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A tutte le generazioni di soci che hanno fatto la storia della nostra Cooperativa
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Il Consiglio di Amministrazione Alberto Albertini • Ettore Bianchi • Ottavio Casamatti Maurizio Codeluppi • Fabrizio Davoli • Milva Ferrarini Donato Fontanesi • Vincenzo Galloni • Maurizio Lusetti Marco Marconi • Salvatore Mura • Albino Passoli Luigi Toschi • Lucia Viapiana • Rossano Zeppa
Il volume è stato realizzato dalla struttura di ricerca e progetto Officina Diabasis Coordinamento editoriale Giuliana Manfredi Cura redazionale Laura Berti, Mauro Curati Progetto, impaginazione grafica e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN) Fotolito e impianti ADT Grafica, Fossano (CN)
ISBN 88 8103 299 6 © 2003 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 e-mail
[email protected] [email protected]
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Coopsette La storia, gli uomini, le idee
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Coopsette La storia, gli uomini, le idee
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Presentazione
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Nel corso del tempo
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Amus Fontanesi, tessitore di storie
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La cooperazione nella pianura occidentale reggiana
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Le Cooperative prima di Coopsette
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Cooperativa Muratori, poi Cocep e CM Castelnovo di Sotto
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Cooperativa fra Braccianti, Muratori e Birocciai Cadelbosco di Sopra
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Cooperativa Braccianti, poi Cooperativa Industriale “La Fratellanza” Cadelbosco di Sopra
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Cooperativa Muratori e Arti affini, poi Cooperativa Muratori “La Nazionale” Cadelbosco di Sopra
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Cooperativa Nazionale Muratori e Manovali Sant’Ilario d’Enza
52
Cooperativa Muratori Gattatico
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Coperfer Sant’Ilario d’Enza
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Cooperativa Muratori Poviglio
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Cooperativa Braccianti Campegine
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Cooperativa Nazionale Edile Campegine
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La cooperazione nella Bassa Mantovana
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Cooperativa Edile Industriale Mantovana (CEIM) San Benedetto Po
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Immagini
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Coopsette tra storia e attualità 00p. 167 169
La Cooperativa attraverso la testimonianza di Donato Fontanesi Una storia vera
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La prima esperienza: presidente di Cocep e CM
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Autogestione e democrazia
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La nascita di Coopsette
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Il mutamento sociale
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La svolta imprenditoriale: orientamento al mercato
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Qualificazione, una scelta strategica della Cooperativa
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La catena del valore e il mercato dei grandi progetti
206
Tangentopoli
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La promozione cooperativa: il caso Liguria
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Quali prospettive per l’impresa cooperativa?
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Coopsette dall’unificazione ad oggi
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Un bilancio personale
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I Settori produttivi
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Il Settore Prefabbricati
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L’esperienza della Ceramica
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Il Settore Arredamento per Ufficio
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Dalle Marmette all’Armamento Ferroviario
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Il Settore Infissi
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Il Settore Costruzioni
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Nel corso del tempo
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Presentazione
Raccontare la nostra storia non è facile. Coopsette è nata nel 1977 dall’unificazione di sei cooperative reggiane: Cocep e CM di Castelnovo Sotto, La Fratellanza Nazionale di Cadelbosco Sopra, Cooperativa Muratori e Coperfer di Sant’Ilario d’Enza, Cooperativa Muratori di Poviglio, Cooperativa Braccianti di Campegine. Nel ’90 hanno fatto il loro ingresso altre due cooperative, la Cooperativa Nazionale Edile di Campegine e la CEIM, quest’ultima radicata nella Bassa Mantovana. Ognuna di queste aveva una storia pluridecennale, e in molti casi era frutto di precedenti filiazioni o unificazioni. Portare a sintesi l’intreccio di queste storie, con il necessario rispetto verso tante vicende che avevano profondamente coinvolto centinaia e centinaia di persone, è un’impresa molto ardua. Correndo il rischio dell’eccessiva semplificazione abbiamo scelto, nella prima parte del volume, di intrecciare la storia più generale della cooperazione reggiana di ispirazione socialista (filone a cui appartengono tutte le cooperative che hanno dato vita a Coopsette), con schede che richiamano i principali avvenimenti delle singole cooperative coinvolte. L’obiettivo è consegnare al lettore il ritratto complessivo di un’epoca, i tratti comuni di una cultura sostanzialmente unitaria, pur nella diversità delle vicende storiche di un territorio molto articolato. L’esperienza di Coopsette vera e propria, iniziata venticinque anni or sono, presenta un limite ancora più insidioso per un tentativo di rappresentazione storica: le vicende che ci riguardano più direttamente sono troppo vicine, non hanno subito la necessaria sedimentazione nel tempo. Questo limite, di cui siamo pienamente consapevoli, ci ha indotti ad un approccio inusuale: raccontare i fatti salienti attraverso un colloquio con Donato Fontanesi, presidente della Cooperativa dalla sua fondazione. A questo racconto sono state associate schede informative circa le specifiche attività d’impresa, gli eventi e i testimoni della nostra storia. Di fronte a tante oggettive difficoltà, perché, nonostante tutto, è stato edito questo volume? Perché da tempo sentivamo la necessità, quasi il dovere, di dar voce ad una storia che ha segnato tante persone e tante comunità. Raccontarla in primo luogo ai nostri soci attuali, che ne sono stati protagonisti, e ai giovani che, con il forte ricambio avvenuto nella base sociale, conoscono solo a tratti il percorso che ci ha condotti ad essere la realtà di oggi. Affermare che la conoscenza delle proprie origini e della propria identità è essenziale per vivere con consapevolezza il presente può essere considerato un luogo comune, ma a nostro parere risponde ad una verità profonda. Analogo impegno abbiamo ritenuto di assumere nei confronti delle comunità locali
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Presentazione
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nelle quali siamo cresciuti o operiamo. Stabilire un rapporto positivo con il territorio è parte essenziale sia della nostra missione sociale che della nostra attività d’impresa. Il racconto contenuto in questo libro consentirà forse di farci meglio conoscere da parte di chi quotidianamente si rapporta con la cooperativa, ma non ha la possibilità di coglierne la dimensione storica complessiva. Se la pubblicazione del libro consentirà, anche solo in parte, di raggiungere questi obiettivi, avremo adempiuto al compito che ci eravamo prefissati avviando questo impegnativo lavoro. Il Consiglio di Amministrazione
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Amus Fontanesi, tessitore di storie
Un doveroso ringraziamento per il contributo alla stesura di questo libro va ad Amus Fontanesi, prematuramente scomparso nel 2000. Egli fu per lunghi anni presidente dell’Associazione Provinciale delle Cooperative di Produzione e Lavoro di Reggio Emilia e sicuramente uno dei principali ispiratori del progetto di unificazione che portò alla nascita di Coopsette. Fontanesi, classe 1927, di Cadelbosco Sopra, ex partigiano, poi funzionario del Pci (nel quale ricoprì diversi incarichi: fu dal ’55 al ’59 allievo della scuola di partito a Mosca e insegnante della scuola regionale del partito, poi consigliere comunale, assessore all’Agricoltura e successivamente alla Programmazione di Reggio Emilia) era noto per il suo pragmatismo ideologico, per il senso della realtà e per la grande capacità di analisi politica. Dotato di senso della storia e di un profondo intuito, Amus Fontanesi comprese prima di altri che il mondo dell’economia stava cambiando e che per riuscire a stare al passo con i tempi occorreva far compiere alla cooperazione reggiana un salto culturale profondo, che le garantisse occasioni di sviluppo per il futuro. Così, negli anni Settanta, lavorò affinché le tante cooperative di settore trovassero la sintesi in un processo di unificazione: sintesi che mirava a superare le logiche di campanile per affermare, al contrario, una visione moderna dell’impresa. Come ha scritto Mauro Romoli: «…Col suo passo ponderato e col suo sorriso disarmante… Amus Fontanesi, nella sua qualità di presidente dell’Associazione delle Cooperative di Produzione e Lavoro, elaborò e condusse ad esiti storici il più grande disegno di riorganizzazione e riposizionamento della cooperazione edile e industriale concepito in Emilia nel secondo dopoguerra». I suoi pensieri su questi argomenti ed in particolare sul processo che portò alla creazione di Coopsette furono fissati in due manoscritti – Coopsette e le sue radici – che sono stati la base di partenza di questo nostro lavoro. A lui, ad esempio, va il merito di avere raccolto la storia delle varie cooperative della zona che troverete in questo volume e, sempre a lui, va il riconoscimento di aver svolto una serie di considerazioni politiche che hanno permesso di comprendere a fondo il vero spirito che innescò il processo di unificazione di Coopsette.
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Amus Fontanesi, tessitore di storie
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Fu anche ricercatore, storico, memorialista, e soprattutto un affettuoso e sincero amico di Coopsette, che vide come una delle espressioni della naturale evoluzione del movimento socialista reggiano, che in oltre cento anni, dalla semplice organizzazione di cooperative di braccianti, era riuscito a consolidare un’impresa dai solidi principi ideali, che oggi si avvia a superare traguardi un tempo neppure immaginabili.
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La cooperazione nella pianura occidentale reggiana
Nel 1870, appena undici anni dopo l’annessione di Reggio Emilia alla monarchia sabauda, l’analfabetismo in città e provincia colpiva l’81,19% della popolazione. Nel solo circondario di Guastalla, per fare un esempio riferito all’area della bassa, si saliva all’82,54%. Tutta l’Italia, del resto, ne era afflitta. Nel sud, nelle zone alpine e appenniniche, la miseria raggiungeva livelli quasi medievali e in questo contesto, la mancanza di consapevolezza della bancarotta che rischiava il nostro Paese (si vedano i moti sulla tassa del macinato del 1869, avvenuti anche al grido di «No all’Unità d’Italia»), era un esempio della confusione politica nella quale viveva la maggioranza delle persone povere. Comunque non c’era da sorprendersi. Dopo due millenni di conflitti e divisioni in stati e staterelli, la pesante eredità in termini di sottosviluppo dell’Italia rispetto agli altri paesi dell’Europa era naturale. Il 57,8% del prodotto interno lordo italiano era ricavato dall’agricoltura, le strade ferrate erano inferiori ai 2000 Km. Non esistevano materie prime, né classe borghese industriale né, naturalmente, classe operaia. Eravamo in pratica un piccolo paese: ferito, povero, drammaticamente arretrato, che poco o nulla aveva a che fare con un’Inghilterra, patria da oltre un secolo della rivoluzione industriale, in cui gli analfabeti erano scesi al 12% o una Prussia (che li aveva ridotti addirittura al 5%). Senza dimenticarci che anche Francia e Belgio erano diventate realtà a “cavallo del vapore” (come si soleva dire): avevano cioè sviluppato sistemi produttivi meccanizzati, classi industriali, fabbriche, città metropolitane. In Italia su una popolazione di circa 26 milioni di abitanti, il numero medio dei residenti nelle città variava dai 15.000 ai 30.000 abitanti. Questo era un chiaro segno di arretratezza industriale. Un’indigenza generalizzata che coinvolgeva anche le popolazioni reggiane, nonostante abitassero una pianura ricca e ben servita, collocata tra Parma e Modena con l’Appennino alle spalle e il Po a confrontarla con la “ricca” Lombardia. Una situazione politica ed economica dovuta al fatto che solo due decenni prima Reggio aveva visto fuggire l’ultimo degli Este, Francesco V; fuga che aveva lasciato un ducato stremato e sfiduciato, dove regnava la superstizione più ignorante e dove governavano poche e fortunate famiglie proprietarie di quasi tutte le terre coltivabili (e non solo). Scrive «La Cronaca», giornale cittadino, nel 1980: «A Reggio, fin dall’epoca del Risorgimento, la classe dirigente è sempre stata dei proprietari di terreni con la più ampia libertà d’azione». Gli dà man forte «La rivista provinciale», giornale socialista, che aggiunge: «Le idee economiche dei mode-
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Due vedute di Porta Castello a Reggio Emilia, nel 1897.
rati sono fisse nella teoria fisiocratica che ogni ricchezza proviene dal suolo, esse hanno una sapienza economica che non varca il 1770». Non ci sono dubbi, Reggio e la sua provincia sono tra le zone più sottosviluppate del centro nord d’Italia. Ce lo raccontano anche altre cifre: dal 1866 al 1871 (appena cinque anni) le ditte iscritte ai ruoli delle imposte erano cresciute di appena 607 unità. A Reggio e Castelnovo Sotto erano addirittura diminuite (prova di una grossa crisi in atto). In pratica nel Reggiano non c’è un’industria vera. Sempre nel 1870 (lo scrive il Prefetto di allora) erano attivi appena 681 opifici (imprese per lo più artigiane) che davano lavoro a 3047 persone, con un rapporto di 5 addetti per impresa. Di questi, ben 494 (il 76%) erano legati direttamente alla trasformazione agricola, mentre degli altri si sa poco o nulla. Ventuno anni dopo la cacciata degli Este (1880), Reggio aveva una popolazione povera, fatta di contadini, mezzadri e soprattutto braccianti. Era una popolazione che non trovava sbocchi produttivi, che era costretta a vivere di espedienti, piccoli lavori, in case fatiscenti e fredde, che non aveva sufficienti risorse alimentari (nel 1880 Reggio e provincia occupavano il 23° posto nella triste classifica nazionale delle 44 provincie più colpite dalla pellagra, pari al 2,6% della sua popolazione con una punta del 4,6% nel Guastallese, senza dimenticare che nel 1816, cioè appena sessant’anni prima, molti parroci segnalavano alle autorità casi di gente addirittura morta di fame) e che non aveva altri mezzi che la fuga nell’emigrazione. Con quest’ultima soluzione, si andava un po’ in tutta Europa. La preferenza era per
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la Francia, la Svizzera e la Germania. Nel 1861 gli emigrati furono 161. Nel 1883 salirono a 1520. Nel 1900 si raggiunse la vetta di 5000 l’anno, dato che si mantenne fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Scrisse (sempre intorno al 1880) «Reggio nova», giornale progressista, riferendosi ai moderati che allora governavano il Comune: «Reggio non merita neppure il nome di città. È un paese dove tutto langue, dove non si lavora, dove non si pensa, dove non si studia, dove non c’è industria». E più avanti: «il numero degli iscritti nei registri delle Congregazioni (enti che praticavano l’assistenza e la carità) è salito a 12.000». Fu una crisi spaventosa in cui ci mise del suo anche lo Stato, drammaticamente impegnato in quel periodo a evitare in tutti i modi la bancarotta. Tra il 1867 e il 1888 vennero messi in vendita i beni confiscati alla Chiesa. Per chi si dimostrava interessato le condizioni furono molto vantaggiose: si pagò subito un decimo della cifra; il resto in rate annuali con un interesse del 6%. Nel Reggiano il risultato (dato che il capitale era nelle mani di pochi) fu controproducente: comprarono i possidenti (il 27,8% delle vendite fu loro e si accaparrarono il 40% della terra), i professionisti (13,6% con il 10% della terra), i commercianti (acquistarono solo il 4,8% dell’intero, pari però al 22,5% della terra) e infine i contadini che con il 12,7% di acquisti si dovettero accontentare di appena il 3,3% della terra disponibile. Si arricchì insomma chi era già ricco, attraverso i soldi delle banche locali le quali, invece di investire per dare lavoro a chi non ce l’aveva, immobilizzarono il capitale per diversi anni a favore degli agrari. Questo processo portò anche alla concentrazione della proprietà, alla sua razionalizzazione produttiva e alla conseguente espulsione dalla terra di numerosi mezzadri, creando masse disoccupate di braccianti. La crisi contadina di quel periodo si aggravò ulteriormente con l’irrompere sul mercato internazionale del grano americano, che provocò un’immediata discesa dei prezzi agricoli e isolò in una miseria senza prospettive coloro che vivevano di agricoltura. Un colpo per chi credeva che la terra fosse l’unico settore in grado di dare risposte economicamente valide per il futuro di Reggio e della sua provincia.
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Birocciai al lavoro sul greto del Secchia. Sullo sfondo si intravede il ponte ferroviario.
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I primi segnali di cambiamento Testimonianze del lavoro bracciantile impiegato per l’imponente opera di demolizione della cinta muraria di Reggio Emilia (1888). La prima delibera per il definitivo abbattimento risale al 2 dicembre del 1873, anche se già in precedenza erano state effettuate parziali opere di demolizione.
