marxismo oggi RIVISTA QUADRIMESTRALE DI CULTURA E POLITICA
Rivista dell’Associazione Culturale Marxista
2011/1-2
Aspetti della deriva politico-culturale borghese
LA CITTÀ DEL SOLE 1
marxismo oggi RIVISTA QUADRIMESTRALE DI CULTURA E POLITICA
Anno XXIV – Nuova Serie N. 1-2 – gennaio-agosto 2011 Comitato scientifico: Alberto Burgio, Ugo Dotti, Roberto Fineschi, Andrea Fumagalli, Severino Galante, Ruggero Giacomini, Domenico Losurdo, Giorgio Lunghini, István Mészáros, Paola Pellegrini, Luigi Pestalozza, Vito Francesco Polcaro, Nicolas Tertulian, Emanuele Tortoreto, Mario Vegetti Comitato di redazione: Marco Albeltaro, Stefano G. Azzarà, Gianni Fresu, Alessandro Höbel Coordinamento: Nunzia Augeri Direttore: Guido Oldrini Direttore responsabile: Edio Vallini Sede legale: Associazione Culturale Marxista – Via Spallanzani 6 – 20129 Milano Direzione e redazione: Via Sant’Eusebio 24 – 20144 Milano e-mail:
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Indice
Nota dell’editore Per i prossimi 25 anni di “Marxismo oggi” di Sergio Manes Editoriale di Mario Vegetti INTERVENTI La questione ecologica: un’analisi a partire dal rapporto uomo-natura nel pensiero di Lenin di Vito Francesco Polcaro La crisi economica attuale e la prospettiva dell’economia eterodossa di Arturo Hermann Elezioni e democrazia al lume della matematica di Mario Alessio Luigi Cortesi intellettuale comunista fra tradizione e innovazione di Alexander Höbel SAGGI Necessità di un’alternativa al parlamentarismo borghese di István Mészáros Crisi della cultura di massa, postmodernismo e necessità della menzogna di Stefano G. Azzarà La resistibile ascesa della destra reazionaria in Europa di Renato Caputo
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DOCUMENTI Lettera/petizione della Georg-Lukács-Gesellschaft per il Lukács Archivum di Budapest
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ASTERISCHI LIBRARI - Schede a cura di Guido Oldrini
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Crisi della cultura di massa, postmodernismo e necessità della menzogna di Stefano G. Azzarà
Abstract. The collapse of public ethics in Italy does not depend on one single individual and his Bonapartist power, but is rather linked to a more serious crisis of national culture identity and to changes in society and in forms of consciousness that have been taking place over a quite a few decades. The postmodernist cultural turn which has been gaining strength in our country too since 1980s has completely changed not only our way of treating and perceiving history, but also our way of reflecting on general concepts, with the result that the relationship of “post-modern” man with reality itself has changed at his roots, conditioning even those who would still like to transform this reality. Postmodernism challenges the modern project of conscious and organised (and therefore political) universal emancipation of mankind and substitutes it with a multiplicity of liberation routes that exclusively concern the individual and his personal preferences. But the extolling of desire and of immediate freedom risks materializing solely in the arenas of the market and of the access, real or imaginary, to consumption. And it therefore risks putting the real freedom of men and women, in the sense of the capacity to actively modify reality, even more at risk. It is therefore necessary to investigate the relation that exist between postmodernism and the neo-liberal political tendency that has developed alongside it. But before this, it is necessary to investigate its relation with the ideas that emerged on the great wave of social conflict from 1968-1977, to see if – over and above superficial contrasts – there isn’t a more hidden affinity between these phenomena.
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Involgarimento della cultura? «Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica … cariche pubbliche a figli e amanti, lo scambio di carriere politiche contro favori privati, i concorsi pubblici (quelli universitari, per esempio) decisi sulla base di accordi fra gruppi di pressione o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, il familismo, il clientelismo, le caste»1: è questo lo scenario disarmate che offre oggi il nostro paese secondo Roberta De Monticelli. E non meno gravi sono le considerazioni di un’altra filosofa molto presente nel dibattito pubblico, Nadia Urbinati: sempre più «l’insofferenza verso le leggi dello Stato tende a tradursi in un’adesione acritica alla logica dell’interesse individuale» e questo «favorisce una quasi perfetta identificazione con un modello di società come di un grande mercato nel quale tutto può essere ragionevolmente oggetto di scambio, dove denaro, sesso e potere sono ad un tempo obiettivi e premi di successi privati e pubblici, dove sembra smarrito perfino il linguaggio del bene pubblico» 2. La denuncia della questione morale si fa, da parte di numerosi intellettuali che non esitano a dichiararsi progressisti, sempre più accorata e si concentra in particolare sulla crisi di senso che essa proietta sulle parole-chiave del nostro lessico civile e politico ma anche sul linguaggio quotidiano, deformato da una semplificazione brutale e da un involgarimento senza precedenti3. Non è difficile capire che questi fenomeni così macroscopici sono indice di un più generale stato di crisi e di frattura, prima ancora che del costume pubblico e privato, dei valori condivisi dalla comunità, della cultura nazionale e delle stesse condizioni di una convivenza civile dignitosa. È quanto dimostra, ad esempio, quell’operazione ideologica, tutt’altro che da sottovalutare, con la quale altri intellettuali del campo avverso sono abilmente riusciti a rovesciare il dibattito sugli standard di etica pubblica richiesti al ceto politico di un paese democratico in una surreale campagna “libertaria” contro il neogiacobinismo oscurantista e bacchettone4. Sappiamo, del resto, che di recente anche la Chiesa cattolica – sebbene con molte ambiguità e per motivazioni diverse, legate alla difficile situazione in cui, nonostante i revival religiosi periodicamente annunciati, versa il tentativo di coniugare fede e ragione nella società capitalistica avanzata – ha parlato di un vero e proprio «disastro antropologico»5 del paese e persino dell’Occidente intero.
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Lasciando da parte Benedetto XVI e i vescovi italiani, le cui considerazioni meriterebbero nella loro tragicità reazionaria un discorso a parte, rispetto al dibattito oggi in corso mi sembra però necessario introdurre alcuni distinguo e sviluppare una riflessione. In maniera diretta o indiretta, esplicita o velata, infatti, gli interventi che più eco hanno avuto riconducono per lo più questa consunzione delle parole, dell’etica e delle relazioni sociali alla presenza deleteria e corruttrice di Berlusconi – e cioè di una nuova forma di potere personalistico e incolto, che nel suo conflitto d’interessi permanente si ritiene al di sopra di ogni legge e pretende di riplasmare anche i significati consolidati portandoli al proprio infimo livello –, o al massimo al “berlusconismo” – inteso genericamente nel suo versante culturale e comunicativo come estrema riedizione dei peggiori vizi italici, dal pressappochismo superficiale all’opportunismo egoista. Al di là dei rischi di strumentalità impliciti in operazioni che non nascondono il loro intento politico immediato, legittimo ma parziale, questa analisi appare insufficiente6. Pur non esitando a denunciare con forza le enormi responsabilità soggettive che su di lui ricadono, bisogna dire che Berlusconi e ancor più il berlusconismo e la videocrazia ad esso connessa sono anzitutto espressione di una trasformazione della società italiana in corso ormai da diversi decenni, oltre che attori influenti di questa trasformazione stessa. Ed è perciò dubbio il fatto che, rimosso il colpevole o il correo, il problema svanirebbe come per magia e lo stato della cultura o dell’etica pubblica nazionale tornerebbe ad un’improbabile aurea normalità. Quella parte del paese che respinge l’attuale configurazione neobonapartistica del potere – sebbene non riesca ad aggregarsi in un blocco sociale alternativo di pari compattezza ed efficacia politica – può dirsi poi così immune da quelle forme di “corruzione” linguistica, culturale e persino etica che imputa all’avversario? Esiste in Italia una vera divaricazione antropologica, come qualcuno pensa, o siamo piuttosto di fronte a un problema che riguarda tutti noi, visto che – come sanno gli studiosi del linguaggio – siamo parlati tanto quanto siamo in grado di parlare e, aggiungerei, siamo completamente immersi in un mondo culturale che ci costituisce con la sua egemonia e che non potremo mai padroneggiare nella sua interezza? Bisogna dunque evitare eccessi di personalizzazione, che non colgono il significato profondo del fenomeno, così come i rinvii ad un improbabile immoralismo o particolarismo perenne delle classi dirigenti
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nazionali, che pure hanno delle colpe gravissime7. Ma per non offrire il destro ai difensori di ciò che difendibile non è, bisogna evitare anche un altro e non meno errato approccio. Il rischio di questo genere di analisi è infatti, di solito, quello della generica denuncia moralistica e dello snobismo aristocratizzante; oppure ancora quello delle mere descrizioni fenomenologiche, che non chiedono ragione di quanto accade ma al massimo rinviano ad un processo di decadenza che nulla spiega e rimane a sua volta inspiegato. Ebbene, una risposta di questo tipo sarebbe altrettanto sbagliata e lo sarebbe per due ordini di ragioni. In primo luogo, qui non si tratta di esecrare l’avvento della cultura di massa nel nostro paese, perché si tratterebbe di una denuncia che avviene con un ritardo di diversi decenni e dunque fuori tempo massimo; una denuncia condannata per definizione all’ineffettualità di fronte all’irreversibilità del tempo storico. Inoltre, l’ostilità e lo sdegno intellettualistico nei confronti della massificazione e dell’involgarimento della cultura hanno in realtà una storia lunga come quella del mondo umano e hanno anche un segno politico ben definito, che è di natura oggettivamente reazionaria e non può dunque costituire un valido modello di riferimento critico. Rispetto a questo atteggiamento, negli ultimi due secoli si potrebbe ad esempio fare facilmente riferimento al Nietzsche delle Inattuali8, con il vantaggio di indicare una forma di risposta che, nata decisamente a destra (la denuncia del livellamento operato dallo Stato sulla società civile, con la conseguente castrazione delle individualità superiori) trova da qualche tempo ampia e paradossale eco a sinistra (il pathos aristocratico della distanza e della distinzione equivocato e trasfigurato come esaltazione delle differenze individuali, costitutive del cittadinoconsumatore titolare di diritti inalienabili)9. Ma con analoghi risultati si potrebbe anche tornare più indietro, sino all’epoca dell’ostilità aristocratica all’Illuminismo e persino alla diffusione dei giornali; oppure per controprova, sul versante opposto, all’efficace attività di formazione delle classi subalterne che ha accompagnato i movimenti rivoluzionari nazionali e poi il socialismo nel corso del XIX e XX secolo. Così come si potrebbe fare riferimento, un po’ più avanti, a tutto il filone della Kulturkritik che prima o dopo la svolta tra Otto e Novecento ha contrastato la decadenza culturale europea a partire da quella che era ritenuta la sua punta più avanzata, la diffusione di quell’istruzione popolare che, come diceva Ortega y Gasset, «dopo due secoli di educazione progressista delle moltitudini» fornisce alle masse «gli strumenti per vivere intensamente»
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e «l’orgoglio e il potere dei mezzi moderni» ma non è poi in grado di inoculare in esse «lo spirito», «la sensibilità per i grandi doveri storici» 10. Ma senza bisogno di risalire così tanto nel corso storico, più di recente – e per venire all’Italia che tutti in qualche modo conosciamo e abbiamo almeno in parte vissuto – è negli anni Sessanta che questo problema è emerso di nuovo, in coincidenza con il compimento dell’alfabetizzazione di massa, con lo sviluppo dei nuovi mezzi e delle nuove tecniche di comunicazione, con l’avvento di nuovi generi artistici e letterari. In quegli anni erano già ben sviluppati degli strumenti critici che avevano ereditato, tra l’altro, il dibattito che diversi decenni prima aveva intensamente animato i conflitti ideologici dell’epoca di Weimar. Al di là delle ambigue suggestioni francofortesi o delle nostalgie pasoliniane, già allora era possibile capire, perciò, che l’estensione della cultura di massa andava considerata come parte integrante del progetto moderno e dunque come un fenomeno progressivo. E che, semmai, il problema era quello delle condizioni oggettive nelle quali avveniva l’affermazione di tale cultura, condizioni che erano quelle dell’avvio di un intenso processo di sottomissione reale della sfera culturale al capitale 11. Non si può contestare il fatto che mai nella storia dell’umanità i livelli di alfabetizzazione sono stati ampliati come negli ultimi 40 anni e che perciò anche strati di popolazione in precedenza tagliati fuori da qualunque accesso alla cultura e all’informazione possono oggi potenzialmente fruire di questa opportunità, diventata attraverso la lotta sociale un diritto riconosciuto per via costituzionale. È inevitabile che questo fenomeno di ampliamento estensivo della cultura comporti un suo deperimento qualitativo oppure è pensabile una sua produzione e un suo uso alternativo e persino critico? Non la cultura di massa in quanto tale era ed è ancora il problema, allora, ma il suo ruolo nell’ambito di un processo più vasto. Di un contesto, cioè, che andava e ancor di più oggi va definito non solo in termini di proprietà privata e monopolistica dei mezzi di produzione e diffusione intellettuale ma soprattutto, ad un livello più profondo, rispetto al ruolo sostanziale della produzione ideologica nel funzionamento del meccanismo di riproduzione della società industriale avanzata. Il passaggio dalla sottomissione formale a quella reale della sfera culturale significava che già negli anni Sessanta (e negli Stati Uniti anche da prima) la produzione ideologica funzionale alla società capitalistica non era più un elemento accessorio che, sorto in un determinato contesto storico e sociale ma a partire da una propria
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autonomia, si aggiungeva in maniera estrinseca ai rapporti di proprietà per giustificarli a posteriori. Essa era invece divenuta essenziale per la sussistenza del meccanismo sociale complessivo e produceva consenso a monte, in maniera immediata e diretta, tanto più che nell’ambito culturale non si parlava più soltanto ad un’elite intellettuale ma ad una sempre più vasta platea, una platea investita simultaneamente da un passaggio alla società dei consumi di massa che esponeva ogni individuo ad un’inevitabile ridefinizione dalla propria identità in termini di accesso alle merci e all’immaginario ad esse connesso12. Il riconoscimento critico delle potenzialità progressive della cultura di massa, attento a trovare un equilibrio tra quantità e qualità e teso a sperimentarne una possibile funzione critica, non costituiva dunque, allora come oggi, una forma di appiattimento apologetico sull’esistente ma significava accettare una sfida decisiva per l’avvenire della democrazia. Semmai, la necessità di confrontarsi con questo processo da posizioni materialistiche rendeva ancora più difficile di quanto non fosse in passato, ma anche ancora più urgente, la questione della costruzione di una cultura nazionale-popolare ispirata alla lezione gramsciana, una cultura capace di essere realmente autonoma e alternativa all’ideologia proprietaria e all’industria culturale ma anche di ereditare in sé e rinnovare i punti alti della tradizione culturale nazionale, parlando tendenzialmente alla maggioranza del Paese e evitando il rischio di cadere nell’elitarismo. E rendeva di conseguenza ancora più delicato il ruolo del partito delle classi subalterne e il suo orientamento nei confronti degli intellettuali organici come degli organismi culturali collaterali che nel tempo esso aveva saputo costruire13. Oggi però questo dibattito è ormai alle nostre spalle. Tutto è già avvenuto e la greve «egemonia sottoculturale»14 che si è affermata pian piano sotto i nostri occhi è dunque qualcosa di ancora diverso dalla cultura di massa, l’indice di una diversa qualità del suo funzionamento o, per meglio dire, di una sua vera e propria crisi. Tanto più che sappiamo fin troppo bene come sia andata a finire nel rapporto tra politica, cultura e società e sappiamo anche che il ruolo stesso degli intellettuali organici (per non parlare di quelli non organici, come nel caso del situazionismo) si è rivelato molto problematico di fronte a rapporti di forza sfavorevoli, essendo state molte di queste figure, alla prova dei fatti, simpateticamente coinvolte nel flusso travolgente della sottomissione reale. È vero, allora – per tornare alla crisi della nostra cultura contemporanea –, che
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oggi come ieri «il potere delle parole risulta decisivo per la costruzione del consenso»15 e che attorno ad esse si svolge una vera e propria battaglia culturale, come ci ricorda opportunamente Vladimiro Giacché. Una battaglia nella quale il senso delle parole viene sistematicamente deformato in molti modi e al di fuori di ogni correttezza etica nei confronti della «verità», sino a rovesciarlo in «menzogna», «il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo». È quanto mostra l’evoluzione di due termini centrali nel nostro lessico politico, quali quello di «democrazia» (svuotata di ogni contenuto economico-sociale egualitario e di ogni riferimento alla partecipazione attiva dei gruppi sociali e ridotta ad un formalistico rito elettorale) o di «riforme» (un termine che significa oggi l’esatto opposto di quanto significava in origine e cioè accentramento delle risorse ad esclusivo favore dei ceti dominanti). Ed è anche vero che tutto questo avviene attraverso tecniche comunicative e strategie retoriche ben precise e sperimentate, alcune delle quali molto antiche ma ben adattabili ai tempi nuovi, come la cancellazione del contesto, l’eufemismo, la metonimia, la rimozione e così via. Il problema rimane tuttavia intatto, perché – e Giacché lo spiega molto bene – in questa battaglia non basta una pur necessaria operazione illuministica di rischiaramento delle coscienze e di diffusione massiccia delle informazioni, come vorrebbero semplicisticamente molti critici “liberal” del monopolio o dell’oligopolio della comunicazione, per ristabilire la «verità» e i fatti. Non basta, perché alle spalle di questa massiccia ristrutturazione del nostro orizzonte di significati, al di sopra della sua diffusione su vasta scala, della sua penetrazione nel senso comune e della sua retroazione sui nostri comportamenti e sul nostro ethos, si muove una tendenza culturale di lunga durata e di portata mondiale che va ben al di là delle vicende politiche contingenti. Una tendenza che ingloba ormai non solo i Kombinat informativi di tutti gli orientamenti ma anche quelle voci che pretendono – e a volte si sforzano con sincerità soggettiva – di essere indipendenti ma che finiscono loro malgrado per condividere le parole e le idee dominanti. Quella tendenza profonda, cioè, che dagli anni della svolta “postmodernista” ha completamente modificato il nostro modo di praticare e percepire la storia ma anche il nostro modo di riflettere attorno ai concetti generali, con la conseguenza di alterare in profondità il rapporto dell’uomo “postmoderno” con la realtà stessa, condizionando anche chi questa realtà vorrebbe trasformare 16. È avvenuta, in altre parole, una cesura nell’ambito della sfera ideologica.
