Ciro Raia
’9CENTO ITALIANO Introduzione ai fatti e ai protagonisti di un secolo, appena passato, che hanno caratterizzato e segnato il nostro presente
ISBN 978-88-6647-092-2
Diogene Edizioni
“DIARI DELLA MEMORIA” Collana di testi e studi diretta da Ciro Raia
Ciro Raia
’9CENTO ITALIANO Introduzione ai fatti e ai protagonisti di un secolo, appena passato, che hanno caratterizzato e segnato il nostro presente
Diogene Edizioni
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Diogene Edizioni - I 80038 Pomigliano d’Arco (NA) http://www.diogeneedizioni.it/ © 2014 by Diogene Edizioni Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana marzo 2014 ISBN 978-88-6647-092-2 (e-book)
INDICE
CAPITOLO I ANNI DI SPERANZA
9
CAPITOLO II ANNI DI GUERRA
35
CAPITOLO III ANNI DI DITTATURA
55
CAPITOLO IV ANNI DI ILLUSIONI
77
CAPITOLO V ANNI DI MORTE
95
CAPITOLO VI ANNI DI PASSIONI
113
CAPITOLO VII ANNI DI RICOSTRUZIONI
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CAPITOLO VIII ANNI DI TRASFORMAZIONI
149
CAPITOLO IX ANNI DI PIOMBO
167
CAPITOLO X ANNI DI CRONACA
179
Emigranti italiani a Elis Island
Capitolo I ANNI DI SPERANZE
L’alba del nuovo secolo comincia per l’Italia nella giornata di capodanno con uno scandalo, che crea un aspro confronto tra i partiti politici: il generale Giuseppe Mirri, ministro della Guerra nel governo Pelloux, è costretto a dimettersi per aver esercitato pressioni sulla Magistratura a favore del deputato Raffaele Palizzolo, già consigliere comunale a Palermo, incriminato di amicizie e sostegni mafiosi ma, soprattutto, di essere stato il mandante, nel 1893, del delitto del marchese Emanuele Notarbartolo. Il nobile siciliano, vecchio sindaco di Palermo, dal 1873 al 1876, aveva conquistato la stima dei benpensanti e gli onori della cronaca per aver cercato di debellare il fenomeno della corruzione alle dogane. Il clima surreale del nuovo secolo continua, poi, nella caldissima giornata di domenica 29 luglio 1900, quando, a Monza, il re Umberto I (1844-1900), detto il re buono, figlio di Vittorio Emanuele II di Savoia e di Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena, muore per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. L’assassinio del discendente di casa Savoia – che già aveva subito precedenti attentati, nel 1878 ad opera di Giovanni Passannante e nel 1897 di Pietro Acciarito – desta, dovunque e in chiunque, sentimenti di dolore, di indignazione e di impressione sconfinata. Tutti, infatti, piangono il re, che si era conquistato l’appellativo di buono, per il suo comportamento e la sua umanità nelle sciagure nazionali – tra cui la gravissima epidemia di colera a Napoli del 1884 – che lo avevano visto in prima fila tra i soccorritori e sempre prodigo a portare una parola di conforto. Umberto, però, era stato anche il re, che, nell’intento di voler fare dell’Italia una nazione devota ed ubbidiente alla monarchia sabauda, non aveva disdegnato di dare un’impronta fortemente militare ai suoi governi e di aver
“Quando la campanella che annunciava la partenza dei treni incominciò a suonare, il capostazione uscì dal suo ufficio sotto la tettoia e si diresse verso la locomotiva. Sbuffando come sempre, il treno si mosse; allora dalla sala d’aspetto di prima classe vennero fuori due uomini vestiti di scuro con i cappelli rigidi calcati fin sopra e orecchie, e Notarbatolo capì che erano i suoi assassini … Come in un sogno, Notarbartolo vide il feddapani (il coltello per affettare il pane) che usciva insanguinato dal suo corpo almeno tre volte: poi gli sembrò che lo scompartimento, e il treno, e il mondo intero fossero investiti da un’esplosione di luce; le sue gambe si piegarono, i suoi occhi si rovesciarono e non videro più niente. Restò incastrato tra i sedili, a sussultare e segnare con le unghie il velluto dei cuscini, cercando ancora disperatamente d’aggrapparsi alla vita” (Sebastiano Vassalli, Il Cigno, Einaudi, 1993)
CAPITOLO I
Un canto anarchico, anonimo, dei primi del ’900, sintetizza con questa strofa la morte di Umberto I: “Alla stazion di Monza arriva un tren che ronza hanno ammazzato il re colpito con palle tre”. Il canto, probabilmente frutto di continue aggiunte, così si conclude: “Rivoluzione sia, guerra alla società, piuttosto che vivere così, meglio morire per la libertà”
Carlo Alberto Pisani Dossi, conosciuto come Carlo Dossi, è uno scrittore d’inizio secolo collegato alla Scapigliatura milanese. Tra il 1870 ed il 1910, in sedici quaderni con copertina azzurra, scrive un diario intimo, (pubblicato recentemente da Adelphi, col titolo di “Note azzurre”) in cui annota l’ambiguo clima che si vive in Italia. E si scopre, così, che Manzoni è incolpato di pederastia, la moglie di Francesco Crispi è impegnata in equivoche frequentazioni, il Tommaseo è indicato come assiduo cliente delle case di tolleranza e il re Vittorio Emanuele II è ossessionato da uno sfrenato desiderio erotico.