In questo quadro di esasperazione, le idee socialiste presenti da mezzo secolo nel territorio reggiano grazie alle lotte che avvennero in Francia e anche alla vicinanza di città più industrializzate come Milano, cominciarono a farsi largo. La popolazione contadina (a Reggio praticamente non esisteva una classe operaia) vessata, affranta e affamata aveva già dato segni di vita. I già citati moti del 1869, dopo l’istituzione della tassa del macinato, furono importanti per giudicare il livello di esasperazione delle campagne, ma non indicavano nessuna vera ricerca di una prospettiva politica. Dieci anni dopo, al contrario, le cose iniziarono a cambiare anche se leggermente. Con l’estendersi delle idee socialiste ed anarchiche (due movimenti comunque impegnati in una furibonda lotta tra loro) e grazie alla politica praticata dai repubblicani mazziniani presenti nel comune di Reggio, aumentarono le prospettive e le speranze di chi da secoli non ne aveva mai nutrite. In un quadro nazionale dove la “destra storica” dava chiari segni di declino, la mancanza a Reggio di una classe borghese alternativa a quella moderata fece sì che i socialisti, da vero terzo incomodo, compresero meglio e prima di altri le esigenze dei diseredati e ne intercettarono i bisogni. Tra questi uno emergeva tra tutti: il lavoro. A Reggio e nella sua provincia si comprese sempre più che esisteva in-
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somma una questione sociale. Mai come in quel periodo tutti furono consapevoli che l’emancipazione delle classi popolari dalla miseria e dall’ignoranza era un fatto di modernità. La parola d’ordine diventava dare lavoro: fossero essi braccianti, artigiani o operai. Si misero in cantiere (anche per motivi di controllo sociale) opere con grande uso di manovolanza, come i lavori di bonifica nella bassa, l’abbattimento delle mura della città (deciso dai moderati del Comune nel 1873), lavori che si protrarranno per molti anni e consentiranno di sfamare i braccianti stagionali, gente che viveva in condizioni di vita sub-umane (in una ricerca sulle case dei braccianti nella provincia si scrisse: «Tuguri degni più che d’esseri ragionevoli, di immondi animali»). Era allora quasi naturale che questa urgenza sociale facesse maturare delle risposte. Una di queste, sull’onda della tradizione socialista e cattolica delle già esistenti Società di Mutuo Soccorso (la prima di queste fu fondata a Novellara nel 1860), fu la cooperazione. Così nel 1880 si fondò la Società Cooperativa Reggiana che si propose: «di riunire le diverse società di consumo e di lavoro». La dirigeva Contardo Vinsani, insegnante dell’Istituto tecnico ed ex garibaldino, convinto assertore che la cooperazione fosse l’unico mezzo pacifico di difesa delle classi meno abbienti. Quattro anni dopo si costituì anche la Cooperativa Muratori e Manovali di Reggio, con la quale si diede il via ad una vera e propria pletora di iniziative analoghe in tutto il territorio provinciale. «La famiglia operaia come quella bracciantile aveva una struttura mo-
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nonucleare per ragioni esattamente opposte a quelle che giustificavano la famiglia numerosa contadina: moglie e figli, per il bracciante, erano un peso e non un guadagno o un risparmio. Quando c’era lavoro tutta la famiglia produceva… ma di fronte alla disoccupazione operaia [ma anche all’emigrazione e al crescente sviluppo della meccanizzazione nelle campagne oltre al processo di razionalizzazione delle proprietà] erano le donne e i ragazzi ad ingrossare il numero dei senza occupazione… Le braccia della famiglia contadina, diventavano bocche in quella bracciantile.»
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La terra dei Cervi prima dei Cervi. L’agricoltura a Campegine dal Settecento al Fascismo, Reggio Emilia 1982.
Certificato di appartenenza alla Società Anonima Cooperativa fra i Braccianti del Comune di Cavriago (fine 1800).
«…I contadini e i braccianti, con qualche differenza a vantaggio dei primi, continuarono a mangiare polenta ed erbe mal condite, a bere acqua o al massimo “vino sottile”; nelle case della maggior parte dei povigliesi la vita continuava a ruotare attorno a una pianta.... quella del mais: con i grani macinati si faceva la polenta, con i cartocci si riempivano i “sacconi” che, posati su rozze assi sostenute da cavalletti costituivano il letto sul quale ci si riposava dopo una massacrante giornata “da l’alvèda a la caschèda”… con i gambi di mais chiamati “magalett” si alimentavano i focolai delle cucine… malamente rischiarate la sera con l’olio di vinacciolo.» Antonio Zambonelli, Poviglio: storia di lotte. Dall’unità d’Italia alla liberazione, Poviglio 1978. Una relazione sulle condizioni sanitarie di Poviglio datata 1885 ci dà uno spaccato sugli ambienti urbani in cui si viveva. Scrive l’estensore: «Il numero e l’ampiezza delle abitazioni lasciano molto a desiderare. Le acque scolano mediante tubi sulle pubbliche strade. Molte le case sprovviste di latrine. Non esistono pubblici lavatoi, la popolazione si serve delle fosse (i canali pieni d’acqua che di solito delimitavano le antiche mura dei paesi ndr) circostanti il paese, del cavo Fossa Marza e altri cavetti. Durante la stagione in-
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vernale i custodi dei bovini coabitano con questi nelle stalle. Anche i contadini, durante la stagione invernale, passano metà notti nelle stalle per ripararsi dai rigori della stagione». Insomma il Reggiano vive una crisi economica senza sbocchi. Le prospettive di vita sono infami. Per i braccianti della campagna e per gli artigiani della città che non possono emigrare non c’è altra scelta che organizzarsi in leghe i cui scopi sono chiaramente rivendicativi. In questo modo il sistema cooperativo da un lato e le leghe dall’altro, vent’anni prima che finisse il secolo, furono le due armi con cui si difese la dignità degli uomini più umili nel Reggiano.
Cartolina d’epoca rappresentante il centro di Poviglio agli inizi del Novecento.
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Prampolini e il socialismo
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Camillo Prampolini, raffigurato nella prima pagina della «Rassegna popolare del Socialismo» (1 febbraio 1900).
Nel 1893 Reggio Emilia ospitò il primo congresso del neonato partito socialista dopo la proclamazione avvenuta l’anno prima a Genova. Tra i motivi di questa scelta, certamente vi fu anche il fatto che le idee della cooperazione e del socialismo qui erano più presenti che altrove. Camillo Prampolini, figlio di Luigi Eugenio segretario comunale di Reggio e di Maria Luigia Casali, era il terzo di quattro figli. Dopo l’università (a Roma poi a Bologna) si avvicinò alle idee socialiste e nel 1882 divenne redattore de «Lo scamiciato» (settimanale socialista). Nella sua elaborazione culturale Prampolini, oltre a diventare un punto di riferimento politico e culturale per molti, comprese che la questione sociale delle campagne reggiane era determinante per lo sviluppo della provincia e per il successo del socialismo come partito (visto che una nuova legge elettorale allargava la base di chi aveva diritto al voto). Si convinse allora che lo strumento della cooperazione era la risposta giusta; con essa si potevano dare risposte ai bisogni più elementari della gente, si dava lavoro, dignità, identità, prospettiva e certezze. Nel giro di pochi anni, grazie a un lavoro politico capillare, con un linguaggio ispirato a quello cristiano e confidando nel lavoro volontario dei pochi amici intellettuali (insegnanti soprattutto, ma anche professionisti), cercò di saldare le varie anime del proletariato in un unico interesse comune. Prampolini voleva abbattere l’indigenza economica e culturale delle masse, convincere la gente ad andare a votare come fosse il segno nella speranza del cambiamento, istituì corsi di alfabetizzazione, lavorò a una politica di alleanza tra braccianti, operai e mezzadri anche se questo porterà a contrasti e contraddizioni nel movimento socialista. Era convinto che solo impedendo l’espandersi della miseria e dell’abiezione si potevano elevare le persone indigenti e quindi far crescere quella coscienza politica necessaria per creare una classe alternativa a quella moderata. Insomma la cooperazione per Prampolini era soprattutto riscatto sociale e quindi anche riscatto politico.
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Le Cooperative della pianura occidentale reggiana Grazie alle sue specificità storiche e al lavoro dei socialisti prampoliniani (non dimentichiamoci però del ruolo della cooperazione cattolica; minoritaria, ma pur sempre presente), il territorio reggiano nel giro di pochi anni divenne la zona d’Italia a più alta densità cooperativa. Sorsero moltissime Società di Mutuo Soccorso. Dopo la Società di Mutuo Soccorso degli operai di Novellara, fondata nel 1860, ne seguì lo stesso anno un’analoga a Reggio Emilia. A Castelnovo Sotto, l’Associazione di Mutuo Soccorso fra gli operai del Mandamento e del Comune nacque nel 1865 e cinque anni dopo, recita una nota, aveva 146 soci con un capitale di 2538 lire. Essa erogava un sussidio per malattia giornaliero di 50 centesimi per un massimo di 30 giorni e 25 centesimi per i giorni successivi. Nel 1873 nasce la Società di Mutuo Soccorso di Poviglio, mentre bisognerà attendere il 1881 per vedere quella di Campegine (Società di Mutuo Soccorso tra gli operai) e quella di Sant’Ilario d’Enza (Società di Mutuo Soccorso tra operai e contadini). Intorno al 1890 a Cadelbosco Sopra e a Campegine nacquero invece le prime cooperative di produzione e lavoro. Si chiamarono rispettivamente: Cooperativa di Lavoro Braccianti, Muratori e Birocciai del Comune e Cooperativa di Lavoro dei Braccianti. Seguì quella di Castelnovo Sotto (Cooperativa di Lavoro Braccianti, Birocciai, Muratori, Fabbri), mentre nel ’93 nacque una Banca Popolare Cooperativa Consorziale a Castelnovo Sotto.
Cooperativa di consumo di Rivalta nella Casa Proletaria, agli inizi del Novecento. Qui sorse la prima cooperativa di consumo della Provincia di Reggio Emilia nel 1873. Nel 1896 le cooperative di lavoro, per lo più di braccianti e muratori, erano 23, di cui 8 nel capoluogo. Nel 1899 si costituì la Cooperativa di Consumo di San Pellegrino, erede della più antica società operaia “I figli del lavoro”.
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Nel ’94 toccò poi alla Cooperativa di Lavoro Muratori e Affini di Poviglio e via via tantissime altre (va segnalata anche la nascita nel ’96 della Cassa rurale di Meletole). La Cooperazione insomma divenne una realtà. Qualcosa di concreto, qualcosa che sapeva rispondere ai bisogni veri della povera gente. Fossero anche semplici birocciai o contadini o muratori o fornai, sta di fatto che questi senza terra, questi semplici salariati si trasformarono in cooperatori.
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La federazione delle Cooperative
Sede della Società operaia di Montecchio, fondata nel 1878.
Se verso la fine del secolo le condizioni di vita bracciantile e contadina cominciarono a dare qualche segnale di miglioramento, ecco quindi che nacquero le prime società cooperative di produzione e lavoro. Ci furono, su questo argomento, violente polemiche tra i socialisti. Alcuni diffidavano delle cooperative nelle cui denominazioni ci si riferiva ad un solo mestiere, cioè le famose cooperative di categoria, come ad esempio la cooperativa dei muratori o quella dei fabbri. Le vedevano come una negazione palese dei principi di classe, una forma corporativa. Fu questa la ragione dei lunghi e complessi nomi che assunsero in quel periodo le cooperative di produzione tipo: la cooperativa braccianti, muratori, scalpellini e birocciai oppure la cooperativa sarti, sarte e affini, o la falegnami e birocciai e affini ecc. Negli stessi anni va segnalato l’espandersi delle cooperative di consumo (necessarie a fornire cibo a prezzi vantaggiosi alle persone più povere di allora), sulle quali Prampolini elaborò una delle sue teorie cooperativistiche più famose, che contribuì a fare del reggiano la zona a più alta espansione cooperativa d’Italia. Prampolini, rispondendo ad un’esperienza della cooperativa consumo di Bibbiano costituita su principi anglosassoni (in pratica riservata ai soli soci e non aperta a tutti), disse che tali idee non andavano bene nel reggiano, perché le condizioni sociali economiche e produttive della valle padana poco o nulla avevano a che fare con quelle inglesi caratterizzate, allora, da una società ad alto livello industriale, ben orga-
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nizzata, con una classe operaia di salda tradizione. Al contrario, per lui, la cooperativa di consumo non doveva puntare sul profitto o sul ritorno per pochi soci, ma su prodotti a buon mercato per tutti: soci e non soci. Di qui la sua idea per una cooperazione al servizio della collettività e a difesa dei valori socialisti; perché la cooperazione, per Prampolini, era lo strumento fondamentale per la rivoluzione sociale e per la transizione dal capitalismo al socialismo.
Costruzione della linea ferroviaria Reggio-Ciano, nei pressi della “Gardenia” (1908-1910). Capannoni di aziende cooperative nella zona “Gardenia” di Reggio Emila (1910 ca).
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Una decina d’anni prima della nascita del nuovo secolo, comunque, la Cooperativa Muratori e Braccianti di Reggio Emilia (La Granda) si era trasformata in Cooperativa fra Muratori e Arti affini del comune di Reggio Emilia. Di conseguenza aveva adottato un nuovo statuto che sarebbe poi servito da guida a tutti gli altri statuti delle cooperative della provincia. Nello stesso anno, grazie ad una nuova legge sugli appalti (stabiliva che le cooperative potevano partecipare ad appalti pubblici, ma con contratti il cui valore non poteva superare le centomila lire) cominciarono a costituirsi nuove cooperative nel Reggiano (tra l’89 e il ’90 ne sorgeranno diverse: 5 a Reggio, 4 tra Guastalla e Gualtieri, 1 a Novellara, Campegine, e Cadelbosco Sopra). Fu per questo che si decise di fondare la Federazione delle cooperative di lavoro e produzione della provincia di Reggio Emilia, che nel 1896 conterà ben 23 aderenti e nel 1904 costituirà il CCPL (Consorzio cooperative produzione lavoro), sigla che fu molto importante anche negli anni a venire. Il suo primo presidente, Alessandro Cocchi, sarà anche il primo presidente socialista dell’Amministrazione Provinciale. La crisi e la guerra Ma la legge dell’89 fu presto smentita dai fatti. Non solo le amministrazioni avevano una capacità discrezionale illimitata (e i comuni reazionari elusero sistematicamente la legge per non favorire le cooperative), ma in quel periodo era scoppiata una guerra commerciale con la Francia che provocò una crisi economica molto grave (nella sola Reggio qualcuno contò più di 14.000 mendicanti). Risultato: anche le cooperative non trovavano lavoro. Tra apatia, rabbia e frustrazione da questa crisi che coinvolse tutta l’Italia nacquero i primi tumulti: in Sicilia nel ’94, a Milano nel ’98. I governi Crispi, Rudinì e Pelloux applicarono leggi eccezionali e repressione armata. Furono sciolte tutte le organizzazioni sindacali, tra le quali anche le cooperative. Molte le reggiane che chiusero per ordine del governo. Tra queste la Muratori, Braccianti e Birocciai di Cadelbosco Sopra. Per fortuna il nuovo secolo, il terribile (così possiamo definirlo oggi) Novecento, bussava alle porte. Terminata la guerra commerciale con la Francia, riprese anche lo sviluppo. A capo del governo arrivò Giolitti che riconobbe l’organizzazione sindacale e il diritto di sciopero. Così nel ’99 il partito socialista conquistò la maggioranza nel Comune di Reggio e nel 1902 toccò anche alla Provincia (oltre a numerosi comuni del Reggiano).
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È da questo momento che inizierà il vero sviluppo della cooperazione. Alla fine del 1902 le cooperative di produzione e lavoro erano 52 e associavano tutti i mestieri: braccianti, birocciai, muratori, carrozzai, pittori, marmisti, falegnami, tipografi, cementori, lattonieri, selciatori, sarti e sarte, fabbri ferrai ecc. Grazie all’impulso e alla volontà della Federazione delle cooperative nel 1901 si costituirà a Reggio la Camera del Lavoro. È questa che darà impulso alla creazione dell’Università popolare e poi della Biblioteca popolare. È questa che promuoverà una campagna morale per distogliere i lavoratori dall’osteria, dal gioco delle carte e dal ballo (scivolando nel moralismo, naturalmente, ma l’episodio va segnalato per ricordare il grande afflato e la grande innocenza culturale che cinquant’anni di lotta durissima avevano creato nei gruppi dirigenti di allora). Nel 1903 si fondò la Banca delle Cooperative, mentre nel 1905 si cercò addirittura di costituire un’industria. Si partì con la costituzione di una cooperativa di trecciaiole e di pagliai per lavorare il trucciolo e confezionare cappelli. Un anno dopo si acquistò un laboratorio e un negozio per venderli al pubblico, dando vita alla “Casa per le industrie femminili”, con 40 macchine per la lavorazione della paglia e dei cappelli. In questo modo si dava lavoro a 17 pagliai, 25 cappellaie, 170 trecciaie. Ma se lo sforzo per ammodernare le strutture produttive reggiane mostrò importanti segnali positivi, non fu la stessa cosa nel mondo arretrato delle campagne. Nel 1901 un grande sciopero dei braccianti aveva portato
Cartolina ricordo del Congresso delle Società Mutue Cooperative della Camera del Lavoro, tenutosi a Reggio Emilia nell'ottobre del 1901.
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Donne che lavorano il truciolo. Attività artigianale molto diffusa anche nel Reggiano agli inizi del Novecento.
a notevoli miglioramenti economici, ma i proprietari reagirono limitando la mano d’opera perché troppo costosa. Di qui la decisione a Reggio di incrementare la cooperazione anche nelle campagne; in particolare si cercò di condurre direttamente sotto forma cooperativistica i fondi agricoli: le famose affittanze collettive. La prima fu a Fabbrico nel 1901. Nel 1913 erano diventate 13 le imprese di questo tipo, tra proprietà divisa e indivisa. Il lavoro in campagna ne trasse importanti benefici. Ma lo sviluppo economico, il futuro del reggiano fu sempre indirizzato verso forme di industrializzazione avanzata, unico modo per trasformare i braccianti in operai, artigiani, muratori. Fu questo, infatti, uno dei più grandi meriti del movimento cooperativo di quegli anni. Poi arrivò la guerra. Prima quella del 1911 con la Libia. Poi la Grande Guerra. Per il movimento cooperativo fu un colpo duro. I soci partirono per il fronte, molti non tornarono più. Si arricchì l’industria bellica. Quella cooperativa (agricola, costruzioni e trasporti) si fermò, si salvò giusto quella di consumo. Per questo motivo molte cooperative furono costrette alla liquidazione, mentre altre sopravvissero tra mille difficoltà. Un dato: nel ’14 le cooperative di produzione e lavoro aderenti alla Camera del lavoro erano 94. Nel ’18 scesero a 67. Per i soci il passaggio fu da 11.581 a 8511.
