diritti delle persone con dislessia e altri disturbi
specifici dell’apprendimento: un bilancio a quattro anni dall’entrata in vigore della Legge n. 170 del 2010 (Giuseppe Arconzo)
41 CAP. 3 Insegnamento/apprendimento delle lingue straniere
a favore di studenti con DSA nelle scuole secondarie di secondo grado e all’Università (Giacomo Guaraldi e Elisabetta Genovese)
SECONDA parte Il punto di vista della linguistica e della clinica CAP. 4 La linguistica per la comprensione della dislessia: 51
alcuni test di produzione orale (Anna Cardinaletti)
69 CAP. 5 Scritto e parlato: varietà di lingua e neurovarietà
(Francesca Santulli)
87 CAP. 6 Una valutazione europea per la dislessia
(Gian Marco Fulgeri, Giacomo Stella, Enrico Ghidoni, Francesca Scortichini e Maristella Scorza)
99 CAP. 7 Il bambino bilingue con difficoltà di apprendimento
della letto-scrittura: è sempre corretto parlare di DSA? (Francesca Scortichini, Giacomo Stella, Gian Marco Fulgeri, Giuseppe G.F. Zanzurino e Maristella Scorza)
terza parte
Esperienze e indicazioni per la didattica
123 CAP. 8 Le lingue a scuola: la didattica del latino nell’ottica
dell’educazione linguistica comparativa e inclusiva (Rossella Iovino)
139 CAP. 9 Du iu spic inglisc? L’apprendimento dell’inglese in
bambini con dislessia (Paola Palladino)
147 CAP. 10 Lingue antiche e moderne: il gioco di squadra per
vincere i DSA – L’esperienza del progetto VINDIS (Lucia Ferlino)
167 CAP. 11 Insegnare l’ascolto con un approccio DOC (Graziella
Pozzo)
181 CAP. 12 Potenziare la lettura all’Università in studenti con
dislessia e normolettori: la sperimentazione italiana di SuperReading (Melissa Scagnelli, Annalisa Oppo e Francesca Santulli)
199 CAP. 13 Studenti dislessici all’Università: testimonianze e
progetti (Margherita Bissoni e Maria Turco)
Introduzione Anna Cardinaletti e Francesca Santulli
I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono ormai da tempo oggetto di studio, sia nella prospettiva della ricerca sia in ambito clinico. A livello internazionale essi hanno trovato una precisa collocazione negli schemi di classificazione (ICF), ma nei vari contesti nazionali l’approccio specifico all’analisi, diagnosi e trattamento non è tuttavia omogeneo. In Italia, i DSA sono stati studiati soprattutto in ambito medico e nella prospettiva evolutiva, sicché la neuropsichiatria infantile è stata per lungo tempo l’area principale di riferimento sia per la diagnostica sia per la definizione di percorsi riabilitativi. La crescente consapevolezza dell’esistenza stessa dei DSA e la necessità di diagnosticare anche individui adulti hanno richiesto però un approccio più ampio e articolato, che da un lato coinvolgesse specialisti che non operano esclusivamente con soggetti in età evolutiva, e dall’altro tenesse in maggiore considerazione gli aspetti cognitivi e psicologici, nonché le implicazioni pedagogiche e didattiche. La stessa elaborazione di un protocollo diagnostico condiviso ha visto coinvolti specialisti di varie aree, dalla neuropsichiatria alla neuropsicologia, dalla psicologia alla logopedia. La giuria dell’organismo che ha definito il protocollo, la Consensus Conference, annoverava tra i suoi membri medici con diverse specializzazioni, un docente, un genitore membro dell’Associazione Italiana Dislessia e persino il direttore di una agenzia giornalistica per la comunicazione scientifica. Tuttavia, in tutto il processo di elaborazione del protocollo e in ogni altra occasione importante di discussione e di dibattito non sono mai stati coinvolti specialisti di scienze del linguaggio.
