Da Mosca a Pechino 1995 Bruno Burdizzo
30 luglio - 27 agosto 1995 Mosca - Urghenc Urghenc - Bukara Bukara - Samarcanda Samarkanda - Tashkent Tashkent - Bishkek Bishkek - Torugart Torugart - Kashgar Kashgar - Urumqui Urumqui - Turphan Turphan - Dunhuang Dunhuang - Lanzhou Lanzhou - Xian Xian - Luoyang Luoyang - Pechino
(aereo) (circa 400 Km) (circa 250 Km) (circa 300 Km) (circa 550 Km) (circa 450 Km) (circa 130 Km) (aereo) (circa 150 Km) (circa 700 Km) (circa 950 Km) (circa 500 Km) (circa 300 Km) (circa 700 Km)
Dopo un Torino-Roma in vagone letto di tardo luglio, dopo alcune peripezie aeroportuali di un sovraffollato Fiumicino di tardo luglio, alla fine mi infilo su un volo Aeroflot per Mosca "too closed" come dice l'indiano sinistro alla mia destra che lamenta il pessimo servizio mentre il giovane ingegnere camerunese alla mia sinistra loda i piloti sovietici. Per una destra critica ai limiti dell'arroganza, una sinistra entusiasta oltre i limiti dell'ingenuità. Per me la temuta Aeroflot non è poi così male fatta eccezione per la goccia di condensa che mi sgocciola su una spalla fino a Mosca. A Mosca la cosa si fa lunga. Mi infilo nella burocrazia sovietica, che poi sovietica non è più ma che ne ha conservato tutte le caratteristiche. Code e folla. Passaporti scrutati e sfogliati da oscuri funzionari, come fossero quaderni a fumetti, con il capo chino contro l'alto bancone, parlottando in russo. Luci basse da lampadina economica. Polvere. Dietro la barra, tonnellate di persone in attesa. Fuori, non trovo il bagaglio. Infine il mio sacco sbuca da chissà dove e lo scorgo sul pavimento tra i passi scavalcanti degli altri viaggiatori. Vado alla dogana. Al banco verde, dopo la coda, mi rimandano al banco rosso dove, dopo la coda, scribacchiano qualcosa su un modulo cirillico e mi fanno andare. Fuori campeggia tra la folla un cartello di Avventure Nel Mondo. I miei compagni di viaggio. Abbiamo una bionda accompagnatriceinterprete russa che si chiama Ellena. Sulla trentina, capelli lunghi, snella e sorridente, una bella donna russa. Un capiente autobus rosso rapidamente ci scarrozza attraverso la città. Considerazioni su Mosca. Scorgo la Piazza Rossa notturna con le stelle rosse accese che campeggiano nel cielo nero. Il Cremlino sfreccia via dal finestrino. Noiose sfilate di viali mi ricordano certe nostre periferie. Il traffico è scarso, vecchie carcasse, qualcuno ogni tanto si ferma e armeggia sotto i cofani nelle vaste penombre delle carreggiate. Mi aspetterei di vedere file di prostitute tra quei viali sul ciglio dei parchi, erba e alberi, muretti, marciapiedi, radi lampioni ma non c'è nessuno. Solo il silenzio e il buio di un sobborgo urbano. I lampadari. Tutte le finestre dei palazzi lungo i viali, cemento tetro, balconi, sono accese al lume di lampadine antiche (quelle da 30 candele che anch'io mi ricordo bene). E i lampadari che le sostengono sono tutti uguali, semiglobi di vetro, rossi. Tutti uguali. Sembra una città di una generazione indietro. Alla luce fioca dei lampadari di Mosca intravedo cucine livide come certe nostre del dopoguerra o di certi film del neorealismo. Mi chiedo se verranno le alogene a imbiancare di sole artificiale pareti a buccia bianca e mobili di lacca dall'alto dei loro steli.