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Il dopoguerra e il Fascismo In piena smobilitazione subito dopo la guerra, masse di persone rientrarono dal fronte. Molti feriti sul piano fisico, tutti o quasi su quello morale. Non solo fu necessario dare lavoro a questa gente ed evitare che alla fame si sommasse la frustrazione, ma occorreva porre qualche limite all’inflazione in ascesa, alle ingiustizie che i più sentivano sulla loro pelle nel vedere come altri, che non erano stati al fronte, s’erano ingrassati in qualche modo alle loro spalle di combattenti, senza mai aver visto una sola bruttura della guerra. Ma in quello stesso periodo l’Italia tutta era percorsa da importanti movimenti politici e culturali. La rivoluzione russa stava provocando una profonda spaccatura politica nel movimento socialista (nel ’21 ci fu la famosa scissione di Livorno). Si svilupparono anche virulenti movimenti politici nazionalisti, che ben presto fecero nascere i famosi Fasci di Combattimento (da cui nel giro di pochi mesi nacque il partito Fascista di Mussolini) mentre anche i cattolici decisero di fondare un loro partito (il partito Popolare di don Sturzo) per intervenire direttamente nella vita politica del paese. Reggio in questo biennio (come in quasi tutta l’Italia del nord), vide l’organizzazione di grandi scioperi. Il più grande fu quello dei braccianti, mez-
Una pagina del «Cirano di Bergerac» (febbraio 1905): il campo dei socialisti, sconfitti dalla “Grande armata”. Ex sede della Camera del Lavoro (Palazzo Ancini) a Reggio Emilia.
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Foto “storica” di muratori e manovali di Reggio Emilia durante lo sciopero indetto per la difesa delle trattenute per la Cassa di Previdenza Sociale, che durò dal 5 maggio al 25 agosto del 1913.
zadri e contadini a cui seguirono quelli di diverse fabbriche, tra cui le OMI Reggiane. In termini politici i socialisti erano sulla cresta dell’onda. Nel ’19 in Provincia conquistarono il 66% dei voti. Nelle elezioni comunali di un anno dopo, furono chiamati a governare 38 comuni su 45. Ma tra divisioni e poca consapevolezza politica si affermò il movimento fascista. Le cooperative a Reggio entrarono subito nell’occhio della violenza politica di allora. Moltissime furono attaccate insieme alle Camere del Lavoro, agli uffici di collocamento, ai municipi guidati dai socialisti. Ci furono aggressioni, assassini, distruzioni e incendi. Si attaccarono le Case del Popolo e con esse le Cooperative di Consumo (a Reggio e nel reggiano le Case del Popolo per la loro maggioranza erano sorte proprio grazie alle Cooperative di Consumo, che avevano bisogno di una sede per lo spaccio). La Marcia su Roma fu l’atto finale di una sconfitta politica che trascinò con sé, nel vortice della disfatta, sessant’anni di lotte e di conquiste sociali. Col governo di Roma nelle loro mani, nel giro di pochissimo tempo, i fascisti erano a capo di tutto il paese. Potevano così lavorare solo le cooperative che si erano na-
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zionalizzate (quasi sempre cambio del vecchio gruppo dirigente, a volte cambio del nome) altrimenti c’era la chiusura. Per l’intero movimento fu un periodo terribile. Per vent’anni tra alti e bassi, tra fallimenti e riprese le cooperative reggiane in qualche maniera riuscirono comunque a sopravvivere. Occorrerà aspettare la Liberazione per riprendere l’intero progetto politico. Ma, con l’arrivo degli americani, con il mondo profondamente diviso in due dalla incipiente guerra fredda, con la nascita della repubblica e della democrazia repubblicana a suffragio universale, sarà un cammino molto diverso da quello immaginato agli inizi del secolo.
Panorama delle OMI Reggiane. Nelle pagine seguenti Reggio Emilia, 26 luglio 1943. Festeggiamenti per la caduta di Mussolini e per chiedere la pace.
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Poviglio Gattatico
Castelnovo di Sotto
Campegine Cadelbosco di Sopra S.Ilario d’Enza
Reggio Emilia
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Le Cooperative prima di Coopsette
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Cooperativa Muratori, poi Cocep e CM Castelnovo di Sotto
La Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto fu costituita ufficialmente il 15 febbraio 1903 da 14 soci che sottoscrissero un capitale di 84 lire. Presidente fu eletto Andrea Bertani. Con la prima guerra mondiale cessò l’attività e si ricostituì nel ’20 con il nome di “Cooperativa Edilizia fra Muratori, Cementisti e Manovali”. L’anno successivo fu oggetto dell’assalto di una squadra fascista, che ne incendiò la sede distruggendo tutti o quasi i documenti del suo passato; successivamente la cooperativa fu sciolta. Si ricostituì nel ’22 col nome di “Cooperativa La Vittoria fra i Muratori di Castelnovo Sotto” sotto il controllo del Fascio locale. Presidente in quell’occasione fu eletto Angelo Vezzani, sostituito nel ’25 da Aldo Gallingani. A questi seguì Angelo Riccò, noto esponente fascista. Fino al ’36 la cooperativa è in essere, ma a causa di malversazioni e di una gestione non corretta fallisce, provocando perdite pesanti ai soci. Nonostante queste traversie, i soci decisero la sua ricostruzione. Nel novembre dello stesso anno con venti sottoscrittori assunse il nome di “Società Cooperativa Muratori il Progresso”. Presidente fu Paolo Ferrarini. In seguito divenne presidente Cleante Cornetti (ultimo sindaco socialista del Comune). La cooperativa “Il Progresso” aveva 22 soci, tutti provetti muratori. Non potendo garantire salario a tutti, aveva concesso la facoltà di lavorare anche in proprio. Lavorò all’aeroporto di Reggio, all’ospedale locale, alla bonifica Bentivoglio. Nel ’45 dopo la Liberazione cambiò consiglio di amministrazione e presidente venne eletto Camillo Bertolotti. La cooperativa aumentò di 40 unità il numero dei soci, in gran parte giovani. Si lavorò alla ricostruzione delle Officine Reggiane e a un lotto di fognatura a Reggio. Per questo lavoro (la
cooperativa aveva solo carriole, pale e carrucole) acquistò la sua prima betoniera a tamburo, dopo un acceso dibattito tra i soci, alcuni dei quali erano contrari perché temevano che diminuissero le ore di lavoro per i soci. La storia moderna della Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto ha una data: 1947. Passata indenne attraverso le vicende belliche della seconda guerra mondiale, elegge infatti come suo presidente Nardo Foielli, che la reggerà per ben 27 anni, consentendole di diventare una delle più importanti imprese cooperative della zona e costruendo poi le condizioni per trasformarla nello zoccolo duro di quella che diventerà, molti anni dopo, la Coopsette. Foielli sale al vertice dell’impresa all’età di 28 anni. Ha appena finito di frequentare la scuola per capicantiere organizzata dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Reggio Emilia. Ha sbuzzo da imprenditore, determinazione e, soprattutto, è un tipo dinamico. Capisce che per sopravvivere occorre allargare il proprio mercato e aumentare il fatturato. La sua prima decisione è di andare a cercare lavoro fuori provincia, ma la cosa, pur se utile, mette a dura prova la base sociale e le capacità strutturali della cooperativa. Se è vero infatti che trovare nuovi sbocchi di mercato è importante per la crescita del gruppo, è altrettanto vero che i tempi sono quelli che sono. I lavoratori-soci (accompagnati ogni giorno, andata e ritorno, a diverse decine di chilometri di distanza su un vecchio e disagevole furgoncino) lamentano disagi. A questi problemi se ne affiancano anche altri di liquidità, dovuti a mancati incassi di revisione prezzi in un periodo in cui le banche non concedono crediti. Un momento negativo insomma,
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Cooperativa Muratori, poi Cocep e CM Castelnovo di Sotto
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superato grazie allo spirito di corpo dei soci, che per quattro mesi rimarranno senza salario. Facendo tesoro di questa esperienza e grazie a nuovi lavori, si opta per una progressiva meccanizzazione dell’impresa. È la prima svolta. Si decide anche di far pernottare fuori casa coloro che sono impegnati in cantieri oltre i confini della provincia. Ma sono tempi difficili: a Fidenza, dove è in costruzione un fabbricato per le FS ci si arrangia riadattando a dormitorio una vecchia bottega da falegname in disuso, ceduta gratuitamente da un vecchio socialista, e usando brandine in legno regalate dall’Amministrazione Comunale di Castelnovo. Viene creata anche una mensa (cuoco sarà un ragazzino quindicenne, Benassi Giuseppe detto Cita, la cui specialità è il brodo di ossa di mucca per preparare una zuppa di pane). Fino al ’50 la cooperativa non ha sede. Convive con la Cooperativa Braccianti all’ultimo piano del palazzo del cinema Ausonia di Castelnovo. Si acquista allora dal Comune un terreno di circa 1000 mq. Per finanziare la spesa i soci accettano di rinunciare a 7 anni di indennità di liquidazione e di prestare gratuitamente la propria opera. Il risultato fu la costruzione di un capannone per deposito attrezzature di 200 mq circa, con annesso un locale adibito ad ufficio. Nel ’53 la base sociale sale a 90 unità. Molti di questi sono giovani. Per tenere conto di questa peculiarità si decide una prima semplice, ma efficace politica di formazione professionale. Molti sono inviati alla scuola per capi cantiere di Reggio Emilia. Altri, soprattutto durante l’inverno, si formano in una scuola allestita all’interno della cooperativa con i professori Effrem Vezzani, Ierba Boni e, naturalmente, i migliori operai “anziani”. Per crescere la cooperativa intanto si indirizza sul mercato milanese. Affiancata dal Consorzio di
produzione lavoro (CCPL) ottiene come primo cantiere, in località Omero di Porta Romana, la costruzione di 52 appartamenti dello IACP (Istituto autonomo case popolari). Gli operai prendono il treno per Milano il lunedì e tornano il sabato. Fu un lavoro difficile a cui però ne seguirono altri. L’handicap della cooperativa rispetto alla concorrenza era di non essere della zona e quindi di avere delle spese per trasporto e pernottamenti molto più alte. Nonostante ciò, proprio in questa fase, la cooperativa avviò una politica di solidarietà sociale. Ad esempio si creò una Mutua Interna (quella ufficiale, di legge, era chiamata Mutua Esterna) con la quale l’ammalato veniva pagato, integrando le giornate non riconosciute dalla Mutua Esterna. In seguito si costituì un Fondo Pensioni Interno e, addirittura, si istituì la donazione di un loculo cimiteriale in caso di morte. Nel ’60 si dà vita alla Cocep. Le condizioni sono: un’intuizione del gruppo dirigente della cooperativa, in particolare di Foielli, un mercato edile che si stava evolvendo e soprattutto una contingenza di tipo sociale. In quel periodo nella zona si sentivano le conseguenze di una forte battaglia sindacale in campo agricolo. La nuova organizzazione del lavoro in agricoltura obbligò molti giovani mezzadri a cercare nuovi sbocchi professionali. Avendo la cooperativa, tra i suoi scopi statutari, quello di creare posti di lavoro, si decise di dar vita ad una nuova impresa, la Cooperativa Costruzione Elementi Prefabbricati, da allora siglata Cocep. Anche se l’idea fu osteggiata dagli organismi provinciali (Federcoop e Consorzio di produzione lavoro), si dimostrò giusta e competitiva. All’inizio la presidenza delle due imprese fu retta dallo stesso Foielli. In seguito, l’autonomo forte sviluppo delle due realtà in campi diversi, farà sì che
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Cooperativa Muratori, poi Cocep e CM Castelnovo di Sotto
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si istituiranno due presidenze: Foielli alla Cocep e Riccardo Speroni alla Cooperativa Muratori (a quest’ultimo subentrò, poco dopo, Bellini Mario). Dieci anni dopo, scadute le agevolazioni fiscali legate a questo investimento, si deciderà per l’unificazione delle due realtà. Siamo nel 1973. Nasce, con la presidenza di Nardo Foielli, la Cooperativa Costruzioni Elementi Prefabbricati e Cooperativa Muratori, altrimenti nota come Cocep e CM, la cui base sociale è di circa 300 unità. Più che la sommatoria di due cooperative, la Cocep e CM è una nuova impresa in tutto e per
tutto. La nuova cooperativa ha un rapporto impiegati operai di tutto rispetto, 1 a 13, dimostrando quindi un governo dell’azienda consapevole, attento e lungimirante. In coincidenza con l’unificazione, si decide di allargare la produzione di prefabbricato, passando a quello cosiddetto pesante e precompresso. La cooperativa acquista 30 biolche di terreno e costruisce un moderno stabilimento, comprensivo di fabbricati produttivi, magazzino e uffici, finanziato interamente con il proprio patrimonio. Nel ’74 Foielli lascia la presidenza e viene sostituito da Donato Fontanesi.
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Cooperativa fra Braccianti, Muratori e Birocciai Cadelbosco di Sopra
Fu fondata nel 1890. Aveva 150 soci e primo presidente fu eletto Prospero Parmiggiani. Nel ’98 egli fu costretto alle dimissioni non dai soci, ma dal governo italiano. Erano gli anni della crisi economica dovuta alla guerra commerciale con la Francia. Gli anni dei governi Crispi, Rudinì e Pelloux, con morti nelle piazze e incarcerati nelle prigioni, gli anni che videro sindacati e cooperative sciolte d’autorità, perché accusate di sovversione contro lo Stato. Ma l’anno successivo Pelloux cadde e la cooperativa si ricostituì con lo stesso nome e gli stessi scopi statutari. Presidente venne eletto Francesco Parmiggiani, figlio di Prospero, che diverrà poi sindaco socialista di Cadelbosco. Come animatore e grande protagonista dello sviluppo della cooperativa viene ricordato anche il segretario, ragionier Nino Panarari. Nel 1900, in occasione della grande Esposizione Universale di Parigi, la cooperativa vi partecipò in nome della Lega Nazionale delle Cooperative. In
quell’occasione fu premiata con un diploma d’onore, gelosamente conservato in cornice nella sede dell’azienda, fintanto che nel ’21 i fascisti, in una delle loro feroci scorribande, non lo distrussero. Nel 1902, per motivi tecnici, la cooperativa si scisse in tre realtà distinte, assumendo tre diversi indirizzi produttivi: la Cooperativa Muratori e Affini sotto la direzione di Luigi Miari (detto Bigioul); la Cooperativa Birocciai, presidente Artillo Melloni (poco dopo sostituito da Mansueto Carpi, detto Caraco) e la Cooperativa Braccianti, presidente Francesco Parmiggiani. Mentre la Cooperativa Braccianti e la Cooperativa Muratori continueranno la loro attività fino alla loro unificazione e alla confluenza in Coopsette, la Cooperativa Birocciai, con presidente Umberto Cocconcelli dal ’30 al ’57, verrà liquidata nello stesso anno, perché i birocciai con il traino a cavalli non sono più in grado di fare concorrenza agli automezzi.
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Cooperativa Braccianti, poi Cooperativa Industriale “La Fratellanza” Cadelbosco di Sopra
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Nacque nel 1902 sul progetto di suddivisione della Cooperativa Braccianti, Muratori e Birocciai di Cadelbosco. La dirige Francesco Parmiggiani. Nel dopoguerra (presidente dal ’21 divenne Innocente Canepari), non venne toccata dal regime fascista e potè continuare la sua attività. Non a caso Canepari fu consigliere d’amministrazione del CCPL fascista per diversi anni. Unica imposizione, quella del cambiamento del nome, che divenne così Cooperativa Braccianti La Fratellanza. Nel ’24 segnalò un attivo di 196.789 lire, con a libro paga 227 soci che nel ’30 salirono a 441 con un fatturato di 991.000 lire. Canepari rimase presidente fino al ’43 quando lo sostituì William Ronzoni. Quest’ultimo guidò la cooperativa con sicurezza e competenza oltre la Liberazione. In questo periodo la cooperativa si specializzò, grazie all’infaticabile opera del suo presidente, nei settori delle asfaltature stradali e nelle lottizzazioni urbanistiche. Questa sua specializzazione le permise di partecipare a numerose gare d’appalto per grandi lavori, anche fuori provincia come nel caso dell’Isola d’Elba e della provincia di Milano. La cooperativa assunse la sua definitiva denominazione di Cooperativa Industriale “La Fratellanza” agli inizi degli anni Cinquanta. Nel ’58 si decise di intraprendere un’altra attività: la produzione di marmette da pavimento, con stabilimento sempre nel comune di Cadelbosco Sopra. È un’avventura che permette di acquisire una nuova generazione di lavoratori che contribuisce ad abbassare l’età media dei dipendenti e soci e nello stesso tempo non crea problemi di espansione autonoma all’altro settore di attività. Anzi, proprio a metà degli anni Sessanta “La Fratellanza” è leader provinciale nel ramo asfaltature stradali e continua ad avere buone prospettive di sviluppo.
Ma è il mercato delle marmette che si rivela piuttosto difficoltoso. I vertici decidono così di allargare i mercati di riferimento puntando su Francia e Germania. Ma la ceramica da pavimenti, una nuova temibile concorrente, rappresenta un’ulteriore minaccia per le prospettive di sviluppo. Per superare queste difficoltà, si punta sui paesi del Golfo, che si dimostrano mercati interessanti, ma non in grado di assicurare sviluppo e uno stabile equilibrio di bilancio. Nel ’68 la cooperativa si dà una nuova configurazione amministrativa e direzionale e viene eletto presidente Sergio Landi. Nel ’72 “La Fratellanza” si unificherà con la cooperativa “La Nazionale” di Cadelbosco, in coerenza con i processi di unificazione promossi dall’Associazione provinciale delle cooperative di produzione e lavoro.
