Sabrina Marchetti
Le Donne delle donne in «DWF», 1-2, 2004, pp.68-98 Wife and servant are the same But only differ in the name. Lady Chudleigh, 1703
§1. Presenze, ruoli ed esperienze delle donne immigrate in Italia1 La presenza femminile nell’immigrazione è un fenomeno particolarmente rilevante e in costante aumento, tanto da far parlare di femminilizzazione dell’immigrazione. Si considera che le donne rappresentino almeno il 50% delle persone in migrazione nel mondo2. La presenza femminile si caratterizza come un’entità eterogenea, in cui le nazionalità di provenienza s’intersecano con le differenti tipologie di donne (mogli, singles, adolescenti) e i loro percorsi migratori. In quest’ottica possiamo delineare tre fasi dell’immigrazione femminile in Italia. Le prime donne ad arrivare sono state le filippine e le capoverdiane negli anni ’80, donne che sono arrivate “sole” per lavorare nel settore domestico. Esse hanno trovato facilmente impiego grazie alla crescente richiesta di colf da parte delle donne italiane, che ormai lavoravano in massa, e all’intermediazione dei padri missionari, che le hanno indirizzate provvedendo, spesso, alla stipulazione dei contratti di lavoro ancor prima della partenza. Sempre durante gli anni Ottanta sono arrivate le donne fuggite dai paesi africani in guerra, specialmente le rifugiate somale ed eritree, che hanno chiesto asilo al nostro Paese sulla base dei rapporti excoloniali. Da ultimo si è assistito all’arrivo delle donne musulmane, in particolar modo marocchine e albanesi, per ricongiungimento col coniuge, emigrato anni prima, e per la stabilizzazione della propria famiglia in Italia3. Nello sviluppo 1
Questo scritto nasce dalla mia tesi per il Master in Studi di Genere dell’Università di Siena , conseguito nel 2003. Ho sviluppato, inoltre, parti di questo lavoro per una ricerca dell’Università di RomaTre e della ‘Coop. Generi & Generazioni’ nell’ambito del progetto “Reti, migranti e nativi/e: reti di esperienze, reti di accoglienze”finanziato dalla Commissione Europea, DG-Affari Sociali. 2 Castels, Stephen and Mark J. Miller, The age and migration: international population movements in the modern world, The Guilford Press, New York e London, 1998. 3 Per la letteratura sull’andamento dell’immigrazione femminile in Italia fare riferimento a Anthias, Floya e Lazaridis, Gabriella (a cura di) Gender and migration in Southern Europe. Women on the move, Berg, Oxford, 2000; Campani, Giovanna, Genere, etnia e classe: migrazioni al femminile tra esclusione e identità, ETS, Pisa, 2000; Colombo, Asher e Sciortino, Giuseppe (a cura di), Assimilati ed esclusi, Il Mulino, Bologna, 2002; Grasso, Mario, Donne senza confini, L’Harmattan Italia, Torino, 1994; Sassen, Saskia, Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli, Milano, 1999; Zincone, Giovanna (a cura di), Secondo
di queste fasi, notiamo il passaggio dal modello mediterraneo a quello nordico4. Secondo il modello mediterraneo dalla fine degli anni Settanta si è incoraggiata l’immigrazione in Italia di certi gruppi etnici perché trovavano facilmente impiego nei settori dell’economia informale, come il lavoro domestico, incentivando così l’arrivo di donne ‘sole’. Il modello nordico, invece, si può riconoscere in Italia a partire dagli anni Novanta, col massiccio impiego di manodopera straniera nell’industria e l’arrivo delle ‘mogli’ per ricongiungimento familiare, reso possibile dalla legge Martelli del 1990, ma intensificatosi in seguito alla legge TurcoNapolitano del 1998. Al momento attuale, con un ritardo di almeno 20 anni rispetto ai paesi del Nord Europa, ci troviamo di fronte ad una fase di stabilizzazione delle comunità immigrate, fase in cui la figura femminile svolge un compito fondamentale, sia nel ruolo di gestione della propria vita familiare, sia in quello di lavoratrice e mediatrice culturale nella società italiana. Quel che tuttavia emerge dalle testimonianze delle donne immigrate è l’importanza del contesto di accoglienza che influenza non solo il loro grado d’inserimento, ma anche il loro successo in ambito professionale e il loro comportamento individuale. Infatti, i percorsi migratori di donne originarie dello stesso Paese, ad esempio donne filippine, sarà diverso se si troveranno in Italia, dove sono tutte impiegate come colf, invece che in altri paesi europei, dove hanno accesso a tutte le professioni. In conclusione, si può forse pensare che il modello di divisione sessuale dei ruoli nella famiglia che vale nel Paese d’accoglienza si ripercuote sui percorsi migratori delle donne immigrate5. In Italia, i settori in cui le donne immigrate s’inseriscono più facilmente sono i settori connessi col terziario, come la collaborazione domestica, l’assistenza domiciliare e gli altri servizi. Quello domestico è il settore caratterizzato dalla maggiore etnicizzazione, ossia è il settore in cui gli/le occupati/e extracomunitari/e superano numericamente gli/le italiani/e, fino ad essere i due terzi nella zona di Roma. E’ interessante notare che in Italia vi è una collaboratrice/collaboratore familiare dichiarata/o all’INPS ogni 256 residenti. Le donne sono il 77,8% dei 114.182 collaboratrici e collaboratori domestici extracomunitari nelle case italiane6. Si tratta per lo più di giovani donne, molte delle quali non hanno una propria dimora indipendente dalla famiglia in cui lavorano. rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001 e Scoppa, Cristiana, “Immigrazione: femminile plurale”, in Noi donne, v.54, n.12 (dic./gen.), 1999. 4 Per la distinzione fra questi due modelli si fa riferimento a Pugliese, Enrico, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna, 2002 e Pugliese, Enrico e Macioti, Maria Immacolata, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Bari, 2003. 5 si veda Pugliese e Macioti, cit.; Campani, cit; Kofman, E., Phizaclea, A., Raghuram, P. e Sales, R., Gender And International Migration In Europe, Routledge, London, 2002. 6 dati da Caritas di Roma e Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2002, Nuova Anterem, Roma, 2002.