Dopo questa rapida visita notturna si torna all'aeroporto e alla burocrazia post-sovietica. Visti e bolli e check-in, alla fine ci intruppiamo in un rottame aeronautico che mi ricorda certe corriere cadenti a pezzi. Dopo un brutto volo, in un pessimo atterraggio picchiamo il suolo uzbeko. In aereo ho tentato vanamente di sonnecchiare accanto a un giovanotto attaccato tutta notte a un noiosissimo e rumoroso videogame. Meno male che in aereo no si aprono i finestrini se no lo avrei buttato fuori volentieri. Urgench. Aeroporto. Polvere e rottami ovunque. Troviamo ad aspettarci un furgoncino «Jaguar» favoloso. Scommetto che ci tocca spingere. Invece no ma poco ci manca. Il Jaguar scoppietta e traballa sovraccarico.Vedo l'Uzbekistan in verticale da una fettina di finestrino, travolto dai bagagli. Campi di riso e cotone, rudimentali coltivazioni estensive, risaie pantanose, grossi tubi forse per l'acqua, palazzotti di mattonelle e fango, tetti di paglia secca. Intravedo carretti e donne arabeggianti e alla fine una scheggia in controluce delle strepitose mura di Kiva. Troviamo posto in una guest-house privata e ci sistemiamo nelle ampie stanze fresche e morbide di tappeti e materassi di gommapiuma polverosa. E' un'ampia abitazione nella città vecchia, su due piani, con una lunga terrazza proprio in vista dei minareti. Alle dieci del mattino c'è una gran colazione di carne fritta e patate e frutta a volontà. L'acqua «minerale» la trovi nelle botteghe in certe bottigliette di vetro che potrebbero essere quelle dell'Orangina riciclate, con il tappo arrugginito. Meglio potabilizzarla con il Micropur. Ci sono i primi segni della sindrome del turista insoddisfatto. Qualcuno vorrebbe un bicchiere di lambrusco, qualcuno un cappuccino e una brioches. Io mi accontento e godo del mio tè verde bollente e profumato. Una decina di dollari ci danno diritto a due giorni di visita guidata nella città vecchia. Il sole picchia come un'incudine e mi faccio sottile per godere delle lame d'ombra dei bei vicoli di Kiva. Vediamo il palazzo del Khan con la piazza del caravanserraglio e la sala dei ricevimenti, le moschee d'inverno e d'estate, il mausoleo Pakhlavan Makhmoud dove c'è un pozzo d'acqua fresca e dove ci coinvolgono in una preghiera islamica di buon augurio. Salgo sulle mura dove si domina tutta la città e la piana fino al deserto turkmeno a sud e la verdeggiante distesa delle fertili riviere dell'Amou Daria su cui si stende la città pigra nella calura, con le sue torri e i minareti, con le cupole piastrellate di ceramica, le baracche fangose, timida quasi tra le fronde che velano cortili popolosi e un po' patetica nelle sue stonate modernità. C'è un palazzone di regime e una ruota panoramica di luna park lì a due passi dai tripli bastioni merlati, dalle cupole delle moschee e dalle mederse. Di Kiva non ho detto tutto ma tutto non si può dire. Nel pomeriggio mi sono abbandonato alla frescura delle sale alte dei nostri appartamenti, mentre fuori il calore schiacciava ogni forma di vita. Verso le cinque del pomeriggio sono resuscitato appena appena per scendere a sbucciarmi la gola con un tè verde rovente ascoltando da qualche radio nascosta un Bruce Springsteen neanche poi tanto blasfemo che qui sembra cantare solo quelle sue ballate dolci e rauche quasi sottovoce per non fare a pugni con l'atmosfera esotica. Intanto fuori sulla loggia le donne uzbeke, sedute a terra sui tappeti, maneggiano neonati pisciati, zitti e buoni come cicciobelli sbrodolati, ridendo sguaiate (non capisco la lingua ma hanno un che di pettegolo) mentre affettano cipolle per la nostra cena. Dalla terrazza si vede nel cortile la cucina a cielo aperto che consiste in un bacile di metallo, un gigantesco wok, incassato in un piano di malta sotto il quale ardono fuochi a gas. Il cuoco lava la pentola con secchiate d'acqua bollente e raccoglie con la schiumarola grumi di grasso che spumeggiano in superficie. Poi versa olio bruno e quando questo è ben caldo rovescia a manciate grossi pezzi di pollo a rosolare rimescolandoli con una specie di badile. Aggiunge poi le cipolle che le donne hanno sbucciato, copre il tutto con un coperchio arrugginito e via a tutto gas. A parte, risciacqua e affetta pomodori e aglio che poi finiscono nell'intingolo. Alla sera, intorno al
