B e r n a r d o D e L ore n z i / Yo u d on ’t k n o w w h at l ov e i s
BERNARDO DE LORENZI
you don’t know what love is
1. Erano trascorsi quattordici anni e pochi mesi dalla mia partenza e avevo deciso di tornare a causa dell’incendio. La sera del venti di luglio, dopo aver festeggiato il mio quarantesimo compleanno in un locale di Soho con Mary Anne, Xavier e sua moglie Nadia, ero rientrato da solo nel mio appartamento in Burlington Road e avevo sentito la notizia alla televisione: il fuoco era arrivato alla strada e si era preso ormai tutta la collina. Il pomeriggio del ventuno, con una sola valigia riempita in fretta, ero atterrato a Bastia e avevo affittato una Renault in aeroporto. Era una strana coincidenza ma, a cena - soltanto poche ore prima, nell’estate confusa di Londra - Nadia aveva rivisto una vecchia amica, si era allontanata per un attimo per raggiungerla al suo tavolo ed era tornata da noi con le guance arrossate e il viso sorridente e più tardi avevamo finito per parlare di amicizia. Era vero per tutti quanto fosse facile perdersi di vista - e io avevo pensato subito alla Corsica con nostalgia e rammarico: arrivare a quarant’anni mi faceva questo effetto. Scettico, avevo chiesto a Nadia se a suo parere l’amicizia durasse in eterno. Nadia, che oltre a dividere con me l’ufficio, formalmente era un mio superiore, si era guardata bene dal rispondere. Moglie di Xavier da appena tre mesi, era una di quelle donne incerte nella vita e decise sul lavoro di cui sembra che parlino sempre i giornali patinati. Fumava nervosamente nel ristorante affollato ruotando soltanto il polso ingioiellato. Prima che Xavier mi comunicasse la data delle nozze avevo pensato di provarci; nessuno si era accorto del loro rapporto che a quanto pare andava avanti da tempo. Aspettando una risposta da lei, era chiaro che, proprio quella sera, sarebbe stata superflua: festeggiavo i miei quarant’anni con la sola compagnia di tre colleghi. Mary Anne, che stava provando a difendere la sua cittadella di passione dalle bordate del mio disincanto, era la mia segretaria. Non era il tipo di donna da cui potessi sentirmi attratto. Era troppo indifesa e premurosa per i miei gusti, e non volevo che il nostro rapporto di lavoro si guastasse. Pensavo a lei mentre guidavo verso Macinaggio nel mattino appena oscurato da una densa nube di fumo verso nord, perché avevo ancora addosso il profumo che mi aveva regalato - avvolto in un pacchetto di seta grezza - e che lei stessa mi aveva spruzzato sul collo. L’avevo avvisata della mia partenza con una e-mail che avrebbe trovato nella posta il mattino del lunedì, in cui la pregavo di comunicare all’ufficio del personale che ero stato costretto ad anticipa-
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re il mio periodo di ferie. Erano previste per il mese di agosto. Non sapevo quando sarei rientrato, e volutamente non volli spiegare i motivi della mia assenza. Per un attimo avevo pensato di aggiungere che la ringraziavo per il profumo e per la bella serata ma mi trattenni. Chiamai Nadia dall’aeroporto e non ci fu bisogno di spiegazioni. Era impegnata in una riunione e non ne aveva il tempo. Venti minuti più tardi, cominciando la salita verso la collina immersa nel silenzio, entrai nella zona toccata dall’incendio. Il fuoco non aveva lasciato altro che un manto di cenere nera e fumante ai due lati della strada. Incontrai diverse pattuglie dei vigili del fuoco e prima di arrivare alle torri di pietra venni fermato a due posti di blocco. La strada era interrotta dal chilometro 178. Assicurai l’agente che avrei svoltato almeno venti chilometri prima di quel punto. - Vado al Barcaccio, da Jilles Badoit.- Dissi. Sapevo che avrebbero acconsentito a farmi passare. Jilles era una specie di istituzione da quelle parti. - Me lo saluti allora,- disse l’agente restituendomi il sorriso. - Gli dica di stare tranquillo, anche se non sarà facile convincerlo. Il vento tira verso il mare. Finché non cambia può dormire sereno.