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Dislessia e apprendimento delle lingue
In Italia la linguistica è dunque la grande assente tra le discipline che si sono occupate di DSA. Si tratta di una circostanza piuttosto curiosa, se si considera che i disturbi in questione riguardano l’area del linguaggio, e in particolare abilità specifiche come la lettura e la scrittura che si interfacciano significativamente con la struttura delle lingue e i processi di apprendimento delle stesse. Negli ultimi anni, tuttavia, tra i linguisti ha cominciato a diffondersi l’interesse per questa area di studio (si vedano Vender e Delfitto, 2010; Cardinaletti e Volpato, 2011; Cantiani et al., 2012; Guasti, 2013), anche in relazione a ricerche ormai consolidate in ambito internazionale (si vedano i riferimenti bibliografici dei capitoli di questo volume). Questi primi tentativi sono però rimasti sostanzialmente accademici, e non hanno trovato spazio adeguato nell’area operativa a cui fanno riferimento le scelte politiche più rilevanti sia per l’ambito sanitario sia per il contesto didattico. Anche in seguito alla sensibilizzazione sui temi dei DSA sfociata in significative scelte legislative e da queste ulteriormente rafforzata, la necessità di un approccio multi- e inter-disciplinare è apparsa sempre più evidente e imprescindibile. Parallelamente, l’adozione del manuale ICF e il diffondersi di un modello sociale della disabilità, con le inevitabili conseguenze sulla nozione stessa di disturbo (e di malattia), hanno mostrato l’intreccio indissolubile di fattori individuali e ambientali, e quindi i rischi che derivano da valutazioni univoche e parziali dei fenomeni considerati. Inoltre, in ambito specificamente cognitivo, il paradigma della neurodiversità segna una vera e propria svolta culturale, apre un nuovo discorso sui DSA, comportando il passaggio da una logica meramente riabilitativa e compensativa delle in-abilità a un progetto di sviluppo e di potenziamento delle abilità. In questo rinnovato e stimolante quadro di ricerca, interpretazione e intervento, non può più mancare il punto di vista della linguistica che, con l’analisi del linguaggio e delle singole lingue, può collocarsi tra il versante medico-psicologico e quello pedagogico-didattico, contribuendo in modo significativo alla comprensione del fenomeno. I modelli teorici e gli approcci metodologici propri della linguistica, sia nei suoi aspetti di analisi più teorica sia nelle sue versioni orientate alla pragmatica (e quindi alle variazioni e agli usi), sono strumenti di grande potenzialità interpretativa, ed è tempo che siano applicati anche alle tematiche che riguardano i DSA. Questo volume rappresenta uno dei primi tentativi di colmare una lacuna nella ricerca sui DSA, e vuole quindi promuovere il dialogo interdisciplinare, estendendolo, oltre che a medici e insegnanti, finalmente anche ai linguisti e a chi si occupa professionalmente di lingue e linguaggio.
Introduzione
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Il volume è articolato in tre parti: nella prima, Raffaele Ciambrone illustra le posizioni ministeriali che hanno ispirato la Legge 170/2010 sui DSA e i Decreti che sono seguiti, mentre Giuseppe Arconzo esamina approfonditamente la situazione legislativa nelle singole Regioni, con riferimento alle norme sulla diagnosi e le pronunce dei giudici amministrativi nelle numerose controversie sollevate negli anni successivi alla promulgazione della Legge. Successivamente, Giacomo Guaraldi ed Elisabetta Genovese analizzano nel dettaglio le indicazioni normative per l’insegnamento delle lingue straniere nelle scuole secondarie e all’Università, concentrandosi sui concetti di dispensa ed esonero, e di percorso didattico personalizzato e individualizzato. Nella seconda parte, presentando alcuni dati da esperimenti di produzione elicitata, Anna Cardinaletti solleva la questione della presenza in molti dislessici di difficoltà che vanno oltre la decodifica del testo scritto e che mettono in gioco anche le abilità di produzione (e comprensione) orale. Il capitolo di Francesca Santulli, invece, riflette in maniera dettagliata sui complessi rapporti tra lingua orale e lingua scritta, essendo la seconda non una semplice trascrizione della prima, bensì una varietà linguistica con caratteristiche proprie, particolarmente complesse per chi presenta una neurodiversità. Infine, nei due contributi, rispettivamente, di Gian Marco Fulgeri, Giacomo Stella, Enrico Ghidoni, Francesca Scortichini e Maristella