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Uno scarto che ha completamente cambiato il terreno di gioco e che, per essere fronteggiato in maniera non subalterna, deve anzitutto essere compreso nella sua natura e nei suoi rapporti con i mutamenti sociali ed economici (il lungo ciclo restaurativo neoliberale ancora in corso) e con quelli politici (la sconfitta netta, nell’ultimo scorcio del XX secolo, del progetto di trasformazione della realtà di cui erano state protagoniste le classi subalterne novecentesche e, più in generale, gli esclusi dal riconoscimento e dallo spazio sacro della civiltà liberale). Genesi del postmodernismo e pensiero della libertà individuale Il postmodernismo si consolida già dalla fine degli anni Sessanta ed emerge in maniera più visibile alla metà del decennio successivo, annunciando un cambiamento culturale drastico nella scena intellettuale euro-americana e poi presso le elite mondiali. Come è noto, sono numerose e non sempre convergenti le definizioni di questa tendenza, sia nel campo dei suoi promotori e sostenitori, sia in quello per noi più interessante dei suoi critici17. Non è chiaro, ad esempio, se il postmodernismo – e già questa definizione generale verrebbe respinta come troppo forte e categorizzante dai postmodernisti stessi – intenda se stesso come «un addio al moderno»18 e cioè come oltrepassamento della modernità e inizio di una nuova epoca storica, oppure se si ponga come dissoluzione di ogni discorso sulla storicità in generale19. È tuttavia evidente come già nella sua autodefinizione si tratti di un d iscorso radicalmente critico nei confronti della modernità, avvertita come una dimensione ormai esaurita o in ogni caso aporetica, non più sostenibile o persino da respingere nella sua sostanza. Si vuole dunque superare il modernismo o comunque manifestare un atteggiamento critico e una radicale insoddisfazione nei suoi confronti. E questa critica, che si esercita sin dall’inizio in una pluralità di ambiti anche molto diversi tra loro, come l’arte, la letteratura, il cinema e infine la filosofia e le scienze umane, sarà come vedremo spietata. Questa tendenza muove da una dimensione estetica per poi debordarne ampiamente. Ci si è accorti ad un certo momento che le trasformazioni che stavano avvenendo in una pluralità di settori – architettura e urbanistica in primo luogo, per poi riversarsi nelle arti figurative e nelle altre discipline – non erano degli spostamenti molecolari e privi di rapporti gli uni con gli altri ma che quel fermento che dalla metà
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degli anni Settanta agitava visibilmente queste sfere culturali aveva qualcosa di comune nei propri fondamenti. C’era cioè un’intenzione o un atteggiamento condiviso, tant’è che ad un certo momento, nel tentare di capire cosa stava avvenendo, si prendeva atto di una trasformazione complessiva: «si è creato in quasi tutto il mondo occidentale un clima che produce correnti di critica al modernismo»20. Consideriamo l’architettura, forse il primo terreno sul quale queste trasformazioni sono state misurate in maniera più definita 21. Si cominciava in quegli anni a costruire in maniera diversa e soprattutto a pensare in maniera diversa la città e la sua organizzazione. Vigevano ancora i canoni dell’architettura modernista, con il suo razionalismo e il suo funzionalismo dalle forme squadrate, essenziali e prive di decorazioni inaugurato dal Bauhaus. Uno stile internazionale che economizzava spazi e risorse e che, in maniera più o meno esteticamente riuscita ma a partire da un’intenzionalità chiara rispetto ad obiettivi sociali e politici ben consapevoli, ha caratterizzato con le sue strutture standardizzate e prive di orpelli e con il massiccio uso di vetro e cemento gran parte dei progetti residenziali di massa in Europa, sia nell’edilizia pubblica seriale che in quella privata. Erano ancora anni nei quali si cercava di pianificare la crescita delle città e la loro organizzazione interna. Le città non crescevano spontaneamente e i poteri pubblici e anche nei piccoli centri gli urbanisti si impegnavano a pensarne la vita futura, individuando funzioni intorno alle quali costruire poli di espansione e organizzarne in maniera razionale e pianificata lo sviluppo22. Ma già negli anni Settanta tutto cambiava. Si rinunciava, in primo luogo, alla pianificazione urbana. La crescita delle città non veniva più guidata e si lasciava che i cambiamenti nella sua struttura avvenissero in maniera spontanea. Che fosse cioè la vita sociale stessa che si svolgeva nelle città a determinare i mutamenti nella forma e nella struttura del tessuto urbano, senza eccessivi schematismi. E di conseguenza – in condizioni economiche molto diverse da quelle della loro storia anche recente – le città cambiavano profondamente e vertiginosamente. I centri storici si spopolavano, perdevano i loro abitanti originari e si riempivano di negozi, uffici, banche, servizi ludici e orientati al consumo. La popolazione residente, almeno nei ceti medio-bassi, veniva espulsa in periferia o nei quartieri residenziali e sostituita dagli attori del terziario e delle nuove professioni. Ecco che oggi, a “gentrificazione” avvenuta, quasi tutte le grandi città italiane ed europee hanno cessato
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di avere un centro storico popolare, dal momento in cui è venuta meno ogni pretesa di pianificazione e organizzazione razionale che mantenesse un equilibrio tra le diverse funzioni della città. Contemporaneamente cambiava il modo di costruire le case e al funzionalismo e razionalismo esasperato si sostituiva uno stile eclettico, saturo di elementi decorativi senza utilità né funzione strutturale, secondo un nuovo approccio di natura prevalentemente estetica che intendeva programmaticamente assecondare (e suscitare) le preferenze soggettive spontanee della committenza e secondo forme di ispirazione sincretistica e citazionista, di forte impatto visivo ma con gli inevitabili rischi di cattivo gusto che tutti oggi possiamo constatare. Sotto la retorica dell’ascolto del desiderio privato e della liberazione da ogni standard dei nuovi bisogni individualizzati – ma anche della creatività, dell’innovazione, dell’anticonformismo rispetto alla norma consolidata e della trasgressione dell’ordine borghese – la nuova tendenza urbanistico-architettonica rompeva lo «stretto legame» che in precedenza «associava il progetto architettonico moderno con l’idea di una realizzazione progressiva dell’emancipazione sociale e individuale su scala dell’umanità»23 e lasciava in tal modo liberi i particolarismi individuali e di ceto, assecondando in sostanza i rapporti di forza sociali nella redistribuzione dello spazio e rinunciando sia al welfare spesso rozzo degli IACP che ad ogni pedagogia estetica. Ma lo stesso atteggiamento di esplicita rivendicazione del primato dell’individuo, con gli stessi rischi di fiancheggiamento indiretto dell’individualismo proprietario e del sovversivismo delle classi dirigenti, sarebbe possibile constatare anche in altri ambiti, come le arti figurative, dove il confine tra uso critico e consapevole dell’iconografia pop da parte dell’artista e fiancheggiamento indiretto del marketing pubblicitario diventa labile24. O in letteratura, dove la commistione tra i generi, la compresenza di registri diversi e il citazionismo, da sperimentazione avanguardistica volta a denunciare la frammentazione dell’identità soggettiva nella società tardoindustriale diventano sempre più spettacolarizzazione fine a se stessa, mentre ogni forma di realismo viene dichiarata impraticabile25. O ancora nella musica, un campo nel quale l’industria dello spettacolo ha saputo abilmente accostare al predominio del pop-rock anglosassone la riscoperta (o l’invenzione) in chiave commerciale delle sonorità etniche e ha portato avanti un’ibridazione tra musica classica e ritmi e forme sonore della canzone novecentesca al limite della pornografia estetica.
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Fatto sta che poco alla volta, all’insegna di questo presunto revival dell’individualismo, avvenivano «gigantesche trasformazioni sociali e psicologiche»26 e mentre «la produzione estetica si è integrata nella produzione di merci in generale» cambiava progressivamente il nostro modo di pensare, di percepire il mondo e metterci in relazione a noi stessi e agli altri. Era in atto insomma un intenso sommovimento culturale, parte integrante di una trasformazione più complessiva, che rendeva pian piano il paesaggio attorno a noi sensibilmente diverso da quello abitato dalle generazioni precedenti – «barocco» in contrapposizione a «classico», dirà alla fine degli anni Ottanta il semiologo Omar Calabrese, per riepilogare i mutamenti nel gusto e nelle forme27 – e determinava un salto di qualità. Finché, «con gli anni Settanta alle spalle, dobbiamo ammettere che il modernismo non trova quasi più risonanza» 28. Sono i ceti intellettuali, come è normale, ad avvertire per primi questo mutamento in atto, a teorizzarlo mettendo ad un certo punto in campo la nozione del «post-»29 o comunque a riflettere sulla crisi del modernismo sollecitando «una presa di congedo dalla modernità» 30. E – cosa decisiva – sono ceti intellettuali in gran parte legati alla sinistra politica euroamericana. Avanguardie che in teoria dovrebbero essere vicine alla classe lavoratrice e ai gruppi subalterni e che anzi si vanno ridefinendo in chiave sempre più radicale, collegandosi con «i vari movimenti controculturali e antimodernisti»31 in auge in quegli anni e spesso criticando aspramente il campo socialista e le organizzazioni tradizionali del movimento dei lavoratori, sia quelle comuniste, sia quelle socialdemocratiche classiche, per la loro condivisione del primato della produzione e dei valori borghesi e per la loro collusione politica “revisionistica” con le forze conservatrici. Essi apprezzano la natura “rivoluzionaria” e trasgressiva di queste novità e percepiscono che le rotture in corso vanno tutte in una stessa direzione e hanno dei caratteri comuni. Attraversano diversi ambiti ma si configurano come una svolta culturale integrale, la quale in tutti i settori investiti sembra spingere verso una messa in discussione e un superamento dei canoni retrogradi e autoritari di un modernismo ritenuto “borghese”. Ad un livello più rarefatto, inizia inevitabilmente un confronto con la modernità e con i suoi assetti filosofici di fondo, con quella «illusione trascendente» 32 di origine hegeliana la quale «spera di totalizzare» i diversi «”giochi linguistici”» in cui è disperso l’essere sociale in una «unità reale» che «si paga a prezzo del terrore». Un confronto che ha natura conflittuale ma che è
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ora, anche per l’orientamento culturale gauchista dei suoi protagonisti, profondamente diverso dall’antimodernismo tradizionale. Esso ha inizio, non a caso, sul terreno della storia. La catastrofe del Novecento e la critica della modernità «Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale: “Auschwitz” confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale. – Tutto ciò che è proletario è comunista, tutto ciò che è comunista è proletario: “Berlino 1953, Budapest 1956, Cecoslovacchia 1968, Polonia 1980” (e la serie non è completa) confutano la dottrina del materialismo storico. – Tutto ciò che è democratico viene dal popolo, e viceversa: il “Maggio 1968” confuta la dottrina del liberalismo parlamentare. Il sociale quotidiano mette in crisi l’istituzione rappresentativa. – Tutto ciò che è libero gioco della domanda e dell’offerta favorisce l’arricchimento generale, e viceversa: le “crisi del 1911 e del 1929” confutano la dottrina del liberalismo economico mentre la “crisi degli anni 1974-1979” confuta la versione postkeynesiana di essa. In questi nomi di eventi – spiegava Jean-François Lyotard – «il ricercatore vede altrettanti segni di un venir meno della modernità» 33. Nella sua autocoscienza filosofica, il postmodernismo nasce da una riflessione sofferta sulla storia contemporanea e sulla natura catastrofica della vicenda novecentesca. Dalla constatazione, cioè, che il Novecento sembra concludersi come il secolo nel corso del quale la libertà individuale è stata coartata e annientata come mai era avvenuto prima. Per tutta una serie di avvenimenti storici e di fenomeni politici – le guerre mondiali, i genocidi e gli stermini, i “totalitarismi” di ogni colore, i nazionalismi e i razzismi e così via –, mai come durante il XX secolo questa libertà, e dunque in fondo anche gli stessi concetti di individuo e di essere umano, erano stati posti tanto a rischio. E praticamente incontrastabile è divenuta l’oppressione esercitata sulla libertà individuale da parte dei grandi organismi collettivi come lo Stato, la nazione, la razza, come il grande capitale monopolistico ma anche il partito o la classe. La possibilità della stessa vita umana, del resto, è stata più volte messa a repentaglio nella maniera più brutale dalla violenza della politica come da quella della scienza e della tecnica e cioè da minacce scaturite dai principali ambiti decisionali ai quali era stata affidata la sorte del mondo nella modernità.
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Nella storiografia e nell’epistemologia delle scienze umane era ancora presupposto diffuso che l’età moderna si configurasse come una promessa rivoluzionaria di emancipazione. In tutti i momenti di snodo di quest’epoca, dal Rinascimento e dalla Riforma protestante fino alle grandi rivoluzioni politiche, al processo di decolonizzazione e alla costruzione del Welfare moderno, come vedremo, veniva percepito in opera il progetto di una liberazione integrale di tutti gli uomini e di tutte le donne e dunque l’affermazione del principio della libertà umana su scala universale. E dalle tradizioni culturali progressiste – il socialismo ma anche quel liberalismo che dal confronto con il radicalismo e il socialismo era uscito nel dopoguerra profondamente innovato – il Novecento era stato a lungo presentato come il tentativo di realizzare questa grande promessa che l’età moderna aveva covato a partire dai propri albori34. Negli auspici dei suoi principali attori, il Novecento aspirava cioè ad essere il coronamento, il compimento della modernità e delle sue utopie e ambiva a incarnare in sé il vertice stesso della civiltà. Adesso, però, si prende improvvisamente atto che proprio nel corso del Novecento questa promessa di emancipazione universale si è rovesciata nel suo opposto: nell’oppressione universale, nella coartazione massima della libertà individuale. Ma non basta: dopo «gli orrori prodotti dai grandi movimenti rivoluzionari»35, per questi osservatori, molti dei quali si collocano nell’ultrasinistra, i confini tra progresso e reazione, destra e sinistra tradizionali, sembrano improvvisamente cancellati e superati da una questione ulteriore. Se il dominio capitalistico in Occidente assume le forme onnipervasive di un controllo sociale che nasce dal mercato, un controllo non meno ferreo sull’individuo viene esercitato in maniera diretta dal socialismo di Stato ad Est, attraverso una forma di dominio che consegna le classi teoricamente emancipate alla tutela delle loro avanguardie o dell’apparato burocratico e senza alcun riguardo per la loro sfera privata36. La contraddizione principale non sembra essere più, dunque, quella tra capitalismo e socialismo ma quella tra la libertà umana da una parte e, dall’altra, quell’atteggiamento ferocemente impositivo, autoritario e produttivistico che capitalismo e socialismo condividono. Un atteggiamento nel quale perciò, al di là di divergenze che si rivelano superficiali, questi due grandi sistemi si equivalgono e si identificano quanto a «repressione e “normalizzazione”»37 e lo fanno già a partire dal comune terreno del lavoro38.
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«Né il liberalismo economico o politico, né i diversi marxismi» escono dal Novecento «senza incorrere nell’accusa di crimini contro l’umanità»39, accusa Lyotard. Come è stato possibile che tutto ciò sia avvenuto? La catastrofe del Novecento è stata un esito accidentale e imprevedibile dovuto a fattori esterni che non siamo riusciti a controllare oppure in qualche modo essa era scontata sin dall’inizio o comunque implicita oppure probabile? C’è un rapporto tra questo esito della modernità e la modernità stessa? E non è in fondo proprio il comune terreno lavorista ed emancipazionista a costituire il peccato originale che rende alla fine intercambiabili quegli attori filosofico-politici, capitalismo e socialismo, che della modernità sembravano contendersi con ferocia il campo? Sono domande legittime: è stato un errore di calcolo, un difetto nell’applicazione di idee giuste, oppure già nel cuore del progetto dell’età moderna, nella pretesa moderna di emancipare tutti gli uomini e tutte le donne, di liberarli da ogni vincolo che ne impedisce l’azione non solo nella sfera privata ma soprattutto in ambito politico, c’era qualcosa di sbagliato? È proprio questa la risposta fornita dagli intellettuali postmodernisti. I quali operano con questo passo una rottura definitiva nell’ambito della sinistra europea di ispirazione o di origine marxiana, alterando il difficile equilibrio tra «legittimazione e critica del moderno» 40 raggiunto a fatica dal socialismo scientifico, e si distaccano sempre più dal terreno della politica per approdare (o retrocedere) rapidamente a quello del giudizio morale e dell’identificazione della democrazia con l’ambito di diritti umani presunti come naturali41. Essi muovono da qui per mettere in discussione la modernità come progetto politico e culturale complessivo, perché per loro il bilancio così negativo di un secolo non può alla fine non rovesciarsi su quella modernità che il Novecento avrebbe dovuto compiere: «il progetto moderno… non è stato abbandonato, obliato, ma distrutto, “liquidato”»42 e «”Auschwitz”» in particolare «può essere preso come un nome paradigmatico» di questa «distruzione». E a partire da questo evento il fallimento del Novecento e delle enormi aspettative da esso suscitate – il “totalitarismo” peculiare di questo secolo – non chiama in causa semplicemente questi ultimi cento anni di storia. Non abbiamo a che fare con la mera degenerazione di idee politiche in sé giuste. Questo fallimento e la conseguente delusione mettono in discussione, semmai, lo stesso progetto moderno. Non basta allora contestare la realizzazione delle idee politiche nel Secolo breve, perché queste idee risalgono a molto tempo prima e attraversano tutta la modernità. È
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dunque la modernità nella sua interezza, probabilmente, ad essere un progetto politico sbagliato e non solo il tentativo storicamente determinato di darle una realizzazione concreta. «È il crimine che apre la postmodernità, il crimine di lesa sovranità, non più il regicidio ma il popolicidio»43: il postmodernismo nasce allora da questa riflessione e dall’esigenza di affermare con forza la libertà individuale in un contesto nel quale essa sembra essere stata sottoposta al rischio di annientamento. È un atteggiamento che ad un primo approccio appare in sé condivisibile e animato dalle migliori intenzioni. Tanto più che esso può capitalizzare a proprio vantaggio un modo di pensare al quale ciascuno di noi è intimamente abituato, perché tutta la cultura della quale siamo intrisi è tesa all’affermazione della libertà. Voleva in effetti la modernità una cosa diversa? Può l’età moderna essere pensata indipendentemente dall’affermazione del concetto di libertà umana e dunque anche di libertà individuale? Esattamente come sostenevano le tendenze progressiste, abbiamo assorbito l’idea di libertà nel corso di diversi secoli di storia europea e proprio in quanto siamo figli della modernità e dei suoi conflitti: per paradosso, quindi, nel momento in cui mette in discussione la modernità in nome della libertà individuale, il postmodernismo può farsi forte proprio di quella educazione alla libertà che è l’eredità del modernismo stesso. Se in apparenza e in linea di principio non dovrebbe esserci tra essi alcuna contraddizione, perché la stessa modernità si identifica con un afflato verso la libertà ed è storicamente un pensiero della libertà umana, in realtà però questa libertà verrà adesso pensata dal postmodernismo in modo molto diverso, dando vita ad un’ostilità insanabile. Progetto moderno e costruzione del concetto di uomo Come lamentava Nietzsche, spirito moderno significa in sostanza «ottimismo»44 e cioè un «predominio della razionalità» e un «utilitarismo pratico e teorico» che sono sinonimo di «democrazia» e dunque, dal punto di vista del suo ribellismo aristocratico, «sintomo di forza declinante, di vecchiaia approssimantesi, di affaticamento fisiologico». Al di là di tutte le cautele gnoseologiche come di tutte le professioni di antidogmatismo, dal dubbio cartesiano al criticismo kantiano, modernità è infatti anzitutto la fiducia nella possibilità della conoscenza umana di comprendere la realtà così come essa è: non una fiducia generica nelle
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capacità conoscitive dell’uomo, che è una cosa scontata, ma la fiducia nella capacità della ragione di comprendere la realtà nella sua stessa essenza, di rendere cioè completamente trasparente il mondo. È quella «tesi del fondamento» secondo la quale «l’intelletto umano in quanto tale, ovunque e ogni qualvolta è in attività, mira subito a scovare il fondamento in base al quale ciò che gli capita di incontrare è così come è»45, una tesi che «risuona» certo da sempre nella filosofia occidentale ma che diviene consapevole per la prima volta, secondo Heidegger, nel momento in cui viene esplicitata da Leibniz. Parallelamente, sul piano pratico l’ottimismo è però anche la fiducia nella possibilità umana di trasformare questo stesso mondo sulla base della conoscenza che la ragione ci ha consentito di acquisire. Poiché la ragione ci permette di comprendere le cose così come stanno, la realtà nella sua natura, a partire da questa conoscenza razionale – che è universale e tendenzialmente uguale per tutti – gli uomini possono cambiare il mondo, trasformarlo e trasformarlo in meglio. Migliorarlo, dunque: imprimere all’essere un movimento in avanti e in tal modo «”migliorare” l’umanità»46, come rimproverava ancora una volta Nietzsche. E migliorare il mondo e l’umanità che in esso vive non significa semplicemente modificarlo nei suoi dettagli, abbellirlo, decorarlo. Significa cambiarlo in profondità, imprimere un mutamento strutturale alla realtà, modificarne gli assetti fondamentali. Significa, in altre parole, rivoluzione: prendere in mano il movimento degli eventi e incidere sulla natura, la storia, la società, la politica, progettando e realizzando un orizzonte di razionalità che valga per tutti e arricchisca le condizioni di esistenza e le forme di coscienza di tutti, comprese quelle classi subalterne o quei popoli che sino a quel momento erano rimasti esclusi o emarginati dal progresso storico. Inizia con l’età moderna, dunque, un movimento del divenire che si intreccia su diversi piani – l’economia, la politica, la cultura… – e che attraversa diversi secoli, innescando un processo nel quale, secondo la celebre definizione di Jürgen Habermas che ho già più volte richiamato indirettamente, si tratta di perseguire un «progetto»47. E questo progetto, che verrà declinato in molti modi e delimiterà un terreno conflittuale, nel quale si confronteranno attori diversi e spinte anche estremamente contraddittorie, è un progetto che con Kant parla dell’emancipazione umana e dell’ingresso dell’umanità nella propria maturità, che parla di libertà e responsabilità48. Emancipare gli uomini e le donne, renderli
