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Cronache del Po di Volano Piccole storie di ordinaria sopravvivenza in uno specchio d’acqua Io vivo sul Po di Volano, e mi considero un cittadino fluviale. Il retro del mio palazzo si affaccia sull’acqua del fiume e se non fosse per questo scenario forse non avrei comprato questa casa. Il condominio si chiama “Viribus”, richiamando una certa retorica di vecchia data. La Cooperativa che l’ha costruito negli anni 50, e che gli ha dato il nome, si chiamava “Viribus Unitis”. Viribus Unitis non è un nome inventato, è il nome di una corazzata della regia marina austro ungarica. Ormeggiata nel porto di Pola, il primo novembre 1918, fu oggetto di un’ardita incursione degli ufficiali Raffaele Rossetti e Raffaele Paolucci. Questi arditi ufficiali, a bordo di una mignatta, entrarono nel Golfo di Pola e applicarono sotto la carena della corazzata una carica esplosiva. Peccato che il pomeriggio precedente l’Austria-Ungheria aveva ceduto la corazzata Viribus Unitis al neocostituito stato slavo e slavi erano anche i nuovi inquilini della corazzata. Ma questo gli arditi non potevano saperlo. Io non so valutare la mossa politica dell’Austria-Ungheria nel
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cedere la corazzata, ma certo che la scelta di tempo non poteva essere migliore. Ferrara, come molti sanno è sotto il livello del mare. Qualcuno dice che se i poli si scioglieranno, come sembrano intenzionati a fare, e i mari cominceranno ad introdursi nell’entroterra Ferrara sarà tra le prime città invase dall’acqua. Tornerà il mare, risparmiando ai ferraresi le code domenicali sulla Romea per raggiungere le spiagge dei lidi comacchiesi. Se questo accadrà il condominio Viribus –dove vivo – forse godrà addirittura di vista sul mare. E il Sebastian, la pizzeria nave ormeggiata davanti alla darsena, che ho fotografato dalla mia finestra (foto a lato), prenderà il largo come l’arca di Noè salvaguardando dalle acque tutti gli esemplari di pizza indicati nel menù e un certo quantitativo di birra alla spina. Quello dell’arca di Noè è uno dei miti che fin da bambino mi hanno ossessionato di più. Ogni volta che vedevo piogge insistenti pensavo alla punizione divina incombente. Quando cominciava a piovere mi chiedevo come facciamo ad avere la certezza che la pioggia smetterà. Il diluvio universale è un mito presente in quasi tutte le culture del mondo. Qualcuno ritiene che ci racconti l’espandersi della acque a seguito
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della fine dell’ultima glaciazione, di datazione incerta, ma comunque avvenuta quando Piero Angela era molto giovane. E succederà ancora, quando Piero Angela sarà molto vecchio. Tornerà, non so se per punire gli uomini, non credo che ci sia una giustizia negli eventi naturali. Se dovessimo rispondere dei crimini ambientali di fronte ad una giustizia superiore sarebbe una bella sorpresa davvero. Questo corso d’acqua è un piccolo teatro di scempi umani. Raccontano gli anziani che tempo fa in queste acque sono stati immessi i pescisiluro che hanno alterato l’equilibrio alimentare divorando tutto. Poi sono stati immessi dei gamberi orrendi d’acqua dolce (neri simili a scorpioni) che dovevano mangiare le uova dei siluri che si stavano riproducendo a dismisura. Ora sono i gamberi che si riproducono a dismisura. Ma infine sono stati immessi sull’argine i ristoranti cinesi che si sono messi a servire in tavola gamberi sospetti. E’ evidente che gli uomini si attribuiscono il diritto di manipolare a piacimento l’ambiente, dispensando vita e morte un po’ a casaccio. Abbiamo il diritto di vita o di morte sul mondo animale? La bibbia è stata usata dagli uomini anche per dare fondamento a questo assurdo diritto, che diritto non è. La bibbia nel corso del tempo è stata usata da alcuni mistificatori senza scrupoli, e di questo il sommo autore dovrebbe dolersene, per alimentare e nutrire il lato più oscuro dell’uomo, per giustificare ogni tipo di
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misfatto umano, dalle scorribande dei negrieri (si veda l’episodio dei figli di noè), alla persecuzione degli ebrei (accusati di aver voluto la morte di Gesù) e infine persino il diritto presunto dell’uomo di fare del mondo animale ciò che vuole. Quest’ultimo punto si trova nella bibbia dopo l’episodio del diluvio universale. Dio affida a Noè e ai suoi discendenti il diritto di vita e di morte sul mondo animale? Ma ho letto recentemente un’altra interessante interpretazione di questo passo. L’interpretazione suggerisce che forse Dio, invece di attribuire questo potere arbitrario all’uomo sul mondo animale, lo avrebbe solo nominato come amministratore dello stesso. E in tal caso non sarà che l’uomo dovrà un giorno rendere conto di ciò che ha amministrato e di come lo ha amministrato? Se il mondo è un immenso condominio e noi siamo gli amministratori il nostro potere ha dei limiti ben precisi. Non credo che l’amministratore del mio condominio si possa attribuire il potere di sopprimere gli inquilini del terzo piano perché fanno troppi figli, introducendo degli inquilini cannibali al primo piano. Il regolamento di condominio non lo permetterebbe. * * *
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Mi piace osservare l’acqua del Po di Volano, dalla mia finestra, o dall’argine. Vivere davanti a un fiume suggerisce, come dire ... cose che passano e cose che ritornano. Lo scorrere dell’acqua suggerisce qualcosa che non ritorna, la vita ripetitiva degli animali, i volatili fluviali, suggeriscono qualcosa che ritorna. Milan Kundera ne “l’insostenibile leggerezza dell’essere” accenna alla teoria dell’”eterno ritorno” e a quella contraria del “nessun ritorno”. Per la prima teoria tutto ciò che facciamo si ripeterà per sempre all’infinito e solo il pensarlo rende pesante la nostra esistenza. Quale responsabilità se ogni nostro gesto ritornerà per sempre! Il non ritorno invece dice che ogni nostro gesto si perderà nel mare infinito del tempo, dimenticato per sempre e solo il pensarlo rende leggera la nostra esistenza. Il nostro destino oscilla tra questi due estremi opposti. La troppa leggerezza ci va volare via, la troppa pesantezza ci fa affondare, occorre trovare la giusta misura di peso per restare a galla nell’insidioso mare dell’esistenza. Le onde dell’acqua ingannano. Sembrano correre in direzione contraria a volte. Ti inganna l’acqua anche quando la vedi piatta, che sembra immobile, ma sai che fra un secondo sarà diversa, non più la stessa sotto i tuoi occhi. Pensi che non ritornerà e ti inganni una seconda volta. Perché invece ritornerà. Un tempo molto lontano magari, ma tornerà. Oppure pensi che ciò che succederà oltre la tua vita
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non esista? Non lo pensi, ma perché allora tutto nel tuo agire lo fa pensare? E’ alla mia immagine, restituita dal fiume, che mi rivolgo, dandomi del tu. Mi piace dare del tu alle persone che non conosco. Quell’acqua tornerà perché le risorse non sono infinite. Incredibile eh? Non sono infinite, la natura ricicla tutto, come i nostri nonni riciclavano tutto quello che usavano, loro che ora ci guardano increduli scuotendo la testa da dove non possono essere visti. Ti riposa l’idea che un giorno potresti guardare il mondo insieme a loro da spettatore di un film. Perché siamo proprio un bel film, non c’è che dire. Se hai figli, e so che non li hai, come li guarderesti da quel palco privilegiato che si trova lassù nel quale siederai un giorno? Un tempo hai pensato ai figli come ai bastoni della tua vecchiaia, o peggio come al bastone per tenere in piedi un matrimonio. No, non lo vuoi pensare, è orribile, ma almeno una volta lo hai pensato. Questi figli virtuali e viziati in modo indecente, che vedi in giro, sono caricature di quelli che dovrebbero riscattare i tuoi errori o gli errori dei loro genitori. Polli di allevamento costretti a scorrazzare sui prati virtuali della playstation. Non colpevoli e non infelici, perché sei stato tu, o i loro genitori, a non dargli quello specchio per vedersi ridicoli e soffrirne.
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Vivranno fino a cento anni. Di questo il merito è tuo che sei il padre, che gli lasci in eredità le statistiche record sull’età media della vita nel nostro tempo. E’ il progresso e il progresso dipende per un piccola parte anche da te (non avrai mica solo difetti!). Pensi che al figlio virtuale non mancherà tutta quella natura che non vedrà mai e che hai sacrificato per farlo vivere più a lungo di ogni antenato, perché non è “perdita” –esiti un attimo nel pensarlo, ma ormai l’hai pensato – non è perdita vera, se ciò che non hai non l’hai mai avuto e non l’hai mai visto. Ma non è proprio così che funzionano gli esseri umani –ti dici. Ci sono cose di cui abbiamo bisogno anche se pensiamo di poterne fare a meno e cose di cui non abbiamo bisogno anche se pensiamo di non poterne fare a meno. Osservi le anatre sull’argine del fiume. Cinque di loro si affrettano sculettando attorno al pane che gli sbricioli sull’erba dell’argine. Le osservi. Non ti spieghi perché allontanano dal pasto che gli prepari l’unico piccolo anatroccolo del loro gruppo, per giunta affamato. Il piccolo emette suoni striduli a ogni colpo di becco che lo raggiunge nel sedere e svolazza via di qualche metro. Il piccolo guarda affamato il pasto dei grandi e fa tenerezza. Di quella tenerezza che se ci pensi è senza senso perché
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se ci pensi, una mosca, un ragno e una zanzara ti lasciano indifferente alla loro sorte. Pensi che quella tenerezza che consideravi la parte migliore di te è il risultato di una manipolazione culturale. Pensi cosa c’è di te che sia veramente tuo. Stai pensando a come sei e come vorresti essere. Quando lo fai, segatura cerebrale cola copiosa dalle tue orecchie. Ogni volta che pensi a come sei e come vorresti essere. Certo, l’anatroccolo escluso non crescerà viziato. E se crescesse migliore per questo? Migliore d’accordo, non significa nulla, il concetto di “migliore”, “migliore di”, è uno di quei tarli che scavano nel cervello umano producendo solo chili di altra segatura cerebrale. Non sei un etologo, le tue sono solo fantasie. Ma ti chiedi se le anatre adulte non costringano il piccolo, escludendolo dal facile banchetto, a procurarsi il cibo da solo. Se la ragione fosse che il piccolo a quell’età deve imparare a cacciare e non a farsi servire? Non che le anatre abbiano un pensiero cosciente, ma potrà esistere un’intelligenza incosciente? Invece, agire senza pensare, per l’uomo moderno è solo una colpa. Quanti comportamenti gli uomini hanno cancellato dal loro agire per sostituirlo con quelli suggeriti dal loro pensiero? Se tutto questa attività cerebrale di cui l’umanità si fa vanto sia riuscita a produrre felicità è un'altra storia. L’uomo di pensiero certo si difende dicendo che siamo meno infelici grazie
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al nostro passato.
pensiero
sviluppato
che
non
nel
Discorso meno ovvio di quello che sembra, però. Il confronto tra le epoche e le loro rispettive felicità è meno semplice di quello che sembra. Oggi abbiamo molte ragioni di infelicità, ma l’ultima cosa che ci rende infelici è paragonarci ad un epoca futura molto più progredita dei cui vantaggi siamo oggi sprovvisti. Sfidi qualcuno a dirti di essere infelice per questo. Fatichi ad accettare il discorso di chi dice che oggi siamo più felici che ieri. Qualunque cosa fossimo ieri, non eravamo proiettati ad un confronto con un futuro(il nostro presente) e non soffrivamo per non avere quello che abbiamo oggi, perché non solo non esisteva ma perché era considerato oltre il possibile. Un povero non soffre della propria povertà finché non vede passare un ricco e lo vede come una cosa possibile. Potrebbe essere la teoria della relatività della felicità. Ma la teoria della relatività è lontana dal senso comune. E’ difficile convincersi che un ricco possa essere più infelice di un povero, questo suggerisce il senso comune. Ma quanti inganni ci offre il senso comune, se ci pensi. Oggi essere felici significa corrispondere all’immagine che abbiamo in mente della nostra felicità.
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Interrogarsi sulla nostra felicità è la ragione della nostra infelicità. Le persone felici sono quelle che non se lo chiedono. Sono felici quelle che non si guardano allo specchio. Sono infelici quelle che si guardano per vedere quanto di loro corrisponde all’immagine mentale alla quale vorrebbero corrispondere, per poi scoprire che non corrispondono mai. Milan Kundera sempre ne “L’insostenibile leggerezza delle essere” che ho citato all’inizio attribuisce l’origine dell’infelicità umana a quello specchio in cui ci riconosciamo, quello specchio che apre la vista su noi stessi, dando vita ad un occhio esterno, immaginario e spietato che noi puntiamo su noi stessi, e che comincia ad elaborare di noi un immagine di come vorremmo essere e non saremo mai.
* * * Sulla Darsena ferrarese del Po di Volano di notte deserta e silenziosa, nel cuore della città, si vede riflessa nell’acqua la luce dei lampioni. Quasi impossibile invece da qui vedere le stelle. A volte per via della nebbia, a volte per via della luce della città che oscura le lampadine
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del cielo. Ho sentito dire che quando in aereo si sorvola di notte il territorio del nord Italia si rimane impressionati dalla quantità di luce artificiale che si vede sotto. Come un’immensa macchia di luce. Da un certo punto di vista quella che si vede è la nostra ricchezza che luccica. Da un altro punto di vista, se un occhio alieno guardasse la terra dalle tenebrose profondità dello spazio, avrebbe una foto istantanea della distribuzione della ricchezza sul nostro pianeta. La parte illuminata è quella ricca. Quella buia è quella povera. Diversamente, se dalla terra si guarda il cielo vale la regola contraria: chi dalla terra vede le stelle è nella parte povera, chi invece, accecato dalle luminarie permanenti dell’opulenza metropolitana, stenta a intravederle, è nella parte ricca. Facile, no? Se un occhio alieno guardasse la terra dalle tenebrose profondità dello spazio avrebbe una foto istantanea della distribuzione della ricchezza sul nostro pianeta e lo fulminerebbe all’istante trasformandolo in una nuvoletta puzzolente. Siamo sette miliardi nel 2012 e la metà esatta dispone dell’1 per cento delle risorse del mondo intero, l’altra metà ha il 99 per cento, e se lo tiene stretto. Da bambino giocavo con i miei cugini ai viaggi nello spazio. Mio nonno nel suo studio aveva una scrivania con una cavità sottostante che poteva fungere meravigliosamente da cabina di pilotaggio di una nave spaziale. C’era anche un atlante astronomico. Così per non sbagliare
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strada. Un penna infilata dentro un portapenne al mio fianco poteva essere impugnata e reclinata a piacere come una leva. Il mio primo salto nell’iperspazio l’ho fatto così. Non credevo che l’odore di soffritto della cucina di mia nonna potesse seguirmi anche nell’iperspazio, ma tant’è. La nuvoletta di soffritto era tutto quello che mi portavo dietro dal mio pianeta. Il resto poteva rimanere dov’era. Oggi il calore della casa dei miei nonni mi appare come qualcosa di molto lontano nel tempo. Qualcosa per cui valeva la pena vivere su questo mondo un vita che però era migliore quando non aveva ancora tanto bisogno di alimentarsi dei suoi ricordi. Il pomeriggio aspettavo con ansia in tv i telefilm della serie UFO, quelli con le signorine di “base luna” vestite con adorabili tute spaziale attillate e riconoscibili per i capelli viola a caschetto, stile anni sessanta. Il tenente Ellis, era una di queste signorine. Avrei scoperto dopo decenni che l’attrice in questione era la sorella di Nick Drake, si, proprio il cantautore col viso da bambino, morto ventiseienne nel 1974, in circostanze poco chiare, autore di musiche e
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brani di struggente bellezza. La cosa curiosa che annoto è questa. Scoprire questa parentela tra il tenete Ellis e Nike Drake, due personaggi che consideravo come galassie lontanissime tra loro e in nessun mondo comunicanti, mi ha trasmesso del mondo in cui viviamo una percezione di ristrettezza, come fosse il cortile condominiale dal quale svolgo le mie osservazioni. Umberto Guidoni, astronauta vero, racconta di aver visto la terra dallo spazio e l’impressione che ha avuto è quanto sia piccola e quanto siano limitate le sue risorse. E si vede solo dallo spazio. Da quaggiù non si vede e non ci si pensa. O non abbastanza. Siamo una piccola sfera avvolta da una lamina sottilissima di atmosfera, soffocata, a vista d’occhio, dai gas di scarico. Se un occhio alieno guardasse la terra dalle tenebrose profondità dello spazio avrebbe una foto istantanea di come stiamo soffocando il pianeta. Potrebbe anche decidere di non distruggere all’istante il nostro pianeta trasformandolo in una nuvoletta puzzolente, perché lo stiamo facendo per conto nostro. Ricordo che da bambino discutevo con i miei tre cugini di possibili attacchi alieni e ci eravamo convinti tutti dell’idea che se gli
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alieni sono più intelligenti di noi, perché mai avrebbero dovuto attaccarci? E poi qualcuno dice che i bambini non sono saggi? Il ragionamento è valso a rassicurarmi per molti anni. Oggi penso invece che un esercito alieno potrebbe scendere da noi in missione di pace, perché no? A portare la democrazia, magari, o una versione più rispondente al suo spirito più autentico. E potrebbe decidere a modo suo, a casa nostra, dopo aver fatto ronzare le antennine per qualche istante, chi sono i buoni da salvare e i cattivi da uccidere, senza chiederci un parere. Su un sito umoristico poco tempo fa avevo pubblicato una saga fanta- demenziale (dal titolo “Comicodissea nello spazio”) dove immaginavo le mie avventure nello spazio, dopo essere stato rapito dagli alieni, insieme al mio pallone da basket, una nutria e una zanzara. Questi singolari compagni di viaggio in effetti costituiscono il mio habitat naturale su questo mondo, in un punto imprecisato dell’argine del Po di Volano, dove il destino mi ha voluto collocare nel suo imperscrutabile disegno. In queste coordinate spaziali si colloca una fauna commovente per abnegazione e attaccamento alla vita, ricco di nutrie, zanzare, anatre, gamberi, pesci siluro. In un habitat seviziato dall’uomo in ogni modo possibile e
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immaginabile, tra gli scarichi delle macchine di via Bologna, le limacciose acque del Po’ di Volano che scorrono solo grazie all’effetto fluidificante della sua consistente componente oleosa e d’inverno quel nevischio che da noi ti spiegano, scuotendo la testa, non essere nevischio, ma condensa dei fumi Montedison. Quello che non funzionava nel campione statistico ero io e cercavo di far capire agli alieni che studiandomi non ne avrebbero ricavato molto, perché la stragrande maggioranza delle persone su questo pianeta è diversa da me: già, infatti crede in un qualche dio, salvatore o castigatore, traendone conforto, continua a credere, non so come, in una politica che impotente sui drammi del mondo mira ormai solo al controllo delle coscienze (mentre le coscienze non riescono più a controllare la politica), crede ancora che, benché minoritari, gli uomini onesti, ingegnosi e di buona volontà sapranno far fronte allo sfacelo … e loro –gli alieni - mi dicono chissenefrega, che mica dovevano studiarmi a fini statistici, dovevano solo archiviarmi in originale o in fotocopia nel catalogo intergalattico delle specie in via d’estinzione. Ah beh! Se è così! Tempo fa ho letto l’articolo che esponeva la teoria di James Lovelock, scienziato di fama internazionale. Mi ha colpito la serena rassegnazione delle sue parole. Diceva questo: eolico? raccolta differenziata? pannelli solari? tranquilli, orami è tutto inutile, abbiamo superato quel limite oltre il quale il
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processo diventa irreversibile. Invertire rotta ormai è inutile. Entro la fine del secolo scompariranno 5 miliardi di persone, tra sconvolgimenti climatici, guerre e penuria di risorse. Cosa potrebbe fare la classe politica se scoprisse che tutto questo è vero? Ve lo dico io: prenderà atto della perdita di cinque miliardi di elettori, ma racconterà ai superstiti che rispetto alle politiche dell’anno diecimila avanti Cristo il calo è trascurabile. E poi, per guardare avanti, il circolo polare artico organizzerà i mondiali di calcio del 2090, se non farà troppo caldo. * * *
Le acque del Po di Volano, stanche, oscure e dense di sostanze sconosciute, sono qualcosa che definire uno specchio d’acqua è un fin troppo generoso. Se Nariciso fosse nato qui sarebbe ancora in cerca della sua immagine riflessa e forse si sarebbe stancato per volgere infine il suo sguardo verso cose più interessanti. Il ciclo delle stagioni ritorna su se stesso. Le papere selvatiche nate quest’estate, e già cresciute, conoscono il loro primo freddo veramente duro. Sono perfettamente attrezzate per affrontarlo. La natura come una mamma premurosa le ha lanciate nella vita su questo “specchio d’acqua” con
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tutto il suo amorevole corredo di sopravvivenza. Ogni tanto mi capita di vedere tra i rovi una nutria, che sgranocchia un ramo. Difficilmente si fanno vedere. Da noi le nutrie, che sono presenti in abbondanza, vivono nascoste, ma nella morte si palesano ai nostri occhi. Le strade della campagna ferrarese sono perennemente e tristemente cosparse di queste pellicce insanguinate. E’ facile intuire che il loro ultimo sguardo spaventato e incredulo è stato sui fari accesi di un animale ruggente di lamiera colorata. Quando capita di guardare una nutria il nostro sguardo vede un topo di enormi dimensioni. Come un topo lottatore di Sumo per intenderci. L’altra differenza è nel pelo che appare molto più folto rispetto a quello dei topi. Le nostre categorie mentali provocano una reazione di disgusto istintivo per via di questa associazione nutria= topo. C’è da chiedersi come nascono queste nostre reazioni, questo modo di vedere le cose, come si sedimentano nel nostro corredo istintivo. E mi chiedo come invece il nostro corredo istintivo, che ci fa ritrarre di fronte a questi animali e altri come gli innocui ragnetti zampelunghe, o gli scarafaggi, resti perfettamente impermeabile di fronte alle automobili che maneggiamo con una disinvoltura sfrontata e irritante. Il progresso dell’uomo corre più veloce del corredo di paure che la natura ci insinua nel cuore per proteggerci. Mi basta vedere il vostro modo di guidare. Non parlo di casi limite, ma parlo delle abitudini