Scorza, e di Francesca Scortichini, Giacomo Stella, Gian Marco Fulgeri, Giuseppe G.F. Zanzurino e Maristella Scorza, si solleva l’urgente questione, nelle società multilingui e multiculturali che caratterizzano l’era contemporanea, di come distinguere, nei soggetti bilingui, difficoltà linguistiche dovute alla situazione di bilinguismo stessa da situazioni di effettivo disturbo. La questione risulta particolarmente rilevante anche per l’attività diagnostica: da una parte si presenta l’esigenza di prove standardizzate che permettano un uso comune e risultati confrontabili nei vari Paesi della Comunità Europea, dall’altra c’è la necessità di evitare il più possibile diagnosi di falsi positivi, che risultano non solo penalizzanti per i singoli individui, che necessiterebbero di interventi educativi di diversa natura, ma anche particolarmente onerose per il sistema sanitario e l’intera collettività. Nella terza parte, specificamente dedicata a esperienze didattiche e percorsi operativi, Rossella Iovino presenta un interessante approccio didattico allo studio del latino, ispirato dalla teoria linguistica formale, che può risultare particolarmente efficace nel caso di alunni con DSA, ma anche molto stimolante per i compagni di classe. Il contributo di Paola Palladino si concentra invece sull’apprendimento dell’inglese in bambini con dislessia e propone una metodologia di potenziamento di tipo metacognitivo, che permette di superare alcune difficoltà nell’apprendimento dell’inglese scritto. Il contributo di Lucia Ferlino riporta invece una lunga sperimentazione (dal 2010 ad oggi) in alcuni
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Licei della Liguria, che ha coinvolto gli insegnanti di lingua straniera e delle lingue classiche. A seguire, Graziella Pozzo dedica un capitolo al potenziamento dell’attività di ascolto che, benché rivolto anche ai normolettori, può essere particolarmente utile per chi, come i dislessici, utilizza primariamente questa modalità di accesso alle informazioni. Segue il contributo di Scagnelli, Oppo e Santulli, il quale presenta la sperimentazione italiana di SuperReading, un corso per il potenziamento della lettura con effetti molto positivi in particolare sui soggetti con DSA, effetti che si manifestano sia in termini di aumento della velocità di lettura e della comprensione dei testi, sia in termini di pattern di lettura, documentati anche da uno studio preliminare di eye-tracking. Chiude il volume, infine, un breve intervento di due giovani dislessiche adulte, una già laureata e l’altra ancora studentessa, che raccontano la propria esperienza universitaria e le specificità del loro approccio allo studio. In Appendice al capitolo si trova inoltre una lista di richieste che gli studenti universitari dislessici pongono alle Università, al Ministero dell’Istruzione e all’Associazione Italiana Dislessia; si tratta di richieste molto ragionevoli che, ci si augura, potranno essere accolte dalle Istituzioni coinvolte. In conclusione, il volume offre agli insegnanti, ai docenti universitari, alle famiglie e ai dislessici stessi spunti per riflettere sugli aspetti linguistici coinvolti nel disturbo e sulle modalità con cui alcune difficoltà possono essere affrontate e superate. Come abbiamo detto, si tratta del primo volume che raccoglie insieme competenze e esperienze nate in ambiti disciplinari diversi e intende aprire la strada a un dibattito interdisciplinare che permetta di comprendere meglio il disturbo, ai fini non solo della diagnosi ma anche e soprattutto degli interventi educativi mirati che i DSA richiedono. Bibliografia Cantiani C., Lorusso M.L., Perego P., Molteni M. e Guasti M.T. (2012), Event Related Potentials reveal anomalous morphosyntactic processing in developmental dyslexia, «Applied Psycholinguistics», vol. 34, pp. 1135-1162. Cardinaletti A. e Volpato F. (2011), L’analisi linguistica per la comprensione dei DSA. In F. Santulli (a cura di), DSA – Disturbo, Differenza, Disabilità, Numero speciale dei «Quaderni di Scienze del linguaggio», Milano, Arcipelago Edizioni, pp. 65-87. Guasti M.T. (2013), Oral skills deficit in children with Developmental Dyslexia. In S. Stavrakaki, M. Lalioti e P. Konstantinopoulou (a cura di), Advances in language acquisition, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars Publishing, pp. 416-424. Vender M. e Delfitto D. (2010), Towards a pragmatics of negation: The interpretation of negative sentences in developmental dyslexia, «GG@G – Generative Grammar at Geneva», vol. 6, pp. 1-28.