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ovunque liberi da quei vincoli molteplici che in precedenza li tenevano legati o li condizionavano e renderli dunque responsabili di se stessi. È corretta in questo senso, pur nella sua incapacità di operare distinzioni, la sintesi di Lyotard: nella modernità, «il sapere non trova la sua validità in se stesso… bensì in un soggetto pratico che si identifica con l’umanità», un soggetto la cui «epopea è quella della sua emancipazione» 49. «L’essenza stessa dell’uomo subisce una trasformazione col costituirsi dell’uomo a soggetto»50, commentava con intento polemico Heidegger. In tal modo, «l’uomo si affranca dai legami medioevali, rendendosi disponibile per se stesso», «si è emancipato dai ceppi precedenti», ed ecco che «il Mondo Moderno, liberando l’individuo ha fatto trionfare il soggettivismo e l’individualismo». La modernità nasce dunque con la costruzione del soggetto moderno e coincide con la liberazione dei suoi bisogni e lo scatenamento dei suoi interessi particolari, interessi che ognuno adesso può perseguire senza remore. Dopo che «tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci»51, avevano infatti già commentato Marx ed Engels, non rimane «tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse» individuale e persino «lo sfruttamento aperto». Ma dopo averli promossi con una potenza mai vista prima, la modernità tende continuamente a fuoriuscire dall’alveo di tali interessi e i «bisogni» che continuano a crescere vanno presto ben oltre il singolo individuo e diventano i bisogni di un’intera epoca. Ciò che viene liberato è infatti anzitutto il lavoro, «l’attività umana» in quanto tale, tanto che mai in precedenza si sarebbe potuto immaginare quali «forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale». E dunque lo sviluppo innescato riguarda sì l’individuo ma anche intere masse umane, così che l’«isolamento» diventa «universale dipendenza», i «prodotti spirituali» diventano «patrimonio comune», nasce la «letteratura mondiale» e mentre svanisce «l’idiotismo della vita rustica» anche «le nazioni più barbare» sono trascinate nella «civiltà», sebbene «cosiddetta». In sostanziale sintonia con queste tesi, Jürgen Habermas spiegava che, almeno nella sua formulazione illuministica, «il progetto moderno… consiste nell’adoperarsi per lo sviluppo delle scienze oggettivanti, delle basi universalistiche della morale, del diritto e della scienza autonoma […] ma nello stesso tempo consiste anche nel liberare dalla loro
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forma esoterica i potenziali cognitivi che così si accumulano, e di usarli per la prassi – cioè per una creazione razionale di tutte le condizioni di vita»52. Questo ci fa capire, anzitutto, che il progetto moderno muove certamente da una dimensione particolaristica ma che nella sua potenza rivoluzionaria si proietta presto al di là di questi limiti. «La modernità amplia a dismisura la sfera di questa libertà che ci definisce»53, commenta oggi De Monticelli, ma amplia anche «la sfera dell’esperienza morale possibile… estende la sfera della nostra possibile relazione alla verità», una verità che almeno in potenza è «accessibile a ogni individuo». Il progetto moderno diventa così un progetto collettivo e pretende di parlare a tutti gli uomini e a tutte le donne, aspirando ad acquisire una portata universalistica. Ci si pone certamente il problema di liberare questo singolo individuo o quest’altro ma nella misura in cui la liberazione di ciascun individuo diventa parte di un compito più complessivo: «il Progresso divenne il progetto dell’Umanità»54. C’è in sostanza l’ambizione di tenere in equilibrio, per quanto sempre conflittuale, la liberazione individuale, personale e di gruppo con quella dell’umanità intera, mettendola con ciò in relazione con la tensione all’idea di eguaglianza. L’idea emancipativa, spiegava Lyotard, «ha un valore legittimante in quanto è universale»55. Ed è per questo che l’emancipazione moderna avviene in primo luogo sul piano politico, che è quel piano sul quale la realtà può essere trasformata nei suoi fondamenti e che tocca, in quanto si colloca in una sfera pubblica, la dimensione dell’universalità. A lungo nella stessa età moderna in molti luoghi la libertà politica non è esistita oppure è stata limitata a ristrette elite della popolazione europea, per non parlare dei rapporti con il mondo extraeuropeo, ed era quindi necessario intraprendere un percorso di liberazione da quei principi di autorità che all’epoca erano riconosciuti come validi ma la cui validità non era affatto così scontata dal punto di vista della ragione. Proprio l’uso collettivo della ragione – quell’elemento che al di là di ogni differenza individuale accomuna tutti noi – farà capire che il potere politico con i suoi vincoli di natura personale, o il primato delle gerarchie religiose, o la servitù della gleba, o lo stesso ossequio nei confronti della cultura tramandata, non sono un dato di natura o una volontà provvidenziale ma il risultato di processi storici legati ai rapporti di forza. In quanto sono frutto delle azioni umane collettive, essi possono dunque essere modificati e devono in qualche modo esserlo, pena l’arretramento o persino il venir meno dello stesso progetto moderno
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per la scissione tra la realtà effettuale e quell’orizzonte ulteriore al quale il richiamo all’universalità tende. Ma in secondo luogo il progetto moderno – e la prepotente spinta etica che emerge di volta in volta dall’adesione allo spirito del tempo lo dimostra – è anche un progetto consapevole. Proprio in virtù del nuovo approccio di natura razionale, gli uomini e le donne si rendono conto del processo nel quale sono immersi mentre esso è ancora in corso. In modo più o meno chiaro, essi sanno ciò che stanno facendo, sanno ciò per cui stanno combattendo e ciò avviene per la prima volta nella storia. Tutte le età umane sono state ovviamente caratterizzate da grandi trasformazioni ma in una dimensione macrostorica queste sono avvenute per lo più in maniera inconsapevole o solo parzialmente riflessa: le cose avvenivano e gli uomini e le donne non sapevano bene perché e come avvenissero, affidando poi ai ceti intellettuali il compito di una ricostruzione ex post. Interviene invece adesso la consapevolezza umana del cambiamento storico e sociale. Si pensa il cambiamento, si progetta il mutamento: la trasformazione storica viene accompagnata dalla coscienza della trasformazione stessa e anzi, a partire da un certo momento, rispondendo a quello che avvertono come un loro dovere, gli uomini e le donne cercano di imprimere una direzione riflessa alla realtà secondo un piano, o meglio secondo un progetto. Si pongono un obiettivo, muovono verso un fine e pretendono dunque di prendere in mano la propria vita, il proprio destino e persino la storia dell’umanità, guidandola lungo un sentiero che abbia un proprio senso. In questo fatto inusitato si esprime per la prima volta in maniera concreta e al livello dell’essenza generica l’ambizione di poter cambiare le condizioni della propria riproduzione. Di non essere cioè condannati a rimanere in balia di eventi incontrollabili, della natura o dei rapporti di forza dati, ma di poter programmare e modellare la storia e la società secondo un ordine razionale, dando vita a trasformazioni consapevoli e trovando in questo compito comune la ragione fondamentale del proprio stare al mondo in società. Infine, questo progetto è un progetto organizzato. Muovendo da una consapevolezza razionale crescente della realtà, gli uomini e le donne capiscono di non poter metter mani individualmente al destino complessivo del mondo. Certamente, come abbiamo visto, l’età moderna è anche l’età della scoperta dell’individuo, della dimensione dell’individualità, oltre che del soggetto cartesiano. Ma un progetto così ambizioso
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come quello dell’emancipazione universale richiama la collaborazione attiva degli uomini e delle donne, una più o meno convinta cooperazione fondata sulla loro comune umanità, come si esprime nel pensiero proto democratico di Spinoza56. E dunque quella stessa consapevolezza e progettualità che definisce il Moderno richiede anche che questo sforzo collettivo, per avere probabilità di successo, non avvenga in maniera improvvisata e spontanea ma venga pianificato e organizzato: in ultima istanza, le idee universalistiche moderne hanno perciò «il fine di legittimare istituzioni e pratiche sociali e politiche»57. Cos’è lo Stato-nazione se non una forma di organizzazione dell’emancipazione umana per via di unificazione? Pur nella sua natura dialettica e conflittuale, lo Stato contiene in sé il tentativo di dare una forma organizzativa coerente al processo di emancipazione universale attraverso il controllo, la regolamentazione e il coordinamento progressivo degli interessi particolari, il cui scatenamento viene eticizzato e reso funzionale al progresso generale. Anzi, si può dire che nel corso dell’età moderna la dinamica fondamentale di questa emancipazione passi anzitutto per la costruzione degli Stati e del loro operare organizzativo, come ancora una volta denunciava Nietzsche58. Il superamento dell’anarchia feudale, come il superamento dei rapporti di dipendenza personale del servo nei confronti del padrone, avvengono in un luogo, in una struttura definita. E questa struttura è quello Stato moderno che consente lo sviluppo del modo di produzione capitalistico: lo Stato nazionale che si raccoglie attorno al re e che poi decapita il re; che si riconosce nella sovranità di un popolo il quale si è emancipato da ogni tutela e si è dotato di organismi politici rappresentativi ma che si è fatto forte di quella unità che il sovrano aveva saputo imporre. E cosa sono stati i partiti politici, per fare un altro esempio significativo, se non delle potenti forme di organizzazione del processo di emancipazione? In particolare, il modello del partito di massa moderno, il partito socialista che nasce alla metà dell’800 per organizzare coloro che sembravano assolutamente non organizzabili, il proletariato di fabbrica e i contadini, è il luogo organizzativo che conduce alla conquista del suffragio universale e dunque il luogo nel quale il processo di emancipazione – dopo la Riforma protestante, la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo, le grandi rivoluzioni politiche e nazionali dal XVII al XIX secolo e così via – prende le forme della democrazia moderna. Un «processo di emancipazione che si sviluppa all’insegna di una universalità sempre più ricca e più concreta»59: è solo così che, nell’allarga-
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mento del riconoscimento reciproco tra individui e gruppi sociali, classi e nazioni, nel conflittuale ma progressivo superamento delle clausole d’esclusione e dei limiti di classe entro i quali necessariamente il progetto moderno si è a lungo dipanato, identificandosi per molti secoli con la prepotente ascesa della borghesia europea –, prende vita l’idea unitaria di umanità, quella «umanità rappresentata come eroe della libertà»60 che viene derisa da Lyotard. Questa «umanizzazione»61, che per noi è oggi una cosa tanto scontata, altrettanto scontata in passato non era, perché il concetto di umanità si costruisce semmai solo nel corso del tempo ed è esattamente l’esito di questo processo di emancipazione, avvenuto in una difficile e sempre contraddittoria ricerca di un equilibrio di interessi. Sappiamo che quando inizia l’età moderna alle popolazioni del Nuovo Mondo appena scoperto e conquistato veniva spesso misconosciuta ogni dignità umana. E sappiamo che ancora nel XIX secolo anche all’interno dell’Europa era dubbio che il grado di umanità fosse lo stesso tra il sovrano o il nobile e il servo della gleba. Lo stesso concetto universale di uomo e di donna è dunque una conquista – ancora non pienamente realizzata, del resto, e nemmeno garantita nella sua persistenza – che si svolge nel corso del tempo. Ed il riconoscimento è, si può dire, la principale acquisizione di quella modernità che cerca di coniugare libertà individuale e tensione universalistica, in quanto sono implicite in esso l’idea di eguaglianza e l’idea di eguale libertà. È in questo senso che la modernità promuove «non solo il controllo delle forze naturali, ma anche la determinazione dell’io e del mondo, il progresso morale, la giustizia delle istituzioni e persino la felicità degli uomini» 62. Catastrofe del Novecento, denuncia della ragione emancipazionista e contestazione della tradizione democratico-rivoluzionaria Comprendiamo allora cosa significhi l’affermazione secondo la quale il Novecento ha aspirato a costituire il compimento della modernità. Quel progetto-promessa di emancipazione universale, consapevole e organizzata significa concretamente democrazia moderna: il culmine di un percorso politico, culturale e morale che deve condurre tutti gli uomini e le donne a riconoscersi vicendevolmente e a governarsi da sé, in piena consapevolezza, senza più il bisogno di un tutore, di un sovrano assoluto, di una classe dominante aristocratica o grande borghese che governi in nome di tutti. In seguito a tremendi conflitti nazionali e sovranazionali
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che determinano un riequilibrio sostanziale dei rapporti di forza tra i gruppi sociali ereditati dal passato, rimossi poi con fatica e anche con la forza i principali ostacoli di natura politica ed economico-sociale, la sovranità popolare si riconosce in se stessa e si autogoverna in maniera consapevole e riflessa, guidata dalla ragione, e in maniera organizzata, attraverso forme politiche definite come i partiti, il parlamento, l’apparato burocratico, lo Stato sociale e così via. È dunque l’affermazione del principio della democrazia moderna che, dando concretezza ai processi di democratizzazione avviati già nel secolo precedente, dopo aver trovato un nuovo equilibrio tra gli interessi sociali deve ora condurre a realizzazione le premesse della modernità63. E comprendiamo di conseguenza anche la portata del bilancio negativo che il postmodernismo proietta sulla modernità a partire dalla propria condanna del Novecento. Se l’epoca del compimento della modernità e dell’istituzione della libertà umana universale nella forma della democrazia moderna si è rivelato il secolo dei campi di concentramento e dei genocidi, il secolo nel quale il dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura è arrivato alle estreme conseguenza e ha messo in discussione l’equilibrio stesso della Terra calpestando ogni forma di rispetto per il vivente, ciò non è avvenuto per caso. Sin dalle sue premesse e dai suoi assetti filosofici fondamentali, la modernità non poteva finire diversamente: essa ha pensato questa libertà in chiave universale e proprio per tale motivo ha finito per coartare la libertà individuale, affidando il processo di emancipazione umana a entità collettive – lo Stato, il partito, la classe, la nazione o la razza – che hanno affermato se stessi ma hanno annientato l’individuo («lo Stato si assume direttamente il compito della formazione del “popolo” in quanto nazione e della sua messa in marcia sulla via del progresso»64). Essa ha inoltre pensato la liberazione in chiave di emancipazione, secondo un archetipo, quello del riconoscimento definito nella figura hegeliana di servo e padrone, che finisce necessariamente per riprodurre ad un diverso livello lo stesso meccanismo di dominio che fondava il potere del padrone. Un modello di riferimento che fa del servo riconosciuto ed emancipato ma ancor sempre rancoroso – come classe borghese ma anche come classe proletaria che esercita la propria dittatura – nient’altro che un nuovo tiranno vendicativo65. La modernità è fallita dunque perché non poteva che fallire e questa catastrofe coinvolge, ma non con pari responsabilità, sia l’utopia liberaldemocratica o capitalistica che quella socialista.
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Nel contestare il progetto moderno, i postmodernisti ne contestano sistematicamente tutte le tappe e gli strumenti fondamentali. Contestano ad esempio i caratteri del soggetto cartesiano, dal quale deriverebbe un dominio totale sull’oggetto, sul mondo e sulla natura ma anche sull’uomo in quanto divenuto oggetto («l’uomo diviene quell’ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L’uomo diviene il centro di riferimento dell’ente come tale»66, notava Heidegger; ma, dirà poi Lyotard, «il dominio del soggetto sugli oggetti ottenuto dalle scienze e dalle tecnologie contemporanee non si accompagna né a maggiore libertà, né a maggiore educazione pubblica, né a maggiore ricchezza meglio distribuita»67 e semmai «la vittoria della tecno scienza capitalistica sugli altri candidati alla finalità universale della storia umana non è che un altro modo di distruggere il progetto moderno dando l’impressione di realizzarlo»). E praticando il «sacrificio del soggetto» 68, essi ridefiniscono di conseguenza il concetto di identità tramite «dissociazione sistematica», dandole un aspetto fluido e cangiante, mutevole e ibrido, del tutto irriducibile al concetto di una presunta essenza generica dell’uomo (dobbiamo riuscire «a non farci assegnare un “io”» 69 ). Ma i postmodernisti denunciano soprattutto il ruolo della ragione, il cui ruolo di «metalinguaggio universale»70 capace di «raccogliere senza residui tutti i significati stabiliti nei linguaggi particolari»71 comporterebbe inevitabilmente la necessità della violenza e del terrore. La ragione ci sollecita ad emanciparci attraverso una rigorosa pianificazione della lotta contro il dominio politico e secondo quei principi universali che sono ormai definiti dalla triade della Rivoluzione francese e dal suo superamento socialista e poi leninista. Ci sollecita a trasformare e migliorare il mondo delineando il progetto del futuro e ci indica anche il dovere di questa trasformazione, pena il laceramento etico in uno stato di contraddizione permanente tra lo spazio di libertà acquisito dal soggetto e dai suoi interessi da un lato e l’orizzonte della libertà universale e del bene comune dall’altro. La «dottrina positiva della liberazione per mezzo della ragione»72, ironizza Berlin, ha la presunzione di dire che il mondo non va e di indicare come esso possa essere un domani migliore di quello che è oggi, delineandone le forme organizzative. Ma il mondo non sta affatto negli schemi che la ragione pretende di applicargli. Possiamo anche arrogarci il diritto di stabilire cosa va bene e cosa va male, possiamo escogitare i nostri piani per una società perfetta e pretendere di costruire la democrazia moderna, o addirittura il socialismo nel qua-
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le tutti gli uomini siano uguali... Ma nella realtà gli uomini non sono affatto uguali: essi sono anzi del tutto differenti. E nel momento in cui pretendiamo di applicare i nostri schemi razionali al mondo umano, con l’ottima intenzione di volerlo migliorare e di voler emancipare tutti, ecco che il mondo sfugge da questi schemi e si ribella, fuoriesce dalla gabbia nella quale la ragione lo vorrebbe imbrigliare e fa resistenza. Ed è così che di fronte alla resistenza del reale la ragione fa violenza al mondo, accusandolo di «complotto contro l’idea»73. Lo martella da tutte le parti per farlo rientrare nelle categorie della propria prigione concettuale perché vuole obbligarlo con la forza a rispettare quel piano attraverso il quale pretende ingenuamente di emancipare un’umanità riluttante. E dà vita in tal modo soltanto ad una nuova costituzione del dominio, dimostrando la propria «affinità o complicità»74 con il totalitarismo. Come commenta David Harvey, la «vigorosa denuncia della ragione astratta» va inevitabilmente di pari passo ad una «profonda avversione per ogni progetto che persegu[a] l’emancipazione umana universale» 75 e la condanna postmodernista del Novecento e della modernità si rivela essere, in realtà, la contestazione della tradizione democratico-rivoluzionaria nel suo complesso. Grandi narrazioni, storia e potere La Fenomenologia dello spirito parla della «coscienza infelice» come di quella figura nella quale «la coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare»76. E questo perché tale coscienza – che è «scissa entro se stessa» in un momento «che si trasmuta per molte guise», in quanto è disperso nella dimensione della particolarità, e in un momento «intrasmutabile» che «le è l’essenza», in quanto costituisce la dimensione dell’universale – «come consapevolezza dell’essenza ha soltanto la consapevolezza del suo contrario, ed è quindi conscia della propria nullità». Da qui la disperata «ascesa» della coscienza, che vuole superare la singolarità nella quale è rinchiusa per giungere alla «riconciliazione tra la sua singolarità e l’universale», un’ascesa che è sintesi magistrale del progetto moderno. La figura di Hegel, infatti, si riferisce direttamente alla scissione tra uomo e dio nell’ebraismo e al suo superamento nel cristianesimo ma è valida su un piano diverso anche per la coscienza moderna. Ed è proprio in virtù di questa dialettica che, secondo il postmodernismo, si
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spiegano le catastrofi del Novecento: l’insoddisfazione per la limitatezza della particolarità genera nella stessa borghesia, e soprattutto presso gli intellettuali, la coazione ad andare oltre il proprio interesse e suscita il tentativo di emancipare gli uomini su scala universale. Ma questa tensione, affermando il principio dell’eguaglianza e pretendendo di realizzarla anche sul piano organizzativo, ha fatto a pugni con la realtà. E così la ragione, come abbiamo visto, nel momento in cui ha preteso di obbligare il mondo e gli uomini ad adattarsi alle proprie mappe dell’universale ha dovuto fare ricorso al terrore. La violenza del Novecento – le sue guerre, i suoi stermini e i suoi “totalitarismi” – è la violenza terroristica di una ragione che, nelle sue forme democratico-rivoluzionarie, si intestardisce a realizzare il progetto universalistico della modernità anche se il mondo non vuole, anche se i singoli individui si ribellano. Ecco allora che bisogna ripensare il progetto della libertà umana e bisogna ripensarlo in maniera completamente diversa e “postmoderna”, ridefinendola come una forma di libertà rigorosamente individuale che dimentichi finalmente il risentimento e la reattività del servo nei confronti del padrone. Non più, dunque, la pretesa politica di emancipare l’umanità ma l’idea che ciascun individuo debba liberarsi da sé e debba, con gioia affermativa e senza più alcuna coscienza infelice – «gioia della molteplicità e della pluralità», un sentimento attivo e affermativo «che non è il risultato di una sublimazione, di una purificazione, di una compensazione, di una rassegnazione, di una riconciliazione»77 –, acquisire una libertà individuale immediata. Ed ecco di conseguenza il passaggio dalla sfera politica al «ritorno dell’etica, della morale»78, intesa come «morale concreta, singola, che si occupa dell’individuo specifico». Nelle parole di uno dei suoi interpreti più importanti, Jean-François Lyotard, il postmodernismo si definisce notoriamente come «l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»79. Sono quei racconti attraverso i quali gli uomini hanno cercato di interpretare il proprio passato, letture e memorie che diventano a loro volta prospettive lungo le quali costruire il futuro ma che nel frattempo funzionano come fonte di legittimazione dei discorsi nell’ambito del sapere e del potere: «emancipazione progressiva della ragione e della libertà, emancipazione progressiva o catastrofica del lavoro (fonte del valore alienato nel capitalismo), arricchimento dell’umanità intera attraverso il progresso della tecnoscienza capitalista… salvezza delle creature attraverso la conversione delle anime al racconto cristiano dell’amore martire»80.