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Nell’ambito della collaborazione domestica riveste un ruolo particolare la figura delle “badanti”. Si tratta di donne che si prendono cura di persone anziane non autosufficienti, di cui familiari non sono in grado di occuparsi stabilmente. La maggior parte di esse proviene dall’Est Europeo, ed è sposata, anche se in Italia è venuta senza parenti. Il ruolo di queste donne colma una profonda carenza d’intervento pubblico a favore delle famiglie in cui ci sia un anziano bisognoso di assistenza continuativa. Tuttavia, a dispetto della grande disponibilità d’impiego nel lavoro domestico, recenti indagine e interviste mettono in luce i problemi connessi ad una così accentuata canalizzazione delle donne immigrate verso questa occupazione. Gli effetti negativi di ciò sono: la segregazione in una ristretta cerchia di mestieri cui è funzionale la convinzione che la donna sia naturalmente predisposta per i lavori di cura; salari bassi e comunque non commisurati alla prestazioni richieste; sottovalutazione della precedente formazione delle persone coinvolte; difficoltà di conciliare il ruolo lavorativo con quello materno, con la conseguenza che i figli delle donne straniere vengono affidati ai nonni in patria o si ricorre all’interruzione volontaria della gravidanza7. Si deve considerare, inoltre, come nella nostra società il lavoro sia concepito come un momento irrinunciabile per l’inserimento sociale delle persone, per la propria autonomizzazione e realizzazione di sé. Al tempo stesso, però, il lavoro può essere un fattore di rischio se è fonte d’emarginazione, insoddisfazione e isolamento. Ciò vale particolarmente nel caso delle donne immigrate, per le quali è più difficile trovare un lavoro che soddisfi le aspettative del proprio progetto migratorio e che permetta loro lo sviluppo della sfera socio-affettiva. Il quadro attuale è di una sostanziale marginalità delle donne immigrate, solitamente dedite al lavoro di cura nel contesto familiare, che è aggravata da fenomeni di isolamento, disistima personale e sfiducia verso l’esterno, scarsa conoscenza delle lingua e della cultura italiana, pregiudizio e rifiuto da parte del mondo del lavoro. Un fattore decisivo è l’impossibilità di far valere i titoli di studio conseguiti nel paese d’origine. Nel considerare l’inclusione socio-occupazionale delle donne immigrate, dovremmo tener presenti i seguenti obiettivi: migliorare le condizioni di vita (abitazione, luoghi di aggregazione), promuovere l’accesso delle donne al mercato del lavoro e alla formazione, controllare la condizione delle donne sul posto di lavoro, ridistribuire il lavoro di cura, incentivare la partecipazione delle donne alla creazione di attività socioeconomiche8. 7
Cfr. A.A.V.V., Collana “Percorsi di donne” in 7 vol. Carocci/Organon, Roma, 2001. 8 Per letteratura che affronta questo tema si veda Abtidon, Ali Faduma, Almaterra: percorsi contro l'esclusione sociale e per l'autonomia delle donne, Commissione Nazionale Parità, Roma, 2000; Balsamo, Franca, Da una sponda all’altra del Mediterraneo, L’Harmattan Italia, Torino, 1997; Colonnello,
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Se poi analizziamo il rapporto fra le donne immigrate in Italia e la propria tradizione culturale possiamo distinguere due diverse tipologie di donne immigrate e i loro diversi percorsi migratori. Si osservano, infatti, due diverse strategie d’immigrazione: la migrazione come fenomeno individuale, successivo alla rottura con la comunità d’origine, le sue regole e le sue tradizioni, e la migrazione come strategia collettiva comunitaria, ossia “diretta” dalla comunità d’origine. A ciò corrispondono due diversi atteggiamenti delle donne rispetto alla loro tradizione: uno tende verso il cambiamento dei costumi, delle norme e dei valori, l’altro tende alla conservazione spasmodica di questi stessi costumi e tradizioni9. Per quanto riguarda la prima tipologia di donne, possiamo dire che almeno apparentemente esse sono poco preoccupate del mantenimento della propria tradizione, semmai il loro obiettivo è inserirsi facilmente e velocemente nel tessuto sociale e culturale della società italiana. In generale, si tratta di donne singles o divorziate, spesso rifugiate politiche, che partono nell’intento di cominciare una nuova vita e liberarsi dei legami col proprio contesto di provenienza. A tal proposito ricordiamo l’importanza dei matrimoni misti, spesso l’unico strumento per queste donne per raggiungere una reale integrazione nella società italiana. Se, invece, ci soffermiamo sulla seconda categoria di donne, le “tradizionaliste” non possiamo che vedere alcune difficoltà nel raggiungimento dei loro obiettivi. Ciò può verificarsi sia che si tratti di donne sole, che quindi soffrono la mancanza di una serie di relazioni parentali e amicali funzionali a mantenere e praticare la tradizione, sia nel caso di donne che vivono in Italia col resto della propria famiglia. In quest’ultimo caso, il loro rapporto con la tradizione appare problematico. Le famiglie immigrate, ad esempio, lamentano numerose difficoltà nella trasmissione culturale ai propri figli e figlie, con conseguenti problemi di relazione fra genitori e figli. Per i loro bambini e bambine, infatti, è impossibile apprendere in modo adeguato la propria cultura e religione d’origine nelle scuole italiane. D’altronde i genitori sono impegnati nel lavoro la maggior parte del giorno, per cui rimane poco tempo per insegnare ai propri figli, non solo le proprie tradizioni, ma persino la propria lingua d’origine. Questa difficoltà è sentita in particolare dalle donne che si considerano più responsabili dell’educazione dei figlie e delle figlie, nonché le custodi di certi saperi e pratiche originarie10 . In tale quadro, si deve guardare alla donne immigrate come “attori sociali”, ossia come soggetti capaci di attuare delle strategie che conducono al miglioramento generale della loro Claudia “Donne immigrate: il dilemma sociale dell'immigrazione femminile tra dequalificazione e prospettive di riuscita professionale” in Omega, v.II, n.2 (feb.), 1999; Grasso, cit.; Morini, Cristina, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive Approdi, Roma, 2001; Pittau, Franco in A.A.V.V, cit. 9 cfr. Campani, cit. 10 cfr. Campani, cit.
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condizione o permettono, almeno, di “reggere” il processo migratorio senza eccessiva sofferenza per loro e per il resto della famiglia. Ciò vale innanzitutto all’interno dei rapporti di coppia, come nel caso delle donne maghrebine in Italia. Se le consideriamo come attori sociali osserveremo che l’autonomia economica da esse conquistata grazie alla migrazione, consente loro un ruolo di maggiore forza nei confronti del marito, rispetto al quale non si pongono più in posizione di subordinazione assoluta, ma con cui cercano piuttosto una relazione paritaria. Le donne maghrebine, infatti, sembrano investire le loro energie nelle relazioni di genere e nel loro cambiamento, più che verso una formazione professionale che sarebbe comunque difficile nel contesto italiano11.
§2. L’Altra Se la differenza fra donne si manifesta, in generale, come differenza di classe, religione, etnia, cultura e orientamento sessuale, qui prenderemo in considerazione una differenza specifica fra le donne-native-emancipate e le donne-immigrate-colf in Italia. A mio parere, questo tipo di relazione amplia il concetto di “differenza fra donne” andando oltre le differenze di cultura, di classe ed etnia. Soffermarsi su tale relazione di differenza non serve tanto ad inquadrare e definire la donna “altra” che si confronta con una società ed un mondo precostituiti rispetto al suo arrivo, ma soprattutto spinge ogni singola donna nativa a mettere in discussione il proprio riconoscimento nel modello di “donna emancipata”. Questa riflessione conduce la donna nativa a mettersi in gioco nel confronto con una donna la cui alterità è determinata non soltanto da fattori esterni come l’età, l’etnia e la classe, ma, ed è ciò che c’interessa, da fattori interni alla relazione che producono la differenza12. In altre parole, esistono delle differenze che non sono fondamentali se prese a se stanti, come la razza, il censo e la cultura. La differenza di razza, ad esempio, in sé stessa non giustifica una così grande differenza di status fra donna nativa e migrante13. Bisogna, invece, ricercare le cause del perché tale donna ricopra un ruolo che la donna nativa non vuole più ricoprire. Ossia, ci si deve chiedere perché la donna nativa vede nella migrante colei che
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cfr. Campani, cit. A tal proposito si può essere utile pensare alla riflessione di Avtar Brah sulla nozione di “Diaspora Spaces” in Brah, Avtar, Cartographies of diaspora. Contesting identities, Routledge, London 1996. 13 Una riflessione su l’intersezione delle categorie di razza, etnia, classe e sulla non-rilevanza di ognuna di esse se prese a se stante si può trovare in Anthias, Floya e Nira Yuval-Davis, Racialized boundaries, Routledge, London, 1992. 12
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si può occupare “al posto suo” della cura della propria sfera domestica14. In altre parole, arriviamo così agli obiettivi di questo lavoro, il confronto con le donne “altre”, nel senso già illustrato, provoca nelle donne native che entrano con loro in relazione, l’autocritica del proprio modo di “essere donna” e, soprattutto, del percorso individuale e/o collettivo che, nel tempo, le ha portate a raggiungere tale modo di essere. Questo momento d’autocritica offre spunti importanti, dal mio punto di vista, alla riflessione femminista che voglia fare un’analisi della rappresentazione delle donne italiane e di ciò che esse hanno effettivamente realizzato grazie al movimento femminista di massa e a riflessioni individuali in una prospettiva emancipazionista15. In conclusione, si deve riscoprire il nodo della differenza fra ‘Noi e Loro’ per vedere da dove partire nella ricerca d’elementi comuni che “in quanto donne” dobbiamo/possiamo esplicitare. Dobbiamo inaugurare delle pratiche politiche che agiscono su questi elementi comuni che quindi svuotano di senso le “altre” differenze finora al centro del dibattito, come l’etnia o la razza. L’elemento comune, a mio parere, è l’oppressione capitalistico-patriarcale che associa la donna alla cura e alla sfera domestica. In tale ottica, vorrei proporre di guardare alla teoria del contratto sessuale di Carole Pateman e di estendere la sua applicazione alla relazione fra donne diverse sullo stesso modello di quella fra uomo e donna. Tel riflessione ci porterà, nella conclusione, a mettere in luce quelli che Maria Luisa Boccia chiama i ‘paradossi della cittadinanza’16. §2.1 - Quante differenze. La razza e l’etnia delle donne Differenza. Il concetto di differenza ha una lunga storia nel femminismo occidentale. Seguiamo Mary Maynard nel proporne due distinte formulazioni. La prima si concentra sull’importanza delle differenza di esperienze17. Questo modo di concettualizzare la differenza parte da un assunto fondamentale del pensiero femminista, ossia il considerare l’esperienza personale come 14
Per la riflessione sulla “sostituzione” della donna emancipata da parte della donna immigrata nella sfera domestica facciamo riferimento ad Anderson, Bridget, Doing the dirty work? The global politics of domestic labour, Zed Books, London, 2000 e Ehrenreich, Barbara e Arlie Russel Hochschild, Donne Globali, Feltrinelli, Milano, 2004. 15 Per la critica dell’emancipazione delle donne italiane proprio a partire dall’analisi del ruolo delle donne immigrate che lavorano come colf nella città di Roma si veda il lavoro di Jaqueline Andall in Andall, Jaqueline, Gender, migration and domestic service. The politics of black women in Italy, Ashgate, Aldershot, 2000. 16 Boccia, Maria Luisa, La differenza politica, Il Saggiatore, Milano, 2002. 17 Si veda Maynard, Mary, “Race, gender and the concept ot ‘difference’ in feminist thought” in Heleh Afshar e Mary Maynard, The dynamics of ‘race’ and gender, Taylor&Francis, London, 1994.