- Con un occhio solo.- Commentai. Lui fece ondeggiare il capo con un sorriso compiaciuto. - Certo. Con uno solo.Lo salutai con un cenno e ripresi a salire. L’incendio aveva preso tutto il versante della collina e poi era sceso verso il mare, oltre il promontorio. Era una zona praticamente deserta e le poche famiglie che abitavano lungo la strada erano state evacuate. Alcune di quelle persone - quattordici anni prima - le conoscevo bene. La tenuta del Barcaccio era al sicuro per il momento, ma la nuvola di fumo denso che si alzava dal crinale ad nord ovest era minacciosa e alta come una torre. Alla tenuta avevo passato cinque estati di fila, sul finire degli anni settanta. Avevo conosciuto Jilles per caso, ad una presentazione di un libro a Marsiglia, nel dicembre del mio primo anno di università. Eravamo diventati grandi amici e durante l’estate seguente mi ero trasferito alla tenuta. Lui aveva bisogno di compagnia e io di un posto dove passare le vacanze. A suo padre invece serviva una mano nel lavoro - stava ultimando i lavori di ristrutturazione della casa e aveva cominciato a sistemare i vecchi vigneti abbandonati. Noi non avevamo nessuna voglia di lavorare: questo era stato subito evidente. Nonostante questo, suo padre - un vecchio medico stanco della professione, altissimo, un po’ curvo, dal viso abbronzato e ruvido - mi prese in simpatia. Gli sembrava che fossi una buona compagnia per Jilles, che invece si era fatto con suo padre una fama di scapestrato imprevedibile e ribelle. Gli piacevano le macchine sportive - e ne rubava una ogni tanto e partiva senza meta verso il sud dell’isola: tutto qui. Rubare una macchina su un’isola non era una cosa sensata e Jilles lo sapeva benissimo. Due giorni dopo lasciava la macchina su una strada deserta e tornava a casa in autostop. Per me, il primo viaggio su un’Alfa Romeo rossa (che fino ad allora avevo visto soltanto nel film Il Laureato), era stato un’iniziazione. In poche ore eravamo arrivati a Bonifacio. Allora la parte bassa del paese e tutta la zona del porto non erano ancora state costruite. Le case bianche erano arroccate sulla scogliera da sempre, le strade erano deserte e due o tre piccoli ristoranti avevano le luci accese nel crepuscolo che arrivava dal mare. Avevamo cenato con una bottiglia che veniva dallo stesso vigneto del Barcaccio: lo stesso vino che poi Jilles mi avrebbe spedito a Londra ogni primavera, con regolarità, con un biglietto da visita su cui era stampato il suo viso leggermente invecchiato dal sole, con i baffi biondi e spioventi e i ricci che gli scendevano spettinati sulle orecchie. Quella notte mi ero addormentato lungo la strada ancora con la capote abbassata, nel vento che turbinava, cullato dalla guida regolare di Jilles, e durante la notte avevamo fatto ritor-
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no a Saint Florence, avevamo riconsegnato la macchina all’alba nello stesso punto in cui l’avevamo rubata e nel bagliore del mattino che nasceva oltre le colline ci eravamo infilati in un bar a fare colazione, prima di incamminarci sulla strada in cerca di un passaggio fino alla tenuta. La famiglia Badoit produceva vino da più generazioni di quelle che si potevano ricordare. La vigna era stata lasciata andare negli ultimi vent’anni e proprio allora il padre di Jilles - che si era appena ritirato lasciando il lavoro all’ospedale - aveva deciso di risistemarla; ma già cinque anni più tardi, al momento della mia partenza, era Jilles a dirigere l’azienda. Ci eravamo laureati a due mesi di distanza, anche se lui aveva un anno in più. Il dottor Badoit non rinunciò a farglielo notare, e Jilles mi sorrise strizzandomi l’occhio mentre lasciavamo insieme lo studio del vecchio. Ecco cosa era successo: dopo la laurea ero partito per Salon, dove mio padre aveva un’azienda di trasporti e mi ero ritrovato a lavorare a tempo pieno. Avevo perso di vista Jilles che da allora non si mosse più dalla Corsica. Ci eravamo sentiti qualche rara