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Di fronte alla storia, noi riflettiamo su quanto è avvenuto e non ci limitiamo ad elencare gli eventi che si sono succeduti ma nel loro corso cerchiamo di individuare un senso, inseguendo un significato sia nei singoli momenti del passato, sia nella vicenda storica nel suo complesso. Cerchiamo cioè di avvicinarci al terreno storico non come ad un campo di eventi indifferenziati e irrelati ma sforzandoci di capirne il nesso, la concatenazione. Cerchiamo non tanto di individuare relazioni di causalità ma di comprendere se il percorso storico abbia o meno un significato ricostruibile nel suo complesso. Abbiamo già visto come questo approccio possa nascere solo con l’età moderna, quando gli uomini conquistano una comprensione razionale della storia e pongono e rinvengono in essa un significato umano, laddove in precedenza era la religione o la teologia ad inserirli nel quadro di una concezione teleologica sovrannaturale del divenire. Dal XIX secolo in avanti, a partire soprattutto da Hegel, cominciano poi a diffondersi le filosofie della storia, con le quali si cerca di cogliere il senso complessivo del movimento storico in maniera sistematica, di comprendere se in esso esista una direzione definita, di «totalizzarla»81 e di teorizzare quale essa sia («esiste una “storia” universale dello spirito, lo spirito è “vita”, e questa “vita” è rappresentazione e formulazione della sua stessa natura, essa si serve della conoscenza organizzata in tutte le sue forme nelle scienze empiriche. L’enciclopedia dell’idealismo tedesco è la narrazione della “storia” di questo soggettovita»82). È anche per questo che ancora oggi, in pieno postmodernismo, noi siamo comunque abituati a concepire la storia in maniera lineare e progressiva. È, quella del progresso, la più diffusa e vituperata ma anche la più resistente delle grandi narrazioni. L’idea della storia come un Bildungsroman, nel quale dalla molteplicità dei fatti abbiamo astratto un senso complessivo e unitario che ci narra il destino dell’umanità ed è riassumibile nel suo travagliato percorso di emancipazione universale 83. Cosa significa allora l’affermazione di Lyotard secondo la quale «la grande narrazione ha perso credibilità… sia che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo»84? Significa che questa ricerca di senso storico, l’idea tipicamente moderna – e condivisa da tutti i grandi movimenti intellettuali, culturali e politici del XIX e del XX secolo – che si possa narrare la storia universale con una sua coerenza e logica interna o quantomeno rintracciando in essa dei nessi definiti, costituisce uno sforzo del tutto vano. Tutti quegli autori o scuole o tradizioni che nel corso storico si sono sforzati individuare un senso
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compiuto hanno fallito sul piano teorico e sul piano pratico. Sul piano conoscitivo e soprattutto sul piano storico-politico, perché, dal punto di vista di Lyotard, sia la grande narrazione progressista borghese-liberale, sia quella socialista, non sono state in grado di realizzare quel progresso dell’umanità che pure hanno così a lungo promesso ma nel XX secolo hanno semmai realizzato l’esatto contrario. Il fallimento dello sforzo teorico di comprendere la storia come una totalità si traduce così nel fallimento pratico dei grandi tentativi di dare alla storia un senso attraverso la politica, l’azione degli Stati, delle nazioni, dei partiti. Per eccessiva bramosia di un lieto fine, si può dire, questo sforzo di narrare la storia e di portarla a compimento ha semmai condotto all’orrore della guerra, alla carneficina e soprattutto all’Olocausto. Ma nell’approccio di Lyotard e dei postmodernisti non si tratta di operare una critica della ragione storica. Non si tratta cioè solo della difficoltà teorica di comprendere il senso unitario della storia a causa della limitatezza cognitiva strutturale della nostra ragione o dell’impossibilità pratica di darle uno sbocco. Si tratta, a monte, del fatto che in se stessa semplicemente «la storia non ha senso» 85, non ha alcun significato, come le vicende del Novecento dimostrerebbero, e dunque «l’idea di una storia come processo unitario si dissolve» 86. «Possiamo oggi continuare a organizzare la ridda degli eventi che ci giungono dal mondo, umano e non umano, collocandole sotto l’idea di una storia universale dell’umanità?»87: non è possibile narrarne il senso complessivo per il semplice fatto che questo senso non c’è. L’ontologia della storia non ha affatto una propria logica. Tantomeno quella logica progressista o in chiave di emancipazione attraverso la quale è stata interpretata dal liberalismo democratico e dal socialismo. La storia non ci parla del conflitto tra servo e padrone ma è semmai il campo sterminato di una pluralità di processi, di dinamiche, di una molteplicità di percorsi che spesso non hanno tra loro alcun rapporto, tanto meno un rapporto di natura causale, ma sono dominati in gran parte dalla casualità e dalla eventualità delle cose: «l’universo non ha scopo… non ci sono fini in cui sperare né cause da conoscere»88, confermava Deleuze. Non esistono percorsi storici con una propria logica e coerenza interna, come ancora oggi viene registrato nel nostro modo retrogrado di fare storia e storiografia, un metodo che ha condotto all’«assassinio dell’istante e della singolarità»89, all’eliminazione della «contingenza» dal terreno della storia. Il percorso dalla formazione dello Stato nazionale
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alla democrazia moderna, per tornare all’esempio fatto prima, è in questo senso un’illusione ottica. Noi individuiamo un cammino di senso compiuto, con un suo obiettivo e una sua finalità – «libertà universale, salvezza dell’umanità tutta intera»90 –, ma questa non è che un’illusione prospettica, legata al fatto che siamo disperatamente costretti a cercare un senso nelle cose. E non potendo farne a meno, manipoliamo i dati, ne distorciamo la lettura e immaginiamo che ci sia un disegno compiuto dove non c’è che una pluralità di processi spesso molto casuali e del tutto privi di teleologia. Anzi, a un livello ancora più elementare, come già da tempo sosteneva l’individualismo metodologico di von Mises e Hayek91, poiché ogni collettivo come lo Stato e la nazione non sono alla fine che un insieme di individui, quel grande corso storico che siamo abituati a concepire come la storia universale non è che una miriade di percorsi individuali, di scelte singolari di fronte alle quali ognuno di noi momento per momento è posto. Per certi aspetti, volendo portare questo discorso alle estreme conseguenze, anche la nostra vita individuale non ha un senso definito ma cambia ogni volta che scegliamo, così che ad ogni decisione noi diamo una direzione diversa alla nostra esistenza. Ecco che, come spiega ancora Harvey, «il postmodernismo galleggia, sguazza addirittura, nelle correnti frammentarie e caotiche del cambiamento come se oltre a queste non ci fosse null’altro» 92. Bisogna «salvare l’istante dall’assuefazione e da ciò che è già connotato»93, salvare l’evento in quanto «inizio», «la meraviglia di ciò che arriva». Impedire che «il punto di vista sovrastorico»94 possa «dissolvere l’avvenimento singolare in una continuità ideale», nel «gioco consolante dei riconoscimenti». E dobbiamo così far «risorgere l’avvenimento» inteso come «Entstehung», sottraendo il suo «rischio singolare» alla «maschera dell’universale». Il campo storico e sociale è dunque il terreno di una pluralità di centri di forza e percorsi che hanno natura individuale e non c’è in essi un senso complessivo che si possa raccontare a posteriori attraverso questa o quella grande narrazione: «la storia universale non conduce sicuramente “verso il meglio”… e non ha necessariamente una finalità universale»95. È chiaro che rispetto all’approccio progressista viene qui portato in primo piano il ruolo della scelta individuale, della libertà dell’individuo, secondo un’intenzione che, ancora una volta, ha trovato ripetutamente in Nietzsche il proprio archetipo96. Mentre nella prospettiva delle grandi narrazioni ci riferiamo a nazioni, Stati, classi sociali, e nelle filosofie della storia addirittura all’umanità nel suo
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complesso, al genere umano come soggetto del divenire, dal punto di vista postmoderno queste affermazioni non hanno alcuna consistenza (tanto più che i «moderni Stati-nazione» diventano solo «un fattore di opacità e di “rumore”» facilmente aggirabile nelle condizioni definite dal nuovo statuto assunto dal sapere informatizzato97): il genere umano si dissolve già in partenza nella pluralità di singoli individui, ognuno dei quali segue un percorso singolarissimo che non può essere coordinato e sintetizzato a quello degli altri. Se «la storia umana come storia universale dell’emancipazione non è più credibile», trae le conseguenze Lyotard, allora «bisognerà rivedere lo statuto del noi»98 e cioè del soggetto, il quale «sembra che sarà condannato… a rimanere particolare» e a cercare perciò «un altro modo di pensare e di agire» rispetto all’orizzonte universalistico della modernità. Del resto, sostiene Gilles Deleuze, se è vero che «la cultura è l’attività generica dell’uomo»99, si tratta pur sempre di «un’attività selettiva» il cui «scopo finale» è «l’individuo» e che pertanto «implica la soppressione della genericità stessa». Da una storia dei grandi collettivi, dunque, a una storia dell’individualità. Anzi, a una molteplicità di storie possibili di ciò che ha a sua volta una pluralità di sensi irrelati. Storie di ciò che è frastagliato, imponderabile, momento epifanico di una serie di eventi senza ragione, con l’effetto paradossale di ripetere, sebbene con intenzione soggettiva diversa, le posizioni ultranominalistiche di un autore come Oswald Spengler, per il quale la storia dell’«umanità» non è alla fine nient’altro che un «zoologisches Geschehen»100. Storiografia postmoderna, dialettica e potere È nel palinsesto televisivo che troviamo, per tanti aspetti, il modello idealtipico della storiografia postmoderna: là dove contenuti, forme e generi diversi sono collocati tutti sullo stesso piano e cioè sul piano di assoluta superficialità della «post-istoricità»101. La storia, la realtà, non è che una collezione di accadimenti e nessuno può stabilire che uno sia più importante o decisivo dell’altro, perché già questa selezione, la volontà gerarchizzante di individuare alcuni livelli più profondi di realtà, nasconde la presunzione della ragione storiografica, tipica delle grandi narrazioni e del pensiero forte, di voler astrarre un senso in ciò che accade e di coordinare gli eventi lungo delle coordinate cartesiane. Ma ogni gesto definitorio è in fondo un atto di tracotanza: gerarchiz-
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zando, categorizzando i fatti, ponendo una scala di valori tra essi, stiamo operando violenza verso la storia e la realtà, laddove dovremmo accontentarci di una presa d’atto della pluralità degli «eventi inaugurali»102 dei quali il corso storico si compone. Ognuno di noi scelga poi liberamente il proprio percorso in questa «vasta collezione di immagini… spogliata di ogni storicità»103, in questa «serie di presenti puri e irrelati nel tempo», ma senza pretendere che la propria proposta interpretativa sia superiore o più legittima rispetto a quella degli altri. La paradossale vicenda della pubblicazione, da parte di un editore italiano dalle pur solide tradizioni, di un grossolano falso storiografico presentato programmaticamente ai lettori come i Diari di Mussolini (veri o presunti) (sic!) – e il dibattito surreale che prosegue anche dopo la presentazione di prove scientifiche che ne demoliscono ogni autenticità – è un esempio particolarmente raccapricciante di questo approccio postmoderno alla storia104. Spiace dirlo ma è in Walter Benjamin, nel Benjamin che anche a partire da Nietzsche si fa interprete della storia e fautore di un nuovo atteggiamento storiografico – «la concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di questo processo deve costituire la base della critica dell’idea di progresso come tale»105 –, che troviamo probabilmente una delle radici che hanno favorito la diffusione di questa distorsione. È un atteggiamento nei confronti della storia che si trova ad esempio in Gilles Deleuze, il quale è diventato uno dei principali punti di riferimento filosofico del postmodernismo e che di questa tendenza ha posto in anticipo le basi teoretiche già nel 1962, con il suo libro su Nietzsche e la filosofia. Deleuze contrappone qui Nietzsche a Hegel – e dunque a Marx e alla tradizione filosofica e politica hegelomarxista –, contrapponendo a loro volta l’idea di differenza a quella di dialettica 106. E dialettica, almeno in quella parte del suo significato che qui Deleuze mette in evidenza e contesta, significa in primo luogo l’idea del movimento storico: l’idea che la storia c’è e si muove, che essa è un processo in divenire. Ma dialettica è anche l’idea che questo processo possa essere compreso nel suo senso ultimo attraverso il concetto. C’è anzitutto una dialettica della realtà, della storia: le cose si muovono da sé mediante il loro urto, c’è una dinamica dell’oggettività che manifesta una propria direzione, un obiettivo, un senso. E noi possiamo comprendere questo senso non perché lo imprimiamo alla realtà dall’esterno ma perché il
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movimento della realtà rivela lo stesso andamento dialettico del nostro pensiero, il quale concresce proprio in inscindibile relazione con la realtà stessa, sviluppando a partire da essa le proprie categorie logiche 107. In Hegel e Marx c’è dunque una corrispondenza tra la nostra razionalità e il movimento immanente alla realtà e alla storia. Secondo Hegel e soprattutto Marx, inoltre, la dialettica della storia si muove secondo contraddizioni oggettive, secondo conflitti oppositivi tra posizioni diverse, dalla cui negazione reciproca scaturisce una crisi, un salto di qualità e un’accelerazione del tempo. E così dal lungo conflitto tra borghesia e aristocrazia nasce il mondo storico-politico dell’800, con il parlamento, la rappresentanza e così via, mentre dal conflitto tra borghesia e proletariato nasce poi la democrazia moderna, lungo una direzione della storia che coincide con il progetto emancipativo della modernità. Attraverso l’idea di dialettica, l’individuo viene perciò inevitabilmente riassorbito, secondo Deleuze, da una dinamica che è molto più grande di lui e si ritrova ad avere un significato storico solo in quanto elemento di questa dinamica. Più in particolare, esso conta solo in quanto si riferisce all’uno o all’altro dei termini che costituiscono la contraddizione di volta in volta vigente e cioè solo in quanto è borghese o aristocratico, proletario o borghese. Il ruolo dell’individuo nella dialettica si riduce perciò a quello di un elemento inessenziale nell’ambito di un movimento storico di tipo oppositivo, rispetto al quale esso è solo un ingranaggio senza autonomia, un «”soggetto conciliato”»108, nel linguaggio di Vattimo. Un ingranaggio, inoltre, che può essere sacrificato in qualunque momento, qualora la logica della contraddizione e dello sviluppo dialettico, che è sin dall’inizio teso teleologicamente all’emancipazione del servo, lo richieda. È quanto dimostrano, secondo Lyotard, gli «effetti totalitari» che questo «modello totalizzante» ha generato «nei paesi comunisti», dove persino le lotte sociali «sono state semplicemente private del diritto all’esistenza»109. Per questo motivo, l’idea di dialettica – che è in fondo il prototipo logico delle Grandi Narrazioni – viene respinta nettamente e il rinnovamento della filosofia auspicato da Deleuze deve sostituirla con l’idea di «differenza»110, scegliendo «l’affermazione differenziale», che è «molteplice e pluralistica», contro quella «opposizione dialettica» con la quale «Hegel volle ridicolizzare il pluralismo», «l’idea pluralistica di una cosa a più sensi», l’«idea di più cose, di un “questo e poi quello” per la medesima cosa». La realtà non è un terreno ordinato secondo una logica oppositiva immanente e nemmeno lo spazio dell’emancipazione universale ma è
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il campo di esposizione di infinite differenze singolari e irrelate. Ogni ente, ma soprattutto ogni individuo, è differente da tutti gli altri e va apprezzato in questa propria individualità e in questa propria differenza. Nella nuova impostazione filosofica che vuole superare la tradizione hegelomarxista, esso conta dunque di per sé e non più in quanto elemento di un’opposizione. Lo sguardo differenzialista consentirebbe così quella valorizzazione delle peculiarità individuali che lo sguardo dialettico ha invece a lungo represso: «sulla soglia dell’essere il negativo svanisce, il lavoro dell’opposizione cessa e incomincia il gioco della differenza» 111, «gioco guerresco… affermazione e gioia della distruzione». E il medesimo atteggiamento si trova con parole diverse anche in Michel Foucault – un altro autore che diventerà un punto di riferimento sia della sinistra estrema che del postmodernismo – a proposito del concetto di potere. Anche per le esperienze maturate nell’ambito della psichiatria e delle carceri, e in generale per il suo studio dell’oppressione degli individui nelle istituzioni totali, per Foucault è infatti decisivo il problema della libertà individuale nei confronti dello Stato e dei suoi meccanismi di controllo e disciplinamento. Egli contesta perciò il ruolo che la modernità ha conferito allo Stato ma contesta in misura non minore la visione marxiana del potere, dello Stato, del rapporto tra individui e collettivi. Contesta cioè «l’economicismo nella teoria del potere»112, considerandolo come una critica del tutto falsa, sostanzialmente analoga alla concezione liberale e dunque complice del potere moderno, al punto di riprodurlo in forme nuove nel momento in cui viene messa in pratica. Secondo la vulgata marxista alla quale egli in effetti fa riferimento 113, il potere politico nasce per via diretta dal potere economico, dal primato dell’economia, per cui il potere dello Stato è espressione pressoché immediata della forza economica di una classe sociale e si configura di fatto come il dominio di una classe sull’altra. Esso è la supremazia che la classe dominante sul piano economico riesce ad ottenere anche sul piano politico e che viene esercitata nei confronti delle altre classi sociali. Lo Stato moderno, lo Stato borghese, è perciò l’organizzazione politica del potere della borghesia, così come lo Stato monarchico era l’organizzazione del potere dell’aristocrazia. Questo comporta il fatto che per rompere il dominio dello Stato, per rompere il blocco di potere vigente, le classi subalterne debbano unificarsi in un collettivo, combattere ed emanciparsi dalla tutela della borghesia. Debbano dunque abbattere lo Stato borghese tramite la lotta di classe e costruire, almeno in una fase
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transitoria, una nuova forma di Stato come espressione della nuova forma di potere che si è imposta, la dittatura del proletariato, riproducendo in tal modo il dominio sull’individuo. Ma secondo Foucault «non c’è, all’origine delle relazioni di potere, e come matrice generale, un’opposizione binaria e globale fra i dominanti e i dominati»114. Il potere non è o non é soltanto il potere di una classe sull’altra: esso è qualcosa che si genera in tutte le forme di relazioni umane a tutti i livelli, «una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale» 115, così che «all’interno della società» si esercitano «molteplici forme di dominazione» ai più svariati livelli: c’è potere dappertutto – in una relazione di coppia, nella famiglia, nelle istituzioni educative… – perché esso ha una natura essenzialmente «microfisica»116. Se dunque il potere è diffuso e disseminato, se esiste un microfisica del potere, allora la liberazione non passa necessariamente per la lotta politica delle classi e dei popoli subalterni contro quelli dominanti e non è costretta ad assumere la forma emancipazionista della volontà rancorosa del servo. La liberazione non riguarda in primo luogo la classe o la nazione ma riguarda semmai ciascun individuo. Il quale ora può liberarsi immediatamente e ovunque, in ogni momento e in ogni piega della società, il cui potere va contestato e sovvertito non solo e non tanto sul terreno dell’economia o della politica ma su quello della libertà individuale e dei diritti civili. Di conseguenza, l’orizzonte della liberazione non è quello della rivoluzione o delle barricate, che porta alla fine a costituire un nuovo «apparato di Stato, con gli stessi meccanismi di disciplina, le stesse gerarchie, la stessa organizzazione dei poteri»117 dello Stato borghese, come è avvenuto con il leninismo e con l’«esperienza sovietica». Questo orizzonte è invece quello in cui ognuno deve prendersi la libertà che è in grado di prendersi a partire da una «molteplicità di punti di resistenza» 118, punti che sono «mobili e transitori» e attraversano tanto «le stratificazioni sociali» quanto le «unità individuali»: «tutti quelli su cui il potere si esercita… possono entrare in lotta là dove si trovano ed a partire dalla loro attività (o passività)»119, dando vita ad «una lotta specifica contro la forma particolare di potere, di costrizione, di controllo che si esercita su di loro». Ogni individuo deve cioè iniziare un percorso di liberazione nella famiglia, nel rapporto tra uomo e donna, nelle diverse istituzioni educative, confrontandosi con le forme di discriminazione, oppressione o condizionamento che di volta in volta incontra. Senza pretendere di
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rovesciarle dialetticamente ma per trovare una possibile libertà a partire da «resistenze che sono… possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali»120 e non sono dunque mai sussumibili sotto una «totalizzazione teorica»121. È in questo senso che, come dirà Gianni Vattimo sostenendo posizioni analoghe, «non c’è una liberazione al di là delle apparenze, in un preteso dominio dell’essere autentico»122 ma c’è semmai «libertà come mobilità tra le “apparenze”». Rovesciamento del postmodernismo: dall’“individualismo” al primato della forza In tutti questi esempi, in Lyotard come in Deleuze e Foucault, è manifesta la volontà di un notevole ridimensionamento delle ambizioni rispetto alle aspirazioni politiche della modernità. La dimensione universalistica e rivoluzionaria del progetto moderno, l’idea di un percorso collettivo di costruzione ed emancipazione del genere umano, in perenne tensione conflittuale con il risveglio della soggettività e dei suoi interessi particolari, viene messa in discussione e l’idea di libertà viene ora interamente centrata sull’individuo e le sue immediate circostanze. Poiché deve rivolgersi a dei collettivi al fine di conseguire un’emancipazione generalizzata e organizzata – «Dio, lo spirito oggettivo, l’umanità, la cultura, o anche il proletariato…»123-, proprio questa tensione universalistica finirebbe infatti per rovesciarsi nell’oppressione totale sull’individuo. Il quale – nell’idea hegeliana, condivisa secondo Lyotard persino da Habermas, della «costituzione di una unità socioculturale in seno alla quale tutti gli elementi della vita quotidiana e del pensiero trovano posto come in un tutto organico»124 – risulta essere sempre e sistematicamente sacrificabile, e spesso anche su vastissima scala, in nome del benessere dello Stato, della nazione, della razza e persino della classe come dello stesso genere umano. Le vicende del Novecento, come abbiamo visto, sarebbero in qualche modo emblematiche di questa catastrofe dell’emancipazione reattiva. Ma è proprio vero che è stata l’idea rivoluzionaria della libertà universale a condurre il XX secolo a questo esito? Oppure la libertà individuale è stata coartata per ragioni diverse, magari perché quella promessa di libertà universale non è stata portata fino in fondo, perché è stata posta ma non mantenuta oppure ancora distorta e usurpata? È davvero la