1 I Disturbi Specifici dell’Apprendimento Dall’approccio clinico alla «cura educativa» Raffaele Ciambrone
La Direzione generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca da dieci anni si occupa dei disturbi specifici dell’apprendimento: il tema, infatti, fu affrontato per la prima volta con la Circolare n. 4099 del 5 ottobre 2004, che introduceva la possibilità di personalizzare la didattica, di adottare strumenti compensativi e misure dispensative, di applicare una valutazione specifica durante tutte le fasi del percorso scolastico. Sei anni dopo il Parlamento ha approvato una legge speciale — la n. 170 dell’8 ottobre 2010 — recante «Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento». La normativa è stata poi completata con: 1. il Decreto ministeriale n. 5669 del 12 luglio 2011, contenente le disposizioni attuative; 2. le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, allegate al Decreto n. 5669; 3. l’Accordo in Conferenza Stato-Regioni sulle indicazioni per la diagnosi e la certificazione dei Disturbi specifici di apprendimento (DSA), del 25 luglio 2012; 4. il Decreto interministeriale con cui, il 17 aprile 2013, il dicastero dell’Istruzione, Università e Ricerca e quello della Salute hanno adottato le linee guida per la predisposizione dei protocolli regionali per le attività di individuazione precoce dei casi sospetti di DSA, a cui è seguita la Circolare Ministeriale n. 1552.
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Con la firma del decreto sull’individuazione precoce dei DSA nella scuola, l’iter attuativo della Legge 170 può dirsi concluso. Dei quattro provvedimenti elencati, soltanto due erano stati previsti dal legislatore: il primo e il quarto. Il Comitato tecnico-scientifico (ne fanno parte tre professori dell’Università di Modena e Reggio Emilia,1 segno dell’impegno che l’ateneo ha profuso sul tema) aveva poi elaborato e proposto all’Amministrazione due ulteriori documenti, inizialmente non previsti: le Linee guida sui DSA a scuola e un Accordo, da sancire in Conferenza Stato-Regioni, sulle procedure di riconoscimento diagnostico. Le Linee guida contengono indicazioni già ampiamente recepite dalla comunità scolastica, che le apprezza per la loro utilità e fruibilità: forniscono infatti schede di approfondimento dedicate ai singoli Disturbi Specifici dell’Apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia) e proposte sulla didattica inclusiva, personalizzate per ciascun ordine e grado di scuola; indicano le competenze delle diverse istituzioni e delle figure interessate; chiariscono infine i diritti delle famiglie, alle quali le istituzioni hanno l’obbligo di rispondere in modo chiaro e con tempi certi. Anche l’Accordo sulle diagnosi e le certificazioni introduce elementi di semplificazione e di certezza nel rapporto tra il cittadino e l’Amministrazione pubblica, con particolare riferimento alla Sanità. Si consideri la disomogeneità nel percorso diagnostico in ambito ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder): in alcune regioni, come l’Emilia Romagna, il disturbo è certificato ai sensi della Legge 104 e dunque prevede l’attivazione di interventi in ambito scolastico, mentre in altre, ad esempio in Friuli Venezia Giulia, lo stesso disturbo viene sì diagnosticato, ma non certificato. Ciò a causa dell’utilizzo di diverse procedure e manuali di riferimento (DSM-IV, ora sostituito dal DSM 5, e ICD-10). Il modello di certificazione allegato all’accordo, invece, semplifica le procedure diagnostiche, rendendole omogenee nelle diverse regioni. Tale modello costituisce poi una base di lavoro apprezzabile per l’azione educativa: non vi sono infatti annotati soltanto i codici nosografici, ma anche i punti di forza e quelli di debolezza dell’alunno, che lo rendono un documento utile alla scuola per la programmazione didattica. Nel certificato proposto è specificato anche il livello di gravità del disturbo, il tutto pronto per essere trasmesso in via telematica dalle strutture specialistiche alla scuola. Rimangono alcuni nodi irrisolti e prospettive di miglioramento, ma le nuove disposizioni indicano un quadro di riferimento organico, cui ispirarsi Elisabetta Genovese, Enrico Ghidoni, Giacomo Stella.