volta al telefono - che nel 1979 ronzava come un rasoio elettrico quando chiamavi al di là del mare - e poi dieci anni erano scivolati via come se niente fosse. Mi era restato un romanzo di Chatwin, nella prima edizione, che Jilles mi aveva fatto avere per la mia laurea, un piccolo e prezioso regalo su cui aveva scritto due righe di dedica: ambizioni confuse - certezza di andare via. Invece, chissà come, Jilles era rimasto. Suo padre era morto nel giro di tre anni. Con molto ritardo compresi il motivo per cui aveva lasciato la professione di medico e si era ripreso la tenuta di suo padre. Per un medico guardarsi dentro e trovarsi le cose fuori posto è un tormento peggiore che per altri. Jilles aveva resistito al colpo. Tra i due c’era quell’indicibile e silenzioso affetto che lega un padre ad un figlio quando tutto il resto li divide. Provavo qualcosa di simile per mio padre allora, ma non ero sicuro di niente. Ero riuscito ad essere presente al funerale. La madre di Jilles, che viveva con un altro uomo a Parigi, era arrivata in aereo con due ore di ritardo ed eravamo restati immobili sul sagrato della chiesa ad aspettarla in silenzio. Indossava un vestito nero attillato e tacchi alti. Era molto più giovane del padre di Jilles e trovai crudele il modo in cui sfoggiava l’ultimo sprazzo della sua femminilità. Poi io ero ripartito col primo traghetto; mi ero sposato da appena due mesi e dovevo tornare da mia moglie Doriane, a Salon. Forse cinque anni più tardi ci eravamo visti a Parigi. Lui era lì per far visita a sua madre che, per una misteriosa giustizia segreta era invecchiata incurvandosi come suo padre, ed io ero in città per lavoro. Vivevo a Londra da quasi un anno e non ero più sposato con Doriane, mentre Doriane credo fosse sposata, ma non con me. Lo raggiunsi alla Brasserie Lipp, a Saint Germain: aveva prenotato un tavolo al piano superiore, nella saletta rivestita dalla boiserie e dagli specchi che rimandavano le nostre immagini. - Cinque anni,- dissi avvicinandomi al tavolo. La sala era quasi deserta. - Più o meno,- si allungò sul tavolo e mi abbracciò. Mi sedetti e scoppiai a ridere, senza un motivo. Ero felice. Lui si lisciava i baffi. Dal tavolo, accostato alla finestra, vedevo il traffico lento lungo il boulevard e i fiori sui davanzali della Closerie des Lilas proprio sull’altro lato della strada; era la prima volta che lo vedevo con quel paio di baffi da depliant (finirono poi sull’etichetta di un vino rosso) e lo trovai maturo e un po’ ingrassato, affascinante come sempre, abbronzato nonostante fossimo soltanto a maggio. - Tua madre come sta?- Domandai. - Il solito. Si lamenta, comunque.-
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Era triste. Glielo lessi subito negli occhi e nelle spalle stanche. Impiegammo una decina di minuti ad avviare le cose. Eravamo un po’ arrugginiti. La cosa che ricordo di più fu una sua battuta. Gli avevo raccontato del mio nuovo lavoro, a Londra, per una banca della City. Era perplesso. - A Londra.- Alzò le spalle pensieroso e poi mi fissò - Come cazzo hai fatto a finire a lavorare per una banca?Restai di stucco - e risposi dicendo la verità: - Non lo so neanch’io,- ammisi. Ecco. Non eravamo più dei ragazzi e le infinite possibilità che si aprivano un tempo di fronte a noi si erano ridotte a due o tre. Io avevo perso mio padre e mia madre nel giro di quattro anni, nel ‘81 e nel 1984, avevo venduto la mia parte dell’azienda di trasporti e avevo accettato l’offerta di lavoro di Xavier Doisneu, con cui avevo fatto un master a Bruxelles, e che adesso dirigeva una divisione intera di una banca che aveva sedi in 34 paesi. Cosa mi aveva guidato? L’ambizione? La terribile sensazione di non avere nessuno al mondo su cui poter contare? Non sapevo rispondere. Non sapevo farlo allora, seduto di fronte a Jilles alla Brasserie Lipp, e non avrei saputo farlo quel pomeriggio, mentre guidavo verso la tenuta dei Badoit, sulle colline dell’entroterra, a trenta chilometri da Centuri.