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dimensione universale della libertà il problema o piuttosto il fatto che questo afflato universalistico, pur rivendicato con tanta enfasi, non si sia effettivamente realizzato o si sia realizzato solo in parte o in maniera incoerente e troppo spesso strumentale? E se il problema fosse davvero la libertà universale, è poi possibile pensare una libertà individuale – la mia libertà, la tua libertà – al di fuori della libertà di tutti e addirittura in contrapposizione a un’idea universale di libertà? È possibile concepire un progetto di emancipazione individuale che, al contrario di quanto ha cercato di fare la modernità, sia completamente sganciato da un percorso di liberazione collettiva e non sia dunque in qualche modo messo in relazione all’idea di eguaglianza? C’è veramente contraddizione tra queste due cose, oppure il postmodernismo, pur muovendo dalle migliori intenzioni, nel tentativo di salvare la libertà individuale finisce per ottenere un esito opposto e per complicare ulteriormente le cose, equivocando l’idea di libertà nell’ambito dell’età moderna, indebolendola e precludendosene ogni realizzazione per il futuro? Cominciamo a sospettare che, nonostante gli ottimi propositi e la grande convinzione ostentata, nel discorso postmodernista e nella sua esaltazione di una libertà individuale immediata ci sia qualche problema. E questo non perché il postmodernismo si soffermi a mostrarci gli aspetti più negativi della modernità e sia dunque responsabile di lesa maestà. Effettivamente, il bilancio postmodernista del Novecento presenta anche aspetti inconfutabili. È innegabile che nel corso di questo secolo siano avvenuti orrori e catastrofi che avrebbero anche potuto essere evitati, così come è innegabile, più in generale, che il progetto moderno di emancipazione comporti in sé dei rischi anche estremamente gravi: è a partire da questa consapevolezza, come è noto, che già prima del postmodernismo si erano sviluppate le analisi critiche di Adorno e Horkheimer125. Pensiamo a quella forza potentissima del nostro tempo che è la scienza. È difficile contestare il ruolo che lo sviluppo della scienza e della tecnica hanno avuto nel corso dell’età moderna e che ancora hanno ai nostri giorni. La nostra stessa vita quotidiana non sarebbe pensabile e nessuno di noi potrebbe ritenere di fare a meno di quegli strumenti e di quelle conoscenze che esse ci hanno messo a disposizione. Oggi noi viviamo una vita media 80 anni mentre agli inizi del secolo la sua durata era molto più limitata e questo ci fa capire quale aumento della qualità della vita, oltre che della sua quantità, la scienza abbia comportato per noi. Però sappiamo al tempo stesso che la scienza moderna ci mette a
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disposizione strumenti di distruzione di massa quali mai sono stati escogitati nel corso della storia umana. Tant’è che nel XX secolo quella stessa scienza che ha debellato malattie endemiche prima incurabili, quella stessa scienza che ha finalmente fatto uscire dal sottosviluppo e dalla miseria miliardi di uomini e donne, ci ha messo nelle mani un potere di distruzione, il potere atomico, che potrebbe annientare ogni forma di vita un numero indefinito di volte, come aveva messo in evidenza anche Günther Anders126. La compresenza di questo elemento di assoluta mancanza di razionalità o di «ratio estraniata»127, che rivela nell’«utopia di Bacone» un inquietante elemento di «dominio», non ci induce però a respingere l’atteggiamento scientifico, con una risposta che sarebbe non solo impraticabile ma ancora più illogica e inconcludente. Ci obbliga, semmai, a comprenderne la natura intrinsecamente dialettica, a indagare il contesto oggettivo nel quale lo sviluppo scientifico si colloca e a porre il problema del controllo razionale (e sociale) di tale sviluppo e dell’attività di ricerca che gli sta a monte. La stessa dinamica dialettica potrebbe essere richiamata a proposito dello Stato moderno. Esso, nella sua costruzione e a lungo anche nel suo funzionamento concreto, ha comportato forme anche inaudite di sopraffazione, oppressione e violenza nei confronti di chi si opponeva alla sua costituzione ma anche nei confronti dei propri stessi cittadini. Dalle poor laws descritte da Marx nel Capitale alla mobilitazione totale delle società civili nella Prima e nella Seconda guerra mondiale sino alle attuali guerre “umanitarie”, gli esempi potrebbero essere innumerevoli. Per non parlare della presenza inquietante e sempre più invasiva della guerra verso altre nazioni, ancora oggi lo Stato moderno comporta tutta una serie di aspetti coercitivi che sono evidenti e in questi ultimi anni persino in crescita, comporta cioè degli elementi di polizia anche feroci: basti pensare alle politiche di discriminazione adottate nei confronti dei flussi migratori, nel momento in cui il benessere occidentale è messo in discussione dalla pressione della povertà o dallo spettro razziale dell’Eurabia. Né è del tutto cessata la funzione di dominio di classe dello Stato borghese, una funzione che anzi oggi viene rilanciata già mediante il ruolo crescente che la ricchezza torna a ricoprire nella sfera pubblica dopo la crisi dei partiti di massa in Occidente. Ma – chiediamoci – sarebbe più garantita la libertà di ciascuno di noi al di fuori di questa forma politica e, più in generale, al di fuori di un sistema codificato di regole e procedure condivise che fornisca una norma agli interessi particolari? Non è lo
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Stato moderno, come abbiamo visto, quel luogo che ha consentito passo in avanti decisivo che è stato l’emancipazione della servitù della gleba? E come difendere oggi i diritti conquistati a fatica dai lavoratori in 150 anni di lotte se non richiamandosi a quelle leggi delle quali proprio lo Stato dovrebbe assicurare il rispetto e delle quali i più diversi comitati d’affari vorrebbero liberarsi? E come regolare diversamente i rapporti tra le diverse nazioni? Si tratta allora di rimuovere ogni forma di organizzazione statale o piuttosto di comprendere i rapporti di forza sociali e geopolitici che alle sue diverse forme possibili soggiacciono, operando da un lato per promuovere al loro interno e al loro esterno equilibri più avanzati che garantiscano condizioni di convivenza sempre meno conflittuali e sempre più cooperative e, dall’altro, per favorire nuove clausole di protezione nel rapporto tra il potere costituito e coloro che sono ancora esclusi128? Ma un analogo atteggiamento critico andrebbe sollecitato allora nei confronti del progetto moderno nel suo complesso, che è anch’esso un progetto dialettico il quale implica una intrinseca «duplicità»129: esso mira all’emancipazione del genere umano ma tale aspirazione, essendo oltretutto un campo di battaglia tra tendenze diverse, non è così scontata e non è nemmeno scevra da rischi ed è semmai continuamente connessa, come ha notato in passato Domenico Losurdo, ad una continua «lotta tra emancipazione e deemancipazione»130. È vero, allora: già «il concetto stesso»131 del pensiero moderno-illuministico nonché le «forme storiche concrete», le «istituzioni sociali a cui è strettamente legato», contengono in qualche modo in sé «il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque». E però al tempo stesso, secondo Adorno e Horkheimer, «la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico» e dunque si tratta non di negare quest’ultimo in maniera indeterminata ma, semmai, di far sì che esso «acco[lga] in sé la coscienza di questo momento regressivo» e dell’«aspetto distruttivo del progresso», e sappia perciò fronteggiarli con lucidità senza abbandonare «ai suoi nemici» la loro denuncia. Pur senza nasconderci la dimensione negativa della modernità, dunque, il fatto che essa – come tutti i grandi processi storici – abbia comportato ricadute anche mostruose in termini di violenza, di uso inopinato della forza e di dolore umano, un bilancio obiettivo del suo significato storico dovrebbe rifuggire da ogni manicheismo. Il Novecento così spesso criminalizzato è stato senz’altro il secolo di due guerre mondiali e di spaventosi genocidi. Ma se guardiamo la realtà con sguar-
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do storico-politico dialettico, ci accorgiamo che nei secoli precedenti le contraddizioni in campo nella società civile e nel rapporto tra questa e il potere erano ancora più gravi e notiamo che massacri e genocidi sono stati perpetrati in passato su una scala ancora maggiore, fatte le debite proporzioni. La storia rimossa del colonialismo europeo, ad esempio, è la storia di massacri e genocidi che sono rimasti spesso sconosciuti, è la storia di popolazioni cancellate dalla faccia della terra e delle quali non è rimasta alcuna traccia perché non hanno avuto storiografi neonietzscheani o nuovi filosofi in grado di riscattarli. E se risaliamo al periodo che precede l’età moderna il quadro non migliora affatto e l’intera storia dell’umanità diventa, per chi si ferma alla sua superficie, il teatro dell’assurdo di una violenza cieca e senza senso132. Non è che prima del Novecento e delle sue rivoluzioni, dunque, il rispetto della libertà individuale fosse più diffuso di quanto sia avvenuto nel secolo appena concluso. Esso era semmai una meta molto più lontana di quanto non sia oggi, perché la condizione dominante è stata a lungo quella della schiavitù e del non riconoscimento reciproco e la maggioranza degli uomini e delle donne ha vissuto per millenni in una condizione di sottomissione. La modernità ha certo comportato prezzi altissimi e ingenti ricadute negative, sino al rischio dell’«autodistruzione»133. Ma nel suo sforzo di formalizzazione del conflitto e di emancipazione universale essa ha rappresentato un progresso netto per l’umanità, tant’è che gli stessi genocidi del colonialismo possono essere oggi minimizzati – in particolare dagli apologeti della tradizione liberale – proprio con l’argomento dell’immaturità del progetto moderno durante il periodo coloniale e di una sensibilità morale che in quella fase era ancora largamente premoderna. Nel suo sforzo rivoluzionario di emancipazione, e in particolare nel corso del Novecento, essa fornisce per la prima volta il terreno per il «superamento delle tre grandi discriminazioni»134 – di razza, di classe e di genere – che hanno caratterizzato l’intera storia dell’umanità. Prendiamo ancora una volta l’idea politica forse più elementare di tutte: l’aspirazione ad emancipare gli uomini e le donne dalla miseria. Nel corso di tutta la propria storia, l’umanità si è dovuta confrontare con la fame, la carestia e la morte per inedia, tant’è che nella nostra memoria profonda è inscritto il retaggio di millenni di sottosviluppo e paura verso il «terzo cavaliere»135. Noi viviamo oggi, invece, in una società nella quale il problema della sussistenza è stato in gran parte risolto. Il Novecento
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è anzi il primo secolo nel quale la carestia è stata debellata, tant’è che abbiamo spesso problemi di sovrabbondanza, di eccesso di ricchezza, di sovraccarico di merci che non riusciamo a consumare in nessun modo e che provocano crisi distruttive come quella che proprio in questo momento è in atto. Ma lo straordinario sviluppo che si è avuto dagli inizi del XX secolo sino ad oggi, uno sviluppo che ha cambiato radicalmente la storia e che è forse molto più grande di quello avvenuto in tutti i millenni precedenti, si è realizzato a vantaggio pressoché esclusivo di una sola parte del mondo. Mentre enormi aree del globo soltanto negli ultimi anni hanno avuto accesso a livelli crescenti del benessere, in altre parti ancora oggi migliaia di bambini muoiono di fame ad ogni giro di orologio e la durata media della vita è ancora molto bassa. Qual è dunque il problema, il fatto che la modernità si sia proposta di emancipare tutti gli uomini dalla fame e dalla carestia – e che nuovi paesi e continenti, a partire dalla Cina a lungo calpestata, pretendano il riconoscimento e approdino finalmente al progetto moderno – oppure il fatto che non ci sia ancora riuscita? Che l’idea di eguaglianza universale rischia di mettere a repentaglio la libertà individuale o che questa eguaglianza non si sia veramente realizzata, tanto che questo ritardo comporta ancora oggi uno spreco in termini di morte e disperazione? In realtà, al contrario di quanto si pensa, «il pensiero postmodernista esclude immediatamente [le voci degli esclusi: donne, minoranze etniche e razziali, popoli colonizzati, disoccupati, giovani] dall’accesso a fonti di potere più universali, ghettizzandole in un’opaca diversità» 136. Se lette a partire da queste considerazioni, posizioni come quella di Heidegger, che i postmodernisti faranno proprie – «con quanta maggior decisione viene intrapresa la caccia volta a imbrigliare le gigantesche energie che consentiranno di coprire per sempre il fabbisogni energetico dell’uomo sulla terra, tanto più misera diviene la capacità dell’uomo di costruire e di abitare nell’ambito di ciò che è essenziale»137 – risultano di un populismo e di un etnocentrismo esasperante. In altre parole, il postmodernismo non comprende o non vuole comprendere che il progetto di emancipazione moderno, nonostante le ambizioni rivoluzionarie novecentesche, non si è affatto realizzato nella sua compiutezza. Come ricordava Habermas, esso rimane tuttora letteralmente «incompiuto»138. Rimuove il fatto che esso è stato realizzato in modo molto parziale, selettivo e distorto: in maniera diffusa nel’Occidente ricco e sviluppato – ma anche qui con notevoli squilibri
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–, molto meno o per niente in quelle parti del mondo la cui povertà è funzionale alla ricchezza dell’Occidente. Lungi dall’aver trovato il suo coronamento, nel progetto moderno permangano perciò irrisolte enormi contraddizioni. Contraddizioni che, è vero, si camuffano molto spesso tramite quel richiamo all’universalità della quale l’Occidente ha preteso di farsi alfiere e la cui esportazione manu militari si fa forte della coscienza morale moderna (pensiamo al richiamo ai diritti universali dell’uomo come premessa dell’ingerenza “umanitaria”, o alla concezione interventista della democrazia, da Wilson fino a Obama, per legittimare la divisione tra spazio sacro della libertà e spazio profano privo di nomos, della quale Lyotard è pure consapevole139). Ma contraddizioni nelle quali, già sul piano logico, il manifestarsi di questo universalismo falso e aggressivo non può essere denunciato diversamente che a partire dal richiamo ad un universalismo pieno e coerente e cioè a partire dal progetto moderno nella sua integralità. Pena la caduta nel cinismo e nell’empirismo volgare di chi non sfugge all’alternativa tra idealismo aggressivo e politica di potenza. Nella sua ossessione di esorcizzare ogni istanza di rivoluzionamento del reale, il postmodernismo condanna invece la modernità nella sua totalità. E pur essendo costretto a farvi continuo riferimento utilizzandola come termine di paragone, non è in grado di distinguerne la dimensione positiva ed emancipativa dalle componenti negative, l’aspirazione autentica all’universalità dall’uso strumentale che di questa viene fatto. Queste «aporie»140 sono ben presenti, come la storia della filosofia sa già sin dalla prima metà del Novecento. Ma nel contestarle il postmodernismo trascina nella propria condanna la modernità in quanto tale, il progetto moderno di emancipazione e riconoscimento nei suoi fondamenti, senza discriminare le diverse e anche opposte spinte e controspinte che se ne contendono il terreno. Non vediamo qui applicato riflessivamente «al processo dell’Illuminismo»141, come diceva Habermas a proposito di Adorno e Horkheimer, «quanto l’Illuminismo ha compiuto nei confronti del mito». Al contrario, in nome del rifiuto totale di una modernità concepita metafisicamente «nel suo complesso»142 come un’epoca omogenea e indifferenziata, il postmodernismo rinuncia alla negazione determinata e compie in tal modo un errore gravissimo. E lo compie perché la crisi della libertà individuale nel corso del Novecento non è dovuta alla carica universalistica della modernità ma semmai alla sua distorsione, all’incapacità di questa epoca storica – a causa del
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prevalere degli interessi particolari dei gruppi sociali in conflitto o di determinate aree geopolitiche e per via delle pesanti clausole d’esclusione e mancato riconoscimento che ancora su di essa gravano – di attingere fino in fondo una forma di universalità reale. Il risultato finisce così per essere l’opposto di quello che il postmodernismo stesso si proponeva di raggiungere. Una volta che questo passo è stato compiuto, infatti, nel momento cioè in cui la nostra libertà individuale viene ripensata come una libertà assoluta, immediata e viene sganciata dalla libertà degli altri, possiamo anche ritenere di essere liberi ma – nei rapporti sociali come in quelli tra le nazioni – abbiamo in realtà posto le premesse per un ritorno allo stato di natura, a quella situazione nella quale vige unicamente la legge del più forte. Se la libertà individuale si compie al di fuori della libertà di tutti, non c’è più argine al dilagare di quegli interessi particolari che la modernità aveva sì stimolato ma ai quali aveva anche cercato (spesso senza riuscirci) di imporre una regola subordinandoli al progresso generale. Rinunciando ad ogni prospettiva di trasformazione del reale, ognuno libera se stesso nella misura in cui ne ha le forze e ognuno si prende tutte le libertà che può, affermando – senza più i sensi di colpa indotti dall’aspirazione all’universalità – la propria libertà anche contro quella degli altri. Nel momento in cui si spezza il nesso moderno tra libertà individuale e libertà universale, ecco che le buone intenzioni del postmodernismo si rovesciano e la pretesa di liberare individualmente ogni uomo finisce per legittimare la guerra di tutti contro tutti, il dominio del più forte sul più debole. È inutile a questo punto prendersela con «razze, popoli, classi, Chiese, Stati… organizzazioni sociali, associazioni, comunità di carattere reattivo»143 che prendono il posto dell’«individuo sovrano»: con l’auspicio di valorizzare l’individuo, il postmodernismo, con tutta la sua serenità e leggerezza, finisce per sancire il potere di pochi e la libertà dei pochi sui molti. L’affermazione della libertà individuale, in sé legittima, deve insomma essere sempre pensata all’interno di un contesto generale, di quel contesto che esattamente la modernità ha elaborato come un progetto di emancipazione collettiva, consapevole e organizzata. Contestando questo progetto in quanto tale, e non solo il suo lato oscuro, il postmodernismo finisce in realtà per mettere a repentaglio quella stessa libertà individuale che pure afferma essergli tanto cara. Esso pretende di rappresentare una posizione ultraindividualistica, di voler valorizzare la libertà individuale contro la libertà universale, ma il suo individualismo
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dimentica di correlarsi all’«eguale dignità delle persone» 144 e si rovescia rapidamente in «individualismo antisociale», «tirannico» e «possessivo». Nella negazione concreta di ogni individualismo, perciò, perché nel momento in cui riemerge la legge di natura l’individuo più forte si afferma ma tutti gli altri individui finiscono per essere sopraffatti. Che ne è allora della libertà individuale? Vale adesso la libertà individuale di un solo individuo o di pochi ma la libertà individuale di tutti viene irrimediabilmente compromessa. In tal modo, proprio come è avvenuto a lungo nella storia del liberalismo145, la declamazione dell’individualismo più estremo si realizza nell’oppressione più feroce dell’individualità, nella «tirannia dei moderni»146. E il presunto individualismo postmoderno si rivela essere, in realtà, un’apologia e una legittimazione del particolarismo che camuffa le proprie radici pre- o antimoderne nella retorica radicale della sovversione di ogni norma costituita. Postmodernismo e restaurazione neoliberale La svolta postmoderna non nasce nel cielo delle idee. Essa, in realtà, è avvenuta in concomitanza di mutamenti più profondi e ha rappresentato l’aspetto culturale di una trasformazione più vasta, che dal terreno dei rapporti di produzione – e dunque delle relazioni sociali di produzione e riproduzione – si è andata diffondendo in tutti i settori della società. In altre parole, negli ultimi decenni sono certamente cambiate le nostre idee ma prima di esse è cambiata la realtà e il postmodernismo costituisce in sostanza il pendant ideologico che ha accompagnato il ciclo neoliberale iniziato a metà degli anni Settanta con la sua «utopia antipolitica»147. Esso costituisce cioè, come ha spiegato Fredric Jameson, la «dominante culturale»148, «il riflesso e la concomitanza di un’ennesima modificazione sistemica del capitalismo», quello della quarta rivoluzione industriale. Non certo un «cambiamento di condizione sociale» 149 ma «un cambiamento nel modo in cui il capitalismo attualmente funziona» e dunque «un diverso modo di pensare ciò che si potrebbe o dovrebbe fare riguardo alla condizione sociale». Giungeva al proprio apice in quegli anni l’ultima tappa delle lotte operaie iniziate nel secondo dopoguerra. E nel mondo capitalistico i rapporti di forza tra le classi dominanti e quelle subalterne raggiungevano il punto di equilibrio più avanzato mai conseguito fino a quel momento, dando
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corpo e sostanza di democrazia a molte delle promesse della modernità. Parallelamente, si avviava al proprio compimento anche il processo di decolonizzazione, con la liberazione nazionale degli ultimi paesi ancora politicamente sottomessi alle ex grandi potenze. Era l’«età dell’oro» descritta da Hobsbawm150, l’esito istituzionalizzato di una richiesta moderna di riconoscimento ed emancipazione universale che veniva da molto lontano. Ma proprio quando in gran parte dell’Occidente questa nuova redistribuzione della ricchezza e del potere definita dal compromesso fordista-keynesiano sembrava porre le premesse per un salto di qualità della convivenza civile all’interno degli Stati e tra le nazioni, cominciava – nel nostro paese come altrove – una drastica inversione di tendenza. Sono cose note e più volte analizzate151. In Italia sono gli anni della riorganizzazione del processo produttivo, con la scomposizione sempre più spinta del ciclo e una sua ancora crescente robotizzazione. La sostituzione dell’economia produttiva con il terziario e una nuova ondata di finanziarizzazione del capitale cominciava a segmentare la classe lavoratrice. Il ricorso a forme di esternalizzazione e poi, quando si apriranno le prime brecce nella circolazione internazionale dei capitali, l’uso massiccio della delocalizzazione, indebolivano fortemente la capacità di resistenza dei lavoratori. Le ritorsioni padronali dirette in aziende come la Fiat e la mobilitazione attiva dei ceti medi dalla parte della proprietà le davano poi il colpo più duro, mentre le conseguenze del nuovo clima sul terreno legislativo non si facevano attendere e veniva sancita la fine della scala mobile. Una rivoluzione tecnologica di portata storica, con l’implementazione dell’informatica, apriva poi scenari nuovi. E la legislazione d’emergenza in risposta al terrorismo, insieme ad una nuova esigenza di decisionismo nei rapporti tra esecutivo e legislativo, erodeva l’equilibrio costituzionale dei poteri nell’ambito politico, dando spazio alle derive neobonapartistiche che tutti oggi possiamo constatare. Cominciava l’applicazione di politiche economiche neoliberiste, incentrate sulla privatizzazione del patrimonio pubblico e su un restringimento dell’intervento dello Stato in economia e giustificate con la crisi della fiscalità e con l’aumento del debito pubblico152. Un nuovo ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, con l’emergere dei monopoli privati, forniva intanto una cornice ideologica ed estetica capace ristrutturare in profondità l’immaginario collettivo e di orientare i gusti e i comportamenti di massa. Il riflusso, che riportava un’intera generazione nella dimensione del privato dopo la sconfitta del ciclo di movimento