tavolo basso nel grande salone senza sedie, seduti all'indiana su tappeti e cuscini è tutto un gran masticare e succhiare e ci si lecca le dita. Stamattina, dopo una notte semi-insonne per il gran caldo, eccoci ancora tutti sotto il sole a seguire l'ometto che ci fa da guida. Nemmeno Ellena ha capito bene come si chiama. E via ancora per moschee. Bella quella tutta in legno, medievale, interessante il museo della medicina, con un feto umano a due teste conservato in salamoia, interessanti le sale riservate ad Avicenna, bello il museo dell'artigianato, interessante anche come struttura architettonica. Qualcuno è salito sul minareto alto ma io ho preferito glissare e ho fatto bene. Dopo la pennichella pomeridiana, indispensabile per il caldo torrido, scendo nel salone al pianterreno. C'è un televisore che trasmette un film di Schwarzenegger con un monotono doppiaggio forse in arabo composto da una sola voce maschile che fa tutte le parti, anche quelle femminili. C'è una scena indimenticabile. Schwarzenegger corre a cavallo sul tetto di un grattacielo. Normale. Ma poi finisce disarcionato oltre il cornicione e rimane aggrappato alle briglie. Che fare? Con una bellissima doppia voce anglo-araba il gigante americano cerca di convincere il cavallo a tirarlo su. Quando il cavallo lo salva nel salone al pianterreno della nostra casa di Kiva scoppia un applauso. Intanto sono comparsi un paio di signori panciuti e baffuti con alcune bottigliette d'acqua «minerale». Che però a un primo sommario esame risultano riempite di vodka secca, spessa e incolore. La bevanda circola abbondantemente intorno alla lunga tavola versata in certe scodelle di coccio, e a ogni golata sembra dilatare laringe e esofago. Si brinda e si ride per certe scemate che è meglio calare sulla scena una discreta dissolvenza e punto a capo. L'indomani si parte presto, sveglia alle cinque, una risciacquata, bagagli, una tazza di tè e scendo a caricare il sacco sul pullman che ci porterà via dalla fertile terra dell'Amou Daria attraverso le aridità cespugliose e secche del deserto uzbeko. Seguiranno campi di cotone, qualche casa, automobili tenute insieme dal fil di ferro e infine i palazzi di Bukara. Calore boccheggiante. Ora, mentre scrivo, nel bell'albergo c'è fresco e cori di grilli e dal balcone spalancato entra musica. Ho fatto un giretto nella città vecchia che visiteremo domani, poi abbiamo cenato bene al Bukara Hotel. dopo cena sono salito sulla terrazza dove c'erano luci di festa concludendo la serata tra birra e balli tra la giovane borghesia uzbeka. Vorrei scrivere qualcosa di oggi ma non so più che giorno è. Fa un gran caldo e sto sudando la doccia appena fatta e tutte le lattine tiepide trangugiate a 25, 30, 40 e 60 som per le strade di Bukara. Qui non c'è acqua. Da bere, intendo. La minerale è razionata, poche bottigliette e per di più fa schifo. Si agggrava un po' la sindrome del turista insoddisfatto, qualcuno si altera, protestano con il barista, con la direzione, con il Gran Khan, ma l'acqua non c'è e se non c'è non c'è. E allora si va di birra Pivo e di una specie di sciropposa bevanda al gusto di Fanta, dal prezzo variabile, quasi sempre tiepida. Visitiamo la città con l'ottima guida di Sanì in italiano. Mederse, moschee, minareti, mausolei, le piscine con un'acqua fetida, verde, in cui si tuffano bambini ignudi arrampicandosi sugli alberi frondosi dove nidificano le cicogne. Splendide «sale da tè» all'aperto hanno piccoli tavoli allestiti sopra una sorta di «letti a due piazze» di legno tornito, all'ombra delle frasche, dove pittoreschi nonni uzbeki, con lunghe barbe e berrettini di cotone filè, chiacchierano, bevono e giocano nei loro caffetani drappeggiati e scoloriti. Verso sera, mi trascino, come dice Ellena, «come una mosca bollita» fino all'hotel, all'ennesimo «niet mineral water», all'ennesima birra tiepida, a un'inutile doccia. E via, nella sera, ripensando l'Asia. Quell'Asia ideale di tanti libri e sogni, di Marco Polo, delle mille e una notte, dei pastori erranti, della luna ai sempiterni calli. L'Asia dei sultani e degli emiri e dei