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portatrice di un significato al tempo stesso politico e teorico. In altre parole, considerare le esperienze femminili fornisce un punto di vista privilegiato dal quale osservare le relazioni fra donne e il modo in cui differiscono da quelle maschili. Allo stesso modo, se guardiamo all’esperienza delle donne di colore si può mettere in luce come la razza giochi sì un ruolo importante nelle condizioni sociali ed economiche di queste donne, ma che, al tempo stesso, la razza non sia l’unico fattore di differenziazione all’interno dell’esperienze femminili, poiché entrano in gioco altre variabili quali la cultura, la classe o la religione. La seconda formulazione del concetto di differenza si può ritrovare, per Maynard, nei lavori dei pensatori e delle pensatrici postmoderne18. In generale, il postmodernismo mette in discussione un certo essenzialismo percepito nel pensiero moderno, ponendo al centro del pensiero filosofico la differenza. Sebbene gli scritti postmoderni non sempre assumano un’ottica specificatamente “di genere” o sul tema della razza-etnia, alcune femministe hanno adottato una visione postmoderna nel loro lavoro. Il concetto di differenza può assumere diverse sfumature di significato nel pensiero postmoderno. Per Derrida, ad esempio, la differenza risiede nella distinzione fra gli oggetti percepiti e il significato che essi hanno come simboli o rappresentazioni e, perciò, le identità, dipendono dal linguaggio e dal discorso su di esse. Al tempo stesso, il postmodernismo si riferisce alla molteplicità delle voci, dei significati e delle configurazioni che si devono considerare per comprendere il mondo e ciò, quindi, nega la possibilità di una qualsiasi posizione più autorevole delle altre. Inoltre, con differenza ci si può riferire alla molteplicità delle diverse posizioni soggettive che costituiscono l’individualità stessa19. Razza ed Etnia. Vediamo, allora, cosa possano significare le differenze di razza ed etnia nel pensiero delle donne. Innanzi tutto, sempre secondo Maynard, da molto tempo ormai si è riconosciuto che la razza è qualcosa privo di senso dal punto di vista scientifico. Tuttavia, in diverse parti del mondo le persone continuano a comportarsi “come se” la razza fosse una categoria oggettiva e fissa considerandone delle variabili il colore della 18
Mary Maynard definisce il post-modernismo come la teoria per cui non esiste un mondo oggettivo al di fuori una pre-esistente concezione o un discorso su di esso. Ciò porta, di conseguenza, un certo scetticismo circa la possibilità di distinguere fra aspetti “reali” del mondo e concetti o significati attraverso cui il mondo è concepito. Per definire il post-modernismo lo si deve vedere in opposizione al pensiero modernista che, al contrario, si basava sulla ricerca d teorie sistematiche e sull’oggettività delle assunzioni di un soggetto di conoscenza di tipo razionale e unitario. In opposizione, quindi, il postmodernismo enfatizza la frammentazione, la decostruzione e l’idea della molteplicità dei soggetti. 19 Fra le autrici femministe che si occupano del tema della differenza etnica o di razza in un’ottica post-moderna ricordiamo Braidotti, Rosi, Nomadic Subjects, Columbia University Press, New York, 1994; Brah, cit., e Spivak, Gayatri Chakravotry,“Can the subaltern speak?” in Cari Nelson e Lawrenec Grossberg (a cura di), Marxism and the interpretation of culture, Macmillan, Basingstoke, 1988.
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pelle, il paese d’origine, la religione, la nazionalità e la lingua. Una seconda confusione è quella fra i termini razza ed etnia. Floya Anthias definisce la razza come ciò che ha a che fare con l’immutabilità biologica o culturale di un gruppo a cui è già stata attribuita un’origine comune, mentre descrive l’appartenenza etnica come l’identificazione di particolari fattori culturali, come lo stile di vita e l’identità, che sono basati sulla credenza di un’origine comune, sia essa reale o mitica20. Finora si è spesso preferito usare il termine etnia a quello di razza, considerando quest’ultimo più connotato in senso essenzialista. Al contrario, l’appartenenza etnica è, spesso, collegata agli ideali liberali per una società multiculturale e multietnica, oscurando la forza del razzismo con una benevola celebrazione del pluralismo che esiste in tali forme di società. In realtà, l’appartenenza etnica, così come la razza, può essere un fattore di discriminazione, oppressione, sottomissione e sfruttamento e, soprattutto, può servire come base per il razzismo. Ma tornando al termine razza, la definizione di cui si farà uso è quella di Omi e Winant che vedono la razza come un complesso, instabile e decentrato, di significati sociali costantemente trasformati dalla lotta politica21. La differenza sessuale. A tal proposito è opportuno aggiungere qualche osservazione sul concetto di differenza sessuale. E’ importante riconoscere che nella riflessione femminista la differenza sessuale non è qualcosa che semplicemente “si aggiunge” alle riflessioni sulla differenza di razza piuttosto che di etnia o classe. Il pensare la differenza sessuale ha condotto il femminismo a riattraversare il pensiero e la tradizione occidentali. Ciò è culminato negli anni ’70 con la pratica del pensare differentemente22. Per Maria Luisa Boccia pensare differentemente porta a ridefinire l’identità femminile considerando le qualità, i meriti e anche i valori che caratterizzano il sesso femminile e con ciò formulando una serie di prescrizioni che valgono per la soggettività e per l’esistenza delle donne. In altre parole la differenza è l’oggetto stesso del “pensiero differente” delle donne e, in quanto tale, dà luogo a una riproposizione degli ambiti e dei significati della femminilità. Adesso, tuttavia, i significati e gli ambiti della femminilità non sono più relegati alla sfera domestica, ma ne forzano i confini portando le pratiche e gli obiettivi del pensare differentemente in tutte le sfere e i luoghi del comportamento e del pensiero umano. Ciò vuol dire, soprattutto, guardare al contributo che il pensiero delle donne può dare alla società e alla politica23. 20
Anthias, F., “Race and class revisited. Conceptualising race and racism” in Sociological Review, 20, 1990. 21 Omi, M. e Winant, H., Racial formation in the United States, Routledge, London, 1986. 22 Boccia, cit. e Cavarero, Adriana, “Il pensiero femminista” in Cavarero, Adriana e Restaino, Franco, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999. 23 Boccia, cit., pagg. 49-52.