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Cooperativa Muratori e Arti affini, poi Cooperativa Muratori “La Nazionale” Cadelbosco di Sopra
Nata anch’essa nel 1902 dalla Cooperativa Braccianti, Muratori e Birocciai di Cadelbosco ha come presidente Luigi Miari. Nel ’21 conta 103 soci con un capitale di oltre 14.000 lire e un fondo riserva di 11.612 lire. Il fatturato supera il milione l’anno. Nel ’26 venne però liquidata perché il Fascio locale costituì un Sindacato Muratori che svolse anche un ruolo di impresa e che quindi la considerò “oggettivamente concorrente”. La cooperativa si trovò così esautorata, senza commesse da parte del Comune e, isolata anche dai privati, morì. Nel ’25, a titolo di cronaca, la cooperativa aveva 110 soci. Nel ’28 sulle sue ceneri, grazie a un periodo più tollerante del partito fascista locale, si ricostruì con un nuovo nome “Cooperativa Muratori La Nazionale” di Cadelbosco. Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale la cooperativa (presidente è Ermes Barbieri) vive dignitosamente puntando sull’edilizia locale. Ma dal ’51 al ’56 una forte crisi dell’edilizia dovuta alla scarsità di lavoro e difficoltà gestionali la mettono in seria difficoltà. Nel ’52 viene eletto presidente Joffre Davoli (muratore nel ’49, capo cantiere nel ’50, presidente nel ’52), che nel giro di breve tempo prende in mano le sorti dell’impresa. Come segretario amministrativo viene mandato dalla Federcoop nel ’51 Amilcare Moretti (vi resterà fino al ’57, sostituito poi da Giovanni Bonezzi). Fino al ’53 la cooperativa lavora soprattutto grazie al CCPL che le assegna lavori in provincia e fuori; ma i risultati non sono soddisfacenti, in quanto sui lavori assegnati i margini sono molto bassi. Proprio per questo i rapporti con lo stesso CCPL diventano più problematici. Dopo aver ripianato un debito di 13 milioni (1952) grazie ad un prestito di due milioni e mezzo del CCPL e soprattutto grazie al sacrificio dei soci dipendenti (si
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lavoravano nove ore al giorno, ma ne venivano retribuite solo otto, ed inoltre per quasi un anno non vennero pagati salari per mancanza di liquidità), la cooperativa esce dalle difficoltà. Costruisce la nuova sede sociale unificata (uffici e magazzino) nel ’57 a Villa Zurco e negli anni Sessanta continua la ripresa dal punto di vista economico e finanziario, anche se non esce da un mercato locale e provinciale. Nel ’72 si decide quindi per l’unificazione con “La Fratellanza”, anch’essa di Cadelbosco. Presidente diverrà lo stesso Joffre Davoli, che mantiene la carica fino al ’77, quando, sotto il nome di “Cooperativa La Fratellanza Nazionale”, la nuova cooperativa entra in Coopsette. Il matrimonio tra le due cooperative permise importanti economie di scala e un accumulo di riserve patrimoniali e finanziarie di ottimo livello. Rimaneva aperta la questione delle marmette che, nonostante gli sforzi, continuavano ad accumulare perdite. Si decise allora di usare le riserve per rinnovare gli impianti tecnologici, ma gli investimenti non risolsero i problemi. Il settore era in forte difficoltà e alla fine, con la fusione in Coopsette, si optò per una soluzione di riconversione produttiva, nel quadro più generale dei riassetti che questa nuova realtà industriale induceva.
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Cooperativa Nazionale Muratori e Manovali Sant’Ilario d’Enza
Le sue origini risalgono al 1904, quando fu fondata col nome di “Cooperativa Muratori ed Esercenti Arti Affini”. Presidente fu nominato Augusto Salvatori che in seguito divenne sindaco di Sant’Ilario. Il nome della cooperativa deriva dal fatto che oltre a svolgere attività edilizia, gestiva un magazzino di materiali da costruzione e anche un laboratorio di falegnameria. Grazie alla cooperativa molte persone della zona trovarono lavoro, al punto che tra soci e dipendenti si arrivò ad avere circa 200 addetti. Nel ’22 – anno in cui partecipa all’Esposizione Agricola-Industriale e del Lavoro di Reggio Emilia – contava 185 soci, un capitale sottoscritto di oltre 46.000 lire e riserve per oltre 10.000 lire. Dopo l’avvento del fascismo la cooperativa conobbe un declino inarrestabile, per cui alla fine degli anni Venti venne liquidata. Si ricostituì nel ’32 col nome di “S. A. Cooperativa Braccianti di Sant’Ilario” alla cui presidenza venne chiamato Guglielmo Greci. L’azienda ebbe una vita travagliata per qualche anno, finché nel ’37 non si trasformò in “Cooperativa Nazionale Muratori e Manovali”, ampliando la sua attività anche all’edilizia civile e al cemento armato. Presidente venne eletto Giuseppe Greci e in pochi anni il fatturato triplicò con un numero di soci che passò da 50 a 100. Dopo lunghe vicissitudini societarie, legate anche alle vicende belliche, nel giugno del ’45, sotto il nome di “Società Cooperativa Muratori e Manovali di Sant’Ilario d’Enza”, la cooperativa riprende l’attività con circa centoventi soci che eleggeranno alla presidenza Bruno Reggiani. Anch’essa nei primi anni post bellici vive grandi difficoltà. Ma i suoi soci hanno forti motivazioni sociali; in più la cooperativa è geograficamente inserita in una importante realtà produtti-
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va, che ne facilita le relazioni e ne stimola l’impegno sui principi del fare impresa. Nei primi tempi il lavoro è spesso volontario e gratuito. I soci accettano lunghi periodi di disoccupazione, soprattutto quella invernale, accontentandosi spesso solo di acconti sul salario. In quel periodo storico le occasioni di lavoro scarseggiavano e a riprova delle difficoltà che si vivevano, c’è il numero di coloro che gettarono la spugna: dai 120 soci iniziali, nel ’50 si era passati a 70. È anche per questo che la cooperativa di Sant’Ilario decide di cercare lavoro fuori dalla provincia. Come altre, punta su Milano, sui cantieri IACP. In questo periodo ricopre un ruolo molto importante il vice presidente Angelo Bianchini. Per i soci lavoratori è un periodo di grandi sacrifici. Rientrare a casa ogni settimana costa troppo. Molti preferiscono trasferirsi per l’intero periodo di lavoro nella zona dove è insediato il cantiere, anche se si lavora lontano dalle famiglie, alloggiati in modo precario in baracche. Ma grazie a queste rinunce la cooperativa in breve tempo triplica il fatturato e passa dai 35 milioni del ’50 ai 95 del ’53, anche se i risultati economici non sono altrettanto soddisfacenti. Così nel ’56 la cooperativa decide di fare una scelta organizzativa innovativa per controllare il processo produttivo, assu-
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mendo un geometra e un ragioniere; ciò consentì, soprattutto nei cantieri esterni lontani dalla sede, un controllo più efficace della gestione. È una prima svolta. I conti rientrano, l’organizzazione è sotto controllo; in questo processo vengono inoltre coinvolte anche le maestranze, col risultato di dare motivazioni ancora più forti a tutti i lavoratori. In pochi anni la Sant’Ilario si consolida. Vengono così istituiti un fondo mutualistico e un fondo pensioni. Si erogano borse di studio per i figli dei soci, si organizzano gite sociali. Lo sviluppo urbanistico di Sant’Ilario crea occasioni di lavoro e vede la collaborazione attiva della cooperativa con il Comune nella realizzazione dei nuovi quartieri residenziali e artigianali. Nel ’60 il monte lavori supera i 300 milioni e,
nello stesso anno, si procede all’unificazione con la Cooperativa Edile di Calerno, nata nel ’46, che conta 15 soci e che aderiva alla Confederazione delle Cooperative. L’esigenza dell’unificazione delle due cooperative del Comune è più forte della rivalità campanilistica, da sempre esistente, e del diverso orientamento associativo. Nello stesso periodo, grazie ad una maggiore sintonia con il CCPL, anche la Sant’Ilario allarga le sue attività. Lavora nelle autostrade e con le cooperative edificatrici milanesi. Attraverso forme di cogestione, cioè associazioni con altre imprese cooperative (compreso il CCPL) realizza grandi opere. È un buon periodo. Si decide di intraprendere anche attività immobiliari, con le quali si dà la possibilità a molti soci di acquistare un appartamento a condizioni molto favorevoli.
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Nel ’62 si raggiunge un risultato storico: si dà vita a una nuova cooperativa impegnata nel comparto meccanico. La Coperfer, questo è il nome della nuova cooperativa, si specializzerà nella costruzione di capannoni di ferro, poi nella produzione di infissi e mobili per ufficio. Una scelta che nel volgere di sette-otto anni contribuirà a portare il fatturato delle due cooperative sul miliardo di lire. Nel 1970 nuova incorporazione: in coerenza con le indicazioni del movimento cooperativo, si va alla fusione con la Cooperativa Emiliana di Gattatico che conta una trentina di operai tra soci e dipendenti. Nel ’71 il presidente Reggiani lascia l’incarico. Gli subentra Pietro Iotti, già Sindaco del Comune. Nel giro di un paio d’anni la cooperativa di Sant’Ilario si consolida ulteriormente. Adesso si lavora anche a Genova, a Torino, in altre regioni d’Italia. Diventa importante diversificare il tipo di produzione, specializzarsi e, perciò, si acquistano attrezzature più moderne. Ma l’allargamento dell’attività e l’evoluzione del mercato del lavoro comporta l’emergere di
una seria contraddizione: è sempre più difficile trovare manodopera. Le maestranze non sono sufficienti a rispondere ai nuovi bisogni. In più i giovani preferiscono il lavoro a cottimo che, a parte la fatica, dà più soddisfazioni sul piano economico. Alla Sant’Ilario, come nelle altre cooperative edili della zona, si manifesta il fenomeno della difficoltà a coinvolgere soci giovani. È un problema sentito nell’intero movimento reggiano a cui si risponde in vario modo: aumentando sensibilmente il salario, sviluppando le attività sociali e rilanciando la partecipazione dei soci alla gestione della cooperativa. Si dà vita ad un bollettino di informazione mensile, inviato a tutti i dipendenti, che riscuote unanime consenso. La cooperativa promuove iniziative a carattere sociale, come l’organizzazione di viaggi all’estero (URSS, Cecoslovacchia, crociere nel Mediterraneo). Gli sforzi portano ad un aumento del numero di soci che nel ’77, alle soglie della costituzione di Coopsette, si attestano a 90 unità.
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Cooperativa Muratori Gattatico
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Si formò nel ’19 in occasione dei lavori per la costruzione delle scuole elementari di Praticello. Nel ’28 si costituì legalmente in “Società Cooperativa Edile fra Muratori e Manovali di Gattatico”, con circa 40 soci e 50 manovali dipendenti. Presidente fu eletto Luigi Melegari. Per cercare lavoro (il mercato di Gattatico era scarso) si decise di andare fuori provincia. Nel ’29 la cooperativa aderì al CCPL. La scelta si rivelò felice. Nel giro di poco tempo divenne una delle cooperative più importanti a livello nazionale e la più importante della provincia. Lavorò a Reggio, Parma, Mantova, Bologna, Gorizia, Napoli, La Spezia e altre città. Era iscritta all’Albo Nazionale Costruttori con il diritto di partecipare ad appalti di qualsiasi tipo. Nel ’35 aveva circa 60 soci e 90 dipendenti. All’inizio della guerra la cooperativa dava lavoro e stipendio fisso tutto l’anno a circa duecento lavoratori (e dati i tempi non era poco), ma dopo la
Liberazione fu in parte epurato il gruppo dirigente, perché si riteneva ci fossero state pesanti connivenze col fascismo. È un cambiamento traumatico e non da tutti condiviso che provoca l’uscita dalla cooperativa di alcuni soci. Dal ’45 al ’51 i soci passano da 60 a 30 unità e gli ausiliari da 40 a 30. Presidente divenne Antonio Bertani. La situazione del primo periodo postbellico, caratterizzata dalla mancanza di lavoro, è aggravata dallo spirito polemico e di rivalsa indotto dalle scelte politiche compiute. Per affrontare la crisi si decide di prendere lavori in subappalto, ma a seguito del fallimento di una delle ditte appaltatrici, la cooperativa nel ’53 viene messa in liquidazione. Nel ’54 alcuni ex soci decidono di riprovarci. Si costituisce la Società Cooperativa Muratori Emiliana di Gattatico, con 12 soci provenienti quasi tutti dalla cooperativa liquidata l’anno prima. Sono inoltre occupati una ventina di dipendenti. Presidente viene eletto Antonio Donelli.
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Cooperativa Muratori Gattatico
Nel ’58 per stimolare gli ausiliari a diventare soci si decide di sorteggiare ogni due anni, durante l’assemblea di bilancio, 4 appartamenti per i soci, finanziati con utili di bilancio e con ore lavorative non pagate. Alla fine dell’esperienza se ne costruiranno otto. Ma la situazione continua ad essere negativa. Nel ’63 il presidente Donelli decide di andarsene dalla cooperativa insieme ad altri soci, per divergenze strategiche con la Federcoop di Reggio Emilia, su una ipotesi di coinvolgimento in un progetto di unificazione con altre cooperative. Al suo posto viene eletto Erminio Mossini. La cooperativa, da quel momento fino agli inizi degli anni Settanta, non opera più sul mercato locale. Non ha un ufficio commerciale, né fa attività immobiliare. Lavora fuori provincia grazie ad
appalti ottenuti dal CCPL con costi che risultano essere più onerosi rispetto alle imprese locali. Nel ’68 due cantieri a Livorno e a Sampierdarena danno risultati negativi. Così nel ’71 si pensa alla liquidazione dell’impresa. Grazie all’intervento dell’Associazione provinciale delle cooperative di produzione e lavoro si decide di incorporare la cooperativa di Gattatico in quella di Sant’Ilario d’Enza, cooperativa molto meglio strutturata che ha problemi di personale. I soci di Gattatico sono molto giovani (31 anni l’età media) e una loro incorporazione darebbe linfa vitale alla nuova realtà. La decisione finale avverrà nel ’74 e sarà un fatto molto positivo per entrambe le cooperative.
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Coperfer Sant’Ilario d’Enza
Nata nel ’61 per volontà dei soci della Cooperativa Nazionale Muratori e Manovali di Sant’Ilario d’Enza, la storia della Coperfer è un bello spaccato delle aspirazioni, del coraggio, della generosità e anche delle difficoltà che hanno caratterizzato il movimento cooperativo negli anni Sessanta e Settanta. La motivazione sociale per cui una cooperativa edile decide di intraprendere una attività molto diversa dalla sua tradizione, sta in un insieme di idee e di esigenze che vede protagonisti la dirigenza della cooperativa edile e l’Amministrazione Comunale di Sant’Ilario, con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro attraverso l’esperienza in nuovi percorsi industriali. Il Comune, che ha come sindaco Lelio Poletti, dipendente della Cooperativa Muratori Sant’Ilario, è intenzionato agli inizi degli anni Sessanta a urbanizzare un piccolo podere, per farne una zona artigianale, che diventerà il Villaggio Bellarosa, nei pressi di Calerno. La Cooperativa Muratori di Sant’Ilario, dal canto suo, sta vivendo un buon periodo imprenditoriale per cui è in grado di investire. Da queste due situazioni scaturisce l’idea di costituire una nuova società cooperativa che si occupi di carpenteria metallica e in particolare di copertura di capannoni avicoli e offra un’occasione di lavoro ai giovani della zona. La nuova cooperativa viene ufficialmente costituita il 18 novembre del ’61: 30 soci, tutti della Cooperativa Muratori, per un capitale sociale di 150.000 lire. Presidente viene eletto Giacomo Gandolfi. Nel gennaio del ’62 inizia l’attività produttiva con 5 dipendenti nella sede della Cooperativa Muratori. Quattro mesi dopo viene approvato il progetto per un nuovo stabilimento, da collocarsi nel Villaggio Bellarosa e nel ’63 la cooperativa si trasferisce nella nuova sede, nella quale sono impiegati ben 49 dipendenti.