ANNI DI SPERANZA
anche acconsentito allo scioglimento del partito socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie. Però, l’emozione suscitata dal regicidio finisce col prevalere sul ricordo della dura repressione attuata dal generale Fiorenzo Bava Beccaris ed approvata dallo stesso re. Solo due anni prima, infatti, nel 1898, per sedare i tumulti provocati dai rincari del pane e dai bassi salari – la cosiddetta protesta dello stomaco –, il generale di corpo d’armata Bava Beccaris, non aveva esitato a rendersi responsabile di oltre un centinaio di morti e di un migliaio di feriti. Senza parlare dell’arresto, con condanne durissime, di quanti sono accusati di attentare alle istituzioni dello Stato. A Filippo Turati, capo del partito socialista, è inflitta una pena di 12 anni di carcere! Ad Umberto I succede il figlio Vittorio Emanuele III (18691947), chiamato in seguito il re soldato, perché sarà assiduamente presente tra i combattenti della I guerra mondiale, ma chiamato anche sciaboletta, per la sua bassa statura, per cui era costretto a portare una sciabola su misura, onde evitare che strisciasse per terra. L’erede al trono aveva appreso la notizia della morte del padre nei mari della Grecia, dove stava navigando, a bordo del panfilo Jela, con la giovane moglie Elena di Montenegro. L’intera nazione aspetta con fiducia ed apprensione l’indirizzo politico del nuovo sovrano. Dei sentimenti degli stessi italiani si fa interprete il poeta Gabriele D’Annunzio, il vate, che così saluta il nuovo re: T’elesse il Destino/ all’alta impresa audace./Tendi l’arco, accendi la face, /colpisci, illumina, eroe latino! L’11 agosto 1900 l’erede di Umberto I si presenta alle Camere con un discorso, che riscuote consenso e simpatia solo tra i ceti borghesi. Vittorio Emanuele III, infatti, cerca invano di raggiungere il cuore del popolo: “Impavido e sicuro ascendo al trono con la coscienza dei miei diritti e dei miei doveri. L’Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della patria […] A noi bisogna la pace interna e la concordia di tutti gli uomini di buon volere. Raccogliamoci e difendiamoci con la rigorosa loro applicazione. Monarchia e Parlamento procedano solidali in quest’opera salutare ”. L’Italia è solo una nazione di nome, ma non ancora di fatto. Solo i circoli risorgimentali, che hanno dato un
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CAPITOLO I
ANNI DI SPERANZA
forte contributo al processo di unità politica della penisola, vivono il valore di appartenenza ad uno Stato. La maggior parte dei sudditi, invece, percepisce di essere italiana solo di nome; è una consistente fetta di popolazione da troppo tempo abituata a sottostare a un dominio, oggi di casa Savoia come ieri dei papi o degli Asburgo, dei Lorena o dei Borbone. Tra il regicidio e l’insediamento dell’erede al trono, il governo è retto dal senatore Giuseppe Saracco, (un fervido sostenitore di Cavour) entrato nel parlamento piemontese già prima dell’Unità d’Italia, nel 1849, e, dal 1851, presente in tutti i governi, come sottosegretario o ministro. Saracco è capo di un governo molto debole, ma non per questo rinunciatario nell’opera di conciliazione di un