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consolidate degli automobilisti in questo paese. Le macchine oltre i cento all’ora incollate a due metri di distanza l’una dall’altra non sono un’eccezione, sono la regola, come i sorpassi dettati dal bisogno di guadagnare venti secondi sulla durata complessiva del viaggio, o semplicemente dal bisogno di imporre la propria velocità di guida su quella degli altri. Provo sempre più orrore per gli esseri umani e sempre meno per le nutrie, i ragni, gli scarafaggi. La natura non è tenera come vorrebbero certe immagini mentali che vengono incardinate nelle teste degli uomini fin dalla più tenera età, attraverso favole o cartoni animati. Nella vita reale gli animali si aggrediscono, si sbranano, si accoppiano con la forza. Tra le cose più singolari che mi capita di osservare c’è uno stupro tra papere, con un epilogo inatteso. Ho cosparso il terreno di briciole, come faccio spesso sul tratto di argine sotto casa mia, e subito sono accorse le papere selvatiche affamate. Un papero maschio, attanagliato da una fame diversa, ha adocchiato la sua preda femmina, la quale in realtà aveva deciso essere più appetibili i pezzi di pane che ho rovesciato per terra. Lui non si è dato per vinto e con una certa violenza, tra starnazzamenti vari e piume che volavano, è riuscito infine a posizionarsi sopra di lei. La cosa divertente è che mentre il maschio appaga la sua fame, lei imperturbabile o rassegnata, riesce ad appagare la sua allungando il collo
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sui pezzi di pane a portata di becco. Non so se un essere umano riuscirebbe ad accoppiarsi mangiando contemporaneamente un panino. Abbiamo molti limiti. Le papere più grosse allontanano dal pasto con violenti colpi di becco le papere più esili che spesso sono le più giovani. Che dire. Ancora ritorna questa sensazione di sgradevolezza. Il bisogno umano di intervenire e difendere i più deboli. E’ un bisogno nobile e l’ho sempre considerato tale. Oggi sospendo anche questo giudizio, perché troppe nefandezze ho visto compiere sotto l’egida della difesa degli indifesi. Non credo nella solidarietà degli uomini. Credo solo in quella che saprò, se vorrò, esprimere io. Tutti ricorderanno Bambi, o il libro della Jungla. La natura sembra animata da compassionevoli e solidali sentimenti modellati sulla faccia migliore dell’uomo, quella che meno ci rappresenta peraltro, in luogo dell’avidità, l’egoismo, la prevaricazione. Un’immagine che non rappresenta noi stessi in modo veritiero l’appiccichiamo alla natura dandole un immagine che non rappresenta neppure lei per convincere noi che siamo meglio di come siamo. Come Narciso che cerca di vedere la sua bellezza riflessa nell’acqua e si rifugia in questa estatica autoadorazione che nasconde a se stesso il suo vero volto. * * *
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Da questo punto di osservazione fluviale in un giorno preciso di settembre si intravedono in cielo le sagome dei baloons. Si tratta di un iniziativa turistica. Se gli organizzatori li avessero chiamati semplicemente “palloni” o mongolfiere, si sarebbero sentiti certamente più piccoli, più di quanto non appaiano visti dall’alto del cielo dove appunto i baloons sono destinati. Un bel vocabolo anglosassone è quello che ci vuole per smuovere il culo della gente perché la gente così vuole per essere smossa: per poter dire “ieri sono andato sul “baloons” non è come dire ieri sono andato sul pallone. Eppure sono palloni, o meglio mongolfiere dove il pubblico è invitato a salire per visitare la città da una visuale inconsueta. L’effetto visto dal basso è singolare. Tutti questi palloni in cielo che sembrano uno stormo di astronavi aliene. Magari. Non sembrano minacciosi. Se scendessero dal cielo per liberarci da un nemici invisibile? Una specie di D day. Se fossero venuti dallo spazio per disintegrare quell’eco-mostro che prende il nome di Darsena City? Darsena City (foto a lato) è un complesso edilizio orrendo che sorge vicino a dove abito sull’argine del Po di Volano. Potevano chiamarla “città sulla Darsena”, ma l’hanno battezzata “Darsena City” il che evidentemente basta a zittire tutti. Se c’è una
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speranza forse viene proprio dallo spazio. Ma dal cielo arrivano sono solo palloni. Innocui palloni gonfiati. Darsena City è un complesso immobiliare che comprende varie cose, un palazzo cilindrico somigliante ad un rotolone di Scottex, una multisala cinematografica dove lo spettatore può vedere un film in condizioni di massima comodità e non ultimo, se vuole, immerso fino al collo in un secchio di pop corn. Le pareti cementizie, prima ancora di essere terminate, cominciano ad essere ingentilite dai graffiti urbani che porteranno forse alla celebrità un giorno ignoti artisti metropolitani. Darsena city, parafrasando una nota battuta, un pregio ce l’ha. Se ci andate dentro e da dentro vi affacciate ad una sua finestra godrete su Ferrara di una delle poche viste della città dalla quale non vedrete Darsena City. Ho letto tempo fa un brano, credo, di Stephen King dove faceva considerazioni che nulla centrano con le sue macabre fantasie narrative. L’autore diceva di immaginarsi diverse persone davanti ad uno scenario panoramico lacustre e si chiedeva quale poteva essere il primo pensiero che balenava nella mente di ciascuno. Parafrasando il suo discorso, e immaginando che lo scenario sia quello fluviale che ogni mattina mi trovo davanti agli occhi, ecco più o meno quello che diceva: un geometra penserà per prima cosa alla larghezza del fiume, il giurista penserà alla proprietà degli argini e ai diritti di sfruttamento, il geologo penserà
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al letto del fiume e a come si sarà formato nel corso dei secoli dei millenni, lo storico penserà a quali avvenimenti di rilevo lo hanno lambito, il biologo alle forme di vita che ci abitano, il militare a come guadarlo con un ponte di barche. Io aggiungo che magari un architetto penserà a come deturparlo costruendoci sopra un complesso edilizio, al quale potrebbe dare il nome, chessò, di Darsena City. C’è da chiedersi se questi mestieri che ho nominato e altri ci appartengono davvero o se siamo noi, piuttosto, che apparteniamo a loro. Lo dico perché gli schemi mentali si sedimentano e il nostro pensiero nasce già preformato. Non ci accorgiamo a volte che il pensiero acquisisce dei riflessi condizionati che escludono una moltitudine di visuali alternative. La visuale unica non è solo vista, ma si traduce poi in realtà. Diventa l’artefice che plasma il paesaggio, perché guida la mano degli ingegneri, dei geometri, dei legali, dei politici. Di tutta la moltitudine di demiurghi che direttamente o indirettamente danno un volto all’habitat umano. Per un periodo della mia vita ho lavorato in uno studio legale. Quella vita è un capitolo chiuso da anni. La mia mente dopo tanti anni è cambiata. Se guardo l’argine il primo pensiero non è più, come allora, alle questioni giuridiche, anche interessanti, che lo possono riguardare, dal diritto della navigazione, alla proprietà demaniale, eccetera. Mi sono disintossicato, ma ho anche perduto la mia
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identità, faticosamente costruita in anni di studio. Così mi sento un po’ senza cittadinanza, un po’ come clandestino senza documenti, che non saprebbe esibire, se richiesto, una precisa identità. Potrei essere chiunque o nessuno. Essere qualcuno, per molti, è tutto nella vita. Essere nessuno oggi non è una bella presentazione, certo, ma a me piace pensare che Ulisse nella caverna del ciclope abbia saputo trarne vantaggio. La mia visuale non è più nitida di prima, non intendevo questo, anzi forse è più confusa. Magari davanti all’acqua che scorre penso altre cose, tipo, cosa si nasconde sul fondo. Quante notizie e reperti straordinari sono coperti dal manto torbido del fiume. Se vedo gli anziani coltivare rettangolini di terra demaniale sull’argine non penso più se hanno il diritto di farlo, o se dopo tanti anni abbiano acquistato la proprietà della terra. Me ne frega poco. Penso piuttosto se è la terra che appartiene a noi o noi che apparteniamo a lei o cose del genere. Penso che sono gli ultimi rimasti a sapere come si coltiva un orto. Fra due generazioni nessuno saprà farlo. Ma esisterà un software infallibile che lo farà per noi. Si dirà, bella roba, sono pensieri che portano in nessun posto. Certo. Ma mi chiedo se non è proprio là che dobbiamo andare. In nessun posto. * * *
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L’acqua del Po di Volano è così ferma che non lascia proprio pensare che arriverà al mare. Ci provano le papere a smuovere qualcosa, a sospingere l’acqua nella giusta direzione. Ma il fiume anche così stagnante ha un certo fascino. Quando guardo l’acqua dalla finestra mi piace immaginare di essere su una barca che solca le acque di questo piccolo mare morto della mia fantasia. Risalgo il fiume come Marlow, il protagonista di Cuore di Tenebra, sprofondando sempre più nei silenzi che circondano questa nostra vita inutilmente rumorosa. Proseguendo il mio viaggio immaginario lungo il fiume esco dalla città, attraverso quelle campagne senza fine che ci separano dal mare, e al calare della sera mi avvolge la nebbia. La nebbia e la pianura sembrano fatte l’una per l’altra. Mortificano il desiderio umano di forme: l’una delude il desiderio di forme montuose, l’altra delude anche il desiderio surrogato di forme nuvolose. Procedendo da Ferrara in direzione mare si entra in una terra denominata “bassa ferrarese”, forse per distinguersi dal cosiddetto “alto ferrarese”
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che svetta di qualche orgogliosamente rivendicato.
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Nella bassa ferrarese sembra che il padre eterno abbia spianato questa terra col mattarello che nel nostro dialetto si dice “sgniadur” (ma non sono sicuro si scriva così) e l’uomo abbia poi ritagliato questa sfoglia di terra in immensi ravioloni rettangolari ricchi di coltivazioni. Non è raro vedere in mezzo ai campi come sospesi nel tempo e nello spazio gli aironi fermi su una zampa sola che scrutano l’orizzonte, così basso che non hanno neppure bisogno di alzarsi in volo per dominarlo. Difficilmente il viaggio ci permette di conoscere davvero i posti che attraversiamo, le persone. Magari cogliamo la diversità nelle persone che incontriamo, o sfioriamo soltanto. Ci portiamo dietro la nostra diversità a volte con orgoglio e ostentazione, per il fascino naturale che avvolge lo straniero, a volte meno, a volte ci si deve vergognare della propria appartenenza, a seconda dei tempi e delle contingenze. Dipende. Sembra che gli italiani all’estero si facciano riconoscere subito, o comunque, a me è capitato di farmi riconoscere subito. Avevo undici anni a Londra in vacanza quando una ragazzina inglese mi ha offerto delle caramelle nella Hall di un albergo. Una mossa ardita che dalle mie parti era inconcepibile. Non parlavo una parola di inglese. Italiano! Ha detto lei.
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Se avessi saputo parlare un po’ di inglese le avrei spiegato che da noi si studiava inglese solo due ore alla settimana e per giunta tutto lo studio era imparare a memoria dei dialoghi dove c’era sempre una ragazzina di nome Mary che chiedeva dov’era la fermata del bus perché questo dovevano chiedere le ragazzine inglesi, non offrire caramelle ad uno straniero sconosciuto catatonico. Per uscire dall’empasse del mio silenzio lei mi ha lasciato in mano tutto il pacchetto di caramelle. Erano delle polo, quelle di menta a forma di ciambella col buco in mezzo. Mi sono messo una polo in un occhio in modo da guardarla attraverso il buco. Spero che abbia pensato che ero deficiente prima che ignorante. La cosa mi farebbe sentire meglio. Sinceramente non ricordo di avere pensato a lei come una persone diversa, un po’ come capita ai bambini che familiarizzano subito anche tra stranieri e senza bisogno di conoscere le rispettive lingue. Lei apparteneva ad un paese distante dal mio, aveva sicuramente diverse abitudini, diversi costumi, caratteri somatici differenti, ma l’unica differenza veramente importante che coglievo era quella suggerita a gran voce dai miei ormoni che si agitavano nella mia testa come le scimmie urlatrici. “The little difference” per stare alla famosa battuta pronunciata da Churchill in una seduta parlamentare, ove si minimizzava ironicamente quella piccola la differenza tra uomini e donne. Quella che muove il mondo.
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La scienza delle differenza appartiene all’età adulta. L’ansia classificatoria ci assilla. Ricordo di aver letto tempo fa un articolo (apparso su Micromega del 2007 numero 2) che parlava di come muta la classificazione delle razze umane da luogo a luogo. Nel Regno Unito un uomo appartiene a razze diverse se proviene dal Pakistan, dall’India o dal Bangladesh. Sempre nel Regno Unito un cubano di pelle nera e un giamaicano di pelle nera, fanno parte della stessa razza afrocaraibica, ma negli Stati Uniti no, il primo è classificato come ispanico e il secondo come afrocaraibico. A volte c’è troppa attenzione per le differenza. Consiglio ai fanatici delle differenze un po’ più di attenzione per quella “little difference” che muove il mondo e appaga e rilassa i nostri sensi terreni. L’autore dell’articolo fa notare giustamente che sulle razze non ci siamo mai messi d’accordo. Ogni cultura ha i suoi punti di vista. In Costa Rica per esempio vive l’antica popolazione dei Bibri. Secondo i Bibri gli esseri umani si dividono in due categorie molto nette: i “Bibri” e i “Na”. Bibri nella loro lingua significa uomini, Na significa cacca. Questa classificazione, nota l’autore, denota un certo egocentrismo, ma non sarebbe più arbitraria di quella adottata dalle società più evolute. Insomma questa interessante.
è
la
sua
opinione,
comunque
Io penso che le classificazioni a volte ci facciano dimenticare che la natura produce
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diversità talmente complesse che ogni demarcazione è solo arbitraria. Può essere utile a certi scopi e non ad altri. Ho l’impressione che le diversità siano colmate a ben vedere negli spazi intermedi da un’enormità di sfumature che danno una visione d’insieme di infinità continuità. Vale quando vogliamo dividere le razze umane, vale anche quando vogliamo stabilire il confine esatto tra la vita umana e quello che c’è prima o c’è dopo. Mi piace viaggiare con la mente, seguendo il lento flusso di pensieri e ricordi che scorrono come queste acque uscite dal ramo principale del Po per attraversare la mia città e tanti piccoli paesi fino all’abbraccio del mare. Il mare che apre la strada verso tutte le direzioni. Oppure risalire nella direzione contraria verso le sorgenti e poi i ghiacciai fino all’abbraccio delle nuvole che aprono la strada verso tutte le direzioni. Se viaggio in macchina mi piace viaggiare in modo lento evitando le autostrade. Le autostrade mi danno un senso di isolamento dalla realtà, di angoscia. E’ come attraversare una zona grigia indistinta che va da un prima a un dopo, da un qui ad un là, cancellando quello che c’è in mezzo. In autostrada lo sguardo corre solo in una direzione, come se avesse il paraocchi. Guardare avanti. Al massimo guardare indietro ogni tanto verso quell’immancabile coglione che viaggia attaccato al culo della mia macchina, così vicino che potrei vedergli la carie dei denti.
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A differenza delle autostrade le strade normali ci insegnano come sono fatte le case, i confini dei campi, come si trasforma la vegetazione, il paesaggio. E ti permette di portarti dietro un senso di continuità delle cose, attenuando il senso di distanza che la tua appartenenza ad un altro luogo porta con sé. * * *
Di fronte alla Darsena ferrarese su Po di Volano l’acqua del fiume è sempre più bassa. Affiorano piccoli isolotti di fango qua e là. Vari uccelli hanno preso possesso di queste strisce di terra emerse dal fiume. Qui gli uccelli trovano insetti, vermi, cose prelibate insomma per buongustai. I ragazzini che si allenano con le canoe, incitati dagli istruttori, passano radenti ai bassi fondali, tenendosi lontani dalle sabbie emerse. I remi inciampano a volte nella vegetazione galleggiante. Il livello del fiume è regolato da chiuse. Una è sul corso principale del Po nel punto in cui da questo si dirama il Volano. L’emersione di isolotti è oggetto di discussione e non entro nel merito delle sue possibili cause. Annoto solo un fatto singolare. Si è parlato della necessità di una bonifica dei fondali, attraverso l’asportazione della fanghiglia che si è sedimentata. Sono stati esaminati dei campioni di terra del fondale e sono risultati talmente intrisi di schifezze che il progetto si è arenato subito e la parola arenato è
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quanto mai pertinente. C’era insomma il problema di dove collocare in superficie la sabbia da asportare, qualificata come rifiuto pericoloso! Meglio tenerlo sottacqua, o sotto olio, visto che nessuno sa definire bene la composizione di questo liquido che scorre tra gli argini. Scaricare in acqua è un grosso affare, poi la corrente porta via tutto, colpe, col-pevoli, e qualcuno forse rimedierà, ma anche no. Immediatamente dopo il recente terremoto del maggio 2012 c’è stata un’impressionante moria di pesci (foto sotto). Una processione interminabile di carcasse. Qualcuno ha ipotizzato che le scosse abbiano aperto nel sottosuolo delle crepe liberando sostanze inquinanti imprigionate sotto il fondale del fiume. Nonostante questo c’è ancora molta vita in queste acque: gabbiani, anatre, nutrie, pesci, gamberi di acqua dolce. Pipistrelli in gran quantità che d’estate divorano quantità industriali di zanzare. I pipistrelli sono preziosissimi. Da bambino mi avevano messo la paura che si attaccassero ai capelli. Oggi se un pipistrello riuscisse ad attaccarsi ai miei capelli sarebbe un miracolo. Non so se mi spiego. Ma fa lo stesso. Eppure se avessi dei capelli oggi dove c’erano un tempo, prima ancora che temere i pipistrelli, mi sentirei
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ridicolo per il fatto di averli. Vivo nella città famosa per tante cose e fra queste, anche per aver trapiantato a Silvio Berlusconi i capelli, l’organo più importante per la sua carriera politica. Siamo strani animali noi, altro che i pipistrelli. Lasciando da parte l’unica specie animale che si vanta di non esserlo vi racconto che su queste acque c’è un universo di specie che si perpetua in modo commovente, aggrappato a se stesso, contro le avversità provocate dall’uomo. E’ incredibile quanto sia attaccata alla vita, la vita. Poco tempo fa guardando dalla mia finestra sono riuscito a vedere addirittura un airone, immobile, maestoso, piantato in mezzo al fiume in quei pochi centimetri d’acqua. Un airone in piena città. Deve essersi perso, chissà. Piuttosto che atterrare nel traffico di via Bologna, o nel parcheggio Kennedy, o a Darsena City, posso capirlo. L’airone è un animale bellissimo, si vede spesso nelle campagne del ferrarese, ma in città è una vera sorpresa. Lo
scrittore
Giorgio
Bassani, profondamente legato a questa città, ha scritto un racconto dal titolo “L’airone” ambientato in questa terra. Il protagonista è un cacciatore ferrarese, pervaso da una miseria interiore che trascolora sempre più in angoscia. Forse, cercando di
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fuggire da una crisi che lo logora dentro, esce dalla città per avventurarsi in una battuta di caccia, che sfocerà in una carneficina insensata di anatre, germani, e infine anche un airone, buono solo da imbalsamare. Come si può, cosa ci vuole, ad uccidere un airone, cos’ bello, così grande, con le sue movenze lente e maestose? L’agonia dell’airone è descritta con sembianze ed atteggiamenti umani, e il protagonista nelle ore successive rivede la scena di caccia e comincia a provare un’agonia interiore ch lo immedesima sempre più nell’airone morente. I cacciatori sono protetti dalle leggi del nostro paese. Il cacciatore armato può entrare anche nel campo di proprietà altrui, quello che il comune cittadino non può violare. La proprietà privata è protetta dalla costituzione e questo significa che è interesse della collettività difenderla, ma evidentemente se la caccia può calpestare la proprietà per legge vuol dire che per la legge italiana chi spara ad un volatile lo fa nell’interesse del paese. Un interesse che sta più in alto della proprietà, se la logica non è un opinione. Un interesse che forse vola in cielo, tanto sta in alto. Se la costituzione è lo scheletro di un paese l’Italia è diventato un paese invertebrato. Sarà l’evoluzione della specie, chissà. Nessun governo di destra, sinistra o centro ha mai osato contrastare gli interessi della caccia e del mercato che gli sta dietro, non ha mai osato neppure regolarla in modo da
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impedirla quando è praticata come sport, senza essere legata a necessità alimentari o altre necessità specifiche da individuare. Nel nostro paese se uno è contrario alla caccia, anche solo come sport, non può impedirla neppure in casa sua. * * *
La notte di capodanno, da questo singolare punto d’osservazione, è possibile vedere riflessi nell’acqua i fuochi d’artificio che si levano alti nel cielo dal castello estense. I lampi di quel delirio collettivo che durano pochi istanti, giusto il tempo che impiegano a spegnersi le aspettative patetiche e i buoni propositi per l’anno che viene. Questo spettacolo si ripete ogni anno, ed è impossibile sfuggire a questi piccoli inganni che allietano comunque la nostra vita. Ma neppure questo spettacolo all’apparenza così innocente è indolore per il mondo fluviale che ho sotto gli occhi. I botti di capodanno terrorizzano gli animali che vivono nelle città. Chi ha degli animali in casa sa già di cosa parlo. Se qualcuno avesse un'idea del terrore che i botti generano nelle bestiole che allietano la nostra vita tutti i giorni avrebbe orrore. C'è un popolo immenso di bestiole che vive nelle città, e si rintana nei pertugi più nascosti, col pelo dritto. Il Dio che muove i terremoti cerca di darci un'idea di cosa significhi, ma noi umani non siamo abbastanza intelligenti da paragonare il nostro terrore a
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quello che possiamo risparmiare agli altri. Su quanto siano intelligenti queste bestiole, secondo parametri inconsueti al giudizio umano, cito un episodio tratto da un vero capolavoro delle novelle grafiche, "La guerra di Alan" di Emmanuel Guibert. La storia raccontata è fedele al racconto di un superstite della seconda guerra mondiale. La truppa di soldati americani incontra per strada un cane, che si lega al gruppo. Un soldato di origine polacca, bestemmiando in polacco, casualmente scopre che il cane comprende le bestemmie polacche. Il cane era un cane polacco e capiva il polacco, mentre era indifferente alle altre lingue. Forse i polacchi sono ottimi addestratori di cani o accaniti bestemmiatori, ma certo i cani sono animali straordinari. Quando mi troverete un uomo in grado di distinguere dall'abbaiata la razza del cane ne riparleremo. Invece sappiamo solo bombardare questi poveri animali anche in tempo di pace, la notte di capodanno, ripieni di ebete e grassa soddisfazione. Siamo portatori di terrore nel mondo naturale che ci ospita e per questo siamo soli. Anche perchè non sappiamo comunicare con loro. Nel libro “Congo” Micheal Chricton riporta la suggestiva considerazione che l'uomo è un animale che rinuncia a capire il linguaggio degli altri animali, e pretende di insegnare a loro il suo. Ci sono invece animali che mostrano un interesse spontaneo verso il nostro linguaggio e cercano di comprenderlo anche se non possono parlarlo. In parte sarà perché dipendono da noi, ma è una qualità affascinante comunque.