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Coperfer Sant’Ilario d’Enza
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Nei primi tempi tutto fila liscio. Si producono travi metalliche per capannoni avicoli, a cui si affiancano altre produzioni come carpenteria per l’edilizia, serrande basculanti, porte per cantine ecc. Agli inizi del ’64 arriva però la prima crisi, dopo il boom economico. Si parla di congiuntura negativa. L’economia ne soffre moltissimo. Il risultato per la Coperfer è di cercare di allargarsi con nuove produzioni, come i serramenti in lamiera zincata e in alluminio anodizzato. Ma sono palliativi. I risultati economici sono modesti, la situazione finanziaria non è brillante. La casa madre però, la Cooperativa Muratori, è in grado di far fronte a nuovi investimenti e sulla Coperfer si continua a credere. Nel ’67 altro momento difficile: non c’è lavoro per tutti. C’è polemica tra i dirigenti. Il presidente Gandolfi abbandona e lo sostituisce Remo Rosi. Nello stesso tempo per la prima volta si diminuisce l’organico. Parte dei lavoratori rientra in Cooperativa Muratori, parte va in altre aziende della zona. Un episodio doloroso che genera lacerazioni e dibattiti, obbligando il gruppo dirigente a gestire l’impresa con una visione strategica nuova. Di nuovo è il sindaco Poletti a suggerire una via d’uscita: l’acquisto di un’azienda milanese, la
Metallufficio di Milano e di conseguenza un cambio radicale della missione della cooperativa. Questa nuova e impegnativa proposta viene deliberata nel ’67 dal Consiglio di Amministrazione. Gli inizi sono difficili. Occorre investire in nuovi macchinari e in personale specializzato. Entrano in Coperfer lavoratori e tecnici provenienti dalla ditta Salamini di Parma, ma si continua comunque anche con le vecchie produzioni. Non passa un anno che arriva una nuova doccia fredda: molti dei tecnici della Salamini sono segretamente intenzionati a mettersi in proprio. La notizia è dolorosa. Vengono licenziati all’istante e pochi mesi dopo si aggiunge la morte improvvisa di Poletti. Un brutto momento, che la Coperfer affronta e supera con determinazione. Agli inizi del ’69 direttore diventa Pietro Iotti. Intanto nel mondo soffia forte il vento del ’68. Anche in Coperfer è un momento di intensa discussione su democrazia, sindacato, politiche del personale e politiche retributive. Questo fervore non è in contrasto con l’attività di impresa che anzi, proprio in quella fase, è complessivamente positiva. Nel ’70 la Metallufficio partecipa per la prima volta alla Fiera di settore di Milano. I diri-
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Coperfer Sant’Ilario d’Enza
genti e i tecnici toccano con mano la grande distanza tra la qualità delle nostre produzioni e quelle della concorrenza più avanzata. Una consapevolezza che stimola la cooperativa e che produce nel giro di breve tempo una riflessione importante: la necessità di unire le forze per diventare più competitivi. Si parla per la prima volta di unificazione, in particolare con consorelle del movimento quali la COM di San Giovanni in Persiceto e la COM di Trezzano sul Naviglio. Quest’ultima viene però liquidata quasi subito, mentre con la prima l’ipotesi continua a vivere tra alti e bassi fino al ’77, quando Coperfer diventa una delle fondatrici di Coopsette. Sul finire del ’72 la cooperativa di Sant’Ilario, or-
mai del tutto autonoma dalla casa madre (dopo un anno o poco più di presidenza Iotti, viene eletto presidente Ottavio Casamatti), vive un bel periodo. Si afferma il settore degli infissi in alluminio e si abbandona definitivamente quello della carpenteria metallica. Ma nel ’74 arriva un’altra crisi economica, quella petrolifera legata alla guerra arabo-israeliana del ’73. I riflessi si fanno sentire pesantemente sul settore arredamenti, mentre il settore infissi regge abbastanza bene. È un importante insegnamento questo per la Coperfer: avere due linee produttive ben diversificate è un vantaggio. Nel 1977 la Coperfer porta in Coopsette la propria peculiare esperienza di azienda metalmeccanica.
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Cooperativa Muratori Poviglio
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Viene costituita nel 1894 con il nome “Cooperativa di Poviglio Muratori e Affini”. Presidente è eletto Arcangelo Minari. Nel 1902 ha 38 soci con un capitale sociale di 143 lire. Nel ’10, per motivi non noti, cambia nome e diventa “Cooperativa Muratori e Manovali”. Poi, con l’avvento del fascismo, la cooperativa si scioglie e si ricostituisce nel ’31 con il nome di “Cooperativa Nazionale Edile fra i Muratori del Comune”. Nel ’35 a Poviglio viene costituita una nuova cooperativa chiamata “S. A. Cooperativa fra Muratori e Manovali” con sede però a San Sisto, frazione di Poviglio. Il motivo tecnico di questa ubicazione è che, essendo nata seconda, non poteva fregiarsi dello stesso nome di quella più vecchia. Presidente della San Sisto sarà Carlo Torelli.
La cooperativa di Poviglio prosegue autonomamente la sua vita. Nel ’33 aderì al CCPL, ma nel ’37 (non si conoscono i motivi) venne espulsa. Nel ’38 chiuse per fallimento. Diverso il destino della cooperativa di San Sisto. In mezzo a difficoltà anche di tipo politico (era invisa agli ambienti fascisti della zona) attraversò momenti molto duri, ma la chiusura dell’altra cooperativa conterranea la rafforzò. Gran parte dei soci di quella fallita entrarono infatti nella nuova, dando vita alla cooperativa “Società di Poviglio” con sede nel capoluogo. Nel ’44 aderisce al CCPL e dopo la Liberazione, come tante altre cooperative della zona, decide di andare a cercare lavoro anche fuori provincia. L’importante patrimonio di esperienza che
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Cooperativa Muratori Poviglio
qualifica, tra alti e bassi, questa cooperativa, le permette di non subire, nell’immediato periodo post bellico, le stesse vicende che caratterizzano le altre cooperative. La Muratori di Poviglio infatti, durante il secondo conflitto mondiale, continua a lavorare, anche se in modo assai difficoltoso e saltuario, per cui il ’45 non è l’anno della rinascita, come succede ad altre realtà sospese o liquidate nei periodi bui della guerra, ma un momento per riprendere. Riprendere il lavoro, riprendere a volare con gli antichi ideali soffocati durante il fascismo, riprendere a operare in libertà dopo l’incupimento sociale e politico del Ventennio. Nella cooperativa di Poviglio si afferma quindi il valore della continuità. Valore che per i soci lavoratori è un grande beneficio. La cooperativa si muove subito, perché professionalmente pronta. Non a ca-
so sono quelli di Poviglio che vanno a Roma (1951) per partecipare alla costruzione della sede della Lega Nazionale delle Cooperative. In quell’occasione la cooperativa acquistò la sua prima gru, una modesta Ferrotubi a cui seguirono nel corso degli anni altre gru di marche più prestigiose che, insieme a dumper, pale, escavatrici e altre macchine, dimostrarono quanti passi s’erano fatti dai tempi in cui i lavoratori salivano sul cantiere attraverso scale a pioli, trasportando pesanti secchi di calce sulle spalle. Sono i soci a testimoniare il forte attaccamento ai valori della cooperativa al punto da preferire il lavoro scomodo fuori dal Comune o dalla provincia reggiana, pur di privilegiare la missione di costruire per clienti pubblici o privati piuttosto che per iniziative immobiliari di tipo commerciale. Nel ’47 si lavora a Casalmaggiore, nel ’50 a Mantova.
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Cooperativa Muratori Poviglio
Nel frattempo, dal ’48 è presidente Ugo Mussini, che manterrà la carica per ben 25 anni. La cooperativa sviluppa un’attività d’impresa efficiente, ben organizzata e valutata positivamente dai clienti e dalla cittadinanza. Poviglio, come altre cooperative della zona, punta a dare innanzitutto lavoro, contribuendo a garantire opportunità di crescita alla comunità nella quale opera, a fornire speranza per coloro che la guerra aveva lasciato senza nulla o comunque nella miseria. I risultati sono particolarmente positivi: si passa dai 19 soci addetti del ’40, ai 52 del ’50, ai 76 del ’60, per arrivare ai 121 del ’70. La cooperativa di Poviglio insomma cerca di coniugare, attraverso il lavoro e la propria esperienza imprenditoriale, gli ideali socialisti del mondo cooperativo con le esigenze socio culturali della società civile di quel periodo storico.
Non a caso, quando nel ’77 (due miliardi di fatturato e 140 addetti) confluirà in Coopsette, porterà in dote una presenza importante di soci liguri, che aveva associato durante il suo cammino dagli anni Sessanta in poi. La promozione cooperativa in Liguria ha rappresentato un elemento caratterizzante per la Muratori di Poviglio. Il primo lavoro fu la costruzione di una scuola, l’ITI “Giorgi” di Via Timavo a Genova. A questo cantiere fecero seguito l’ITI di Sestri Levante e la costruzione di alloggi a Lavagnina e Genova Prà. Da allora, la presenza in Liguria della cooperativa di Poviglio – e in seguito della Coopsette – è stata ininterrotta. Tra i più convinti sostenitori di questa esperienza va annoverato Egidio Caleffi, che nel ’73 diventa presidente della cooperativa e poi dirigente di Coopsette fino alla sua prematura scomparsa.
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Cooperativa Braccianti Campegine
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Nacque nel 1890 col nome di “Cooperativa di Lavoro Braccianti” di Campegine. Nel 1902 aveva 277 soci, con un capitale sociale di 3324 lire. Presidente era Diego Manghi. Dopo trentun anni di attività, venne sciolta dal fascismo. Riuscì però a ricostituirsi, nel marzo del ’33, con il nome di “S. A. Cooperativa Nazionale Agricola” fra i Braccianti del Comune, anche se fortemente condizionata dal PNF (Partito nazionale fascista), che esercita il controllo attraverso il vice presidente Otello Re e il Collegio Sindacale (il 50% del quale nominato dal PNF stesso). Le ragioni del permesso a riformarsi sono probabilmente legate ai consistenti progetti di bonifica, per fare risalire le acque del Po fino a Campegine. Presidente fu inizialmente Giacomo Manghi (indipendente di sinistra), che coprirà l’incarico sino al ’35 ed anco-
ra dal ’41 al ’45. Dal ’35 al ’41 gli succederanno Otello Re e poi Aristodemo Montanari, entrambi iscritti al PNF. Nel ’33 la cooperativa conta 114 soci, che saliranno a 209 nel ’38. Terminati i lavori di bonifica, la cooperativa entra di nuovo in crisi. Si fanno lavori stagionali, oppure ci si trasferisce in Piemonte per la monda del riso; comunque lavori saltuari che non garantiscono un reddito dignitoso ai soci. Presidente della Cooperativa Braccianti di Campegine nel ’45 viene eletto Elio Giannotti, al quale sei anni dopo, per morte prematura, succederà Carlo Toschi, che la guiderà per 26 anni fino all’unificazione in Coopsette. Nel ’49 (in quel periodo la compongono circa 192 soci oltre ad un notevole numero di dipen-
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riescono ad ottenere i finanziamenti per realizzare lo svaso del canale. Nel ’56, infine, la svolta. Nel quadro di un più generale processo di riconversione che portano avanti il CCPL e l’Associazione provinciale delle cooperative di produzione e lavoro, la cooperativa comincia a lavorare nel settore strade. Nel giro di poco tempo supera tutte le sue difficoltà economiche e di bilancio per intraprendere una serena politica d’impresa. È vero che questa ristrutturazione produttiva non è indolore, i braccianti che devono trasformarsi in operai specializzati nel fare strade vengono convinti tra grosse difficoltà, l’impresa è costretta a cambiare i propri
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clienti tradizionali, le tecniche per ottenere appalti, i sistemi di controllo di bilancio per governare i costi, ma alla fine il processo di riconversione dà ottimi risultati. Si inizia così ad acquistare macchinari, a fare corsi di formazione per il loro uso, si pratica una politica molto attenta all’informazione e al coinvolgimento sociale. Per circa quindici anni la Cooperativa Braccianti procede nella nuova attività, fintanto che,
all’inizio degli anni Settanta, aderisce con grande convinzione alla politica di unificazione, portata avanti dal movimento cooperativo di produzione e lavoro provinciale. Un primo progetto di unificazione con la consorella Muratori di Campegine fallisce per il rifiuto di quest’ultima. Riuscirà invece quello che, nel 1977, insieme ad altre cinque cooperative della zona, porterà alla nascita di Coopsette.
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Diciotto anni dopo la Braccianti, a Campegine, nasce nel 1908 anche la Cooperativa Muratori. Di questa non esistono documenti né testimonianze che permettano di conoscere il suo profilo produttivo o la sua storia economica. Sappiamo solo che nel ’23, ne è presidente Mainini Remiglio, il Fascio aveva costituito anche a Campegine il Sindacato Corporativo Muratori Fascisti che, come nel caso di Cadelbosco, spadroneggiava nei lavori sia pubblici che privati. Così nel dicembre del ’23 la società si sciolse. La ritroviamo nel ’30 quando a Campegine nasce la Cooperativa Nazionale Edile. Tra i fondatori vi sono diversi militanti della cooperativa socialista sciolta sette anni prima. L’ingerenza del Fascio locale è pesante: il segretario è sempre presente alle sedute di bilancio, alcuni consiglieri sono fascisti e i presidenti Bedogni Ampelio e Ferroni Enrico devono iscriversi al PNF, pur dimostrandosi mai succubi dei gerarchi locali. Alla costituzione parteciparono 12 soci, tutti muratori. Il lavoro comunque era troppo scarso e anche in questo caso si darà la possibilità a chiunque di integrarlo con una propria attività privata, a patto che il ricavato vada versato alla cooperativa. La retribuzione sarà uguale per tutti i soci, siano essi al lavoro presso la cooperativa o in attività privata. Nel ’33 il lavoro aumenta. La cooperativa sviluppa importanti lavori all’aeroporto di Reggio, poi a Parma e Piacenza. Nel ’37 registra un bilancio pienamente soddisfacente (un utile di 1815 lire), mentre nel ’41 (quando ha 34 soci) acquista una casa con terreno per darsi una sede fissa. Con la guerra la paralisi è però completa e si campa con piccoli interventi e ci si impegna in attività di assistenza alle famiglie degli operai chiamati al fronte. Nel ’44 è eletto presidente Francesco Cavalchi, che ricoprirà l’incarico fino al ’54.
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La Liberazione trovò la cooperativa già pronta ad operare sul mercato. Il Consiglio di amministrazione si diede molto da fare per portare a casa lavoro ma, come tutte le cooperative della zona nello stesso periodo, trovò molte difficoltà. Nel ’48 l’80% dei soci risulta disoccupato. I rapporti con il CCPL erano tesi a causa delle pesanti condizioni di appalto, per cui si decise di andare direttamente sul mercato e la cosa portò dei benefici. A metà degli anni Cinquanta il reddito consente di promuovere una Mutua Interna e nel ’54 viene assunto il primo responsabile tecnico nella persona di Livio Spaggiari che diventerà anni dopo presidente del CCPL. Sempre in quegli anni, all’interno della cooperativa, si sviluppò un ampio dibattito sull’apertura a nuovi soci, che porterà ad affermare il concetto della cooperativa aperta e, dopo accese discussioni, anche a cambiamenti nel gruppo dirigente. Nel ’54 viene eletto presidente Ettore Incerti e nel ’56 lo sostituisce Nello Cavalchi, con vice presidente Aurelio Conti. La nuova dirigenza si distingue per scelte stra-
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tegiche coraggiose e controcorrente. Negli anni Sessanta, nonostante l’ostilità con cui gli organi della Federcoop e del CCPL reggiani vedevano l’impegno delle cooperative in attività immobiliari, la Muratori di Campegine fa questa scelta che si rivelerà fondamentale, consentendole di produrre un’accumulazione di capitale che potrà utilizzare negli investimenti futuri. A metà degli stessi anni, infatti, due sono i nuovi indirizzi produttivi che vengono intrapresi: la produzione della ceramica e quella dei solai. Considerazioni di convenienza economica avrebbero consigliato di costruire lo stabilimento ceramico nel comprensorio delle ceramiche (Sassuolo e dintorni), ma prevalsero le considerazioni
di ordine sociale: Campegine era un’area depressa e lo stabilimento poteva essere un volano per far decollare industrialmente l’economia locale. L’avvio della nuova attività produttiva fu naturalmente difficoltoso e si evidenziarono anche delle perdite. Le difficoltà iniziali, però, vennero superate quando si decise di puntare su una produzione qualitativa, introducendo tipologie particolari sul decoro a mano. Il Consiglio di Amministrazione assegna a Nello Cavalchi la direzione del settore ceramico ed elegge presidente Aurelio Conti. Negli anni Settanta la ceramica Campeginese acquisisce un sicuro posto di prestigio nel settore, sia sul mercato italiano che estero, e si conferma la realtà industriale più importante del Comune.
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Nel ’76, nella fase preparatoria del progetto di unificazione in Coopsette, solo una risicatissima maggioranza risultò favorevole: appena il 51%. Troppo ristretta per una decisione così importante. Troppo rischioso, si convenne di comune accordo, affrontare una scelta irreversibile in un clima di divisione tra i soci. Così, sia la Cooperativa Muratori di Campegine che le altre sei cooperative coinvolte nel progetto decisero che era meglio non forzare e aspettare per consentire l’eventuale maturazione di un maggiore consenso. Il risultato fu che la Campeginese entrerà effettivamente in Coopsette nel ’90. Nel ’77 viene eletto presidente Luigi Rozzi. Dopo la scelta di non aderire alla costituzione di Coopsette la Campeginese prosegue lungo la sua strada. Investirà 600 milioni per ammodernare la produzione di solai prefabbricati, mentre nell’85 investirà ben 6 miliardi per un nuovo stabilimento per la ceramica da pavimento in monocottura di pasta bianca; cosa che porta il fatturato del settore ceramica, nel corso degli anni Ottanta, da 4 a 20 miliardi. Il mercato confermerà alla Ceramica Campeginese un ruolo non marginale per originalità e buon gusto. Nell’86, anche a causa di difficoltà di mercato, assume la decisione strategica, condivisa con il CCPL, di chiudere la produzione di solai prefabbricati e di trasferire l’attività a Brescello, presso lo stabilimento del Consorzio. Essendo produttore del laterizio e con la confezione in loco dei manufatti, il CCPL aveva infatti costi produttivi meno gravosi ed era quindi più competitivo. In questo periodo si registra inoltre un’espansione e un rafforzamento del tradizionale settore edile, che porta alla realizzazione, con buona redditività, di opere di grande rilevanza nelle zone storiche di ra-
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dicamento: Reggio e Parma, con una particolare presenza nel segmento immobiliare residenziale. Alla fine degli anni Ottanta, anche in concomitanza con una riduzione della domanda sui mercati in cui opera la cooperativa, nel gruppo dirigente prende corpo la consapevolezza che le possibilità di sviluppo dell’azienda si giocano su livelli patrimoniali ed imprenditoriali più consistenti rispetto alle dimensioni raggiunte. Si conferma che prevedere con adeguato anticipo l’evoluzione del contesto esterno è un esercizio vitale per ogni azienda, ma sempre molto difficile. Ancora di più quando il coinvolgimento diffuso e il consenso dei soci rappresentano il pilastro imprescindibile di una azienda cooperativa con una lunga tradizione e una solida situazione patrimoniale. Ciò nonostante, la maggioranza dei soci valuta positivamente l’obiettivo di compiere scelte vitali per l’azienda e matura quindi l’idea di andare all’unificazione con Coopsette, che si realizzerà il 1° gennaio 1990.