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I Disturbi Specifici dell’Apprendimento
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per analoghi interventi di riordino del sistema nell’ottica della prevenzione. In questo senso, il decreto sull’individuazione precoce dei DSA è un punto di svolta, da attuare attraverso i protocolli d’intesa che le Regioni stipuleranno con gli Uffici Scolastici Regionali. Conservo tuttavia alcune perplessità sull’attuazione di tale provvedimento, che mi derivano dall’aver partecipato a una ricerca, condotta presso l’Università di Firenze2 e volta a indagare la somministrazione di test e l’utilizzo di checklist da parte del docente: il medesimo bambino — esaminato con lo stesso strumento di screening da due insegnanti diversi — è stato giudicato a rischio di DSA da un insegnante, mentre un secondo insegnante non ha rilevato elementi di rischio. Per questo, prima di un’adozione generalizzata, giudico necessaria una fase di sperimentazione nelle scuole. Nel frattempo è bene specificare che le attività di individuazione precoce che gli insegnanti stanno conducendo attualmente non consistono in processi di screening, con test da somministrare ai bambini, ma avvengono attraverso la compilazione di checklist da parte degli stessi insegnanti. Gli strumenti attualmente in uso (di questi solo un paio di libero utilizzo) presentano inoltre delle criticità, contenendo, ad esempio, alcuni item finalizzati a rilevare la presenza di competenze di lettura o scrittura nei bambini iscritti alla scuola dell’infanzia. Tale pratica contrasta con le indicazioni contenute nelle Linee guida, secondo cui è bene evitare il precocismo nell’insegnamento della letto-scrittura. Il rischio è quello di allarmare ingiustificatamente le famiglie, paventando l’insorgenza di disturbi in soggetti che poi si riveleranno falsi positivi. Ciò che è invece importante è attivare interventi didattici mirati e concentrare in tale ambito le proprie competenze, tanto più che l’eventuale diagnosi di dislessia viene rilasciata soltanto alla fine della seconda classe primaria; individuare precocemente un disturbo può essere quindi utile a un insegnante solo per orientare il proprio percorso didattico, non per altri scopi. Non vogliamo, in definitiva, medicalizzare la scuola, e in tal senso continueremo a lavorare. C’è infine un ulteriore provvedimento, recentemente emanato, che non è annoverato fra quelli previsti dalla Legge 170, ma che potremmo ricondurre alla filosofia che ha ispirato la legge: è la Direttiva sui Bisogni Educativi Speciali, un passo avanti nella cultura inclusiva del nostro Paese. La Direttiva viene apprezzata dal punto di vista pedagogico proprio perché, sulla scia delle norme per i DSA, rende sempre più effettivo il diritto allo studio di tutti, nell’ottica della personalizzazione dei percorsi di studio. Annalisa Baldini, Gli strumenti di individuazione precoce delle difficoltà di apprendimento, tesi per il master in Didattica e psicopedagogia per i DSA, Università di Firenze, A.A. 2012/2013.
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4 La linguistica per la comprensione della dislessia: alcuni test di produzione orale1 Anna Cardinaletti
Introduzione La Legge 170/2010, Articolo 1, definisce la dislessia come «un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà nell’imparare a leggere, in particolare nella decifrazione dei segni linguistici, ovvero nella correttezza e nella rapidità della lettura». La stessa attenzione sulle difficoltà di lettura viene ribadita nelle Linee guida del 12 luglio 2011, in cui si afferma che «risultano più o meno deficitarie — a seconda del profilo del disturbo in base all’età — la lettura di lettere, di parole e non-parole, di brani». In realtà la questione è più complessa. Da una parte, come ampiamente discusso nei lavori di Naama Friedmann e collaboratori (si vedano Friedmann et al., 2013; 2014; Kohnen et al., 2012), esistono molti tipi di dislessia diversi a seconda del modo in cui si manifesta il disturbo di lettura. Dall’altra, la dislessia è spesso accompagnata da difficoltà che vanno ben oltre le difficoltà di decifrazione dei segni e di rapidità della lettura. A questo riguardo è opportuno segnalare il punto delle Linee guida del 12 luglio 2011 in cui, seppur brevemente, si accenna alla possibile comorbilità tra DSA e altri disturbi di sviluppo e, in particolare, i disturbi di linguaggio (DSL): «La comorbilità può essere presente anche tra i DSA e altri disturbi di sviluppo (disturbi di linguaggio, […])». Nei Una versione preliminare del lavoro è stata presentata al convegno «DSA e Università», Bari, 22 maggio 2012 (con Francesca Volpato).