Khan e dei Visir. Quell'Asia dei caravanserragli e dei bazar. Quell'Asia di tutta quella gente che oggi mi ha sorriso per la strada. Quell'Asia che sarà sempre per me lo sguardo di quel bambino che non crescerà mai, continuando a riflettere il cielo terso di Bukara e i minareti, dai quali si leva il canto di un muezzin discreto e gentile che non invade ma accompagna. Non tramonteranno i ricordi dei negozietti incastrati nelle arcate delle mederse, le botteghe artigiane, le stradette fangose irte di tubi sospesi e finestrelle e panchette con vecchi sdraiati o seduti con le mani aggrappate ai bastoni e le barbette bianche. Non dimenticherò, forse ance grazie a queste righe, il culto mistico della semplice sinagoga ebraica, raffazzonata e modesta, dove i versi della Torah hanno un sapore domestico e discreto. La sera, che tutto svela e tutto nasconde, le piscine diventano fontane, animate da lunghi getti d'acqua tutto intorno. Non so se ho visto tutto questo oggi a Bukara o molto di più. Non è poi così lontana Samarcanda. E la nera signora se n'è andata. Partiamo presto, ma non abbastanza, per le brutte strade di una zona agricola e industriale, termini che non dovrebbero convivere ma che convivono. Il bus diventa incandescente, l'aria filtra infuocata nei polmoni e dal finestrino frusta un vento soffocante. Fuori qualcosa è cambiato. Armenti, pastori, greggi, cavalli, muli, villaggi di fango e paglia, alture brulle e profonde valli di cespugli biondi sventolati dalla brezza torrida. Arriviamo a Chakhrisabz, città natale di Tamerlano. Visitiamo i mausolei Timuridi e scendiamo a vedere il sarcofago vuoto che fu costruito per Timur Larine, cioè Timur lo Zoppo, vale a dire l'imperatore Tamerlano. E poi via verso le grigie torri di Samarcanda (che poi grigie non sono). "Je suis le Rejistan, le coeur de Samarcande" così recita in francese, sotto le stelle, il deludente spettacolo di suoni e luci in piazza Registan. La voce metallica e piallata dagli anni racconta stentorea tra musiche stridenti e stonate le gesta di Tamerlano, di Ulugh Begh, di Gengis Khan, e via così fino a Lenin. Dopo non è più stato aggiornato. La Intourist ci fornisce un ottimo pulmino con aria condizionata. A bordo c'è Flora, guida e interprete dai denti orribili. Flora ci conduce all'interessantissimo osservatorio astronomico di Ulugh Begh, un nipote di Tamerlano con il pallino delle scienze e dell'astronomia. Poi ci porta attraverso il sacro viale della necropoli, tra mausolei in restauro. C'è una ripida scalinata dove, pare, ai peccatori il numero degli scalini a salire non corrisponde con quelli a scendere. Infatti a me i conti non tornano. Visito il Gour Emir, mausoleo della dinastia timuride imponente con mosaici d'oro e un gran lampadario di cristallo. Nel pomeriggio visito il museo d'arte e artigianato, girovago un po', poi vado a divorare un gran Kebab in un ristorante iraniano, con riso e birra cinese. E Vodka. A sera assisto a un suggestivo spettacolo teatrale allestito nel grandioso cortile di una delle mederse del Registan. Mi sdraio comodamente su uno dei lettini di legno tornito sotto gli alberi e le stelle, al fresco, sorseggiando tè verde. Lo spettacolo finisce, come spesso putroppo accade in Asia, in una grande danza collettiva alla quale partecipano anche gli spettatori, scalzi sui tappeti, a suono di gong e tamburi, battendo le mani. Me ne torno a piedi verso l'albergo lasciando un ultimo sguardo e un pezzettino d'anima allo splendore del Registan. Rakmat Samarcanda. Grazie Samarcanda. Grazie anche per la tua gente cordiale, pulita, curiosa, educata, amichevole. Rakmat Samarcanda. Grazie. Oggi so che è martedì. Qualcuno me l'ha detto. Siamo partiti da Samarcanda l'altro ieri sera. Il viaggio in bus è stato discreto. Il paesaggio è filato via piatto e arido, poi qualche altura verdeggiante, poi montagne. Il mattino ci trova a Tashkent e poco dopo attraversiamo rapidamente il confine del Kazakistan. Gli ultimi son uzbeki li abbiamo investiti in meloni e cocomeri che ruzzolano nel corridoio del