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La cooperazione nella Bassa Mantovana
Per comprendere le radici profonde del consenso verso il movimento cooperativo è necessario coglierlo nei suoi momenti costitutivi. Nel caso della cooperazione mantovana ciò è tanto più importante poiché essa è stata il frutto di spinte ed esperienze complesse, subendo l’influsso di realtà in cui la cooperazione si era sviluppata anche in modo più organico e sistematico, come in Emilia, ma anche in Veneto e in altre zone della stessa Lombardia. La tradizione dell’organizzazione operaia e contadina ha avuto inizio verso la metà dell’Ottocento e sin da allora la cooperazione ha avuto modo di sperimentare le sue prime presenze e le sue prime forme. Le origini del movimento cooperativo a Mantova vanno quindi ricercate nell’apparizione delle società di mutuo soccorso che non solo svolsero funzioni di natura assistenziale, ma spesso promossero iniziative cooperative nel settore del consumo. Fin dal 1868 la “Fratellanza operaia”, ispirata all’esempio dei magazzini alimentari milanesi, coordinò, infatti, dietro lo stimolo di Achille Sacchi, un sistema coordinato di società mutualistiche e cooperative. È però interessante notare che è soprattutto la grande esperienza sociale e organizzativa de “la boje” (1882-1885) a costituire l’effettivo e più articolato punto di partenza per la nascita e lo sviluppo del movimento cooperativo nel settore della produzione e lavoro. Tanto è vero che dalla lettura degli atti del processo ai contadini mantovani, tenutosi a Venezia nel 1886, l’autore riscontra già l’insorgere d’alcune iniziative cooperative che si affiancarono all’“Associazione generale”. La strada della cooperazione, battuta per prima dai radicali mantovani all’indomani dell’86, per-
verrà quindi al successo innestandosi sulla tradizione delle lotte operaie e soprattutto contadine. Una duplice radice quindi, quella delle società di mutuo soccorso e quella più propriamente politica della costruzione d’ipotesi di democrazia sociale. In questo modo nel 1903 Mantova si collocava tra le prime 10 province cooperative con 52 sezioni e 1478 iscritti. Negli stessi anni la provincia più cooperativa, Reggio Emilia, contava 100 sezioni e 3948 iscritti. Certo quell’eredità è complessa. Dalla esperienza sociale de “la Boje” deriverà anche una visione delle cooperative non solo come un’opportunità di lavoro e d’organizzazione sociale, ma anche come uno strumento rispetto ai fini politici più generali di riscatto sociale del movimento contadino. Arriveranno gli anni dello scontro ideologico, prima della prima guerra mondiale, tra riformisti e massimalisti all’interno del PSI, con reciproche accuse di tradimento. Nonostante ciò il movimento cooperativo dimostrò, com’è nelle sue caratteristiche di forma d’impresa, una capacità d’adattamento e di risposta ai bisogni delle popolazioni. Negli anni della guerra la lotta contro il carovita e il diradarsi dei generi di prima necessità, stimolò il potenziamento della cooperazione di consumo, che venne anche privilegiata con la creazione degli Enti autonomi di consumo, alla cui formazione parteciparono in primo luogo i comuni e le cooperative, oltre ad altri enti pubblici e privati. Questa esperienza testimonia di un intreccio dei vari soggetti presenti in un determinato territorio, in una logica d’integrazione che vedeva nel comune, nelle cooperative e nei sindacati, soggetti con forte assonanza ideale. Vale la pena sottolineare questo aspetto, tipico della zona mantovana.
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Molte cooperative sino alla fine della prima guerra mondiale, sono allo stesso tempo agricole, di produzione e lavoro e di consumo, realizzando una sorta di società autosufficiente. Si tratta cioè di cooperative che al loro interno attuano il ciclo completo dalla produzione al consumo. Si tratta in sostanza di un sistema integrato in cui i settori produttivi trovano una sintesi funzionale a un crescente sviluppo del peso sociale ed economico dell’azienda nella comunità in cui essa opera. A volte anziché da un’unica azienda il “sistema” era costituito da più aziende che agivano nei vari settori sempre nello stesso ambito comunale. Occorre infatti aggiungere che ulteriore vitalità e capacità di incidere in misura significativa nella realtà socio-economica in cui operava, la cooperazione la attingeva dagli stretti rapporti che intrecciava con le Camere del lavoro e le Amministrazioni Comunali, facilitata in questo dalla comune militanza di partito dei soci e dall’interscambio di quadri dirigenti. All’efficienza aziendale s’accompagnava quindi una visione politica del ruolo che la cooperazione era chiamata ad assolvere quale strumento essenziale del riformismo socialista e dell’obiettivo che Alberto Basevi individuava nella “redenzione dei lavoratori”. Anche in epoca fascista queste caratteristiche di fondo continuarono ad essere presenti, anche se, ovviamente, esse furono piegate alle esigenze del regime. Da qui nacque inoltre una esperienza organizzativa e imprenditoriale caratteristica della zona mantovana, quella delle “compartecipazioni collettive”. Il primo contratto di questo genere, firmato a Mantova nel ’32, prevedeva una compartecipazione di braccianti e proprietari sia alle spese sia agli utili.
Ma è anche vero che alla compartecipazione collettiva furono attribuiti, sia in occasione del suo sorgere in periodo fascista sia nell’immediato dopoguerra, connotati di valore del tutto analoghi a quelli riscontrabili nelle cooperative. Alla compartecipazione venne dunque riservato anche il compito di rappresentare uno strumento di difesa dalla crisi economica che è tipico della cooperazione. Non vi è dubbio comunque che, sul piano storico, il periodo fascista segnò la fine della logica d’integrazione a sistema delle cooperative. Con il secondo dopoguerra si affacciano sul mercato cooperative che accentuano il proprio dato di singola azienda con vincoli economici da rispettare; rispetto al disegno precedente dell’affermazione ideologica di un sistema che era anche un sistema “sociale”. Il secondo dopoguerra vede lo sviluppo d’alcune significative esperienze aziendali soprattutto nel campo della produzione e lavoro nel campo delle costruzioni. Vi è anche la nascita di nuove attività, in particolare di servizio, attraverso la costituzione di cooperative d’abitazione, che tutt’oggi rappresentano un elemento importante della presenza cooperativa a Mantova, a testimonianza di una continua capacità d’adattamento della forma cooperativa a nuovi bisogni espressi dalla società. La fusione di CEIM con Coopsette rappresenta un episodio di significativa novità e non usuale nel mondo della cooperazione, nel quale la specificità aziendale è ormai diventata la norma. Tale processo costituisce l’ulteriore testimonianza di un peculiare rapporto tra cooperazione mantovana, sia essa di consumo o di produzione e lavoro.
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Cooperativa Edile Industriale Mantovana (CEIM) San Benedetto Po
Insieme alla Cooperativa Nazionale Edile di Campegine nel ’90 si unisce a Coopsette anche la CEIM di Mantova (Cooperativa Edile Industriale Mantovana). Per la prima volta, fatto singolare, la fusione non riguarda il gruppo storico-geografico delle aziende nate nella bassa Val d’Enza, ma un’impresa lombarda. CEIM fu costituita nel ’77 dall’unificazione di quattro cooperative: la cooperativa “L’Italica” di San Benedetto Po, la Cooperativa Edile Gonzaghese di Gonzaga, la Cooperativa Muratori Suzzarese di Suzzara e la Cooperativa Muratori di Marsiletti di Goito. Queste cooperative erano di dimensioni mo-
deste, sia come numero di soci sia come capitale e volume di affari. La maggiore di queste era “L’Italica” che arrivò all’unificazione in CEIM con 72 soci e 29 ausiliari, e un patrimonio di 428 milioni. Era anche la cooperativa con più storia. Fu costituita nel ’28 sulle ceneri della cooperativa “La Costruzione” e aveva vissuto tutte le traversie e le imposizioni del periodo fascista. Nel ’67 essa incorporò la cooperativa “Terrazzieri” di San Benedetto Po e l’anno dopo toccò il massimo di espansione del numero di soci con 110 unità. Questo incremento fu anche dovuto al fatto che, con una modifica allo statuto sociale, fu consentito di associarsi anche ai tecnici e non solo ai muratori. Il periodo che va dalla metà degli anni Sessanta al momento dell’unificazione fu di sviluppo e di rafforzamento: in questi anni si acquisì l’area industriale a San Benedetto Po, dove oggi c’è un importante stabilimento di Coopsette per la realizzazione di pannelli prefabbricati. “La Suzzarese” era nata subito dopo la guerra ed era una piccola realtà locale, al momento dell’unificazione contava 11 soci ed 11 ausiliari e un capitale di 38 milioni. “La Gonzaghese” era nata nel ’62 da un gruppo di muratori che si erano stancati di “lavorare sotto padrone” e volevano misurarsi con un lavoro autonomo e indipendente. Nel ’77 aveva 46 soci e 40 ausiliari e un capitale di 102 milioni. Questa cooperativa e “L’Italica” non lavoravano solo sul mercato locale ma anche in altre province, Milano, Brescia, Piacenza, Cremona (qui la Gonzaghese aveva anche una sezione soci) ed avevano implementato una struttura tecnico-amministativa qualificata. Il primo laureato, il dott. Paolo Falceri, che poi divenne il primo presidente della CEIM era stato assunto, dopo un ampio dibattito, proprio dalla Gonzaghese.
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Infine la Cooperativa Muratori di Marsiletti, costituita nel ’67, al momento dell’unificazione aveva 32 soci e 6 ausiliari e un capitale di 102 milioni. Decentrata anche territorialmente, essa subentrò solo nell’ultima fase del processo di unificazione. L’unificazione in CEIM avvenne per un processo politico-imprenditoriale favorito dalla locale Federcoop mantovana, non dissimile da quello che portò lo stesso anno alla nascita di Coopsette. In pratica, di fronte a un mercato dell’edilizia in forte trasformazione per governare il quale occorrevano importanti investimenti, non c’era altra soluzione che quella di superare i piccoli campanili, le piccole imprese, per raggiungere una massa critica capace di competere sul mercato. Il progetto prevedeva la costituzione di una sola grande cooperativa di produzione lavoro che raccogliesse tutte le cooperative presenti sul territorio della Bassa Mantovana. Inizialmente era previsto che entrassero anche le cooperative di Quistello e Sermide. C’era omogeneità territoriale, ma anche culturale e ideale e l’obiettivo era di concentrare questo patrimonio per sviluppare una grande cooperativa che potesse svolgere un ruolo di primo piano in Lombardia. Alla fine le cooperative di Sermide e di Quistello non aderirono al progetto e CEIM nacque senza il loro apporto, diventando comunque la maggior cooperativa lombarda di produzione lavoro. I soci della nuova cooperativa affrontarono la scommessa di quel progetto con grande slancio, CEIM divenne un punto di riferimento importante nella realtà imprenditoriale mantovana. La sua struttura commerciale aveva bisogno di appoggiarsi alle strutture del movimento cooperativo per crescere e rafforzarsi, ma negli anni Ottanta, il movimento cooperativo lombardo assunse alcune decisioni strategiche che sicuramente non giovarono
alla CEIM. Il trasferimento del Consorzio Virgilio a Milano e l’orientamento a favorire il radicamento territoriale in Lombardia di Cooperative più strutturate e con esperienze più consolidate, provenienti dalla vicina Emilia, frenarono le ambizioni della giovane CEIM. Si dovette riflettere su quali scelte strategiche compiere per consentire alla cooperativa di salvaguardare i propri soci, la loro professionalità e il patrimonio. Coopsette da partner su alcune attività divenne un interlocutore più importante: le due cooperative avevano le stesse radici e condividevano i medesimi disegni di sviluppo e la decisione di andare ad una unificazione maturò rapidamente. Presidente nella fase dell’unificazione era Claudio Lodi, prematuramente scomparso nel ’96. Nelle intenzioni delle due cooperative questo processo portava all’unificazione di politiche e strategie sul mercato lombardo, capaci di rafforzare e di espandere i volumi di affari di CEIM sviluppati sino a quel momento (attestati allora a circa 90 miliardi) e di consolidare una politica di radicamento sociale nella realtà di Mantova.
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Attorno al 1930 uscì una legge che rendeva obbligatoria per le case coloniche la costruzione delle concimaie per cui per un certo periodo di tempo, come Cooperativa Sant’ Ilario, siamo stati impegnati nella realizzazione di questo particolare tipo di opere. Qui stiamo scavando la fossa per la raccolta dei liquami in un fondo degli Ospedali Riuniti di Parma in località Razza sulla strada che da Calerno porta a Campegine. Come si può vedere lavoravamo di piccone e di pala e mi ricordo ancora oggi che la terra era molto dura. Era talmente dura che anche nella fotografia avevo voluto farle le corna. Oltre a me, che qui facevo il caposquadra, nella foto sono ritratti Boni Orlando, Braglia Renzo, Donelli Alcide e Sacchetti Ernesto. Da una testimonianza di Bruno Reggiani
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Anni 1959-1960 La Cooperativa Muratori di Campegine costruisce a Mantova un complesso di 5 palazzi nella zona dell’ospedale denominato “Numa Pompilio”.
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Anno 1959 Cooperativa Muratori di Campegine. Pausa pranzo nel cantiere “Numa Pompilio” di Mantova.
Fine anni Cinquanta Cooperativa Muratori di Campegine. Costruzione villette a schiera a Milano Sesto San Giovanni. In posa davanti all’obiettivo: a sinistra, un manovale di Sesto San Giovanni che si chiamava Antonio, al centro Manghi Alvaro e a destra Franciosi Cesarino.
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Anno 1954 Gruppo dei partecipanti alla Scuola di Disegno di Rivaltella riservata ai soci delle Cooperative di Reggio Emilia e provincia. La Cooperativa Muratori di Campegine decise di far partecipare Tagliavini Ivo (1° a sinistra in prima fila), Bonoretti Eliseo (2° a sinistra in terza fila) e Tagliavini Franco (4° a sinistra in seconda fila).
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Anno 1954 I tre partecipanti della Cooperativa Muratori di Campegine al lavoro nella Scuola di Disegno di Rivaltella.
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Questa foto risale al 1930 circa. Stavamo costruendo come Cooperativa Muratori di Sant’ Ilario una casa colonica per il Conte Spalletti in località Partitore. La casa era in aperta campagna e prima di iniziare i lavori abbiamo dovuto
costruire anche lo “stradello” di accesso per permettere ai cavalli (allora era l’unico mezzo di trasporto) di portare i mattoni e la ghiaia in cantiere. La foto è stata scattata quasi alla fine del cantiere. Quelli erano anni molto difficili: un lavoro così capitava al
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massimo ogni due anni o tre anni. Ecco quindi anche il perché della foto. Nella fotografia oltre al sottoscritto, che allora era capocantiere, sono riconoscibili: Rosi Ermes, Palmia Girolamo; Braglia Claudio, Reverberi Nello,
Tagliavini Raffaele, Bianchini Angelo, Rosi Remo, Rosi Renzo, Anghinolfi Bruno e Boni Orlando. Da una testimonianza di Bruno Reggiani
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Anni Trenta Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto. Preparazione della malta prima dell’introduzione in cantiere della betoniera.
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Anno 1939 Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto. Costruzione di un ponte su una bonifica in località Praticello. Si trattava del primo ponte costruito con la struttura in cemento armato. In precedenza i ponti erano sempre stati costruiti con i mattoni posati a “volta”.
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Queste due fotografie si riferiscono alla costruzione delle scuole elementari di Castelnovo Sotto. Nella foto piccola, scattata nel 1932, si può vedere l’inizio dei lavori con la palificazione del terreno. Anticamente intorno alla Rocca esisteva una peschiera e di
conseguenza il terreno su cui dovevamo costruire le scuole non teneva. Prima di iniziare le fondazioni abbiamo dovuto dare maggiore consistenza al terreno piantando dei pali con il martelletto che si vede nella fotografia. In primo piano si vede anche
un ragazzo con un fiasco in mano. A quei tempi uno dei compiti dei ragazzi era quello di andare a prendere l’acqua in piazza per portare da bere ai muratori. La foto grande è stata fatta davanti alla Rocca dopo la conclusione delle scuole e
rappresenta la foto ricordo dei muratori di quel cantiere. Da una testimonianza di Ermes Gabbi
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Anni Trenta Un lavoro della Cooperativa “Il Progresso”. La Società Cooperativa Muratori “Il Progresso”, costituita nel 1936 sulle ceneri di una precedente esperienza miseramente fallita ad opera del fascio locale, rappresenterà la base della futura Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto. In alto a destra il timbro della Cooperativa.
