RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania
YANGON E LA GDa uOLDEN ROCK nD olce Burma grupp o Moi
Testo di Antonio Grassi Foto di Lucia Anna Pala e Antonio Grassi
D
opo più di tre mesi di riflessione sulle emozioni provate, considerazioni su le persone incontrate, rivisitazione del paese attraverso le immagini, tentativi quasi riusciti di pratiche di meditazione e tante, tante ore passate con Lucianna a ricordare, posso dire che questo è stato il viaggio più bello (nel senso di riuscito, interessante, coinvolgente, commovente, emozionante ecc. ecc..) da quando non più tanto giovane ho potuto cominciare a prendere l’aereo con il passaporto nello zaino. Venerdì, 30 marzo (Porcellino d’India) A Roma incontriamo Silvia da Cagliari, la coordinatrice, ed al Cairo Cristina da Torino e Carlo da Modena (con noi due, io e Lucianna, siamo in cinque, mai successo un gruppo così piccolo), ripartiamo e….. Sabato, 31 marzo (Drago) …. dopo uno scalo a Bangkok, con un lowcost della AirAsia arriviamo a Yangon nel pomeriggio. Il corrispondente Adventures Myanmar – nome ben scelto anche se non proprio originale – ha mandato una sorridente birmanina ad accoglierci che, con nostra grande sorpresa, ci fa mettere in posa e ci fotografa, capiremo poi perché. Dopo un rapido passaggio in agenzia dove Silvia sbriga le formalità di rito siamo finalmente in albergo. Domenica, 01 aprile (Garuda-uccello) Rigorosamente a piedi, nonostante faccia già abbastanza caldo, raggiungiamo la Batataung Paya, dopo aver incontrato i giornalai che sul marciapiede provvedevano all’impaginazione
dei quotidiani – tra cui The Light of Myanmar, la illuminante voce governativa dei militari – prima di darli agli strilloni per la consegna, una elegantissima signora alla quale chiediamo indicazioni che non avremmo avuto se non fosse arrivato in suo soccorso un signore meno elegante ma un po’ più padrone dell’inglese, un altro compunto signore, in longy a quadretti, che pregando sommessamente girava intorno al tronco di un grande albero che abbiamo capito essere la dimora di un Nat dalla piccola casetta attaccata al tronco ed infine un allegro corteo di monaci, che la canonica tunica rossa rende inconfondibili, di ritorno dalla questua mattutina, alcuni dei quali, accortosi della nostra curiosità, ci salutano con grandi sorrisi e sventolio di mani. Come benvenuto in questo meraviglioso paese non potevamo sperare di meglio, una sorta di comitato di accoglienza fuori norma, certo …! ma così emozionante. Prima di parlare delle paya, quelle che noi erroneamente semplifichiamo con la parola pagoda, credo sia opportuno fare una breve precisazione. Pagoda è un termine al quale tendiamo a dare lo stesso significato che diamo alla parola chiesa: un edificio dedicato al culto nel quale si va a pregare o in raccoglimento. Il buddismo birmano non contempla un solo edificio nel quale ci si può sedere a pregare ma, più estensivamente, un luogo sacro detto appunto paya. All’interno di quest’area, spesso delimitata da un vero e proprio recinto, ci sono varie costruzioni tra le quali spicca lo zedi a forma campaniforme o il pahto a pianta quadrangolare (molto raro per la verità) che sono caratterizzati dalla presenza di una reliquia, generalmente rappresentata da una piccola parte del corpo Avventure nel mondo 2 | 2015 - 115
RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania del Buddha: un capello, un dente, un unghia e così via. La variante a questi due, meno sacra ma più frequente, è lo stupa che non contiene reliquie ma solo un’immagine dell’Illuminato davanti alla quale i fedeli si siedono a pregare, meditare o, cosa che mi ha molto sorpreso, a mangiare dopo aver posto una parte del cibo ai piedi della statua in segno di offerta e ringraziamento. La Batataung Paya è una delle tre grandi paya di Yangon, il suo zedi contiene, secondo la leggenda, uno dei capelli del Buddha che è custodito in una teca dorata all’interno di quello che può sembrare una sorta di percorso mistico. Distrutta durante un bombardamento dell’ultima guerra mondiale è stata ricostruita con tecniche moderne per cui lo zedi è