bus tra i bagagli. Alcuni finiranno marci. In territorio kazako viaggiamo tranquilli, ogni tanto ci fermano i poliziotti ma il nostro accompagnatore, un ragazzone biondo che si chiama Baktior, mostra una sorta di efficace salvacondotto che ci apre tutte le porte come la tavola d'oro di Marco Polo. I tempi non cambiano mai. Ci fermiamo a mangiare ravioli in uno di quei posti che sembrano impossibili eppure ci sono. Questa gente vive all'aperto, una tettoia per il sole, un lavandino portatile in lamiera con il serbatoio per l'acqua, due latrine che è meglio lasciar perdere, qualche branda con coperte e trapunte, un televisore in bianco e nero che nessuno guarda e che nessuno spegne e una radio stereo che sbraita Sting a tutta voce. Intorno alla tettoia c'è una pianura sconfinata che la strada taglia di netto in due. Sulla strada ringhiano motori e arrancano carretti e attraverso i campi sfreccia al galoppo un ragazzo che cavalca a pelo un bel cavallo mongolo. L'ingresso nel Kirgistan, poco prima di Bishkek si rivela difficoltoso. I controlli della polizia sono esasperanti. Posti di blocco ogni pochi chilometri ma per ora la tavola d'oro di Baktior sembra continui a funzionare. Ellena, la bionda interprete moscovita, mi dice che Baktior sta raccontando ai poliziotti che siamo una troupe cinematografica e che dobbiamo girare un film sull'islam nell'Asia post sovietica. Bishkek è una città occidentale, vedo ragazze in minigonna e traffico. A tarda notte, dopo ventiquattr'ore di viaggio, anche considerando il fuso orario nuovo di un'ora in più rispetto all'Uzbekistan e di cinque ore in più rispetto all'Italia, il nostro bus arranca rauco sulle ripide salite dei monti Kirgisi. Comincia a far freddo e ci vestiamo pesante. Prima di Issyk-Kul troviamo il posto di blocco definitivo. Non si passa. A Baktior non resta che pagare un pedaggio o una tangente, non si sa bene a che titolo, non si sa bene a chi, Ma è tutto previsto e compreso nella cassa viaggio, nel contratto con la Intourist. Dopo una lunga trattativa (Baktior ci ha consigliato di non scendere dal bus per nessun motivo) finalmente si riparte. Il diario continua sui miei quaderni ma non ho mai trovato il tempo di finire di trascriverlo. Posso però aggiungere qui il racconto che ho scritto in un'altra occasione, sulla parte più difficoltosa e suggestiva di quel viaggio, da Issyk-Kul al Torugart e infine a Kashgar. ARRIVARE A KASHGAR Per arrivare a Kashgar bisogna fare un lungo viaggio: bisogna entrare nel cuore arido dell'Asia centrale e penetrare in quel nord-ovest della Cina così poco cinese che è la terra degli Uighur, la regione del Xinjiang. Io ci arrivai percorrendo una delle più antiche piste carovaniere dei mercanti della seta: la via di Marco Polo. Un volo da Mosca mi precipitò in quello che fu l'impero di Tamerlano e che oggi si chiama Uzbekistan, dove in uno sconfinato territorio arido e intristito da antichi stabilimenti abbandonati nel grigio declino postsovietico, sorgono tre città indimenticabili dai nomi esotici: Bukara, Kiva e Samarcanda. Imponenti muraglioni merlati, viottoli ombrosi, minareti, moschee, mederse monumentali decorate con mosaici in ceramica, caravanserragli, mercati. Questo è l'ambiente in cui mi aggirai curioso, in una folla pittoresca di personaggi d'altri tempi, nelle sale da tè all'aperto, nelle case fresche e ospitali della gente uzbeka dove trovai tavolate di frutta fresca e bottiglie di vodka. Poi un vecchio autobus mi introdusse per le piste aride, rasentando il Tajikistan, penetrando quasi abusivamente nel Kazakistan, dove un certo enigmatico Baktiòr, un biondo massiccio dall'aspetto sinistro, fu per noi garante e intermediario con le piccole e grandi mafie che si
spartiscono quei territori selvaggi. E avanti tra le montagne del Tien-Shan oltre il deserto, fino al vasto e suggestivo lago Issyk-Kul. Il lago è azzurro come un mare tropicale, ci sono spiagge e ombrelloni, ma tutto intorno e oltre l'orizzonte, oltre i frangenti schiumosi creati dal vento, svettano montagne innevate e l'aria e il sole sono implacabili a più di duemila metri. Sul lago sorge uno stabilimento balneare già utilizzato dai sovietici ed ora in condizioni fatiscenti. C'è ovunque un'aria di abbandono. Sventolano brandelli di bandiere rosse, erbacce hanno invaso i giardini e i sentieri, tra i rovi occhieggiano vecchi bungalow di compensato sbiadito con le finestre rotte e porte leggere che cigolano al vento. C'è una grande mensa spoglia con un bancone lungo d'acciaio e pallide cubitali propagande cirilliche verniciate sui muri. Alcune ragazzette dall'aria severa e imbambolata servono a colazione un riso sbollentato e marmellata