Nella pagina a fianco Siamo negli anni Trenta, i muratori della cooperativa di Castelnovo costruiscono un nuovo edificio recuperando vecchi mattoni. Da notare il classico passamano dei mattoni sulla scala.
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Questa fotografia si riferisce ad un lavoro eseguito dalla Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto a cavallo degli anni Quaranta. Si trattava, come si può vedere anche dalla scritta, della costruzione del magazzino del locale Consorzio Agrario. Tra gli operai del cantiere è ben riconoscibile Ferrarini Paolo meglio conosciuto come “Paol”. Capocantiere era invece Bertolotti Camillo. Sullo sfondo della fotografia si può vedere la stazione ferroviaria, allora funzionante, e lo scalo che serviva per caricare e scaricare i vagoni. Anche la stazione era stata costruita dalla nostra cooperativa, ma in un’epoca precedente: verso il 1933-34 in pieno periodo fascista. Da una testimonianza di Ermes Gabbi
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Questo è il lavoro di costruzione dell’Ospedale di Castelnovo Sotto. Il lavoro, appaltato dall’Opera Pia Beata Vergine della Misericordia alla Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto, iniziò verso il 1936. A Castelnovo esisteva già l’Ospedale e la nuova costruzione trovò posto vicino al vecchio Ospedale. Arrivati a copertura, all’incirca verso il 1938, l’Amministrazione dell’Opera Pia rimase senza fondi e i lavori furono sospesi. Ricordo ancora che l’importo dei lavori era di 300.000 lire. La sospensione, anche a causa dela guerra, durò per ben otto anni. Durante la guerra l’edificio venne utilizzato dai tedeschi come magazzino e deposito del loro ospedale militare che era stato sistemato nei locali delle vicine scuole. A conclusione della guerra, sempre in base al vecchio contratto, i lavori poterono finalmente riprendere e l’ospedale venne terminato in un paio di anni. Nella fotografia, che si riferisce alla parte di lavoro svolto prima della guerra, si possono vedere le macchine a disposizione del cantiere. A quei tempi eravamo, forse, gli unici a possedere una betoniera e ne eravamo molto orgogliosi. Da una testimonianza di Ermes Gabbi
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Nelle due foto si può vedere il lavoro di “svaso” del Canale Cavo Inveriaga, che risale al 1949, eseguito dalla Cooperativa Braccianti di Campegine in località Campegine. Questa opera veniva eseguita per permettere lo scolo delle acque. In questo periodo la Cooperativa Braccianti svolgeva prevalentemente lavori di bonifica e lavori agricoli (sistemazione terreni
e livellamento a prato stabile). I lavori stradali hanno sostituito i lavori agricoli nel 1955-56, mentre i lavori di bonifica continuavano ad essere eseguiti con l’ausilio però di macchine escavatrici.
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Questa fotografia risale al primo dopoguerra (1946 ca); si tratta della costruzione della sede e del magazzino della Cooperativa Muratori di Poviglio. Il magazzino è stato costruito con materiale di recupero (in buona parte) e con il lavoro volontario di tutti i soci della Cooperativa. Lavoravamo normalmente otto ore sui cantieri poi per la nona, la decima e anche per l’undicesima ora (in definitiva fino a che c’era luce) andavamo a pulire i mattoni e a “tirare su” il muro. Ricordo che spesso abbiamo lavorato anche di domenica mattina. Questa è stata la nostra prima sede e ha rappresentato per noi povigliesi, oltre che un motivo di orgoglio, anche la realizzazione di una grossa aspirazione: quella di avere un punto fermo. In precedenza infatti, eravamo un po’ nomadi: avevamo cambiato ben 3 posti di magazzino (uno a San Sisto e due a Poviglio). Il progetto della nuova costruzione prevedeva un portone centrale per l’accesso
delle attrezzature. Ai lati due uffici e al piano superiore l’abitazione del custode che era anche magazziniere. A lato del portone si può vedere parcheggiata una moto: si trattava del primo mezzo della nostra cooperativa. Era una MW 150 che il presidente adoperava per andare al mercato e per girare sui cantieri. Io, che a quel tempo facevo l’assistente di cantiere e il distributore della mano d’opera, avevo invece in dotazione un “Guzzino”. Si può quindi dire che quella moto era un po’ il nostro mezzo di rappresentanza. Da una testimonianza di Ivo Curti
Anno 1935 Una pagina dell’Atto costitutivo della Cooperatva fra Muratori e Manovali con sede a San Sisto di Poviglio.
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Nel primo dopoguerra era stata approvata una legge che imponeva agli agrari di fare migliorie fondiarie con la costruzione di canali di bonifica per l’irrigazione delle campagne. In quegli anni la disoccupazione era altissima e questa legge prevedeva, per incrementare l’occupazione, che il lavoro fosse effettuato manualmente. Gli agrari si opposero e per l’applicazione della legge si rese necessaria l’occupazione
degli argini del cavo Fiuma con le carriole. È stata una battaglia indimenticabile che ha visto centinaia e centinaia di braccianti della bassa Reggiana riversarsi sugli argini a lottare per il proprio lavoro. Lo sciopero durò 40 giorni ed ebbe il sostegno e la solidarietà anche dei contadini, degli artigiani e di tutta la popolazione. Le donne si impegnavano a raccogliere viveri e li portavano sugli argini per sostenere i braccianti in
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lotta. Alla fine la lotta fu vittoriosa e il lavoro fu appaltato alle diverse cooperative Braccianti della zona tra le quali anche la cooperativa Braccianti di Campegine e la Fratellanza di Cadelbosco. Lo sciopero della Fiuma è stato un positivo banco di prova per la classe operaia ed ha rappresentato uno stimolo per le lotte successive. Da una testimonianza di Carlo Toschi
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Questo era un lavoro abbastanza usuale per le ex cooperative di Braccianti e anche noi della Fratellanza di Cadelbosco lo abbiamo fatto per diversi anni. Si trattava del lavoro di scavo per la sistemazione e il risanamento degli argini franati. Lo scavo, come si può vedere, veniva fatto con badile e carriola e il risultato finale non aveva nulla da invidiare ai lavori fatti oggi con i moderni escavatori. A scavo ultimato si piantavano i pali di legno nel terreno alla profondità di sei metri, per rompere il piano di scorrimento, dopodiché si facevano i gabbioni da riempire di sassi e si ricopriva il tutto con la terra. Non erano lavori particolarmente significativi, ma servivano comunque a dare occupazione ad alcune persone e il lavoro a quei tempi purtroppo scarseggiava sempre. In primo piano, sulla sinistra, si vede bene lo strumento usato per dissetarci, si tratta di un secchio chiuso (per salvaguardare l’igiene) con di lato un tubo terminante con un beccuccio per permettere di bere “a garganella”. Per quelli che non riuscivano a bere “a garganella” c’era il mestolo che veniva usato a mò di bicchiere sempre per raccogliere l’acqua dal beccuccio. Tra i lavoratori della fotografia sono ben riconoscibili Bacchi Guido, Menozzi Fernando (detto Al Bughin) e Salsi Bruno (detto Al Manan). Da una testimonianza di Aldo Piccinini
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Anni Cinquanta San Benedetto Po. Foto ricordo di un cantiere di altri tempi: la costruzione di una casa unifamiliare. Assieme, in posa, gli operai del cantiere e i proprietari della casa.
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Primavera 1950 La Cooperativa Braccianti di Cadelbosco era impegnata come la maggioranza delle cooperative braccianti a quell’epoca, nel lavoro di costruzione e rinforzo degli argini. Qui siamo sul Crostolo a Cadelbosco Sotto in località Cantina. Il lavoro consisteva nel “taglio” del canale all’interno dell’argine con trasporto del terreno all’esterno per il rinforzo. Si lavorava con carriola, vanga e badile. Nella fotografia possiamo vedere la “mensa” del cantiere. Il “cuciniere”, che era un socio della cooperativa, al mattino si fermava dal macellaio per comprare la carne, giunto in cantiere accendeva il fuoco, metteva la carne nel paiolo e faceva il brodo. A mezzogiorno cuoceva la minestra, tagliava la carne e distribuiva le razioni utilizzando i tegami che si vedono nella fotografia. Questi tegami erano personali dei soci; era il loro piatto. Il pasto
veniva consumato di solito per terra all’ombra delle piante. Nel pomeriggio il “cuciniere” rigovernava, metteva tutti i tegami in un sacco al riparo poi, se gli rimaneva del tempo, prendeva la carriola e andava a lavorare con gli altri. Il momento del pasto per uomini che lavoravano otto ore alla carriola era molto importante; il “cuciniere “era quindi una figura caratteristica del cantiere. Il costo del pasto era a carico dei soci. Si facevano i conti delle spese sostenute e l’importo dei pasti consumati veniva scontato dalla “quindicina”. Quando si lavorava c’era la possibilità, in questa maniera, di mangiare la carne quasi tutti i giorni; il lavoro però, specialmente in questo settore, non sempre c’era e la carne, in periodi di disoccupazione rappresentava spesso un lusso per pochi! Ne è passata di acqua tra gli argini che abbiamo costruito! Da una testimonianza di Aldo Piccinini
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Anni 1940-1945 Restauro delle scuole elementari di Villa Garibaldi a San Benedetto Po. Il lavoro fu eseguito dalla Cooperativa L’Italica. Nella foto l’uomo vicino alla
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motocicletta (che serviva per girare sui cantieri) era il factotum, nel senso che praticamente si occupava della gestione di tutti i cantieri. Si chiamava Romano Pedrazzoli.
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Nel 1951 l’irruenza delle acque del Po ruppe gli argini e buona parte del Polesine si trovò improvvisamente allagata. I danni furono ingentissimi: chilometri e chilometri di terreno ricoperti da metri d’acqua, che richiedevano per la loro risistemazione un lavoro incessante.
In quest’opera di recupero dei terreni e di risanamento degli argini molte furono le imprese impegnate: tra queste anche la Cooperativa Braccianti di Campegine. Qui siamo a Polesella davanti alla baracca che per due anni (all’incirca dal 1954 al 1956) ha rappresentato il nostro
punto di riferimento. Il nostro lavoro consisteva nella ricostruzione degli argini mediante l’impiego di “tournapull”, ruspe speciali che sollevavano il terreno e lo compattavano. Una volta ricostruito l’argine facevamo le “zolle”. Era questa un’operazione di
innesto sulla terra nuda di pezzi di terreno erboso per dare all’argine maggiore tenuta. Sullo stesso argine abbiamo poi ricostruito anche una strada; andavamo a caricare la sabbia a mano ed anche il “copacane” (ciotoli) è stato posizionato tutto a mano.
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In questo lavoro, che era più che altro di coordinamento, eravamo impegnati in quattro-cinque campeginesi; in più c’erano cinque o sei lavoratori del posto. Vivevamo in questa baracca. La signora che c’è nella fotografia, moglie di Bertani, (terzo da sinistra) ci faceva
da cuoca. Tornavamo a casa ogni quindici giorni con il pullman di linea. Facevamo i turni perché non si poteva lasciare il cantiere incustodito. Nel Polesine siamo rimasti due anni. Possiamo dire che, pur nel nostro piccolo, anche noi
abbiamo contribuito alla rinascita di quelle zone alluvionate. Da una testimonianza di Rodolfo Pasturini
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Anno 1930 Una pagina dell’Atto costitutivo della Cooperativa Edile Nazionale di Campegine.
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Nella pagina a fianco Fine anni Quaranta-inizi anni Cinquanta Cooperativa Braccianti di Campegine. Costruzione della strada Quara-Toano nell’Appennino Reggiano. Nella foto il rullo compressore Breda che era stato soprannominato “Piero”. Funzionava a carbone e consumava al giorno circa 3 quintali di carbone e 10 quintali di acqua. La macchina era di proprietà del CCPL, ma in seguito fu acquistata dalla Cooperativa e riconvertita sostituendo il motore a vapore con un motore diesel. Con questa nuova impostazione fu utilizzata ancora per diversi anni e venne demolita solo alla fine degli anni Settanta.
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Prima di decidere di andare a lavorare fuori provincia, vennero fatte, nella Cooperativa Muratori di Poviglio, diverse riunioni di C.d.A. e numerose assemblee dei soci. Era una scelta importante perché si trattava di decidere dell’avvenire della cooperativa e della sua imprenditorialità. Alla fine, non senza incertezze, si decise di andare, e il primo lavoro fu l’assunzione della variante stradale in località Fienili nel Comune di Monticelli D’Ongina per conto dell’Amministrazione Provinciale di Piacenza. Allora il lavoro si presentava molto impegnativo dal lato
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esecutivo, a causa dell’inesperienza professionale specifica di tutti i componenti che facevano parte del gruppo di cantiere e anche a livello centrale della stessa cooperativa. Fare una strada su rilevati di vari metri, tratti in curva e controcurva e costruire un ponte sul torrente Fontana con continua presenza di acqua, sembrava impossibile. Nel 1956 le attrezzature erano quelle che erano, lo sappiamo tutti, un po’ di legname, qualche carriola e una betoniera e con questo si dovevano portare a termine i lavori. Un ricordo indimenticabile di
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questo cantiere è stato il momento del getto delle travi a solettone del ponte più grosso sul torrente. Abbiamo impiegato 3 giorni consecutivi con carriole e due betoniere con caricamento a mano per ultimare i 215 mc di calcestruzzo. A lavoro ultimato i risultati economici non sono stati soddisfacenti, ma l’orgoglio di aver portato a termine i lavori a regola d’arte, per tutti i soci della ex Poviglio è stato molto alto, anzi direi che è stato di sprone per fare nuove esperienze. Da una testimonianza di Luigi Menozzi
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Questa fotografia si riferisce al lavoro che come Fratellanza di Cadelbosco abbiamo svolto dal ’50 al ’54 all’isola d’Elba. Il lavoro, acquisito tramite il Consorzio, consisteva nell’allargamento e conseguente bitumatura delle strade dell’isola. A dirigere i lavori c’erano il geometra Marzi del Consorzio, il capocantiere Cantarelli Demos e alcuni capi squadra e operai specializzati. Gli operai comuni erano invece stati assunti sul luogo. Mentre costruivano la PortoferraioPortoazzurro e la variante Capoliveri, eravamo alloggiati in una casa in affitto in località Valdana; in seguito ci siamo spostati a Procchio e lì abbiamo costruito altre strade: la Marciano Marina e la Marina di Campo. Ritornavamo a casa una volta ogni 3-4 mesi; ci faceva da mangiare la moglie di un caposquadra. Nell’isola a quel tempo non esistevano frantoi per cui per ottenere il pietriscone, che serviva per pavimentare le strade, si minavano le montagne per staccare i massi di pietra, e si rompevano poi questi massi a mano. Nella fotografia si può vedere il lavoro di allargamento delle strade. Per allargare le carreggiate si scavava nella montagna e il materiale di rifiuto veniva scaricato nella vicina scarpata con l’aiuto di un vagone che correva su un piccolo binario costruito appositamente. Nella foto si vede anche il Dodge del Consorzio che ci serviva per il
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trasporto dei materiali e, sistemata sul carretto, la botte dell’acqua. Le macchine che avevamo a disposizione erano un rullo compressore e una spandibitume. Tutto il resto veniva fatto a braccia. Noi della Fratellanza siamo stati i primi nell’ambito del Movimento reggiano, ad asfaltare le strade e questo dell’isola d’Elba è stato il nostro primo lavoro stradale fuori zona, durato ben quattro anni. Da una testimonianza di Giulio Cocconi
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Ufficio della Cooperativa Braccianti di Cadelbosco Sopra. Nella pagina a fianco La riproduzione di un pannello della Cooperativa Braccianti “La Fratellanza” del 1930.
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Nel 1955 il Consorzio Ferrovie Reggiane decise di sopprimere e di smantellare la linea ferroviaria che congiungeva, a quei tempi, Reggio con Boretto. I lavori di demolizione della linea furono acquisiti dal Consorzio, il quale assegnò il primo tronco, e cioè da San Prospero a Castelnovo Sotto, a noi della Fratellanza e il secondo tronco, da Castelnovo Sotto a Boretto, alla Cooperativa Braccianti di Castelnovo Sotto. Qui siamo a Cadelbosco Sopra in località Marola Vecchia. Toglievamo le rotaie e le caricavamo sul carro ferroviario; non era quindi un lavoro difficoltoso e poteva esser svolto benissimo anche da braccianti come noi che non avevamo mai lavorato sulle ferrovie. A conclusione di questo lavoro, dato che la Fratellanza aveva difficoltà a dare occupazione a tutti, la nostra
squadra passò alle dipendenze della Cooperativa Manutenzioni Ferroviarie di Reggio, con la quale abbiamo incominciato a fare lavori più qualificanti come le manutenzioni sulle linee nazionali. Con la Coooperativa Manutenzioni Ferroviarie siamo rimasti fino al 1960, fino a quando cioè non si è prospettata l’apertura della fabbrica di marmette. Da una testimonianza di Pietro Torreggiani
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Tempi lontani, tempi difficili. Una scuola per diventare muratori. Ancora prima dell’alluvione, nella nostra zona trovare un lavoro era difficile. Moltissimi giovani erano senza un’occupazione, e la vita era abbastanza dura. Per ovviare a questi inconvenienti si organizzò in “Rocca” a Castelnovo Sotto una scuola per l’insegnamento edile e affine. Ogni allievo percepiva una paga di alcune centinaia di lire al giorno, che aiutavano un po’ a sopravvivere meglio, altrimenti non essendo iscritti all’ufficio del lavoro non si poteva avere diritto alla disoccupazione. Altro scopo era di tenerli uniti evitando di perdere il tempo in oziose giornate senza fine. Chi frequentava il corso aveva la possibilità di approfondire materie molto interessanti quali: geometria, disegno edile, nozioni tecniche e pratiche. Il Comune di Castelnovo Sotto aveva a disposizione il tecnico comunale geometra Iarba Boni per le lezioni teoriche, la Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto aveva messo a disposizione il compianto socio Fritz Crotti per le lezioni pratiche, offrendo a noi tutto il sapere accumulato in tanti anni di esperienza. Colgo l’occasione per ricordare il “Maestro Fritz” (come amichevolmente lo chiamavamo), così diverso dagli altri muratori: lui era aperto con i giovani, il suo problema era consigliare, insegnare a parlare con le
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nuove leve, mentre per l’epoca in cui eravamo i suoi colleghi muratori erano chiusi e insegnavano mal volentieri e a volte impedivano qualsiasi apprendimento. Lo ricordo anche come grande amico. Senza la pretesa di creare tecnici o artisti, il corso ha fatto passare giornate piene, con un valore educativo. Se poi alcuni hanno capito che nella vita ci può essere uno scopo, allora il successo può dirsi completo. C’è da rilevare inoltre che molti allievi del corso sono passati alle dipendenze della locale Cooperativa Muratori facendosi notare per le loro capacità. All’esame dei giovani, della commissione faceva parte anche il Presidente della Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto Nardo Foielli, dando più tono alla manifestazione. Da una testimonianza di Achille Bettati
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Anni Cinquanta Pranzo sociale della Cooperativa Terrazzieri di San Benedetto Po. Venivano invitati i rappresentanti delle altre cooperative: L’Italica, la Cooperativa di Consumo, la Cooperativa Agricola “La Libertà”e i segretari dei Partiti e del Sindacato. Tra i commensali, in alto a destra, Cesare Mignoni che a quei tempi era segretario della CGIL. In seguito venne assunto dall’Italica come segretario e nel 1971 ne divenne presidente.