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Ci soffermiamo brevemente su quelli che, per Maria Luisa Boccia, sono i due elementi più originali del pensiero femminista sulla differenza sessuale. Il pensare differentemente è, innanzi tutto, un pensiero “a partire da sé”. Ciò vuol dire porre la soggettività come punto di partenza della riflessione che sarà, quindi, una riflessione filosofica basata sul dato esperenziale. In questo senso, il pensiero delle differenza può forse rientrare nella categoria che Maynard chiama differenza di esperienze. Questo aspetto è radicalmente in opposizione alla tradizione filosofica occidentale, la quale persegue la presa di distanza dagli oggetti di conoscenza come condizione necessaria della ricerca. Al contrario “pensare a partire da sé” è un’esigenza tra le donne, semplice e fondamentale, di mostrare, al momento della presa di parola, la propria competenza e autorevolezza su fatti e idee che provengono dalle proprie esperienze. In secondo luogo, il pensiero è praticato “tra donne”. Questo tratto distintivo del pensiero femminista deve essere considerato in tutta la sua importanza, poiché ha permesso lo sviluppo della singolarità, assieme all’emergere della soggettività femminile. Infatti, la relazione “tra donne” consente alle singole di essere riconosciute e di dare voce, narrando e scrivendo, ai pensieri sulla propria vita. In precedenza ciò non era possibile, se non come stravaganza, sregolatezza, eccezionalità. L’esito del pensare differentemente è la conquista della libertà femminile, intesa come la rottura della complicità con l’uomo. Con ciò s’intende che, per arrivare alla propria libertà, “una donna deve, innanzi tutto, logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata, rinunciare all’io femminile, costruito su ciò che l’io maschile non vuole essere”24. Questa descrizione del pensiero sulla differenza sessuale è importante per i nostri perché esplicita l’impostazione teorica con cui si è cercato di affrontare il tema della relazione fra donna-nativa-emancipata e donna-immigrata-colf. E’ una riflessione che abbiamo condotto a partire da interrogativi soggettivi, ma al tempo stesso condivisi, da donne i cui percorsi intellettuali ed esistenziali s’intrecciano attorno al significato della sfera domestica per la libertà femminile. Inoltre è in tale ottica che si sono prodotte le interviste e le riflessioni alla base dei paragrafi precedenti. Tali ricerche, infatti, fotografano le condizioni delle donne immigrate in Italia, ma con un occhio particolare a come loro mettono in gioco la propria soggettività e la propria relazione con la cultura patriarcale, cultura che, spesso, si lasciano alle spalle nelle terre d’origine, ma che ritrovano in altre forme in Italia. Femminismo e razza. Consideriamo, allora, le interazioni fra il femminismo e gli studi sulla razza e l’etnia. All’inizio degli anni ’80, tuttavia, emersero da più parti le critiche al femminismo occidentale da parte delle pensatrici dei paesi excoloniali. Quest’ultime criticarono le pensatrici americane ed 24
Boccia, cit., pag. 51.
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europee per aver troppo spesso trascurato le questioni razziali e coloniali. Probabilmente la prima occasione in cui questo dissenso e quest’incapacità comunicativa sono emerse è stata la ‘Wellesley Conference on Women and Development’ del 197625. Le partecipanti provenienti dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo criticarono questa conferenza perché interamente pianificata e organizzata dalle donne americane e perché metteva le partecipanti del Terzo Mondo nella posizione del pubblico passivo. Mancava, in particolare, la presa di coscienza, da parte delle donne occidentali, circa gli effetti dell’imperialismo e del razzismo sull’ipotesi di una “sorellanza internazionale” che loro avanzavano. Gli stessi problemi ci furono nelle due Conferenze dell’ONU sulla Donna del 1975, a Città del Messico, e del 1980, a Copenhagen. Nel 1984 Pratibha Parmar e Valerie Amos criticarono la tendenza “imperialista” del femminismo euro-americano a proporsi come l’unico femminismo legittimo, cancellando l’esperienza delle donne non bianche e del Terzo Mondo26. Il loro lavoro è stato un atto d’accusa forte nei confronti di quelle femministe bianche e occidentali che desideravano lavorare al fianco delle femministe dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Le autrici polemizzavano sottolineando tutti gli errori fino ad ora fatti e le loro conseguenze, sostenendo che il femminismo europeo ed americano era limitato teoricamente e di conseguenza politicamente. La tradizione femminista statunitense ed europea, infatti, non parlava delle esperienze delle donne di colore e, anche quando cercava di farlo, spesso adottava una prospettiva di ragionamento razzista. Le autrici sostenevano l’esistenza di un consenso implicito fra le femministe occidentali sulle questioni più importanti da discutere. Spesso le questioni identificate come prioritarie erano quelle che contribuivano al miglioramento delle condizioni di vita di un limitato numero di donne bianche della classe media, spesso a spese delle loro “sorelle” di colore e lavoratrici. Per Parmar e Amos, in conclusione, il potere della ‘sorellanza’ si ferma nel momento in cui ci sono da prendere delle difficili decisioni politiche. Chandra Talpade Mohanty, inoltre, accusò le studiose femministe occidentali di costruire una figura monolitica della donna del Terzo Mondo come oggetto di conoscenza, mentre le femministe non occidentali scrivevano storie alternative dell’oppressione delle donne e offrivano modelli diversi per l’azione27. Nel suo celebre articolo Under Western Eyes, ella criticava le femministe occidentali per aver prodotto una costruzione concettuale razzista della “Donna del Terzo Mondo” nei loro testi. Il problema, per la Mohanty, derivava dal fatto che le stesse femministe statunitensi che mentre scrivevano nel loro 25
Si veda Fatima Mernissi e Mallica Vajarathon in “A Critical Look At The Wellesley Conference” in Quest, IV, 1978, pag.101-107. 26 Parmar, Pratibha e Amos, Valerie, “Challenging Imperial Feminism”, in Feminist Review 17, autunno 1984 27 Mohanty, Chandra Talpade, “Under Western Eyes. Feminist Scholarship and Colonial Discourses”, in Feminist Review, n° 30, autunno, 1988.
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paese erano effettivamente marginalizzate, quando come femministe occidentali scrivevano sulle donne del Terzo Mondo si dovevano considerare nel contesto dell’egemonia globale dell’accademia occidentale, un’egemonia nei termini della produzione, pubblicazione, distribuzione e consumo d’informazioni ed idee. Nel corso degli anni Novanta molte autrici femministe ‘occidentali’ hanno cercato di modificare le loro teorie per risolvere questi problemi di profonda incomunicabilità. Inoltre, un lavoro serio ed utile è stato fatto sul campo dalle attiviste impegnate negli incontri e nello scambio di idee e pratiche fra le donne di tutto il mondo. La situazione attuale, grazie anche alla maggior facilità di comunicazione e alla gran quantità d’esperienze accumulate, sembra essere positiva sia sul piano teorico che operativo28. D’altronde si può dire che se il femminismo è stato criticato per aver trascurato, e almeno inizialmente è stato vero, la questione razziale, d’altra parte gli studiosi di problematiche razziali ben poco si sono curati/e finora delle tematiche legate al genere e alla differenza sessuale nelle proprie ricerche. Di conseguenza, la vasta letteratura prodotta sul tema della razza e dell’appartenenza etnica non è presentata attraverso una cosiddetta ottica di genere. Al contrario, quando le donne sono prese in analisi, gli studi sulla razza considerano solo le figure stereotipizzate di mogli, madri e sorelle.
§3. Le Donne delle donne §3.1 - Le donne immigrate come collaboratrici domestiche Abbiamo visto nel primo paragrafo come le donne immigrate in Italia siano spesso relegate al lavoro della colf. Capire che cosa sia una colf e che mansioni svolga è qualcosa di particolarmente difficile. Da una parte possiamo rifarci alle definizioni utilizzate dalle istituzioni come l’ILO (International Labour Office) che si occupano delle colf in quanto lavoratrici. Tuttavia questo tipo di definizioni non rappresentano la stessa figura della donna immigrata che emerge dalle interviste. Come si evince, infatti, dalle loro esperienze, queste donne ricoprono delle funzioni che vanno ben oltre la semplice erogazione di un servizio di collaborazione. In molti casi, infatti, le donne italiane presso cui sono impiegate richiedono loro di avere delle attenzioni di cura e di affetto nei confronti dei bambini/e o degli anziani. Anzi è ritenuta una cosa quasi scontata che la domestica si affezioni ai bambini e abbia una sorta di coinvolgimento emotivo nei loro confronti29. La domestica, in questi casi, non è semplicemente una persona che svolge un lavoro: 28 Sul tema si veda fra altri Harcourt, Wendy (a cura di) Feminist Perspectives on Sustainable Development, Zed Books, London, 1994. 29 Ehrenreich, Barbara e Arlie Russel Hochschild, cit.