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Viaggiando col pensiero nei ricordi di cose lette, mi viene in mente il caso del noto etologo Conrad Lorenz, che ha cercato attraverso un’attenta e capillare, oltre che paziente, opera di osservazione, di comprendere il linguaggio degli animali che aveva attorno. Descrive nel suo libro “L’anello di re Salomone” l’importanza di questa opera di osservazione, di come costringa l’osservatore ad adattarsi ai ritmi di vita lenti di questi animali, e di quanto sia difficile per l’osservatore conciliare questo con i ritmi frenetici che abbiamo impresso alle nostre vite. Osservare un oca nel corso della sua giornata significa adattarsi al suo ritmo di vita. Un oca per intenderci passa gran parte della sua giornata a digerire e senza complessi di colpa, cosa di cui non sarei certo capace. Conrad Lorez (ritratto nella foto) spiega il titolo del suo libro riportando la leggenda di re Salomone il quale possedeva un anello che gli permetteva di comunicare con gli animali. Salomone si sarebbe poi liberato dell’anello gettandolo via in un attacco di rabbia, per aver saputo di essere stato tradito da una delle sue 999 mogli. A parte l’ingenuità, tipicamente maschile, di essere del tutto sicuro della fedeltà delle altre 998, viene in gioco la stupidità umana di gettare via, disprezzandolo, un valore preziosissimo, quello che ci può tenere in
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comunicazione col mondo di cui facciamo parte. Quando vedo le anatre che nuotano in fila indiana, con una disciplina incantevole, che nasce da un linguaggio privo di parole mi immagino Conrad Lorenz che si aggira sulle rive del Danubio, come racconta nel libro, pascolando le sue oche. Quando vedo queste acque intrise di liquami e vita in un intreccio difficile da spiegare, mi viene in mente per contrasto l’immagine delle acque del Danubio, che nei ricordi del mio recente viaggio a Vienna, era così pulito da essere addirittura dichiarato balneabile. Segno di una cultura di rispetto per l’ambiente e una sensibilità che ancora al nostro paese non appartiene. * * *
In via del Mulinetto, la strada che costeggia il Po di Volano a Ferrara, è possibile incontrare sull’argine in mezzo ai rovi una bellissima gatta bianca (quella della foto), proprio vicino al ponte di via Bologna. E’ una gatta addomesticata, e si lascia accarezzare volentieri dai passanti, ma conserva anche una natura selvatica che la spinge ad esplorare questo universo animale e vegetale che corre
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lungo il fiume. Deve avere imparato a conoscere anche gli uomini, al punto da sapersi avvicinare alle mani affettuose dei passanti, e al tempo stesso sapere evitare le automobili che in via Mulinetto sfrecciano con folli accelerazioni come dei caccia al decollo, quando intravedono quel rettilineo sgombro, subito dopo essere uscite dal traffico di via Bologna. La gatta attraversa di continuo quella strada, rischiando la vita, perché l’argine è il suo mondo. In questi giorni l’ho vista talmente ingrossata da farmi venire il dubbio che sia incinta. Il tempo ci dirà se è vero. Sull’argine c’è una certa varietà di specie animali e la vita deve essere impegnativa, e forse per questo affascinante, per un gatto. Per una gatta madre che deve difendere i suoi piccoli ancora di più, ma la natura ha dotato la maternità in questi animali di virtù insospettabili. Ricordo il racconto di Conrad Lorenz di un episodio esilarante accaduto nel parco di Yellowstone: una gatta madre, intenzionata a difendere i piccoli che stava allattando, era riuscita a mettere in fuga addirittura un orso, addirittura inseguendolo fino a che questo, terrorizzato, si era rifugiato su un albero. Un episodio che anche per il luogo dove è avvenuto pare degno delle avventure del mitico orso Yoghi che la mia generazione ricorda. Proseguendo lungo via Mulinetto si raggiunge il ponte detto “della pace”. Sul lato del ponte che si affaccia verso il complesso denominato Darsena City si vede un tubo sospeso sull’acqua
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che attraversa tutto il fiume da un argine all’altro. Su questo tubo mi è capitato un giorno di vedere appollaiati due gatti che si erano spinti fino al punto da trovarsi sospesi proprio nel mezzo del fiume. Ho pensato che fosse un luogo veramente singolare per un appuntamento. A parte il pericolo di scivolare e precipitare in acqua, che non sembrava turbare minimamente i due felini acrobati, c’era un altro particolare che non mi quadrava e rendeva ancora più singolare la scena. In un primo momento non l’avevo colta, ma poi l’ho messa a fuoco. Erano appollaiati con le code che si toccavano e il gatto di destra aveva la testa rivolta verso l’argine di destra, l’altro verso quello di sinistra. Un vero rompicapo. Ho escluso che avessero raggiunto quella posizione camminando in retromarcia partendo uno da un argine l’altro da quello opposto. Il rasoio di Occam è quel principio che insegna a diffidare fra più teorie di quella più complicata perché è quella che ha meno possibilità di essere vera, quindi meglio cercare spiegazioni più semplici. Per esempio che fossero saliti da parti opposte camminando frontalmente. Ma in questo caso uno dei due avrebbe dovuto scavalcare l’altro, cosa impossibile vista la larghezza del tubo.
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L’unica spiegazione possibile era che i due erano entrati dallo stesso lato e uno era riuscito a fare inversione, girandosi dalla parte opposta. Forse contrariato dal compagno per qualche ragione. Comunque un’impresa straordinaria, da circo, per un pubblico non pagante, che era costituito solo da me e mia moglie. Siamo rimasti a guardare immobili sul parapetto del ponte. Era come trovarsi di fronte all’affresco di un grande artista dove avevamo individuato però con una certa soddisfazione una piccola incongruenza nella razionalità dell’immagine d’insieme, o forse un trucco voluto dall’autore per mettere alla prova la nostra attenzione. * * *
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L’acqua del fiume oggi scorre più veloce. In certi giorni è quasi ferma, altre volte, come oggi, la corrente fluisce veloce. Le chiuse, a monte e a valle (per modo di dire perché monte e valle sono pure chimere su questa pianura), regolano il flusso come un rubinetto del lavandino, o del bidè per stare ad una metafora più calzante. Queste acque un tempo erano un’importante via di comunicazione per gli uomini e le merci trasportate sulle barche. E’ triste notare che da vie di comunicazione sono diventate vie di smaltimento dei rifiuti. Un tempo Ferrara era un centro importantissimo per le vie di comunicazione fluviali. Poco tempo fa in via Porta Reno sulla parete interna del portico che fa angolo con la centralissima piazza Trento e Trieste è apparsa la scritta di un graffitaro, singolare per contenuto: diceva più o meno questo “Ferrara cinquecento anni fa era New York”. La scritta è stata cancellata, eppure, a parte l’esagerazione, aveva un fondo di verità. Da quando vivo qui le uniche imbarcazioni che vedo passare sono i motoscafi che occasionalmente d’estate partono per escursioni verso il mare. Non ho visto passare chiatte o
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altre imbarcazioni indu-striali da quando vivo sulla darsena. Eppure ho avuto la fortuna di raccogliere la testimonianza di chi ha lavorato sulle imbarcazioni che solcavano queste acque in tempi non molto recenti e mi parlano di uno scenario diverso, di un traffico fluviale molto intenso. Oggi sembra che invece tutto corra via terra o via cielo. L’acqua che sembra un elemento così duttile e malleabile per le necessità umane è invece il più irriducibile per le pressanti necessità dei trasporti commerciali. Bisogna venire a patti con i suoi ritmi, perché più di tanto sulle sue strade non si può correre. La terra offre la massima resistenza utile a lanciare la corsa, l’aria offre la minima resistenza per conservare la velocità di corsa, l’acqua offre quella media resistenza che frena la corsa dei natanti. Eppure, se non avessimo la necessità di imporre queste accelerazioni alla nostra vita, se avessimo la volontà di lasciarci trasportare dal lento ritmo della natura alla quale apparteniamo, l’acqua del fiume ci regalerebbe il movimento senza chiederci il minimo sforzo, come la terra e l’aria non potrebbero fare. Ma nei prossimi giorni è atteso il grande freddo e l’acqua del Volano forse da fluida diventerà immobile e solida. Se il Volano ghiaccerà, cosa difficil-mente prevedibile dato che il liquame fluente non è ancora identificato quanto a temperatura di congelamento, se il Volano ghiaccerà … che
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farò? Aspetterò il disgelo, che passi, grande freddo naturalmente. Cos’altro?
il
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Osservo l’acqua del fiume che scorre, la luce che cambia con le stagioni e le ore del giorno. Queste acque mi ispirano un senso di pace. E’ stupefacente immaginare quanto dovevano essere trafficate invece qualche secolo fa queste acque, oggi degnate di attenzione solo da chi mira a disfarsi di liquami e rifiuti, da disperdere nell’anonimato assolutorio del mare. Questo corso d’acqua era l’equivalente di un’autostrada. Ci sono testimonianze che raccontano di viaggi fluviali compiuti da interi eserciti, imperatori, dogi, vescovi. In effetti era una via di comunicazione perfetta. Era possibile da Ravenna raggiungere Ferrara attraverso la deviazione artificiale che aveva collegato il Po al fiume Reno, e da qui lungo il corso principale del Po arrivare fino a Milano risalendo il Lambro. Il Po era al centro di una rete autostradale fluviale, composta dal corso principale del fiume, gli affluenti e collegamenti artificiali con altri corsi d’acqua. Dal Po era anche possibile raggiungere Venezia. Leggo, e annoto qui, che il vescovo di Cremona Liutprando nell’anno 969
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in tre giorni di navigazione da Pavia raggiunse Venezia senza mai uscire dal tracciato dei fiumi che permettevano di collegare queste città. Era il corso dei fiumi che ogni tanto invece usciva dal suo tracciato, come la storia del Po ci racconta, con immani devastazioni del territorio. Oggi il Po non è più un cavallo imbizzarrito, è un cavallo domato, imbrigliato, o un asino bastonato che cammina tristemente col suo passo stanco e uniforme, gravato dal fardello delle scorie infette della civiltà, destinate ad ammorbare il mare adriatico. Quando nell’antichità l’economia era meno globale di oggi ogni individuo operava in una dimensione di spazio più ristretta dove poteva avere l’esatta percezione del suo impatto ambientale, perché gli effetti dei suoi comportamenti gli ritornavano addosso immediatamente. E i comportamenti umani non potevano ignorare questo fatto, regolandosi di conseguenza. Per intenderci doveva bere, prodotti che immediatamente
se uno inquinava l’acqua che poi o il campo dove coltivava i poi doveva mangiare, coglieva l’assurdità della sua condotta.
L’economia globale, che oggi imprime un nuovo corso alla nostra vita, ha rimpicciolito le dimensioni del mondo grazie alla rapidità dei contatti fra paesi lontani, e alla possibilità di operare in una dimensione sovranazionale, ma non ci ha ancora trasmesso l’idea di un mondo
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così piccolo che se inquino in continente è anche un problema mio.
un
altro
L’idea perversa è che, dopotutto, quello che accade lontano da casa nostra non è comunque il primo e più urgente dei problemi, secondo la nostra scala di valori. Ma la nostra “scala” di valori è abbastanza traballante e purtroppo noi ci siamo sopra. Il nostro problema forse non è l’economia globale, è piuttosto non avere ancora capito in pieno cos’è l’economia. Economia significa amministrazione della casa come dice l’etimologia greca della parola “oikos”, dobbiamo quindi capire che ovunque sporchiamo, per quanto ci sembri lontano, sporchiamo in casa nostra. Ma il concetto pare difficile da afferrare, se così vanno le cose. Una legge del 1976 imponeva a tutte le città italiane di avere un depuratore. Dopo vent’anni la città di Milano, la locomotiva produttiva d’Italia, e conseguentemente la più produttiva di sostanze inquinanti, non aveva ancora un depuratore. Milano ha riversato impunemente in modo incessante per questi anni gli escrementi della sua euforia produttiva, prima nel Lambro e poi, naturalmente nel Po, a beneficio di tutte le città poste nel suo tragitto, e buon ultimo del mare adriatico, che una volta per gli antichi romani era “mare nostrum”, e ora sembra sempre più un mare di altri, qualcosa che non ci appartiene. E ancora non si può scordare che nel 2010 il fiume Lambro è stato colpito da un disastro
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ecologico di estrema gravità, causato dall'immissione dolosa di una ingente quantità di idrocarburi, esondata persino dalle vasche dei depuratori incapaci di contenerlo. Il Lambro, già noto per le sue pesanti forme di inquinamento, tali da annoverarlo tra i corsi d'acqua più inquinati d'Europa, ha riversato nel Po questa marea nera portatrice di morte per tante specie animali e vegetali. Se è vero che i rifiuti parlano molto di noi, e non solo per come ce ne liberiamo, l’analisi delle acque del depuratore di Milano in tempi recenti ha rivelato altri risultati davvero stupefacenti, nel vero senso della parola. Sono state trovate tracce di cocaina, eroina e cannabis molto superiori alle stime sul consumo di stupefacenti. Pare che i residui di queste sostanze nelle acque di scarico misurino l’effettivo consumo di droghe da parte della popolazione. Insomma a Milano pare ci sia una certa euforia e non solo produttiva. E la regalano anche al fiume, perché sono generosi di natura. Speriamo che questa allegria portata dal fiume possa regalare un po’ di euforia anche alle sfortunate creature acquatiche che osservo ogni giorno lungo questo corso d’acqua dimenarsi nella dura lotta per la sopravvivenza. * * *
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Il fondale del Po di Volano, nel tratto cittadino, deve essere tempestato da una moltitudine di oggetti che gli uomini hanno voluto seppellire sotto il manto del fiume. Nel corso del tempo gli oggetti incapaci di galleggiare sono sfuggiti alla corrente e si sono posati sul fondo punteggiando nell’insieme una caotica mescolanza di epoche diverse, una rappresentazione del tempo non lineare che sembra l’antitesi di quella che il flusso del fiume, come quello del tempo, suggerisce ai nostri sensi. Per dirla in modo grandioso con le parole letterali di Victor Hugo, tratte dal romanzo “I miserabili” nel punto dove parla dei ritrovamenti fatti nelle fogne di Parigi, “la mente crede di scorgere, vagolante attraverso l’ombra, in quella sozzura che è stato splendore, quell’enorme talpa cieca che è il passato”. L’autore poi elenca da perfetto documentarista alcuni oggetti ritrovati nelle fogne di Parigi: lo scheletro di orangutan, una moneta ugonotta di rame che portava da un lato l’immagine di un porco con in capo un cappello da cardinale e dall’altro un lupo con la tiara in testa, e un brandello del lenzuolo funebre di Marat. Naturalmente se mi si passa l’irriverente, non so per chi, paragone tra il Po di Volano e le fogne di Parigi. Immagino che gli oggetti depositati sul fondo del fiume siano presenti in quantità particolarmente nutrite in prossimità dei
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ponti. I ponti sono ideali trampolini di lancio per chiunque voglia disfarsi di qualunque cosa, senza molti scrupoli per il paesaggio sottofluviale, che anche se non si vede, cosa incredibile a dirsi, c’è. Ricordo che molti anni fa, quando ero ragazzo, fu prosciugato il fossato del castello, per ricambiare l’acqua. Ricordo la curiosità per il fossato del castello senz’acqua, visione del tutto singolare e irripetibile, e ricordo la sorpresa quando si è scoperto che tra la moltitudine di oggetti i più ricorrenti erano le biciclette. C’era una selva di biciclette, forse rubate, forse scaricate da chi voleva disfarsene per le più svariate ragioni, chissà. Nella mia vita in questa città mi hanno rubato più di una decina di biciclette. C’è un mercato di cicli rubati fiorente e i prodotti di scarto di questa industria del rubato vengono buttati nell’acqua che permette di far scomparire i corpi del reato ritenuti non riciclabili. Dalle mie parti la bicicletta è uno strumento indispensabile, una compagna di vita, come nel far west era il cavallo, così per lanciare un altro paragone azzardato ma suggestivo. Anche i miei umori verso i farabutti che mi hanno derubato sono all’altezza dei furti di cavallo nel far west, ed esigono un’immediata impiccagione del colpevole dopo processo sommario. Giustizia sommaria “fra la via Emilia e il west” per dirla con un’espressione di Francesco Guccini. Essere derubato, e tante volte, e nonostante ogni tipo di precauzione adottata, mi ha esasperato e, devo dire, mi ha scrollato di dosso con estrema facilità
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tonnellate di civilissime nozioni di buonismo garantista, apprese nei miei studi giuridici. Sono stato un pessimo studente e questo è il monito che lancio al primo che ci riproverà ancora. Comunque è certo che sott’acqua riposano, pace all’anima loro, molti reati. L’acqua lava e prescrive le colpe umane, nel paese dove la giustizia è nota nel mondo per negare se stessa, scorrendo a rilento come questo fiume, rallentato ad arte dall’opera dell’uomo. In ogni modo, a parte le biciclette, ci devono essere tanti oggetti in prossimità dei due ponti dai quali osservo il fiume che, qualunque cosa abbiate perduto nella vita, avete buone probabilità di ritrovarla lì sotto, e se non proprio quella, almeno una simile. Ricordo che nell’”Orlando furioso” Astolfo si reca sulla luna, perché la luna custodisce tutto quello che sulla terra è andato perduto dall’uomo, e quindi anche il senno perduto di Orlando. Così mi viene l’idea che il fiume custodisca tutto quello che è stato perduto sulla terra e forse, anche il senno perduto degli uomini. * * *
Quando ho visitato per la prima volta l’appartamento dove ora vivo sono rimasto folgorato dalla vista della camera da letto che si affacciava sull’acqua del Po di Volano. Ho deciso all’istante che avrei voluto comprare quell’abitazione, anche a costo di farmi
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strangolare per qualche annetto dal mutuo scorsoio della mia banca, che poi non si è fatta pregare. Si diceva a quei tempi che tutti i palazzi della zona sarebbero stati valorizzati da un progetto riguardante il Po di Volano destinato ad accogliere servizi, lavori per la manutenzione degli argini, spazi per lo svago, turismo, insomma destinato a diventare un polo di interesse per la città. Le cose sono andate diversamente. E’ sorto il centro commerciale Darsena city sul Volano, con una multisala cinematografica, ma tutti i negozi del centro commerciale sono uno dopo l’altro hanno chiuso l’attività. Il centro non è mai decollato, la galleria è un passeggio deserto tra negozi chiusi. Sul retro del complesso è stata fatta una specie di gradinata che scende verso il Volano, dove ipotetici innamorati avrebbero forse dovuto sedersi ad ammirare il tramonto riflesso sull’acqua. Di certo ad aver visitato questo luogo sono solo i graffitari che hanno decorato il dubbio gusto di questa colata di cemento col dubbio gusto della loro vernice. Poco male, ma passando in quel posto rimane una sensazione da periferia urbana degradata. E poi naturalmente c’è il fiume che l’opera dell’uomo contribuisce a trasformare ogni giorno che passa in una fogna. Ci sono anche uomini che naturalmente si lamentano di questo stato delle cose. Le rimostranze più convinte sullo stato del fiume,
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e che recentemente hanno trovato anche spazio sui quotidiani locali, sono quelle dei proprietari dei motoscafi ormeggiati nella Darsena. I liquami, i bassi fondali e gli odori malsani scoraggiano i gitanti. I proprietari delle barche, che pagano l’affitto dello spazio che occupano, vorrebbero acque più pulite. Chiedono acqua pulita per la nafta dei loro motoscafi. I cattivi odori a volte ci sono, soprattutto d’estate, ma ci sono quando tranci di siluro galleggianti rimangono arenati sotto il sole cocente e imputridiscono. Succede però e non per colpa dei siluri, che vi assicuro non amano abbronzarsi al sole, succede per colpa di quei bipedi terrestri che li hanno ridotti così. I pesci che muoiono per colpa dell’uomo marciscono e generano cattivi odori, forse per un’imperdonabile svista della natura che non è perfetta. A parte questi fenomeni, l’aria è più salubre di quella di via Bologna, infestata dagli scarichi delle macchine. La corrente del fiume è lenta quasi sfiatata, è vero, lo vediamo tutti. Ma non è un problema solo del Po di Volano. Leggo su un sito ministeriale che alla foce del ramo principale del Po la spinta del fiume si è ridotta al punto che l’acqua salata del mare è risalita fino a venti chilometri lungo il corso del fiume, sconvolgendo la fauna fluviale. Se la risalita del mare procede di questo passo apriamo sulla darsena l’ottavo lido
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ferrarese e il turismo è salvo. Battuta a parte ho letto da poco uno scritto che documenta la colpa di questo fenomeno di risalita del mare nel fiume, e la attribuisce sempre a quell’animale bipede terrestre che strizza e munge questo fiume fino allo sfinimento prelevandone le acque per tutto il suo percorso e ne indebolisce il flusso. Ho già detto che la rena da asportare per contrastare l’insabbiamento sarebbe così inquinata da essere classificata come rifiuto e come tale non si saprebbe dove metterla. Se il fango sotto l’acqua del fiume è un rifiuto, allora il fiume non è già una discarica? O bisogna classificarla discarica per decreto prima? Dunque, noi abitanti fluviali del Po di Volano viviamo a ridosso di una discarica? Qualcuno dovrà avere il coraggio di trarre anche questa conclusione. A quel punto la prospettiva di giudizio sarà inquadrata più correttamente e si dirà finalmente che non si può asportare il fango, ma non perché non si sa dove portarlo, piuttosto perché non ha senso portare via i rifiuti da una discarica. Il guaio è che questa discarica preoccupa solo i proprietari dei motoscafi e chi ha interessi economici sulla zona. Insomma l’ambiente sembra essere un’appendice dell’economia e la sua salute interessa solo quando può influire sulla salute dell’economia. Allora qualcuno potrebbe decidere che la cura è quella che si pratica contro l’appendicite e tagliare via questa
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fastidiosa e inutile protuberanza della nostra agiata esistenza che si chiama ambiente. * * *
Questa striscia sottile d’acqua, che divide in due parti Ferrara, raccoglie gran parte della vita animale non domestica della città. Le nutrie d’inverno non si vedono, sono rintanate, ma ci sono. Si vedono solo nelle notti d’estate. Di loro si vede sul pelo dell’acqua solo affiorare il naso come un coltello che taglia in due la superficie immobile del fiume. La presenza del naso è intuitiva, occorre con lo sguardo risalire quelle due ondine convergenti, come due lunghissimi baffi, che ti portano in un punto preciso. Se escono dall’acqua si vede che sono nutrie e non pantegane. Cosa rassicurante solo per la sensibilità umana, facilmente suggestionabile. D’estate gli enormi pesci siluro all’alba fanno i tuffi. Chi come me dorme con le finestre aperte per il caldo viene svegliato all’alba dei tonfi delle loro evoluzioni nell’acqua e sembra che nel Volano siano arrivati gli elefanti. Mentre cammino verso l’ufficio lungo l’argine vedo stormi di gabbiani volteggiare in un punto imprecisato del fiume. Poi improvvisamente scendono in picchiata. C’è sicuramente cibo, magari residui provenienti dai vari ristoranti che si trovano nelle vicinanze.