di mirtilli e nient'altro che tè o poco latte. Per avere un po' di zucchero bisogna impegnarsi in una lunga trafila burocratica di moduli e questionari da consegnare a magazzinieri irreperibili. Il giorno della partenza sono sceso di buon ora, carico del mio bagaglio, pronto ad affrontare il lungo e difficile percorso che mi avrebbe porato a Kashgar. Nel cortile di cemento c'era un gigantesco autocarro militare, senza insegne, con il telone verde strappato e ricucito, con ruote enormi, da trattore. Ci accompagnavano la bella, bionda e simpatica Ellena, interprete russa, il sinistro Baktiòr e una piccola scorta militare in divisa grigioverde. Il camion ci ingoiò nel suo cassone su dolorose panche traballanti e per un giorno e una notte vedemmo il mondo attraverso gli strappi e le cuciture del telone. Posti di blocco. Uomini armati. Automobili con le insegne dell'esercito e altre anonime, scassate. Tangenti che passavano dalle mani di Baktiòr a quelle di strani ceffi, militari o banditi, disseminati per le strade e agli incroci. Pochi soldi ogni volta, manciate di unte banconote corrispondenti a poche lire. A uno dei posti di blocco Ellena, che spiava da una fessura del telone, si voltò e mi disse: «Baktiòr dice che siamo americani. Una troupe cinematografica. Siamo qui per girare un film sull'Islam». Ci fermammo a sera all'imboccatura di una valle stretta, su un tornante pietroso dove direttamente dai ghiacciai rimbalzava un torrente d'acqua fresca. C'erano alcuni baracconi arrugginiti, vecchi vagoni ferroviari montati su ruote, carri e tende, e oltre il torrente, su un prato quasi piano, una yurta, una capanna rotonda di feltro bassa e larga con il tetto a cono e tende colorate di lana raccolte all'apertura. C'erano fuochi accesi e grigliate di carni nere, pentole bollenti e colonne di cestelli di bambù in cui cuocevano a vapore bianchi ravioli rigonfi. Era un campo di nomadi kirgisi. Occhi obliqui e guance piene, statura tarchiata, gambe robuste, tronco massiccio e asciutto, legnoso, fazzoletti colorati sui capelli delle donne, cappelli di feltro gli uomini. Al crepuscolo eravamo di nuovo per strada. Una strada piena di buche. L'autocarro ringhiava aliti neri di nafta sui tornanti stretti. Faceva sempre più freddo. La testa ciondolante sulle spalle divenne un peso. I ravioli dei kirgisi giacevano indigeriti nel mio stomaco. Sotto il telone vortici di polvere si depositavano come sabbia fine su di noi, entravano in ogni piega del viso e del corpo, tra i capelli e sui vestiti e si accumulavano sui sacchi rendendo il tutto di un uniforme grigio. Corpi umani come bozzoli polverosi infagottati nel buio e nel frastuono, l'interno del camion sembrava un improbabile orrido nido d'insetti. Sognai che ci saremmo risvegliati farfalle. Stavo forse sognando farfalle quando improvvisamente i freni del camion gridarono rauchi, a tutta gola, e il nido d'insetti si ammucchiò violentemente in avanti. Seguì un silenzio irreale. Un freddo mortale. Il motore era spento. Emersi dal mio incubo tossendo polvere, mi sfregai gli occhi con dita impolverate, mi guardai intorno. Facce bianche, occhi sgranati. Era notte
fonda. Fuori si sentivano voci sommesse, lontane. Qualcuno alzò il telone, sganciò le sponde e disse qualcosa in russo. Ellena, pallida e provata, mormorò: «forse c'è un posto di controllo, non so, dobbiamo scendere». «Ma che ora è?». «Forse le tre, si, sono le tre di notte, accidenti». Scendemmo. Non ricordavo che il pianale del camion fosse così alto. Caddi pesantemente sui talloni e tutto il mio corpo scricchiolò. C'era un vento freddo, era buio pesto. Stavamo su un tratto piano della strada sterrata. Oltre il buio immaginavo le montagne. Ci fecero scaricare tutti i bagagli in un mucchio. Forse c'erano soldati, intorno. Io ricordo solo ombre imbacuccate e infreddolite. Ci misero in fila, come deportati, e ci condussero avanti oltre il camion, alla luce piatta dei fari, dove la strada era sbarrata. C'erano cavalli di frisia, filo spinato e muretti di pietra. Aprirono un cancello arrugginito. Raccolsero tutti i passaporti e ci chiamarono ad uno ad uno, con Ellena che ripeteva i nostri nomi per loro impronunciabili. C'era un ufficiale con un pastrano incolore, impellicciato come un orso, con un colbacco in