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come la “madre” e la “moglie” lei sta ricoprendo un ruolo all’interno della famiglia. Il lavoro domestico, allora, non è definibile come un’insieme di compiti, ma piuttosto come un ruolo che determina la posizione della lavoratrice in un certo sistema di relazioni. In casi di tipo diverso si richiede loro di svolgere dei compiti che la loro “padrona” non accetterebbe mai di svolgere se dovesse occuparsi della casa in prima persona, come la pulizia accurata e talvolta maniacale della casa e degli abiti. Alcuni studi, infatti, rivelano che solo un quarto delle “padrone” sono occupate da un impiego full-time fuori casa, mentre la maggioranza di loro ricorre ad una domestica per avere più tempo libero e per migliorare lo status del proprio stile di vita. Ciò permette alle donne-native-emancipate di raggiungere uno stile di vita che si esprime in certi status simbols (aspetto della casa, varietà del guardaroba, disponibilità di tempo libero) che possono essere sostenuti solo a prezzo di sacrifici che, in realtà, loro stesse non accetterebbero mai di fare in prima persona. In altre parole, in questi casi le donne immigrate vengono incaricate di svolgere quei compiti che la donna italiana non riesce neanche ad immaginare di svolgere30. Se ci concentriamo sul secondo caso, osserviamo che fra le due donne esiste una relazione impari nella quale la donna italiana ritiene che la donna straniera possa svolgere mansioni di basso livello, faticose, noiose, logoranti e, soprattutto, “sporche” che lei stessa non accetterebbe mai. Le donne italiane della classe media, invece, ricoprono il ruolo di colei che organizza il lavoro domestico: scelgono con cura la domestica migliore, le assegnano i compiti da svolgere, decidono l’educazione dei bambini e la loro alimentazione. Così facendo le donne italiane riescono ad essere, in un certo senso, “domestiche” senza essere “sporche”. La dicotomia fra domesticità e sporcizia si basa sull’idealizzazione della donna di classe media, pia, virtuosa e morale, come centro della famiglia, e richiede una scissione in stereotipi antagonisti: puro/sporco, emozionale/fisico, madonna/prostituta. Questa serie di opposizioni si riproduce nella relazione fra colf e “padrona”. Allora, mentre le domestiche rispondono alle necessità fisiche e materiali, le donne italiane presso cui sono impiegate sono libere di esaudire i desideri emozionali del marito e dei figli. E’ sintomatico che, come è sempre stato per gli uomini, ora anche le donne italiane esaltino la casa come luogo di rifugio, un luogo di riposo dallo stress del lavoro produttivo. Anderson usa a tal proposito l’immagine di Dr Jekyll a Mrs Hyde per rappresentare due donne unite da due stereotipi femminili interdipendenti. Le domestiche esprimono fisicità e sporcizia per le mansioni a cui sono destinate, mentre le “padrone” confermano la propria superiorità nella loro femminilità e nelle loro capacità manageriali31. 30
a tal proposito si fa principalmente riferimento a Anderson, cit. Si veda inoltre Andall, cit. e Morini, cit. 31 Anderson, cit.
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Qual è l’alternativa che si offre alla donna-nativa che voglia sfuggire al ruolo di “padrona” eppure non riesce ad occuparsi della propria casa e famiglia senza rinunciare agli impegni lavorativi? Per Anderson, l’opzione sarebbe quella di tollerare camere in disordine e scaffali impolverati. Tuttavia esiste un certo tipo di pressione a mantenere standards accettabili di rispettabilità da parte dei parenti, degli amici e degli altri che visitano la casa, da parte della donna stessa che introietta queste aspettative e, in modo cruciale, da parte del marito. Al di sopra di questa relazione rimane, in realtà, il controllo maschile. Il duro lavoro della domestica, infatti, si rivolge al credito della donna italiana presso cui è impiegata che può così dimostrare le sue abilità nell’aver trovato tale meravigliosa domestica. In quest’ottica, l’impiego di una domestica innesca la negoziazione di certe contraddizioni insite nell’ideale dell’emancipazione femminile, non solo circa la distinzione pubblico/privato, ma sulla differenza delle identità di genere e le richieste e tensioni correlate ai diversi modi di “essere donna”. §3.2 - Sporcizia, rispettabilità, abiezione. I lavori a cui sono destinati/ gli immigrati e le immigrate a livello globale sono chiamati “i lavori delle tre D”: Dirty, Dangerous and Demanding (sporchi, pericolosi e logoranti). Nel caso del lavoro domestico, l’attributo più ricorrente è “sporco”: la domestica compie i lavori più sporchi nella casa, pulisce, lava, riordina ciò che le altre persone sporcano e non hanno poi voglia di ripulire. In questa luce si vede come l’idealizzazione delle donne della classe media cerchi di mantenere la propria purezza e il proprio candore delegando la parte “sporca” della propria esistenza al lavoro di un’altra donna. A tal proposito guardiamo, innanzitutto, a quello che George Mosse chiama l’ideale della rispettabilità32. Il concetto di rispettabilità è particolarmente idoneo per comprendere le stereotipizzazioni e le discriminazioni che hanno a che fare con la dicotomia pulito/sporco. Il comportamento rispettabile, infatti, tiene molto alla pulizia, alla correttezza e ad altre regole meticolose che riguardano la decenza. Il corpo, in tale quadro, deve essere ripulito di tutti gli aspetti che ricordano il suo essere fatto di carne: i fluidi, lo sporco, gli odori. Anche l’ambiente in cui vivono le persone rispettabili deve essere pulito e curato: niente sporcizia, niente polvere, niente spazzatura e ogni indizio delle funzioni fisiologiche – mangiare, evacuare, fare sesso, partorire – deve essere nascosto dietro porte chiuse. Come non vedere a tal proposito l’importanza del ruolo della domestica come colei che si fa carico di questa pulizia? Ella rimuove tutte le tracce di corporeità che possono 32
Mosse, Gorge, Nationalism and sexuality, Fertig, New York, 1985.
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aver lasciato la donna-nativa-emancipata e i suoi familiari, pena per loro la perdita di rispettabilità. La domestica stessa è, poi, oggetto di un codice di comportamento ancora più severo, che le vieta di mangiare e parlare se non nei momenti e nei luoghi che la propria “padrona” decide con attenzione. Pensiamo, ad esempio, alla struttura degli appartamenti borghesi che prevedono un piccolo settore della casa dove la domestica può vivere senza essere a contatto con eventuali ospiti e col resto della famiglia. In un certo senso la sporcizia degli oggetti di cui la domestica si deve prendere cura si ripercuote sull’immagine della donna stessa. Ella stessa diviene “sporca” agli occhi di chi la incontra e il suo essere, spesso, di pelle scura facilita il rafforzarsi dello stereotipo. Non solo nella casa dove lavora a lei competono le mansioni più basse e sporche che nessun altro/a avrebbe voglia di fare, ma anche al di fuori degli orari di lavoro, la donna immigrata continua ad essere vista come “sporca” e perciò destinata ad un atteggiamento di umiltà e subordinazione. Ma cosa c’è dietro a questa visione dello sporco e della sporcizia personificata, per così dire, dalle donne immigrate che lavorano come colf? Possiamo rifarci, almeno in parte, alla concezione dell’abietto che Iris Marion Young applica alle categorie emarginate ed escluse dalla società. Ossia Young utilizza la categoria di abietto, formulata da Kristeva, per analizzare le paure e le avversioni automatiche ed inconsce che definiscono alcuni corpi come brutti, disprezzati e, aggiungeremmo noi, ‘sporchi’33. Per Young e Kristeva queste paure hanno a che fare con l’angoscia per la perdita della propria identità34. Secondo Julia Kristeva l’abiezione è il sentimento d’odio e di disgusto che il soggetto prova nell’incontro con determinate materie, immagini e fantasie. Si tratta dell’orrido che provoca nel soggetto una reazione di avversione, nausea e disgusto. Il processo di abiezione si manifesta nelle reazioni di ribrezzo verso la materia espulsa dalle viscere: il sangue, il pus, il sudore, gli escrementi, le urine, il vomito, il mestruo nonché gli odori 33
Young, Iris Marion, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano, 1990 e Kristeva, Julia, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano, 1981. 34 Per rintracciare la ragione di tale angoscia si fa riferimento all’appartenenza di classe non più fondata sulla tradizione o la famiglia, bensì su un’intelligenza, un sapere e una razionalità superiori. Ciò che predomina la concezione di appartenenza di classe è la razionalità come pensiero strategico e calcolatore con proprietà organizzative. Tale Ragione manipola per i suoi fini la natura e il corpo. Si crea così la dicotomia ragione/corpo che ritroviamo in quella lavoro intellettuale/ lavoro materiale. Al tempo stesso, la razionalità è associata all’idea di bianco, mentre il corpo e la materia con quella di nero. Questa identificazione consente a coloro che rivendicano il colore bianco della propria pelle di porsi nella posizione del soggetto e considerare la gente di colore come oggetto della propria conoscenza. La ragione scientifica e filosofica, se associata alla cultura bianca e maschile, si conserva in una società strutturata da relazioni di classe, razza, genere e razionalità, attraverso dinamiche non direttamente dipendenti dal pensiero scientifico e filosofico stesso. A tal proposito di veda Said, Edward, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
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associati a queste materie. La sopravvivenza degli esseri umani, infatti, è legata all’espulsione di ciò che si ha dentro di sé e la reazione di disgusto verso ciò che si è espulso è finalizzata a mantenere il confine del proprio sé. A questo punto, tuttavia, l’abietto/a non si pone di fronte al soggetto così che il soggetto lo possa definire. L’abietto/a è altro/a dal soggetto e sta proprio appena passato il confine: non sta di fronte al soggetto, ma di fianco minacciando al sua tranquillità. La tesi di Young è che nella società contemporanea il razzismo, sessismo, omofobia, giovanilismo ed integriamo fisico siano retrocessi dal “livello della coscienza discorsiva”35. In altre parole, nelle nostre società, la maggior parte della gente non pensa coscientemente che certi gruppi siano migliori di altri. Anzi il diritto pubblico e le pratiche istituzionali affermano il principio dell’eguaglianza formale e delle pari opportunità, mentre le discriminazioni esplicite sono proibite dalle regole fondamentali della società. Ciò determina una sorta di “galateo pubblico” fondato sulla disapprovazione di certi gesti, parole e comportamenti. Tuttavia nel privato delle pareti domestiche e, soprattutto, nella cultura di tipo mediatico, si trovano di continuo dei giudizi, talora inconsci, di bellezza o bruttezza, attrazione o avversione che segnano, stereotipizzano, svalutano o degradano determinati gruppi. Nelle intenzioni di Iris Marion Young l’uso della categoria di abietto permette la comprensione di un estetica del corpo che definisce come brutti, temibili o, nel nostro caso, sporchi, taluni gruppi e provoca un’avversione o una discriminazione verso di loro. Il processo di abiezione si somma, inoltre, alle dinamiche dell’imperialismo culturale a cui sono soggetti i gruppi culturalmente minoritari, in particolare gli/le immigrati/e. I membri dei gruppi soggetti a imperialismo culturale, infatti, introiettano il dato culturale che il gruppo dominante prova per loro disprezzo, fino ad assumere tale visione nei confronti di se stessi e degli altri membri del proprio gruppo36. §3.3 - Un contratto sessuale fra donne? Vorrei avanzare l’ipotesi che la forma del contratto sessuale fra uomini e donne si estende alla relazione fra donne-nativeemancipate e donne-immigrate-colf. La causa di ciò è la falsa apparenza dell’emancipazione femminile e il perdurare dell’associazione fra donne e sfera domestica, associazione che è stata trasferita sulle spalle delle donne immigrate viste come donne di status inferiore. Presentiamo, innanzitutto, la teoria di Carole Pateman che è alla base del nostro ragionamento. Pateman nel 1988 in The Sexual 35
Giddens, Anthony, The constitution of society, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1984. 36 Said, cit.