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Poi ci sono i germani (ritratti nella foto sotto) che hanno sfrattato recentemente la popolazione delle anatre bianche. Queste sono quasi del tutto scomparse. Fino all’anno scorso nel mio punto d’osservazione c’era una popolazione di almeno una ventina di anatre bianche. Le evoluzioni dei loro anatroccoli nelle prime lezioni di nuoto rallegravano non poco la vista su questo tratto di fiume. A pochi metri da dove vivo un anziano aveva costruito sull’argine una recinzione con una rete di copertura per difendere gli anatroccoli appena nati dai predatori. Nell’ultimo anno non si sono più viste. Magari torneranno, non so, ma si tratta di fenomeni che si svolgono comunque nell’indifferenza generale, perché la vita della città è interessata ad altro. La vita e l’interesse degli uomini corre sulla terraferma e gira attorno ad altre cose, attorno agli istituti bancari che spuntano ovunque come funghi in questa zona, attorno ai negozi di telefonia sempre più diffusi, attorno alle meraviglie delle auto ultimo modello pluriaccessoriate che ringhiano sul ponte di via Bologna, strangolate dal guinzaglio teso del traffico cittadino, gira attorno ai treni ad alta velocità che scavalcano il fiume senza neppure avere il tempo di vederlo e quelli a bassa velocità dei pendolari addormentati con
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la testa sui finestrini, gira attorno all’edilizia urbana mai doma che plasma in modo incessante il territorio imprimendo una forma geometrica e incolore al paesaggio, o più modestamente per qualcuno, attorno all’acquisto di una casa popolare, frutto dei sacrifici di una vita, magari con la vista su questo argine dove è ancora possibile coltivare una piantina di pomodoro, o semplicemente seguire con lo sguardo il movimento felpato dei gatti, attratti anche loro in modo irresistibile dalle cose interessanti che si muovono. I gatti sono frenati dalla repulsione che provano per l’acqua e magari attratti al tempo stesso da quel confine che non possono oltrepassare. La gatta bianca, di cui ho già parlato, la vera regina dell’ argine, è incinta. Accarezzandole la pancia si sentono le teste dei gattini. Quando le gatte partoriscono si tagliano da sole con i denti il cordone ombelicale. Non glielo ha insegnato nessuno, ma lo fanno. Mi chiedo quanto si sia depotenziato in realtà l’individuo umano, che una volta sapeva fare da solo tutte le cose che gli servivano per vivere e perpetuarsi, e oggi non saprebbe da solo partorire, accendersi un fuoco, procurarsi cibo o cose simili, senza qualche strumento la cui costruzione sia stata delegata ad altri individui della stessa specie. Se l’individuo si è depotenziato, mi chiedo a chi ha ceduto la sua potenza. Forse ad un sistema intricato di relazioni che gli restituisce sale operatorie
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asettiche, macchine superveloci, aerei e altri incredibili prodigi. Cose che forse non appartengono del tutto a lui come singolo individuo, almeno non come al gatto appartengono le sue unghie e i suoi denti, con i quali è capace di tagliare il cordone ombelicale e mettere al mondo una cucciolata di gattini, difenderli con tutto se stesso da ogni pericolo. Mentre faccio questi pensieri, camminando lungo l’argine per andare al lavoro, vedo passare dei cuccioli di uomo diretti a scuola. Vanno a farsi insegnare tutte quelle cose che devono sostituire le cose che una volta gli uomini sapevano fare senza farsele insegnare da nessuno. Vedo bambini gracili arrancare con zaini enormi che pesano più di loro. La prima cosa che gli insegniamo è la pesantezza della vita e lo insegniamo prima di tutto al loro corpo, in modo che la mente trovi più naturale accettare questa realtà. Non sembra un grande atto d’amore, detto così. L’individuo umano ama i suoi piccoli senza dubbio, ma il sistema a cui abbiamo delegato quasi tutto non ama abbastanza i nostri figli. Altrimenti non credo che li vedremmo sotto questi zaini enormi che il nostro progresso potrebbe comodamente aver sostituito da anni con leggerissimi strumenti digitali, non credo che li vedremmo riversi ciascuno sul proprio telefono cellulare e tanti di loro già con la sigaretta in bocca intenti a bruciarsi i polmoni. Vederli insieme mi suggerisce l’idea che siamo tutti sempre più dipendenti dagli altri e al contempo più soli.
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Forse nel corso del tempo il nostro sistema sociale è cresciuto togliendoci una bella fetta di attitudini, capacità, abilità individuali che faceva parte del nostro corredo genetico; in cambio ci restituisce oggi con la tecnologia tanti vantaggi ai quali non sapremmo rinunciare, ma non è poco neanche quello che abbiamo perduto. Ed è ancora di più quello che stiamo perdendo. Abbiamo rinunciato all’abbraccio della natura, e al suo piacere, ma non alla stretta della nostra morsa che la tiene per il collo. Avviandoci verso una nuova forma di solitudine, quella del potere. * * *
L’acqua sul Po di Volano è un pavimento di linoleum, senza increspature. Sembra solida. Ci potrei camminare sopra, se non fosse che potrebbero male interpretare le mie virtù. La nebbia imprime immobilità anche al cielo. Si cerca di immaginare se sopra la nebbia ci sono nuvole che si muovono. La nebbia non può essere uno spessore infinito in altezza. E’ solo una coperta. Un velo pietoso steso su tante cose. I rovi, gli arbusti sull’argine, sono rinsecchiti. L’inverno spoglia la natura e il caldo la riveste, curiose inversioni rispetto all’umana natura. Per la verità non
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solo quella umana, direi quella animale. L’inverno ha fatto indossare alla gatta bianca, regina dei rovi, una pelliccia speciale, folta e morbida che è un piacere accarezzare e sembra che il piacere sia anche suo. La gatta bianca oggi mi ha guardato come sempre mentre passavo a piedi lungo l’argine per andare al lavoro. Non si è avvicinata per le solite carezze. Oggi aveva da fare. Il suo muso frugava tra i rovi. C’è una maternità in vista, la sanità ferrarese non è affidabile, e lei sa che deve arrangiarsi. Non chiederà aiuto a nessuno quando metterà al mondo i suoi cuccioli. Sì, è curioso che Ferrara non abbia più un ospedale e un esemplare di femmina umana ferrarese debba andare in un altro centro abitato, a Cona (che si trova a quindici minuti di macchina da Ferrara) per partorire. E i malati Ferraresi non hanno più neanche un pronto soccorso nella loro città. L’unico pronto soccorso rimasto nella città di Ferrara è quello veterinario. I ferraresi mugugnano, ma poi non fanno tanto per cambiare le cose. Se fossero usciti in strada tutti pacificamente sbattendo i cucchiai contro le pentole, in modo ossessivo e incessante, sotto il palazzo comunale e le sedi del potere, il potere non avrebbe potuto fare quello che ha fatto. Altrove in passato il potere si è dovuto piegare di fronte alla protesta delle pentole e dei cucchiai, e uomini di potere si sono dovuti dimettere. Credo sia accaduto tempo fa in Argentina, ma poco importa. Importa che non accade qui. Non accade in Italia. Un paese
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fermo come questo pavimento anche un po’ maleodorante.
di
linoleum
e
Eppure, incredibile a dirsi, questo fiume, questa acqua ferma che ho sotto gli occhi, è il lago dei miei sogni, il posto dove ho scelto di vivere con la finestra puntata su questo spettacolo. Vi posso raccontare tutto questo con le parole sublimi di Selma Lagerlof (nella foto sotto), prima donna al mondo vincitrice di un premio nobel per la letteratura. Le parole che trascrivo sono tratte da “La saga di Gosta Berling”. Non le commento perché non serve, splendono di luce propria: “.. nessuno sa quanto sia bello il lago dei miei sogni, prima di aver veduto le nebbie del mattino sollevarsi dalla sua liscia superficie, prima di aver veduto dalla finestra di quel salottino, ove tanti ricordi hanno dimora, rispecchiarsi nel lago un roseo tramonto. Ma io ti dico ugualmente, non andare! Poiché può darsi che ti prenda il desiderio di indugiare nelle sale malinconiche e offuscate dai lutti del vecchio castello, o che tu voglia diventare il proprietario di quel luogo attraente e se sei giovane, ricco e anche felice, forse vorrai scegliere il castello a dimora tua e della tua sposa”.
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Non sono ricco, tutt’altro, ma ho scelto questo castello di 45 metri quadrati, con vista sul Po di volano, a dimora mia e della mia sposa. * * *
Avrò fotografato centinaia di volte questo scorcio di paesaggio fluviale. Alcune di queste foto le riporto qui. Ogni foto rappresenta un momento diverso della giornata, un momento diverso della stagione. Tutte insieme queste immagini statiche potrebbero essere messe in sequenza come i fotogrammi di un film che rappresenta il trascolorare della luce nei vari momenti della giornata e dell’anno. Mi viene in mente Monet che dalla finestra di un albergo di Rouen dipinse trenta tele della cattedrale su cui si affacciava la sua vista. Trenta dipinti dello stesso soggetto, per rappresentarla ogni volta sotto una luce diversa del giorno. Un’infaticabile serie di pennellate che non avevano fine. L’incessante rinnovarsi della vista davanti a lui impediva di mettere la parola fine. Ad ogni istante il soggetto che aveva davanti nella sua immobilità non era più lo stesso che aveva cominciato a dipingere. Si attribuisce a Monet l’aver dichiarato che definire finito un lavoro sarebbe un atto di tremendo orgoglio. La luce che nell’arco della giornata attraversa un paesaggio immobile può sembrare un film poco emozionante, o molto emozionante a seconda dei punti di vista e della sensibilità. Il film che ho raccolto io sulla sponda del fiume può
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diventare da un momento all’altro un film dell’orrore. La luce più tetra e inquietante, che io ricordi aver visto rifrangersi su queste acque, è quella del 21 maggio 2012, il giorno seguente al terribile terremoto che ha sconvolto il modenese, il ferrarese e il mantovano. Questa è la foto fatta in quel giorno che ancora tremava di paura. A volte però l’orrore è meno evidente, più nascosto, e bisogna saperlo vedere. Il vero orrore è quello che stiamo facendo al fiume e al suo universo. A Ferrara dal rubinetto esce acqua del Po. Nessuno o pochissimi la bevono. A parte che ti lascia in bocca il sapore di quando fai una bevuta in piscina. E’ certamente potabile, ci mancherebbe, ma sapere che viene dal Po basta a farti passare la voglia. Ricordo che quando ero bambino si beveva eccome. Addirittura a volte si entrava nei bar e si chiedeva un bicchiere di “acqua di pompa” che era gratis e il barista te l’avrebbe tirata addosso, ma te la dava senza brontolare. Altri tempi. Oggi provate a chiedere in un bar un bicchiere di acqua di pompa, e vedete quello che succede. Chi vende l’acqua in bottiglia trova dalle nostre parti ingenti profitti. E qui esiste il migliore spot pubblicitario vivente che si possa trasmettere per convincere a vendere
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acqua in bottiglia. Lo spot pubblicitario va in “onda” a ciclo continuo sotto il ponte nei pressi della località Pontelagoscuro, senza interruzione, ogni istante e ogni giorno dell’anno. Basta guardare le immense macchie di schiuma che passano di continuo, come improbabili nuvole di passaggio. Deve esserci alle sorgenti del fiume un gigante dalla chioma fluente che si fa lo sciampo tutti i giorni. Possono disinfettarla perfezione quest’acqua, ripugna.
e ma
ripulirla l’idea di
alla berla
Purtroppo per molti animali quest’acqua è l’aria che loro respirano. E se l“atmosfera” degli animali acquatici è inquinata i malcapitati non possono indire domeniche ecologiche o sospendere il traffico il giovedì, o circolare a targhe alterne, cioè applicare quegli infallibili rimedi concepiti dai migliori ingegni della specie dominante sul pianeta per purificare l’aria che respira. Dicono che se il Po dovesse oggi rompere gli argini sul versante ferrarese, cosa che in passato ha fatto più volte, portando immani devastazioni, la morte verrebbe solo indirettamente dell’onda d’acqua. Moriremmo per le letali esalazioni dello stabilimento exMontedison collocato a poche centinaia di metri dall’argine. Sembra che la ex-Montedison sia responsabile anche di un fenomeno meteorologico tipico delle nostre parti. I fumi industriali, quando interagiscono con la nebbia nelle gelide mattine invernali, si condensano e depositano a terra sotto la forma di un nevischio che prende
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il nome di “galaverna” (foto seguente). Si chiama anche neve chimica. Qualcosa che ricorda il fallout nucleare post atomico. Qualcuno dice che gli eschimesi abbiano un centinaio di parole solo per nominare la neve a seconda delle diverse sfumature e caratteristiche con cui si presenta. Magari non conoscono la nostra neve chimica, che potrebbe arricchire il loro vocabolario. Osserveranno la neve come io osservo il fiume che cambia nelle ore del giorno. Forse ci vorrebbero anche a me cento parole per nominare l’acqua del fiume a seconda dell’aspetto ogni volta diverso che rivela. Acquarida, acquensa, acqunta, acqualta, acqualenta, acqutrida, acquefitica. Me ne mancano solo 93, ma il tempo non mi manca. * * *
Cammino tutti i giorni alle sette di mattina lungo l’argine del Po di Volano. E’ la strada che percorro a piedi per andare al lavoro. Cammino sul lato della strada che si affaccia sull’acqua, benché non ci sia il marciapiede che è invece sull’altro lato. Le macchine mi sfanalano infastidite dal fatto che non sto al mio posto, e che cammino in uno spazio non riservato a me. Il fatto è che ho bisogno di
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guardare questo scenario che giocosamente con la mia fantasia nel quotidiano verso un lavoro che non verso un mondo brulicante di persone capisco.
scherza cammino capisco, che non
In realtà capisco poco anche di questo scenario naturale, ma qui almeno mi sento a mio agio. I gabbiani sono appollaiati, disciplinati e composti lungo il pontile, come tanti soldatini in riga che aspettano un ordine. Appena passerò il ponte, verso i lavoro, verso il centro della città, il mio stato d’animo muterà, diventerà più rigido, sulla difensiva, i muscoli facciali saranno più tesi. Cercherò di trovare una ragione in quei soldi che mi servono per vivere, anche se non proprio per sentirmi vivo. Questo fiume è il confine tra due diversi stati d’animo. I fiumi, si dice, sono confini naturali. I più naturali che ci siano. I ponti nella storia del mondo servono per mettere in contatto le genti attratte da reciproco interesse di cultura, ma anche per fare passare gli eserciti che le calpestano. I nostri bombardieri, sotto un governo di sinistra, hanno abbattuto ponti in Serbia. Forse erano ponti pericolosi, lo sapranno magari quegli ex uomini di governo, che sembrano ancora orgogliosi di quello che hanno fatto. Riporto questa testimonianza dello
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scrittore Erri De Luca: “Da una stanza di un Hotel di Belgrado nel maggio del 99 ho visto le albe. Il mio secolo si chiudeva con l’Italia che bombardava le città della Jugoslavia e io non volevo stare dalla parte dei bombardieri. Sono andato a Belgrado quella primavera per stare dalla parte del bersaglio. Ero solo. Durante le incursioni aeree della notte restavo alla finestra, non scendevo nei ricoveri. Quelle albe di maggio erano rosa, colore di cicatrice fresca. Quando il più mite dei colori ti ricorda una cicatrice sei finito lontano”. A Belgrado abbiamo bombardato un dittatore abbattendo i suoi “temibilissimi” ponti. Però su quei ponti passavano anche le ambulanze, gli autobus, i civili. Ricordo il bellissimo film con David Niven “Il ponte sul fiume Kwai”. I prigionieri di guerra inglesi in un paese asiatico sono costretti dai loro nemici carcerieri ai lavori forzati per costruire un ponte. Decidono di sabotarlo, cioè di costruire un ponte destinato a crollare per ostacolare i piani del nemico. Ma poi il lavoro risveglia l’orgoglio dell’opera, e prevale nei prigionieri il bisogno di dimostrare la capacità di costruire un’opera grandiosa ed affermare così la propria superiorità sul nemico con un atto costruttivo anziché distruttivo. Un film che rimane dentro di me, indelebile. Troppi lavori oggi invece mortificano l’aspirazione a restituirci l’orgoglio di aver fatto qualcosa. Molte persone oggi disoccupate, sempre più, sarebbero infastidite da questa mia lamentosa riflessione
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e un po’ le capisco. Purtroppo ci separa un fiume, il fiume artificiale creato ad arte per renderci avversari. Gli stessi uomini che fanno decollare i bombardieri abbattono di continuo i ponti su questo fiume ideale che ci divide, abbattono i passaggi che potrebbero mettere dalla stessa parte quelli che fanno lavori insoddisfacenti e quelli che non hanno lavoro. Potremmo accorgerci che vogliamo le stesse cose. Quando cammino lungo l’argine alle sette di mattina incontro spesso sul ciglio della strada un militare, con la tuta mimetica. Aspetta che qualcuno passi a prenderlo in macchina. Probabilmente la sua destinazione è la base militare aereonautica di Poggio Renatico. Lo vedo la mattina e i suoi orari coincidono con i miei. Siamo due pendolari, così diversi all’apparenza, ma forse meno di quello che pensiamo. Siamo sullo stesso lato del fiume, ma così distanti al tempo stesso. Lui potrebbe con la tuta mimetica nascondersi tra i rovi dell’argine. Si potrebbe giocare alla guerra, come si faceva da bambini. Ma io non ho il vestito adatto, mi mimetizzo solo fra scartoffie senza senso. Uno stormo di gabbiani improvvisamente plana sull’acqua e qualcosa muore, mentre qualcosa sopravvive grazie a quella morte. Nell’aria disegnano delle linee pazzesche. Nessun bombardiere F35 riuscirebbe in una simile evoluzione. I nostri militari sono in Afghanistan da tredici anni e troppi sono morti. Se chiedessimo perché siamo lì a dieci
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persone che sono favorevoli alla missione risponderebbero tutti con un motivo diverso. Se facessimo la stessa domanda a dieci persone che vogliono il ritiro dei nostri soldati risponderebbero tutti che non hanno capito perché siamo lì. I governi che hanno sostenuto la missione ci hanno detto di tutto. Che siamo lì per trovare Bin Laden, per combattere i talebani, per la democrazia, per levare il burka alle povere donne afgane, per costruire strade e ponti. Bin Laden è stato ucciso, i talebani non sono ancora sconfitti dopo ben 13 anni (saranno a questo punto invincibili se resistono da soli più a lungo della Wermacht di Adolf Hitler), la democrazia che abbiamo esportato fa ridere (ma un po’ fa ridere anche la nostra), il burka lo abbiamo tolto alle donne e molte se lo sono rimesso, perché pensano che dobbiamo farci i cazzi nostri, quanto alle strade e ai ponti, facendo un bilancio di quello che abbiamo saputo fare da noi per l’autostrada Salerno Reggio Calabria e per il ponte sullo stretto, ecco, forse dovremmo mandare in Afghanistan i prigionieri inglesi del film il ponte sul fiume Kwai. * * *
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Quali notizie ci porta oggi l’acqua del fiume? Scrutando nel verde torbido si intravedono affiorare isolotti che ieri non c’erano. Il livello è sceso visibilmente. Appare una gobba di fango proprio davanti al mio punto di osservazione. Qualche chiazza d’acqua ristagna nel fango. Il fiume è anemico. A volte penso ai fiumi proprio come alle vene del corpo umano che conducono il sangue della terra. Se i fiumi sono le vene allora il cuore pulsante del mondo, quello che sospinge in circolo il liquido della vita, sono i ghiacciai. Il liquido della vita poi arriva al mare e da lì ritorna al cuore per essere nuovamente pompato nel ciclo ripetitivo della vita. Ma i ghiacciai sono sempre più deboli. Portano sulle loro spalle sempre più fragili e malnutrite il peso insostenibile del benessere del mondo. Il peso insostenibile del nostro benessere è mal distribuito. Pesa molto sulle cime più alte delle montagne. Ma pesa molto anche sulle spalle dei cittadini del mondo nati nei paesi più sfortunati. Il benessere è una coperta corta, se uno si copre un altro si scopre. I popoli che permettono a noi oggi di essere coperti sopportano il fardello del nostro tenore di vita. Ci sono segnali di malumore, ma ancora in misura prevalente sopportano.