cavo e nel suo interno si può camminare e attraversare vari ambienti tra pareti completamente ricoperte d’oro, specchi e vani protetti da vetri nei quali sono esposti oggetti preziosi che costituivano la ricchezza della paya originale e che purtroppo non possono essere ammirati come si meritano per l’incredibile strato di polvere che li ricopre. Tutti gli altri zedi della Birmania sono costituiti da un’unica massa compatta di mattoni per cui la Batataung rappresenta un unicum. La sua posizione, sulla riva dello Yangon River uno dei tanti bracci dell’immenso delta dell’Irrawaddy, e la zona poco abitata fanno si che all’interno di questo luogo si incontrino sempre pochi fedeli e si respiri un’atmosfera tranquilla e rilassante. Nel grande cortile sul retro, di fronte al monastero, che ci ha regalato un allegro sventolio di tuniche rosse stese ad asciugare, c’è un’imponente statua
116 - Avventure nel mondo 2 | 2015
in bronzo dorato di Buddha seduto e circondato da una numerosa schiera di Nat che, nonostante alcuni di loro brandiscano armi ed ostentino sguardi truci, non intaccano la serenità dello sguardo con cui l’Illuminato accoglie i fedeli. Rubata dagli inglesi alla fine della terza guerra anglo-birmana e portata a Londra è stata recentemente restituita e degnamente risistemata in questa importante paya. Ritornando verso il centro della città si incontra la Sule Paya che con il suo alto hty è il punto di riferimento per eccellenza di tutti gli abitanti di Yangon. Situata in corrispondenza del più importante crocevia della parte moderna della città è purtroppo circondata da palazzoni in cemento, sedi di uffici pubblici o grandi company, per cui ne soffre l’atmosfera che pure in passato deve averla caratterizzata e che può essere in parte recuperata solo salendo la ripida scala che porta alla base dello zedi e sedendosi per osservare l’andirivieni dei fedeli occupati a pregare e contrattare nelle numerose botteghe che lo circondano. L’affollamento è massimo al tramonto quando al ritorno dal lavoro molti yangonesi (chissà se si può dire?) amano fermarsi per rivolgere un pensiero o una preghiera all’uomo fattosi luce che qui è raffigurato in numerose piccole statuine poste all’interno di altrettanto piccole edicolette. Prima del pranzo in frugale stile AnM, ci concediamo una vista panoramica dall’alto dell’ultimo piano del grattacielo Hitachi che ospita un lussuoso bar-sala da tè.
Tutto il pomeriggio è riservato allo Shwedagon Paya, luogo inimmaginabile. Confesso che a malapena sapevo che esistesse dopo aver distrattamente guardato qualche foto, adesso so di aver commesso un grande errore di valutazione. Posta sulla sommità di una collinetta, più volte spianata ed ampliata per far posto a tutte le costruzioni che nei secoli i birmani hanno sentito il bisogno di costruire, è circondata da un alto muro ed ha quattro ingresso orientati ai quattro punti cardinali. Da sempre luogo sacro quest’area è stata ampliata nel corso dei millenni, attualmente copre una superficie di 2,5 ettari (un rettangolo di 250x200 m circa), e arricchita, anno dopo anno, con un‘incredibile numero di zedi, padiglioni, edicole, statue, campane, gong, guglie, hti e numerosi baniani tra i quali uno, particolarmente grande ed immensamente caro al cuore dei birmani, è posto nell’angolo alla destra di chi entra dalla scalinata meridionale. Su tutte queste espressioni della fede buddista domina lo zedi centrale, alto 99 metri è ricoperto con migliaia di lamine d’oro nella parte superiore sagomata a germoglio di banana sulla quale è impostato un elaboratissimo hti formato da sette gradini che diventano progressivamente più piccoli verso l’alto. Dall’ultimo gradino si diparte l’asta dello hti che sorregge una palla d’oro ed una banderuola, su entrambe sono incastonati migliaia di diamanti e pietre preziose – al tramonto si possono ammirare i riflessi del sole che le pietre colorano di rosso verde
RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania e giallo, sempreché la giornata sia chiara e troviate qualcuno che vi indichi i soli due precisi punti dai quali si possono vedere. Superata la prima abbagliante sorpresa quando, uscendo dal porticato alla fine della scalinata sud dopo essere passati in mezzo alle numerosissime bottegucce di offerte votive – fiori e frutta prevalentemente – statuette di tutte le fogge, campane, gong e souvenir, siamo stati letteralmente travolti da una sovrabbondanza d’oro e bianco, abbiamo tentato di seguire le indicazioni dell’immancabile Lonely planet per meglio procedere ad una accurata e precisa visita di quello che era importante vedere, cioè tutto. Impossibile!... ed inutile tentare di seguire un percorso logico per la mente, meglio seguire l’appassionata irrazionalità del cuore per farsi guidare in mezzo a questo fascinoso caos. Così abbiamo fatto e questo ci ha portato a vagare senza meta per lasciarsi travolgere, meravigliare ed affascinare da tutto quello che ci circonda: donne, uomini e cose, come inseriti in un caleidoscopio di emozioni difficilmente definibili ma che avevano nella dolce e calda spiritualità il loro elemento portante. Cammino e penso alla Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme perché sto provando la stessa sensazione di essere circondato da una grande e palpabile energia come se ogni fedele fosse un piccolo, e grande allo stesso tempo, elemento di una mistica pila ed io fossi inserito proprio tra i due poli. Ho impiegato molti minuti a superare lo spaesamento mentre sentimenti contrastanti mi immobilizzavano e non sapevo cosa fare, cosa guardare e cosa fotografare; ero circondato da fantastiche architetture, stupa campaniformi ricoperti d’oro e stupa colorati nella foggia dello stile indiano, padiglioni dai tetti ricoperti di ricami in legno di tek, meravigliose ed innumerevoli statue del Buddha rigidamente seduto o mollemente reclinato, ma anche di amorevoli, paciocconi o feroci Nat, vigili Cinthie mezzi leoni e mezzi grifi, strani guardiani mezzi uomo e mezzi leone e naga terrifici distesi in verticale sulle colonne laterali, fedeli protettori del luogo sacro. E poi tanti, tanti fedeli ciascuno occupato in preghiere o affaccendato a sistemare offerte davanti alla statua dell’Illuminato che ha eletto come esempio da seguire ed invocare nei momenti di difficoltà. Incontro giovani coppie inginocchiate di fronte ad una delle sessanta cappelle che circondano lo stupa centrale, monaci in raccoglimento e preghiera di fronte alla statua del Buddha accompagnata dall’animale del proprio giorno di nascita, monaci più mondani che scattano fotografie con il loro telefonino, bambini e bambine sontuosamente vestiti che si preparano, non senza timore, ad iniziare il periodo canonico di noviziato in monastero, monache in tunica rosa che accompagnano i “figliocci” e trovano il tempo di organizzare la processione di parenti ed amici, parte immancabile della festa del noviziato che viene
detta shin-pyu, grazie al prezioso telefonino e poi la monaca in rosa che si prostra fino a terra sotto lo sguardo rassicurante di un Buddha reclinato e dalle labbra troppo vermiglie. Mentre sto scendendo i tre gradini di uno dei padiglioni della zona est incontro un signore, mio coetaneo stimo dai capelli bianchi, che mi saluta con un timido sorriso e mi domanda da dove vengo (“Which country are you from?” dicono quasi tutti in Birmania), dopo la mia risposta ci tiene ad informarmi che quello è un giorno molto importante per la democrazia del suo paese perché ci sono le elezioni ed il partito di Aung San Suu Kyi (LND) ha ottime possibilità di conquistare tutti i seggi in palio. Gli assicuro che lo sapevo e che seguo le vicende birmane per quanto i mezzi di informazione occidentali me lo permettono; al momento di salutarci mi da precise istruzioni su dove si trova la più vicina sezione della Lega Nazionale per la Democrazia. Verso il tramonto vari padiglioni si riempiono di fedeli, in alcuni solo uomini, in altri solo donne che intonano preghiere e canti con i quali concludono, dopo il lavoro, le incombenze giornaliere. In uno in particolare un gruppo di monache laiche, che si riconoscono dal longyi e sciarpa marrone e dalla camicetta bianca, intonano una cantilena dolcissima che mi trattiene