paese lacerato dalle divisioni di classe e dagli odi di parte. Nel febbraio del 1901, poi, primo ministro è nominato Giuseppe Zanardelli, che chiama agli Interni Giovanni Giolitti. Zanardelli, che ha ricoperto incarichi ministeriali sin dal governo Depretis (1876) e si è distinto per aver varato il nuovo Codice Penale (1889) – con la relativa abolizione della pena di morte – ed aver esteso il suffragio elettorale a quanti dimostravano di saper leggere e scrivere, è quello che si definisce uno statista progressista. Da capo di governo, infatti, presenta un disegno di legge per l’istituzione dell’Ufficio del lavoro, insieme ad una proposta di legge per il divorzio, che, però, è costretto a ritirare per la massiccia opposizione popolare. Egli si batte anche per l’istituzione della Cassa Nazionale di Previdenza e per rendere umane le condizioni di lavoro delle donne ed, in particolare, delle lavoratrici madri. Quando Zanardelli muore (1903) gli succede Giovanni Giolitti. Una delle prime azioni dello statista di Dronero – località in provincia di Cuneo – è quella di far assumere allo Stato la gestione dei servizi telefonici. Nel 1903 l’Italia conta 23.109 abbonati, 212 posti pubblici urbani, 83 reti urbane e 43 linee interurbane. Intanto, nel paese la lotta sociale diventa molto aspra. Gli
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Alle richieste dei lavoratori le forze dell’ordine rispondono con le armi. Molte stragi sono consumate per arginare manifestazioni popolari. Si contano 2 morti e 50 feriti a Giarratana (RG), nell’ottobre 1902, tra la folla che protesta contro le tasse; 5 morti e 2 feriti, per lo stesso motivo, si registrano a Candela (FG); ci sono, poi, 3 morti e 30 feriti a Petacciato (CB), 7 morti e 40 feriti a Torre Annunziata (NA), 3 morti e 40 feriti (1904) a Cerignola (FG).
Il governo Zanardelli-Giolitti nasce in un momento di grande confusione sociale, caratterizzata da scioperi e sommosse. In un solo anno se ne contano ben 1700! Ma il Ministro degli Interni (Giolitti), pur se accusato dall’opinione pubblicata, in maggioranza moderata, di essere debole e doppiogiochista, affronta con la decisione la questione. I suoi telegrammi ai prefetti lo testimoniano. Al capo della prefettura di Palermo, per esempio, scrive: “A qualsiasi costo domani non devono rinnovarsi disordini. Attendo ciò dalla sua energia”. A quello di Foggia, invece, scrive: “Duolmi vedere che la prefettura è retta da funzionario inetto.” Al prefetto di Milano, infine, in occasione di uno sciopero proclamato dai fattorini telegrafici, scrive: “Se fattorini telegrafici si mettono in sciopero saranno subito rimpiazzati e rimpatriati se non hanno mezzi di sussistenza”.
CAPITOLO I
Il 7 luglio 1907 la Camera dei Deputati approva alcune misure a favore del Mezzogiorno: legge speciale per la Calabria, legge sulle ferrovie complementari della Sicilia. Precedentemente, nel 1902, erano state emanate due leggi a favore di Napoli, per sanare la situazione debitoria del comune. Nel 1904, invece, altre due leggi erano state promulgate a favore della Basilicata (stanziamento di fondi) e per lo sviluppo industriale di Napoli (impianto siderurgico di Bagnoli).