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Mi viene in mente un libro di Erri De Luca (“Sulle tracce di Nives”) che racconta le imprese di Nives Meroi (foto sotto), l’unica donna ad aver scalato otto delle quattordici cime che toccano gli ottomila metri. Mi piace riportare dal libro che ho citato queste parole che fermano alcune riflessioni maturate lungo le salite del Nepal: “il nostro mondo poggia sulle spalle dell’altro, su bambini al lavoro, su piantagioni e materie prime pagate a costo spicciolo: spalle di sconosciuti reggono il nostro peso, obeso in sproporzione di ricchezze. L’ho visto. Sulle salite lunghe molti giorni verso i campi base delle alte quote, uomini e anche donne e anche ragazzi portano nelle gerle intrecciate il nostro peso … facchini di ogni nostra comodità, camminano su sandali infradito, oppure scalzi lungo pendii che scarseggiano di ossigeno…”. Avevo letto qualche anno fa che i cinesi stavano costruendo un’autostrada destinata a passare sul monte Everest toccando una quota di 5.200 metri di altezza. Su questa autostrada doveva passare il tedoforo delle Olimpiadi di Pechino. Quest’opera d’asfalto grandiosa e invadente credo sia il simbolo più prepotente della crescita dei paesi emergenti. Ovviamente
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la stampa e l’opinione pubblica dei paesi occidentali hanno lanciato giudizi durissimi contro quest’opera che deturpa un paesaggio di incomparabile bellezza. Giusto. Peccato però che i paesi indignati sono proprio quelli che hanno soffocato e cementificato il mondo per procurarsi il proprio benessere e mentre continuano a farlo condannano gli altri paesi che vogliono seguire le stessa strada, verso lo stesso benessere. Gli diciamo “no non è possibile, siete arrivati tardi, il mondo non può reggere l’impatto ambientale di questo benessere moltiplicato per tutti”. La coperta deve restare corta. Dopo esserci proposti come modello di crescita gli regaliamo questa amara sorpresa. Quanto ad amare sorprese, Nives, avresti mai pensato di spuntare da una roccia sull’Everest a cinquemila metri e trovare un Autogrill? Anche da noi i ghiacciai si ritirano. I cannoni depositano neve artificiale sulle piste da sci perché la neve naturale è sempre più carente. Con le macchine si arriva sempre più in alto, su strade asfaltate e si scende con gli sci sulla neve artificiale. Quando tutto il mondo sarà riprodotto artificialmente regnerà forse un nuovo ordine, diverso da quello naturale, e non so se sapremo governarlo. Se non saremo in grado di governare gli equilibri che la natura aveva progettato e governato a suo modo per tanti millenni, non ci sarà più nessun’altro che potrà farlo al posto nostro. Cercheremo allora di convincere noi stessi che siamo pur sempre il miglior governo
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possibile. Una logica ineccepibile e disarmante degna delle odierne democrazie occidentali che guidano il mondo. Dietro non si può tornare e però più si va avanti più la realtà delude e non offre vie d’uscita. Oggi al polo nord i ghiacci si ritirano, immensi iceberg si staccano per i cambiamenti climatici indotti dall’uomo. Il nostro progresso esige che i motori del Titanic vadano a tutta potenza, ben oltre le necessità di crociera, e lo schianto è qualcosa che nessuno vuole prendere seriamente in considerazione, perché ci sentiamo inaffondabili. * * *
E’ arrivata anche la neve. Mancava solo lei nell’inventario delle vicissitudini invernali. Il paesaggio è ricoperto di bianco. Gli isolotti emersi nel fiume, che periodicamente la coperta dell’acqua copre e ricopre di un identico torbido colore fanghiglia, ora rifulgono di bianco e svettano come montagne innevate. La neve in città ha questo potere che rallegra istintivamente l’animo umano, interrompendo il grigiore dei giorni tutti uguali, ed evoca
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immagini di inevitabile candore natalizio, legate a ricordi infantili nei quali tutto riluceva in un meraviglioso incantevole abbaglio. Per gli animali che vivono attorno all’acqua del fiume la neve invece è più prosaicamente solo un piccolo dramma che si consuma. Gli uccelli più di tutti, non trovano il cibo che prima offriva il terreno fangoso. Ora volteggiano inquieti sul pelo dell’acqua. Gli altri animali sembrano spariti, inghiottiti dal silenzio. Sono rintanati da qualche parte eppure le loro orme, sparse dappertutto sulla neve, raccontano la loro presenza. Vedo delle orme che non avevo mai visto prima. La neve è un foglio bianco che porta la firma involontaria di tutte le specie animali che camminano in questo scenario. Sono traiettorie disperate, di fame, ricerca del cibo, lotta per la sopravvivenza. Credo che questo sia il vero volto del mondo. Non quello edulcorato che vediamo noi da una finestra al calore dei termosifoni. Abbiamo potere su tutto questo e abbiamo perso il contatto con il volto più duro dell’esistenza, del quale nessuno di noi ha nostalgia naturalmente. Non sono tutte rose e fiori, per carità, abbiamo scalato montagne lasciando a valle pericoli che per millenni hanno funestato l’umanità, ci siamo messi al sicuro e ci affacciamo però su dirupi sconosciuti, verso nuove paure ancora inesplorate.
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Vediamo le cose da lontano, dalla distanza rassicurante di chi si è messo al sicuro da molti guai dei tempi andati. Succede anche nella società umana. Gli uomini importanti, quelli che hanno scalato i gradini alti della società, hanno perso totalmente il contatto con il lato più duro della vita. Non sanno cosa sia fare una coda per un prelievo all’USL, una coda in posta, l’attesa di ore ad un pronto soccorso, l’angheria di un superiore, l’autobus in un’ora di punta. Hanno cliniche private, autisti, servitori. Ovunque per loro, soprattutto, in questo paese, si apre un canale privilegiato, una corsia di sorpasso. La loro vita è un auto blu tra le utilitarie. E’ impossibile governare in modo saggio le miserie del mondo dall’alto dei privilegi del potere. E’ un difetto della società umana ancora senza rimedio. Nella mia città possiamo bere questa acqua lurida che passa sotto i miei occhi. Esce da tutti i rubinetti della città, ben depurata e potabile, ma non possiamo governare questo ecosistema fluviale di equilibri millenari, possiamo solo sconquassarlo a nostro vantaggio. Come fanno questi motoscafi che al loro passaggio con le loro eliche frullano nel torbido, e dall’esterno rimestano in una nuova incomprensibile miscela il mondo che si lasciano alle spalle nel loro cammino. * * *
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Sull’argine dove si affaccia il mio condominio c’è un albero solitario (quello della foto). Le sue radici sono cresciute come zampe rapaci affondate nella terra resa molle dal fiume. La pavimentazione del cortile è minacciata dalle radici, ma le radici ritengono di aver diritto di occupare la terra non meno delle mattonelle del cortile. La pavimentazione però ha un alleato potente. Parlo dell’assemblea condominiale, ovvero l’odierna democrazia nella sua versione bonsai. Questo piccolo parlamento del palazzo, come quello del paese del resto, è preoccupato non poco di dover mettere mano al portafoglio dolente. Questo determina l’inevitabile alleanza tra la maggioranza dei condomini e la pavimentazione minacciata, mentre il nemico è l’albero. L’idea è che la rimozione dell’albero possa avvenire a spese del Comune, mentre ogni altra soluzione sarebbe a spese dei condomini. L’albero per giunta è inclinato pericolosamente verso l’interno e qualcuno teme possa schiantarsi al suolo riducendo drasticamente il numero dei condomini al di sotto della quota legale per deliberare. La natura può essere diabolica a volte.
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L’assemblea ha cominciato a parlamentare vivacemente sull’argomento. Qualche estremista che aspirava ad agire per le vie brevi con la motosega è stato invitato a scendere a più miti consigli. I più estremisti non si facevano una ragione delle protezioni altolocate che poteva avere un albero, intoccabile perché il suo abbattimento richiedeva una preventiva autorizzazione amministrativa. Ma il punto fondamentale del dibattito era se si poteva chiedere la rimozione dell’albero a spese del Comune per ragioni di pericolo. A questo punto però si è verificato un colpo teatrale di grande effetto. Il più anziano dei condomini, ovvero la memoria storica del palazzo, ha informato l’allibito uditorio che quell’albero lo aveva piantato lui in persona in tempi che nessuno di noi poteva ricordare. A quel punto l’accusa verso il vegetale rischiava di essere derubricata da “indebita occupazione di suolo condominiale” a semplice “crescita esuberante”. L’argine su cui è stato piantato l’albero è demaniale e qualcuno ha fatto notare che l’autorità competente poteva anche ingiungere la rimozione dell’albero a spese del condominio se scopriva che il vegetale era una creatura condominiale. Peraltro l’argine è stato colonizzato dal suddetto decano dei condomini il quale lo ha tappezzato di micro coltivazioni di ortaggi, pomodori, verdure varie, che poi offre volentieri a tutti noi. Meglio non svegliare quindi l’autorità costituita dal suo
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sonno secolare. I pomodori generosamente offerti (“pandor” come dice lui in dialetto) poi non li mangia nessuno perché sono innaffiati con l’acqua del Volano che scorre a due metri ed è piena di pesticidi, ma questa è un’altra storia. Parlavamo dell’albero che aveva trovato nel decano dei condomini un genitore dichiarato, e nel condominio un possibile responsabile delle spese per la sua rimozione. Forse l’albero poteva anche avere diritto di voto se faceva parte del condominio, ho pensato in assemblea senza dirlo. Peraltro a ben vedere individui appartenenti al mondo vegetale non sembravano esclusi da quel consesso, e mi riferisco alla mia persona, visto che l’ultimo suono intellegibile da me emesso in una riunione di condominio, a parte i mugugni, era datato a due anni prima. Se l’albero mi avesse dato la delega in assemblea avrei senz’altro potuto far verbalizzare la sua difesa, tratta dalle parole del sommo poeta: "Perché mi schiante? Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi". Invece l’unica risoluzione presa dall’assemblea è stata di omettere qualsiasi verbalizzazione stendendo un velo pietoso soprattutto sull’assunzione di paternità del condomino
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anziano verso l’albero in questione. D’altra parte è stato osservato che gli alberi possono nascere anche spontaneamente e quindi evitando rivelazioni compromettenti nessuno avrebbe potuto sospettare nulla. Così la questione sarà rimandata a future deliberazioni, quando ci saranno altri condomini probabilmente, perché i tempi di vita concessi ai viventi comportano la seguente certezza: i condomini passano, gli alberi restano.
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Cronache del Po di Volano Vol.II Piccole storie di ordinaria sopravvivenza in uno specchio d’acqua
La solita BMW che esce dalla curva di via Mulinetto a tutto gas. Quando vede il rettilineo accelera ai cento all’ora tutte le mattine. Conosco uno per uno i gatti che tutti i giorni sfidano le loro sette morti attraversando la strada esattamente in questo punto nel loro tragitto verso l’argine del fiume. Ho perso degli animali travolti dalle macchine e non concedo indulti o perdoni. Ho il segreto desiderio che la BMW finisca in acqua prima o poi, ma poi se la prenderebbero con il fiume “assassino” e potrebbero interrarlo. Già tanti platani sulle strade della provincia hanno la fama di spietati assassini di macchine indifese. Mi permetto una divagazione di fantasia. La Bmw affonda lentamente nel Volano che in quel punto imprevedibilmente è fondo quanto basta per ingoiare l’automobile. Ma non può finire così, troppo comodo. Il malcapitato esce da un finestrino e raggiunge l’argine coperto da fitti rovi. Tra i rovi che nessuno ha mai esplorato da decenni dimora senza dubbio (la mia immaginazione non ha dubbi) il famigerato tigrillo. Ma non uno qualunque. Quello
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raccontato da Luis Sepulveda nel romanzo “il vecchio che leggeva romanzi d’amore”. Il tigrillo di Sepulveda è una gatta selvatica feroce come un velociraptor, e vendicativa verso gli uomini che vede come un pericolo per i suoi simili. Dopo essere stato dilaniato dagli artigli del tigrillo l’automobilista, o quel che ne resta, ancora vivo, sarà ingoiato dal boa tritaossa. Anche questo animale viene dallo stesso libro. Il boa tritaossa stritola le ossa della preda senza ucciderla e la ingoia lentamente per una lenta digestione. Come degna conclusione della storia, dopo qualche minuto, si sente dalla pancia del boa la suoneria di un cellulare. Quando percorro in senso inverso a piedi il curvone di via Mulinetto coltivando queste insane fantasie improvvisamente il panorama si apre e il fiume si mostra alla mia vista in tutta la sua ampiezza. Oggi poi ho visto un gabbiano immobile nel cielo. Le sue ali sbattevano nell’aria come quelle di un batterista indiavolato che genera tanta energia sufficiente a sorreggere sulla schiena quella colonna di atmosfera che si estende su di lui all’infinito. Un aereo non sarebbe in grado di rimanere immobile nel cielo. I costosissimi bombardieri F35 che lo stato Italiano sta comprando con i risparmi dei malati e dei pensionati non saprebbero farlo. Un uccello che plana non stupisce nessuno, è solo laureato in aereodinamica, ma un uccello che rimane fermo sospeso nel cielo è più che un ingegnere, è un
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piccolo prodigio. Forse è indeciso sul da farsi. Forse è specializzato anche in balistica. Da fermo è più facile colpire con precisione. Quella sospensione nel mezzo del cielo mi ricorda un po’ quando nell’acqua del mare agito le braccia per rimanere a galla senza spostarmi di un centimetro. Da bambino quando rimanevo fermo sospeso sull’acqua del mare era perché facevo la pipì. Ora che sono grande sto lontano dai bambini. Una volta in puglia guardando sott’acqua ho visto un orinatoio semisommerso nella sabbia. Forse quando da bambino facevo la pipì in mare non era poi così sbagliato. La cosa difficile però era tirare l’acqua. Dicevo che quell’uccello immobile nel cielo che agita le ali mi ricorda un po’ quando nell’acqua del mare agito le braccia per rimanere a galla senza spostarmi di un centimetro, una mia specialità, ancora non olimpica, purtroppo. Un piccolo prodigio. Chissà se dal fondale un gambero vedendomi resterebbe ugualmente affascinato. In realtà non è difficile stare a galla, non serve una laurea, e quella che ho non serve a niente. Neanche a stare a galla nella vita serve. Col gambero condivido la familiarità per il fondo, e la direzione del cammino. Per questo il mio galleggiamento statico sulla superficie gli deve sembrare un piccolo prodigio. * * *
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Quel ramo del Po di Volano. E’ tornato l’airone. Ho le prove, questa volta sono riuscito a fotografarlo. Si è posato su un grosso ramo arenato in mezzo al fiume. Quel ramo del Po di Volano che volge a … vabbè come non detto. E’ maestoso. Troneggia nel mezzo del fiume superbo. Non ci sono parole. Ma ci sono le prove. Ormai è una presenza abbastanza frequente e ho pensato di dargli un nome, George, Airon George. L’identità in fondo è la base per stabilire un rapporto affettivo. L’anonimato è la condizione per la sua negazione. La regola della guerra, se ci pensiamo, è quella di ammazzare una persona senza nome e senza identità, appartenente al genus “nemico”, nemico e basta. Ho ucciso due nemici può dire un soldato alla feritoia. Invece ha ucciso Mario Rossi e Giovanni Bianchi, ma non può pensare ai loro nomi, neppure fittizi, perché sono già un identità. Questo anonimato della vittima mette in scena una parodia di assoluzione del carnefice. Nel plotone d’esecuzione, poi, dove la vittima ha un’identità che non si può cancellare, si
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cancella – per rimediare – l’identità di chi uccide. E’ nota l’usanza di caricare a salve un fucile a caso della squadra del plotone di esecuzione, in modo che ognuno di quelli che sparano possa pensare che fosse il suo fucile quello caricato a salve. Nessuno poteva avere la certezza di essere l’assassino, ma il fucilato cadeva stecchito. E questo anonimato del carnefice metteva in scena, ancora una volta, una parodia di assoluzione dal crimine. L’uccisione di un indifeso non può essere altro che questo, un crimine. Sarebbe più difficile anche cacciare se ogni animale avesse un nome. Come si può dire ho sparato ad Airon George, posato sul ramo del Po di Volano. Il livello dell’acqua oggi si è abbassato a tal punto che si potrebbe attraversare a piedi il corso del fiume. I germani, nel senso delle anatre, dragano il basso fondale fangoso in cerca di cibo. La loro tecnica è da manuale. Affondano il becco in verticale nell’acqua e contemporaneamente sollevano il fondoschiena che emerge dalla superficie mentre il collo sfrutta il suo massimo allungo subacqueo. E’ un movimento ripetitivo. Vanno a tempo e sembrano delle ballerine di uno spettacolo di varietà d’altri tempi, tipo burlesque, che di questi tempi però sta
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tornando di moda, nelle cene eleganti dei piani alti. Oppure sembrano un’esibizione di nuoto sincronizzato. Mi ricordano le mie incursioni subacquee nel mare quando riesco a scendere anche ad un metro e settanta centimetri di profondità. In effetti mi capovolgo con la testa in giù sollevando le gambe a perpendicolo verso il cielo, questo è tutto. Sono alto un metro e settanta, ma non mi lamento. Una volta nelle mie immersioni, come dicevo nel pezzo precedente, ho visto un orinatoio semisommerso nella sabbia. E’ stato il mio avvistamento subacqueo più significativo. Se l’orinatoio non l’aveva messo lì Marcel Duchamp in persona poteva anche sembrare di dubbio gusto. Il famoso orinatoio di Duchamp denominato in modo elegante “fontana”, esposto in mostra nel 1917, andò smarrito nel disallestimento della mostra. L’originale non fu mai ritrovato, fu autorizzata la realizzazione di una replica attualmente esposta a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Ma non è poi così importante l’oggetto nella sua versione originale, se pensiamo alla filosofia dichiarata espressamente da Duchamp. Non è importante se l’artista abbia fatto l’orinatoio con le sue mani o no –sostiene l’autore - egli l’ha scelta perché ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista. Ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto.
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I fondali marini, e anche il fondale del fiume che mi scorre sotto il naso, sono ormai dei musei subacquei con un patrimonio sconfinato di oggetti sottratti al loro uso ordinario e rivestiti di un nuovo modo di pensarli. * * * Ieri tornando dal lavoro alle 14 ho visto una nutria gigantesca che brucava nell’erba a pochi metri dai miei piedi sull’argine del Po di Volano in via Mulinetto. Non mi era mai capitato di osservare una nutria così da vicino. Si muoveva lentamente e indifferente alla mia presenza. Forse cercava cibo tra i rovi. Ero immobile a guardare quando una donna di passaggio mi ha visto e con naturalezza mi ha fatto notare l’assoluta normalità di quella presenza che a me sembrava tanto straordinaria. Ha detto che ogni tanto quella nutria si vede da quelle parti. Ha aggiunto che le nutrie sono vegetariane, come se la cosa dovesse tranquillizzarmi. Hitler era vegetariano, avrei voluto dirle, ma vabbè. Non capisco più il mondo, comunque. Una volta una donna strillava e saltava sul tavolo alla sola vista di una coda e due baffetti, e ora questa per tranquillizzarmi sembrava lì lì per accarezzare quella bestia e prenderla in braccio come fosse un gattone. Ma poi perché tranquillizzarmi, mica ero agitato. Mi facevano solo impressione le dimensioni. La donna che dimostrava di non temere gli animali e neppure gli uomini visto che rivolgeva la parola ad uno sconosciuto come me, appartenente alla specie più letale del pianeta, mi ha fatto presente che aveva fatto
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dei cuccioli. La nutria naturalmente, non lei. Ha aggiunto che alcuni abitatori di via Mulinetto, appartenenti alla specie più letale del pianeta, invece di rallegrarsi del lieto evento, avrebbero ucciso i neonati. Forse col veleno. Ho fatto presente che abitavo anche io in quella strada, ma avevo l’alibi. Se c’è da uccidere qualcosa che cammina io sono sempre altrove. Ma non solo le nutrie, per dire, anche ragni, zanzare in casa mia possono dormire sonni tranquilli. Al massimo mia moglie Rossella li accompagna delicatamente fuori dalla finestra. Anche lei non si scompone troppo di fronte a queste creature non proprio rassicuranti. Pochi giorni fa ha trovato un verme in una noce. A me è passata la voglia di mangiare, lei invece ha preso il verme e lo depositato amorevolmente sull’argine del fiume, dove sarà stato certamente divorato da qualche predatore di lì a pochi istanti. Anche molti animali appartenenti alla specie più letale del pianeta -ma non mi riferisco più solo alle donne - sono vegetariani. A volte mi sono chiesto perché l’animale sarebbe più degno di rispetto di un vegetale per le nostre necessità alimentari. Parafrasando una nota battuta di Daniele Luttazzi non vorrei che il vegetarianesimo, come abitudine alimentare, nascesse più dall’odio per i vegetali che dall’amore per gli animali. In effetti le piante sono i viventi che più di ogni altro sono vicini a possedere il dono dell’immortalità e già per questo gli uomini, che ben conoscono l’invidia, potrebbero detestarli fino a sterminarli, non potendo
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impadronirsi del loro misterioso elisr di lunga vita. E non c’è dubbio che il cemento, più duro a morire, sta cancellando gli spazi verdi del nostro pianeta. Sull’elisir di lunga vita vale la pena annotare qualche memoria di lettura. Gli alberi non conoscono l’invecchiamento nelle forme vissute dall’uomo. C’è un bel libro di Patrik Blanc, studioso di botanica, dal titolo “Il bello di essere pianta”, dove l’autore fra le altre cose parla anche di questo. Riporto alcune sue parole: “il Clhorantus può raggiungere i cento milioni di anni grazie ai suoi nuovi getti, il Pepe senza problemi decine di milioni di anni e tanti altri decine o centinaia di migliaia di anni… il capostipite di una stirpe può così vivere accanto a tutte le generazioni cui ha dato origine”. Che fortuna hanno, a noi preclusa, e non è sufficiente per odiarli? Forse si, ma solo per chi, diversamente da me, considera una fortuna, e non una disgrazia, il prolungamento della vita umana verso limiti sempre più lontani nel tempo. Questione di punti di vista. Quello che però posso concedere all’opposto pensiero, è che sarebbe una meraviglia per noi umani poter scambiare due parole con i nostri antenati senza scomodare improbabili medium. Avrei due o tre cosine da dirgli sul mondo che abbiamo ereditato da loro e quello che lasceremo in eredità ai nostri discendenti. Aggiunge poi l’autore di cui dicevo una cosa che mi ha colpito molto. Ci sono vegetali per i quali la morte non dipende da un fenomeno di invecchiamento individuale, ma sempre e solo da uno sconvolgimento dell’ambiente in cui vivono.