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Contract sostiene che la società umana e la convivenza fra individui si basa non solo sul contratto sociale, così come teorizzato dagli autori contrattualisti, ma anche, ed ad un livello più profondo, su una forma di contratto che ella chiama contratto sessuale37. Per Pateman la società civile creata attraverso il contratto originario si fonda su di un ordine sociale di tipo patriarcale. La storia del contratto sessuale, infatti, smaschera la radice del diritto politico e della legittimità del suo esercizio, poiché presenta i diritti politici come diritti patriarcali o diritti sessuali che legittimano il potere degli uomini sulle donne. Se guardiamo alle diverse teorie del contratto sociale possiamo individuare alcune costanti significative. Da una parte, infatti, alla loro base troviamo l’ideale illuminista che gli individui sono nascono liberi ed eguali e, proprio in quanto tali, le relazioni sociali che intercorrono fra di essi possono prendere la forma di un contratto. Ma d’altra parte, per Pateman, le teorie contrattualiste concepiscono un’unica origine del diritto politico nella quale l’uomo ha un diritto naturale nei confronti della donna e solo gli uomini hanno gli attributi di “individui” liberi ed eguali. Di conseguenza, mentre le relazioni di subordinazione che possono esistere fra uomini per essere legittime, devono essere sancite da un contratto, al contrario le donne sono già nate nella condizione di subordinazione. Infatti, la concezione classica dello stato di natura si basa sull’assunzione della differenza sessuale fra uomini e donne. Anche le contemporanee teorie del contratto non prestano attenzione a quest’aspetto della vita e della natura umana. Ciò dipende al fatto che quando si considerano come soggetti gli individui si trascura di esplicitare che con individui s’intendono gli uomini, i maschi. L’attenzione è talvolta posta sui diversi individui, ma sempre maschili o neutri. Quel che notiamo, in sostanza, è che per tutti gli autori contrattualisti esiste una diversità su base sessuale nelle capacità e negli attributi della cittadinanza. Questa differenza è però mascherata dalla categoria apparentemente sessualmente neutra d’individui. Le donne nello stato di natura sono sottomesse agli uomini, mancano delle capacità di “individui” e quindi delle capacità per entrare a far parte del contratto originale. Nelle teorie contrattualiste, tuttavia, le donne hanno la capacità di entrare, e devono entrare, in un’altra forma di contratto, quella di tipo matrimoniale. Così troviamo diverse forme di contratto di tipo civile, come quello fra padrone e lavoratore, a cui si aggiunge il contratto matrimoniale, ma che non è un contratto di tipo civile perché non coinvolge due individui, bensì un individuo ed un altro essere a lui “naturalmente” subordinato. Questa differenza nei contratti e nelle caratteristiche di soggetti coinvolti/e, determina la descrizione della società come scissa
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Pateman, Carole, The sexual contract, Polity Press, Cambridge e Oxford, 1988.
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fra sfera pubblica, dove vigono i contratti civili, e sfera privata, dove la relazione principale è quella matrimoniale38. A questo punto, seguendo Pateman, possiamo decostruire la concezione contrattualista grazie a due tipi di argomentazioni: riguardo all’idea stessa di contratto e, in secondo luogo, riguardo alla cosiddetta schiavitù civile. La schiavitù civile è una relazione di subordinazione resa possibile dalla maggior parte delle visioni contrattualiste e che, in questa sede, analizzeremo nel rapporto matrimoniale fra uomini e donne nella sfera privata. Innanzi tutto, ci chiediamo perché il contratto è visto come il modello del libero accordo. Tale libertà è basata sul fatto che gli individui che si apprestano a entrare nel contratto hanno il pieno possesso delle proprie capacità e hanno eguale potere sulle loro proprietà. Il contatto fra due individui si realizza tramite uno scambio di parole che rappresenta uno scambio “eguale” fra individui, della loro proprietà. In realtà le critiche socialiste al contratto di lavoro e quelle femministe al contratto di matrimonio, hanno messo in dubbio che quando due individui stipulano un contratto, lo scambio sia effettivamente sempre eguale. Queste critiche mettono in luce che la parte in posizione inferiore (il lavoratore o la donna) spesso non ha altra scelta che accettare le condizioni, anche se svantaggiose, offerte dalla parte più forte. Spesso questa disparità prende forma in una promessa di obbedienza in cambio di protezione39. In secondo luogo, il matrimonio per Pateman è una forma di contratto di lavoro come quello che lega lo schiavo al padrone. Difatti diventare moglie (wife) implica diventare allo stesso tempo casalinga (housewife). Se la sfera pubblica e quella privata sono separate nella società, al tempo stesso, riflettendo l’ordine naturale della differenza sessuale, sono inseparabili e incapaci di essere comprese in isolamento l’una dall’altra. Allora, la figura robusta del lavoratore che sia avvia con la cassetta degli attrezzi e il sacco col pranzo è sempre accompagnata dalla figura spettrale di sua moglie. In altre parole, la costruzione della figura del lavoratore presuppone che si tratti di un uomo con una donna, una casalinga, che si prende cura dei suoi bisogni quotidiani. Infatti, in The Sexual Contract, la moglie è definita come colei che lavora per suo marito nella casa maritale. Confrontando il contratto matrimoniale con quello fra datore di lavoro e dipendente, si può notare che il contratto matrimoniale è caratterizzato dal fatto che le donne, e soltanto loro, sono in una forma di subordinazione, ossia l’essere casalinga. Come abbiamo visto, nella sfera domestica vige ancora la legge di natura patriarcale cosicché la diseguale divisione del lavoro a scapito della donna-casalinga non contraddice l’universalità del principio di eguaglianza fra gli individui che vale nella sfera della vita pubblica. L’autrice esplora con cura l’ipotesi che la subordinazione della moglie al marito possa essere assimilata ad 38 39
Pateman, cit. Pateman, cit.