ANNI DI SPERANZA
scioperi degli operai sono sempre più violenti: a Buggerru, in Sardegna, il 4 settembre 1904, la polizia non esita a sparare sui minatori in agitazione. Si contano tre morti e numerosi feriti. Altri morti, per azioni analoghe, si contano a Castelluzzo di Trapani e a Sestri. I deputati socialisti, repubblicani e radicali chiedono, allora, a Giolitti l’emanazione di una legge che proibisca gli scontri a fuoco tra forze dell’ordine e dimostranti. Giolitti rifiuta, sostenendo che non può accettare indicazioni da una frazione del Parlamento e che le azioni di sciopero impongono una verifica politica nel paese. Ottiene, perciò, dal re lo scioglimento delle Camere. Le elezioni del novembre 1904 – si presentano alle urne solo 1.593.886 votanti a fronte di 2.541.327 elettori – decretano una vittoria schiacciante del liberale Giolitti. L’opposizione radicale, infatti, perde voti e seggi. Nel nuovo governo, il ministro della Pubblica Istruzione, Vittorio Emanuele Orlando, estende l’obbligo scolastico fino a dodici anni ed istituisce la quarta classe elementare. Nel 1905, complice una forte influenza, si dimette il primo ministro Giolitti. A succedergli è chiamato Alessandro Fortis, un deputato di Forlì molto introdotto negli ambienti della finanza e dell’industria. Ma anche quest’ultima esperienza governativa è di breve durata; infatti, il governo Fortis cade e la presidenza del consiglio è affidata a Sidney Sonnino, che dura in carica, però, solo cento giorni. Ritorna, quindi, primo ministro Giolitti, che guida il governo sino alle elezioni del 1909, quando alle urne si presenta a votare il 65% degli aventi diritti, circa due milioni di elettori. L’era giolittiana è segnata da molte luci ed altrettante ombre. Innegabili sono i positivi traguardi1 raggiunti nello sviluppo 1
Il Ministro della buonavita: : Negli anni in cui Giolitti governa da palazzo Braschi si fanno, in tutta Italia, grandi lavori, che cominciano allora a chiamarsi “trasformazioni edilizie”. È l’epoca in cui a Roma si inizia la costruzione dei quartieri alti, a Milano si aprono le strade nuove al di là del Parco e le prime trasversali di corso Buenos Aires fino a Loreto, a Genova si infittiscono i caseggiati nella zona della Foce e si dà l’assalto alle colli12
CAPITOLO I
ANNI DI SPERANZA
economico del paese e nel campo delle riforme sociali. Altrettanto innegabili sono gli aspetti negativi2, che contraddistinguono la politica di Giolitti. Un titolo di merito è la legge di riforma elettorale, approvata nel 1912. La nuova legge concede il diritto di voto a tutti i cittadini di sesso maschile, con età superiore ai 30 anni, anche se analfabeti. Dal suffragio restano escluse le donne, perché ritenute, sia dai conservatori che dai socialisti, troppo facilmente influenzabili dalla propaganda clericale. Con la nuova legge ha accesso alle urne il 24% della popolazione italiana, pari a 8.600.000 elettori. Per facilitare l’espressione del voto agli analfabeti, si introducono sulle schede i simboli elettorali, che permettono di distinguere i vari partiti. Per favorire, poi, la partecipazione attiva di tutti i cittadini alla vita politica, anche di quelli di umile estrazione e privi di fortune economiche precostituite, è riconosciuta un’indennità parlamentare a vantaggio degli eletti. Un’altra importante legge è quella che riforma la scuola elene di Albano, a Firenze si fabbrica al di là della linea dei viali, a Napoli si costruisce il rione Vomero.[…] Nelle cittadine di provincia, anche, si costruisce molto; soprattutto in quelle che hanno un’intensa emigrazione. A Chiavari, ad esempio, a Lucca, a Barga, ci sono strade intere di palazzine di “americani”. E case di “americani” spuntano in tutti i paesi del Mezzogiorno; ammiratissime per la finitura dei tetti e degl’intonaci, cioè per il coraggio con cui il padrone, ultimandole così, affronta con la “casa finita” l’agente delle imposte. I poggi del Varesotto e della Brianza, i pendii di Valle Scrivia e del Mugello si riempiono di villini, sommarie imitazioni di chalets svizzeri o di manieri merlati, con finto ponte levatoio. (Giovanni Ansaldo, Giovanni Giolitti il Ministro della buonavita, Le lettere, Firenze, 2002). 