nei pressi del loro padiglione per lungo tempo, non posso esimermi dal pregare con loro anche se nel modo che solo conosco, quello che ho imparato tanti anni fa da mia mamma. Con una certa sorpresa scopro che circa a metà strada tra gli ingressi settentrionale ed occidentale c’è un piccolo stupa circondato da otto nicchie, orientate secondo i punti cardinali così com’è tutta la paya, nelle quali sono poste altrettante statue del Buddha sedute sul bordo di una piccola vasca ai piedi della quale sono sistemate le statue di otto animali che corrispondono ai giorni della settimana. Ma i giorni della settimana non sono sette? Si! e allora? Basta dividere il mercoledì in due mezze giornate ed il conto torna. Da tempo immemorabile è con questo strattagemma che i birmani hanno risolto il problema, per loro imprescindibile, di legare tra di loro giorni della settimana, animali e punti cardinali che sono quattro, ma diventano otto con i vari nordest, sud-ovest ecc.. La sera del nostro arrivo la nostra attentissima agenzia ha voluto saper il giorno della nostra nascita in modo da assegnarci l’animale e quindi la nicchia davanti alla quale andare a pregare per la buona riuscita del viaggio. Adesso però avrete la curiosità di sapere i vari abbinamenti, eccoli: lunedì – tigre, martedì – leone, mercoledì mattina – elefante, mercoledì pomeriggio – elefante senza zanne, giovedì – topo, venerdì – porcellino d’India, sabato – drago e domenica – Garuda (la divinità uccello del pantheon induista).
Aspettiamo che il sole tramonti tra i merletti delle guglie del padiglione di preghiera del Buddha disteso, che si accendano le luci e che l’atmosfera diventando, se possibile, ancora più magica ci avvicini al mistero che ci circonda, poi ci incamminiamo lentamente e non senza rammarico a recuperare i sandali – non ho ancora detto che nelle paya, così come in tutti i luoghi sacri compresa la casa dei Nat, si deve entrare scalzi qualunque sia la vastità dell’area da visitare o la temperatura del pavimento. Mercoledì, 11 aprile (Elefante) Dopo dieci giorni in giro sull’altipiano centrale del paese – e questa sarà un’altra storia – rientriamo a Yangon. Volo low al mattino e albergo in centro vicino allo Scott Market, il mercato storico della capitale dove possono trovare soddisfazione sia i turisti che gli abitanti di questa tranquilla città (pleonasticamente mi domando se i militari c’entrano qualcosa con la calma che ci circonda). Nel pomeriggio visitiamo la Chaukhtatgyi Paya dove si rimane colpiti dalla grandezza e dall’aspetto della statua distesa. Lunga 40 metri è una delle più grandi del paese e ci presenta un Buddha disteso molto particolare: è truccato in modo così pesante da evocare quelle donne di malaffare, come si diceva nei romanzi d’appendice. Ho trovato una grande discordanza con la leggera serenità delle altre immagini viste finora. Molte interessanti, invece, le piante dei piedi interamente ricoperte da disegni legati alla mitologia ed all’astrologia buddista. Al tramonto ci facciamo portare davanti alla casa di Aung San Suu Kyi. C’è un po’ di movimento di polizia e di stampa, scopriremo poi che ha ricevuto la visita del premier inglese Cameron. Alcune rosse bandiere del partito della Lady sventolano allegramente in stridente contrasto con la temibile fissità del filo spinato che corona tutto il perimetro dell’alto muro di cinta della residenza in riva al lago Inya. Molto apprezzabile la cena tutta birmana. Giovedì, 12 aprile (Topo) Sono già iniziati i festeggiamenti per il capodanno e domani inizieranno i cinque giorni del Water Festival durante il quale, come dice il nome, l’acqua la fa da padrona; nessuno riesce ad uscire in strada e ritornare a casa asciutto. Lungo le strade, urbane e non, vengono preparare delle vere e proprie postazioni per annaffiare i passanti corredate di idranti in grado di gettare acqua fin sul marciapiede opposto. Il bello è che nessuno deve arrabbiarsi, si deve fare buon viso a cattiva sorte, altrimenti basta restare chiusi in casa. Sono questi i cinque giorni di preparazione ed avvicinamento al capodanno birmano che cade il 17 aprile.