testa, che stava seduto, gigantesco, come su un trono, su una seggiola all'angolo di un edificio basso. Appeso al muro, sulla verticale del gigante, c'era un faro che picchiava in faccia una luce fredda, bianca, spettrale. Quando fu il mio momento mi presentai al gigante che mi guardò a lungo, sfogliando il passaporto, con una faccia scura, inespressiva come la notte. Stavo in piedi con il freddo che mi mordeva la spina dorsale e lui mi guardava zitto, sospettoso e severo. Accanto a lui c'era Ellena, anche lei ridotta uno straccio, con i capelli biondi scompigliati e impolverati e gli occhi gonfi di sonno. Forse con un grugnito quella specie di roccia umana mi riconsegnò il documento. Salutai con un cenno e caracollai verso il camion che giaceva in fondo alla notte. Ricaricammo i bagagli, tornammo a infagottarci nei bozzoli impolverati e il motore riprese a ringhiare. Quando arrivammo sul Torugart il cielo era già chiaro. Il camion si fermò pochi chilometri prima del confine cinese. Mi sgranchii, mi spolverai, mi guardai intorno e oggi ancora non so se mi resi subito pienamente conto di dove mi trovavo e di ciò che mi circondava. Non so se riuscirò mai, in questo o in altri racconti, a descriverlo. Stavamo nel mezzo di un altipiano sconfinato, nella pallida luce dell'alba. L'orizzonte lontanissimo era una ghirlanda di montagne. Sotto, alla base dei monti, nella foschia mattutina, una striscia, come una venatura marmorea, sembrava riflettere il cielo azzurro come un miraggio. Era un lago sdraiato in quella piatta e vuota lontananza. Mi allontanai passo passo dal camion verso il vuoto. Intorno a me c'era una prateria d'erba bassa di un verde pallido. Il vento fresco sembrava portar via dalla mia pelle e dal mio respiro ogni granello di polvere come una doccia leggera e la stanchezza a poco a poco evaporava, traspirava dai pori della pelle all'aria tersa, all'infinito di quegli spazi rarefatti. Il sole tiepido era una benedizione dopo il gelo di quella notte. Poco lontano, verso il lago, mi sorprese un galoppo di cavalli. Liberi, eleganti, le criniere al vento. Alcuni erano bruni, altri biondi e uno era bianco come una nuvola. Passarono poco lontano. Sentivo il loro respiro nella corsa. Continuai a camminare in solitudine verso un grappolo di yurte. C'erano cavalli anche laggiù e vidi i colori dei fazzoletti di alcune donne kirgise. Poco lontano c'era una nera mandria di bovini pelosi dalle lunghe corna, femmine di yak, qualche grosso maschio. Si sentivano, in quel silenzio irreale, muggiti, brontolii, nitriti, e qualche pacata voce umana. Ma tutto arrivava ovattato dalla lontananza. Mi avvicinai alle yurte. Un ragazzino di pochi anni uscì correndo e balzò su un lucido cavallo biondo, senza sella e senza finimenti, e si lanciò al galoppo veloce, verso dove? Un ometto grinzoso, di età indefinibile, mi salutò con ampi gesti da lontano e mi invitò nella sua yurta sollevando un lembo della tenda all'ingresso. Dentro sembrava ancora più grande. C'era un
tavolo, tappeti e stuoie, a terra e sulla parete circolare, e una grossa stufa di ghisa panciuta che mandava un bollore accogliente. Alcune masserizie, teiere, pentole, lampade e oggetti d'uso quotidiano erano appesi alle stecche del tetto o a certe reti. Ci sedemmo a tavola. Una giovane donna grassoccia, la moglie, mi portò un piatto di buon pane nero e burro. Un bambino scalzo con i capelli rasati e due occhi stupendi arrivò reggendo tra le mani, in equilibrio precario, una scodella stracolma di latte di cavalla acido e imbevibile. L'ometto mi presentò la sua famiglia, la giovane moglie timida e una frotta di bambini di tutte le età, disposti in scala. Parlammo un po', tra larghi sorrisi, ciascuno nella propria lingua, incomprensibili. Comunicammo, comunque. Mi entusiasmava la bontà, l'ospitalità, il sentimento di sincera amicizia, quasi una specie di ingiustificato affetto che traspariva da quei volti sconosciuti, nei confronti di un essere alieno che veniva da un mondo tanto lontano e diverso. Passai con quella gente alcuni minuti di felicità e di pace. Poi venne il tempo di tornare. Mi allontanai a malincuore salutando i bambini. Raggiunsi il camion. Non c'era ancora nessuno. Scoprii che Ellena, Baktiòr e gli altri si trovavano in certi baracconi che