2 Il “Ministro della malavita”: L’onorevole Giolitti approfitta delle miserevoli condizioni del Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali; dà a costoro carta bianca nelle amministrazioni locali; mette nelle elezioni a loro servizio la malavita e la questura; assicura ad essi ed ai loro clienti la più incondizionata impunità; lascia che cadano in prescrizione i processi elettorali e interviene con amnistie al momento opportuno; mantiene in ufficio i sindaci condannati per reati elettorali; premia i colpevoli con decorazioni; non punisce mai i delegati delinquenti; approfondisce e consolida la violenza e la corruzione dove rampollano spontanee dalle misure locali; le introduce ufficialmente nei paesi dove erano prima ignorate. L’onorevole Giolitti non è certo il primo uomo di governo dell’Italia unita che abbia considerato il Mezzogiorno come terra di conquista aperta ad ogni attentato malvagio. Ma nessuno è stato mai, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull’asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d’Italia; nessuno ha fatto un uso più sistematico e più sfacciato, nelle elezioni del Mezzogiorno, di ogni sorta di violenze e reati. (Gaetano Salvemini, Il Ministro della malavita ed altri scritti sull’Italia giolittiana, Feltrinelli, 1962). 13
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L’8 Maggio 1907 il deputato lucano Francesco Saverio Nitti (futuro presidente del Consiglio dei Ministri nel 1919) così denuncia il lassismo dei governi nella lotta all’analfabetismo: “In Italia la popolazione scolastica è così scarsa ancora, dopo 50 anni di unità e dopo 30 anni di istruzione obbligatoria, che si può dire che lo scopo della legge del 1877 non fu mai realizzato. Vi sono almeno 4 milioni e 500 mila bambini che avrebbero l’obbligo di seguire le scuole, ma a scuola se ne contano solo 2 milioni e 700 mila […] Sì, i comuni dovrebbero fare, ma se i comuni non fanno, vi è forse il governo che li spinge?”.
ANNI DI SPERANZA
mentare (1905). Da questo momento lo Stato assume, sottraendole ai Comuni, le spese per le scuole di primo grado; il diritto all’istruzione è, così, assicurato ovunque e non solo nei ricchi comuni del nord. Resta, intanto, aperta la polemica sul significato e la funzione delle scuole tecniche e professionali, che, secondo il pedagogista Aristide Gabelli, “sono sorte in Italia sotto l’influenza di una stella comica. Sono semplicemente ridicole.”. Gli operai vivono bene, i salari aumentano, nelle case cominciano ad entrare “beni voluttuari” come la bicicletta, il giornale o un libro. La moneta italiana si rafforza tanto da essere preferita, sul mercato internazionale, alle monete d’oro. Le banche fanno ottimi affari. Le opere pubbliche si arricchiscono del traforo del Sempione e dell’acquedotto pugliese, che dal bacino del fiume Sele, attraverso la Calabria e la Lucania, fornisce l’approvvigionamento idrico alle terre del Tavoliere. Le entrate dello Stato sono in incremento tanto da avere un bilancio in avanzo. E tutto ciò nonostante si sia dovuto far fronte a spese impreviste causate dall’eruzione del Vesuvio del 1906 e dal drammatico terremoto, che distrugge Messina nel 1908. Ma, purtroppo, a fronte di un’Italia del nord, che con la FIAT (automobili), la Pirelli (gomma) ed altre industrie si avvicina ai paesi più sviluppati dell’Europa, c’è un meridione povero, senza risorse, arretrato, senza potere, in preda all’affarismo e al malgoverno3. Ed è dal Mezzogiorno d’Italia, con la sua agricoltura povera, che partono migliaia di emigrati; è nel Mezzogiorno d’Italia che l’ignoranza è diffusissima e le organizzazioni politiche e sindacali sono quasi del tutto assenti. Quale terreno più fertile – quello del Mezzogiorno appunto – per consentire a Giolitti di mantenere il controllo politico del paese? È nel Mezzogiorno, infatti, che il primo ministro ricorre ad una politica clientelare, che promette e minaccia in epoca di elezioni, che si 3
Nel 1901 l’inchiesta del senatore Giuseppe Saredo, delegato del Parlamento, denuncia collusioni con ambienti malavitosi ed impiego illecito di denaro pubblico da parte di amministratori di Napoli, città che, a 39 anni dall’unità d’Italia, risulta essere stata commissariata già per nove volte. L’indagine ha preso avvio dall’accusa al sindaco Celestino Summonte e al deputato Aniello Alberto Casale di avere legami con la camorra. 14