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aperto nel ’68 e le ferite del terrorismo, accompagnava questi processi, dando loro una chiara intonazione politica. Nel frattempo, giungeva a conclusione la Guerra Fredda e si apriva uno scenario geopolitico del tutto nuovo, mentre la teoria della «fine della storia» celebrava il ruolo esemplare e pedagogico dell’unica superpotenza imperiale rimasta sulla scena, dettando il Nuovo Vangelo del «Secolo americano». Ne è emerso un mondo molto peggiore, come dimostra l’attuale situazione del mercato del lavoro “postfordista”. Le esigenze della produzione just in time in risposta ad un mercato sempre più segmentato – e le richieste di aumenti crescenti della produttività all’altezza della competitività internazionale in un contesto in cui, soprattutto dopo il 1991, era esplosa la globalizzazione capitalistica – si sono riversate in un’irresistibile coazione alla “flessibilità” della manodopera. Al contratto nazionale di lavoro si è perciò progressivamente sostituito un ventaglio variegato di tipologie contrattuali il cui denominatore comune è quello della precarietà, che non solo nel nostro paese è diventata la parolachiave del nostro tempo. La sostanza del rapporto di lavoro precario consiste ovviamente in una riduzione del costo complessivo della forzalavoro e, sul piano politico, nella sua brutale ri-subordinazione. E la sua conseguenza è quella di un’estensione senza precedenti del controllo capitalistico sulla forza-lavoro stessa, alla quale oggi è impedita a monte ogni autonomia ma che viene lesa adesso anche sul piano della vita individuale e persino della possibilità di elaborare un progetto esistenziale, incapace com’è di difendersi. Si è tornati in tal modo ad uno scenario di tipo ottocentesco, quando – prima del sorgere del movimento operaio organizzato – il lavoratore contrattava individualmente il salario e le condizioni di lavoro con la controparte padronale. E vi si è tornati nelle condizioni peggiori di una competizione orizzontale brutale (aggravata dallo spettro di una guerra razziale latente interna alle classi subalterne) che rende il lavoratore praticamente disarmato e consente solo forme di resistenza di retroguardia153. Il lungo ciclo neoliberale che ha fatto da supporto alla globalizzazione è un fenomeno articolato su molti piani che è difficile sintetizzare in tutti i suoi aspetti e che – a prescindere dalla questione dei rapporti di forza internazionali tra aree geopolitiche e per rimanere sul piano delle politiche sociali – ha molto a che fare, ovviamente, anche con l’inevitabile dialettica tra conflittualità e internità del movimento operaio e delle sue organizzazioni di riferimento nei confronti delle compatibilità
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sistemiche, della produzione, delle regole formali del gioco democratico. Al di là delle sue componenti tecniche o economiche, esso è però un fenomeno che ha avuto un significato fondamentalmente politico, e cioè di risposta alla sfida, essa stessa politica, lanciata dal movimento operaio nel secondo dopoguerra e in particolare negli anni Settanta. Una risposta, inoltre, che anche in seguito alla sconfitta del campo socialista porterà questo movimento ad una bruciante sconfitta nel corso dei 15 anni successivi, revocando il compromesso socialdemocratico e squilibrando nuovamente i rapporti di forza. E costruendo in tal modo le basi delle società “postindustriali” odierne, società nelle quali il conflitto di classe persiste ed è forse ancora più intenso di prima ma viene agito pressoché esclusivamente, in chiave redistributiva e di potere, dall’alto verso il basso, a vantaggio dei ceti dominanti, esattamente come il conflitto geopolitico muove dal centro dell’Impero e dalle sue propaggini subimperiali verso il resto del mondo. Ma – ed è questo il problema principale con il quale ci stiamo confrontando – il processo di precarizzazione del lavoro e della vita, così come tutti gli elementi del “momento neoliberale” ai quali ho accennato, sono stati abilmente elaborati e venduti nei decenni scorsi attraverso la sofistica della flessibilità e dell’autopromozione individuale. Ed essi non avrebbero avuto il successo che hanno riscosso e non si sarebbero affermati senza resistenze significative, come è avvenuto, se non si fossero fatti forti di quella trasformazione della cultura e della mentalità dominante in chiave di individualismo aggressivo e competitivo della quale il postmodernismo si è fatto promotore. Con la sua dichiarazione di esaurimento della modernità, la sua delegittimazione della lotta per il riconoscimento delle classi subalterne154 e con la sua attiva «compressione dei nostri mondi spaziali e temporali»155, esso dimostra così di aver funzionato (e di funzionare ancora) come un elemento egemonico nell’ambito di una vera e propria restaurazione. Libertà privata e libertà politica Se guardiamo alle trasformazioni avvenute negli ultimi 30 o 40 anni, dobbiamo constatare come il raggio delle nostre libertà individuali, così care al postmodernismo, si sia in effetti progressivamente ampliato. Pensiamo a come è mutato contesto familiare dal ’68 ad oggi. È cambiata la struttura della famiglia, in coincidenza con le trasformazioni struttu-
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rali della società, ma è cambiata anche la comunicazione e la dinamica relazionale al suo interno, secondo una crescente liberalizzazione di rapporti che ha reso molto più fluide, se non pressoché inesistenti, le sue gerarchie interne. Lo stesso fenomeno è rintracciabile in altri ambiti, come quello delle istituzioni formative, la scuola e l’università, che hanno in gran parte perduto ogni loro autorità e la cui stessa funzione pedagogica è stata sostituita dai mezzi di comunicazione di massa. Oppure nelle relazioni affettive come in quelle sociali più generali, che si sono moltiplicate potenzialmente all’infinito, grazie anche all’avvento delle comunicazioni globali telematiche, ma hanno anche perso molto in termini di profondità e stabilità. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare rispetto al rapporto tra il cittadino e le istituzioni, come rispetto allo stesso processo di partecipazione alla vita politica attraverso, ad esempio, i partiti, i quali sono ormai privi di ideologie e programmi e, ridotti a comitati elettorali o a strutture leggere e d’opinione, non richiedono più adesioni identitarie totalizzanti. Celebrata la presunta fine delle ideologie, abbiamo insomma oggi la possibilità di scegliere in maniera “postmoderna” e non impegnativa tra una vasta gamma di comportamenti, atteggiamenti e stili di vita equivalenti e privi di qualunque gerarchia o struttura di riferimento, dalle scelte elettorali sino al vestiario, al cibo al tempo libero, sperimentando, come diceva in modo simpatetico Vattimo, «una “significazione diffusa”, che è certo anche meno intensa rispetto all’ideale “platonico” del valore e del significato assoluto, ma anche meno drammatica, più distesamente umana»156. E quel programma che ancora agli inizi degli anni Settanta Foucault riteneva autenticamente “rivoluzionario” – «soppressione dei tabù, delle limitazioni e delle divisioni sessuali; pratica dell’esistenza comunitaria; disinibizione nei confronti della droga; rottura di tutte le interdizioni e di tutte le chiusure attraverso cui si ricostituisce e si riproduce l’individualità normativa»157 – sembra essersi in gran parte realizzato. Ma, contro le intenzioni di Foucault, abbiamo soprattutto una libertà che si esprime nella maniera più diretta e massiccia «fuori della politica»158 e «ai margini della polis» e cioè nella sfera del consumo. È in quest’ambito che noi siamo effettivamente molto più liberi che in passato, perché abbiamo molte più opportunità e le possibilità di scelta sono molto più differenziate. Se la nostra capacità di spesa può essere un limite oggettivo invalicabile alla partecipazione al gioco spettacolare della merce, nessun limite ha però il nostro desiderio e di conseguenza
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il dispiegamento immaginario di questa libertà nel suo accesso ad un mondo che è fatto non solo di beni di consumo ma anche, e in misura non meno determinante, di simboli, valori e investimento emotivo. È un fenomeno tranquillamente ammesso da Lyotard, il quale nota senz’altro che nell’«evoluzione delle interazioni sociali… il contratto limitato nel tempo si sostituisce di fatto all’istituzione permanente nel campo professionale, affettivo, sessuale, culturale, familiare, internazionale come negli affari politici»159. Nel momento in cui «i vecchi poli di attrazione costituiti dagli Statinazione, dai partiti, dalle professioni, dalle istituzioni e dalle tradizioni storiche perdono il loro potere di centralizzazione»160, dunque, accade che «ognuno è rinviato a sé. E ognuno sa che questo sé è ben poco». Si tratta, come si può vedere, di una declinazione delle forme di libertà che si svolge in una dimensione che è fondamentalmente privata. Una dimensione relativa cioè all’individuo e alle sue preferenze personali, preferenze che – almeno per quanto riguarda l’individuo proprietario – si cerca di garantire da ogni ingerenza pubblica o statale e di moltiplicare in connessione con il mercato (il mercato vero e proprio come quello degli stili di vita o della politica). La libertà postmoderna si colloca insomma nell’ambito di quella che solo nominalisticamente Benjamin Constant definiva «libertà dei moderni»161 e cioè nell’ambito del «godimento pacifico dell’indipendenza privata»: «il diritto di essere sottoposto soltanto alle leggi […] di dire la propria opinione, di scegliere la propria occupazione ed esercitarla; di disporre della proprietà e persino abusarne; di andare, venire, senza aver ottenuto il permesso»162 e così via. Un atteggiamento che affida l’attività politica esclusivamente alla rappresentanza e che solo per un tragico errore è stato confuso, in particolare dai giacobini, con la «libertà degli antichi» e cioè con l’esercizio «della sovranità tutta intera» da parte dei cittadini, dando vita a «infiniti mali durante la nostra lunga e tempestosa rivoluzione». Il discorso di Constant è ripetuto nel Novecento da Isaiah Berlin, il quale, come è noto, volendo questa volta evitare l’equivoco implicito nella formulazione del liberale francese, ha indicato questa libertà moderna dimidiata come «libertà negativa», la «libertà da»163. La concezione postmoderna rimane dunque nell’ambito di una concezione della libertà che pretende di essere integralmente liberale164. Ma se questa, almeno in linea di principio, è compatibile con una definizione formalistica e parziale della democrazia come insieme di regole del gioco e protezione nei
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confronti dell’autorità, è invece del tutto insufficiente – come Constant, nel suo tentativo di esorcizzarla, ha dimostrato di aver ben compreso – rispetto alle esigenze della democrazia in senso moderno 165. Di quella democrazia integrale e “rivoluzionaria” che nel secondo dopoguerra – proprio grazie il riequilibrio dei rapporti di forza tra le classi sociali e alla piena emancipazione delle classi subalterne, nonché al processo di decolonizzazione – si sarebbe riempita di contenuti economico-sociali e di partecipazione attiva alla sfera pubblica, suscitando le proteste di Hayek e dei padri del neoliberalismo. Affinché la democrazia moderna continui o ritorni ad avere un senso, è necessaria anche la «libertà positiva», la «libertà di», e cioè quella libertà di agire in senso politico che Berlin e i liberali hanno inteso delegittimare considerandola «virtualmente identica»166 all’autoritarismo. Dopo i grandi cicli rivoluzionari del Novecento, infatti, libertà significa anche e in primo luogo «aspirazione profonda e universale allo status e al riconoscimento»167, oltre che «autogoverno sociale», e dunque la possibilità e capacità di cambiare le cose, il potere di trasformare la realtà che ci circonda attraverso l’intervento attivo dei gruppi di interesse, delle classi sociali, dei popoli. Significa soprattutto il risveglio dei lavoratori e di nazioni intere. Come sappiamo, è questo il cuore stesso della modernità: non si tratta semplicemente di operare una scelta che tocca solo noi stessi o si esaurisce in un rapporto privato e nemmeno di incidere sul mondo in maniera accessoria; si tratta invece di modificarlo in maniera strutturale e dunque di operare politicamente, di affermare una libertà pubblica anche attraverso il conflitto, sebbene un conflitto sempre più formalizzato. E non vale come argomento contrario il fatto che le classi subalterne siano state sconfitte o che proprio questi soggetti un tempo rivoluzionari, privati ormai di ogni autocoscienza autonoma, siano oggi i principali sostenitori o fruitori passivi della visione egemonica postmoderna della libertà. Queste possibilità di libertà positiva, gli orizzonti della nostra libertà reale, si sono oggi effettivamente ampliati assieme ai diritti civili? Oppure l’ossessivo richiamo al godimento di una libertà individuale immediata, che ha assecondato il riflusso nel privato sancendo (e aggravando) l’incapacità delle classi subalterne di agire il conflitto sociale, ne ha nascosto il deperimento? L’impressione è che, ben camuffato sotto la fantasmagoria di una libertà anarchicheggiante che si manifesta principalmente sul terreno immediato del consumo e degli stili di vita – «il postmodernismo è il consumo della pura mercificazione
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come processo»168, commenta Jameson – e abbellito da una retorica individualistica di natura compensativa o dalle ipocrisie del politically correct, il postmodernismo celi, al contrario di quanto promette, un processo di riduzione sostanziale e massiccia degli spazi di libertà. Dietro la superficie di una mancanza di vincoli e regole che ci rende oggi potenzialmente liberi di fare quel che vogliamo a seconda delle nostre capacità di spesa, si nasconde in realtà una forte compressione della nostra capacità di autodeterminazione, perché oggi non siamo più in grado di trasformare il mondo che ci circonda e per certi aspetti nemmeno di pensare le condizioni della sua trasformabilità. Assolutamente liberi di assumere gli stili di vita più diversi e anche improbabili – «il pensiero cessa di essere una ratio, la vita cessa di essere una reazione»169 –, siamo però molto meno liberi delle generazioni “moderne” del recente passato di determinare realmente la nostra vita, di decidere in piena autonomia, di eliminare quei condizionamenti oggettivi che limitano la nostra possibilità di scelta, di cambiare la realtà, di migliorarla. E questo perché non siamo più in grado di confliggere in maniera organizzata in vista della costruzione di un’alternativa politico-sociale. Possiamo perciò essere liberi di vestirci come vogliamo, di orientare a piacimento i nostri gusti sessuali, di scegliere distrattamente tra le infinite offerte del mercato o del palinsesto televisivo. Abbiamo anche letto innumerevoli elogi della figura del flâneur ma non riusciamo nella nostra azione a modificare la realtà e siamo anzi condizionati pesantemente da una struttura che si è ri-naturalizzata e pretende di essere data una volta per tutte, fornendo la base materiale dell’unica ideologia vigente nell’epoca della fine delle ideologie. Abbiamo l’illusione di una libertà individuale infinita ma questa libertà sarà inevitabilmente ristretta nella sfera privata, nel confine del consumo o di scelte individuali che non cambiano assolutamente nulla del mondo che ci circonda, se non addirittura del desiderio e dell’immaginario. E lasciandoci l’illusione di essere liberi per il solo fatto che possiamo cambiare canale, colore di capelli o fidanzata ogni volta che vogliamo, questo mondo continuerà per lungo tempo ad andare avanti come va adesso e continuerà a decidere per noi, rispettando la forma della democrazia ma neutralizzandone la sostanza politica partecipativa. Insomma, la «produzione di bisogni» 170, la «mobilitazione del desiderio e della fantasia», si configurano come una vera e propria «politica della distrazione» e quella presunta rivoluzione costituita dal consumo immediato della libertà e dalla finta trasgressione
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di norme che di fatto non esistono più compensa la realissima dissoluzione di quell’unica rivoluzione che veramente conta sul piano politico. Non si tratta di considerazioni moralistiche. Nella sua declinazione privatistica del concetto di libertà, il postmodernismo è sicuramente l’espressione elaborata e raffinata dell’arricchimento delle società occidentali nel secondo dopoguerra, di quel «rinnovato sviluppo del capitalismo liberale» che ha «valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi»171. Di un accresciuto benessere, cioè, che retroagisce sulla soggettività sollecitando il sorgere di nuovi desideri e bisogni, nuove esigenze che si sovrappongono a quelle primarie ormai soddisfatte e si differenziano in maniera crescente, spingendo ognuno di noi lungo percorsi di vita sempre più individualizzati (e che, come direbbe il marketing contemporaneo, possono essere soddisfatti on demand). Trasformazioni, queste, tutte “moderne” nella loro genesi, che coinvolgono inevitabilmente anche le classi subalterne, emancipandole dalla «morale austera»172 tipica del proletariato tradizionale e spingendole sul terreno della «morale liberale». E che coinvolgono anche gli intellettuali che a queste classi si dicono legati, i quali interpretano giustamente questi mutamenti anche come un esito inevitabile del conflitto sociale avvenuto nei decenni precedenti e del suo successo e cioè come tappe nella conquista di nuovi diritti, rivendicando la legittimità del benessere conseguito e del consumo che ne deriva. L’allargamento delle libertà individuali, delle quali la diffusione della cultura di massa ha rappresentato a lungo un indicatore, dunque, è un fenomeno positivo che non può certamente essere contestato, pena la ricaduta su posizioni antimoderne, aristocratizzanti e reazionarie. Se però l’operazione postmodernista sulla libertà si limita a questo e non si pone il problema della libertà positiva, se il suo obiettivo pressoché esclusivo è la destrutturazione unilaterale del concetto moderno di libertà e non investe la nostra capacità di modificare con efficacia la realtà ma opera anzi attivamente sul piano ideologico affinché questa prospettiva risulti del tutto bloccata, le cose cambiano in maniera drastica. Allora è chiaro che l’operazione postmodernista, con tutte le sue buone intenzioni, si rivela essere essenzialmente un momento ideologico decisivo dell’egemonia neoliberale. Una retorica superficiale della libertà individuale che nasconde un forte restringimento della libertà stessa e dunque una «concezione antipolitica dell’individualismo»173. In questo senso, ha ragione Harvey nel sostenere che proprio a partire dal suo fallimento «il movi-
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mento del 1968», con la sua presunta politicizzazione della sfera privata, «dev’essere visto come il messaggero culturale e politico del successivo passaggio al postmodernismo»174. E Luigi Cavallaro, scandalizzando gran parte della sinistra reducistica, conferma questa impostazione: «a offuscare le velleità normative e pianificatrici dello Stato i movimenti degli anni ‘70 hanno concorso non meno di Friedman e Hayek» 175 e il pensiero oggi dominante definisce «un ordine simbolico che può essere racchiuso nella più celebre delle parole d’ordine che trionfarono nella rivoluzione mondiale del ‘68: “Vietato vietare!”». Possiamo oggi veramente incidere nelle decisioni più importanti che riguardano il nostro paese e il nostro futuro? Possiamo cambiare la realtà, operare in profondità sulle strutture del mondo che ci circonda? Di fronte a problemi concreti che modificano in profondità la nostra vita – pensiamo alle recenti riforme della scuola e dell’università, oppure a questioni ancora più rilevanti come la pace e la guerra – noi non abbiamo più pressoché alcuna possibilità di incidere. Così come, più in generale, non abbiamo possibilità di intervenire all’interno di un quadro politico che, al di là delle differenze tra gli schieramenti, è stato assorbito dal mercato e si è reso sostanzialmente uniforme all’insegna del monopartitismo competitivo. Anche Nadia Urbinati ammette oggi, da una prospettiva liberaldemocratica, che «l’affermarsi dei diritti civili» e «la cultura dei diritti individuali» hanno «liberato gli individui da preesistenti lacci sociali autoritari e gerarchici ma non ha consolidato nuovi vincoli, non ha edificato quella sorta di cemento etico capace di tenere insieme una società di individui autonomi»176, rendendo estremamente difficile «distinguere tra libertà e preponderanza degli interessi privati». Sono perciò del tutto sbagliate, illusorie e fuorvianti le posizioni di chi, anche nelle figure più estreme della soggettività postmoderna dissociata, mercificata e depoliticizzata, individua «processi a volte sorprendenti di affermazione di sé, di cambiamento della propria esistenza» 177, tali da produrre «quegli scarti che la politica dovrebbe evocare e capire», e li interpreta come elementi di una fantomatica alternativa di società degli individui liberati. È in questo senso che per comprendere la genesi del postmodernismo dobbiamo fare riferimento, oltre che all’arricchimento delle società e delle stesse classi subalterne, soprattutto alla sconfitta politica di queste ultime, inserendo questa tendenza in quella «ridefinizione in senso antistatalista della libertà… all’interno della cornice dell’ordine internazio-
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nale della Guerra fredda e del confronto ideologico tra modello liberale e modello comunista»178, come dice ancora, giustamente, Urbinati. È la battuta d’arresto alla quale è andata incontro la concezione moderna della libertà universalizzata dalla tradizione democratico-rivoluzionaria, alla quale proprio queste classi erano prioritariamente interessate e alla quale è indissolubilmente legato il senso della democrazia moderna, il vero problema. Il fallimento del tentativo di portare a compimento il progetto moderno di emancipazione umana tramite una spinta decisiva nel corso del secondo dopoguerra, e in particolare con il ciclo di lotte 1968-77, è il fallimento di un ciclo rivoluzionario vissuto soggettivamente con grande intensità ma sconfitto dalla forza superiore dell’avversario. E questo esito ha spinto gli intellettuali postmodernisti dell’estrema sinistra, e un’intera generazione con loro, a salvare se stessi riversando ora all’interno, in una dimensione tutta privatistica, quel radicalismo che non aveva retto all’urto con la realtà esterna179. E li ha spinti a reinterpretare la libertà positiva in una chiave univocamente negativa che si risolve in ultima istanza nell’anarchismo del consumo, senza accorgersi che quel riflusso che stavano assecondando – «collocarsi in maniera costruttiva nella condizione post-moderna»180, «vivere positivamente quella vera e propria età post-metafisica che è la post-modernità», diceva Vattimo prima della sua estrema svolta “comunista” – era il più efficace fiancheggiamento della rivincita neoliberale. Come hanno spiegato persino Negri e Hardt, «le strategie postmoderniste… che a prima vista appaiono così libertarie, non costituiscono alcuna minaccia, bensì coincidono con le nuove strategie di potere a cui forniscono, anche involontariamente, un importante sostegno!»181. Pago della propria riscoperta della libertà privata e del venir meno di ogni tabu e senso di colpa («vivere senza nevrosi in un mondo in cui “Dio è morto”»182), il postmodernismo rovescia in gioiosa indifferenza la catastrofe della sconfitta delle classi subalterne e della loro acquisita impotenza politica: «la lotta è il mezzo con cui i deboli, in quanto più numerosi, riescono a prevalere sui forti»183, dice Deleuze con nonchalance, seppellendo due secoli di conflitto politico-sociale. Il postmodernismo non si rende conto che il trionfo dell’individualismo privatistico, celebrato come la più autentica “rivoluzione”, è solo la faccia più immediatamente visibile di una tragedia, quella del movimento dei lavoratori, che coincide con la crisi della libertà politica e dunque della stessa democrazia moderna tra le classi e le nazioni, quel luogo di eman-