Avventure nel mondo 2 | 2015 - 117
RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania Escursione alla Golden Rock del Monte Kyaiktiyo, un centinaio di chilometri ad est della capitale, verso il confine con la Thailandia. E’ questa una delle maggiori mete di pellegrinaggio dei birmani. Al contrario delle altre non è una costruzione ma un enorme masso tondeggiante in equilibrio molto precario su uno spuntone di roccia a strapiombo sulla ripida valle. Il masso è ricoperto di lamine d’oro e, unico manufatto, adornato da un piccolo stupa di appena sette metri sulla sommità; narra la leggenda che non è precipitato giù perché ancorato alla roccia da un capello del Buddha. Dal villaggio di Kipun, alla base della montagna, robusti camion scoperti e dure panche di tek ci portano per pochi kiat a Yatetaung da dove parte l‘ultimo tratto del sentiero per la roccia sacra. Come in qualsiasi vero pellegrinaggio si dovrebbe arrivare a piedi percorrendo gli ultimi tre chilometri di un sentiero in salita molto impegnativo, in realtà i pellegrini birmani arrivano sino all’ingresso del santuario su camion più piccoli che, però, sono interdetti ai turisti. A noi non rimane che salire a piedi o pagare quattro robusti giovani per essere trasportati fino alla vetta su dondolanti portantine di bambù, cosa che io e Lucianna facciamo senza esitazione, sono le due del pomeriggio! Onore a Carlo e Cristina che sono saliti con le loro gambe. Salendo avverto un fastidioso sentimento di vergogna che scaccio senza esitazione pensando agli acciacchi dell’età ed al fatto, non secondario, che per i quattro ragazzi, che certo faticano e sudano, bastano due salite al giorno per guadagnarsi un buon stipendio
oltre ad una bevuta a scelta, che non puoi fare a
118 - Avventure nel mondo 2 | 2015
meno di offrire loro. Al cospetto della Golden rimango per un certo verso deluso perché, pur apprezzandone la suggestività non evoca in me niente di spirituale; mi basta voltarmi verso la gente che mi circonda ed è allora che avverto quanto questo luogo sia importante per loro, quanto sentita sia la devozione per quel fragile capello che aggancia la pesante roccia destinata al buio fondo valle e nello stesso tempo offre un tramite per il luminoso cielo birmano. Veramente interessante la cerimonia a cui assistiamo in uno dei tanti padiglioni disposti intorno alla grande piazza del santuario. Una cinquantina di uomini adulti si appresta ad entrare in monastero per cui, sotto la guida dei monaci, seguono un preciso cerimoniale che prevede la tonsura completa dei capelli, preghiere propiziatorie e la vestizione della rossa tunica. Per tradizione gli uomini dovrebbero entrare in monastero almeno due volte nella loro vita, la prima in età preadolescenziale (lo shin-pyu), la seconda in età adulta ma spesso gli ingressi sono più di due e le ragioni possono essere diverse; di certo c’è che per i buddisti un periodo in convento, vivendo di elemosina, rappresenta un occasione di purificazione dalle colpe terrene per riacquistare la facoltà di raggiungere l’illuminazione. Molti pellegrini pernottano sotto il cielo con la vista sulla Golden illuminata, noi al Mountain Top Hotel. Venerdì, 13 aprile (Porcellino d’India) La discesa a piedi verso la stazione dei camion si rivela un corso breve di medicina tradizionale birmana. Il primo tratto della strada scende davanti a numerose piccole botteghe di rimedi farmacologici naturali tipo scolopendre, pelli di serpente, zampe d’orso, teste di capra con interiora varie, code di elefante, teschi di scimmia e poi radici e bacche di ogni tipo. Purtroppo la difficoltà di comunicazione ci impedisce di approfondire questo interessante percorso formativo, neanche i numerosi cartelli ci aiutano essendo scritti con i tondeggianti caratteri birmani che Silvia ha spiritosamente ribattezzato “malloreddos” dalla forma di una tipica pasta sarda