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Questa è la fotografia dei soci della Cooperativa Muratori di Sant’Ilario. Siamo, come si può ben vedere, a Venezia. L’anno esatto non riesco a ricordarlo; credo comunque che siamo all’inizio degli anni Cinquanta. In quegli anni abbiamo sostenuto, come d’altra parte
anche molte altre cooperative, dei grossi sacrifici: erano i tempi dei primi lavori a Milano e la busta paga non si vedeva mai intera perché si andava avanti a base di acconti. La gita a Venezia aveva lo scopo di riconoscere, anche se indirettamente, questi sacrifici;
era una ricompensa collettiva. La partecipazione è stata totale. D’altra parte a quei tempi andare in gita era un fatto certamente eccezionale. Siamo partiti in pullman sabato notte e siamo rientrati domenica sera. La foto è stata scattata nella
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piazzetta dove abbiamo pranzato. Ricordo che abbiamo mangiato all’aperto sotto un pergolato. Il ristorante si chiamava “La vite”. Nel pomeriggio siamo andati alla scoperta di Venezia e delle sue isole a piccoli gruppi e ci siamo ritrovati tuttti di nuovo alla
sera per la partenza. La gita è riuscita benissimo e al ritorno eravamo tutti soddisfatti della bella giornata trascorsa. Da una testimonianza di Walter Ghidotti
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Visita alla fiera campionaria di Milano con tappa ad un nostro cantiere. L’immagine si riferisce all’incirca al 1959-60. Non è un’immagine di lavoro, ma di tempo libero, che i lavoratori della Cooperativa Muratori di Castelnovo Sotto, in quell’occasione, decisero di spendere a visitare, tutti insieme, la fiera di Milano. Allora le gite non erano molto frequenti e quando capitava l’occasione al massimo si facevano in una giornata. Nonostante il lavorare fuori sede a Milano fosse un’esigenza per la Cooperativa per garantire il salario ai lavoratori, e ad andarci fosse molto più disagevole di quanto non lo sia ora (si facevano le valigie e si veniva a casa in treno una volta ogni 15 giorni) per chi a lavorare c’era mostrare il proprio cantiere era un orgoglio e per chi non c’era mai stato (impiegati e non) c’era la curiosità di andare a vedere dove e come lavoravano i colleghi. Con piacere, quindi, una parte
della giornata festiva, anche in quell’occasione, fu dedicata alla visita di un nostro cantiere edile, in specifico il cantiere della scuola per tecnici di Rho. Per il pranzo, naturalmente, non si pensava al ristorante, ognuno se lo era portato nella borsa. Da una testimonianza di Giorgio Speroni
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Questa è la foto ricordo della conclusione di una importante iniziativa formativa promossa dalla Federcoop di Reggio verso la metà degli anni Cinquanta: la scuola per capi cantiere. La scuola si svolgeva presso una villa di via Passo Buole (dietro l’ospedale) e aveva la
durata di tre anni. I corsi duravano tre mesi e si tenevano nel periodo invernale approfittando della sospensione del lavoro nei cantieri per il maltempo. I partecipanti erano solitamente indicati dai Consigli di Amministrazione delle cooperative.
La scuola era residenziale e completamente gratuita; si mangiava e si dormiva nella villa e si ritornava a casa solo alla domenica. Le giornate trascorrevano tra lezioni, ore di studio ed esercitazioni. Con l’ausilio di diversi insegnanti affrontavamo materie come la
matematica, l’economia politica, il disegno geometrico, il disegno costruttivo, la tecnica delle costruzioni, il computo metrico, i tracciamenti ecc. Era un impegno estremamente serio, si studiava tutto il giorno e spesso anche di sera. Per me, per la mia formazione
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professionale questa scuola è stata senza dubbio determinante. Oggi probabilmente sarebbe superata. A quei tempi noi avevamo esperienza pratica perché lavoravamo già da tempo sui cantieri ma ci mancava l’approfondimento teorico.
Oggi invece i giovani vanno a scuola, si diplomano geometri ma spesso non sanno affrontare i problemi pratici del lavoro. Oggi quindi l’esigenza prioritaria per i giovani non sarebbe quella di rinchiudersi in una scuola a studiare, bensì quella di sperimentare i problemi dal vivo in cantiere.
Nella foto sono ritratti sia gli insegnanti che gli allievi del mio corso. Tra gli insegnanti sono riconoscibili Aldo Magnani e Ivano Curti, il professor Dall’Aglio, che insegnava costruzione e il professor Canovi che insegnava economia politica. Tra gli allievi, oltre al
sottoscritto, sono riconoscibili Marmiroli Emidio, Battini Nedo, Cavatorti Graziano e Bertani Esule. Da una testimonianza di Enzo Soliani
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Una delle tante iniziative di formazione cooperativa, organizzate negli anni Cinquanta.
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Giugno 1960 Su un appezzamento di terreno di circa 10.000 mq, ubicato in Castelnovo Sotto, via Fontanese, prese inizio una nuova attività industriale. I soci della locale Cooperativa Muratori, per creare nuovi posti lavoro, diedero vita a una nuova cooperativa denominata COCEP. Lo stabilimento di produzione era limitato ad un piazzale inghiaiato di circa 500 mq su cui venivano prodotti casseri e travi in cemento armato per la costruzione di coperture per fabbricati di civile abitazione. Come ben si vede nella fotografia, le attrezzature non erano “sofisticate”, ma entusiasmo e volontà sopperivano in modo egregio. Per qualche anno ancora il lavoro verrà eseguito in modo del tutto manuale, perché le limitate disponibilità finanziarie non concedevano lussi. L’attività si allargherà però giorno per giorno, ampliando sempre di più la gamma dei prodotti. Verranno inserite gradualmente le macchine necessarie, fino ad arrivare all’attuale attrezzatissimo stabilimento. Riguardando questa fotografia mi vengono in mente gli uomini, i loro entusiasmi, i sacrifici e il sudore che hanno permesso di raggiungere la realtà attuale. Da una testimonianza di Arturo Focarazzo
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Questo è stato il secondo lavoro stradale (il primo era stato la strada Piacenza-Grazzano Visconti) fuori zona, eseguito dalla Cooperativa Braccianti di Campegine. Si trattava del lavoro di correzione di una strada di montagna in località Bettola-Gropparello appaltato dall’Amministrazione Provinciale di Piacenza negli anni 1962-63. I lavori di primo impianto, sistemazione, allargamento, correzione della strada e i muri
di calcestruzzo di sostegno della scarpata erano stati eseguiti dalla Cooperativa Muratori e Manovali di Baiso. Noi invece avevamo fatto la sagomatura della massicciata e la bitumatura. L’importo complessivo delle opere ammontavano a decine di milioni; per quell’epoca era un lavoro significativo e per noi era uno dei primi grossi lavori stradali. La durata del cantiere fu di alcuni mesi.
Come si vede nella foto, la squadra che eseguiva le opere di pavimentazione era composta dagli operai della cooperativa. Erano inoltre presenti il geometra Marzi del Consorzio (con il vestito chiaro) e il capo cantoniere Lentini della provincia di Piacenza (con il block notes in mano). I lavori erano stati eseguiti tramite il Consorzio di Reggio. Riguardare queste fotografie dopo tanto tempo fa sempre
piacere: un po’ perché si era più giovani, ma soprattutto perché rappresentano tappe importanti della nostra cooperativa. Da una testimonianza di Carlo Toschi
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Anni 1954-1957 Cooperativa Terrazzieri. Dopo l’alluvione del Po del 1951 vengono rinfiancati gli argini dalla frazione di Portolo fino alla foce del fiume Secchia.
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Anni 1938-1940 Cooperativa “L’Italica”. Costruzione del Consorzio Agrario di via 1° maggio a San Benedetto Po, tuttora esistente.
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Anno 1955 Cooperativa Muratori di Gattatico. Alcuni soci impegnati nei lavori di fondazione di un fabbricato a quattro piani a Gallarate. Come si può notare la meccanizzazione, malgrado la mole dell’intervento, non è ancora presente in cantiere e si lavora con vanga e badile.
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Anno 1957 La Cooperativa Muratori di Gattatico aveva acquisito a Varese il lavoro di ristrutturazione della sede di una cooperativa di consumo locale: al piano terra c’erano i negozi e al primo piano gli uffici. Nella foto Erminio Mossini, che a quel tempo svolgeva la mansione di carpentiere e che in seguito diventerà presidente della cooperativa.
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Anno 1974 Uno dei maggiori cantieri in terra ligure della Cooperativa Muratori di Poviglio. Si tratta della costruzione di alloggi IACP in via Cravasco a Genova Voltri. I capi cantiere dell’intervento erano Codeluppi Sidraco e Mori Romano.
Nella pagina a fianco Tutti sanno che a Roma, in via Guattani, c’è la sede nazionale della Lega delle Cooperative; non tutti sanno però che il palazzo che ospita la Lega è stato costruito da una delle nostre cooperative: la Cooperativa Muratori di Poviglio. Il lavoro, acquisito tramite Consorzio nel lontano 1955, è stato uno dei primi lavori fuori sede della Poviglio e ha aperto la strada ad altri lavori romani
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(Coop. Edificatrice Monte Mario, Villa Ferruccio Tagliavini, condominio Tormarancio ecc.). Per quell’epoca il cantiere era certamente significativo, in particolare presentava una notevole opera di carpenteria che richiamava l’attenzione degli stessi operatori edili locali. Abbiamo visto spesso infatti diversi imprenditori edili romani venire a curiosare al di là della staccionata! A Roma per questo cantiere
eravamo in 5 soci povigliesi; le altre maestranze erano state assunte in loco. Il cantiere l’ho iniziato io, in collaborazione con Gatti, poi è subentrato Ermes Del Prato. All’inizio vivevamo in baracca; in seguito però, dato che la distanza non consentiva di ritornare a casa periodicamente, si sono trasferite anche le nostre rispettive famiglie e ci siamo sistemati nella cantina del palazzo che avevamo suddiviso
con pareti provvisorie. Riguardo alla baracca vi è da segnalare un particolare curioso: lo spazio a disposizione del cantiere era estremamente ridotto per cui abbiamo risolto il problema della sistemazione della baracca, collocandola al 1° piano. Si può dire quindi che eravamo in una baracca pensile. La costruzione del palazzo della Lega ci ha temprati come costruttori e ha certamente dato
lustro alla nostra cooperativa. Anche oggi, a distanza di diversi anni, credo che possiamo affermare con orgoglio: «Il palazzo della Lega Nazionale l’abbiamo costruito noi». Da una testimonianza di Ivo Curti
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Carlo Bertozzi, uno dei primi cinque operai della Coperfer, al lavoro nell’officina. «Io –- racconta – facevo già il saldatore e, quando mi è stato proposto di entrare alla Coperfer, ho accettato di buon grado perché intravedevo la possibilità di fare un’esperienza professionalmente completa. All’inizio mi sentivo forse solo operaio ma ben presto sono stato coinvolto totalmente e mi sono sempre impegnato in prima persona per il buon andamento della cooperativa. Che soddisfazione quando alla fine dell’anno il bilancio era positivo!»
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C’era una volta la “sirella”. La “sirella” è un attrezzo per il sollevamento formato da un palo, una carrucola, un gancio metallico e una grossa corda di canapa. Solleva carichi, che vengono attaccati al gancio, tirando, con mani callose e braccia robuste, la corda che scorre nella carrucola fissata sulla punta del palo. In edilizia era molto usata e le prime travi prefabbricate in cemento armato vibrato, prodotte dalla Cocep per la costruzione delle coperture di case e capannoni, venivano sollevate con la “sirella”. Quanto risultasse duro questo lavoro lo ricordano ancora i posatori di coperture degli anni Sessanta. L’evoluzione delle attrezzature di cantiere ha portato alla completa eliminazione dell’uso della “sirella”. La Cocep è stata la prima produttrice di prefabbricati per coperture che si è attrezzata con autogru per lo scarico e il sollevamento in quota delle travi, industrializzando il settore. Ecco quindi, nella fotografia, il primo mezzo realizzato dalla cooperativa per lo scarico, con grande sollievo dei “sollevatori a mano”. Da una testimonianza di Arturo Focarazzo
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Anno 1966 Cena di fine lavori del condominio Salsi a Poviglio. Alla cena, organizzata nell’osteria adiacente al fabbricato, avevano partecipato, oltre ai soci della cooperativa, anche gli artigiani esterni che avevano prestato la loro opera in cantiere. Nella foto sono individuabili tra gli altri: Ivano Torelli, capocantiere, Renzo Fregni, Dillo Del Prato, Daniele Bacchi, Mario Bonaccini, Dall’Aglio Fernando. Di spalle Orlando Fava e Oddo Bortesi.
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Il Settore Prefabbricati ha sempre avuto, sin dai primi anni di attività, un costruttivo rapporto con il mondo della scuola. Nel corso degli anni molte classi – dalle scuole elementari, alle medie, alle superiori – hanno visitato lo stabilimento e hanno sviluppato ricerche sia sugli aspetti produttivi che sull’organizzazione cooperativa. Nella foto un gruppo di studenti dell’Istituto per Geometri “Secchi”, accompagnati dal tecnico Pierangelo Marconi, osservano la produzione delle travi a doppia pendenza nel vecchio stabilimento di via Fontanese.
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Anno 1976 Grande avvenimento per la Cooperativa “L’Italica” e per San Benedetto Po: prima rassegna del Premio Antonio Ruggero Giorgi, alla quale avevano partecipato e concorso diversi pittori italiani e stranieri. Si riconoscono: Cesare Zavattini, che faceva parte della giuria e il pittore Antonio Ruggero Giorgi cui era dedicata la Rassegna.
A fianco, il Chiostro dei Secolari nel Monastero del Polirone di San Benedetto Po dove si è svolta la manifestazione per la premiazione.
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Anni Settanta Cooperativa Nazionale Edile di Campegine. Produzione dei solai laterocementizi. Fase del getto del pannello autoportante, effettuato a mano con l’utilizzo della mestola.
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Anni Settanta Due delle tante manifestazioni di quel periodo di forti lotte, che vedevano tra i protagonisti anche i soci delle cooperative.
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Anno 1967 Cooperativa Braccianti di Campegine. Asfaltatura dell’acciottolato del centro storico di Castelnovo Sotto.
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Uno dei tanti incontri conviviali della Cooperativa Muratori di Poviglio. La foto risale a metà degli anni Cinquanta. Da sinistra a destra: Luigi Menozzi, Renzo Borghi, Ermes Del Prato e Cesare Menozzi.
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Questa è la prima della lunga serie di porchette arrostite allo spiedo nella sede di Poviglio. Una sera tornando a casa dal lavoro abbiamo trovato sul ciglio della strada un maialino che presumibilmente era caduto dal mezzo che lo trasportava. Lo abbiamo raccolto, lo abbiamo fatto ingrassare e, una volta raggiunto il giusto peso, abbiamo avuto la scusa per trovarci tutti insieme attorno ad un tavolo a fare baldoria. E così è nata la tradizione della festa della porchetta di
Poviglio che si ripete ogni anno tutt’ora. Nella foto attorno allo spiedo Egidio Caleffi, Daniele Bacchi e Mario Bonaccini con la figlia Daniela. Da una testimonianza di Luigi Menozzi
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Anno 1976 Stabilimento Prefabbricati. Banco da 180 cm per la produzione di pannelli da solaio e tamponamento.
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Anno 1976 Stabilimento Prefabbricati. Pista per la produzione di solaio nervato tipo coppella.
Nelle pagine seguenti Febbraio 1978 Foto ricordo del viaggio in URSS organizzato subito dopo l’unificazione in CEIM. Una occasione per rafforzare l’appartenenza alla cooperativa.
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