CAPITOLO I
ANNI DI SPERANZA
avvale dei prefetti per favorire le liste governative e di altri figuri per ottenere l’elezione di candidati fedeli. E così il ministro della malavita – come il meridionalista Salvemini bolla Giolitti – corrompe il corpo elettorale, riesce a destreggiarsi tra gli opposti partiti, accontenta liberali e socialisti, agrari e contadini, industriali e braccianti. E non si discosta molto dal criticatissimo trasformismo di Agostino Depretis, che aveva governato a lungo, solo grazie alle coalizioni politiche di comodo che presiedeva, quelle caratterizzate dalla mancata distinzione tra i partiti di destra e di sinistra, quasi, in sintesi perversa, contro la natura stessa della democrazia, basata, invece, sul confronto dialettico. In pratica Giolitti, con senso pragmatico, mira ad ottenere solo il successo del suo governo, affrontando o scansando i grandi problemi politici e gestionali a seconda anche dei contesti geografici. Più che mai, infatti, con i suoi governi sopravvivono due paesi, uno al nord ed uno al sud; uno (il nord) pronto a vivere in uno stato democratico, l’altro (il sud) ancora legato alle pratiche clientelari e tribali. Ed in mezzo, lo statista Giolitti col suo governo, che comprende le diverse realtà del paese, che non rischia, che non si impegna nella politica del cambiamento, che impedisce al popolo qualsiasi salto di qualità. Intanto, un catastrofico evento segna l’Italia dei primi anni del secolo. All’alba del 28 dicembre 1908, infatti, le città di Messina e Reggio Calabria sono danneggiate da una forte scossa tellurica. Le terre che limitano lo stretto di Sicilia tremano per 37 interminabili secondi; quindi, un pauroso maremoto – con onde alte tra i 6 ed i 12 metri – schiaffeggia le coste calabro-sicule. Messina è interamente rasa al suolo; Reggio ed i centri limitrofi riportano danni ingentissimi. Circa 80.000 sono i morti messinesi; 40.000, invece, sono quelli della costa calabra. E, poi, innumerevoli feriti, paesaggi cancellati, strade interrotte, danni materiali catastrofici, che, in un colpo, cancellano la memoria storica di tutta una popolazione. La poetessa Ada Negri, con pochi e toccanti versi, esorta la popolazione ad aiutare i superstiti: “Fratelli in Cristo de-
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Per oltre un ventennio – più volte in prima persona, altre volte da luogotenente – Giovanni Giolitti regge le sorti dei governi italiani. Scaltro, determinato e profondo conoscitore delle strategie politiche, egli sa districarsi, con grande perizia, nelle beghe parlamentari, servendosi degli esponenti della destra e della sinistra come alleati momentanei e intercambiabili. Pare che il suo motto preferito sia: “Un sigaro e una croce di cavaliere non si negano a nessuno”.
La terra, a Messina, trema per lunghi 37 secondi, alle 5,21 del 28 dicembre 1908. È buio. Molti messinesi trovano la morte sotto il crollo delle case; altri, i sopravvissuti, riversatisi sul lungomare, sono spazzati via dalle alte onde di un maremoto, che schiaffeggia le coste siciliane e quelle calabresi. Saltati anche i fili del telegrafo, la ferale notizia è comunicata ai Palazzi romani della politica soltanto 12 ore dopo! I ritardi nei soccorsi procurano altri morti. L’esponente socialista Pietro Mancini dichiara, a proposito della distruzione di Reggio Calabria, che “nessuna parola, la più esagerata, può darvene l’idea. Bisogna avere visto. Immaginate tutto ciò che vi può essere di più triste, di più desolante. Immaginate una città abbattuta totalmente, degli inebetiti per le vie, dei cadaveri in putrefazione ad ogni angolo di via, e voi avrete un’idea approssimata di cos’è Reggio, la bella città che fu”.
CAPITOLO I
Alla morte di Leone XIII tutti danno come suo successore il cardinale Mariano Rampolla. Ma l’elezione al soglio di Pietro del segretario di stato di Leone XIII trova l’opposizione dell’impe-ratore d’Austria – Francesco Giuseppe – che lo accusa di essere eccessivamente francofilo. Da secoli, infatti, ai sovrani di Spagna, Austria e Francia è riconosciuta una facoltà di veto. Ma sarà l’ultima volta, perché il nuovo papa, Pio X, non riconoscerà più questo diritto e minaccerà di scomunicare quanti ancora pretendessero di farvi ricorso!