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Sembra dire che possiedono in loro il segreto per non invecchiare. Deperiscono e muoiono solo per l’azione di agenti esterni e non perché la loro vita abbia un tempo più o meno prefissato. Quindi per morire devono attendere un (provvidenziale mi permetto di dire) intervento di agenti esterni, come ben sanno le piantine che hanno avuto la sfortuna di essere accudite da me nella loro breve vita. Il libro che ho citato ha una particolarità. L’autore, o la voce narrante, parla in prima persona nei panni di una pianta e descrive il mondo vegetale in modo molto fantasioso evidenziando divertenti parallelismi o contraddizioni tra la società vegetale e quella umana. Sentire una pianta che racconta il suo mondo come fosse un anziano davanti ai nipoti la rende umana, come sono stati umanizzati il gatto con gli stivali, o Topolino, o la banda bassotti, e così via. Intendo dire che la personificazione dell’animale o della pianta ha l’effetto di rendere queste creature molto più vicine a noi, abbattendo quei confini convenzionali nati dalle classificazioni biologiche, che hanno valore a fini di studio, ma non oltre. A me questa cosa non dispiace. Anzi vado oltre. Mi diverto a dare un nome a queste creature che incontro sull’argine del fiume. Vi avevo già parlato dell’Airone George che viene a fare visita regolare agli isolotti emersi in mezzo al
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fiume. La nutria di cui parlavo era ancora senza nome mentre la osservavo impietrito dal guard rail della strada. In quel momento ho deciso di chiamarla Condoleeza, come un personaggio di mia invenzione con cui ho vissuto un avventura di fantasia in una storia scritta da me tempo fa. La nutria Condoleeza mi era venuta in mente pensando a Condoleeza Rice e non solo per quei dentoni da roditore che scopriva quando sorrideva. Condoleeza Rice (foto a lato) è stata Segretario di Stato nell’amministrazione Bush, e agguerrita sostenitrice di ogni intervento militare condotto dagli Stati Uniti d’America. Condoleeza Rice era in quel momento la donna più letale della specie più letale del pianeta. Me vedendola nei panni di una pacifica e vegetariana nutria, induceva a più miti consigli l’animo umano. * * * Cammino lungo l’argine, come più volte ho detto, per andare al lavoro. Tra i tanti pensieri che mi scorrono accanto non ho mancato di considerare un parallelismo tra la mia vita e il flusso dell’acqua che corre nella mia direzione di marcia, al mio fianco. La lentezza, l’assenza di increspature, un complessivo squallore d’insieme dove ogni tanto compaiono lampi inattesi di meraviglia, come quando vedi una gazza sul guard rail, con il suo elegante smoking d’ordinanza, o quando spunta un gatto che rimane immobile a guardarti come se avesse il potere di congelare il tempo per decidere se sei un pericolo o semplicemente
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innocuo. Lo squallore è il luogo verso il quale sto camminando. Naturalmente ci sono cose che mi riempiono ancora di rinnovata meraviglia, come la mia attuale compagna, che nella vita appunto mi accompagna e mi dà la forza, quell’energia pulita rinnovabile che mi tiene in piedi giorno dopo giorno nel cammino verso le orme che lascerò. Il lavoro che mi attende però è giorno dopo giorno sempre più privo di senso, squallido, dominato da rapporti umani all’insegna dell’ipocrisia, e non mi dilungo su questo, non dovendo io persuadere nessuno di questa mia convinzione personale, e certamente alcuni miei colleghi, e superiori soprattutto, la scambierebbero per ingratitudine. Ma non è questo lo spazio per negoziare un chiarimento di sopravvivenza, questo è lo spazio del mio riscatto dalle umilianti vessazioni senza nome e senza un preciso colpevole, di un lavoro idiota, dove si devono fare cose ingiuste, e ringraziare per l’immensa fortuna di avere uno stipendio in un paese dove la disoccupazione è sempre più la chiave per tenere chiuse le rimostranze di chi ha bisogno di un lavoro e ridurlo alla supina accettazione di ogni cosa. Guardo il fiume perché è uno degli ecosistemi più interessanti che in città si possano vedere. Ogni evento naturale che accade in questo scenario ha una sua precisa ragion d’essere, è mosso da qualcosa e avviene per muovere qualcos’altro in un meccanismo d’insieme di estrema e ancora non compresa complessità dove ogni parte è stata progettato per perpetuare l’insieme. Sono veramente grottesche le imitazioni create dall’uomo di
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questa macchina affascinante. Mettiamo in piedi organizzazioni di lavoro che sono caricature. Sprechi di risorse, individui sottopagati spremuti come limoni, e altri rincoglioniti sopra pagati incapaci di fare qualsiasi cosa, risorse enormi spese per problemi risibili, risorse inesistenti per problemi reali. La natura invece non conosce spreco di risorse, tutto si ricicla, quello che è inutile sparisce, e si rigenera in forme nuove più utili rivestendosi di quel nuovo senso che anche io chiedo di avere prima o poi. Abbiamo messo in piedi una società come una costruzione d’insieme che è una grottesca imitazione degli ecosistemi naturali che ci hanno ispirato. Sembra progettata per tante cose, ma non per sopravvivere oltre la miope portata della vita di un numero limitato di generazioni, all’ultima delle quali demanderemo radicali cambi di rotta, ormai tardivi, che non vogliamo oggi mettere in atto sulla nostra pelle pur sapendo che sono necessari. E questo progetto di imitazione sta cancellando l’originale, giorno dopo giorno, senza ritorno. * * * Mi piace dare nomi inventati. Molti animali si aggirano sull’argine del fiume e alcuni di questi sono frequentatori abituali. Quando li riconosco mi diverto a dargli dei nomi di fantasia. L’airone solitario che talora si fa vedere l’ho battezzato Airon George. La gatta bianca di cui ho parlato già
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diverse volte l’ho chiamata Leuca. Ma non ho la pretesa che lei accetti di buon grado questo nome. I gatti, come è nella loro natura, sono sdegnosamente indipendenti, e anche rispetto al loro nome. E infatti il poeta Thomas Elliot ci ricorda che i gatti “contemplano il loro ineffabile nome segreto” (frase tratta dal “libro dei gatti tuttofare”, noto anche per la sua celeberrima versione teatrale dal titolo “Cats”). Quando qualcuno ci chiama per nome sentiamo di essere usciti dal mare indifferente dell’anonimato. L’indifferenza è uno degli atteggiamenti umani che andrebbe usato con maggiore attenzione. L’indifferenza è un’ arma di difesa che usiamo spesso a sproposito; e per contro non la usiamo quando dovremmo. Dispensiamo grande attenzione e interesse a cose talmente inconsistenti e releghiamo invece tante cose preziose, che stiamo perdendo, in una raccolta indifferenziata di disattenzione. Dare nomi è un’attività divertente e innocua che trova una sua legittimazione di rango molto elevato. Infatti nella bibbia, quando Adamo ancora vive da solo nell'Eden, Dio gli sottopone tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, affinché lui, Adamo, dia loro un nome. Tra le categorie umane la più dotati della virtù di dare nomi è quella degli allevatori di cavalli. Sono formidabili nell’arte di dare nomi ai cavalli. Da bambino a volte sentivo distrattamente dalla televisione i risultati
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delle corse di cavalli e i nomi mi rimanevano impressi per quanto erano stravaganti. Mi ricordo per esempio il cavallo Chimofafà, su tutti, meravigliosa e significativa rappresentazione del destino di questi animali. Per curiosità ho cercato altri nomi di cavalli da corsa e anche non da corsa. E’ venuto fuori un elenco molto divertente. Ecco alcuni nomi: Oleandro, Dedalo, Ganimede, Albicocca, Vedelago, Veturia, Fenech, Volpetta. Ma i più belli sono Bugie d’Amore, e Parlapà che in dialetto torinese significa stai zitto. A pari merito con gli allevatori di cavalli ci sono i navigatori. Nel modesto porto fluviale ferrarese c’è una nave ormeggiata. Al suo interno c’è un pub pizzeria, ma l’esterno è una nave e il suo nome è Sebastian. Da bambino quando passeggiavo lungo il Porto canale di Porto Garibaldi ero affascinato dalle navi e dai loro nomi. I nomi che si leggono sulle navi sono uno spettacolo. Ho ricercato dei nomi reali di imbarcazioni e li riporto come esempio: Topo di fogna, Pietro il grande, Ares, Sette in condotta, Sputnik, e dulcis in fundo, “Va lentina”, forse quest’ultimo un omaggio a una donna o solo un atto di modestia. I nomi delle navi mi fanno pensare a delle entità viventi, con una precisa personalità. L’imbarcazione come una compagna di vita, quale in effetti per molti pescatori deve essere, anche se la loro vita di pescatori è più dura
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che romanzesca. Nonostante questo credo che non ci sia nulla di più romanzesco, almeno in potenzialità, di una nave. La vista del Sebastian, almeno per me, evoca un immaginario di storie avventurose legate alla navigazione. Mi immagino Corto Maltese che si imbarca sul “Vanità dorata”. O di vederlo affacciato dal Sabastian Pub insieme alla giovane Pandora Grovesnore (la ragazza nell’immagine accanto), sua compagna di avventura nella “Ballata del mare salato”. Tra le storie di mare mi viene in mente la “Linea d’ ombra”, e “Cuore di tenebra” di Conrad, il “Gordon Pym” di Allan Poe, “Oceano mare” e “Novecento” di Alessandro Baricco e altri e alla rinfusa i nomi di alcune imbarcazioni letterarie, come Pecod (Moby dick), Orione (da i Miserabili), e poi Virginian, Pilgrim, che è anche il nome del cavallo del romanzo “l’uomo che sussurrava ai cavalli. Nel libro Novecento di Alessandro Baricco, il protagonista (che si chiama appunto Novecento) nato su una nave e mai sceso da essa, assiste negli ultimi momenti di vita il vecchio Denny, per lui come un padre, e per distrarlo dalle sue sofferenze gli legge i nomi di cavalli dai
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risultati della sesta corsa di Chicago: Acqua Potabile, Minestrone, Fondotinta blù. Il vecchio moribondo spira senza riuscire a trattenere le risate per quei nomi bizzarri. La nave Sebastian, di cui dicevo, ha i giorni contati. Infatti il Comune di Ferrara ha vinto una causa contro i proprietari per la rimozione della nave dalla darsena dove ora si trova. E’ la prima battaglia navale che l’ammiraglio del municipio è riuscito a concludere vittoriosamente. Sostiene che il Sebastian blocca il flusso del fiume, creando ristagno e altri effetti indesiderati. Seguendo la mia curiosità ho cercato notizie sulla storia di questa nave. Non sapevo se era stata costruita in quel posto, senza aver mai navigato o se aveva un vissuto per mare. Ho scoperto che era vera la seconda ipotesi. Il Sebastian infatti ha navigato, eccome. Era un ex-peschereccio d'alto mare tedesco del 1951 di nome Korina. E’ giunto nella darsena trainato da Marghera, passando da Porto Garibaldi. Il Sebastian la sua battaglia navale l’ha persa, presa di mira dalla corazzata comunale. In Comune del resto lavora una schiera di professionisti della battaglia navale; io stesso, che ci lavoro, ieri ho affondato con un colpo di magistrale destrezza un cacciator pediniere in B4. Comunque il Sebastian sconfitto dovrà mestamente sloggiare per altri lidi. Non tutti sanno però che suo destino sfortunato nelle procellose acque delle aule
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giudiziarie potrebbe insospettabili.
avere
delle
ragioni
Quando la proprietà ha cambiato il nome Korina in Sebastian si è tirata addosso le ira della malasorte. E’ noto tra i marinai che cambiare il nome a una barca porta male, perché una barca possiede un'anima come le persone. Se proprio si deve cambiare nome ad una barca nel mondo nautico si dice che occorre mettere in atto dei rituali per difenderla dalla malasorte. Per esempio ho letto che prima di procedere alla sostituzione del nome alla barca occorre sostituire un bullone dalla chiglia, oppure collocare una moneta sotto l'albero maestro, oppure far sturare una bottiglia di vino rosso da una vergine e farne aspergere il contenuto sulla prora. Nel Sebastian Pub più di una fanciulla nel tempo avrà versato inavvertitamente del vino rosso, ma si sa, la verginità è una virtù sempre più rara. Poco fa, sotto la pioggia battente, ho visto una coppia entrare nel Sebastian Pub con un ombrello. Tutti i marinai lo sanno: MAI portare in barca un ombrello! Porta una sfortuna pazzesca. * * * Oggi è il primo giorno di primavera. Il Volano, solitamente immobile, scorre con una velocità torrentizia. Più a monte, nel punto in cui queste acque escono dal corso principale del fiume Po, il loro flusso è regolato da una chiusa. Le piogge intense dei giorni scorsi
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devono aver suggerito di aprire la chiusa per alleggerire il carico del corso principale del fiume. Il Po di Volano è un fiume servitore. Ma non è al servizio del corso principale del Po, come può sembrare, è al servizio dell’uomo, che lo ha costruito. La velocità del flusso oggi porta via rifiuti e residui vari che di solito stazionano per giorni. Oggi il fiume ha una parvenza di pulizia che è quasi un piacevole inganno. Le papere per risalire la corrente preferiscono sfoderare le ali e percorrono qualche decina di metri sul pelo dell’acqua. Poter camminare, nuotare, volare, rappresenta una bella gamma di scelta, non c’è che dire. Forse questi animali non possono manovrare gli equilibri ambientali come facciamo noi, ma quando un’animale può scegliere se volare, camminare o nuotare a suo piacimento forse non ha bisogno d’altro. Gli isolotti sono scomparsi e gli uccelli che vi avevano fatto la loro base di lancio per le incursioni sul pelo dell’acqua hanno dovuto sloggiare. Gli animali che vivono in questo ambiente subiscono le regolazioni della corrente per mano dell’uomo esattamente come l’uomo subisce la variazione delle condizioni metereologiche. Una pioggia, un colpo di vento improvviso, o uno tsunami. Noi siamo un anello della catena del sistema naturale anche quando chiamiamo “artificiali” i fenomeni da noi indotti. In effetti tra artificiale e naturale la distinzione è solo convenzionale. Tutto è naturale e non può sfuggire all’abbraccio della natura. Ma non è disprezzabile l’idea di
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chiamare innaturali molti interventi umani sull’ambiente. Siamo in grado di devastare l’ambiente ben oltre le sue capacità di autoripararsi, questo è chiaro, e non mi sembra che altre specie animali abbiano acquisito questo potere. Questo è un potere della ragione, o del calcolo preferirei dire, perché la ragione ha sfumature più nobili che non mi sembrano appropriate al caso. Eppure se abbiamo questo potere distruttivo, indotto per lo più dal calcolo, abbiamo in dotazione anche un circuito elettrico cerebrale misterioso che si chiama coscienza, dalla quale dovrebbe scaturire la volontà, o meglio la contro volontà, per frenare il nostro potere distruttivo. A pensarci bene, se questa è la ragione, ha senso che si sviluppi solo come contrappeso a questo nefasto potere. In questo senso avrebbe una sua legittimazione molto plausibile nel sistema natura, e questo spiegherebbe perché animali diversi dall’uomo non ce l’hanno. Questo mi fa pensare che la nostra coscienza, la ragione, parola che in questo caso mi sento di spendere con tutte le sue implicazioni più nobili, sia un prodotto della natura, appunto un contrappeso per riequilibrare le cose scombinate dall’impatto ambientale che il nostro sistema di vita esercita quotidianamente. Usiamo il calcolo quando devastiamo l’ambiente per interesse, e potremmo usare la ragione per impedirci di farlo. Impedirci di farlo però non è la stessa cosa che riparare il danno a posteriori. Impedire a
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me stesso di rompere un orologio non è la stessa cosa che riparare con le mie mani un orologio che ho rotto, soprattutto se non sono un orologiaio. Talora mossi da buone intenzioni, le quali però lastricano molte strade dell’inferno, cerchiamo noi di riparare i danni che abbiamo provocato in precedenza, ma questa dote ancora la natura la tiene gelosamente per se. Non siamo in grado di riparare i danni, perché l’intreccio di pesi e contrappesi del meccanismo complessivo del sistema natura, al quale dovremmo mettere mano, ha una grado di sofisticazione che dovrebbe catturare la nostra meraviglia e non la nostra volontà di imitazione. Quando modifichiamo i pesi per ricostituire equilibri perduti provochiamo danni da altre parti, innescando una catena di altre necessità di intervento alle quali non siamo in grado di stare dietro. Forse è solo questione di tempo e la ragione, quell’antidoto che la natura ci ha dato contro noi stessi, avrà il sopravvento. Se non dovesse accadere vuol dire che la natura non era stata poi progettata alla perfezione, che aveva un qualche difetto in grado di mettere fuori uso la sua capacità di perpetuarsi. Mi viene in mente un brano del libro “la coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Il protagonista riflette sulla quantità sorprendente di ossicini, articolazioni che devono mettersi in moto in modo coordinato per consentirgli di fare un semplice passo. Da quando la sua coscienza indaga a fondo questa complessità cercando di possederla con la mente
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scaturisce un effetto collaterale sorprendente: il protagonista comincia a zoppicare. Il semplice gesto del camminare che l’istinto naturale governa alla perfezione diventa zoppia quando la ragione consapevole cerca di assumere questo controllo, non essendo all’altezza del compito usurpato. L’ultima frontiera evolutiva della ragione, il correttivo finale, dunque dovrebbe essere la consapevolezza dei suoi stessi limiti. E questo vale a maggior ragione per la nostra capacità di calcolo razionale che dovrebbe essere persuaso dei suoi limiti, soprattutto quando pretende di governare quei processi naturali ambientali che funzionano certamente meglio se sono autogovernati. Ma non è così semplice il discorso sui limiti. Perché la nostra ragione funziona soprattutto come la disciplina olimpica del salto in alto e riguardo a quello che siamo in grado di fare l’asticella deve essere messa sempre più in alto. Quindi all’interno della nostra capacità di pensiero si gioca una battaglia in bilico tra consapevolezza dei propri limiti e superamento degli stessi. Questo conflitto di esito incerto, una vera guerra mondiale globale da cui dipende il nostro futuro, attraversa l’umanità all’interno della sua coscienza, come una guerra civile, e vede tante microscopiche battaglie anche in quel piccolo corso d’acqua che mi scorre sotto il naso. * * * Le piogge di questa primavera appena iniziata hanno alzato il livello del fiume. Nella
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scaletta di cemento che si immerge nei pressi del ponte detto “della pace” sono solo 3 i gradini non sommersi. Il freddo è ancora invernale. Le date che segnano le stagioni sono solo convenzioni, le rondini che fanno primavera ancora non si vedono. Le anatre volano radenti lungo il pelo dell’acqua e passano a volte sotto il ponte di via Bologna anziché sopra. Sopra il ponte rumoreggiano senza tregua i malumori automobilistici della città. Le anatre proseguono la corsa verso San Giorgio, almeno fin dove il mio sguardo può seguirle, in direzione mare. Su quel tratto di fiume tempo fa vedevo spesso un barbone. Si vedeva il carretto parcheggiato con sopra le sue coperte e tutto l’occorrente di vita. Insomma la sua casa. Con i suoi stracci si era sistemato nei pressi del sottile ponte pedonale di metallo che attraversa il fiume tra via Bologna e San Giorgio. In ogni stagione col caldo, col freddo era lì. Aveva una dimora più che fissa, benché qualcuno definisca questi personaggi con la locuzione burocratica di persone “senza fissa dimora”, espressione che tradisce la malcelata aspirazione di vederli sloggiare, più che altro. Da tempo non si vede più. Penso che dietro ogni barbone ci sia un romanzo sconosciuto. Non i romanzi in carta patinata delle vetrine luccicanti nelle librerie del centro. Non quelli. Piuttosto quelli delle soffitte dimenticate e polverose, o i romanzi che dormono dentro progetti di scrittura mai realizzati e rimasti incompiuti. Oppure sotto
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la cenere di un dolore bruciante che toglie la forza di scriverli e raccontarli. Il fiume raccoglie questa e altre storie. E molte storie qui si concludono tristemente, anche. E’ incredibile quante persone, spinte dal destino verso i margini estremi della vita decidono di superare quel confine e scelgono proprio il fiume come ultimo gesto. Basta ripercorrere le cronache dei giornali locali. L’acqua inghiotte tutto e loro si lasciano inghiottire, ma il fiume spesso ce li restituisce. Il dolore che hanno dentro è troppo ed è indigesto anche per questo fiume che è capace di trasportare di tutto. Ma c’è anche tanta vita in questo luogo e dove c’è vita c’è il sogno, al quale è impossibile sfuggire. Osservo le anatre e come il piccolo Nils Olgersson, trasformato in gnomo, posso volare appollaiato sulla loro schiena, cullato dalle loro ali e quelle della mia fantasia. Le anatre che vedo passare volano basso e non perdono mai il contatto con le torbide acque che sorvolano. Se i nostri uomini di potere sapessero volare basso vedrebbero anche loro il mondo sottostante nel suo più torbido aspetto. E invece. Più si va in alto e più ci si sente sollevati. Anche la forza di gravità si indebolisce. E’ facile essere forti a quell’altezza quando la “gravità” delle cose è un orizzonte lontano e incerto. “E’ più facile volare alto che volare basso” spiega l’oca selvatica al piccolo Nil Olgersson, (nel libro di Selma Lagerloff, il viaggio meraviglioso di “Nils Olgersonn con le oche selvatiche”).