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cipazione che solo una costante tensione al riconoscimento universale può – anzitutto attraverso il conflitto – nutrire e mantenere in vita. Ed ecco «una nuova egemonia culturale e un rinnovato immaginario popolare, cucinato dalle élite e dalle superclassi a proprio uso e consumo e a feroce difesa dei propri privilegi»184. Ecco cioè, detto con maggiore rigore analitico, una «”struttura del sentimento”… “egemonica”» 185 il cui «compito ideologico» consiste nel «coordinare nuove forme di prassi e abitudini sociali e mentali… con le nuove forme della produzione e dell’organizzazione economica portate alla luce dalla mutazione del capitalismo negli ultimi anni, cioè la nuova divisione globale del lavoro». Distruzione della verità, ermeneutica dell’opinione e paralisi dell’azione politica Dietro la contestazione dell’identità soggettiva, della ragione, dei principi universali e di qualunque dimensione generale, ciò che i postmodernisti mettono in dubbio è in fondo l’idea stessa di verità, l’idea cioè che si possa in qualche modo attingere una verità comune a tutti gli uomini e a tutte le donne. È anzitutto su questo terreno, dissodato a lungo da Nietzsche e poi dalla critica heideggeriana del concetto metafisico di verità186, che il postmodernismo porta il proprio attacco filosofico alla modernità e ai suoi presupposti, rifiutando ogni «modello della profondità»187. La modernità presume che sia necessario emancipare il genere umano perché muove da un’idea di uomo che viene ritenuta essere vera o autentica e per la quale si pretende il riconoscimento generale e il passaggio all’atto: un’idea secondo la quale gli uomini e le donne sono definiti anzitutto dalla loro libertà positiva e devono dunque essere emancipati da quei condizionamenti che pregiudicano tale libertà precludendo loro l’azione. Ma chi stabilisce questo presupposto? Chi – se non quella ragione il cui statuto abbiamo visto essere messo così radicalmente in dubbio – attesta che è davvero questa la verità del concetto di uomo? Se la ragione non costituisce una garanzia, questa verità di fatto non sussiste e anche l’idea di emancipazione del genere umano non è più così scontata. Ecco che il progetto moderno perde il proprio fondamento: se il progetto di emancipazione non si richiama a un’idea di verità che abbia una propria consistenza, ad un concetto di uomo che risponda a dei criteri che abbiano quantomeno una loro verosimiglianza o un
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riconoscimento intersoggettivo, tutto il castello crolla. Ogni possibilità di progettare alcunché e dunque di agire politicamente viene meno o si rivela come una pericolosa forma secolarizzata di escatologia, un atto di fede fanatico se non un delirio proiettivo. E una volta che la questione della verità, in particolare nell’ambito del giudizio pratico, è stata rimossa in una sorta di «scetticismo etico»188, rimane soltanto l’opinione e la sua interpretazione, un rapporto ermeneutico-ludico con la realtà che è stato sterilizzato da ogni connotazione politica. Rimane in altre parole un confronto tra opinioni diverse, ciascuna delle quali non è che «una “mossa” fatta nell’ambito di un gioco»189, di un gioco linguistico nel quale «lo stesso soggetto sociale sembra dissolversi»190 e rinunciando a priori ad ogni pretesa conoscitiva forte rinuncia anche a trasformare la realtà. Rimane, come dice in maniera più suggestiva Vattimo, «la pura esplosione di una libera attività metaforizzante, l’effondersi su ogni cosa della creatività di simboli, di enigmi»191. L’idea di verità è senza dubbio molto pericolosa. Quando si è convinti di conoscere la realtà delle cose, spesso si è anche convinti, in nome di questa conoscenza privilegiata, di poter o dover esportare senz’altro le proprie idee. Nel linguaggio di Lyotard, l’«aspirazione ad una verità unitaria e totalizzante si presta alla pratica unitaria e totalizzante dei gestori del sistema»192. «L’ordine consolidato e i valori comuni»193 trovano «costantemente» nel «vero concepito come universale astratto» il loro «miglior sostegno», conferma Deleuze. E del resto tutte le disavventure dell’universalismo immaturo, che hanno accompagnato le vicende europee dall’espansionismo napoleonico alla Prima guerra mondiale, lo attestano. È vero perciò quello che i postmodernisti sostengono: nel corso della storia – e ancora gli avvenimenti di questi mesi, con questa nuova guerra scatenata nell’indifferenza generale dell’Occidente usurpando il nome della democrazia, lo confermano –, quando un uomo o un’entità collettiva si sono persuasi di possedere la verità, per lo più sono stati anche travolti dalla tentazione di imporre questa propria verità agli altri e di farne artificialmente una verità universale. Soprattutto, come possiamo vedere, se la loro persuasione è sorretta dalla frenesia mistica di chi ritiene di avere una missione religiosa, o di salvezza verso la civiltà o verso i diritti dell’uomo. Nella critica postmoderna all’idea di verità c’è quindi anche questa legittima istanza «antimitologizzante»194: l’esigenza di aggirare «gli elementi di “potenza” dominanti nel pensiero metafisico» 195 e di evitare che in nome di principi o concetti assoluti, della pretesa di
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aver portato a trasparenza l’essenza dell’umanità o del processo storico, si imponga agli altri una volontà particolare che ha però adesso la forza e la violenza dell’universale196. Ma a prescindere dall’errore epistemologico per cui l’universalità viene contestata a partire da ciò che in effetti non è, l’operazione di decostruzione operata dal postmodernismo lascia intatto il problema, perché nel momento in cui si rinuncia all’idea di verità e tutto diviene opinione il pericolo evocato non scompare affatto. Certo, un’opinione è appunto un’opinione. Essa non potrebbe pretendere di valere in maniera assoluta e dunque in teoria ci sono meno rischi che qualcuno, in nome di un’opinione, tenti di imporre le proprie idee agli altri. In realtà però, nel momento in cui non c’è più nessun criterio per stabilire quale sia la verità, ecco che l’opinione più forte, come accade con la libertà individuale immediata, tende ad imporsi su quelle più deboli e quell’«irrazionalismo» con il quale «il pensiero riconquista i propri diritti nei confronti della ragione, che ne era stata investita al fine di soggiogarlo»197 diventa creazione diretta di valori e dunque di gerarchie («volere è creare nuovi valori»198), aprendo «all’arbitrio soggettivo, all’urto degli interessi, alla ricerca di potere, alla guerra fra i diversi dei o demoni, grandi o meschini, che si contendono il dominio delle anime e delle Città»199. Se tutto è confronto di opinioni e ogni opinione vale quanto l’altra, finisce per prevalere non l’opinione vera, quella che risulta più adeguata a qualche criterio, ma quella che – anche sfruttando la propria potenza multimediale o il richiamo a una volontà soprannaturale – è in grado di vincere sulle altre, mentre il postmodernismo non è in grado non solo di opporsi ma nemmeno di cogliere il problema. Come ammetteva già Lyotard, pur non riuscendo a superare questa aporia, le grandi narrazioni sono di fatto sostituite dalla «legittimazione attraverso la potenza», intesa come «prevalere del criterio di performatività» 200. E non diversa mi sembra la difficoltà in cui si imbatte Foucault nel definire la verità come «un insieme di procedimenti regolamentati per la produzione, la legge, la ripartizione, la messa in circolazione ed il funzionamento degli enunciati»201, come «l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere». L’appoggio incondizionato che molti degli intellettuali che sono stati critici verso la ragione dialettica e la tradizione hegelo-marxista danno oggi all’interventismo umanitario, senza accorgersi di rendersi complici della più grande minaccia in atto verso la comune umanità, conferma come non sia affatto vero che nell’orizzonte postmoderno «la
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violenza cambia anche significato»202 e «diventa anch’essa… un termine esplicitamente ermeneutico», come auspicava ingenuamente Vattimo. Ecco allora che il criterio di verità, per quanto problematico e rischioso, continua ad essere imprescindibile. Non c’è alternativa alla ragione e alla sua capacità di valutare se una cosa sia vera o falsa e bisogna perciò respingere il suo «dislocamento» in una «pluralità di sistemi formali e assiomatici»203 puramente convenzionalistici. Mentre la ricerca della verità si deve comunque misurare con la ragione204 – la quale, con tutti quei limiti dei quali siamo ormai consapevoli, è in grado di mostrare in ultima istanza l’intima coerenza o la contraddittorietà delle nostre tesi –, lo stesso non accade infatti con l’opinione. Certamente noi non possiamo pretendere di conoscere la verità assoluta e la filosofia contemporanea ha per fortuna rinunciato per sempre al dogmatismo. Ma proprio per questo motivo non possiamo nemmeno cancellare l’esigenza di conoscere la verità e di perseguirla, in nome di un atteggiamento scettico e ultrarelativistico che sarebbe altrettanto assoluto e altrettanto dogmatico, né possiamo rinunciare all’esigenza di una «fondazione razionale del pensiero pratico»205. Se lo facciamo, ecco che qualunque opinione, liberatasi ormai da ogni tribunale imparziale, può pretendere di richiamarsi a qualunque dio ed ergersi essa sì a verità assoluta e può farlo senza ostacolo alcuno, rovesciando il relativismo in un fanatismo altrettanto pericoloso della verità rivelata e trasformando quella che sembrava un’innocua «questione di gusti»206 in una ben più corposa «questione di forza». Molto più prudente, dunque, rimanere legati a un’idea di verità che va vagliata attraverso la ragione, ovviamente con la consapevolezza che quello che noi possiamo attingere è sempre una conoscenza approssimativa, sempre una conoscenza storica. Con la consapevolezza cioè che, pur anelando a conoscere la verità, pur avendo l’ambizione di conoscere le cose così come sono, siamo comunque degli esseri finiti, limitati, che nascono in un certo momento e si portano addosso tutta una serie di condizionamenti storico-sociali. Ragion per cui – come ben sapevano persino Engels e Lenin, nonostante i postmodernisti lo ignorino207 – il nostro rapporto con la verità è sempre un rapporto approssimativo, è sempre un rapporto di tensione dialettica in base al quale ci sforziamo di arrivare alla verità delle cose ma senza mai arrivare pienamente a dominarne le condizioni. Ma il fatto che la nostra capacità di conoscere la verità abbia una natura storica e in divenire non vuol dire, come vorrebbe il postmoder-
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nismo, che tutto sia uguale a tutto e che ogni opinione sia alla pari di tutte le altre opinioni. Su questo terreno, ciò che decide tra un’opinione e l’altra è la forza, il soft power multimediale o persino la violenza fisica con la quale i sostenitori di questa o quella opinione possono imporla agli altri. Se invece ci manteniamo fermi alla ragione come criterio di valutazione della verità della nostra conoscenza, il conflitto non scomparirà magicamente di fronte all’epifania di una verità sovra storica ma esisterà almeno qualche possibilità in più di gestirlo prevenendo questo esito. Ancora una volta è dunque sul piano pratico che la contestazione filosofica postmodernista della verità mostra le sue conseguenze più gravi e rivela definitivamente il nesso tra questa tendenza e la “rivoluzione conservatrice” neoliberale ancora in corso. Come avviene con la riduzione del concetto di libertà alla sua sola dimensione negativa, infatti, anche la distruzione del concetto di verità approda ad una delegittimazione totale dell’azione politica e porta con sé l’apologia e la rinaturalizzazione dell’esistente con i suoi rapporti di forza dati. La definitiva negazione dell’ottimismo moderno diventa così pessimismo pratico o addirittura «pessimismo storico»208, contrapposto a «tutto il pensiero ottimista e progressista»: non possiamo attingere una conoscenza compiuta del reale o comprenderne il senso complessivo perché la realtà è troppo complicata e multiforme, molteplice e «complessa»209 per essere afferrabile in maniera compiuta, tanto «destabilizzata»210 che non fornisce più «materia per l’esperienza» ma al massimo «per sondaggi e sperimentazioni». Ma questa constatazione mette in crisi la nostra azione nei confronti del mondo e delegittima ogni nostro tentativo di cambiarlo, sancendo la fine della politica e l’intrascendibilità dell’orizzonte di realtà nel quale siamo rinchiusi e facendosi in tal modo foriera di un vero e proprio «nichilismo morale»211, per quanto compensato da continui quanto strumentali richiami a una dimensione trascendente e da ateismi devoti di ogni sorta. Conclusione: postmodernismo come apologia dell’esistente «È in nostro potere, abbiamo la forza e la competenza, per perpetuare il progetto moderno»212 dopo il «fallimento del soggetto moderno», ne abbiamo «il diritto» e «il dovere», chiede retoricamente Lyotard? Ci portiamo ancora dietro la presunzione di poter incidere sul reale, di poter modificare le strutture portanti della società nella quale viviamo. Pretendiamo, attraverso lo sforzo collettivo di uomini e donne in una
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determinata società ed epoca e persino come genere umano, di mutare le condizioni fondamentali della nostra esistenza, vita, convivenza. Pretendiamo persino di dare alla storia quel senso che nella storia già riteniamo di individuare. E continuiamo a vagheggiare grandi trasformazioni sociali, la fondazione di Stati, le rivoluzioni, ripercorrendo le orme di chi ha agito il conflitto per la nascita della democrazia moderna o per le grandi rivoluzioni del XX secolo… Ma se non sussiste la verità e la realtà non può essere conosciuta nei suoi fondamenti, tanto meno essa può essere modificata. E anche quando ci illudiamo di agire su di essa e di influenzarla, essa sta in effetti andando per i fatti suoi e finisce per travolgerci. Mentre crediamo di controllarla ne siamo in realtà controllati. Pensiamo di cavalcarla ma veniamo trascinati dal multiforme darsi degli eventi e dall’eterogenesi dei fini. Anzi, come abbiamo visto, nella pretesa di modificare la realtà facciamo dei disastri inenarrabili, come attestano le grandi catastrofi del Novecento. Bisogna allora operare una «contestazione del primato della politica, una contestazione dell’illusione politica in quanto tale»213, annientare «la concezione politica del mondo». Il fatto è che la realtà non va affatto trasformata: la realtà va accettata così come è e va, al limite, interpretata («l’arte più alta della filosofia»214, dice Deleuze sulla scorta di Nietzsche, è proprio «l’arte dell’interpretazione»). Non dobbiamo sforzarci di cambiarla ma possiamo impegnarci a reinterpretarla continuamente, a ridisegnarne di volta in volta il significato e il profilo. Il nostro percorso di vita nel mondo è un percorso di natura esclusivamente ermeneutica: viviamo dentro un processo continuo di interpretazione e il nostro essere al mondo è interpretazione infinita. L’essere stesso non è altro che «prospettiva»215, «produzione metaforica»216, un infinito gioco di punti di vista e visioni del mondo, che tutte insieme formano un grande, infinito, turbinoso gioco, all’interno del quale ognuno di noi sceglie i propri percorsi senza poterne però fuoriuscire. Se «non possiamo aspirare ad alcuna rappresentazione unitaria del mondo», commenta Harvey, «non dovremmo neppure cercare di impegnarci in qualche progetto globale»217. Non possiamo migliorare né l’essere né l’umanità, dunque, possiamo semplicemente descriverli su un piano di realtà nel quale tutte le prospettive hanno pari dignità e sono intercambiabili e la nostra libertà non è che il nostro dovere – tutto individuale, poco impegnativo e finalmente scevro da sensi di colpa – di interpretare e reinterpretare il mondo e magari di abbellirlo con le nostre capacità decorative. Siamo di fronte, come si vede, ad un rovesciamento
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completo della tesi di Marx su Feuerbach e ad una rivendicazione orgogliosa dell’atteggiamento contemplativo. Tant’è che, nel momento in cui, come dice Vattimo, «la rivoluzione come la guerra è forse un residuo di epoche barbare»218, la principale «linea di resistenza»219 che impegna la nostra «responsabilità» viene da molti degli autori postmodernisti dislocata principalmente nell’«”arte”», la quale – a differenza della ragione – cerca di «testimoniare… l’infanzia dell’incontro» e di rispettare «l’evento». In tal modo, negata ogni «metateoria»220, «non rimane alcuna base per un’azione ragionata» e noi, deprivati di ogni orizzonte ulteriore, «accettiamo le reificazioni e le divisioni… celebriamo le attività di mascheramento e di copertura, tutti i feticismi di località, posizione o raggruppamento sociale». È questo l’esito della contrapposizione deleuziana della differenza alla dialettica, implicito in qualche modo già nella sua genealogia nietzscheana: essa è pensata come estrema esaltazione delle differenze individuali ma in una società aspramente divisa in classi sociali e in un mondo attraversato da uno squilibrio profondo queste differenze sono per definizione differenti anche rispetto alle risorse e al potere che ciascun individuo o ciascuna area geopolitica può conseguire. Di conseguenza, la mera presa d’atto ermeneutica delle differenze – e la simultanea estrapolazione del soggetto dal conflitto oppositivo che si svolge nella società e tra le nazioni – non è che la contemplazione e la trasfigurazione di questi squilibri sociali e globali e conduce direttamente alla loro legittimazione, per quanto ci possiamo sforzare di distorcerne il significato con la nostra retorica dell’«uomo felice, che può volere il ripetersi dell’attimo presente in quanto in esso esperisce la felicità, cioè la coincidenza dell’evento con il senso»221. Tanto più che la tanto rivendicata pietas verso le differenze esclude un loro percorso di unificazione, che è la premessa di ogni conflitto politico-sociale, denunciandola come una reductio ad unum totalitaria e impositiva. E anche in Foucault, del resto, il percorso di liberazione individuale che dovrebbe muoversi entro i vari ambiti della microfisica del potere, oltre a scontare una concezione ancora del tutto metafisica, diventa in sostanza impotenza politica: Foucault rimuove il fatto che, se anche il potere è disseminato, è diverso quel tipo potere che si colloca nell’ambito della sfera privata dal potere politico che può opprimere classi e popoli; e rimuove di conseguenza il fatto che su questo piano la liberazione che si esprime alla fine esclusivamente nell’ambito dei diritti civili o nell’acceso al consumo o persino nell’immaginario
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può benissimo lasciare inalterati i rapporti di forza vigenti e il dominio politico da essi fondato. Il postmodernismo non vede tutto questo perché non si accorge che il problema principale non è quello del conflitto tra libertà e non libertà, o tra libertà individuale e libertà collettiva ma che esiste un problema più profondo di conflitto interno alle diverse forme di libertà, le quali, in determinate circostanze, si possono anche identificare e contraddire in uno stesso soggetto222. E tra le quali è dunque necessario orientarsi e discriminare, muovendo dalla consapevolezza storicamente acquisita che la libertà intesa come azione politica sovraordina tutte le altre sue forme. Il postmodernismo non può farlo perché esso, come avviene già nei diversi ambiti artistici nei quali è sorto a partire dall’architettura e dall’urbanistica, «non si aspetta né desidera alcun effetto ulteriore, alcuna trasformazione utopica protopolitica più ampia»223: come diceva Gianni Vattimo negli anni Ottanta, «l’enfasi sulla progettualità» 224 (e dunque l’idea stessa di rivoluzione) è divenuta per esso «un falso problema» rispetto al compito di istituire un rapporto ermeneutico «con il passato». Torniamo con questo al punto di partenza: quella crisi del comportamento e del linguaggio che manifesta il disagio della cultura e dell’eticità contemporanea. Non sappiamo se, come auspica David Harvey225, il blocco storico definito dall’accumulazione flessibile – o quantomeno i rapporti di forza che lo determinano – sia davvero reversibile e se, come vorrebbe Luciano Gallino, sia pensabile prima o poi dar vita ad un «contromovimento»226. Ma se la crisi nella quale siamo immersi è anche l’esito dell’efficace lavoro di egemonia del postmodernismo sulla mentalità dominante, come ho cercato di argomentare, si capisce che non è affatto possibile rispondere alla distorsione del significato delle parole, alla manipolazione dell’immaginario e all’avvelenamento delle relazioni sociali – «riscattare la sfera del pubblico dall’impero quasi tirannico di un individualismo possessivo e politicamente apatico»227, auspica Nadia Urbinati – unicamente sul piano culturale. Non basta, perché in un orizzonte nel quale ormai tutto è opinione, «esperienza fabulizzata della realtà»228, un discorso di questo genere non sarebbe percepibile diversamente che come un punto di vista tra gli altri, un’interpretazione tra le tante, un simulacro alla Baudrillard: al limite, come una menzogna contro altre menzogne. Quello che sappiamo bene, infatti, è che se la menzogna è divenuta la dimensione più condivisa del discorso pubblico come produzione spettacolarizzata di opinioni intercambiabili e prive di referenti reali –
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«l’indifferenza assoluta a ogni prova del contrario… cioè alla realtà e alla verità»229 di cui parla De Monticelli –, in realtà «la diffusione stessa della menzogna implica l’esistenza di meccanismi sociali in grado di favorirne la produzione e la propagazione»230. È nei «rapporti sociali» che va allora cercata la ragione ultima della fantasmagoria delle opinioni e della «falsificazione del vero» analizzata da Giacché. La produzione industriale della menzogna, con le sue ricadute sul piano dell’ethos individuale e collettivo, è necessaria alla riproduzione della società capitalistica ed è dunque non il frutto della malvagità di qualcuno, né un accidente da rimuovere per assicurare un normale e trasparente funzionamento della società di mercato, ma un elemento strutturale ineliminabile. Essa è indispensabile per trasfigurare l’irrazionalità radicale di questa società. Mentre il carattere essenzialmente «spettacolare» e postmoderno della menzogna e della deformazione delle parole, amplificato oggi dai media, è inscritto sin dall’inizio nella natura feticistica della merce. Nonostante il fallimento conclusivo dell’esperimento situazionista, aveva visto bene dunque Guy Debord, oltre 40 anni fa, quando aveva anticipato il decorso della società dello spettacolo. Ed è per questo che, lungi dall’essere una mera esigenza estetica o morale, il confronto critico con il postmodernismo e «la riconquista delle parole», che è anche la riconquista di un’intera tradizione di idee politiche che appare oggi delegittimata, è oggi «una priorità anche» e soprattutto «politica» ed è dunque sul terreno politico che questa battaglia culturale va combattuta231.