2. I vigneti rigavano la collina di un verde più scuro di quello dell’erba; era un disegno ordinato, che seguiva i balzi del versante orientale e arrivava fino alla strada di ghiaia rossa e cotta dal sole. Sentivo i pneumatici slittare dove lo strato di ghiaia era più alto, nei tratti in salita e sulle curve più strette. Quando varcai il cancello della proprietà erano le quattro del pomeriggio. Avevo fatto colazione a Heathrow quella mattina alle sei e non avevo mangiato da allora. Improvvisamente, Londra e Xavier e il lavoro svanirono alle mie spalle. Era una bella sensazione e non l’avevo prevista. Lasciai la macchina sotto una tettoia di canne e mi fermai per un attimo sul piazzale assolato da cui partiva un sentiero pavimentato a mattoni che costeggiava un grande prato appena rasato e conduceva fino alla villa. Dal piazzale, rivolgendo lo sguardo verso la vallata e poi verso nord-ovest, riuscivo a vedere le colline all’orizzonte e il fuoco che le stava consumando; una colonna di fumo nero saliva obliquamente puntando verso il mare aperto. Presi le mie cose dal bagagliaio e mi incamminai per un breve tratto sul sentiero e poi tagliai in direzione del prato deserto, che risaliva dolcemente verso il porticato. La casa era stata ristrutturata ma non mi sembrò molto diversa da come la ricordavo, notai soltanto gli alberi che erano cresciuti fino a piegarsi sulle travi del portico. Jilles era là, seduto su una poltrona di vimini verniciata di bianco. Si alzò - aveva sentito il rumore della macchina probabilmente - e uscì dalla zona d’ombra scendendo rapidamente sull’erba; due dei suoi cani lo seguirono e immediatamente corsero avanti, fino a raggiungermi. Mi chinai ad accarezzarli e mi domandai se fosse possibile che mi avessero riconosciuto. Poi subito mi resi conto che dovevano essere i nipoti dei cani che avevo conosciuto io molti anni prima. Tornarono verso Jilles agitando le code e fecero qualche giro ampio attorno a noi. - Eccomi.- Dissi prima che Jilles aprisse bocca.- Mi avevi scritto di venire a trovarti in agosto.
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Sono in anticipo di dieci giorni. Ho sentito del fuoco e sono partito...Ci fu un istante di silenzio. Pensai che uno dei due avrebbe potuto mettersi a piangere se Jilles non avesse parlato subito. Nemmeno questo era nelle mie previsioni. Poi lui si decise a dire qualcosa e la commozione passò. - Perché non hai chiamato? Sarei venuto all’aeroporto.La voce tremava impercettibilmente. Ci stringemmo prima la mano e poi ci abbracciammo. Era l’unico amico che avevo: perchè ci ostinavamo a restare lontani? Perchè non lo avevo ammesso, a cena, la sera precedente? - Finalmente- aggiunse. - Sempre convinto che io porti fortuna?- Per anni gli avevo sentito ripetere questa storia. - Sempre. Sei partito questa mattina ad occhio e croce, e da quando ha fatto giorno il vento tira dalla parte giusta. - Indicò con un cenno la vallata. - Bene, - dissi; - ecco un settore in cui le mie facoltà sono rimaste intatte.Restammo di nuovo in silenzio. Non avevamo mai parlato molto fra di noi. Lui scrollava le spalle e sogghignava, come se stesse provando a farsi una ragione della mia presenza sul prato della tenuta. Era molto stanco e probabilmente non aveva dormito da quando il fuoco era divampato. Ripensai al nostro incontro a Parigi e mi ricordai del suo volto provato. Sembrava che solo le tragedie avessero la forza di riunirci. Quando si scosse mi mise una mano su una spalla e mi spinse verso casa. - Vieni dentro. Ti preparo una camera; vedrai, è tutto rinnovato anche all’interno; e poi c’è Emma, e Jacques, suo fratello. Ti ricordi di lui?- Non so. Ci siamo già visti?- Al mio matrimonio. E poi due anni fa, a Londra. Siamo andati insieme a cena a South Kensington...- ... e lui ha bevuto da solo tre bottiglie da sessanta sterline l’una. Mi ricordo. Offrivo io.- Ecco.- Scherzò lui. - Basta andare sul tuo terreno per metterti a tuo agio. Quella sera gli hai anche consigliato due o tre investimenti che si sono dimostrati un disastro. E secondo me non erano le tue informazioni ad essere sbagliate. Ti vedrà volentieri. Si sta ancora leccando le ferite.Ripensai allora ai consigli sballati che gli avevo dato. Non credevo che fosse tanto stupido da seguirli. Non mi ricordavo nemmeno cosa diavolo mi fossi inventato. Jilles intanto aveva preso il mio bagaglio e stavamo risalendo il pendio erboso in direzione del porticato. - A te porto fortuna.