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C’è del vero. Volando basso sei oppresso dalla gravità che ti schiaccia. I bombardieri di ultima generazione, come gli uomini di potere, volano altissimi, non visti dai radar e dalla terra, e non vedono neppure loro quello che c’è in basso. I piloti colpiscono con i loro computer già programmati a dovere tutto quello che si muove sul fondo e quando sbagliano mira si scusano. E’ come un videogames. Al prossimo gettone staranno più attenti, o così dicono. La morte non li tocca da vicino. I gabbiani che osservo volano basso sull’acqua e scendono improvvisamente in picchiata avventandosi sulle loro vittime. Raramente sbagliano. Cadaveri di alberi e grossi rami passano sulla corrente del fiume che le recenti piogge hanno ingrossato. A volte gli uccelli si posizionano su queste imbarcazioni improvvisate e si lasciano trasportare. La piccola Peuw bambina cambogiana sfuggita al genocidio dei Khmer Rossi racconta nelle sue memorie (“Il racconto di Peuw, bambina cambogiana”) la processione di cadaveri trasportati dal fiume Mekong. Racconta ricordi di vita ambientati in una palafitta in balia delle acque che si alzano e si abbassano, indifesi e vulnerabili ad ogni pericolo della natura, di gran lunga preferibili agli orrori umani dei Khmer Rossi. “Impara ad ascoltare gli uccelli, loro avvertono del pericolo”, spiega la mamma alla piccola Peuw. Gli uccelli ci
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parlano. Il piccolo Nils Olgerson da quando viene trasformato in gnomo scopre che è in grado di parlare con gli uccelli. Forse dovremmo diventare tutti un po’ più piccoli e imparare una nuova lingua. Mi
sembra
di
vederla,
Peuw nei tanti nuovi volti apparsi dalle nostre parti con i tratti somatici tipici dei paesi dell’estremo oriente. Autori di una pacifica e silenziosa invasione.
Spesso li vedo pescare sull’argine del fiume e poi cucinano quei pesci che noi, nati qui, non mangeremmo mai. In ognuno di questi personaggi, spesso guardati con diffidenza dai ferraresi, ci sono altrettanti romanzi che hanno il fascino di terre lontane a noi sconosciute, memorie e storie di vita difficili anche solo da immaginare. * * * Gli animali escono allo scoperto. E’ primavera, il sole trasmette calore. E’ il 25 aprile, giorno della liberazione. In quel giorno del 1945 tanti animali bipedi costretti alla cattività, o rintanati da tempo immemorabile chissà dove uscivano allo scoperto. I carri armati per le strade erano quelli amici. Ed era festa, come lo è oggi. E' il 25 aprile e c'e' aria di festa. La primavera sembra avere preso
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saldamente possesso della natura. La liberazione del nostro paese ha scelto la fioritura dei prati come cornice per essere ricordata a futura memoria. Era primavera anche quando Praga sboccio' nel 1968 di riforme libertarie, bruciate dal primo torrido caldo di agosto arrivato col cigolio dei carri armati sovietici. Davanti a me una nutria in libera uscita si aggira nella calda acqua stagnante del Volano in secca. Si muove lentamente e io la seguo. Mi trovo oggi sul lato opposto del palazzo in cui vivo, sul lato opposto di me stesso. E’ strano vedere il luogo dove vivo da un angolatura che non avevo mai considerato prima. E’ come uscire da se stessi. Un po’ liberarsi. Ogni liberazione deve essere sempre un po’ anche librazione da se stessi. Anatre, gabbiani, anche un pesce siluro mostra la sua testa di tanto in tanto nelle sue evoluzioni a pelo d’acqua. Sulla superstrada Ferrara mare proprio ieri è stato fermato il traffico per via di una mucca uscita dai campi che passeggiava tranquillamente sull’asfalto. Proprio ieri sull’autostrada l’Aquila – Roma è andata peggio ad un orso, travolto da un
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automobilista. Sarà un caso, ma sembra che gli animali escano dai loro territori invernali. E’ la stagione degli accoppiamenti anche. Per cercare un compagno o una compagna bisogna uscire allo scoperto, esporsi. Kundera racconta “L’insostenibile
la primavera di Praga ne leggerezza dell’essere” e ricorda le coppie fortuite e improvvisate di praghesi che si baciavano con ardore davanti ai carri armati sovietici. Era una provocazione rivolta ai soldati del’armata rossa, costretti alla castità della vita militare. Con le loro facce tristi dall’alto dei carri potevano solo guardare impotenti l’esplosione della passione.
Sull’argine del Po di Volano è tutto un fiorire di margherite e colori. La gestazione del nuovo è adesso. O così ci piace pensare. Ma nulla è indolore. Il vecchio resiste nel nostro paese, aggrappato con i denti, o con le dentiere, ai privilegi del potere. Un presidente della repubblica rieletto pochi giorni fa all’età di 87 anni e che finirà, se finirà, il settennato a 95. Eletto da cariatidi che consegnano al futuro un paese più vecchio di loro. E non vogliono capire che non è questione se siano
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stati meglio delle loro possibili alternative, queste discussioni le devono tenere per le serate davanti ai loro nipotini ai quali è più difficile mentire. Se la vedano lì nel privato della loro vecchiaia. Hanno fatto o non hanno impedito, o hanno tentato inutilmente e quello che il futuro prende in consegna è opera loro che gli piaccia o no e non è un bel vedere. I gradi delle colpe non interessano alla primavera che avanza, c’è un tempo per tutto, un tempo assegnato a tutti, il valore delle azioni non commuove la natura, non la convince a concedere proroghe. Il nuovo sboccia per forza, peggiore o migliore che sia. E chi si oppone porta solo altra sofferenza a quella che già la natura non si cura di risparmiare ai viventi. Questi vecchi che hanno tenuto le redini del paese, passandosele di mano in mano e ripassandosele, come le colpe, non sono nemici, ci appartengono, ma non significa che non abbiano un tempo e che questo tempo non sia passato. Ogni liberazione è liberazione anche da noi stessi per forza, e per fortuna. Liberarci da noi stessi o da una parte di noi è quello che deve accadere. Tendiamo a vedere la liberazione solo come liberazione dagli altri perché la vista dell’uomo è fatta così. Punta sugli altri e non sappiamo fare ruotare le nostre pupille di 360 gradi per guardare dentro di noi. dovremmo ricordarci del 25 aprile non solo come data di liberazione dello straniero, o dal nemico, ma anche come data in cui avremmo dovuto liberarci da noi stessi, di
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quella parte di noi che ha ceduto agli inganni, ha giocato per il nemico. Non lo abbiamo fatto abbastanza e siamo sempre gli stessi di allora. Cediamo agli stessi inganni, ci illudiamo che una primavera possa cambiarci senza sofferenza, come un fiore che sboccia. E invece siamo sempre gli stessi e sempre più vecchi. Oggi sono passato dall’altra parte del fiume. Passeggio nella Darsena e vedo il mio palazzo da una prospettiva del tutto diversa. Posso vedere anche me stesso, se mi sforzo, mentre mi affaccio alla finestra, tiro su le tapparelle o esco per andare al lavoro. Non è un bel vedere, ma serve a capire il senso di quello che ho scritto. Tutto sembra diverso cambiando prospettiva. Uscendo da se stessi per una breve vacanza. E cos’altro è vacanza se non questo? Il fiume è in secca e davanti a me appare la nutria Condoleeza, che si rotola nell’acqua come un bagnante in vacanza. L’acqua è fonda solo pochi centimetri come nei nostri lidi. Neppure lei è un bel vedere, siamo in bella compagnia. Ma la guardo e la fotografo mentre lei non fa una piega per la mia presenza. Non sarà un bel vedere, ma è meglio di quei turisti veneti che spuntano dietro di me da non so dove, si avvicinano al grido di “varda che pantegana ghe se nel fiume”. Non sono un bel vedere neanche loro, ma vaglielo a dire. “Varda
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che zente ca me toca vedar che non reconose na nutria da na pantegana”. * * * Sull’altro lato del fiume rispetto alla mia finestra c’è un tale che suona la tromba. Vive da solo in una casetta minuscola e isolata nello spiazzo della Darsena. Non so cosa faccia per vivere, ma so che esegue anche lavoretti artigianali. Quando si è rotta la mia tromba lui me l’ha riparata con un saldatore per un modico prezzo. La mia tromba è un modello da principiante e poco dopo l’acquisto una giuntura si era staccata. Ho escluso che l’abbiano sabotata i miei vicini, benché il movente ci fosse. Il tipo diceva che la tromba è uno strumento veramente bastardo. Per un attimo ho pensato che non fosse la persona giusta per prendersi cura della mia tromba, ma mi sbagliavo. Quando gliel’ho portata lui mi ha detto che a lavoro finito mi avrebbe avvertito con uno squillo. Intendeva di telefono, ma poteva andare bene anche uno squillo di tromba. Abitiamo a poche decine di metri in linea d’aria l’uno dall’altro divisi solo dal fiume. Sullo spiazzo della Darsena quando ci si avvicina alla data del palio si esercitano anche i trombettieri delle contrade. Le trombe che intonano litanie pseudo medioevali sono accompagnate dai tamburi che vanno avanti per ore in modo ripetitivo e possono generare anche esaurimenti nervosi nel vicinato.
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Il trombettiere che vive nella casetta dall’altra parte del fiume mi è stato presentato dal mio insegnante di tromba che dirige la banda comunale. Benchè la banda si chiami comunale, e si dia da fare con risultati davvero ammirevoli, il Comune di Ferrara non contribuisce al suo sostentamento neppure in parte, nemmeno fornisce le divise che gli interessati si devono procurare da soli. Anzi speriamo che il Comune non gli chieda di pagare anche i diritti per l'uso della parola comunale. Coi tempi che corrono. Ma che schifo. I soldi pubblici fluiscono copiosamente nelle tasche di Abbado per deliziare i pochi facoltosi ospiti del teatro, ma sono chiusi i rubinetti verso gli anonimi volontari della cultura che si adoperano con passione a diffondere le arti. Così che gira questo paese. Le cose preziose sono quelle che spesso non luccicano e che dobbiamo far luccicare noi, non senza fatica. La fatica è anche quella che si fa largo nel fiume, a colpi di remi, sospinta dall’incitamento ritmico degli allenatori. I canoisti, quasi tutti adolescenti. Non inseguono il miraggio della celebrità come fanno i giovani calciatori. I canoisti fanno uno sport duro, dove anche se dovessero primeggiare un giorno non troveranno onori ad aspettarli. E’ bello pensare che ci siano ragazzini così giovani
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e capaci di essere invulnerabili alle seduzioni che piegano la stragrande maggioranza dei loro coetanei. Non so cosa spinge una persona su una canoa a spremersi i muscoli sotto la pioggia, o il caldo soffocante, per migliorare il suo tempo tra un ponte e l’altro. Non lo so, ma percepisco che deve essere qualcosa di sano a spingerli, perché non ha bisogno di nutrirsi di sogni fabbricati dall’industria del successo ma solo del piacere del gioco o il piacere di misurarsi con i propri limiti. Ci sono anche giovani ragazze che remano, e sembrano non preoccuparsi di questo sport che lascerà a loro calli sulle mani, e polpacci non adatti alle passerelle delle top model. Non se ne curano perché ridono di gusto, si divertono. Due canoe mettono in scena allegramente una battaglia navale, schizzandosi l’acqua a colpi di remi. Anche questa passione è resa possibile da volontari, che andranno avanti finché ce la faranno. I soldi pubblici della città gestiti dalla politica corrono altrove. Scorrono per tuffarsi nelle tasche di chi è gradito agli amministratori o sa farsi gradire, chi può restituire alla politica un ritorno di immagine, pubblicità, o voti. Ma niente rimane per chi si adopera nell’ombra per diffondere attività che rendono più gioiosa e sana la nostra vita. Se vogliamo una vita più sana e gioiosa dobbiamo procurarcela da soli, cercarla dove non ci aspetteremo di trovarla, magari proprio su questo fiumiciattolo che la maggior parte delle persone considera solo
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una fastidiosa e inutile appendice del grande fiume, che porta solo zanzare e cattivi odori. * * * C’è un mondo nella città che scorre su questo fiume, ignorato e trascurato dalla città stessa, o vissuto come una piaga. Le sorti di questo fiume sembrano non interessare molto la gente. Sono tempi difficili, i mutui da pagare, le tasse, i servizi pubblici che sono in ginocchio, i rapporti umani che degenerano quando nulla funziona come dovrebbe. E qualcuno vorrebbe preoccuparsi di animali randagi che bazzicano intorno al fiume? Il fiume attira quasi tutte le creature animali selvatiche della zona, me compreso. Se questo fiume si insabbia, se le acque diventano sature di veleni, se il mare risale per chilometri lungo la foce e l’acqua dolce diventa salata, non è senza prezzo e un’immensa varietà faunistica pagherà questo prezzo. Per primi i pesci. Eppure discendiamo dai pesci, ma questo non basta a commuoverci naturalmente. Come pesci evoluti, anche se pensiamo di esserne usciti, sguazziamo sempre nella stessa acqua. Rispetto agli altri pesci siamo convinti di essere più intelligenti. Siamo come i computer di ultima generazione ultra veloce che non riescono a comunicare con quelli che c’erano prima.
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Siamo pesci da terraferma che non respirano più acqua e per sentirci a nostro agio appestiamo anche l’aria. Ci sentiamo più furbi dei pesci rimasti in acqua. Noi abbiamo i mezzi per difenderci che loro non hanno. Se l’acqua del fiume che beviamo è inquinata la depuriamo, se spariscono i pipistrelli che mangiano le larve delle zanzare poco male, facciamo la disinfestazione e sterminiamo le zanzare, se la disinfestazione avvelena i pesci cercheremo di mangiare quello pescato altrove. Siamo anche cannibali in un certo senso. Quando ci osserviamo nel nostro acquario super accessoriato è difficile pensare di essere gli stessi individui capaci di tanto orrore. Non sembriamo così malvagi. Sotto casa mia tempo fa proprio su questo tratto di argine si è tenuta una seduta di acquerello, alla quale ho partecipato anche io insieme agli allievi di un corso. Il paesaggio acquatico è un ottima palestra per i pennelli. Dipingevamo questo paesaggio tenendo le distanze da quello che ci disturbava. Bolle di schiuma passavano nel fiume davanti a noi e ci facevano orrore sincero. Non era opera nostra tutto quello che ci turbava, non poteva esserlo! E invece lo era. Era opera nostra quello che vedevamo, non meno degli approssimativi e imbarazzanti schizzi di colore che depositavamo sulla carta. Sembravamo così innocui. Ed eravamo innocui e inoffensivi solo verso noi stessi, e le nostre sbagliate abitudini di vita.
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Sembriamo programmati per non vedere che i veri mandanti dei crimini che ci turbano siamo noi stessi. Sembriamo programmati per non fermarci fino a quando rimarremo l’unica forma di vita in vita nel pianeta. Allora l’indice della colpa sarà puntata per forza su di noi. Ci accuseremo gli uni con gli altri per trovare i responsabili. Quelli che avranno la meglio saranno quelli che rifiuteranno di attribuirsi colpe, gli altri invece saranno più deboli per le colpe che sentono di avere, e perderanno. I vincitori scriveranno la storia e si daranno una patente di innocenza. I sedicenti innocenti fonderanno il futuro. E finché ci sarà qualcuno convinto della propria innocenza sarà indifeso da se stesso, indifeso dal vero nemico che agisce indisturbato. Il lato perverso che è in noi sembra rigenerarsi di continuo, programmato per farlo. Ma rigenerandosi sarà sempre uguale a se stesso oppure no? Potrà mai rinascere migliore? Potrà mai questo fiume rigenerarsi migliore quando le stesse gocce d’acqua ripasseranno un giorno da qui? Ho dipinto proprio qui anni fa una pianta spontanea che ogni anno muore e ricresce in un punto preciso dell’argine. Quella che ricresce, se ricresce ancora, non è la stessa che ho dipinto, o forse sì. Avrà la stessa anima? Quando rappresento qualcosa sulla carta prende forma davanti a me qualcosa di morto. Già Michelangelo, mi scuso per il paragone, se ne era accorto quando aveva scagliato il martello contro la sua scultura colpevole di non parlare. La rappresentazione della vita è
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impossibile, posso estrarne solo una fotografia come se fosse morta davanti a me in quell’istante. Il soggetto ritratto sarà vivo naturalmente, sempre che l’emozione non l’abbia ucciso. In ogni modo io l’ho ritratto in forma cadaverica. E’ materia inerte, senza respiro. Quanto all’anima, che dicono sopravviva alla morte, è un'altra cosa. Rappresentare l’anima delle cose o delle persone è l’aspirazione dell’arte. L’anima, se esiste, è l’unica cosa viva che sopravvive alla materia. Se possiamo rappresentare l’anima con la materia non so, ma di certo è l’unico modo per rendere la rappresentazione immortale. Si dice che i grandi artisti abbiano il potere di vedere l’anima invisibile delle cose e rappresentarla. Buon per loro. L’anima è ritrosa, non si lascia ritrarre volentieri anche perché se il pittore che la ritrae è un cane, rischia di perdere la sua fama di immortalità. Tante anime hanno trovato la tomba sopra croste inguardabili. Pace all’anima loro. Ma gli artisti che hanno la fama di aver riprodotto degnamente l’anima del soggetto diventano delle divinità in terra. I loro quadri si vendono per cifre stupefacenti. Le divinità in terra, finché sono in terra, non disdegnano onori e successo. Però devo dirlo, quando ci sono questi interessi in gioco, il successo, la fama, i soldi, ecco, la verità è a rischio. Più ci sono interessi in gioco e più la verità è a rischio. Qualcuno dice di avere catturato l’anima e la mostra come un pescatore
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mostra la sua preda attaccata alla canna e altri si vantano di aver capito che quello era il pescatore giusto e sono intenditori raffinati. C’è qualcosa di molto materiale nel successo e qualcosa di molto immateriale nell’anima. Non potrei immaginare concetti più distanti. Ci sono persone che pensano, se ci pensano davvero, che la vita sia preziosa, qualcosa che finisce, qualcosa di irripetibile e capiscono che ci sono tanti modi di buttarla via. Per lo più vedono sfilare la propria vita dall'inizio alla fine immersi per necessità in lavori che sono o inutili, o stupidi, o soddisfano bisogni ridicoli, o sono contaminati da fattori insani, ai quali devono non pensare per salvaguardare un briciolo di dignità. Alcune persone sono programmate per sanare ogni fattore insano della vita con il proprio successo nella competizione sociale. Quello che conta è porsi obiettivi materiali e raggiungerli. Questo diventa il loro talento e non possono distrarsi con pensieri negativi. Se no la macchina da guerra fa cilecca. Per queste persone il mondo non andrà mai troppo male, ci sarà sempre un rimedio e un colpevole che sta altrove, ci sarà sempre un bicchiere mezzo pieno da sfruttare e da spremere. Ci sarà sempre una speranza che è l’ultima a morire e loro moriranno per ultimi con la loro speranza. Noi che saremo morti prima li guarderemo senza rancore. E’ bello pensare che con la morte si
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spenga anche ogni rancore. paradiso più che sufficiente.