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una condizione di schiavitù. Il confronto tra moglie e schiave è, difatti, non del tutto esagerato se pensiamo che in alcuni Paesi i mariti sono “proprietari” del corpo delle proprie mogli. Inoltre, le donne che lavorano full-time come casalinghe non percepiscono nessun compenso ma, come le schiave, ricevono solo il mantenimento, in cambio del loro lavoro domestico. Tuttavia, poiché le donne-casalinghe non sono più dei soggetti senza diritti civili, ma godono dello status di cittadine, possiamo pensare ad esse come “schiave civili” oppure come domestiche. Diverse ipotesi si possono percorrere nel considerare la moglie come una lavoratrice subordinata al proprio marito. In ognuno di questi casi, la moglie ottiene i mezzi di sostentamento (la “protezione”) da suo marito e gli strumenti per assolvere i propri compiti. Ella perciò è dipendente dalla benevolenza del marito e può solo augurarsi di avere “un buon padrone”. I compiti che una mogliecasalinga deve realizzare dipendono dalla volontà del marito, anche se l’assolverli nella maniera migliore non vuol dire ottenere sicuramente una migliore qualità della vita. In realtà uno dei modi certi per una donna-casalinga di raggiungere uno standard di vita più alto è quello di sposare un uomo più ricco, anche se la generosità del marito non può mai essere prevista, sia esso un capitalista o un proletario40. Il marito esercita il suo controllo non solo in termini economici, ma anche con i propri giudizi sul lavoro compiuto dalla moglie. La cura della casa e l’educazione dei figli devono rispondere alle aspettative del capo-famiglia, ossia alla sua visione della ‘sua’ famiglia. In altre parole il lavoro della casalinga che amministra e gestisce da sé la propria giornata lavorativa e i propri compiti è solo apparentemente libero e indipendente, per la presenza del controllo del marito-capo famiglia. Gli elementi fondamentali del contratto matrimoniale sono, tra l’altro, proprio quelli che lasciano pensare ad una sovrapposizione fra moglie e schiava: (1) si tratta, in primo luogo, della funzionalità del ruolo della donna alla completa realizzazione del marito-uomo; (2) l’acquisizione di uno status sociale sempre più alto da parte del marito grazie alla bravura e alla perfezione della propria moglie nell’occuparsi della casa e dell’educazione dei figli in modo che siano all’altezza del giudizio altrui; (3) il rapporto di dipendenza economica della donna che lavora senza essere retribuita in denaro ma in cambio di protezione; (4) la forma di controllo da parte del marito sui compiti che la donna svolge quando si trova da sola in casa;
40 A tal proposito, si è dimostrata l’infondatezza delle analisi economiche che valutano la qualità della vita dei componenti di una famiglia sul dato del reddito del marito-capo famiglia. Ciò trascura, infatti, che le condizioni delle donne sono spesso inferiori rispetto agli altri membri del nucleo familiare. Si veda Sen, Amartya, Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
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(5) l’appartenenza dell’uomo alla sfera pubblica del “fuori”, mentre la donna “resta a casa” ed è condannata all’invisibilità sociale del ruolo domestico; (6) la creazione di una gerarchia in termini di capacità e attributi fra moglie e marito, per cui le donne sono “inferiori” all’uomo come cittadine e lavoratrici, ossia nell’ambito della sera pubblica alla quale si affacciano grazie a grandi sforzi41. Vediamo, però, che l’impiego fuori casa per la donna può costituire un momento di svolta. Il fatto che anche le donne possano sottoscrivere un contratto d’impiego dimostra, al di là di ogni dubbio, che anch’esse possiedono le capacità richieste agli individui nel contratto. Che anche le donne possano diventare “lavoratrici” vuol dire che anche loro hanno la proprietà di qualcosa, ossia la propria forza lavoro, che possono vendere in cambio di uno stipendio. Tuttavia anche per le donne che entrano nel mercato del lavoro, continua la divisione sessuale dei ruoli. Lo stipendio che viene corrisposto ad una donna è, a parità di mansioni, quasi sempre inferiore a quello di un uomo. Il rischio di molestie sessuali da parte di colleghi e superiori è forte in molti luoghi di lavoro e, in diverse circostanze, emerge con chiarezza la forza dell’ordine patriarcale nello strutturare le competenze e i riconoscimenti nella sfera della produzione del sistema capitalistico. Allo stesso tempo si deve considerare la differenza di significato che ricopre l’andare a lavorare fuori casa per le donne-mogli rispetto agli uomini-mariti. Quando entrambi i coniugi escono di casa la mattina per andare a lavoro quest’azione ha due significati molto diversi per il marito rispetto alla moglie. Trascorrere otto ore al giorno sul posto di lavoro e riportare a casa una busta paga è fondamentale per l’identità maschile, ossia per quello che vuol dire “essere uomo” e, nello specifico, il lavoro duro, pericoloso e manuale è concepito come “lavoro da uomini”. Altri tipi di lavori, più puliti e di precisione, ma anche meno remunerati e precari, sono stati etichettati come “lavoro da donne”, e ciò vuol dire che tale lavoro sottolinea la “femminilità” sia degli uomini che delle donne che lo svolgono. In molti casi, una donna-che-lavora-fuoricasa non smette mai di essere una casalinga, ma diventa una moglie-che-lavora allungando così la propria giornata lavorativa. Come entra in tale quadro la figura della donna immigrata? Ricapitoliamo brevemente i modelli finora in gioco. In primo luogo abbiamo la donna che svolge il ruolo tradizionale di casalinga occupandosi della casa e dei bambini. In questo caso il marito ha una funzione di controllo sul lavoro domestico della moglie, ruolo reso più forte dalla dipendenza economica del nucleo familiare dal suo stipendio. Per la donna-casalinga i diritti civili e politici esistono certamente, ma il ruolo sociale che ricopre è “nascosto” dall’impermeabilità della sfera domestica e privata e, di conseguenza, le capacità di queste donne sono “per natura” determinate secondo la visione contrattualista della famiglia e 41
Pateman, cit.
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del matrimonio. In secondo luogo, abbiamo la donna-che-lavora. Si tratta di donne che per motivazioni diverse lavorano fuori casa ricoprendo allo stesso tempo il ruolo di lavoratrice e quello di moglie-madre. Su questa figura occorre fermarsi con attenzione poiché si tratta di donne che sfuggono alla descrizione contrattualista della donna-casalinga e, entrando nel mondo del lavoro, esplicitano le proprie capacità come “individui”. Da molte parti si è pensato che proprio questo riconoscersi come donne titolari dei diritti propri dell’individuo fosse l’obiettivo del percorso emancipatorio. Ciò avrebbe permesso una sostanziale parità tra i sessi nella sfera pubblica del diritto e della politica, neutralizzando, per così dire, le differenza sessuale dei soggetti coinvolti. Cercheremo, a questo punto, di minare la convinzione che questo sia l’obiettivo adeguato. Intendo sostenere, infatti, che, almeno nel contesto italiano, il raggiungimento di una parità di accesso al mercato del lavoro e quindi il superamento dell’identità fra la figura della donna-moglie-madre con quella della casalinga, non ha realmente risolto la disparità nella divisione sessuale del lavoro. A tal proposito, invece, la costruzione sociale della famiglia italiana non ha subito sostanziali modifiche come, invece, la forza del movimento delle donne degli anni ’70 lasciava ben sperare. Quel che è accaduto, infatti, è stata la sostituzione della donna-nativa-emancipata nel ruolo di casalinga con la donna-immigrata-colf che riempie il vuoto, simbolico e fisico al tempo stesso, lasciato nelle proprie case dalle donne-che-lavorano. Ribadiamo, inoltre, che riferirsi al caso delle donne immigrate è particolarmente significativo perché si può notare il sovrapporsi dello status di donna con quello di immigrata. Proprio tale sovrapposizione agevola per le donne italiane l’acquisizione di un diritto e di un percorso emancipatorio “col doppio fondo”, in cui tutte le conquiste delle donne italiane sono possibili non grazie ad un cambiamento radicale delle relazioni di potere e della divisione sessuale del lavoro, ma bensì grazie alla comparsa sulla scena, o meglio a dire “dietro le quinte”, di “un’altra Donna”42. Se torniamo, allora, alla teoria del contratto sessuale di Carole Pateman, potremmo, seguendo la proposta di Bridget Anderson, esaminare i passi in cui Pateman guarda al ruolo della donna come funzionale all’immagine dell’uomo che si avvia al lavoro, con la cassetta degli attrezzi e il pacchetto col pranzo43. In questi passi potremmo sostituire l’uomo lavoratore con la donna lavoratrice e la moglie con la domestica che rimane in casa alla mattina quando la “padrona” esce per andare la lavoro. In generale, potremmo pensare che attualmente non solo l’uomo-capo famiglia si avvia al lavoro, ma che è accompagnato dalla moglie, entrambi indossando abiti puliti a ben stirati, adeguati al proprio lavoro, e con in borsa il pranzo pronto. Chi rimane sulla 42 43
cfr. Andall, cit. Anderson, cit.