De Monticelli 2010, pp. 11-2. Urbinati 2011, p. XI. 3 Penso alla rilettura che Franco Cordero ha fornito del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani di Giacomo Leopardi (Leopardi-Cordero 2011), a La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Viroli 2010), a Gianfranco Pasquino con Le parole della politica (Pasquino 2010), a Gianrico Carofiglio con La manomissione delle parole (Carofiglio 2010), oppure a al Presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky con il saggio Sulla lingua del tempo presente (Zagrebelsky 2010) e con il dialogo con il direttore di “la Repubblica” Ezio Mauro (Zagrebelsky/Mauro 2011). L’intervento più analitico è però sicuramente Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, di Franca D’Agostini (2010). 4 Basta consultare le uscite del quotidiano “il Foglio” tra gennaio e febbraio 2011, dove per neutralizzare gli effetti mediatici di un recente scandalo di natura sessuale che ha colpito il Presidente del Consiglio italiano sono chiamati in causa Machiavelli, Kant, 1
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Nabokov, Nietzsche, Fumaroli e il Rinascimento italiano e innumerevoli altri autori. Cfr. De Monticelli 2010, p. 60 sgg. 5 Vecchi 2011. 6 Concordo pienamente, a questo proposito, con quanto ha scritto Luigi Cavallaro: cfr. Cavallaro 2010. 7 È quello che in qualche modo fa De Monticelli 2010, risalendo fino a Guicciardini: cfr. p. 25 sgg. Cfr. Urbinati 2011, p. VIII e 20 sgg. Anche Viroli 2010 rischia di prestarsi a questa lettura, sebbene l’autore ricordi come l’Italia sia stata storicamente non solo il laboratorio di numerose forme di tirannide e delle relative teorie ma anche quello dello spirito repubblicano. 8 Cfr. Nietzsche 1981a. 9 Cfr. Rehmann 2009, p. 50 sgg. 10 Ortega y Gasset 1962, pp. 25 e 49. 11 Cfr. Eco 1987, pp. V-XV, per una ricostruzione del dibattito di quegli anni; pp. 3-64 per un’impostazione metodologica. «Dal momento che la presente situazione di una società industriale rende ineliminabile quel tipo di rapporto comunicativo noto come insieme dei mezzi di massa», scriveva Eco, «quale azione culturale è possibile per far sì che questi mezzi di massa possano veicolare valori culturali?» (p. 47). Per la posizione francofortese v. il celebre saggio su “L’industria culturale”, in Adorno-Horkheimer 1966, pp. 126-81. Di Pasolini v. gli interventi critici raccolti in Pasolini 1990. 12 Cfr. Jameson 2007, pp. 63-4; Harvey 1993, pp. 84-5. 13 Cfr. Spinella 1964, p. 26. 14 Cfr. Panarari 2010. 15 Giacché 2011a, pp. 11 e 62 sgg. 16 Jameson 2007, p . 64: «non soltanto le forme controculturali di resistenza o di guerriglia culturale puntuali o locali, ma persino interventi esplicitamente politici… vengono tutti in qualche modo segretamente disarmati e riassorbiti da un sistema di cui essi stessi possono a buon diritto essere considerati parte, dato che non possono distanziarsene». 17 In particolare, faccio riferimento a Harvey 1993, Jameson 2007 e Rehmann 2009. 18 Habermas 1981, p. 15. 19 Cfr. il cap. X di Vattimo 1985, dove si riflette sul senso della «dissoluzione della modernità» e si afferma che «non si potrà uscire dalla modernità pensando di superarla» e cioè reiterando un atteggiamento, quello dell’«oltrepassamento», che è «categoria tipicamente moderna» (p. 174). 20 Habermas 1981, p. 17. 21 Cfr. Harvey 1993, pp. 15 sgg., 89 sgg.; Jameson 2007, pp. 20 e 111-40. 22 Cfr. Azzarà 2009a. 23 Lyotard 1986, p. 120. 24 Harvey 1993, pp. 75, 125, 323, 355. 25 Lyotard 1986, pp. 17 sgg., p. 33. 26 Jameson 2007, pp. 16 e 22. 27 Muovendo da considerazioni prevalentemente estetiche e legate ai mutamenti dell’arte, Calabrese preferisce il termine «età neobarocca» a que1lo di «postmoderno»: cfr. Calabrese 1987, soprattutto pp. 15-24.
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Habermas 1981, p. 15. Lyotard 1986, p. 126. 30 Vattimo 1985, p. 10. 31 Harvey 1993, p. 55. 32 Lyotard 1986, p. 34. 33 Ivi, p. 38. 34 Cfr. le riflessioni sui conflitti delle storiografie in Losurdo 1996, cap. I. 35 Vattimo 1984, p. 13. 36 «L’assolutizzazione ideologica del’interesse del proletariato in interesse generale dell’umanità» conduce ad una «repressione e “normalizzazione degli interessi concreti dei proletari reali», assoggettati «a una violenta opera di omogeneizzazione e di universalizzazione»: Vattimo 1984, p. 17. 37 Ibidem. 38 Alcuni anni fa anche uno storico come Marco Revelli, che non ha avuto relazioni dirette con il postmodernismo, ha sostenuto che le radici dell’elemento «”mostruoso”» del Novecento sono la «sproporzione» e la «macchinizzazione», due elementi tuttavia «s’incrociano… e si fondono… in quel luogo non certo periferico della modernità novecentesca che è, inaspettatamente, il Lavoro con il suo correlato inevitabile, l’Organizzazione». Questa rivelazione, a suo avviso, mette ovviamente in crisi l’«identità della sinistra contemporanea e della sua componente più attiva, il movimento operaio» (2001, p. 34). 39 Lyotard 1986, pp. 122-3. 40 Losurdo 1992, p. 344. 41 Dopo la «caduta di un certo numero di illusioni», dirà Bernard-Henry Levy, «dobbiamo sostituire continuamente dei criteri morali agli schemi politici» e ritrovare «una lotta che è quella dei diritti dell’uomo», al di là della tradizionale divisione di destra e sinistra (in Mura-Pieretti-Galeazzi 1978, pp. 270-1). Il retroterra politico-sociale dei Nouveaux Philosophes è molto vicino a quello del postmodernismo francese. 42 Lyotard 1986, p. 38. 43 Ivi, p. 40. 44 Nietzsche 1988a, p. 9. 45 Heidegger 1991, pp. 15-7. Cfr. Vattimo 1985, p. 50. 46 Nietzsche 1981b, p. 100. 47 Habermas 1981, p. 16; più in generale, Habermas 1991, capp. 1 e 2. Cfr. la risposta di Lyotard in Lyotard 1986, pp. 14-6. Cfr. anche Harvey 1993, p. 27. Per una risposta del postmodernismo italiano v. Ferraris 1985. 48 Cfr., ovviamente, il saggio sull’illuminismo in Kant 1965. 49 Lyotard 1985, p. 66. 50 Heidegger 1989, p. 85. 51 Marx-Engels 1991, pp. 6-11. 52 Habermas 1981, p. 16. 53 De Monticelli 2010, p. 58. 54 Arendt 1987, p. 476. 55 Lyotard 1986, p. 38. 56 Cfr. Rehmann 2009, pp. 63-70. 28 29
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Lyotard 1986, p. 38. Cfr., tra i tanti riferimenti possibili, l’Inattuale su Schopenhauer, in Nietzsche 1981a (il mondo attuale «è avviluppato nelle sciocchezze, e queste, certamente, non sono soltanto dogmi religiosi, ma anche concetti scipiti come “progresso”, “istruzione generale”, “nazionale”, “Stato moderno”, “Kulturkampf ”…»: p. 268). 59 Losurdo 1997, p. 93. 60 Lyotard 1985, p. 59 61 De Monticelli 2010, p. 84. 62 Habermas 1981, p. 16. 63 Cfr. Losurdo 1993a, capp. 7 e 8; Losurdo 1998, p. 30 sgg. 64 Lyotard 1985, p. 60. 65 «L’insinuazione del padrone nello schiavo», dice Lyotard (1986, p. 139). È lo stesso concetto esposto con parole solo apparentemente opposte da Deleuze: «lo schiavo, pur trionfando, non cessa di essere schiavo» (2002, p. 88; cfr. pp. 120-1, 182, 290). 66 Heidegger 1989, p. 86. 67 Lyotard 1986, pp. 38-9. 68 Foucault 1977, pp. 50 e 52. Cr. Vattimo 1984, pp. 22, 29 sgg.; Vattimo 1985, cap. II. 69 Deleuze 2002, p. 301. «Decentramento del soggetto» che equivale ad una «sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato», dice Jameson (2007, p. 31). Cfr. Harvey 1993, p. 75: «la perdita del soggetto alienato sembrerebbe precludere la costruzione consapevole di futuri sociali alternativi». 70 Lyotard 1985, p. 79. 71 Lyotard 1986, p. 103. 72 Berlin, p. 194. 73 Lyotard 1986, p. 88. Come è noto, già Hegel aveva denunciato questo concreto pericolo – che dunque il pensiero dialettico conosce molto bene – nel capitolo della Fenomenologia su “Libertà assoluta e terrore”. Qui la «libertà universale» si rovescia nell’«operare negativo», quella «furia del dileguare» che conduce alla «più fredda e più piatta morte senz’altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di prendere un sorso d’acqua» (Hegel 1988, pp. 129-30). 74 Lyotard 1986, p. 137. 75 Harvey 1993, p. 59. 76 Hegel 1988, pp. 175-6. 77 Deleuze 2002, pp. 26-7; cfr. p. 194. Jameson parla di «un’intensità forte, inebriante o allucinogena» per descrivere questa tonalità affettiva (2007, p. 44). 78 Levy in Mura-Pieretti-Galeazzi 1978, p. 272. 79 Lyotard 1985, p. 6. 80 Lyotard 1986, p. 37. 81 Ibidem. Cfr. Arendt 1987, p. 354 sgg. 82 Lyotard 1985, p. 63. 83 Intellettuali di tutte le tendenze dichiarano comunque unanimi, oggi, che si tratta dell’«ultima ideologia» da dismettere al più presto: cfr. Sole 24 Ore 2011, pp. 2-4. 84 Lyotard 1985, p. 69. 57
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Vattimo 1984, p. 24. Vattimo 1985, p.. 13. 87 Lyotard 1986, pp. 45-6. 88 Deleuze 2002, p. 42. 89 Lyotard 1986, pp. 140-1. 90 Ivi, p. 47. 91 Cfr. Urbinati 2011, p. 64 sgg. 92 Harvey 1993, p. 63; cfr. p. 75 sgg. 93 Lyotard 1986, p. 142. 94 Foucault 1977, pp. 41-7. 95 Lyotard 1986, p. 84. 96 V. Nietzsche 1991, il capitolo La visione e l’enigma, in cui Nietzsche introduce il pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale. Cfr. Nietzsche 1994, p. 248 sgg.; Arendt 1987, p. 298 sgg.; Vattimo 1967, pp. 53-4. 97 Lyotard 1985, p. 14. 98 Lyotard 1986, p. 49. 99 Deleuze 2002, p. 206. 100 Spengler 1981, p. 720. 101 Vattimo 1985, p. 14. 102 Vattimo 1984, p. 78. 103 Jameson 2007, pp. 35 e 44. 104 V. Franzinelli 2011; cfr. Borgonovo 2011. 105 Benjamin 1962, p. 83; cfr. Habermas 1991, pp. 11-6; Vattimo 1985, pp. 16-7. 106 Deleuze 2002, pp. 236-7, 244 sgg. Cfr. Vattimo 1984, p. 23 sgg. 107 Cfr. Losurdo 2001, parte I. 108 Vattimo 1984, p. 29. 109 Lyotard 1985, p. 28. 110 Deleuze 2002, pp. 7 e 26. 111 Ivi, p. 284. 112 Foucault 1977, p. 173. Cfr. Habermas 1991, cap. 10; cfr. Harvey 1993, pp. 64-5, 261 sgg.. 113 Poulantzas 1978, p. 196 sgg.. Poulantzas interpreta la concezione marxista del potere in chiave relazionale e in questo senso rivendica una primogenitura rispetto a Foucault. 114 Foucault 1978, p. 83. 115 Foucault 1977, pp. 13 e 182. 116 Foucault 1976, p. 30. 117 Foucault 1977, pp. 141-2. 118 Foucault 1978, pp. 85-6. 119 Foucault 1977, p. 117. 120 Foucault 1978, p. 85. 121 Foucault 1977, p. 118. 122 Vattimo 1984, p. 11. 123 Deleuze 2002, p. 111. 124 Lyotard 1986, p. 16. 85 86
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Cfr. Adorno-Horkheimer 1966 Cfr. Anders 2003, in particolare la parte IV, Della bomba e delle radici della nostra cecità all’apocalisse. 127 Adorno-Horkheimer 1966, pp. 45 e 50. 128 LosGramsci 129 Adorno-Horkheimer 1966, p. 52. 130 Losurdo 1993a, p. 210. 131 Adorno-Horkheimer, p. 5. Cfr. Losurdo 1991, pp. 181-6; Habermas 1991, pp. 109-34. 132 Cfr. Losurdo 998, pp. 61-2. 133 Adorno-Horkheimer 1966, p. 3. 134 Losurdo 1998, p. 30. 135 Cfr. Ó Grada 2011. 136 Harvey 1993, p. 147. 137 Heidegger 1991, p. 61. 138 Die Moderne. Ein unvollendetes Projekt è il titolo originale dell’intervento di Habermas, pronunciato in occasione del conferimento del Premio Adorno. Cfr. Lyotard 1986, p. 38. 139 Lyotard 1986, pp. 60-1 e 85: «come sapere.. se le guerre condotte dall’istanza singolare in nome dell’istanza universale sono guerre di liberazione o di conquista?». Cfr. Huntington 2000, p. 85: «I non occidentali definiscono occidentale ciò che gli occidentali definiscono universale. Ciò che per gli occidentali è integrazione globale, per i non occidentali è imperialismo occidentale». 140 Habermas 1981, p. 16 141 Habermas 1991, p. 121. 142 Ivi, p. 4. 143 Deleuze 2002, pp. 207-8. 144 Urbinati 2011, pp. XII-XIII e 3. In generale sul concetto di individualismo (in ambito religioso, politico, filosofico ed economico) e la sua storia cfr. i capp. terzo e quarto, che ben mostrano la vera e propria lotta che si svolte attorno ad esso. 145 Cfr. Losurdo 1993b, p. 35. 146 Urbinati 2011, p. 79. 147 Ivi, p. 70. 148 Jameson 2007, pp. 8; cfr. p. 23. 149 Harvey 1993, p. 142. 150 Hobsbawm. 151 Cfr. Azzarà 2009b; Giacché 2011b, p. 31 sgg. Per un’efficace descrizione del passaggio dal fordismo al postfordismo cfr. anche Revelli 1996, pp. 75-.87, 116-30; Revelli 1997, pp. 54-67; Revelli 2001, pp. 110-38. Non altrettanto efficaci mi sembrano le analisi e le proposte di Revelli, il quale condivide in sostanza la lettura catastrofista del XX secolo proposta dal postmodernismo e come abbiamo visto ne individua la prima radice nella natura prometeica delle ideologie del lavoro, invitando la sinistra ad andare «oltre il Novecento». Decisamente preferibili le analisi della transizione all’«accumulazione flessibile» in Harvey 1993, parte II. 125 126
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152 Di una vera e propria (paradossale) «pianificazione liberista» parla Urbinati 2011 a proposito delle politiche economiche degli anni Ottanta, riferendosi al modello angloamericano (p. 70). 153 Su tutto questo sono imprescindibili le analisi contenute in Bauman 2003. 154 La «volontà di farsi riconoscere» non è che «volontà di farsi attribuire i valori comuni di una determinata società»: Deleuze 2002, p. 121. 155 Harvey 1993, p. 295; cfr. p. 347. 156 Vattimo 1984, p. 15. 157 Foucault 1977, p. 59. 158 Urbinati 2011, p. 97. 159 Lyotard 1985, p. 120. 160 Ivi, p. 31. 161 Constant 2005, p. 28. 162 Ivi, pp. 15-8. 163 Berlin, p. 172 sgg. 164 Una cosa è la pretesa, un’altra è però l’efficacia. Come ha mostrato Domenico Losurdo, per lungo tempo nel corso della sua storia il liberalismo non è riuscito ad essere coerente nemmeno rispetto all’enunciazione del primato della libertà negativa, a lungo negata alle classi subalterne come ai “sottouomini” delle colonie, nei confronti dei quali ogni abuso di potere appariva giustificato: cfr. Losurdo 1993b, p. 35 sgg. La stessa incoerenza, che rovescia la presunta rivendicazione dell’individualismo assoluto in una sorta di fiancheggiamento dei rapporti di forza vigenti, e dunque dei gruppi sociali e delle nazioni dominanti, viene scontata dal postmodernismo. 165 Anche Nadia Urbinati (2011) ritiene che la «concezione minimalista della democrazia necessita di una revisione» (14), criticando in parte Berlin e poi la tesi neoliberale di una «libertà dei moderni come libertà dalla politica» (76), rilanciando l’«individualismo democratico» come «effettiva capacità degli individui concreti di operare con autonoma responsabilità nella società» (36). 166 Berlin, p. 198. 167 Ivi, p. 209. 168 Jameson 2007, p. 6. 169 Deleuze 2002, p. 151. 170 Harvey 1993, p. 83. 171 Lyotard 1985, p. 69. 172 Cfr. Losurdo 1992, pp. 194-5 e Losurdo 2001, p. 339n. 173 Urbinati 2011, p. 75. 174 Harvey 1993, p. 56. 175 Cavallaro 2010. 176 Urbinati 2011, pp. 7-9. 177 Sansonetti 2011. 178 Urbinati 2011, p. 60. 179 È un movimento dialettico che, per contrappasso, sembra molto simile a quello esposta da Nietzsche nella Genealogia della morale a proposito della formazione della morale reattiva degli schiavi e che tanti spunti aveva fornito a Deleuze! V. Nietzsche 1988b, pp. 33, 66-7, 102; cfr. Deleuze 2001, pp. 167-9, 192-3
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Vattimo 1985, pp. 19-20. Negri/Hardt 2001, p. 137. 182 Vattimo 1984, p. 26. 183 Deleuze 2002, p. 122. 184 Panarari 2010, p. 5. 185 Jameson 2007, p. 10. 186 Cfr. De Monticelli 2010, p. 100 sgg. Incomprensibile in questa genealogia del nichilismo è l’inserimento di Hegel (p. 116). 187 Jameson 2007, p. 29: i modelli della profondità (di una verità soggiacente da riscoprire ad un livello più profondo rispetto a quanto appare) che vengono respinti in nome di un atteggiamento programmaticamente “superficiale” sono quello «dialettico dell’essenza e dell’apparenza», quello «freudiano del latente e del manifesto», quello «esistenzialista dell’autenticità e dell’inautenticità» e infine «la grande opposizione semiotica tra significante e significato». Cfr. Deleuze 2002, p. 141 sgg.; 154 sgg.; Ferraris 1986, p. 120 sgg.; Vattimo 1984, pp. 19 sgg. e 34; Vattimo 1985, p. 32 sgg. 188 De Monticelli 2010, p. 16. Cfr. pp. 183-5. 189 Lyotard 1985, p. 23. 190 Ivi, p. 74. 191 Vattimo 1984, p. 42. 192 Lyotard 1985, p. 27. 193 Deleuze 2002, p. 155. 194 Lyotard 1986, p. 55. 195 Vattimo 1984, p. 50. 196 L’«assunzione di un “valore” assoluto», ad esempio, significherebbe in ultima istanza «che non si può argomentare nulla contro il terrorismo», dice Vattimo (1984, p. 18). 197 Deleuze 2002, p. 128. 198 Ivi, p. 126. 199 De Monticelli 2010, p. 17. Cfr. anche p. 109: la «tesi di irrazionalità ultima del giudizio di valore» è divenuta nel Novecento «una sorta di senso comune condiviso». 200 Lyotard 1985, pp. 86-8. 201 Foucault 1977, pp. 26-7. 202 Vattimo 1984, p. 40. 203 Lyotard 1985, p. 79. 204 Cfr. De Monticelli 2010, p. 19; cfr. p. 86: «rendere ragione», «cercare giustificazione per qualunque presa di posizione o guidizio o convinzione» 205 De Monticelli 2010, p. 21. 206 Ivi, p. 120. 207 V. Engels 1971, p. 92 sgg; Lenin 1953, p. 110 sgg. 208 Levy in Mura-Pieretti-Galeazzi 1978, p. 251. 209 Lyotard 1986, p. 124; cfr. pp. 132-3. 210 Lyotard 1986, p- 18. 211 De Monticelli 2010, p. 70. Per Vattimo , al contrario, «il nichilismo compiuto è la nostra unica chance»: 1985, p. 28. 212 Lyotard 1985, pp. 52 e 54. 180 181
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Levy in Mura-Pieretti-Galeazzi 1978, p. 269. Deleuze 2002, p. 8. 215 Lyotard 1985, p. 71. 216 Vattimo 1984, p. 36. 217 Harvey 1993, p. 72. 218 Vattimo 1984, p. 14. 219 Lyotard 1986, pp. 150-1. Cfr. le considerazioni di Vattimo sul rapporto tra Andenken heideggeriano, l’arte e il sacro: Vattimo 1984, p. 75 sgg., e i capp. III-VI in Vattimo 1985. 220 Harvey 1993, p. 147. 221 Vattimo 1984, p. 30. 222 Cfr. Losurdo 1993a, p. 118 sgg.; Losurdo 1993b, p. 47 sgg. 223 Jameson 2007, p. 57. 224 Vattimo 1984, p. 9; cfr. p. 14. 225 Harvey 1993, p. 239. 226 Gallino 2011, p. 298 sgg. 227 Urbinati 2011, p. 14. 228 Vattimo 1985, pp. 38. 229 De Monticelli 2010, p. 51. 230 Giacché 2011a, p. 12 sgg. 231 È una consapevolezza che è stata annunciata già da qualche anno (cfr. Luperini 2005) e che va crescendo presso numerosi intellettuali anche di estrazione diversa: cfr. De Monticelli 2010, p. 163: «La partita aperta contro lo scetticismo pratico non è affatto solo teorica. È soprattutto pratica, cioè – oggi e qui – politica»; anche chi si richiama a Tocqueville, poi, auspica oggi una «riaffermazione del valore dell’eguaglianza» e «politiche di redistribuzione e politiche del riconoscimento» (Urbinati 2011, p. 15). Del resto, persino chi in passato aveva aderito con entusiasmo al postmodernismo e aveva aspramente criticato il «neoilluminismo» di Habermas sembra essersi reso conto degli esiti di quella stagione e dichiara la fine di ogni «nostalgia del postmoderno»: cfr. il netto contrasto tra Ferraris 1985 e Ferraris 2010. L’esempio più significativo di questo ripensamento viene però dal “padre” del postmodernismo italiano, Gianni Vattimo, il quale, come ho già ricordato, ha di recente modificato in maniera molto sensibile le proprie posizioni politiche: cfr. Vattimo 2007. 213 214
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