- Considerai. - Va bene. Anche per lui hai fatto una gran cosa. Jacques ha bisogno di qualcuno che lo riporti coi piedi per terra. E poi domani mattina lui e Emma partono per Parigi. Adesso Jacques vive là. Ogni tanto ci mando Emma a spendere un po’ di soldi. Lei fa quattro o cinque giorni di shopping e torna serena. Conosci le donne...- Sì.- Dissi. - Più o meno.Emma comparve sul portico in quel momento. Ci abbracciammo, anche se in realtà ci eravamo visti al massimo quattro o cinque volte in tutto. Era una donna elegante e sofisticata che Jilles riusciva a tenere rinchiusa in quella tenuta persa sulle colline dell’entroterra della Corsica. Mi ero chiesto spesso come potesse riuscirci - e forse anche per quanto tempo sarebbe riuscito a trattenerla. Emma andava a meraviglia per St. Germain des Pres, per la Costa Azzurra, per Montecarlo. La Corsica era una cosa che solo Jilles poteva permettersi. Lei si vestiva di bianco, nella vecchia casa
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bianca, sedeva nelle poltrone bianche di vimini, fumava quelle sigarette sottili che avevano un odore di menta e di pino nauseante, simile al deodorante per i posacenere da cruscotto. Sorrideva poco, indossava sempre le scarpe sbagliate per qualsiasi situazione si presentasse. A Londra portava un paio di sandali listati d’oro, ed eravamo ad aprile e quella sera piovve a dirotto. Al matrimonio aveva scelto degli stivali di pitone, bianchi anche quelli, credo come omaggio alla visione crepuscolare che si era fatta di Jilles. Ci sistemammo sulle poltrone ed Emma mi chiese se avevo fatto buon viaggio e se avevo mangiato. Per quanto superfluo, le spiegai brevemente il motivo del mio arrivo e del mio anticipo. Non potei evitare di guardare in direzione dei suoi piedi e notai che indossava un paio di mocassini con una fibbia di acciaio coperti di polvere. Dovetti ammettere che morivo di fame e lei si offrì di prepararmi qualcosa. Ci lasciò soli e ovviamente parlammo del fuoco. - Non chiudo occhio da ieri notte.- Ammise Jilles. - Ma adesso va meglio. Sei arrivato tu; è stato un bel pensiero. Non avevi risposto al mio invito e questo mi faceva bene sperare. Di solito rispondi subito con un elenco dettagliato dei tuoi impegni di lavoro che ti impediscono di accettare.- Stavolta è diverso come vedi.- Sapevamo entrambi che stavo parlando del fuoco. - L’ho sentito al telegiornale. Prendo tutti i canali francesi. Ieri sera ero fuori con dei colleghi, sai, a festeggiare...- Certo. E ho l’occasione per farti gli auguri di persona. Hai avuto il vino?- Come sempre. Puntuale, sempre gradito. - Annuii. Da anni ricevevo due casse della sua produzione migliore nel giorno del mio compleanno. Da perfetto gentiluomo di campagna, non so come, le casse mi venivano recapitate nel giorno esatto, verso le otto di mattina. Né un giorno prima, né uno dopo. - Bevi sempre birra inglese?- Per la verità, se non ricordo male, - risposi, - eri tu a perseguitare il tuo povero padre stappando due o tre bottiglie di Coca-cola a pasto.- Sì, hai ragione, - ammise. - Povero papà. Si arrabbiava davvero.- E tu lo facevi per quello.- Dissi.
3. Quella sera a cena Emma si presentò in abito da sera. Era un po’ forzato vista la situazione, ma era chiaramente in mio onore e ne fui lusingato. Finalmente si presentò Jacques, che aveva trascorso il pomeriggio a caccia sulle colline. Ovviamente non aveva preso niente, visto che c’era un incendio in linea d’aria a meno di cinque chilometri da lì. Ci stringemmo la mano con vigore. Ero deciso a non lasciargli portare la conversazione sulla borsa e sui titoli azionari. Mi aveva trascinato una volta su quel terreno e io avevo azzardato una vendetta che si era a sentire Jilles - rivelata fin troppo pesante. Mi domandavo quanto si fosse giocato sui miei consigli. - La caccia com’è andata?- Domandai per rompere il ghiaccio. - Niente di particolare. Domani partiamo e volevo fare una passeggiata. Non ho sparato un colpo.- Disse. - Hai preso il fucile però, - obiettò Emma.- E due cani.- Sì,- ammise candidamente lui.- Così, per avere un motivo... sai come sono fatto. Neanche mi piace la caccia. Restai ad ascoltarli sorridendo. Di certo non mi sarei immischiato, anche se non potevo dar torto ad Emma che si domandava quale poteva essere il senso di un simile comportamento. Io avrei sintetizzato concludendo che niente di razionale muoveva il povero Jacques, ma me ne guardai bene. Jilles sorrideva sotto i baffi ed era chiaro che, come me, si sarebbe tenuto fuori dalla discussione dei due.