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porta è la donna-immigrata-colf, che poi dedicherà il resto della giornata perché i due lavoratori trovino tutto in ordine al loro rientro, le camicie e il pranzo pronto per il giorno dopo. Vediamo, allora, come si ripresentino gli elementi fondamentali del contratto sessuale che abbiamo precedentemente sintetizzato in sei punti. (1) La colf è funzionale alla completa realizzazione della propria “padrona”. In effetti, abbiamo visto che il suo lavoro consente alla donna italiana di raggiungere degli obiettivi per lei importanti, siano essi obiettivi di carriera lavorativa, di disponibilità di tempo libero da trascorrere in attività diverse o il raggiungimento di un certo standard di rispettabilità nell’estetica della casa e del vestiario. (2) Si ribadisce, inoltre, la funzionalità della colf all’acquisizione di uno status sociale sempre più alto da parte della “padrona” che, grazie all’aver trovato una “brava domestica”, potrà ottenere i vantaggi connessi con la cura della casa e dei beni che in essa si trovano (stoviglie, mobili, tappeti, argenteria, biancheria). Inoltre la donna italiana potrà essere tranquilla dell’educazione e della cura dei propri/e figli/e, perché la domestica seguirà le direttive generali che lei stessa ha deciso. Tutto ciò permette alla sua famiglia di raggiungere quell’ideale di rispettabilità così importante per il giudizio altrui. (3) Talvolta le colf sono retribuite solo in parte in termini monetari, poiché spesso la “padrona” offre loro l’alloggio e il mantenimento in cambio di una gran disponibilità di tempo da parte della domestica, praticamente dalla sveglia fino al momento di coricarsi. In queste situazione si rafforza il legame di dipendenza della donna immigrata, soprattutto nel caso che sia da poco arrivata in Italia e abbia, come spesso accade in base alla normativa italiana in materia d’immigrazione, la necessità di mantenere l’impiego a tutti i costi per non essere rimpatriata e che, in generale, non abbia altre possibilità d’inserimento socioeconomico. (4) La donna italiana esercita una forma di controllo particolare sull’operato della propria domestica. Si tratta di un controllo su tutto ciò che ella ha fatto durante la sua assenza, mentre era sola, che riduce al minimo gli spazi per una organizzazione indipendente dei tempi e delle modalità dello svolgimento delle mansioni domestiche. Ciò ricalca l’atteggiamento del marito-capo famiglia che controlla non solo il raggiungimento degli obiettivi da parte della moglie, ma spesso anche l’organizzazione stessa dei compiti. Il controllo della donnapadrona, tuttavia, non è il controllo ultimo sull’operato della domestica perché ci sarà un’ulteriore giudizio da parte del marito-capo famiglia che si preoccupa del raggiungimento di certe aspettative e del soddisfacimento di certi suoi bisogni da parte della moglie e, nel nostro caso, della domestica. (5) Si ripete la dicotomia fra pubblico e privato, in cui le donne italiane sono coloro che vivono e lavorano “fuori casa”
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mentre le numerosissime donne straniere sono del tutto assenti dalla sfera pubblica, visto che trascorrono tutta la giornata lavorativa all’interno delle pareti domestiche. A tal proposito, si deve aggiungere che l’invisibilità nella sfera pubblica delle colf è determinata anche dal loro status d’immigrate e quindi di donne prive di diritti di cittadinanza nel nostro Paese. (6) Ma, soprattutto, fra donna-nativa e donna-immigrata si ristabilisce una gerarchia in termini di capacità e qualità che determinano un’inferiorità nello status della donna immigrata. A tal proposito vale certamente quanto finora detto sul processo di abiezione e sullo stereotipo della sporcizia. Si può pensare, inoltre, che la donna nativa riconosca nella migrante alcuni elementi fondamentali di inferiorità in un immaginario cammino verso l’emancipazione. La donna immigrata è considerata “più in basso” nella possibile graduatoria verso l’emancipazione completa perché: (a) ha meno potere decisionale poiché le difficoltà economiche la spingerebbero ad accettare qualsiasi occupazione; (b) è culturalmente meno avvezza all’”emancipazione”, in base alla credenza generale per cui le culture dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo vengono considerate retrogradi dal punto di vista dei “diritti delle donne”; (c) essere nel nostro Paese è per lei un traguardo già sufficiente da far mettere da parte le ambizioni ad un posto di lavoro migliore, meno sottomesso, meno stereotipizzante.
§4. Conclusioni. Un paradosso della cittadinanza Arriviamo, così, alla critica al modello emancipazionista perseguito dal movimento delle donne e da alcune femministe negli scorsi decenni. All’interno del femminismo viene spesso messo in dubbio che la prospettiva emancipazionista sia davvero quella auspicabile, nella misura in cui ciò significa considerare le soggettività e le relazioni togliendo loro il significato della differenza fra uomo e donna. Il progetto emancipazionista, inoltre, s’ispira ai principi della cittadinanza moderna, principi a cui si possono rivolgere tutte le critiche avanzate da Carole Pateman. Tuttavia, veniamo così al contributo di questo lavoro, sono proprio le donne che considerano l’emancipazione e l’acquisizione della cittadinanza qualcosa di scontato, a mettere in dubbio che ciò consenta di essere realmente soggetti nella propria vita. La contraddizione fra titolarità dei diritti e effettiva capacità di essere soggetti che si sono liberati dei vincoli patriarcali nelle sfere più intime della loro vita, portano a quelli che sono stati chiamati paradossi della cittadinanza44. Questi paradossi sono determinati dal fatto che l’acquisizione della cittadinanza ha un senso diverso per gli uomini rispetto alle donne. Se, infatti, l’uomo-cittadino non 44
Cavarero, cit. e Boccia, cit.
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subisce la propria identità sessuale e al tempo stesso non deve negarla, la donna-cittadina, invece, deve farlo. Ossia, le donne possono prendere parte alla società e allo Stato solo se la loro identità sessuale non intacca la comprensione e la realizzazione dei principi fondamentali dello Stato moderno45. In altre parole, esiste una contraddizione fra i termini “cittadino” e “donna” che conduce le donne ad una sorta di doppia appartenenza e provoca una scissione difficilmente sanabile. A mio parere, tale scissione è alla base della problematica qui esaminata e deriva dal paradosso fondamentale per cui l’emancipazione delle donne, in quanto cittadine, non ha portato ad una modificazione dell’identità di genere. Infatti, il “modello della casa”, su cui si è retta la costruzione dello stato moderno, si è certamente modificato negli ultimi decenni, ma come credo dimostri questo lavoro, non si è ancora incrinato nelle sue fondamenta46. Abbiamo, quindi, da una parte la casa e la donna-moglie come perno dello Stato e della società, dall’altra un processo di “aggiunta delle donne alla democrazia” che non esplicita il conflitto sulle norme maschili o neutre che sono alla base di tutto il sistema. Questo processo, inoltre, lascia un vuoto nel “modello della casa”, ossia nella sfera domestica, agevolmente ricoperto dalle donne immigrate poiché non sono considerate soggetti di diritti civili e politici “alla pari” delle donne italiane. In altre parole, queste donne non sono coinvolte nel processo di acquisizione di cittadinanza a causa del loro status di immigrate e sono così destinate ad una condizione di invisibilità che ne fa i soggetti ideali per riempire le falle aperte dai cosiddetti paradossi della cittadinanza. In conclusione, il progetto di tipo emancipazionista mostra i suoi limiti e lo stereotipo della domestica immigrata è la cartina di tornasole in tale analisi. Il problema sta nel fatto che le donne italiane non hanno superato il modello della donna-moglie nel modo auspicato. L’obiettivo della parità con l’uomo è stato raggiunto solo dal punto di vista formale e allo status socioeconomico delle donne italiane “emancipate” si contrappone quello di nuovi soggetti femminili che entrano in massa nelle famiglie italiane47. Con un esempio potremmo dire che così come s’importano dai paesi del cosiddetto Terzo Mondo materie prime e prodotti coloniali di cui la produzione industriale non può fare a meno, così le famiglie e le donne italiane importano “femminilità”, per tenere in piedi il sistema delle relazioni patriarcali non ancora superato48.
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Boccia, cit., pagg. 30-39. Boccia, cit., pag. 137. 47 Su questo punto si veda ancora Andall, cit. 48 Nell’uso del termine ‘femminilità’ mi discosto da Barbara Ehrenreich e Arlie Russel Hochschild che parlano piuttosto di ‘amore’, si veda Ehrenreich, Barbara e Arlie Russel Hochschild, cit
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