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dislessici, il deficit si può dunque estendere oltre la decodifica del messaggio scritto, con conseguenze anche sulla comprensione e produzione della lingua orale. Questo capitolo si focalizzerà su questo aspetto. Verranno presentati quattro studi su alcuni soggetti dislessici (bambini in età scolare e studenti universitari) che mostrano difficoltà nella produzione orale di costruzioni complesse (frasi contenenti pronomi clitici, frasi interrogative, frasi relative e frasi passive), caratterizzate da dipendenze sintattiche a lunga distanza. Queste costruzioni sono notoriamente problematiche per altri soggetti con disabilità linguistiche, quali soggetti con DSL e sordi. Il capitolo è organizzato come segue. Nel paragrafo seguente si accennerà alla questione complessa dei rapporti tra dislessia e DSL; nel paragrafo Alcuni studi di produzione orale su soggetti con diagnosi di dislessia verranno descritte le difficoltà sintattiche osservate in vari gruppi di soggetti dislessici testati in compiti di produzione orale; nell’ultimo paragrafo, infine, si individueranno alcune possibili linee di spiegazione dei fatti osservati, da approfondire in lavori futuri. Dislessia e disturbo specifico del linguaggio Sebbene la dislessia venga identificata come un disturbo di lettura, nella letteratura specialistica sono stati osservati nei dislessici anche problemi di natura linguistica: disturbi fonologici (Ramus et al., 2003) e difficoltà nella ripetizione di non parole (Brady et al., 1983; Elbro, 1997), problemi di natura lessicale, che riguardano le singole parole, ad esempio un lessico impoverito (Snowling et al., 2003) e difficoltà nei compiti di denominazione (Manis et al., 1997; 2000). Sono stati inoltre riscontrati deficit di natura strettamente sintattica, come ad esempio la difficoltà a interpretare e a produrre frasi complesse come le frasi relative e le frasi passive (Mann et al., 1984; Stein et al., 1984; Barshalom et al., 1993; Wisehart et al., 2009; Robertson e Joanisse, 2010) e alcune difficoltà con la morfologia verbale (Rispens et al., 2004) e con la negazione (Vender e Delfitto, 2010; Rizzato et al., 2014). La questione è molto complessa e c’è una discussione aperta sui rapporti fra la dislessia e il disturbo specifico del linguaggio. A questo proposito sono state avanzate varie ipotesi. Tra gli altri, Stanovich (1986) propone che le difficoltà linguistiche osservate nei dislessici siano una conseguenza della loro scarsa esperienza con la lingua scritta perché alcune strutture che risultano problematiche, come ad esempio le frasi passive, sono tipiche della lingua scritta. Kamhi e Catts (1986) e Tallal et al. (1997) ritengono invece che di-
La linguistica per la comprensione della dislessia: alcuni test di produzione orale
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slessia e DSL siano disturbi della stessa natura che si situano su un continuum e differiscono per la gravità del sintomo. Più recentemente altri autori hanno ipotizzato che si tratti di disturbi diversi, che si possono trovare nello stesso individuo per comorbilità (Catts et al., 2005; Pennington e Bishop, 2009). Infine, Bishop e Snowling (2004) sostengono che gli individui con disturbo fonologico presenterebbero un DSA, mentre i bambini con disturbi sia fonologici che non-fonologici siano da diagnosticare come DSL. Per una panoramica delle proposte, si vedano tra gli altri Catts e Kamhi (2005), Carroll e Myers (2010), Pennington e Bishop (2009). Non entreremo qui nel complesso rapporto fra i due disturbi, che ha suscitato l’interesse anche dei neurolinguisti (Leonard et al., 2006). Vorremmo invece attirare l’attenzione su un aspetto importante del dibattito. Come osservano Catts et al. (2005), talvolta le difficoltà di linguaggio nei dislessici non sono così importanti da permettere una diagnosi di DSL e questo è stato documentato anche in bambini con un rischio di dislessia di natura genetica: «Whereas these oral language difficulties were present, they were typically not severe enough for children to have been identified as having SLI (Scarborough & Dobrich, 1990). This has also been the case for other studies that have documented oral language problems in children with a family risk for dyslexia (e.g. Gallagher et al., 2000)».2 È dunque possibile che nei soggetti dislessici le difficoltà nella lingua orale non vengano identificate. Sebbene la diagnosi sia di dislessia, il bambino potrebbe presentare anche problemi di linguaggio, quindi difficoltà che si possono manifestare non solo nei compiti di lettura e nella comprensione di un testo scritto, ma anche nella comprensione e produzione della lingua orale. Questa situazione può verificarsi a causa del tipo di test che vengono utilizzati nella pratica clinica. Si osservi che i test standardizzati permettono una valutazione generale della competenza linguistica e non permettono valutazioni puntuali su singoli aspetti della lingua. Come è stato dimostrato in alcuni lavori recenti (Friedmann e Novogrodsky, 2008), il DSL può interessare moduli diversi del linguaggio (fonologia, lessico, sintassi, pragmatica) e sono pertanto necessari test specifici per identificare quale modulo del linguaggio sia danneggiato; è inoltre possibile la comorbilità di disturbi in moduli diversi: disturbo lessicale + disturbo sintattico, disturbo fonologico + disturbo lessicale, «Sebbene queste difficoltà con la lingua orale fossero presenti, esse non erano in genere abbastanza gravi per diagnosticare ai bambini un DSL (Scarborough e Dobrich, 1990). Risultati simili sono emersi in altri studi che hanno rivelato problemi con la lingua orale in bambini con rischio familiare di dislessia (Gallagher et al., 2000)» (traduzione dell’autrice).