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Poi parlammo della loro imminente partenza. Ero felice di capire che la mia presenza era ben vista da Emma che così si sentiva sollevata dalla colpa di lasciare la tenuta con il fuoco che bruciava sulle colline. La partenza era fissata da tempo e Jilles aveva insistito perché Emma non rinunciasse. - Staremo benissimo; con lui, - disse indicando nella mia direzione, - sono a posto; è più di quanto mi augurassi.Ancora non ci eravamo presi il tempo per spiegare i motivi della mia presenza lì, ma le parole di Jilles mi riempirono di commozione. - E poi, il vento ha preso la direzione giusta. Ho chiamato la centrale della protezione civile, sembra che tutto sarà risolto per domani sera al massimo... - Ci guardò fissandoci ad uno ad uno. Io mi convinsi che non fosse davvero tranquillo come voleva apparire. Infatti piegò leggermente le spalle e continuò: -...in più, se così non fosse, la tua presenza non cambierebbe le cose. Anzi, sarebbe un pensiero in più.Emma lo guardava e rimase in silenzio. Ormai era deciso che sarebbe partita ed era meglio non ritornare sull’argomento. Jacques beveva e teneva la testa appoggiata allo schienale altissimo della sedia. - L’aereo è alle otto. Meglio se ci mettiamo in movimento molto presto domani. - Sentenziò. Per me, non c’erano problemi. Era proprio per l’incendio che ero lì, e non sarebbe venuto in mente a nessuno di mandarmi via. Così Emma e suo fratello Jacques andarono a letto presto e ci lasciarono soli a fumare sul portico. L’aria era profumata e silenziosa. Oltre il buio della vallata si scorgeva la linea arancio del fuoco sul crinale delle colline in lontananza. L’incendio era laggiù che, come noi, si godeva la notte. - Non chiudo occhio da due giorni. Ho passato qui tutto il tempo. - Disse Jilles. - Lo immaginavo. Il vento com’era ieri sera?- Chiesi. - Non buono come quello di questa sera. Fino a quando non sentiamo l’odore del fuoco nell’aria possiamo sperare.- Il che non vuol dire che tu riesca a dormire.- Conclusi. - Esatto.- Ti farò compagnia allora.- Adesso infatti è diverso. Come ti dicevo, tu porti bene.- È una responsabilità pesante.- Immagino che tu te la debba assumere.Da lontano, arrivò all’improvviso uno scoppio di urla. Guardai Jilles. - Viene dalle stanze del personale. Ne ho sei in questo periodo. Dormono sopra le vecchie cantine, nei dormitori dei tempi di mio nonno, che l’anno scorso ho trasformato in mini appartamenti.Le cantine erano sul piazzale che dava sul retro della casa - e per quello, probabilmente, arrivando non avevo visto le macchine parcheggiate. - Non ho visto nessuno al lavoro questo pomeriggio.- Dissi. - Infatti. Ho dato due giorni di libertà a tutti.- Ammise Jilles.- Se va tutto a fuoco a cosa serve sistemare i filari?Guardai ancora il filo rosso del fuoco che rischiarava un pezzo di cielo nero. Sopra di noi brillavano le stelle. Mi ero accorto uscendo dopo cena, che il cielo era molto diverso da quello di Londra. Non ricordavo più di aver visto tutte quelle stelle. Ma sopra il nero delle colline anche il cielo era nero e immobile. - Mi fa piacere che tu sia qui, davvero. - Riprese Jilles lisciandosi i baffi. - Ti ha sempre fatto piacere vedermi lontano da Londra. A tua moglie Londra piace, invece.- A Emma piacciono tutte le città che offrano un buon assortimento di collezioni d’alta moda. Le piace anche Milano, e Milano non può piacere davvero a nessuno. Ma tu devi essere più esperto di me in questo, l’ultima volta in cui ci siamo visti avevi un divorzio in corso, e pensavi già a risposarti...- Non esagerare, - dissi. - Non mi sono più sposato se è questo che vuoi sapere; ti avrei invitato.-