ANNI DI SPERANZA
statevi dal sonno andate a soccorso con zappe e leve con pane e vesti./ Nelle lontane terre dell’arsa Calabria crollano ponti e città i fiumi arretrano il corso sotto le case/ travolte le creature sepolte vivono ancora chissà./ Batte la campana a storno./ Pietà fratelli, pietà”. Scatta una grande gara di solidarietà. Il re e la regina Elena si recano sui luoghi del sisma; navi russe, francesi, tedesche, greche, spagnole e di altre nazionalità raggiungono le sponde martoriate, portano i primi aiuti e dispongono che i propri equipaggi siano i coordinatori degli aiuti. Il governo italiano, presieduto da Giolitti, decreta nuove tasse da destinare alla ricostruzione dei luoghi distrutti dallo tsunami. Il Senato, da parte sua, vara un progetto di legge a favore di Messina e di Reggio. Non mancano, però, le critiche. Molti giornali, infatti, denunciano l’inasprimento delle imposte e ricordano che, in precedenti ed analoghe situazioni, il governo ha male amministrato i fondi raccolti per aiutare le popolazioni colpite da calamità naturali. Molti attacchi, poi, sono rivolti alla Marina italiana colpevole di non essere stata pronta negli aiuti e di essere arrivata molto dopo le squadre navali degli altri paesi. Comincia una lenta opera di ricostruzione. Molti sono del parere che specialmente la città di Messina debba essere ricostruita da altra parte ma gli abitanti sopravvissuti si ribellano. Allora, demolite le case pericolanti, per far fronte ai bisogni più immediati, si dà luogo alla costruzione di baracche di legno in cui sono ospitate intere famiglie. Le lungaggini burocratiche, la miopia politica, però, fanno in modo che quelle baracche divengano il segno distintivo (negativo) della mancata ricostruzione. Molte casupole di legno, infatti, nate per far fronte ad una grave emergenza, sopravvivranno negli anni, sfideranno l’ingiuria di altre calamità naturali e delle conseguenze della seconda guerra mondiale ed approderanno sino alla soglia del terzo millennio! Anche la Chiesa è segnata da una successione di papi. Il 20 luglio del 1903, infatti, a 94 anni, muore il papa Leone XIII (cardinale Vincenzo Gioacchino dei Conti Pecci). La sua continua
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CAPITOLO I
ANNI DI SPERANZA
attenzione ai problemi del mondo del lavoro4 (Enciclica Rerum Novarum, 1891) gli ha fatto conquistare l’appellativo di papa sociale. Leone XIII si rivela essere stato l’interprete dell’impegno cattolico a vantaggio dei lavoratori, il pugnace assertore di umane condizioni di lavoro nei campi e nelle fabbriche, in nome del solidarismo cristiano, sempre pronto a migliorare le relazioni con gli stati europei. Leone XIII si lascia ricordare anche come il papa aperto alle innovazioni scientifiche; poco prima di morire, infatti, ha inciso su un fonografo l’apostolica benedizione. A Leone XIII succede il cardinale Giuseppe Melchiorre Sarto, che, eletto il 4 agosto 1903, sceglie di chiamarsi col nome di Pio X. Si apre una nuova politica per la Chiesa. Si ritorna, infatti, al papato religioso, alla fede semplice. Con Pio X, che si distingue per le sue virtù morali praticate al limite dell’eroismo, si incentiva l’istituzione dei seminari regionali: essi costituiscono un baluardo al progresso delle idee e servono a formare le avanguardie della nuova fede. È Pio X che raccomanda la comunione quotidiana, che permette la prima comunione ai bambini, a partire dal settimo anno, che promulga il testo unico del catechismo per l’Italia. Il papato di Pio X dura 11 anni, fino al 20 agosto 1914, giorno in cui papa Sarto muore. In tempo, in ogni caso, per assistere alla tragedia di una guerra, che si sta combattendo sul fronte europeo. Inutile dire che il pontefice è addoloratissimo per quanto sta accadendo; in un colloquio con un porporato dice: “Preghi il Signore affinché sia così buono da togliermi presto da questo calvario”. 4 Il riposo festivo degli operai: Il troppo lungo e gravoso lavoro, e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo sconcio grave e frequente occorre che ripari lo Stato; perché tali scioperi non recano danno ai padroni solamente e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi; e per le violenze e i tumulti, a cui di ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio poi, in questa parte, più efficace e salutare si è prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedirne lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere tra operai e padroni il conflitto. Molte cose parimente deve proteggere nell’operaio lo Stato; ed in prima i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui siamo creati: ma via e mezzo a perfezionare con la cognizione del vero e con la pratica dello spirito. […] Di qui segue la necessità del riposo festivo. (Rerum Novarum, Leone XIII, 1891).