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ecc. Una valutazione generale della competenza linguistica potrebbe non essere sufficiente a identificare le difficoltà linguistiche dei soggetti con dislessia. Inoltre, i test standardizzati non distinguono tra registri della lingua, mentre sappiamo dall’analisi linguistica che i registri sono lingue diverse per grammatica e lessico (si veda il contributo di Santulli in questo volume), che vengono acquisiti in momenti diversi della nostra vita e di cui possiamo raggiungere livelli di competenza diversi. La lingua che impariamo in maniera nativa è il registro colloquiale, mentre per imparare il registro formale tipico della lingua scritta sono necessari alcuni anni di scolarizzazione (ad esempio, le frasi relative costruite sul complemento preposizionale — come la sedia su cui è seduto — vengono prodotte non prima dei 10 anni; vedi Guasti e Cardinaletti, 2003). Quale registro viene valutato tramite i test standardizzati? Infine, i test standardizzati sono per lo più test di comprensione, che non permettono in genere di verificare se siano presenti o meno difficoltà nella produzione (orale e/o scritta). Come si segnala per la diagnosi della dislessia nei lavori di Friedmann e collaboratori citati sopra, è importantissimo usare strumenti diagnostici precisi e raffinati affinché si possa identificare correttamente il tipo di disturbo ed elaborare interventi riabilitativi appropriati. Altrettanto è necessario nel caso dei test utilizzati per identificare eventuali disturbi del linguaggio. Crediamo che la teoria linguistica contemporanea possa aiutare i clinici nel compito di diagnosticare il disturbo in maniera più precisa e i docenti nell’osservare più attentamente eventuali difficoltà che si dovessero manifestare negli studenti. Sulla base di specifiche ipotesi linguistiche, è possibile elaborare test mirati su singole strutture grammaticali o su tipologie di strutture grammaticali. L’analisi linguistica ci permette inoltre di fare considerazioni su registri diversi, quindi per esempio verificare se si presentano difficoltà nelle strutture che sono tipiche del registro formale, che viene utilizzato non solo nella forma scritta, e dunque nei testi complessi che si usano a scuola o all’università, ma anche nella lingua orale formale che si utilizza all’università. Infine, ci sono esperienze positive di riabilitazione del DSL tramite protocolli ispirati dalle ipotesi teoriche più recenti (Levy e Friedmann, 2009), che potrebbero essere applicati anche a soggetti con diagnosi di dislessia che presentino difficoltà linguistiche. Come ribadito da Friedmann nei suoi lavori su varie lingue, è inoltre molto importante utilizzare un’impostazione comparativa, cioè verificare come i vari disturbi si manifestino in popolazioni diverse e/o in lingue diverse (si veda anche il contributo di Scortichini et al. in questo volume). Questa impostazione comparativa potrà contribuire a comprendere meglio anche i rapporti fra disturbo di lettura e disturbo di linguaggio.