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- Sì, sono stato già a due tuoi matrimoni, e questa volta non sarei venuto. L’ultimo quanto è durato? Sei mesi?Evitai di rispondere perché non ci era andato molto lontano. Lei era inglese e avevo sottovalutato troppi aspetti determinanti. - Le piaceva il tuo vino,- dissi come per giustificarmi. - E tu l’hai lasciata per una che beveva solo cocktail alla menta, magari.- Più o meno, - ammisi. Jilles mi guardava compiaciuto. Lo scambio di battute non potevo evitarlo. Tuttavia proprio in quelle settimane che avevano preceduto il mio quarantesimo compleanno mi ero sentito più solo che mai. Sembrava che non sapessi vivere con una donna al mio fianco. Mi lasciavo affascinare, trascorrevo qualche mese di passione al fianco di una sconosciuta e poi mi ritrovavo da solo. A qualcuno sembrava un segno di grande successo con le donne, perché mi vedeva spesso cambiare compagna. Pensai al mio breve matrimonio. Litigammo per la prima volta tornando dal viaggio di nozze. Pochi giorni dopo partii per New York per lavoro e mi ricordo di aver sentito una sensazione di fredda e inesorabile indipendenza nel momento in cui mi ero infilato, da solo, nel mio letto di camera d’albergo. Ci stava pensando anche Jilles e mi scrutava con gli occhi socchiusi. - Non mi hai mai raccontato come andò.- Disse. Ero in trappola, e dovetti spiegargli tutto. Avevamo l’intera notte per parlare. - Tu la conosci una cantante jazz canadese.. una certa Jasmine Knoll?- Pensai subito che fosse superfluo domandarglielo perché Jilles era un intenditore di musica. Lui, infatti, annuì convinto. - Ecco, è per lei che il mio matrimonio è finito.- Dissi. Questa Knoll, che io mai avevo sentito nominare fino al giorno in cui ci incontrammo, era una ragazza magra e nervosa, che - per quanto ne sapevo io - cantava e suonava il piano da Dio. Jilles si tirò su e rimase seduto sul bordo della poltrona. - Come sarebbe a dire?- Domandò incuriosito. - Sai che vado a New York, almeno un paio di volte fra novembre e dicembre. Insomma conosco un po’ di persone anche lì, e una di queste è una specie di manager, lavora per una casa discografica, credo. Eravamo insieme in un locale del Village e c’era questa Knoll che cantava quella sera. Bada bene che io non avevo idea di chi fosse... anche quando finito lo show viene e si siede al tavolo con noi. Parliamo, beviamo, le solite cose. Poi non so come, Jasmine mi si avvicina e mi dà appuntamento per quella sera, dice che la posso accompagnare da qualche parte se mi va.Jilles si diede una botta sulla fronte. - Mi venga un colpo... sei andato a letto con Jasmine Knoll!?- Aspetta...- Aspetta cosa? Ci sei andato a letto o no? - Beh, sì, ma voglio raccontarti come sono andate le cose...Lui si lasciò andare contro lo schienale. Aveva le labbra chiuse attorno al sigaro e gli occhi scintillanti. - Jasmine Knoll...- sospirò.- Ho comprato il suo ultimo disco due mesi fa...- Infatti, - dissi. - Me ne ha spedito una copia autografata. Ci sono rimasto male perché non c’era nemmeno un biglietto. Sai, come se avesse una segretaria con una mailing list...- Vai avanti adesso..- Mi esortò.- Sei pieno di sorprese.- Il resto te lo puoi immaginare: siamo usciti dal locale insieme. Ha dato lei l’indirizzo al taxi. Ha un attico su Central Park. Una camera da letto che sembra un campo da tennis. Ci siamo restati una settimana.- E tu ti eri appena sposato a Londra...- Più o meno. Però eravamo già ai ferri corti.- Sì, sì. Ha spedito una copia autografata del disco anche alla tua ex moglie?- Sei ingiusto. Comunque sono ripartito per Londra, le ho lasciato il mio numero, ma non mi ha più richiama-
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to. A Heathrow, appena sceso dall’aereo, sono entrato in un negozio di dischi. Non ci crederai, ma non avevo ancora idea di chi fosse: così ho chiesto se la conoscevano. C’era un intero scaffale dedicato a lei. Dodici dischi, credo. L’ultimo - una colonna sonora credo - era esaurito, perché era da sei settimane in testa a non so quale classifica...- Aspetta, - disse lui alzandosi di scatto. Rientrò in casa e pochi secondi dopo sentii, a basso volume, la voce di Jasmine che cantava un brano che le avevo sentito interpretare per la prima volta quella sera nel locale del Greenwich Village. Quando Jilles tornò, si stropicciava le mani e sorrideva. Si abbandonò sulla poltrona di vimini. La musica arrivava come un sussurro e si spandeva sul pendio erboso illuminato da quattro piccoli lampioni gialli, fino a svanire nel buio delle siepi. - Mio Dio,- disse pensieroso. - Non riuscirò mai più ad ascoltarla senza pensare a te in mutande, in un attico sopra Central Park...- Non ci siamo mai più sentiti. Io ho provato un paio di volte, ma poi ho lasciato perdere. Tu credi che sia davvero così che vanno le cose in quell’ambiente?