Sarebbe
già
un
* * * Le anatre selvatiche volano lungo il corso del Po di Volano. Per loro il fiume deve essere la sola strada che gli permette di attraversare la città nelle due direzioni senza rischio di atterrare in un ambiente ostile, cemento, traffico, ztl e così via. Il fiume è una striscia continua di natura che la metastasi di cemento urbano non riesce mai a interrompere, ma solo a scavalcare con dei ponti. Queste anatre vivono in un territorio filiforme che percorrono avanti e indietro. Il loro spazio vitale è una linea curva unidimensionale. Quando osservo questi uccelli mi ritorna di continuo in mente il libro di Selma Lagerloff che ho già citato. Parlo del viaggio meraviglioso di Nils Holgersson con le oche selvatiche. Viene considerato un libro per bambini, ma per i bambini di oggi vigono altri intrattenimenti più seducenti e tecnologici, e così me lo leggo io quel libro (quello della foto), alla veneranda età di anni 49, e lo trovo ogni volta incantevole. Questo libro è un abbraccio fra poesia, favola e
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natura. Insegna molte cose che una volta erano insegnate soprattutto dai libri, per sedurre gli individui al rispetto delle meraviglie naturali. Oggi i libri sono sopravanzati da altri mezzi di comunicazione più invasivi, i cui contenuti tendono a formare individui sedotti dalle meraviglie del mercato del consumo. Nils Holgersson è un pollicino proiettato in un mondo dove tutte le dimensioni da noi conosciute sono dilatate e anche quelle degli animali con i quali scopre di essere in grado di comunicare. Questo mi fa pensare che possa esserci anche uno spunto di saggezza in questa idea. Forse dovremmo scendere un po’ dal piedistallo della nostra grandezza per capire meglio il mondo animale. In questa nuova dimensione il piccolo Nils scopre che ogni animale ha un nome. Conosce Smirre, Akka, Jarre, Maerten. Ogni animale ha un nome, una precisa identità individuale, come può averla una persona, e non è solo un’entità anonima che appartiene ad una specie, come una volpe, o un anatra. Guardiamo il mondo animale dall’alto. La nostra intelligenza è prodigiosa senza dubbio, ma non abbiamo ancora capito se è innocua, se è in grado di esprimersi al massimo del suo potenziale senza essere letale anche per noi stessi a lungo andare. Il dubbio mi pare legittimo e se non lo è tanto meglio. A parte il prodigio della nostra intelligenza, c’è senza dubbio in essa una componente di
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supponenza che sembra fare un’immensa fatica a riconoscere forme di intelligenza concepite in modo radicalmente diverso, forme di intelligenza che funzionano con modalità istintive e non consapevoli. Abbiamo anche concepito un singolare bestiario adottato dal linguaggio comune per contrassegnare la nostra superiorità presunta: essere un’oca giuliva, andare in oca, fare una papera, essere asini, allocchi, ignoranti come capre, versare lacrime di coccodrillo, essere pauroso come un coniglio, essere una gatta morta, essere uno sciacallo, strisciare come vermi. Le peggiori qualità umane sembrano essere mutuate dal mondo animale. Oppure il mondo animale si limita ad offrirci molte metafore delle carenze umane. Ma se parliamo di forme di intelligenza fare graduatorie nel mondo naturale può essere anche controindicato. Prendiamo per esempio le oche selvatiche, il cui volo accompagna il piccolo Nils Holgersson nel viaggio verso la prima conoscenza del mondo. Le oche volano in formazione a V. L’aerodinamica è una materia che gli uomini studiano con profitto e nella quale possono vantare più delle oche titoli accademici o tenere conferenze, eppure si è scoperto che le oche nella loro formazione di volo sanno sfruttare nel modo più ingegnoso possibile i vortici d’aria provocati dalle alti di quelle posizionata avanti. Questo permette di ridurre al minimo la fatica. Il vortice generato dall'ala sinistra di ogni oca che fende l’aria ruota in senso orario, mentre il
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vortice dell'ala destra ha senso antiorario. Dicono che nelle zone vicine ad un aeroporto potrebbe capitare di vedere questi vortici che si generano sulle ali di un aereo che sta atterrando, in giornate fredde ed umide. La posizione di ogni oca che attribuisce nell’insieme allo stormo la forma di una grande V con la punta nella direzione di marcia, è la posizione tra tutte quelle possibili che rende il viaggio meno dispendioso e il galleggiamento nell’aria più agevole. Già questa è intelligenza. Aggiungo che se poi tutto questo permette alle oche di essere meno rigorose nella cura della linea e nelle dimensioni del girovita, indulgendo a qualche peccato di gola in più, senza pregiudizio per il volo, è veramente intelligenza ad un grado stupefacente. E non parliamo dell’intelligenza delle api nel costruire un alveare che nessun architetto senza mezzi informatici potrebbe costruire rispettando quelle regole di costruzione. O la capacità sempre delle api, capacità verificata monitorando i loro spostamenti, di individuare istintivamente il percorso più breve che collega diversi fiori sistemati in posizioni molto lontane fra loro su un campo, operazione impegnativa anche per un computer. Sono vere meraviglie che esigono ammirata contemplazione. Dovremmo diventare tutti dei piccoli Nils Holgersson per correggere tante vedute deformate dal gigantismo del nostro ego.
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Per chi volesse salire su un oca senza rimpicciolire come Nils Holgersson è possibile ingrandire l’oca, come hanno fatto in Scandinavia, dove questo personaggio è talmente celebre da dare il nome addirittura ad un aereo fatto a forma di oca (quello che si vede nella foto sopra). Le oche non possiedono brevetti, ingenue, e gli ingegneri aeronautici evidentemente ne hanno approfittato. * * * Riprendono le lezioni di nuoto con il primo caldo di questa primavera ancora poco convinta. Due papere e un paperotto neonato si muovono fra le canne. L’esercizio di oggi consiste nell’insegnare al piccolo come rimanere fermi nonostante la corrente che lo spinge via. Il piccolo fa un po’ fatica ma i genitori, lo raggiungono e insieme trovano il giusto equilibrio tra la spinta della corrente e la controspinta delle loro zampe che si muovono sotto il pelo dell’acqua. C’è qualcosa di allegro e giocoso che accompagna i loro gesti. Gli allontanamenti e i ricongiungimenti si
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ripetono. I genitori si voltano verso il piccolo a guardarlo. La meraviglia che suscita questa piccola creatura negli adulti forse è qualcosa di innato che non richiede una consapevolezza sviluppata e razionale. Ora i tre rimangono fermi nell’acqua che scorre più velocemente del solito, non si preoccupano neppure della mia vicinanza. Scatto delle foto. Mi sento una presenza tollerata, ritenuta innocua, e questo mi fa sentire bene. La lezione di nuoto si arricchisce di nozioni di caccia. Forse in quella posizione, immobili in un punto del fiume contro la corrente, possono intercettare più agevolmente insetti portati dal flusso. Ogni tanto affondano il becco e lo estraggono agitandolo, forse per espellere gocce d’acqua. Passano dei ragazzini che stanno facendo lezione di canoa. Spuntano dalle canne che coprono la vista sulla parte del fiume dalla quale provengono. La loro traiettoria si avvicina apposta a quella delle anatre. I ragazzini si divertono a smuovere l’acqua vicino alle anatre per vedere come reagiscono. Proseguono per qualche metro girandosi indietro. Una voce li richiama senza severità al loro dovere. Si stanno allenando. A parte oscillare sotto le onde agitate dai remi le anatre non sembrano troppo turbate. Anzi la mia
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impressione è che sappiano esattamente che stanno passando le canoe. La processione di remi agita il basso fondo sabbioso e le anatre dragano il fondo con il becco. Ogni volta che passa una canoa e arrivano le onde smosse dai remi affondano con vigore il becco. Forse le onde smuovono la fanghiglia portando allo scoperto molte piccole prede. Non ho le prove di questo, come di tante altre cose in cui mi capita di credere, ma mi piace pensare che sia così. Ha un suo senso preciso. Magari conoscono anche gli orari esatti degli allenamenti. E’ bello pensare che un gesto giocoso così banale come quello dei ragazzini possa agganciarsi alla catena della vita. Nulla di quello che facciamo lascia indifferente la natura. Ma la catena della vita comprende anche la morte, naturalmente, di quelle creature che diventano nutrimento per altre. Purtroppo oltre a essere un anello nella catena della vita c’è il fatto che ne siamo consapevoli, questa è la prerogativa della nostra specie, e questa consapevolezza priva ogni nostro gesto, anche il più innocente, di un valore neutro. Se ogni nostro gesto causa effetti di cui siamo consapevoli autogiudicare sulle nostre azioni è inevitabile, ma non
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univoco, anzi molto vario: non possiamo esimerci dal soppesare ogni nostro gesto secondo i parametri del giusto o ingiusto, utile o inutile, conveniente o sconveniente. Navighiamo nella vita agitando questi pensieri, smuovendo l’acqua che ci circonda, ma ognuno in una sua direzione, per un insieme di traiettorie caotiche e frenetiche perché non riusciamo più a rimanere fermi, immobili nella corrente per sentirla scorrere addosso a noi assaporando il piacere di esserne accarezzati. Anche le lezioni di nuoto verso i nostri piccoli sono molto confuse. Li abbiamo portati in acque pericolose, non abbiamo saputo fare di meglio, e non sappiamo fare altro che trasmettere a loro il nostro potere, sperando che imparino da soli a farne un uso migliore di quello che abbiamo fatto noi. * * * C’è un tratto di argine del Po di Volano colpito dalla sfolgorante improvvisa eruzione di macchie rosse. Sono i papaveri, che nascono spontaneamente con l’arrivo del primo caldo. E’ il tratto dove la corrente del fiume si infila sotto il ponte di via Bologna. Il papavero è un simbolo che ha molti significati. Gli alti papaveri sono gli uomini di potere, che
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svettano sugli altri, di un’altezza che non è sempre pari al fulgido splendore di questi fiori. Il fatto di svettare sulla vegetazione generato questa associazione di idea tra papavero e il potere.
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Si racconta che Tarquinio il Superbo, volendo insegnare al figlio il modo migliore per conquistare l’antica città di Gabi, gli faccia buttare giù i papaveri più alti del suo giardino, a simboleggiare la necessità di distruggere per prime le più alte cariche della cittadina. Il papavero è anche simbolo dei caduti in guerra. Forse perché sembrano ferite rosse come il sangue aperte sulla terra? Anche Fabrizio De Andrè ce lo ricorda nella canzone “la guerra di Piero” quando dice::“Dormi sepolto in un campo di grano/non è la rosa non è il tulipano/che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ma sono mille papaveri rossi...” Le alte cariche e le vittime della guerra sono due concetti che più distanti non potrebbero essere, così come sono opposti i concetti di carnefice e vittima. Comunque sempre di sangue si tratta che sia quello che resta sulle mani dei carnefici, che sia quello che bagna i corpi delle vittime e i papaveri sono macchie di sangue esplose dalle vene della terra. Almeno come simbolo regge.
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La nostra terra è sofferente, insanguinata, appestata di veleni, coperta di cemento, il disboscamento sul pianeta procede ad un ritmo spaventoso. Con la stessa velocità, che non ha precedenti, spariscono dal creato specie animali che non abbiamo neppure avuto il tempo di conoscere. La terra è oggetto di edificazione di un tempio innalzato al nostro ego. E gli alti papaveri sono i loro sacerdoti. Il pensiero più triste è quante di queste cose che facciamo hanno effetti irreversibili, disegnando uno scenario deturpato che non può ritornare la primitivo splendore. Un concetto grandioso e troppo dimenticato compare in un articolo della costituzione francese postrivoluzionaria del 1793: dice che nessuna generazione ha il potere di assoggettare alle proprie leggi le generazioni future. Naturalmente non significa che le leggi debbano avere una scadenza pari alla durata di ogni generazione, significa invece che non possono creare situazioni irreversibili tali da non poter essere rimosse dalle generazioni future. Non possiamo esercitando le nostre scelte impedire quelle dei posteri. Penso un concetto simile lo avessero già adottato gli indiani d’america i quali sostenevano che la terra non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, ma ricevuta in prestito dai nostri figli. E’ evidente conseguenza.
che tutto il resto viene Ogni nostro gesto regolato
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questo principio è diretto verso un mondo migliore. Per contro i comportamenti della nostra vita quotidiana sono orientati nella direzione opposta. Noi occidentali li abbiamo sterminati, e fatto in modo che non avessero figli ai quali restituire quello che dai figli avevano ricevuto. E abbiamo cancellato del tutto questo principio guida del nostro progresso.
Il progetto idrovia che ha preso di mira questo fiume, prevede l’apertura di un accesso al mare e dal mare per navi commerciali. Si parla di navi di grosse dimensioni, lunghe anche 150 metri. Dalla mia finestra vedo il Mistral, questa simpatica imbarcazione ormeggiata a ridosso del pontile della Darsena. Non l’ho mai vista navigare. E’ un po’ come una casetta sul mare, e i proprietari ogni tanto ci vanno per riassettarla e prendere il sole. Mi chiedo come potrebbe questa imbarcazione anche volendo prendere la via del fiume perché evidentemente è arenata.
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Nonostante le sue piccole dimensioni la chiglia poggia sul fondale. L’acqua è talmente bassa che i pesci siluro quando passano si abbronzano la schiena. Qualcuno dice che ci siano siluri anche lunghi due metri, ma si sa che le misure del pescatori vanno prese con una certa cautela. Ci sono anche anguille. Un pescatore mi ha raccontato qualcosa di questi animali nostrani che sono diventati famosi grazie alla pubblicità indiretta di cui avrebbero fatto anche a meno, proveniente dai ristoranti del basso ferrarese. Le anguille hanno la capacità non comune di poter vivere per un certo tempo fuori dall’acqua, e non solo, sono capaci di vivere sia in acqua dolce che in acqua salata. Se sapranno dimostrarsi capaci di sopravvivere anche in acqua fetida meriteranno una patente invidiabile di adattabilità. Le anguille depongono verso il mare dei sargassi. Lo raggiungono guidate da un istinto millenario. Risalgono i fiumi, escono da questi muovendosi via terra, via mare, guidati da una bussola naturale che è uno dei tanti prodigi della natura. Non hanno bisogno di lanciare in cielo dei satelliti per farsi indicare la strada. Ce l’hanno dentro di loro. Quando il progetto idrovia sarà realizzato forse le anguille dovranno cambiare strada, i siluri dovranno sloggiare anche loro per fare
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posto a questi colossi commerciali. Certo questo tratto di fiume dovrà diventare molto più fondo e quindi ci sarà lavoro per un bel po’ di ruspe e così via. Le anguille prenderanno la via del mar dei sargassi lungo la superstrada Ferrara – mare.. auguri. Ho già accennato al problema non secondario dell’asportazione della rena. Non basta gettarla da qualche parte, infatti è talmente inquinata, come hanno rivelato le analisi, che occorre smaltirla come rifiuto speciale pericoloso. Insomma per pulire da una parte occorre sporcare da un'altra. E’ la legge fondamentale delle pulizie, detto anche dai professoroni “secondo principio della termodinamica”. Non si può disinquinare, si può solo rallentare il nostro inquinamento che esiste per il solo fatto che noi esistiamo. Basta l’alito naturalmente per inquinare l’atmosfera, ma mentre il nostro alito è ancora sostenibile dal sistema il resto non più. Ho parlato con un conoscente che ha lavorato per dragare fiumi e mi ha parlato dell’eliminazione dei rifiuti speciali rimossi. Siccome il fondale dei fiumi o dei laghi è fanghiglia e gocciola occorre essiccarlo, se no si perde per strada. Per essiccarlo esistono delle macchine apposite che lo trasformano in una sfoglia secca. A quel punto si può portare via la sfoglia verso la destinazione prestabilita. Ci sono costi pazzeschi. C’è un industria che è nata sul trattamento
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dell’inquinamento. Gente che lavora, macchinari speciali che vengono prodotti. Mi viene da pensare che non siamo più nella fase dell’industria che inquina, ma siamo entrati in quella dell’inquinamento che diventa un’industria. Del resto fa aumentare il prodotto interno lordo, cosa che in genere è sufficiente a mettere di buon umore molti economisti. C’è anche un’altra soluzione che talora viene preferita in quanto più economica. Si chiama una ditta che orbita in atmosfere malavitose e la si paga per portare il rifiuto speciale clandestinamente in paesi più tolleranti. Così scarichiamo il secchio di fanghi nel mar dei Sargassi e buona notte al secchio. Per la gioia delle anguille nostrane giunte nel mar dei Sargassi che ritrovano l’aria, anzi l’acqua di casa. * * * Oggi è il 20 maggio 2013, osservo il fiume e ricordo nitidamente questo paesaggio com’era esattamente un anno fa quando proprio il 20 maggio, in piena notte, irruppe il terremoto nel nostro sonno. Improvvisamente quel boato ti strappa dal sonno e in piena notte è ancora più terrificante che di giorno. Improvvisamente il luogo amico per eccellenza, la casa, diventa nemica, trema di rabbia e minaccia la morte. Si cerca rifugio nella strada, nei campi, negli spazi aperti che sono sempre più rari nelle città.
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Qui sull’argine del fiume il terremoto che ho vissuto sembra un ricordo lontano. E’ passato un anno e anche i nervi si sono cicatrizzati sulla paura. Per mesi abbiamo vissuto nella
psicosi di nuove scosse. Poi improvvisamente accade che tutto si normalizza. Il ricordo sembra lontano. Ed è passato solo un anno. E’ la prodigiosa capacità di guarigione della nostra mente. Il tempo è come un fiume che con la sua azione incessante ammorbidisce e smussa i ricordi più taglienti. Il terremoto è più feroce laddove la natura è stata più ferita dall’uomo, lo è meno laddove la mano dell’uomo è stata meno pesante. Col terremoto si fugge dal cemento, dal suo abbraccio ingenuamente fatto per proteggere.
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Questo luogo naturale dove la vita scorre sospinta dal lento fluire del fiume è un rifugio, e lo è in molti altri sensi. Che la natura sia un rifugio, almeno per me, una via di fuga dalla società umana è abbastanza chiaro. Naturalmente fuggire da un luogo verso un altro implica una distanza tra i due che in questo caso non è così scontata, ma in un certo senso è una speranza. Perché immaginare che natura e società umana siano due mondi contrapposti, retti da logiche e dinamiche molto diverse è quasi una speranza. Molti trovano consolante questa distanza, alcuni perché ritengono di essersi elevati verso un ordine superiore rispetto a quello della natura, cosa di cui dubito. Altri trovano consolante questa dicotomia per opposte ragioni, cioè perché ritengono che qualcosa dotato di una sua primitiva purezza, distante da noi, sopravviva ancora alla contaminazione della società umana. Altri non la trovano ne consolante ne sconsolante, la percepiscono soltanto e questo basta. L’orrore degli uomini di potere che infestano i piani alti dell’edificio sociale, i primari degli ospedali, i manager, gli amministratori, i politici, sono ai miei occhi il connotato pervasivo, odioso e più costante della società umana. E’ come se avessi addosso una lente deformante nella mia visione del mondo che ormai fa parte di me e mi porto dietro da sempre. Più si sale in alto e più prepotenza, e inganno sembrano essere le vere leve del potere, le lettere dell’alfabeto che si parla, la miscela dell’aria che si respira. Queste
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sono le regole. Chi non gradisce rimane nei piani bassi. Semplice no? Forse troppo? L’antica forza, quella cosa che mira a piegare la volontà altrui, si è addestrata a queste tecniche sofisticate per ottenere il medesimo risultato. Oggi l’arte di falsificare una statistica ha un potenziale di forza enormemente superiore a quella di tutti i muscoli dell’armata di Gengis Kan. Le statistiche dicono che stiamo meglio oggi di ieri, non c’è uomo di potere che non abbia una statistica in mano per dimostrare la utilità del contributo del suo operato. Ma il noi, il soggetto della frase “stiamo meglio”, è un concetto alquanto evasivo. Se c’è un noi, c’è un loro che si contrappone, e uno sguardo che si allarga su diverse prospettive, altre angolature, altre visioni, rivelazioni agghiaccianti. Se un alieno dallo spazio guardasse il globo intero del nostro pianeta direbbe che 4/5 dell’umanità sono fermi al medioevo e 1/5, quello che fa le statistiche è proiettato nel futuro. Se l’alieno facesse una media tra i due estremi delle condizioni di vita della popolazione mondiale e il numero delle persone che vi sono associate ricaverebbe questo dato: l’uomo medio del pianeta terra oggi deve ancora raggiungere il rinascimento. E un rinascimento è quello di cui in un certo senso abbiamo bisogno in questa epoca buia. Quando parlo della società umana, sempre più lontana da quella naturale, parlo di quella minuscola parte in cui vivo, quella che fa le
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statistiche, con le quali mente a se stessa e al mondo. A volte mi chiedo se il mondo naturale che osservo non sia, nonostante questo, una rappresentazione fedele e speculare di questa società proiettata nella modernità. Che in fondo la legge del più forte è sempre la stessa vetusta legge di sempre che nel mondo naturale e nella società degli uomini si impone schiacciando il più debole. Sempre la stessa legge che regola la società umana e quella naturale in forme diverse. Ci sarà, mi chiedo, nel pantano del fiume una pantegana che del tutto a suo agio nello schifo in cui nuota si comporta istintivamente con logiche non troppo distanti da quelle del Direttore Generale di un ospedale, o il manager di una multinazionale, o un giudice, o un politico? I nostri comportamenti sono davvero così distanti da quelli degli animali, o da quelli dei nostri lontani antenati? Nel 1570 in pieno rinascimento un terribile terremoto colpì questa città. Era venerdì 17 novembre. Il duca Alfonso terrorizzato fuggì all’aperto e dormì in una carrozza per alcuni giorni. Questo raccontano le fonti. Non è un comportamento tanto diverso da quello di chi solo un anno fa ha dormito in macchina quando la storia si è ripetuta. Ma non è tutto. Ci sono fonti che raccontano il dopo terremoto del 1570 e le polemiche scaturite tra la gente sulle possibili colpe umane. Fu accusato del terremoto il duca Alfonso per via di una delle
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sue opere oggi ritenute più meritorie: aveva realizzato un imponente opera di bonifica delle paludi intorno alla città e si era sostenuto che aver modificato questo stato naturale aveva provocato i movimenti nel sottosuolo. Oggi la cosa fa sorridere, ma solo un anno fa si è cercato di incolpare una società per le trivellazioni fatte nel sottosuolo presso Finale Emilia come possibile causa del terremoto. La cosa fa sorridere di meno perché è recente, ma le analogie non mancano. La paura spinge a processi troppo sommari. Bisogna essere cauti nel giudicare. Ma ci sono sempre anche gli sciacalli che brandiscono le disgrazie: nel 1570 la chiesa attribuì il terremoto ad una punizione divina contro il duca colpevole di non riconoscere i diritti del Papa sul territorio, e colpevole di ospitare oltre 2000 ebrei in città. Qualche anno dopo, la chiesa, recuperate le redini della città, istituirà il ghetto per gli ebrei. Sul luogo del disastro arrivano sempre gli uomini di potere. Oggi hanno sempre una parola buona, una parola di speranza, una promessa. Ma anche oggi rivoltano a loro favore ogni cosa, senza decenza. Si appropriano dei meriti di chi con la forza delle braccia senza clamori rimette insieme i pezzi. A volte fanno di peggio e ne traggono occasione di lucro. La storia del nostro paese è ricca di terremoti lucrosi per chi ha saputo approfittarne. Sono sempre uomini di potere i protagonisti di questa storia che si ripete, uomini che sulle macerie altrui rafforzano il loro potere. Hanno
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sempre qualche statistica in mano pronta all’uso per sostenere il loro meritorio operato. Sanno cavalcare la terra anche quando trema come un cavallo imbizzarrito senza essere disarcionati.