fatta a mano. Nel tragitto sul camion prendiamo varie secchiate d’acqua con conseguenze non gravi, stanchi di controllare i gruppetti di ragazzi pronti a lavarti, finalmente scendiamo a Kipun dove ci aspetta il nostro autista ed il pulmino con vetri stagni che ci riparerà dai lavacri profani lungo tutta la strada per Yangon. A circa metà strada ci fermiamo per due visite particolari a Bago (o Pegu), antica capitale e patria dell’Hamsa, mitologico uccello di cui la leggenda esalta le particolari doti del maschio rivolte alla protezione della femmina – da qui deriva la tradizionale cavalleria degli uomini della città. Dopo un breve passaggio davanti alla Shwemawdaw Paya che vanta lo hti più alto di tutta la Birmania (113 m) visitiamo lo Snake Monastery che, come dice il nome, custodisce un enorme pitone di 118 anni: pare sia la reincarnazione di un sant’uomo di nome Hsipaw, cosa questa che ha reso santo anche il rettile. Ci sono molti pellegrini, curiosi quanto noi di vedere questa creatura che se ne sta buona, buona sulla sua stuoia protetta da due custodi che impediscono a chiunque di toccarlo, ma accettano volentieri le offerte. Per ultimo rendiamo omaggio al Buddha disteso più grande del paese - Bago sembra sia la sede di molti records -, è lungo 54 ed alto 16 metri; con la sua aria trasognata e gli occhi semichiusi sembra guardarti con una certa sufficienza sicuro della sua superiorità, ma non fatevi intimidire è un nonviolento. Il tratto di strada per la capitale e costellato di “postazioni da annaffio” talune veramente ben organizzate con potenti idranti e gruppi mascherati per cui, stando asciutti e protetti, possiamo godere divertenti intermezzi recitati da ragazzi abbastanza alticci. Stasera siamo invitati a casa di Ti Ti Min, la guida che ci ha accompagnato nei dieci giorni tra Mandalay, Bagan e Kakku, che ci teneva molto ad averci suoi ospiti a cena. La casa è piccola, accogliente e non manca l’altarino in cui, protette da una teca di vetro, sono sistemate varie statuette, mentre su
RACCONTI DI VIAGGIO | Birmania una mensola un po’ discosta c’è una bellissima statua antica del re dei Nat, Thagyamin. Quando arriviamo è in atto una piccola cerimonia officiata da un distinto signore vestito di bianco che, con fiori e candele, allontana i Nat cattivi ed invita ad entrare quelli buoni; la nostra ospite ci spiega che in ogni quartiere ci sono persone cui la fama conquistata con lunga attività nel campo attribuisce queste particolari capacità. Mangiamo, seduti per terra su un piccolo tavolino rotondo, un cibo tipicamente birmano: zuppetta di funghi e formaggio tipo tofu, gamberoni di fiume alla curcuma, insalata di pollo con melograno, ceci conditi con salsa di curcuma e l’onnipresente riso in bianco; da bere solo acqua, i Nat bevitori non sono graditi. Alla fine della cena Ti Ti Min ci sorprende non poco quando ci presenta un bel piatto di banane con accanto un pacchettino di foglioline d’oro, le stesse che i fedeli devotamente attaccano sopra le statue d’oro dell’Illuminato . Non sappiamo cosa fare poi lei ci spiega che si deve sbucciare la banana, metterci sopra una fogliolina d’oro e mangiarla; sorpreso, ma troppo incuriosito non esito, sbuccio indoro e mangio, scopro che l’oro non ha sapore, anche se ha innumerevoli significati simbolici, mentre quello della banana è sempre rassicurante. Scoprirò in seguito che è una sorta di rito propiziatorio per il benessere fisico e di purificazione (l’incorruttibilità e la lucentezza). Tutto il gruppo gradisce. Insieme ad infiniti ringraziamenti ed un po’ di commozione lasciamo alla nostra dolcissima guida un libro in italiano con una bella dedica scritta da Lucianna – per gli interessati Le radici di Maria Giacobbe – l’abbiamo sorpresa anche noi. Lasciamo la