- Lo chiedi a me? Io abito in Corsica...- Beh, chi lo sa? Comunque sia, ho ripreso il mio lavoro e sei settimane dopo, il mio matrimonio era già in mano ad un avvocato. Mi è arrivato il suo disco poi. E ho chiamato col suo nome una società off-shore.- Dissi. - In suo onore, insomma.- Aggiunsi. Jilles ridacchiò. - Nel mio settore è una cosa che si fa,- aggiunsi. - Credimi.- Ti credo. - Disse ridendo stancamente. Restammo per qualche minuto in silenzio, ascoltando la musica e fissando il fuoco sulla collina. - La sai una cosa? - disse all’improvviso Jilles. - Stavo pensando, mentre raccontavi questa storia incredibile, che il destino ci ha preso in giro: tu non chiedevi altro che restare qui, e sei finito a Londra, a lavorare per una banca; ci pensi? ma come cazzo hai fatto a finire a lavorare per una banca? - Era la seconda volta che glielo sentivo dire. Non mi lasciò, volutamente, il tempo di giustificarmi e riprese. - Lascia perdere il discorso della banca. C’è di peggio, o forse no, ma è lo stesso.Io sapevo che ancora, come da ragazzi, gli invidiavo quasi tutto: la sicurezza che si traduceva nei gesti brevi e nei silenzi, la forza di volontà, che suo padre non aveva saputo vedere sotto la patina di ribellione. Perfino con Emma aveva saputo fare sul serio. Sapevo che non potevano avere figli, e questo era un suo punto oscuro: gli sembrava di non poter dare un seguito alla famiglia e un futuro ai vigneti. Vent’anni prima un discorso simile lo avrebbe fatto ridere. Mentre pensavo a questo, lui riprese da dove si era interrotto, ed io ebbi la netta sensazione che i nostri pensieri fossero in piena sintonia. - Quello che stavo pensando, è che io che avrei voluto scappare, sono ancora qui, ho messo le radici sulla terra della mia famiglia, e sembro ogni giorno di più una brutta caricatura di mio padre...Lo lasciai parlare anche se, con il fiato sospeso, avevo intuito dove intendesse spingersi. - Insomma, - disse indicando il fuoco,- per un attimo ho pensato che se il fuoco arrivasse fin qui tutto cambierebbe. Ho dei soldi da parte, ho un’assicurazione. Potrei ricominciare da un punto qualsiasi...- Sei solo molto stanco, - dissi. - Sì, forse.- Ammise. - Sono felice che tu sia qui. E che quei due domani se ne vadano per qualche giorno.Quei due erano sua moglie e suo cognato. Lui non era simpatico neanche a me, ma Emma era una moglie perfetta per Jilles e lui lo sapeva. Quella tenuta era infinitamente meglio delle mie camere d’albergo. Sulla collina dietro la casa c’era un vigneto che si chiamava Emma. Il padre di Jilles aveva fatto lo stesso con sua moglie più di trent’anni prima.
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- Non facciamo più discorsi di questo genere, - dissi a bassa voce, - oppure stiamo un po’ ad ascoltare il silenzio. Questa è una cosa che a Londra non posso permettermi.Jilles alzò le spalle e si voltò verso la riga rossa del fuoco. La musica continuava in sottofondo e dovetti pensare un po’ a Jasmine. Non avevamo niente in comune, niente di particolare da dirci: non c’era verso di poter essere romantici, se non per via della musica. Così feci del mio meglio per non farmi commuovere dal modo in cui cantava, con un filo di voce, un pezzo che non conoscevo, ma che parlava senza ombra di dubbio di noi due. Sapevo che sarebbe stata in tour a Londra in autunno e non speravo che mi avrebbe chiamato. Le alternative dei nostri destini, come in un imbuto, si riducevano di giorno in giorno. Quando, forse un quarto d’ora più tardi la musica finì, spensi il mozzicone del mio sigaro e mi rivolsi sottovoce a Jilles. - Niente più mutande sul Central Park, - dissi. - Pensi davvero di restare qui tutta la notte?Lui non rispose e allora mi accorsi che si era addormentato. Mi alzai e gli levai il sigaro che aveva ancora tra le dita. Lo spensi nel grande portacenere di marmo, e poi presi dalla spalliera un plaid e coprii Jilles come potevo. Stavo ancora pensando alle sue parole. Non potevo negarlo. Come avevo fatto a finire a lavorare per una banca? Non lo sapevo e non lo so: devo essermi distratto. Ci si distrae un attimo e passano vent’anni; bisogna fare molta attenzione se si vuole essere felici.