7 Il bambino bilingue con difficoltà di apprendimento della letto-scrittura: è sempre corretto parlare di DSA? Francesca Scortichini, Giacomo Stella, Gian Marco Fulgeri, Giuseppe G.F. Zanzurino e Maristella Scorza
Introduzione Il lavoro presentato rappresenta il tentativo di replicare la ricerca pubblicata nella rivista «Dislessia» nel 2012 (Scortichini, Stella, Morlini, Zanzurino e Scorza) allo scopo di sondare ulteriormente la variabile lessico nei bambini bilingui diagnosticati DSA. Rispetto alla ricerca in questione, il campione si differenzia per l’età (il range si restringe e va dagli 8 agli 11 anni) e presenta una numerosità più limitata. I due lavori nascono da un’emergenza di tipo clinico, provocata dal progressivo aumento e cambiamento di utenza relativo ai servizi pubblici di Neuropsichiatria infantile e Psicologia clinica. Gran parte dei bambini che oggi afferiscono a tali strutture sono bambini bi-plurilingui con difficoltà di apprendimento scolastico. Essi sono generalmente inviati per difficoltà relative alla lettura (lentezza, inaccuratezza, difficoltà di comprensione del testo), alla scrittura (numerosi errori ortografici e incapacità di produrre testi adeguati al livello di scolarità raggiunto) e al calcolo (non automatizzazione dei fatti aritmetici, lentezza nel calcolo mentale, difficoltà di comprensione dei problemi). Dalle raccolte anamnestiche dei genitori è possibile rilevare la mancanza di autonomia nelle attività scolastiche e nei compiti a casa (viene segnalata spesso anche l’incapacità dei genitori nel seguirli a casa, derivante dalla scarsa conoscenza della lingua italiana).
100 Dislessia e apprendimento delle lingue La situazione descritta è presente non solo in bambini recentemente immigrati in Italia ma anche in quelli di prima e seconda generazione. Poiché purtroppo nel nostro Paese non ci sono delle chiare linee guida per porre diagnosi di DSA nei bambini bi-plurilingue, queste rimangono prevalentemente una decisione clinica del professionista che ha in carico il bambino (neuropsichiatra o psicologo). Considerando che gli strumenti compensativi e dispensativi vengono concessi a scuola, nella maggior parte dei casi, solo se il bambino ha una diagnosi di DSA (secondo la Legge 170 dell’ottobre 2010), se la prestazione del bambino alle prove standard lo permette, si può parlare di Disturbo Specifico di Apprendimento e dunque avvalersi delle misure previste. Ma in questi casi è giusto avvalersi delle misure previste dalla Legge 170/10 o sarebbe meglio non applicare etichette neuropatologiche e, piuttosto, fare riferimento alla Circolare MIUR del 2012 sui Bisogni Educativi Speciali? È corretto diagnosticare bambini bi- o plurilingui con prove tarate sul campione italiano? Il fatto di non avere l’italiano come lingua madre può avere delle ripercussioni sull’automatizzazione della letto-scrittura? Cosa succederebbe se i bambini bi-plurilingue segnalati potessero frequentare dei laboratori di lingua italiana? Migliorerebbero anche negli apprendimenti di tipo strumentale? Siamo veramente sicuri che, se un bambino plurilingue ha una prestazione al di sotto della soglia delle 2 ds, questa possa essere ritenuta espressiva di un disturbo di apprendimento? Dalla ricerca condotta nel 2012 (Scortichini, Stella, Morlini, Scorza e Zanzurino) presso il Servizio di Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza del territorio di Reggio Emilia su un campione di 28 bambini bilingui, emerge che quasi tutti i bambini esaminati hanno una prestazione deficitaria solo alle prove lessicali (via di lettura che più risente della conoscenza della lingua). Al contrario, il gruppo di controllo, costituito da altrettanti soggetti DSA monolingui, mostra un profilo di lettura significativamente diverso. Nella ricerca in questione, attraverso il calcolo della differenza tra le medie nelle prestazioni ai test dei due campioni (Gruppo A e B) è stato possibile effettuare alcune considerazioni. Per la maggior parte delle prove di tipo lessicale, le medie campionarie sono differenti; in particolare, la differenza nelle prestazioni tra i due gruppi sembra intensificarsi nelle prove PPVT (Stella, Pizzoli e Tressoldi, 2000), BNT (Kaplan et al., 1983), Prova 2 (entrambi i parametri), Prova 6 (Sartori, Job e Tressoldi, 2007) e Prova MT accuratezza (Cornoldi e Colpo, 1998). Le medie campionarie non risultano diverse per le prestazioni dei soggetti nella prova di letto-scrittura di non parole (Prove 3 e 7). Anche in termini di velocità, alla sola prova di lettura del testo (Brano MT) non si registrano differenze fra le medie dei gruppi di mono e bilingui.