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Partire per l’America significa sottoporsi ad una traversata dell’oceano della durata di 13 giorni. Gli emigranti viaggiano in terza classe, dormono in cuccette di ferro, mangiano zuppe di brodo. In massima parte emigrano solo gli uomini; le donne restano in patria e, oltre al dramma della separazione, devono lavorare per provvedere a se stesse e ai familiari rimasti a carico. Sperano solo nelle rimesse dei propri uomini. Naturalmente quando arrivano e se arrivano!
CAPITOLO I
Tappe per il riconoscimento del ruolo della donna: - 1902, la Camera approva una legge per la protezione del lavoro femminile; - 1906, primo Congresso Socialista femminile per discutere sul diritto di voto alle donne. - 1908, si riunisce a Roma il primo Congresso nazionale delle donne; - 1908, al Congresso femminile viene approvata una mozione, a larga maggioranza, favorevole al divorzio. - 1910, Anna Kuliscioff, polemizza con Turati, per lo scarso impegno dei socialisti nella questione del voto delle donne.
ANNI DI SPERANZA
In un tempestoso conclave – tenutosi nel mese di settembre dello stesso anno 1914 – in cui emergono due cardinali moderati (Maffi di Pisa e Della Chiesa di Bologna), è eletto papa il cardinale Giacomo Della Chiesa, che sceglie di chiamarsi Benedetto XV. Il nuovo pontefice, dalla mente sveglia e aperta, conferma subito la sua fedeltà alla linea politica di Leone XIII. L’Italia del nuovo secolo vive tra molteplici contraddizioni. Emarginazione e miseria connotano la società italiana. L’emigrazione resta ancora l’unica speranza di riscatto. Dai porti di Genova e Napoli, su carrette pericolose e maleodoranti, si parte per la Merica, la terra del sogno, del nuovo mondo. Nel solo 1900 emigrano più di 350.000 italiani. Molti di essi trovano fortuna in America. Alcuni figli di emigrati diventano famosi, come Fiorello La Guardia, sindaco di New York, Rodolfo Valentino (attore), Frank Sinatra (cantante) e Al Capone (gangster). Ma sono molto di più gli italiani che in America si trovano a mal partito e soffrono più che in madre patria. Un emigrato in Brasile, Dante Dall’Ara, così scrive, nel 1902, ai suoi familiari a Rovigo: “Cara sorella Elvira, ti mando queste poche righe per farti conoscere a te e pure a nostra madre che io non mi scordai per niente della mia famiglia ma che forza maggiore impedisce. Prima di tutto tu farai sapere a mia madre che qui in America i guadagni sono più miseri che in Italia”. Ma, forse, il male peggiore dell’emigrazione si riscontra nell’isolamento a cui sono condannati a vivere tutti coloro che hanno scelto di “fare fortuna” lontano dal suolo patrio. A difesa dell’emarginazione degli emigrati nascono associazioni e società di mutuo soccorso, ovunque esista un gruppo di italiani. Nel 1908, in Argentina, si segnalano 317 società e 125mila soci; negli Stati Uniti, invece, nello stesso periodo, si contano 394 società e 143mila soci. L’Italia di inizio Novecento è un paese prevalentemente agricolo, che comincia a beneficiare dell’accelerazione industriale. Le famiglie censite nel 1901 sono 7.145.000; di esse ben il 50% sono contadine. La povertà e l’indigenza continuano ad essere un possibile focolaio di rivolte, specialmente al sud. Anche l’istru-
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