stavano allineati poco lontano accanto alla pista. Li raggiunsi, bevemmo ancora un tè da un grande samovar d'argento, seduti sui tappeti, trovammo un lavandino e un rubinetto da cui colava un'acqua gelida e ci lavammo alla meglio, poi tornammo al camion e ripartimmo per la Cina. Al confine salutai Baktiòr con una stretta di mano un po' fredda e abbracciai invece e baciai caldamente la bella Ellena che con qualche lacrima se ne tornava a Mosca. Rimanemmo così soli, io con i miei compagni di viaggio, tra le montagne. Seduti a terra accanto ai nostri bagagli in territorio cinese mentre più in là alcune guardie in divisa verde controllavano i pochi autocarri che transitavano sulla pista. Poi finalmente arrivò un pulmino bianco che ci portò a Kashgar. Dunque eccoci a Kashgar dove il tempo si è fermato. «Casciar fue anticamente reame; aguale è al Grande Cane, e adorano Malcometto. Ell'è molte città e castella e la maggiore è Casciàr; e sono tra greco e levante. E' vivono di mercatantia e d'arti. Egli hanno begli giardini e vigne e possessioni e bambagie assai; e sonvi molti mercatanti che cercano tutto il mondo. Quivi dimorano alquanti cristiani nestorini che hanno loro legge e loro chiese e hanno lingua loro». Queste sono le parole, pressappoco, che il Rustichello vergò ai racconti di messer Marco Polo nel carcere di Genova nel 1298 riguardo Kashgar. E l'impressione, visitando la città settecento anni dopo, è che da allora non molto sia cambiato. Per le strade polverose si aggirano ancora quegli asinelli grigi con i loro carrettini, condotti da personaggi biblici. Uomini stropicciati in caffettani sbiaditi e babbucce, con la cupoletta bianca in testa, magri e alti, caracollano qua e là con i loro volti tutti rughe e barbe bianche fluenti, con occhi piccoli e neri. Sono gli Uighur. Pochi, a Kashgar, sono i cinesi Han, i cinesi veri e propri. Gli Uighur, minoranza etnica, non amano i cinesi al punto di non rispettare nemmeno l'ora legale di Pechino, due ore avanti rispetto alla longitudine del Xinjiang, imposta per legge in tutta la Cina. La città trionfa nella sua antica suggestione la domenica, quando cinquantamila mercanti, , di razze e lingue diverse, con mercanzie e bestiame, convergono dai territori sperduti dell'Asia sin dalle prime ore dell'alba. Oggi come in tutti i tempi Kashgar è il più affollato e suggestivo mercato d'oriente. I mongoli e i kirgisi provano i cavalli galoppando tra la folla e gli uighur
mercanteggiano i pelosi cammelli del Taklamakàn, e yak e capre e pecore, ammassati a centinaia in un largo piazzale di terra battuta. Tutto intorno, per le strade, tra le case di calce decorate con sottili logge di legni arabescati, si affollano e si ammassano uomini e donne e bambini. In grandi forni di fango secco crepitano fiamme roventi e friggono e bollono giganteschi wok di carne e pasta. Ampie grate di ferro sfrigolano gli spiedi. Colonne di canestri cuociono al vapore i gustosi ravioli. Qualcuno all'angolo tira la pasta con le mani, volteggiandola nell'aria, fino a ridurla in sottili spaghi gettati poi a cuocere nell'acqua bollente. Altrove un vecchio seduto su un tronco pesca con i bastoncini gli ultimi rimasugli di cibo in fondo a una scodella. Un bambino uighur espone una cesta di uova colorate. A un altro angolo, vicino alla moschea, uno speziale sta seduto a terra con le gambe incrociate davanti ai suoi sacchetti d'erbe e polveri. Alle sue spalle un drappo appeso al muro mostra un disegno del corpo umano con parole arabe che presumibilmente descrivono i rimedi per tutti i mali. Questo e molto altro ancora, indescrivibile, è Kashgar, nel cuore dell'Asia, ai margini del grande deserto del Taklamakan, stritolata tra le montagne del Tien-Shan e del Kun-lun, dove il tempo si annulla e scompare. Qui finisce il mio racconto che continuerebbe per le strade dell'Asia, fino a Pechino, lungo le vie dei canti che attraversano il mondo, fino ai confini inesplorati dell'anima. Ma per quanto riguarda queste pagine, la storia finisce qui. Il tramonto tra le strade polverose, le file di mercanti in marcia, una luna bassa, tonda, tra i minareti, il sorriso di un vecchio, il respiro di un asinello, il canto del vento. Kashgar. Il resto, chissà, se un giorno avrò modo di rispolverare i miei quaderni...