casa presto perché il nostro autista ci ha aspettato per portarci in agenzia dal corrispondente che vuole salutarci ed anche perché la giornata di lavoro deve finire anche per lui. Il solerte corrispondente, insieme ai ringraziamenti per aver visitato il loro paese, ci dona un “arrivederci” costituito da un cartoncino piegato in due con all’interno la foto scattata in aeroporto al nostro arrivo e frasi di commiato in un italiano non sempre corretto ma che dimostra molta attenzione nei nostri confronti. Vorrei riportare una frase che a me sembra molto birmana, dice: “La bellezza non è una forma o un colore, essa è negli occhi”. Sabato, 14 aprile (Drago) L’aereo per Bangkok è nel pomeriggio, abbiamo tutta la mattinata a disposizione e ci si presenta un dilemma: ritornare alla Shwedagon Paya o chiedere un passaggio sui tanti pickup scoperti in circolazione, fare un giro per la città e ritornare in albergo fradici e contenti. Noi optiamo per la prima gli altri, più giovani, per la seconda; all’ora di pranzo ci ritroveremo tutti molto
soddisfatti. La giornata di festa ci fa trovare la Paya con pochissimi fedeli, quasi nessun turista ed un’atmosfera completamente diversa da quella della prima visita. Con non troppa sorpresa ritrovo l’uso mondano del luogo sacro – mi era già capitato in Nepal ed in alcune moschee in Iran –, famigliole o singole persone sono intente a consumare in religioso silenzio la colazione all’ombra dei padiglioni e di fronte all’immagine paziente e benevola del Buddha oggetto della loro devozione. Girovaghiamo godendoci questo spettacolo sconosciuto alle nostre chiese. Cerco di riconoscere, per apprezzare, i diversi stili nei quali son realizzate le statue: Bamar, Bagan, Shan, Madalay, Kachin ecc.. sono talmente tante che mi viene da pensare che siano più delle persone fisicamente presenti questa mattina. Mi piace ricordare la compostezza della bella signora in longy azzurro e sciarpa bianca che prega sotto l’enorme baniano a destra dell’ingresso sud, il signore che legge il giornale volgendo tranquillamente le spalle al “suo” Budda e quello che dorme tranquillamente nello spazio tra due statue, le ragazze che puliscono un coloratissimo padiglione con tre splendide statue illuminate da altrettante aureole, rossa, turchese ed azzurra, la mamma e la figlia che decorano di fiori di gelsomino e rinfrescano la statua dell’altarino del martedì e la signora che prima di consumare la sua colazione
pone un piattino con una parte del cibo ai piedi di un Buddha pensieroso. Adesso, per raccontare tutte le esperienze fattibili, mi permetto di consigliare ai più coraggiosi una visita a piedi nudi - ricordate che le vostre scarpe le avete lasciate all’ingresso - ai bagni pubblici ubicati nella zona mediana dell’area della Shwedagon Paya, uscendo penso che ci vuole meno coraggio di quello che credevo necessario. Prima di lasciare la magia di questo luogo, completiamo i doverosi acquisti in uno dei tanti negozietti posti sulle rampe coperte dei quattro ingressi, poi taxi ed albergo dove ritroviamo i nostri compagni entusiasti dell’esperienza acquatica. Domenica, 08 aprile (Garuda-uccello) Con un ultimo colpo d’ala di Garuda rientriamo a casa pieni di soddisfazione per questa indimenticabile esperienza. In fine non posso che riportare quello che ho pensato durante i momenti di meditazione che da neofita mi sono concesso nei luoghi che ritenevo più adatti, vorrei tanto che tutti coloro che lo desiderano potessero avere la possibilità di visitare questo incantevole paese dove, dalla loro casa sul Monte Popa, i Nat scendono volentieri ad interferire nelle vite terrene, intorno e dentro gli stupa dorati, sotto lo sguardo rasserenante del Buddha che, nella sua benevolenza, ha accolto di buon grado questa antica ineliminabile presenza.
Avventure nel mondo 2 | 2015 - 119